Filosofia della natura. Fisica e ontologia 9788878856523


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Table of contents :
PREFAZIONE di Mauro Dorato
PREFAZIONE DELL’AUTORE
1. L’ATOMISMO CLASSICO
2. SPAZIO E TEMPO: SOSTANZE O RELAZIONI?
3. ONTOLOGIA PRIMITIVA E STRUTTURA DINAMICA
4. DALLA MECCANICA CLASSICAALLA FISICA RELATIVISTICA
5. LA TEORIA DELLA RELATIVITÀ GENERALE
6. FISICA RELATIVISTICA E ONTOLOGIA
7. LA NON LOCALITÀ QUANTISTICA
8. LA FUNZIONE D’ONDA QUANTISTICAE IL PROBLEMA DELLA MISURA
9. LA FISICA QUANTISTICA COME TEORIA SULLA NATURA
10. FISICA QUANTISTICA E FISICA CLASSICA
11. FISICA QUANTISTICA E FISICA RELATIVISTICA
12. I LIMITI DELLE SCIENZE NATURALI
BIBLIOGRAFIA
INDICE ANALITICO
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Filosofia della natura. Fisica e ontologia
 9788878856523

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ESFELD  

Filosofia della Natura

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MICHAEL ESFELD INSEGNA FILOSOFIA DELLA SCIENZA PRESSO L’UNIVERSITÀ DI LOSANNA, IN SVIZZERA. http://www.michaelesfeld.com

www.rosenbergesellier.it

Ispirata all’idea di una nuova Filosofia della natura, Phýsis si propone come spazio editoriale per lavori che abbiano al centro della loro riflessione la natura nei suoi molteplici aspetti e come luogo di integrazione e confronto fra i diversi saperi e le diverse tradizioni filosofiche.

diretta da Emilio Carlo Corriero e Iain Hamilton Grant

Phýsis

Collana di Filosofia

La filosofia della natura è antica quanto la filosofia stessa ed è da sempre legata alla ricerca scientifica della natura: scienza e filosofia hanno d’altronde un obiettivo comune, comprendere la natura. Scopo di questo libro è fornire una panoramica della filosofia della natura contemporanea, partendo dalla filosofia naturale di Newton per poi considerare la teoria dei campi insieme alla fisica della relatività, per arrivare alla fisica quantistica. Un testo brillante e accessibile che, come sostiene Mauro Dorato nella sua prefazione, è “di enorme importanza per avere un panorama aggiornato della filosofia della fisica contemporanea”.

michael esfeld prefazione di Mauro Dorato

Filosofia della Natura Fisica e ontologia

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Phýsis Collana di Filosofia

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Phýsis. Collana di Filosofia

ISSN 2499-6408

Ispirata all’idea di una nuova Filosofia della natura, Phýsis si propone come spazio editoriale per lavori che abbiano al centro della loro riflessione la natura nei suoi molteplici aspetti e come luogo di integrazione e confronto fra i diversi saperi e le diverse tradizioni filosofiche. Diretta da Emilio Carlo Corriero | Iain Hamilton Grant Comitato scientifico internazionale Remo Bodei | Massimo Cacciari | Michael Esfeld | Manfred Frank | Sergio Givone | Jason Wirth

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michael esfeld

Filosofia della Natura Fisica e ontologia prefazione di  Mauro Dorato traduzione di  Tiziano Ferrando, Andrea Oldofredi e Olga Sarno

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© 2018 Rosenberg & Sellier Pubblicazione resa disponibile nei termini della licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0

www.rosenbergesellier.it è un marchio registrato utilizzato per concessione della società Traumann s.s.

prima edizione italiana, novembre 2018 isbn 978-88-7885-652-3 LEXIS Compagnia Editoriale in Torino srl via Carlo Alberto 55 I-10123 Torino [email protected]

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INDICE

9 Prefazione di Mauro Dorato 11 Prefazione dell’autore 13 1. 13 16 18

L’atomismo classico 1.1. Che cos’è la metafisica della natura? 1.2. L’idea dell’atomismo 1.3. Le leggi di Newton

21 2. 21 23 28

Spazio e tempo: sostanze o relazioni? 2.1. Spazio, tempo e moto assoluti nella fisica di Newton 2.2. Il relazionalismo di Leibniz 2.3. Relazionalismo e teoria fisica

34 3. 34 36 38 40

Ontologia primitiva e struttura dinamica 3.1. Dall’ontologia primitiva alla struttura dinamica 3.2. Dalla struttura dinamica alle probabilità 3.3. La struttura dinamica inclusa nell’ontologia 3.4. La metafisica humeana

45 4. 45 46 50

Dalla meccanica classica alla fisica relativistica 4.1. L’elettrodinamica 4.2. I campi appartengono all’ontologia? 4.3. La teoria della relatività ristretta

54 5. La teoria della relatività generale 54 5.1. La gravità come azione locale 56 5.2. Il sostanzialismo metrico 61 6. Fisica relativistica e ontologia 61 6.1. Il super-sostanzialismo 64 6.2. La geometrodinamica

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66 68 71

6.3. Fisica relativistica e metafisica del tempo 6.4. Fisica e metafisica dell’universo blocco 6.5. Il relazionalismo leibniziano nella fisica relativistica

74 7. 74 77 80

La non località quantistica 7.1. L’esperimento mentale di Einstein del 1927 7.2. L’argomento di Einstein, Podolsky e Rosen del 1935 7.3. Il teorema di Bell del 1964

85 8. 85 88 91 93

La funzione d’onda quantistica e il problema della misura 8.1. I principi di separabilità e di azione locale 8.2. Il problema della misura 8.3. La decoerenza 8.4. Il collasso della funzione d’onda

96 9. 96 100 104

La fisica quantistica come teoria sulla natura 9.1. La teoria a molti mondi 9.2. La teoria GRW: versione Ghirardi 9.3. La teoria GRW: versione Bell

106 10. Fisica quantistica e fisica classica 106 10.1. La meccanica bohmiana 110 10.2. L’olismo quantistico 112 10.3. Lo statuto ontologico della funzione d’onda 114 10.4. Lo statuto ontologico delle probabilità 117 11. Fisica quantistica e fisica relativistica 117 11.1. La teoria quantistica dei campi 119 11.2. La non-località quantistica e la fisica relativistica 122 11.3. La direzione del tempo 125 11.4. La gravità quantistica 127 12. I limiti delle scienze naturali 127 12.1. La spiegazione dei fenomeni 130 12.2. Determinismo fisico e determinismo metafisico 133 12.3. La riduzione funzionale e i suoi limiti 137 Bibliografia 153 Indice analitico

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PREFAZIONE di Mauro Dorato

Il testo che state per leggere è una brillante anche se succinta illustrazione di come la riflessione filosofica sulla struttura fondamentale della realtà non possa prescindere dalla fisica e di come, d’altra parte, la fisica non possa fare a meno della filosofia per chiarire in modo preciso la sua ontologia, ovvero comprendere chiaramente che cosa essa ci dica sul mondo. Ai nostri giorni, questa indissolubilità non implica la coincidenza delle due discipline, come era invece al tempo dei presocratici, di Aristotele e persino di Newton, la cui opera fondamentale si intitolava Princìpi matematici della filosofia naturale. Malgrado la matematizzazione sempre più marcata della fisica teorica, che proprio dai tempi di Newton e Leibniz sembra allontanarla sempre più dall’indagine di natura più concettuale propria dei filosofi, i fisici contemporanei vanno convincendosi sempre di più del fatto che problemi come quello della misura e della non località in meccanica quantistica, dello statuto ontologico dello spazio-tempo, dell’ontologia della meccanica quantistica non relativistica e relativistica e della natura delle leggi di natura – trattati in questo testo con ammirevole chiarezza – rivestono un ruolo importante anche per la crescita della loro disciplina. Lo stesso premio Nobel Steven Weinberg, sino a pochissimi anni fa scettico se non sarcastico nei confronti di tutti coloro che si preoccupavano di risolvere la questione della definitezza delle nostre osservazioni del mondo macroscopico a partire dall’indefinitezza quantistica, oggi ammette che il problema è serio e ineludibile e che non può essere risolto con il solito invito “taci e calcola”, come se la fisica si riducesse solo a ricette di calcolo e operazioni di laboratori. Calcoli ed esperimenti sono indispensabili ma sono “solo” strumenti per raggiungere il vero e ultimo scopo della fisica e delle scienze naturali in generale, che è quello di comprendere il mondo e il nostro posto in esso. E molti fisici che oggi lavorano al tentativo di unificare relatività e meccanica quantistica (il compito della fisica di questo secolo) 9

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“partendo” dalla prima e non dalla seconda, ritengono che tale abbia bisogno del contributo dei filosofi. Naturalmente, l’interazione fruttuosa tra fisici e filosofi presuppone il fatto che entrambi leggano i lavori prodotti dagli altri. Questa collaborazione è ora resa più facile dal fatto che i migliori filosofi della fisica contemporanei sono, a differenza di quanto accadeva in passato, tecnicamente ferrati, e, proprio come l’autore di questo libro, in grado di leggere formule matematiche e comprenderne il significato. Da questo punto di vista, paradossalmente, è proprio solo grazie a tale comprensione che, secondo Esfeld, è possibile avanzare la tesi che fa da Leitmotiv all’intero testo, ovvero che non si può ingenuamente capire l’ontologia delle teorie fisiche solo a partire dai loro modelli matematici, dato che «l’ontologia richiede sempre una riflessione filosofica come quella sviluppata da Leibniz e rivolta a Newton» (infra, p. 32). Naturalmente, i testi principali di Newton contengono implicitamente o esplicitamente argomentazioni concettuali, e proprio per il motivo spiegato sopra, sono esse stesse in senso meno diretto filosofiche e ontologiche: almeno in un’interpretazione della filosofia dello spazio di Newton, lo spazio assoluto si deve presuppore per spiegare gli effetti inerziali. Un possibile disaccordo con alcune tesi filosofiche controverse difese dal testo – come quelle sulla natura ontologicamente secondaria dei campi rispetto alle particelle – non toglie nulla al carattere originale delle tesi proposte, alla forza degli argomenti con i quali vengono difese, e al fatto che la lettura del testo, a causa della conoscenza molto approfondita della letteratura che esso rivela, sia di enorme importanza per avere un panorama aggiornato della filosofia della fisica contemporanea.

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PREFAZIONE DELL’AUTORE

La filosofia o ontologia della natura è antica quanto la filosofia stessa, traendo la sua origine dai primi filosofi ionici presocratici. Essa è da sempre legata alla ricerca scientifica della natura, e dovrebbe essere così ancora oggi: la scienza e la filosofia, infatti, hanno un obiettivo comune, ossia quello di comprendere la natura. Lo scopo di questo lavoro è di fornire una panoramica della filosofia della natura contemporanea. Il libro parte dalla filosofia naturale di Newton, per poi considerare la teoria dei campi insieme alla fisica della relatività e infine, cosa più importante, la fisica quantistica. Il modo in cui gli argomenti vengono trattati ovviamente rivela il punto di vista dell’autore e, così, egli spera di spingere il lettore alla riflessione. Il libro, peraltro, non presuppone conoscenze tecniche in fisica ed è basato sulla seconda parte del mio precedente lavoro Philosophie des sciences. Une introduction1. Sono molto grato a Tiziano Ferrando, Andrea Oldofredi e Olga Sarno, che non solo hanno tradotto il mio testo in italiano, ma hanno anche migliorato la presentazione del materiale. Vorrei inoltre esprimere la mia gratitudine nei confronti di Emilio Corriero per il suo gentile invito a pubblicare un libro sulla filosofia della natura contemporanea nella collana “Phýsis”.

1 Lausanne, Presses Polytechniques et Universitaires Romandes, 20173, traduzione per gentile concessione dell’editore.

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1. L’ATOMISMO CLASSICO

1.1. Che cos’è la metafisica della natura? La filosofia della scienza si divide in due parti: l’epistemologia della scienza e la metafisica della natura. La prima si occupa della giustificazione delle nostre teorie scientifiche, la seconda – chiamata anche “filosofia della natura” – mira invece a proporre una visione filosofica dell’insieme della natura, sulla base delle conoscenze apportate dalla scienza. Fin dall’antica Grecia la filosofia della natura è il cuore del pensiero occidentale essendo questo, prima di ogni altra cosa, una riflessione sull’essere. I primi pensatori, come Talete (circa 640 a.C.), Anassimandro (circa 611-549 a.C.) e Anassimene (seconda metà del vi a.C.), sono noti come “filosofi della natura” proprio per merito delle loro idee innovative (ossia non più dipendenti dal concetto di divino) sull’essere delle cose. Dalle loro riflessioni nacquero sia le scienze naturali sia la filosofia, che sono, di fatto, rimaste inseparabili dalle origini fino ai giorni nostri. Il nostro concetto di “natura” deriva dal concetto greco di phýsis, che a sua volta proviene dal verbo phýein che può essere tradotto come “essere generato, crescere”. Secondo la prima sistematizzazione filosofica della natura, ossia la Fisica di Aristotele (384-322 a.C.), la phýsis è il dominio “della cosa in sé”, intesa come ciò che ha in sé sia il principio del cambiamento sia la continuazione della sua esistenza. La phýsis di una cosa è ciò che fa sì che essa esista indipendentemente da altre. Si vede così come i due sensi esistenti della parola “natura” convergano: natura come essenza di una cosa, ma anche come l’insieme delle cose che esistono in maniera indipendente le une dalle altre. Di conseguenza Aristotele non contrappone il dominio della natura a quello della mente, ma piuttosto a quello della tecnologia, inteso come il dominio delle cose che trovano la loro origine nell’azione umana 13

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(si veda in particolare: Fisica, libro 2, cap. 1). La mente – considerata come ciò di cui dispone un essere dotato di percezioni, emozioni, desideri, credenze e intenzioni – esiste in modo autonomo e, perciò, appartiene alla natura. A questo riguardo lo Stagirita apre il trattato arrivato a noi con il nome di Metafisica, sostenendo che tutti gli esseri umani aspirino al sapere (libro 1, cap. 1), che trova la sua origine nelle percezioni sensoriali di avvenimenti particolari. Tali percezioni conducono alla costituzione della memoria, intesa come memorizzazione di sequenze di eventi particolari, quali per esempio la successione di giorno e notte o delle stagioni (primavera, estate, autunno, inverno). La memoria di queste cose costituisce l’esperienza (empeiría in greco); essa è conoscenza di fatti, ossia di ciò che accade nel mondo, ma non risponde alla questione riguardo al perché tali fatti avvengano. Se si cerca di dare risposta a questa domanda, si passa dall’ambito dell’esperienza a quello della scienza (epistéme in greco): quest’ultima non si riduce alla mera constatazione di fatti, ma cerca di spiegarli formulando delle proposizioni che abbiano valore universale, ossia delle leggi di natura. La legge generale della gravitazione, per esempio, spiega sia la successione delle stagioni sia quella del giorno e della notte. Dopo la scienza della natura (la fisica) viene la metafisica; essa si occupa dell’essere in quanto essere, cercando di svelare i tratti caratteristici di tutto ciò che è (si veda Metafisica, libro 4). Per Aristotele, inoltre, la metafisica non si occupa di oggetti che si suppone possano esistere al di là della natura  –  cioè, non si deve confondere la metafisica con la teologia. La prima, infatti, studia il medesimo soggetto della fisica, cioè la natura intesa come l’insieme degli oggetti che esistono nel mondo indipendentemente da noi, ma a un livello più generale e fondamentale; non si occupa, infatti, di oggetti particolari (come gli astri, i corpi solidi o lo studio dei costituenti microfisici della materia), ma di ciò che li caratterizza tutti; esiste tuttavia una continuità fra fisica e metafisica  –  anzi, si può dire che siano addirittura inseparabili. La filosofia era in origine legata alle scienze, e queste ultime, soprattutto in epoca moderna, si sono sviluppate proprio a partire da essa. Infatti, la maggior parte dei grandi filosofi della nostra tradizione, come Platone, Aristotele, Cartesio e Leibniz (tra gli altri), sono stati anche grandi uomini di scienza. Non è possibile, per esempio, separare la filosofia dalla fisica nelle opere di Cartesio o di Leibniz, così come non vi è alcuna ragione per non annoverare Newton e Einstein tra i grandi filosofi delle loro rispettive epoche. È solo a partire dal xix e xx secolo che ha avuto luogo una separazione fra scienza e filosofia, e ciò è accaduto a discapito di entrambe. Tale disgregazione infatti 14

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ha avuto come conseguenza che fisici, seppur eminenti, privati del rigore concettuale offerto dalla filosofia, arrivassero a proporre interpretazioni oscure di varie teorie scientifiche, come è avvenuto in particolare nell’ambito dei fondamenti della meccanica quantistica. Allo stesso modo, molti pensatori senza preparazione scientifica hanno annunciato la morte della metafisica, senza averne compreso le reali problematiche. Sarebbe tempo sprecato cercare in questa sede di discutere tali affermazioni e interpretazioni. L’obiettivo è piuttosto quello di confutarle attraverso una metafisica di stampo pre-socratico, o come concepita da Platone, Aristotele, Cartesio, Leibniz, Newton, o ancora Einstein, ossia cercando di mostrare, in questa indagine, i tratti fondamentali dell’essere senza operare alcuna distinzione fra fisica e metafisica, fra scienza e filosofia. Una tale separazione sarebbe deprecabile, perché come già detto vi è storicamente una continuità tra le due. Se possediamo delle conoscenze sul mondo è grazie alle scienze, poiché esse sono, con la filosofia, l’unica attività umana capace di valutare su base argomentativa le nostre pretese di conoscenza. Allo stesso tempo, le scienze non potrebbero fare a meno della filosofia, dal momento che ogni teoria scientifica richiede un’interpretazione, e per elaborarla sono necessari concetti, nonché categorie filosofiche; bisogna tenere in considerazione, inoltre, i criteri filosofici sviluppati per valutare le diverse interpretazioni di una stessa teoria. Molti grandi scienziati (come Newton, Einstein, Bohr e Heisenberg) hanno manifestato grande interesse per la filosofia, e molte ricerche scientifiche hanno all’origine motivazioni filosofiche; per esempio le ricerche cosmologiche aventi come scopo la comprensione delle fasi iniziali dell’universo e la natura del tempo, o le ricerche attuali in neuroscienze per comprendere l’essenza e la natura della mente. Considerando la recente storia della filosofia, al giorno d’oggi abbiamo la possibilità di sviluppare delle teorie filosofiche sul mondo solo a patto di tenere conto dei risultati scientifici e, attraverso questi, effettuare una riflessione critica sulle scienze – e su questa base, poi, elaborare e valutare in maniera rigorosa delle risposte alle grandi domande filosofiche riguardanti la realtà. In questo senso la filosofia della natura è la metafisica di un campo specifico ma centrale, ossia della natura. Nella misura in cui la filosofia della natura dipende dalle scienze, la visione del mondo naturale proposta dalla metafisica non può avere più certezza di quanta non ne offrano le conoscenze scientifiche. Se si verifica, dunque, una rivoluzione concettuale in ambito scientifico, è possibile che si debba modificare conseguentemente anche la metafisica della natura. 15

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A partire dagli anni Settanta si assiste a una rinascita della metafisica, che però resta nondimeno largamente slegata dalla scienza. La filosofia della scienza degli ultimi quattro decenni, d’altra parte, ha superato l’empirismo dottrinario che limita lo scopo della filosofia all’analisi logica delle teorie scientifiche. Ciononostante, ancora oggi i tentativi di proporre una visione filosofica della natura sono rari. È un peccato. Si lascia il posto che dovrebbe essere occupato dalla metafisica della natura a speculazioni di scienziati, che spesso mancano di rigore argomentativo, o peggio ancora, a dilettanti che volgarizzano i risultati scientifici per trarne a proprio vantaggio conseguenze ideologiche (una Weltanschauung) senza alcun valore argomentativo. In questo contesto, lo scopo di questo libro è di presentare un progetto per una metafisica della natura, completamente focalizzato sulla fisica fondamentale, e di fare un bilancio del suo stato attuale. 1.2. L’idea dell’atomismo Fisica e metafisica cercano entrambe, in uno sforzo comune, di formulare una risposta alle seguenti domande: 1. Che cos’è la materia? Che cosa sono lo spazio e il tempo? 2. Quali sono le leggi di natura? 3. Come spieghiamo, attraverso le leggi di natura cui la materia nello spazio e nel tempo obbedisce, i fenomeni osservabili? Tali questioni sono tanto scientifiche quanto filosofiche. Riguardano l’essere della materia, dello spazio e del tempo, così come le leggi e la forma concreta che questo essere assume, permettendoci in tal modo di comprendere quegli aspetti del mondo che ci sono familiari. Il principale paradigma in fisica moderna e in filosofia della natura per fornire una risposta a tali domande è l’atomismo; esso trae le sue origini dalla filosofia greca, con i pensatori presocratici Leucippo (circa 440-370 a.C.) e Democrito (circa 460-370 a.C.), il quale sostiene la visione secondo cui: […] nel vuoto si muove in ordine sparso una pluralità infinita di sostanze indivisibili e indifferenziate, oltre che prive di qualità e di affezioni. Quando si avvicinano, incontrandosi o intrecciandosi, appaiono quegli aggregati, uno dei quali va sotto il nome di acqua, il secondo di fuoco, il terzo di piante, l’altro di uomini (frammento 179, DK 68 A 57).

Isaac Newton (1642-1727) allo stesso modo scrive alla fine del suo trattato sull’Ottica del 1704 (libro 3, questione 31): 16

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mi sembra probabile che Dio al principio del mondo abbia formato la materia di particelle solide, compatte, dure, impermeabili e mobili […]; affinché la natura possa durare, i mutamenti degli oggetti corporei devono consistere soltanto nelle diverse separazioni, ricongiunzioni e movimenti di queste particelle permanenti (1978, pp. 600-601).

L’attrattività dell’atomismo emerge chiaramente da queste citazioni: da un lato esso si configura come una proposta per un’ontologia del mondo naturale il più possibile parsimoniosa e generale, dall’altro propone una spiegazione chiara e comprensibile del dominio della nostra esperienza. Gli oggetti macroscopici sono composti da particelle microscopiche indivisibili, e tutte le differenze fra essi – a un certo istante e dunque nel corso del tempo – si spiegano attraverso il modo in cui tali particelle sono distribuite nello spazio e a seconda di come la loro configurazione cambia nel tempo, vale a dire, attraverso il loro movimento. Per queste ragioni, in epoca contemporanea, il fisico Richard Feynman (1918-1988) afferma che: [s]e in qualche cataclisma andassero perdute tutte le conoscenze scientifiche, e una sola frase potesse essere tramandata alle generazioni successive, quale enunciato conterrebbe la maggiore informazione nel minor numero di parole? Io credo si tratti dell’ipotesi atomica (o fatto atomico, se preferite), cioè che tutte le cose sono fatte di atomi, piccole particelle in perpetuo movimento che si attraggono a breve distanza, ma si respingono se pressate l’una contro l’altra. In questa singola frase, come vedremo, c’è una quantità enorme di informazione su come è fatto il mondo; basta usare un po’ di fantasia e di ragionamento (2000, p. 25).

Tuttavia, l’enorme quantità di informazioni sul mondo contenuta nell’ipotesi atomica non consiste soltanto nella tesi secondo cui l’acqua, il fuoco, una pianta, ecc. sono composti dagli stessi atomi disposti in maniera diversa, ma deriva anche dalle leggi che regolano il loro movimento, spiegano la stabilità degli oggetti macroscopici e il loro comportamento. Di conseguenza, l’atomismo, nei tempi antichi, rimane una posizione speculativa poiché manca una formulazione di leggi precise e generali sul moto degli atomi. Newton al contrario trasforma l’atomismo in una teoria fisica, proponendo tali leggi che portano a predizioni verificabili attraverso esperimenti. Si realizza in tal modo il progetto di fornire una spiegazione di tutto ciò che esiste nel mondo naturale in termini di movimento di atomi. Consideriamo dunque le leggi che Newton propone.

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1.3. Le leggi di Newton Nel suo capolavoro, i Princìpi matematici di filosofia naturale (1687), Newton costruisce la sua teoria distinguendo una forma di movimento particolare degli oggetti, ovvero il moto rettilineo uniforme (vale a dire, senza cambiamento di velocità) ; esso viene definito inerziale. Egli formula in questi termini la prima legge della meccanica: Ciascun corpo persevera nel proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, eccetto che sia costretto a mutare quello stato da forze impresse (1989, p. 113).

Ciò non vuol dire che non si possano spiegare situazioni di movimento inerziale. Ogni caso particolare di moto rettilineo e uniforme trova esplicazione dalle posizioni e dalle velocità iniziali dell’oggetto in questione, uniti alla legge del moto la quale prescrive che esso resti costante. Individuare una certa forma di movimento come moto inerziale, permette a Newton di definire tutte le altre forme di moto nei termini di una deviazione da questo sotto l’influenza di forze. La seconda legge di Newton, infatti, può essere formulata come segue: Il cambiamento di moto è proporzionale alla forza motrice impressa, e avviene lungo la linea retta secondo la quale la forza è stata impressa (ivi, p. 114).

Infine, Newton stipula una terza legge la quale afferma che all’azione di una forza su un corpo corrisponde una reazione equivalente del corpo stesso: Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria: ossia, le azioni di due corpi sono sempre uguali fra loro e dirette verso parti opposte (ivi, p. 115).

Queste leggi sono universali: si applicano al movimento dei corpi celesti (l’astronomia) così come al movimento di quelli terrestri (la meccanica propriamente detta). Tuttavia, esse non sono sufficienti né per dedurre predizioni, né per fornire spiegazioni di moti reali: a tal fine, infatti, si devono determinare quali sono le forze all’opera. In altri termini, tali leggi costituiscono uno schema che va ogni volta completato specificando le forze in atto in una data situazione fisica. Ora, la sola legge che Newton elabora in questo schema è quella della gravitazione, dell’attrazione universale tra corpi. In tal modo egli mette in opera l’idea di esprimere i moti, sia celesti che terrestri, in una sola formula in grado di descriverli tutti. Affinché una forza in generale – e specificamente la forza di gravità – possa influenzare il moto delle particelle, Newton attribuisce 18

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loro un parametro che denota la massa: da un lato, la massa inerziale (la resistenza all’accelerazione), e dall’altro quella gravitazionale (che rende possibile l’interazione gravitazionale). Il valore di queste differenti forme di massa resta costante. Consideriamo ora un universo che contiene N particelle aventi posizioni q1, t , q2, t , …, qN, t  3 nello spazio euclideo tridimensionale a un istante di tempo t  . La seconda legge di Newton, formulata con il linguaggio delle equazioni differenziali utilizzato dalla fisica contemporanea, può essere scritta indicando il cambiamento di velocità della particella al tempo t sotto l’influenza delle forze che agiscono sulla sua posizione qi :



(1.1)

q i,t indica l’accelerazione In questa formula mi indica la massa, ¨ (derivata seconda della posizione) della particella qi al tempo t, Fi la . forza che agisce su qi al tempo t, q1, t , …, qN, t le posizioni e q1, t , …, . qN, t le velocità (derivata prima della posizione) di tutte le particelle del nostro universo. In questo contesto, la legge della gravitazione può successivamente essere formulata come segue:

(1.2)

dove G è la costante gravitazionale. La legge della gravitazione dipende unicamente dalle posizioni delle particelle al tempo t e dalle loro masse. Se consideriamo (1.1) e (1.2), si riesce a dedurre molto facilmente l’eliminazione del termine F indicante la forza:

(1.3)

Sembra allora lecito porsi la questione se in natura esistano delle forze: se sono date le posizioni di tutte le particelle del nostro universo a un istante di tempo t, le loro masse e la costante gravitazionale G, l’accelerazione gravitazionale delle particelle a t è fissata. Da ciò si può dedurre che la gravitazione è una forma di interazione universale che si produce istantaneamente; infatti, benché sia calcolata per coppie di particelle, l’attrazione gravitazionale subita da una particella al tempo t dipende simultaneamente e strettamente dalle posizioni e dalle masse di tutte le altre particelle dell’universo (1.2). Essendo istantanea, tale interazione non può essere trasmessa da una forza o da un medium, un meccanismo di propagazione nello spazio, sebbene dipenda dalle 19

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distanze (più precisamente dal quadrato delle distanze) tra le particelle. Come sottolinea il filosofo contemporaneo Bas van Fraassen in un altro contesto, l’idea di una propagazione istantanea attraverso lo spazio risulta essere molto difficile da sostenere: Parlare di uno spostamento istantaneo da X a Y è una metafora confusa o incoerente, poiché si suppone che l’entità in questione sia simultaneamente a X e a F. Ma in questo caso non vi è bisogno alcuno di spostamento, dal momento che essa si trova già alla sua destinazione (1991, p. 351).

A questo proposito, anche lo stesso Newton non era soddisfatto da questa implicazione (che dalla teoria newtoniana sia possibile inferire come conseguenza che la gravitazione sia un’interazione istantanea), e in una famosa lettera egli scrive infatti: che la gravità debba essere innata, inerente ed essenziale alla materia, così che un corpo possa agire sopra un altro a distanza attraverso il vuoto, senza la mediazione di niente altro per, e attraverso il quale, la loro azione e forza possa essere convogliata da uno all’altro, è per me una tale assurdità, che io credo che nessun uomo che abbia una competente facoltà di pensare in materie filosofiche, possa mai cadere in essa1.

Lo studio dell’interazione tra le particelle e come essa avviene è oggetto di un intenso dibattito fisico e filosofico che riprenderemo nei prossimi capitoli.

1

Lettera di Newton a Bentley del 25 febbraio 1692/3 (in Newton, 2010).

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2. SPAZIO E TEMPO: SOSTANZE O RELAZIONI?

2.1. Spazio, tempo e moto assoluti nella fisica di Newton Dalla prima legge di Newton emerge chiaramente che egli definisce il moto inerziale come moto rettilineo e uniforme rispetto allo spazio. In secondo luogo, concepisce le particelle come oggetti in movimento in uno spazio e in un tempo assoluti; nel contesto della teoria newtoniana il termine “assoluto” denota la possibilità che lo spazio e il tempo possono esistere indipendentemente dalla presenza di materia. Nei suoi Princìpi matematici di filosofia naturale Newton caratterizza lo spazio e il tempo nella maniera seguente: I. Il tempo assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, scorre uniformemente, e con altro nome è chiamato durata […]. II. Lo spazio assoluto, per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, rimane sempre uguale e immobile (1989, pp. 101-102).

Nel dibattito contemporaneo tale posizione viene denominata sostanzialista nei confronti di spazio e tempo: essi, infatti, sono considerati sostanze. La materia, dunque, consiste di particelle localizzate nello spazio che cambiano posizione nel tempo. Tuttavia, il movimento e il riposo misurati sono dei concetti relativi nella meccanica di Newton: quando si tratta di misurare il movimento, una particella è in moto rettilineo o a riposo unicamente in relazione ad altre particelle. Di conseguenza, è sempre necessario indicare il sistema di riferimento rispetto al quale la particella in questione si trova in moto rettilineo o a riposo. Il sistema di riferimento inerziale può essere un qualunque sistema di particelle non sottoposte ad alcuna forza, che si trovi pertanto in uno stato di moto rettilineo uniforme. È importante notare che le leggi della fisica sono le stesse qualunque sia il sistema di riferimento scelto; altrimenti detto, tutti i sistemi di riferimento risultano essere equivalenti per la descrizione dei fenomeni fisici. In questo contesto, per passare da un sistema di 21

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riferimento inerziale a un altro che si trovi anch’esso in uno stato di moto rettilineo uniforme, si devono applicare le cosiddette trasformazioni galileiane, da Galileo Galilei. Se si passa da un sistema di riferimento inerziale I a un sistema di riferimento inerziale I' nella direzione x in moto rettilineo uniforme rispetto al primo, si possono scrivere tali trasformazioni nel modo seguente (x, y, z indicano le tre coordinate spaziali, t il tempo e v la velocità):

(2.1)

In tal modo una particella può essere allo stesso tempo a riposo rispetto a un sistema di riferimento, e in moto rettilineo uniforme rispetto a un altro. Per illustrare questo punto con un esempio, immaginiamo di essere su un treno in movimento da Milano a Genova: il treno viaggia a una velocità di 120 km/h, se scegliamo come sistema di riferimento la stazione, ma si trova a riposo se consideriamo come sistema di riferimento un’auto che viaggia nella stessa direzione del treno e alla stessa velocità. Tuttavia, Newton sostiene che nel caso del moto rotatorio (contrapposto a quello rettilineo) si possa empiricamente constatare un movimento in relazione allo spazio assoluto, cioè un movimento che non sia relativo a un dato sistema di riferimento. Nei Princìpi (scolio delle definizioni) egli propone un esperimento mentale, conosciuto oggi come “l’esperimento del secchio”, che possiamo dividere in tre fasi: (1) consideriamo un secchio colmo d’acqua, la cui superficie resta piatta, e in cui sia il secchio che l’acqua siano a riposo; (2) ruotiamo il secchio, considerando che in questa fase l’acqua è a ancora riposo, e la sua superficie resta piatta; (3) il secchio e l’acqua ruotano alla stessa velocità e la superficie di quest’ultima è concava – l’acqua comincia a risalire i bordi del secchio. Newton sostiene che la differenza fra (1) e (3) non si possa comprendere in termini di moto relativo dell’acqua in relazione al secchio, dunque (3) mostrerebbe il moto assoluto (accelerazione assoluta) dell’acqua nello spazio assoluto. Dal momento che egli ammette l’esistenza di uno spazio assoluto, è concepibile nella sua teoria che l’intera configurazione della materia dell’universo sia in rotazione nello spazio assoluto, o ancora che sia in movimento in esso in modo rettilineo. Ed è proprio quest’ultima possibilità a provocare la celebre reazione da parte di Leibniz.

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2.2. Il relazionalismo di Leibniz Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) sviluppa la sue critiche a Newton nel carteggio con Samuel Clarke (1675-1729), il quale fa le veci di quest’ultimo (Leibniz, 2000, pp. 487-556). Leibniz argomenta contro l’ipotesi dell’esistenza di uno spazio e un tempo assoluti, distinti dalla materia, come segue: poiché lo spazio e il tempo sono omogenei, cioè, poiché i differenti punti o regioni dello spazio e del tempo sono equivalenti, a Dio manca una ragione sufficiente per creare la materia in alcuni punti (o regioni) dello spazio e del tempo e non in altri. È inoltre possibile riformulare questo argomento senza ricorrere al controverso principio di ragion sufficiente e all’invocazione di Dio: se esistono uno spazio e un tempo assoluti, distinti dalla materia, allora ci sono diverse disposizioni possibili per l’intera configurazione di materia dell’universo in essi. Tutte le relazioni fra le particelle restano le stesse per tutte queste diverse possibilità, che differiscono fra loro unicamente poiché sono localizzate in differenti punti dello spazio assoluto. Per esempio, nel caso di una rotazione di 180 gradi della materia nella sua totalità, le relazioni fra le particelle restano invariate: cambiano soltanto i punti dello spazio assoluto in cui le particelle sono localizzate. Leibniz conclude quindi che non vi è una reale differenza fra queste distribuzioni: si tratta sempre della stessa situazione fisica (terzo scritto, §§  5 e 6; quarto scritto, §  15). Questo ragionamento si basa sul famoso principio dell’identità degli indiscernibili postulato da Leibniz. La conclusione generale dell’argomento contro lo spazio e il tempo assoluti è che questi costituiscono un surplus di struttura, estendendosi al di là della configurazione di materia dell’universo (e aprendo così, in meccanica newtoniana, la possibilità di differenti posizionamenti di tale configurazione in essi). In altre parole, concepire lo spazio e il tempo come sostanze contraddice il principio di parsimonia ontologica su cui si basa l’atomismo. Secondo Leibniz esistono soltanto delle relazioni spaziali fra particelle e il cambiamento di queste relazioni: lo spazio è l’ordine dei coesistenti, il tempo invece l’ordine delle successioni (terzo scritto, § 4; quarto scritto § 41 e P.S.; quinto scritto, §§ 31, 47). Dunque, sulla base del relazionalismo di Leibniz, possiamo formulare l’atomismo come un’ontologia parsimoniosa della natura, ammettendo soltanto i due assiomi seguenti1: 1

Cfr. Esfeld e Deckert, 2017, cap. 2.1.

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1. Esistono delle relazioni di distanza che individuano dei punti di materia (particelle). 2. I punti di materia (le particelle) sono permanenti, mentre le relazioni di distanza che intrattengono cambiano. Le particelle si distinguono l’una dall’altra grazie alla loro posizione. Anche se concepissimo la massa come una proprietà intrinseca, inerente alle particelle, questa non sarebbe sufficiente a distinguerle, poiché tutte le particelle della stessa specie hanno lo stesso valore di massa. Nel caso del relazionalismo, le relazioni possono non solo distinguere le particelle le une dalle altre, ma anche funzionare come principio di individuazione, e dunque, individuarle: ciò che le caratterizza in quanto oggetti materiali è il fatto che esse intrattengono delle relazioni di distanza fra di loro, in modo che ogni particella sia distinta da tutte le altre grazie alla sua posizione nella rete di relazioni di distanza. Il relazionalismo rispetta così il principio leibniziano dell’identità degli indiscernibili. In aggiunta, riprende la caratterizzazione cartesiana della materia come res extensa, ovvero una caratterizzazione che tiene conto soltanto dell’estensione2: le relazioni di distanza sono la ragione per cui i punti collegati fra di loro sono punti di materia (particelle), in contrasto per esempio ai punti mentali cartesiani, che sono fra loro connessi da relazioni di pensiero. Detto altrimenti, se si stabiliscono connessioni tra punti con delle relazioni di estensione (distanze), si ottengono dei punti materiali (particelle); se si legano dei punti con delle relazioni di pensiero, si ottengono delle sostanze mentali cartesiane, ecc. Si tratta dunque di un’individuazione strutturale degli oggetti: gli oggetti sono caratterizzati interamente dalle loro relazioni, e non da proprietà intrinseche o un substrato materiale primitivo. Se, dunque, il relazionalismo propone un’individuazione degli oggetti attraverso le relazioni, allora naturalmente si schiera con la corrente che al giorno d’oggi è conosciuta come realismo strutturale ontico. Questa corrente rompe con la tradizione aristotelica, non riconoscendo un’essenza intrinseca agli oggetti (una forma), ma unicamente alle relazioni. In altre parole, gli oggetti non sono che nodi in una rete di relazioni3. Di conseguenza, non si presuppone come data una pluralità di oggetti materiali; ma sono le relazioni di distanza a costituire tali pluralità, Cfr. Cartesio, Princìpi della filosofia, seconda parte, § 4. Cfr. in particolare Ladyman, 1998, 2007; Ladyman e Ross, 2007, cap. 2-3; Esfeld e Lam, 2008 e 2011; French, 2014, capp. 5-7. 2 3

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operando come principi di individuazione degli oggetti fisici. Le particelle sono dunque impenetrabili in virtù delle relazioni di distanza che intercorrono fra di loro: affinché una possa penetrare in un’altra non dovrebbe esserci alcuna distanza fra di loro, ma in questo caso non ci sarebbero due particelle. Per definire in cosa consista una relazione di distanza bisogna scegliere una rappresentazione. Consideriamo un universo costituito da un numero finito di N  N particelle. Ammettere un numero definito di particelle è sufficiente per la correttezza empirica della teoria e facilita la nostra discussione. L’insieme  di tutte le configurazioni possibili di relazioni di distanza fra queste N  N particelle può essere rappresentato nella maniera seguente. Siano   1, 2, …, N  e   (i, j) | i, j  , i  j  degli insiemi che denotino rispettivamente il numero delle particelle in questione e coppie formate da particelle distinte (non identiche). L’insieme  contiene degli elementi   ( i j )(i, j )   che possono essere rappresentati da delle assegnazioni numeriche che soddisfino i requisiti seguenti: 1.   ( i j )(i, j )   è una N–2 (N – 1)-upla di valori positivi  i j   R per ogni (i, j)  ; 2. Per ogni (i, j)  , vale  i j    i j ; 3. Per ogni i, j, k  , vale  i j    i k   k j ; 4. Per ogni i, j  , se i  j, allora   i k | k  , k  i     j k | k  , k  j . I requisiti (1) e (2) stipulano in termini matematici che la relazione di distanza sia irriflessiva, simmetrica e connessa (cioè che tutte le particelle in una data configurazione sono collegate fra di loro). Il requisito (3) è la diseguaglianza triangolare, in virtù della quale la relazione in questione è una relazione di distanza. Infine, il requisito (4) stipula che le relazioni di distanza individuino le particelle distinguendole le une dalle altre: se la particella i non è identica alla particella j, allora l’insieme che raggruppa tutte le relazioni di distanza che i ha con le altre particelle in una configurazione si distingue per almeno una delle sue relazioni dall’insieme che raggruppa tutte le relazioni di distanza che j ha con le altre particelle.

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Esempio di una possibile configurazione di particelle

Fig. 2.1 – Una configurazione costituita da N  4 particelle.

Applicando il primo assioma abbiamo che l’insieme , formato da tutte le distanze tra coppie di particelle, contiene i sei elementi seguenti:

Ω  ab , ac , ad , bc , bd , cd .

La sua cardinalità è dunque |Ω|  6, dal momento che N–2 (N – 1) → 4–2 (4 – 1)  6 sono le coppie in questione. La struttura interna di Ω, è determinata dal secondo assioma: per ogni coppia di particelle i, j vale l’identità  i j    j i . Dalla fig. 2.1 segue dunque, per esempio, che ab  ba. Sempre dalla fig. 2.1 è possibile notare che comunque si scelgano tre punti (a, b, c), (a, b, d), (a, c, d), o (d, c, b), vale la diseguaglianza triangolare; per esempio, prendendo in considerazione il triangolo di vertici (a, b, c) e lati (ab, ac, bc) vale la relazione ab  ab  bc. Questo è il contenuto del terzo assioma. Il quarto e ultimo assioma stabilisce che se prendiamo due diversi punti, per esempio a, b nella nostra figura, essi saranno individuati dalle diverse relazioni di distanza che intrattengono con altri punti, per cui si ha che:

Ωa  ab , ac , ad ,  Ωb  ab , bc , bd .

Se invece Ωa  Ωb, allora le particelle a, b sarebbero identiche (a  b), essendo individuate esattamente dalle stesse relazioni di distanza con i punti c, d. 26

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Tuttavia queste attribuzioni numeriche non sono che un mezzo per rappresentare i tratti caratteristici della relazione di distanza. Non fanno parte dell’ontologia, e ancora meno ne fa parte la nozione di scala assoluta che le accompagna. Il fatto che i valori attribuiti a  i j  siano dei numeri reali (e quindi infiniti) non introduce di per sé l’infinito in questa ontologia; inoltre, essa non è legata a una particolare geometria. Detto altrimenti, può essere opportuno rappresentare queste relazioni in una geometria euclidea e tridimensionale, ma questa è una questione che non concerne l’ontologia, ma unicamente la sua rappresentazione. Un’ontologia relazionalista di particelle individuate attraverso distanze non è di per sé sufficiente per costruire una teoria che sia anche empiricamente adeguata: in una data configurazione l’unica variazione possibile è quella tra le reciproche distanze tra particelle ma, in assenza di tale variazione, l’universo resta statico. È pertanto necessario un secondo assioma, che stabilisca che cambino le relazioni di distanza, ma non le particelle. Poiché il cambiamento presuppone qualcosa di stabile che sia in relazione con ciò che cambia, e siccome il relazionalismo non riconosce uno spazio assoluto nel quale le relazioni di distanza siano inserite, è necessario che le particelle restino stabili, mentre a evolvere sono le relazioni. Questa evoluzione dinamica può in seguito essere rappresentata in termini di movimento di particelle che tracciano traiettorie continue.

Fig. 2.2 – Evoluzione di una configurazione di particelle.

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Il cambiamento, inteso come modificazione delle distanze fra particelle permanenti, non presuppone alcuna nozione temporale (non esiste infatti un tempo assoluto); ciononostante esso manifesta una direzione nel momento in cui lo stato di una data configurazione – costituito da certe distanze fra le particelle – evolve in un altro stato della medesima configurazione, costituito però da differenti distanze tra particelle. Ogni trasformazione di questo tipo può essere reversibile, ma il tempo possiede comunque una direzione, nel senso che rappresenta una successione definita di stati della configurazione di materia. Su questa base Leibniz asserisce, come menzionato in precedenza, che il tempo è l’ordine delle successioni. Ernst Mach (1838-1916), a sua volta, sostiene una posizione affine dicendo, nel suo trattato La meccanica nel suo sviluppo storico-critico (1883 [1968]), che il tempo è un’astrazione postulata sulla base del cambiamento (cap. II, §2). Secondo il relazionalismo, quindi, non vi è tempo senza cambiamento. Di conseguenza, la topologia del tempo è assoluta, seppure in assenza di una sua metrica assoluta. La sola possibilità di introdurre la metrica temporale in una teoria relazionalista consiste nello scegliere un sottosistema di particelle nella configurazione universale, in relazione al quale si misura il cambiamento. Per esempio, il movimento circolare della lancetta di un orologio costituisce un possibile sottosistema. 2.3. Relazionalismo e teoria fisica Si può affermare che il relazionalismo leibniziano, definito dai due assiomi menzionati poc’anzi, promuova come ontologia del mondo naturale l’atomismo, che risulta essere la più semplice e parsimoniosa: in esso vi esistono soltanto relazioni di distanza che individuano le particelle e il loro cambiamento; il surplus strutturale caratterizzato dallo spazio e il tempo newtoniani e criticato da Leibniz viene in tal modo evitato. Tuttavia tale ontologia non può ammettere tutti i modelli  –  ovvero tutte le situazioni possibili  –  della meccanica di Newton: un universo contenente una sola particella che si muove nello spazio assoluto, per esempio, è un modello non ammissibile nel contesto dal relazionalismo. Se le relazioni spaziali individualizzano le particelle, ne sono necessarie almeno tre, e si devono escludere le configurazioni che non soddisfano il requisito (4) della sezione precedente, ovvero le configurazioni interamente simmetriche. Dunque, occorre stipulare che la dinamica sia tale che una data configurazione non possa evolvere in una configurazione interamente simmetrica – e in generale in una configurazione che non soddisfi il requisito (4). 28

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Modelli newtoniani non implementabili dal relazionalismo leibniziano

Fig. 2.3 – Universo costituito da una singola particella.

Tale universo non può essere un modello della nostra ontologia relazionalista, dal momento che la particella a non è individuata da alcuna relazione di distanza.

Fig. 2.4 – Universo costituito da due particelle.

In questo secondo caso dobbiamo tenere in considerazione due fatti: (i) Ω  ab , e (ii) ab  ba. Da una parte, l’insieme delle relazioni di distanza che abbiamo per la coppia di particelle (a, b) è costituito un unico elemento (la distanza che separa a da b) e dall’assioma (1), dall’altra, la distanza tra a e b è uguale a quella tra b e a, come prescritto dall’assioma (2). Tuttavia, lo schema di assiomi introdotto nel paragrafo precedente non riesce a distinguere le due particelle, dal momento che sono caratterizzate esattamente dalle stesse relazioni di distanza, e ciò segue dall’assioma (4) – si veda il box precedente per un esempio analogo. Il relazionalista può difendere tale restrizione della sua teoria sottolineando il fatto che il mondo reale non è certamente simmetrico. Escludere una configurazione simmetrica della totalità della materia non impedisce che possano esistere nell’universo configurazioni localmente simmetriche. Inoltre, questa restrizione non sminuisce il valore delle simmetrie nelle teorie fisiche: esse sono di grande importanza nel fornire una descrizione semplice dell’evoluzione della configurazione di materia presente nell’universo, sebbene questa non sia simmetrica. In cosmologia, per esempio, ignorare il fatto che la distribuzione di materia nell’universo non sia simmetrica semplifica enormemente la teoria, senza però perdere molte informazioni sull’universo “reale”, quando si tratta di descrizioni su scala cosmologica. Tuttavia, come abbiamo visto in precedenza, Newton sostiene che l’esperimento del secchio (descritto nel paragrafo 2.1) costituisca una 29

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Fig. 2.5 – Universo costituito da tre particelle aventi uguali relazioni di distanza.

Le particelle di quest’ultima configurazione sono caratterizzate dalle seguenti distanze Ω  ab, ac, bc , con ab   ac  bc. Applicando il quarto assioma ci si accorge del seguente fatto: Ωa  ab, ac , Ωb  ab, bc , e Ωc  ac, bc , , tuttavia essendo tali relazioni di distanza identiche tra loro otteniamo che Ωa  Ωb  Ωc. Ne consegue che le particelle sarebbero identiche poiché individuate dalle stesse relazioni di distanza. Ma tale conclusione, evidentemente, non è corretta. Dunque, dobbiamo concludere che la configurazione più semplice a cui si applica l’ontologia relazionalista appena presentata è costituita da tre particelle con relazioni di distanza non identiche tra loro. Tale conclusione si estende facilmente ai casi di configurazioni interamente simmetriche contenenti N  3 particelle, che vengono lasciati come utile esercizio al lettore. prova empirica dell’esistenza dello spazio assoluto. A ciò Mach risponde che è sempre possibile classificare qualunque movimento come relativo, allargando il sistema considerato. A tal proposito, possiamo considerare il moto rotatorio (come quello del secchio) in relazione alle stelle fisse (Mach, 1883 [1968], cap. II.3, §5); in questo caso, infatti, le stelle fisse possono essere trattate come un sistema di riferimento quasi inerziale all’interno dell’universo a cui possiamo riferire ogni movimento. 30

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Sebbene attraverso questo argomento il sostenitore del relazionalismo possiede una risposta all’esperimento mentale newtoniano, l’idea di una rotazione dell’universo nella sua interezza non trova spazio in una teoria relazionalista. In primo luogo, il leibniziano può valutare un modello newtoniano di universo in rotazione allo stesso modo in cui prende in considerazione un modello di universo contenente una sola particella in movimento nello spazio assoluto, vale a dire come qualcosa che non ha alcun significato per il mondo reale, poiché la quantità di moto rotatorio dell’universo è pari a zero (J  0). Tuttavia, contrariamente al modello che considera un universo con una sola particella, si potrebbe definire un universo in cui vi è un gran numero di particelle, proprio come l’universo reale e al quale la teoria newtoniana attribuirebbe un valore di movimento rotatorio maggiore di zero (J  0). Tuttavia se la teoria newtoniana attribuisse un valore J  0 all’universo, lo farebbe sulla base di certi fenomeni osservabili nell’universo stesso, come per esempio le inomogeneità nella radiazione cosmica di fondo. Ciononostante, tali fenomeni permettono al relazionalista di ammettere il parametro J e di interpretare un valore J  0 (per l’universo nella sua interezza) come una rappresentazione semplice ed efficace di essi, e di spiegarli attraverso il cambiamento delle relazioni di distanza fra le particelle, invece di considerare questo valore come un invito all’assunzione ontologica di uno spazio assoluto in cui è inserito l’universo in rotazione. In generale il relazionalista non ha bisogno di sviluppare una teoria fisica alternativa alla meccanica di Newton utilizzando soltanto parametri relazionali; gli basta semplicemente rifiutare di dedurre l’ontologia del mondo fisico direttamente dalla struttura matematica della teoria newtoniana. Il filosofo contemporaneo Nick Huggett (*1964; Huggett, 2006) mostra in dettaglio come sia possibile interpretare la geometria euclidea e la meccanica newtoniana come costituenti di un sistema il più semplice e informativo possibile dell’evoluzione delle relazioni di distanza fra le particelle. Altrimenti detto, supponendo di vivere in un universo leibniziano, costituito da particelle individuate da relazioni di distanza e dal loro cambiamento, la cosa migliore che potremmo fare per rappresentare tale cambiamento in una maniera semplice ed efficace sarebbe adottare la geometria euclidea e la meccanica newtoniana: la finzione di uno spazio assoluto in cui inserire la configurazione di materia e di un tempo assoluto in cui si produce il mutamento delle distanze fra le particelle, ci permette di far emergere il moto inerziale come una forma di movimento particolarmente semplice e regolare, e 31

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conseguentemente di comprendere tutti i cambiamenti che si producono nella realtà come deviazioni di tale moto sotto l’influenza di forze4. Detto questo, è ugualmente possibile elaborare una teoria fisica relazionalista della meccanica classica in alternativa a quella di Newton, rinunciando a nozioni assolute come quelle di spazio, tempo, moto e accelerazione. Il programma più esaustivo che si muove in questa direzione è quello perseguito dal fisico britannico Julian Barbour (*1937) e dai i suoi collaboratori a partire dagli anni Settanta, non solo per la meccanica classica ma per la fisica in generale. Al centro del suddetto programma si trova una dinamica che considera esclusivamente la forma delle configurazioni di materia e non la loro dimensione (shape dynamics) 5. Questa dinamica, tuttavia, ha bisogno di più risorse di quelle messe a disposizione dai due assiomi presentati in precedenza. Oltre alle distanze fra le particelle, la teoria di Barbour deve basarsi su dei fatti primitivi riguardanti gli angoli per utilizzare la nozione di forma (shape) di una data configurazione. Con le sue ricerche Barbour ha ottenuto una teoria empiricamente equivalente a quella di Newton per l’universo reale, ma che si basa su un formalismo più complesso. Si può dunque constatare come la semplicità dell’ontologia, nel senso della parsimonia, e la semplicità della rappresentazione, tendono a spingerci in direzioni opposte. Se ci basiamo sull’ontologia più semplice (come quella del relazionalismo leibniziano definita attraverso i due assiomi sopraccitati) non abbiamo a disposizione delle nozioni per formulare una teoria fisica che rappresenti il cambiamento delle relazioni di distanza in modo semplice e informativo. Se ci basiamo invece sulla teoria più semplice – supponendo che si tratti di quella newtoniana – e utilizziamo il suo formalismo come guida per l’ontologia, ne otterremo sicuramente una più complessa. In tal caso infatti accettiamo un’ontologia che comprende uno spazio e un tempo assoluti, delle masse, delle quantità di moto, delle forze, ecc. Sulla base di queste considerazioni possiamo affermare che è un errore pensare di poter dedurre l’ontologia del mondo naturale a partire dal formalismo della teoria fisica che decidiamo di accettare. Il ruolo del formalismo è di ottenere una rappresentazione schematica ed efficace dei cambiamenti osservati, e non di postulare un’ontologia semplice e coerente. Di conseguenza l’ontologia richiede sempre una riflessione filosofica come quella sviluppata da Leibniz e rivolta a Newton. 4 5

Cfr. anche Vassallo et al., 2017. Cfr. soprattutto Barbour e Bertotti, 1982; Barbour, 2012.

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Il punto cruciale per valutare la controversia tra la posizione sostanzialista e quella relazionalista sullo spazio e sul tempo è quindi il seguente: la parsimonia ontologica del relazionalismo è un argomento conclusivo in suo favore? Esistono altri argomenti che possono avere la meglio sulla parsimonia? Viene da chiedersi se l’impegno ontologico in favore dello spazio assoluto apporti qualcosa di positivo alla spiegazione che una teoria fornisce di fenomeni empirici. Il filosofo contemporaneo Tim Maudlin (* 1958; Maudlin, 2007, pp. 87-89) assume la nozione di percorso nello spazio assoluto come primitiva e da questa deriva la nozione di distanza tra le particelle, considerandola come il percorso di lunghezza minima nello spazio assoluto che collega due particelle. Egli sostiene, in tal modo, di essere in grado di spiegare i requisiti che soddisfano la relazione di distanza, come la disuguaglianza triangolare. In breve, se ammettiamo lo spazio assoluto nell’ontologia, siamo in grado di dare una spiegazione della relazione di distanza tra le particelle, che il relazionalista ammette come primitiva. Il relazionalista può, tuttavia, contestare che questo sia un vantaggio esplicativo. Per essere in grado di definire la nozione di “percorso di minima lunghezza nello spazio”, il sostanzialista deve presupporre una struttura sufficientemente ricca per accogliere una metrica – proprio come il relazionalista deve presupporre una relazione sufficientemente ricca per soddisfare la disuguaglianza triangolare affinché sia considerabile come una relazione di distanza. Se lo spazio assoluto non fosse dotato di tale struttura come un fatto primitivo, non sarebbe possibile dedurre la relazione di distanza implicata dalla nozione di “percorso” nello spazio. In breve, il sostanzialismo non presenta un vantaggio esplicativo rispetto alla prospettiva relazionalista: si postula solo una struttura in eccesso rispetto a quanto sarebbe sufficiente per spiegare i fenomeni. Come si vedrà più avanti, la questione del vantaggio esplicativo diverrà cruciale per ogni impegno ontologico che vada al di là delle relazioni di distanza che individuano le particelle e il loro cambiamento.

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3. ONTOLOGIA PRIMITIVA E STRUTTURA DINAMICA

3.1. Dall’ontologia primitiva alla struttura dinamica In una data teoria fisica è necessario distinguere tra i parametri che vengono introdotti per lo svolgimento di una specifica funzione, e quelli descriventi ciò che, secondo tale framework teorico, semplicemente esiste nel mondo. Più specificamente, al fine di poter introdurre dei parametri A che svolgono particolari funzioni nel contesto di una certa teoria, ce ne devono essere degli altri, B, rispetto ai quali i primi possano effettivamente esercitare tali funzioni. In altre parole, non sarebbe possibile pensare che tutti i parametri di una certa teoria fisica siano introdotti funzionalmente, poiché in tal caso non si applicherebbero a nessun oggetto della teoria stessa. A questo riguardo, considerando la meccanica di Newton, le particelle semplicemente esistono, pertanto non svolgono alcuna funzione. D’altra parte, in questo contesto, le forze vengono introdotte in funzione dell’evoluzione del movimento delle particelle: una forza è definita dal modo in cui accelera le particelle a cui si applica, e lo stesso vale per la massa. Sebbene quest’ultima abbia un ben definito valore e venga attribuita alle particelle prese individualmente in meccanica classica, tale parametro non rappresenta alcuna loro proprietà intrinseca, vale a dire non è una proprietà posseduta indipendentemente dall’ambiente in cui sono inserite. Come afferma Ernst Mach, «la vera definizione della massa può essere ottenuta solo prendendo in considerazione le relazioni dinamiche dei corpi» (1883 [1968], cap. II.7, §2). La massa è dunque una costante che permette di combinare i movimenti delle particelle tra loro. Analogamente, le forze forniscono una descrizione di come i movimenti delle particelle sono legati fra di loro. Come si vedrà in seguito, in meccanica quantistica la massa non è più attribuita alle singole particelle, ma diviene un parametro che compare nella funzione d’onda. Di conseguenza, l’ontologia primitiva è limitata alle posizioni relative delle particelle definite attraverso relazioni di distanza 34

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e al loro cambiamento1. In questo contesto, come abbiamo visto nel capitolo precedente, il relazionalista può utilizzare le relazioni spaziali per individuare le particelle in modo tale che la loro essenza consista nell’essere relate tra di loro da rapporti di distanza; tutto il resto entra nella teoria fisica soltanto in virtù della funzione svolta per implementare il cambiamento delle loro posizioni. L’ontologia primitiva da sola è infatti insufficiente per costruire una teoria fisica, poiché le configurazioni di particelle descritte in termini di relazioni spaziali non contengono alcuna informazione sull’evoluzione di tali relazioni. In altre parole, se abbiamo a disposizione solamente relazioni spaziali tra particelle e relativo cambiamento, siamo solo in grado di stilare una lunga lista di cambiamenti che si verificano effettivamente all’interno di una determinata configurazione, ma non rendono possibile formulare una legge semplice che sia adatta per cogliere il modo in cui tale cambiamento si verifica; per essere effettivamente in grado di formularla, sono necessari altri parametri oltre a quelli che si riferiscono all’ontologia primitiva. Innanzitutto è necessario stabilire quale geometria implementare. Supponiamo che la configurazione di materia dell’universo Q  (q1, q2, …, qN ), dove q1, q2, …, qN sono le posizioni relative delle particelle, possa essere rappresentata in uno spazio euclideo tridimensionale S  R3. In questo spazio scegliamo un’orientazione, una rotazione, una traslazione, degli assi in qualità di coordinate, e delle direzioni qi  qj . Su questa base possiamo quindi concepire l’evoluzione puramente relativa delle distanze fra le particelle come un cambiamento rispetto alla varietà S in cui la configurazione è definita: Q : R → S N,  t  Qt  (q1, t , …, qN,t ).



(3.1)

Pertanto è possibile rappresentare le modifiche alle relazioni di distanza tra particelle attraverso un campo di velocità: d Q ,  per t  Q . (3.2) – vt (Qt ) :  dt t  t 



Invertendo questa definizione, otteniamo la forma generale di una legge del moto per la dinamica delle particelle: d Q   v (Q ). (3.3) –  dt t  t t 



1

Cfr. Allori, 2013 e Vassallo et al., 2017.

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Il compito di una teoria fisica è di formulare una legge specifica che indichi come determinare il campo di velocità vt . I cambiamenti osservati mostrano alcuni pattern o regolarità; un esempio paradigmatico è il regolare movimento dei pianeti intorno al sole. Sulla base di tali osservazioni, una teoria fisica introduce parametri con valori costanti (come massa, carica, energia totale, costanti di natura) e parametri i cui valori variano nel tempo (come la quantità di movimento, le forze, i campi, le funzioni d’onda) per arrivare a una legge semplice e informativa che ci dica come evolve la velocità delle particelle. In altre parole, oltre alle posizioni relative delle particelle, i valori di altri parametri devono essere determinati come condizioni iniziali per avere una legge che descriva la variazione delle loro posizioni (le informazioni sulle posizioni delle particelle, infatti, non sono sufficienti per elaborare una tale legge). Ancora una volta, la legge di gravitazione di Newton (1.2) costituisce un esempio paradigmatico. Dunque, l’obiettivo di una teoria fisica è quello di formulare una struttura dinamica che, per ogni data configurazione di materia rappresentante l’universo, sia in grado di fissarne l’evoluzione. Inoltre, la struttura dinamica si applica a tutte le possibili configurazioni di particelle, e quindi la si può applicare a proposizioni controfattuali su ciò che accadrebbe se questa o quella configurazione di materia fosse reale. 3.2. Dalla struttura dinamica alle probabilità Ogni teoria fisica fondamentale – cioè qualsiasi teoria fisica che non può essere ridotta a un’altra – è una teoria universale, cioè si applica in linea di principio all’intero universo. Sebbene l’attrazione gravitazionale della teoria di Newton si calcoli per le coppie di particelle (1.2), al fine di conoscere l’attrazione gravitazionale cui viene sottoposta una particella in un dato momento sarebbe necessario calcolare rigorosamente l’influenza di ogni altra particella nell’universo nello stesso istante, dal momento che la gravità è un’interazione istantanea che si applica a tutte le particelle secondo la teoria newtoniana. Anche in una teoria di interazione locale – come l’elettrodinamica classica, che sarà considerata nel prossimo capitolo –, la struttura dinamica riguarda l’universo nel suo insieme, poiché ci sono grandezze che sono conservate a livello globale, come per esempio l’energia totale. Di conseguenza, la struttura dinamica di una teoria fisica fondamentale è automaticamente olistica, riferendosi all’intero universo, anche se l’ontologia primitiva della teoria è atomistica. 36

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Tuttavia, non possiamo conoscere l’intero universo. A volte ci troviamo nella felice situazione di poter ignorare il resto dell’universo nel calcolare l’attrazione gravitazionale tra due oggetti applicando la legge (1.2); questo è il caso se si calcola la traiettoria di un pianeta in movimento intorno al sole, o quella di una pietra che cade al suolo. Questi casi, però, sono piuttosto l’eccezione che la regola. In generale non conosciamo le condizioni iniziali esatte dei sistemi che consideriamo, né quelle del loro ambiente, e questa ignoranza ci impedisce di fare calcoli deterministici. Una teoria fisica universale sarebbe quindi inutile se non contenesse un metodo per trattare tali situazioni. In altre parole, una teoria deve essere in grado di rispondere alla domanda seguente: dato un determinato sistema fisico, quale evoluzione ci si può aspettare ignorando le sue esatte condizioni iniziali? Consideriamo, per esempio, il lancio di una moneta che può avere, come noto, soltanto due possibili esiti (testa o croce). Generalmente non conosciamo né le condizioni iniziali esatte della moneta, né quelle del movimento che la spinge nell’aria, tuttavia, sappiamo che un’incertezza minima sulle condizioni iniziali implica un’incertezza massima sul risultato: esso non può essere previsto poiché una variazione minima nelle condizioni iniziali può drasticamente modificarlo. Per ovviare a tale problema, possiamo affermare che se si considerano sequenze di lanci, e non solamente una singola prova, tipicamente (cioè nella stragrande maggioranza dei casi), queste mostreranno una distribuzione approssimativamente uguale per i risultati testa e croce, vale a dire  50% dei casi favorevoli per l’esito testa, e  50% per l’esito opposto. In generale se ci si riferisce alla formulazione delle leggi della meccanica classica di Sir William Hamilton (1805-1865), si può notare che sono legate a una misura di probabilità – in questo caso la misura Lebesgue, dal nome del matematico francese Henri Lebesgue (1875-1941) –, che permette di dedurre la meccanica statistica dalla meccanica classica. Di conseguenza, è possibile formulare proposizioni probabilistiche significative in situazioni in cui di fatto ignoriamo le esatte condizioni iniziali. Anche se le probabilità sono presenti in una teoria deterministica a causa della nostra ignoranza delle condizioni iniziali esatte delle diverse situazioni fisiche, esse sono oggettive in quanto legate alle leggi di natura. Per esempio, è un fatto oggettivo del mondo, e pertanto indipendente dalla nostra conoscenza, che lunghe sequenze di lanci di monete mostrino tipicamente una distribuzione uguale per entrambi i possibili risultati2. 2

Cfr. Lazarovici e Reichert, 2015.

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Ci sono quindi tre elementi in una teoria fisica: un’ontologia primitiva (gli oggetti a cui si riferisce la teoria), una struttura dinamica (le leggi dell’evoluzione di questi oggetti e i parametri che figurano nelle equazioni di moto), e una misura di probabilità, che consente di dedurre proposizioni sul comportamento degli oggetti di cui si occupa la teoria anche nei casi in cui ignoriamo le loro esatte condizioni iniziali. Questi tre elementi costituiscono le fondamenta per la spiegazione dei fenomeni che rientrano nel dominio in cui si applica tale teoria. Si può dire che in fisica tutte le osservazioni sperimentali consistono nella registrazione di posizioni di oggetti discreti; a prima vista, qualsiasi risultato di una misura viene registrato sotto forma di posizioni precise di tali oggetti, come la posizione della lancetta di un apparecchio, quella della configurazione dei punti su uno schermo, ecc. Inoltre, oggetti che non sono particelle (come onde o campi) compaiono nella spiegazione del loro movimento, ma non sono propriamente parte dell’evidenza sperimentale: non si vedono onde, ma solo i loro effetti sul movimento delle particelle. Così, un campo elettrico viene esaminato dal moto di una carica di prova. Da quanto finora affermato sembra possibile formulare un argomento per proporre un’ontologia primitiva di particelle, dal momento che tale ontologia si candida a essere la migliore spiegazione per l’attuale evidenza sperimentale. Tuttavia, la spiegazione dei fenomeni macroscopici non è costituita solo dal loro essere composti da particelle, ma anche dalla dinamica formulata per descriverne l’evoluzione temporale: è infatti quest’ultima che spiega la stabilità degli oggetti macroscopici, ed è la misura di probabilità a essere alla base delle spiegazioni quando ignoriamo le esatte condizioni iniziali delle situazioni fisiche oggetto d’indagine. 3.3. La struttura dinamica inclusa nell’ontologia L’ontologia della natura è costituita esclusivamente dall’ontologia primitiva? Oppure anche la struttura dinamica ne è parte (costituendo un’ontologia, per così dire secondaria, nella misura in cui viene introdotta per via della sua funzione per l’evoluzione dinamica dell’ontologia primitiva)? Il dibattito su questa domanda è il medesimo discusso nel precedente capitolo sullo statuto ontologico di spazio e tempo: ci si chiede, infatti, se essi facciano parte dell’ontologia o se siano solo mezzi di rappresentazione, implicando che l’ontologia si riduca a relazioni di distanza tra particelle e al loro cambiamento. 38

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Le leggi di natura spiegano il movimento delle particelle, ma la richiesta di spiegazione non si esaurisce con l’unificazione di un maggior numero di moti possibili in base a una semplice legge. Essa cerca anche una risposta al quesito per cui la configurazione della materia nell’universo evolva in un certo modo e non in un altro. Accordare alle leggi di natura uno statuto ontologico risponde a tale questione. A questo riguardo, Maudlin (2007) accetta non solo lo spazio assoluto nella sua ontologia per spiegare i tratti caratteristici delle relazioni di distanza tra le particelle (si veda la conclusione del precedente capitolo), ma ritiene anche che le stesse leggi di natura ne facciano parte: le leggi sono primitive. Esse impongono vincoli al movimento delle particelle, ovvero lo generano, e allo stesso tempo lo spiegano. Altri filosofi, invece, riducono le leggi a proprietà di particelle, cioè a certe disposizioni o poteri causali che producono un certo movimento3. In tal modo, proprietà come massa o carica sarebbero disposizioni il cui essere (o la cui essenza) consiste nel fatto che, possedendole, una particella viene accelerata e/o resiste all’accelerazione. L’evoluzione dinamica delle particelle si caratterizza come manifestazione delle disposizioni in questione, e queste ultime a loro volta si distinguono per il modo in cui determinano lo stato di movimento delle particelle: una particella modifica il proprio stato di moto rispetto alle altre in funzione della sua massa e carica. Lo stesso vale per le differenze tra i valori di massa e carica: le leggi di natura rappresentano questi poteri o disposizioni dal momento che generano il movimento delle particelle. Le obiezioni contro questa prospettiva sulle leggi di natura sono analoghe a quelle contro l’inclusione dello spazio e del tempo assoluti nell’ontologia di una certa teoria. A prima vista, in questo caso sembra esserci struttura in eccesso: anche presupponendo che le disposizioni in questione si manifestino spontaneamente – vale a dire senza essere soggette a stimoli esterni –, sono possibili situazioni in cui esse siano presenti, ma non si manifestino direttamente sul moto delle particelle. In tal senso, per esempio, può esistere una situazione in cui lo stato di movimento delle particelle non cambia perché la forza di attrazione generata dalle masse da una parte, e la forza di repulsione generata da cariche uguali dall’altra si annullano. Inoltre, e questa è l’obiezione più importante, si può sostenere che le spiegazioni che fanno uso di tali disposizioni sono circolari: non spiegano il motivo per cui le particelle si attraggono in base alla massa, poiché essa è definita dalla funzione svolta per il movimento 3

Cfr., per esempio, Bird, 2007 e Mumford, 1998, 2004.

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delle particelle. Così, se la massa è una disposizione, essa è considerata come una disposizione all’attrazione reciproca tra particelle. Tuttavia, questa si caratterizza come una spiegazione per così dire caricaturale di cui Molière (1622-1673) scrive nel Malato immaginario (1673): non si spiega perché le persone si addormentino dopo aver consumato l’oppio, attribuendo a esso una “virtù dormitiva”, poiché tale “virtù” è definita proprio come il potere di far cadere addormentate chi fa uso di tale sostanza. Massa, carica, ecc. sono parametri fisici fondamentali, contrariamente alle proprietà fenomenologiche dell’oppio; tuttavia, questi parametri sono definiti dalla funzione svolta per il movimento delle particelle, al pari della “virtù dormitiva” definita dalla funzione di addormentare chi fa uso di oppio. Lo stesso argomento si estende al primitivismo sulle leggi di natura: esse sono definite infatti dalla modifica dello stato di moto delle particelle che descrivono. Considerando i rapporti di distanza tra le particelle e il loro cambiamento in uno spazio assoluto dovuto all’azione di disposizioni, si attribuisce uno status modale ai tratti caratteristici di queste relazioni (che sono necessari perché definiscono lo spazio assoluto), e attribuiamo uno status modale ai cambiamenti che si svolgono nel mondo: questi sono necessari se derivano dalle disposizioni che generano tali modifiche. In questo caso, l’obiezione è semplice dal momento che modificare lo status di qualcosa da contingente a necessario non significa fornirne una spiegazione. Infatti, invece di formulare una risposta profonda al motivo perché si verificano cambiamenti nella distribuzione di particelle e delle loro reciproche distanze, assegnare uno status ontologico alla struttura dinamica genera nuove problematiche: se le leggi sono primitive, la questione che si pone è come esse, non essendo oggetti concreti nel mondo, possano influenzare il movimento di particolari concreti. Inoltre, se le leggi sono ridotte a disposizioni di questi oggetti, si pone la questione di come una particella, in virtù delle disposizioni a essa intrinseche, possa influenzare il movimento delle altre attraverso lo spazio. Nel prossimo capitolo vedremo perché questo problema non è risolto dall’introduzione di medium come i campi. 3.4. La metafisica humeana Come il relazionalista, che considera spazio e tempo solo come strumenti geometrici per rappresentare le relazioni di distanza tra particelle e il loro cambiamento, così chi sostiene la posizione secondo 40

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cui non viene concesso uno status ontologico alla struttura dinamica considera quest’ultima soltanto uno strumento di rappresentazione dell’evoluzione dinamica delle relazioni tra particelle. Il cambiamento della configurazione di materia dell’universo a noi accessibile (compreso il cambiamento nell’ambiente che ci è familiare) manifesta trame regolari. Concettualizzando queste trame o regolarità, la fisica cerca di creare un sistema di rappresentazione che porti al miglior equilibrio tra semplicità e informazione rispetto ai cambiamenti osservabili nell’universo. Un sistema puramente logico sarebbe molto semplice, ma non informativo. Un sistema che registri tutte le modifiche accessibili sarebbe molto informativo, ma per nulla semplice. Le leggi di natura sono invece semplici e informative allo stesso tempo, garantendo il miglior equilibrio tra questi due tratti. Questa concezione delle leggi di natura è ispirata al filosofo scozzese David Hume (1711-1776), ed è stata sviluppata nell’era contemporanea in particolare da Frank Ramsey (1903-1930) e David Lewis (1941-2001), e si caratterizza come un elemento centrale della posizione oggi conosciuta come “metafisica humeana” (Humean metaphysics)4. Supponiamo che l’ontologia primitiva consista in relazioni di distanza tra particelle e i loro cambiamenti. Se ciò costituisce l’intera ontologia del regno fisico, allora i parametri che figurano nelle equazioni delle teorie fisiche entrano in gioco in virtù della funzione che svolgono nelle leggi di tale teoria, che a loro volta cercano di descrivere i cambiamenti osservabili nel modo più semplice e informativo possibile. Di conseguenza, parametri come la massa o la carica non rappresentano proprietà intrinseche alle particelle in quanto tali. Essi svolgono un ruolo nelle leggi che forniscono una descrizione semplice e informativa del cambiamento in natura (anche se i valori iniziali di questi parametri devono essere specificati come condizioni iniziali per poter disporre di leggi semplici)5. I predicati come “essere dotato di massa” ed “essere dotato di carica” si applicano a oggetti fisici, e le proposizioni in cui essi compaiono sono approssimativamente vere. Tuttavia, ciò che le rende approssimativamente vere, e di conseguenza rende appropriata l’applicazione di questi predicati, non è una massa o carica intrinseca alle particelle, ma la modifica delle relazioni di distanza tra particelle, le quali si verificano in una maniera talmente regolare che le leggi in cui figurano i parametri come massa e carica risultano essere il sistema più semplice 4 5

Cfr. in particolare Lewis, 1973a, pp. 72-75 e 1994, sez. 3; e Hall, 2009. Cfr. Hall, 2009, § 5.2

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e informativo per rappresentare questo cambiamento. In generale, la metafisica humeana non è una forma di strumentalismo, ma al contrario di realismo scientifico, in quanto postula un’ontologia primitiva i cui elementi – come per esempio particelle individuate da relazioni di distanza e il loro cambiamento  –  dovrebbero esistere indipendentemente dal nostro accesso epistemico a tali entità. Di conseguenza, la struttura dinamica di una teoria fisica non è semplicemente uno strumento che permette di derivare delle previsioni, ma assume anche una funzione cognitiva, quella cioè di fornire la descrizione più semplice e informativa dell’evoluzione dinamica dell’ontologia primitiva a noi accessibile. In breve, la metafisica humeana accetta il pacchetto costituito da una geometria, da leggi e da una misura di probabilità, invece di utilizzare solo la regola derivante da questo pacchetto per calcolare le probabilità dei risultati delle misurazioni. Tuttavia, questo approccio rifiuta di concedere uno statuto ontologico agli elementi di questo pacchetto che non siano contenuti nell’ontologia primitiva. David Lewis caratterizza così la metafisica humeana: È la dottrina secondo cui tutto ciò che esiste nel mondo è un grande mosaico di questioni locali di fatti particolari, solo una piccola cosa e poi un’altra. […] Abbiamo la geometria: un sistema di relazioni esterne di distanza spazio-temporale tra punti. Forse punti dello stesso spazio-tempo, forse punti di materia, o etere o campi, forse entrambe le cose. E in questi punti sono situate qualità locali: proprietà intrinseche perfettamente naturali che non abbisognano di nulla che sia più grande di un punto in cui essere istanziate. In breve: abbiamo una disposizione di qualità. E questo è tutto (Lewis, 1986a, vol. II, pp. ix-x).

Secondo questa citazione, Lewis ammette non solo punti dello spazio-tempo, ma anche proprietà intrinseche instanziate in questi punti; egli le considera la massa, la carica, ecc. come proprietà naturalmente intrinseche e appartenenti a oggetti puntiformi. Tuttavia, tale concezione mette la metafisica humeana in imbarazzo: Lewis, infatti, non può sostenere che i ruoli svolti dai parametri di massa e di carica nel contesto delle leggi di natura costituiscano l’essenza di tali proprietà. In tal caso, queste proprietà sarebbero disposizioni o poteri e si impegnerebbe a riconoscere i fatti modali come primitivi nel mondo (come le connessioni necessarie che generano queste proprietà, si veda la sezione precedente). Lewis sostiene che il ruolo svolto nelle leggi di natura da parametri come massa o carica sia contingente alle proprietà che indichiamo come massa o carica, ecc. L’essenza di queste proprietà è quindi una pura qualità (nota come “quidditas”), alla quale, inoltre, non possiamo avere alcun accesso cognitivo  –  quest’ultima conseguenza 42

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è chiamata “umiltà” nel contesto humeano, e Lewis (2009) ammette le conseguenze di entrambe. Tuttavia, esse costituiscono obiezioni gravi alla metafisica humeana nella prospettiva di Lewis6, in quanto essa si propone come una metafisica empirista e vicina alle scienze, senza qualità occulte. Contrariamente alla metafisica humeana di Lewis, possiamo caratterizzare come “metafisica super-humeana” la posizione che non ammette statuto ontologico né a spazio e tempo assoluti, né a proprietà intrinseche7. La metafisica super-humeana rifiuta questi postulati ontologici e conserva soltanto le relazioni di distanza che individuano punti materiali e il loro cambiamento. Le relazioni della distanza sono quindi relazioni naturali, le uniche relazioni naturali. Questa ontologia costituisce una base sufficiente per introdurre leggi di natura che rappresentino tale cambiamento nel modo più semplice e informativo possibile. Una volta definite tali leggi, la metafisica humeana può trattare anche la nozione di causalità allo stesso modo. Seguendo Hume, si può considerare la causalità in termini di regolarità8. La risposta alla questione se un evento e1 causi un altro evento e2 dipende strettamente dal fatto che gli eventi dello stesso tipo di e2 succedono regolarmente dagli eventi dello stesso tipo di e1 oppure no. In altre parole, e1 causa e2 se e solo se, in circostanze simili, tutti gli eventi dello stesso tipo di e1 sono seguiti da eventi dello stesso tipo di e2. La causalità è quindi ridotta a una successione regolare di eventi appartenenti alla stessa classe/dello stesso tipo. Una delle obiezioni centrali contro la teoria della causalità come semplice regolarità riguarda il fatto che eventi che accadono soltanto una volta nella storia dell’universo (come il “big bang”), cioè unici, possono comunque entrare in relazioni causali. Questo è uno dei motivi per cui la grande maggioranza dei filosofi contemporanei che lavorano nel contesto della metafisica humeana sostengono una teoria della causalità in termini di dipendenza controfattuale. Ci si rifà, cioè, alla seguente intuizione: consideriamo un evento e2 come, per esempio, una finestra rotta. Nel passato di questo evento si è verificato il seguente evento (e1): una palla da calcio ha colpito la finestra. È possibile affermare allora la seguente proposizione controfattuale: “Se il pallone da calcio non avesse colpito la finestra, questa non si sarebbe rotta”. L’idea generale Cfr. Black, 2000. Cfr. Esfeld e Deckert, 2017, cap. 2.3. 8 Cfr. il Trattato sulla natura umana (1739), libro I, parte III, e la Ricerca sull’intelletto umano (1748), sezione VII) 6 7

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è questa: un evento e1 è un fattore causale rilevante (una causa) di un evento e2 se e solo se è vera la seguente proposizione controfattuale: se e1 non avesse avuto luogo, e2 non si sarebbe verificato (o, almeno, sarebbe stato meno probabile). David Lewis, in particolare, avanza una teoria che definisce la causalità usando la nozione di dipendenza controfattuale (1973b, 2004). Anche se in Lewis (1986b) egli sostiene che altri mondi possibili esistono al di fuori del mondo attuale, il suo realismo nei confronti dei mondi possibili riguarda in primo luogo l’analisi semantica delle proposizioni controfattuali. Questo realismo è indipendente dalla sua teoria della causalità. La metafisica humeana implica che l’ontologia primitiva del mondo attuale (il mosaico humeano) sia sufficiente a fissare le leggi di natura del mondo attuale e delle sue relazioni causali. Di conseguenza, l’ontologia primitiva del mondo attuale è anche adatta a determinare i valori di verità delle proposizioni controfattuali rispetto a esso9. In breve, la metafisica humeana considera la totalità dei cambiamenti nelle relazioni di distanza tra particelle (cioè il loro movimento) come un fatto primitivo e contingente. Su tali considerazioni, questa metafisica spiega tutto il resto (leggi, relazioni causali, proposizioni controfattuali, ecc.) attraverso la teoria che presenta la migliore descrizione di questo cambiamento, raggiungendo il miglior equilibrio tra semplicità e informatività. Tuttavia, questo approccio metafisico non fornisce una ragione per cui il movimento delle particelle avviene in un determinato modo: ci si chiede dunque se possiamo fare di meglio. Accettare le leggi, o le disposizioni, o i poteri come primitivi conduce a uno scontro con le obiezioni di circolarità e di surplus strutturale, e porta alla creazione di nuovi problemi.

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Cfr. Armstrong, 2004, p. 445; Loewer, 2007, pp. 308-316.

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4. DALLA MECCANICA CLASSICA ALLA FISICA RELATIVISTICA

4.1. L’elettrodinamica Torniamo per un momento alla teoria newtoniana della gravitazione. Come spiegato nel paragrafo 1.3, la gravitazione è un’interazione istantanea tra tutte le particelle di una data configurazione; ciò significa, di conseguenza, che non esiste alcun medium che la trasmetta. Da parte sua, però, Newton rifiuta l’idea di un’interazione che si propaghi istantaneamente nello spazio, anche se la sua teoria implica che la gravitazione sia proprio un’interazione di questo tipo. La gravitazione è anche l’unica forza per cui egli ha formulato una legge precisa, anche se essa non è l’unico tipo di interazione che sussiste tra le particelle. Vi sono infatti anche elettricità e magnetismo, sebbene una teoria che li tratti adeguatamente e unificatamente venga formulata soltanto quasi duecento anni dopo Newton, vale a dire l’elettrodinamica di James Clerk Maxwell (1831-1879), elaborata nel 1860. La teoria di Maxwell implementa la nozione di azione locale: viene postulata l’esistenza di un campo che si propaga nello spazio e che funge da mediatore dell’interazione tra le particelle, contrariamente a quanto accade nella menzionata teoria newtoniana. Più precisamente, ogni particella che possiede una carica (positiva o negativa) crea un campo attorno a essa, che si estende nello spazio a una velocità finita e costante: non dipende infatti dallo stato di moto della sua sorgente. In questo caso l’interazione tra le particelle avviene attraverso i campi che esse generano: una particella carica accelera altre particelle cariche (le attira o respinge) mediante il campo che crea intorno a sé. Il campo è, dunque, un meccanismo di interazione tra particelle. Se ogni interazione si verifica per mezzo di medium, di conseguenza esse non sono istantanee, ma ritardate: la propagazione degli effetti si produce a una velocità finita. Si parla allora di azione locale, contrapposta all’azione a distanza. 45

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La teoria maxwelliana dell’elettrodinamica introduce quindi una nuova entità in fisica, vale a dire il campo elettromagnetico. All’epoca fu proposto l’etere come un tipo di medium materiale che supporta i campi nello spazio, ma tale ipotesi fu abbandonata alla fine del xix secolo. Sembra, di conseguenza, che la materia consista non solo di particelle ma anche di campi. Più precisamente, possiamo pensare che esista un solo campo elettromagnetico alla cui origine vi siano tutte le particelle cariche dell’universo. Lo spazio tra le particelle non è quindi vuoto, ma “riempito” per così dire dal campo elettromagnetico. Tuttavia, la situazione è più complicata di quanto possa suggerire questa presentazione semplificata della teoria di Maxwell. Come molti dualismi, anche quello tra particelle e campi pone dei problemi; a prima vista, infatti, la teoria dell’elettrodinamica è, strettamente parlando, inconsistente. Ogni particella crea un campo attorno a sé (o contribuisce a un unico campo elettromagnetico) e conseguentemente condiziona il movimento di altre particelle attraverso tale campo. Quest’ultimo, tuttavia, influenza anche il movimento della particella che è la sua stessa origine. Ora, se ci proponiamo di calcolare l’influenza del campo sulla particella che lo origina, la teoria collassa: l’energia diviene infinita nel punto in cui è posizionata la particella. In linea generale, se consideriamo campi esterni, possiamo calcolare la loro influenza sul movimento delle particelle cariche mediante l’equazione di Hendrik Lorentz (1853-1928); invece, date le posizioni delle particelle cariche in questione, è possibile calcolare i campi che generano, o addirittura il loro contributo al singolo campo elettromagnetico, utilizzando le equazioni di campo di Maxwell. Tuttavia, non è possibile unire questi due tipi di equazioni in una teoria fisica coerente. Questo problema persiste ancora oggi e riappare nella teoria quantistica dei campi, come vedremo di seguito (capitolo 11). 4.2. I campi appartengono all’ontologia? Allo stesso modo dello spazio assoluto, i campi si estendono all’infinito, ben oltre la portata dell’influenza che esercitano sul movimento delle particelle. Proprio come nel caso dello spazio e del tempo assoluti, ci si pone quindi la questione del loro statuto ontologico: i campi sono delle proprietà, vale a dire le proprietà dei punti dello spazio-tempo? O sono una sorta di materia che lo riempie? Nel primo caso si sottoscrive un sostanzialismo riguardo allo spazio-tempo: vi è uno spazio, lo spazio-tempo assoluto, i cui punti 46

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possiedono proprietà di campo oltre a proprietà geometriche1. Queste ultime, tuttavia, sono proprietà autentiche dello spazio-tempo; sarebbe piuttosto strano attribuire, in aggiunta a esse, delle proprietà causali sotto forma di proprietà di campo ai punti dello spazio-tempo; esse influenzerebbero solo il movimento di determinate particelle, cioè quelle cariche. In altre parole, se le proprietà dei punti spazio-temporali sono causali, nel senso che influenzano il moto della materia, dovrebbero avere un effetto sul moto di tutte le particelle, e non solo su quelle cariche. È proprio l’universalità della gravitazione, infatti, che rende possibile la sua geometrizzazione nella teoria della relatività generale, come vedremo nel prossimo capitolo. D’altra parte, se si considerano le proprietà di campo come disposizioni, si affronta il seguente problema: la manifestazione principale della proprietà disposizionale (cioè la carica delle particelle) è l’accelerazione di altre particelle. Il campo in se stesso non è la manifestazione di questa disposizione, ma in questo contesto deve essere interpretato come se anch’esso lo fosse. La proprietà disposizionale originale (la carica) genera quindi un’altra disposizione (le proprietà del campo elettromagnetico) e queste due si manifestano nell’accelerazione delle particelle. Di conseguenza, in questo caso, esistono due diverse disposizioni che si manifestano allo stesso modo. Se i campi vengono definiti come una sorta di materia che riempie lo spazio-tempo, allora vi sono due tipi diversi di materia che lo abitano: mentre le particelle sono oggetti discreti, la materia sotto forma di campo è un continuum; inoltre, se è possibile utilizzare relazioni spaziali per individuare oggetti discreti (particelle), non è possibile farlo nel caso dei campi. Essi sono, allora, una specie fondamentale di materia, e dal momento che la loro essenza si caratterizza per così dire come un nudo sostrato, si ammette come fatto primitivo che possano assumere valori diversi in differenti punti dello spazio-tempo. Inoltre, nel caso del campo elettromagnetico, possono esistere punti o regioni dello spazio-tempo in cui il valore di tale campo è zero. In questi casi ci chiediamo: non esiste alcuna materia in queste regioni? O la materia del campo esiste ovunque, ma non esercita alcun effetto sulle particelle? Lo statuto dei campi non è identico a quello delle particelle. Tutte le evidenze sperimentali in fisica poggiano sull’osservazione di posizioni relative di oggetti discreti e del loro cambiamento. Così, un campo elettrico viene sondato dal movimento di particelle di prova cariche soggette al campo stesso. Di conseguenza, le entità che non 1

Cfr. Field, 1980, cap. 4, in particolare p. 35; e 1985, pp. 40-42.

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sono particelle – come onde o campi – sono incluse nella teoria come parte della spiegazione del movimento delle particelle, ma non fanno parte dei dati sperimentali. Il significato fisico della grandezza matematica associata al valore di campo che può essere attribuito a un generico punto dello spaziotempo, anche se non occupato da alcuna particella, è che permette di formulare proposizioni di questo tipo: “Se ci fosse una particella in questo punto, essa si muoverebbe in questo o quest’altro modo”. Dobbiamo naturalmente ammettere dei truth-maker nell’ontologia per queste proposizioni controfattuali (che sono vere e verificabili con esperimenti); tuttavia, non segue che dobbiamo riconoscere i campi come parte della nostra ontologia. In altre parole, i campi non fanno parte dell’ontologia primitiva, ma della struttura dinamica di una teoria fisica: essi vengono introdotti in virtù della loro funzione per l’ontologia primitiva, vale a dire per il movimento delle particelle. Ciò apre la possibilità di escludere tali entità nell’ontologia: essi possono essere pensati come un modo efficace per arrivare a una descrizione del movimento delle particelle semplice e di facile applicazione. Il moto effettivo delle particelle rende vere tutte le proposizioni vere e verificabili in cui appaiono grandezze di campo. Richard Feynman disse nel suo discorso tenutosi in occasione del ricevimento del premio Nobel nel 1965: [v]edete, se tutte le cariche contribuiscono a creare un singolo campo universale, e se tale campo universale agisce esso stesso su tutte le cariche, allora ognuna di queste deve agire nuovamente su se stessa. Bene, era lì che si trovava l’errore: non vi era alcun campo. È solo che quando agiti una carica, un’altra oscilla successivamente. C’era un’interazione diretta tra le cariche, anche se con un ritardo […]. Ora, ciò ha la caratteristica interessante di risolvere entrambi i problemi contemporaneamente. In primo luogo, posso affermare immediatamente, che non ho lasciato che l’elettrone agisse su se stesso, ho solo lasciato agire un elettrone sugli altri, quindi, senza self-energia! In secondo luogo, non esiste un numero infinito di gradi di libertà nei campi. Infatti, non esiste alcun campo (Feynman, 1966, pp. 699-700; trad. di A. Oldofredi).

Intorno al 1940, Feynman sviluppò, con John A. Wheeler (19112008), suo supervisore di tesi, una teoria alternativa all’elettrodinamica, formulata in termini di interazioni diretta fra particelle cariche attraverso lo spazio vuoto, senza parametri di campo nella struttura dinamica; essa è conosciuta come la teoria Wheeler-Feynman2. Per riprodurre risultati 2

Cfr. Wheeler e Feynman, 1945.

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conformi all’elettrodinamica maxwelliana, questa teoria deve postulare non solo un’azione ritardata, ma anche anticipata: il movimento di una particella in un punto dello spazio-tempo dipende non solo dalle traiettorie delle particelle nel suo passato ma anche da quelle nel suo futuro. Vediamo subito, però, che questa proposta teorica è afflitta da un problema molto serio: non è chiaro quali siano le condizioni iniziali che permettono di trovare soluzioni alle sue equazioni. In questa teoria, infatti, non si hanno a disposizione dati situati su un’ipersuperficie spaziale a un tempo determinato che possano servire da condizioni iniziali per calcolare le soluzioni delle equazioni. Il motivo per cui i parametri di campo sono così efficaci è che permettono di trattare le interazioni ritardate, così come di trovare soluzioni alle equazioni inserendo opportuni valori iniziali: il movimento di una data particella è determinato dai valori di campo del suo passato immediato. Anche se l’interazione elettromagnetica è ritardata, non è necessario tenere conto del moto di altre particelle nel passato remoto (o nel futuro), per calcolare il movimento di una particella data. In altre parole, mentre è possibile formulare la teoria della gravitazione di Newton sotto forma di campo gravitazionale, non vi è alcuna ragione per privilegiare questa formulazione, dal momento che tale interazione è istantanea. Come menzionato nel paragrafo 1.3, il termine corrispondente alla forza gravitazionale può essere eliminato nei calcoli dato che l’attrazione gravitazionale tra due particelle è determinata dalle loro posizioni e masse a un determinato tempo. Per trovare una soluzione della seconda legge di Newton per la forza gravitazionale, è sufficiente inserire le posizioni, le velocità e le masse delle particelle come condizioni iniziali. Quando l’interazione è ritardata come in elettrodinamica, d’altra parte, il parametro di campo è indispensabile per poter formulare soluzioni alle equazioni date inserendo valori iniziali. In sintesi, è quindi chiaro che i campi hanno una funzione dinamica. Se si rifiuta di ammetterli nell’ontologia, si può ricorrere alle stesse strategie disponibili al relazionalista che rifiuta di ammettere nella sua ontologia lo spazio e il tempo assoluti della fisica newtoniana: sviluppare una teoria fisica alternativa (la teoria relazionalista di Barbour in meccanica, la teoria di Wheeler-Feynman in elettrodinamica), oppure adottare la posizione (super-)humeana, la quale interpreta la struttura dinamica solo come mezzo di rappresentazione, essendo l’ontologia interamente fissata dall’ontologia primitiva delle posizioni delle particelle e del loro cambiamento (è anche possibile perseguire queste due strategie allo stesso tempo).

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4.3. La teoria della relatività ristretta Il fatto che in elettrodinamica l’interazione tra particelle sia ritardata implica che essa non possa essere concepita nello spazio e nel tempo newtoniani, in quanto esiste una velocità limite di propagazione degli effetti. Albert Einstein deriva le conseguenze di questo fatto nella sua teoria della relatività ristretta, introdotta nell’articolo intitolato Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento (Einstein, 1905). Tale teoria fonda le sue riflessioni sui due principi seguenti: 1. Tutti i sistemi di riferimento inerziali sono equivalenti per la descrizione dei fenomeni fisici. Come menzionato nel paragrafo 2.1 questo principio risale a Galilei; Einstein semplicemente lo adotta. È importante notare che, sebbene tutti i sistemi di riferimento inerziali siano fisicamente equivalenti, possa risultare utile dal punto di vista pratico sceglierne uno in particolare per la descrizione di una determinata situazione fisica. Tuttavia, non esiste un sistema di riferimento inerziale che abbia oggettivamente uno status privilegiato. 2. La luce si propaga con una velocità costante nel vuoto e rispetto a qualunque sistema di riferimento inerziale. Il principio sostanzialmente nuovo è il secondo, quello che afferma la costanza della velocità della luce. Nella teoria dell’elettrodinamica di Maxwell, la velocità di propagazione del campo elettromagnetico emesso da una particella carica in movimento non dipende dalla velocità di quest’ultima; inoltre, l’esperimento di Michelson e Morley del 1887 mostra che, in un sistema di riferimento inerziale, la velocità della luce – più precisamente la media delle velocità alla quale la luce si propaga in entrambe le direzioni tra due punti fissi – è identica in tutte le direzioni dello spazio. Einstein assume quindi il principio della costanza della velocità della luce come punto di partenza per l’elaborazione di una teoria fisica, ricavando così le conseguenze dell’idea di interazione ritardata tra le particelle e, quindi, trasmesse a una velocità finita. La luce si propaga a una velocità di circa 300.000 chilometri al secondo, indipendentemente dallo stato di moto della sua fonte. Il postulato della costanza della velocità della luce consente a Einstein di formulare una dinamica senza ricorrere al concetto di tempo universale – un tempo, cioè, che impone un unico ordine temporale obiettivo a tutti gli eventi nell’universo. Tale principio fornisce una sorta di elemento assoluto alla teoria della relatività ristretta. A partire da questi due principi, Einstein arriva al carattere relativo delle distanze spaziali e temporali (1905, §§ 1 e 2) – ed è a questa conclusione che la sua teoria deve il suo nome. 50

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In generale, secondo la teoria della relatività ristretta, sia la distanza spaziale che quella temporale tra due eventi distinti sono relative a un dato sistema di riferimento. In questo contesto, chiamiamo “evento” ciò che accade in un punto dello spazio-tempo. Di conseguenza, la lunghezza spaziale e la durata temporale variano in base al sistema di riferimento adottato. Questa variazione, però, è minima per sistemi di riferimento che si muovono l’uno rispetto all’altro a una velocità costante bassa rispetto a quella della luce. Ogni sistema di riferimento inerziale può essere utilizzato per misurare distanze temporali e spaziali; tale nozione di sistema non richiede un osservatore, nel senso di soggetto conoscente. Quando si passa da un sistema di riferimento inerziale a un altro che è in moto rettilineo uniforme rispetto al primo, è necessario trasformare gli intervalli di tempo e le lunghezze utilizzando le trasformazioni di Lorentz. A differenza delle trasformazioni di Galileo, quelle di Lorentz non trattano più il tempo indipendentemente dallo spazio: la trasformazione degli intervalli di tempo fa infatti appello allo spazio. Ciò trova la sua ragione nel fatto che, trasformando intervalli di tempo e di lunghezza quando si passa da un sistema di riferimento a un altro, si deve sempre considerare che esiste una velocità finita e costante in tutti i sistemi di riferimento, cioè la velocità della luce. Passando da un sistema di riferimento inerziale I a un altro I' in moto rettilineo uniforme rispetto a I nella direzione x, è possibile scrivere le trasformazioni di Lorentz nel modo seguente (x, y, z indicano le tre coordinate spaziali, t il tempo, v la velocità e c la velocità della luce (si vedano le trasformazioni galileiane nel capitolo 2):

(4.1)

Queste trasformazioni consentono di definire un intervallo spaziotemporale quadridimensionale tra due eventi distinti. Questo intervallo può essere rappresentato da un invariante, vale a dire un numero che rimane sempre lo stesso indipendentemente dal sistema di riferimento considerato. Per questo motivo, si può dire che solo la distanza spaziotemporale tra due eventi non dipende dalla scelta di un sistema di riferimento. Spazio e tempo sono pertanto uniti nella geometria utilizzata dalla teoria della relatività ristretta. Dato il principio della costanza della velocità della luce, i raggi di luce consentono di definire per ogni evento e0 una struttura definita “cono di luce”, composto da un cono di luce futuro e da uno passato. L’interno del cono di luce futuro (che chiamiamo semplicemente “futuro”) di un determinato evento e0 contiene gli eventi che possono 51

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essere raggiunti a partire da e0 da una particella che si muove a una velocità minore di quella della luce. L’interno del cono di luce passato (che chiamiamo semplicemente “passato”) di e0 contiene gli eventi a partire da cui una particella può raggiungere e0 viaggiando a una velocità inferiore a quella della luce. Tutti gli eventi che si trovano nel futuro o nel passato di un evento e0 lo sono relativamente a qualsiasi sistema di riferimento inerziale, in quanto la velocità della luce è costante in tutti i sistemi di riferimento. In tal modo possiamo definire per ogni dato evento un passato e un futuro che sono relativi a esso e che non dipendono dalla scelta di un sistema di riferimento. Tutti gli eventi che si trovano all’interno del cono di luce di un evento e0 sono separati da e0 da un intervallo spazio-temporale di tipo tempo. Non esiste nessun sistema di riferimento inerziale in rapporto a cui un evento qualunque all’interno del cono di luce di e0 è simultaneo a e0.

Fig. 4.1 – Il cono di luce: in alto il cono di luce futuro di e0 con un evento e1, in basso il cono di luce passato, con un evento e2. “Altrove” indica eventi, come e3, che sono separati da e0 da un intervallo di tipo spazio.

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Due eventi sono separati da un intervallo spazio-temporale di tipo luce se possono essere collegati tra loro da un raggio di luce. Questi sono gli eventi che costituiscono i bordi del cono di luce di un determinato evento e0. Gli eventi che si trovano al di fuori del cono di luce di e0 sono separati da esso da un intervallo spazio-temporale di tipo spazio. Non esiste un ordine temporale oggettivo tra questi eventi rispetto a e0. Per ogni coppia di eventi e0 ed e3 separati da un intervallo di tipo spazio, c’è sempre un sistema di riferimento inerziale rispetto a cui e0 è anteriore a e3, un altro sistema di riferimento inerziale rispetto a cui e0 è posteriore a e3, nonché un riferimento per il quale i due eventi sono simultanei. Ciò implica che non esiste un sistema di riferimento inerziale rispetto al quale i due eventi in questione occupino lo stesso posto. Il cono di luce dimostra il fatto che non esiste una simultaneità oggettiva, cioè indipendente dalla scelta di un sistema di riferimento. Benché lo spazio e il tempo siano unificati nella teoria della relatività ristretta, questa teoria non tratta il tempo come una dimensione spaziale supplementare. Esiste una differenza oggettiva fra degli intervalli di tipo spazio e degli intervalli di tipo tempo. Ci possono essere relazioni causali, nel senso delle interazioni fisiche, solamente tra eventi separati da un intervallo spazio-temporale di tipo tempo o luce. Se esiste una velocità limite di interazione tra le particelle e se questa è la velocità della luce, solo gli eventi che si trovano nel cono di luce passato di un determinato evento possono influenzarlo. A sua volta, questo evento può influenzare solo gli eventi che si trovano nel suo cono di luce futuro. È sufficiente, di conseguenza, definire un ordine temporale tra questi eventi: essi si trovano sempre o nel passato o nel futuro dell’evento considerato, indipendentemente dal sistema di riferimento scelto. La teoria della relatività ristretta non ha bisogno di definire un ordine temporale tra eventi che sono separati da un intervallo di tipo spazio; in tal modo essa rinuncia alla nozione di un ordine temporale oggettivo tra tutti gli eventi dell’universo. Si può anche notare come la teoria di Newton possa essere ricostruita a partire dalla teoria della relatività ristretta: se la velocità della luce fosse maggiore di quella che è effettivamente, i due coni di luce di un dato evento si espanderebbero, dato che la velocità massima di propagazione degli effetti aumenterebbe. Se questa velocità fosse infinita (interazione istantanea), i bordi dei due coni di luce si incontrerebbero e ritroveremmo il tempo assoluto di Newton. Avremmo così ristabilito un ordine temporale e spaziale assoluti e indipendenti da ogni sistema di riferimento tra tutti gli eventi dell’universo. Tutte le velocità sarebbero allora relative, e non ci sarebbe più un limite alla velocità di propagazione delle interazioni, così come una costante valida per qualunque sistema di riferimento scelto. 53

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5. LA TEORIA DELLA RELATIVITÀ GENERALE

5.1. La gravità come azione locale Nella teoria della relatività ristretta, Einstein (1905) mette in evidenza le implicazioni della concezione di spazio e di tempo, dipendenti dalla nozione di interazione ritardata (tra particelle), in contrasto con l’interazione istantanea di Newton. La teoria einsteiniana, in un certo senso, eredita dall’elettrodinamica di Maxwell il modo di definire e concepire l’interazione elettromagnetica, pur non formulando una teoria della gravitazione che rispetti il principio d’azione locale. Nella teoria della relatività generale, Einstein (1915a e 1915b) propone una teoria della gravitazione e la integra a quella della relatività ristretta, risolvendo così il problema che poneva in contrasto l’elettromagnetismo come interazione locale nella teoria di Maxwell e la gravitazione come interazione istantanea nella teoria di Newton. Anziché formulare la teoria della relatività generale in termini di equivalenza di (tutti i) sistemi di riferimento inerziali, in questo contesto si parla di foliazione dello spazio-tempo quadridimensionale in ipersuperfici spaziali tridimensionali ordinata nel tempo; ogni foliazione corrispondente a una classe di sistemi di riferimento inerziali. La teoria della relatività generale afferma quindi che nessuna foliazione è oggettiva o privilegiata. Mentre lo spazio-tempo postulato dalla teoria della relatività ristretta è piatto (come lo spazio tridimensionale della fisica classica non relativistica), nella teoria della relatività generale lo spazio-tempo è curvo in quanto la massa ne influenza la geometria. A sua volta, essa influenza le traiettorie delle particelle presenti nello spazio-tempo. Il tutto (materia e geometria dello spazio-tempo) viene descritto dalle equazioni di campo di Einstein, che mettono la geometria dello spazio-tempo (cioè la sua metrica sotto forma di curvatura) in relazione alla distribuzione di materia nell’universo. La gravità anche in questa teoria è, quindi, un’interazione locale: una data massa curva lo spazio-tempo nel suo intorno, influenzando in questo modo la traiettoria delle particelle che attraversano la regione di spazio-tempo in questione (e dunque, si ha 54

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un’azione locale). La prova sperimentale della curvatura dello spaziotempo consiste, in particolare, nell’effetto di marea: due particelle che si muovono parallelamente perdono progressivamente tale parallelismo con l’incurvarsi dello spazio-tempo. Questo effetto si configura come un fenomeno puramente gravitazionale che fornisce supporto empirico alla conclusione che gli effetti gravitazionali possano essere rappresentati in termini di curvatura dello spazio-tempo. La teoria della relatività generale è particolarmente importante per la cosmologia. L’interpretazione prevalente dei dati cosmologici, sia osservazionali che teorici, trova la sua espressione nel modello cosmologico standard di un universo in espansione originatosi da una singolarità iniziale (il “big bang”). Tuttavia, questo modello non implica che esista una foliazione oggettiva dello spazio-tempo: la singolarità iniziale non è un punto che si trova in esso e pertanto non può essere descritto dalla teoria della relatività generale. Non è possibile definire da questa singolarità iniziale un ordine temporale unico e obiettivo tra tutti gli eventi dell’universo. Possiamo definire una foliazione privilegiata dello spazio-tempo per la nostra galassia (e dunque per noi), ma non ne esiste una globalmente privilegiata. Anche se si parla di un tempo cosmico, esso non costituisce un ordine temporale globale e oggettivo per tutti gli eventi dell’universo. Ciò che la teoria della relatività ristretta afferma sulla relatività delle distanze spaziali e temporali tra eventi dello spazio-tempo rimane valido anche nel quadro della teoria della relatività generale e della sua applicazione in cosmologia. L’elemento più importante per la discussione del rapporto tra spazio, tempo e materia che la teoria della relatività generale fornisce è il seguente: invece di essere uno sfondo passivo, il sistema delle relazioni spazio-temporali è in se stesso un’entità dinamica, poiché le relazioni di distanza tra i punti dello spazio-tempo dipendono dalla distribuzione della materia nell’universo: una massa posta in un punto dello spazio-tempo lo curva nel suo intorno. Questa dinamica del sistema delle relazioni spazio-temporali ha come conseguenza che non esiste più una netta distinzione tra spazio-tempo da una parte, e materia dall’altra. Interessante per la nostra discussione è il fatto che la teoria della relatività generale tratti l’interazione gravitazionale tra le particelle in termini di campi; in questo contesto il campo gravitazionale è identico al campo metrico che definisce la geometria dello spazio-tempo. In tal modo, la gravitazione è un’interazione che riguarda tutte le particelle, contrariamente all’interazione elettromagnetica che concerne soltanto le particelle cariche. Tuttavia, lo statuto ontologico del campo gravitazionale è ambiguo: è parte dello spazio-tempo oppure della materia? 55

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Da una parte, la metrica comprende non solo la curvatura dello spazio-tempo, ma anche tutta la sua geometria: senza il campo metrico, non si potrebbero definire le distanze spazio-temporali tra gli eventi; ci sarebbero solo una serie di punti con una struttura topologica, costituenti una varietà differenziabile (bare differential manifold). Ciò parla a favore dell’ipotesi di considerare il campo metrico (e dunque il campo gravitazionale) come parte dello spazio-tempo. Dall’altra, poiché la gravitazione è un tipo di interazione (agisce sul movimento delle particelle), il campo metrico possiede energia, cioè l’energia gravitazionale: interagisce con la materia così come con se stesso. Sebbene l’interazione gravitazionale sia universale (ovvero riguardi tutte le particelle), può essere considerata come un’interazione alla stregua delle altre interazioni fondamentali (deboli, forti e elettromagnetiche). Di conseguenza, vi sono anche buone ragioni per sostenere che il campo metrico sia considerato materia, o più precisamente parte della struttura dinamica che ne determina il movimento. 5.2. Il sostanzialismo metrico Poiché lo spazio e il tempo sono unificati nel contesto della relatività, è possibile considerare lo spazio-tempo nel suo insieme come una sostanza esistente di per sé stessa. Invece di due entità assolute, spazio e tempo, esiste quindi un’unica entità, lo spazio-tempo assoluto. Nella filosofia della fisica contemporanea non ci si pone solamente la questione se lo spazio-tempo nella sua totalità sia una sostanza, ma anche se i suoi punti lo siano, in maniera tale da esistere indipendente dalle grandezze fisiche instanziate in essi. Dato lo statuto ambiguo delle proprietà metriche, possiamo concepire due versioni del sostanzialismo rispetto allo spazio-tempo e ai suoi punti: 1. Una versione sostiene che lo spazio-tempo senza il campo metrico sia una sostanza indipendente. In altre parole, la topologia senza la metrica è sufficiente per l’esistenza di uno spazio-tempo assoluto. Per quanto riguarda i punti dello spazio-tempo, questa posizione implica che anche quelli della varietà differenziabile, senza proprietà metriche, siano sostanze indipendenti. Ciascuno di questi punti possiede un’essenza intrinseca che costituisce la sua identità, la quale non dipende dalle proprietà metriche, e neppure dalle proprietà materiali come massa o carica che esistono in questi punti. Questa versione del sostanzialismo, noto come manifold substantivalism, 56

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è motivata dalla natura materiale del campo metrico che include l’energia gravitazionale1. 2. L’altra versione sostiene che a definire lo spazio-tempo assoluto siano lo spazio-tempo con il campo metrico, cioè con la struttura geometrica gravitazionale2. Possiamo quindi caratterizzare questa versione come un sostanzialismo metrico. In questo caso, i punti spazio-temporali sono sostanze solo se considerate insieme alle loro proprietà metriche: queste costituiscono l’essenza dei punti dello spazio-tempo. Poiché le proprietà metriche sono, strettamente parlando, relazioni tra punti (e quindi non sono proprietà intrinseche), l’identità di ogni punto dello spazio-tempo è costituita dalle relazioni che esso intrattiene con altri punti (ma solo dalle relazioni metriche, poiché la sua identità è indipendente dalle proprietà materiali che esistono in questi punti). Allo stesso modo del sostanzialismo di Newton, quello contemporaneo deve rispondere a una versione relativistica dell’argomento di Leibniz (si veda il paragrafo 2.2): uno spazio-tempo assoluto, indipendente dalla materia, genererebbe stati distinti ma indistinguibili. Nel contesto della relatività generale, l’analogo contemporaneo del ragionamento di Leibniz è il cosiddetto “argomento del buco” (hole argument ). Storicamente risalente a Einstein3, si tratta ancora una volta di trasformazioni che lasciano invariate le relazioni fisiche, ma che, secondo la teoria assolutista dello spazio-tempo, inducono una differenza a livello dei punti di spazio-tempo. Questo argomento sfrutta il fatto che la descrizione geometrica dello spazio-tempo sotto forma di un campo metrico definito su una varietà differenziabile è invariante rispetto a determinate trasformazioni, chiamate diffeomorfismi. Consideriamo in particolare una trasformazione che è definita da (a) una trasformazione d’identità applicata soltanto a una parte dello spazio-tempo – per esempio, a tutto lo spazio-tempo tranne una regione (il “buco”) – e (b) una trasformazione “reale” sul resto dello spaziotempo (sul “buco”), di modo che dopo questa trasformazione, nel buco, diversi punti della varietà differenziabile possiedono grandezze di campo, senza che vi sia alcuna differenza a livello dei campi. Ora, secondo la teoria della relatività generale, i campi e la loro immagine ottenuta attraverso questa trasformazione descrivono la stessa situazione fisica. Tuttavia, se sosteniamo che i punti di spazio-tempo possiedano Cfr. Earman e Norton, 1987 per una presentazione di questa posizione. Cfr. Maudlin, 1989 e Hoefer, 1996. 3 Cfr. Einstein e Grossmann, 1913, pp. 260-261. 1 2

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un’esistenza indipendente dai campi (e dai valori di campo in questi punti), ne consegue che questo tipo di trasformazione comporti una distinzione che non è fisicamente riscontrabile: i diversi punti dello spazio-tempo assoluto sono quindi portatori dei valori fisici dei campi in questione, connessi dalla trasformazione sopra descritta. La conclusione a cui arriva questo argomento è più forte di quella leibniziana. La teoria della relatività generale è una teoria deterministica, ma chi sostiene che i punti di spazio-tempo siano sostanze indipendenti dai campi deve tuttavia ammettere una forma di indeterminismo: lo stato di un modello della relatività generale in una regione arbitrariamente grande di spazio-tempo non determina in modo univoco questo modello per tutto lo spazio-tempo. In altre parole, data una particolare foliazione dello spazio-tempo in ipersuperfici tridimensionali, tutta la storia dell’universo fino a un determinato tempo, nel contesto di tale foliazione, non determina l’evoluzione della storia dell’universo a partire da tale momento. Così, due modelli di spazio-tempo con la stessa foliazione temporale e limitati dalla trasformazione suddetta sono identici fino a un certo tempo (in questa foliazione), a partire da cui non sarà possibile determinare quale evoluzione, vale a dire quale modello, sarà privilegiato. (Per modello della relatività generale, si intende qui uno spazio-tempo e tutti i suoi oggetti geometrici e fisici, e ciò deve ovviamente soddisfare le equazioni di campo di Einstein.) L’argomento del buco conduce quindi alla seguente conclusione: se riconosciamo, in base al sostanzialismo rispetto allo spazio-tempo, situazioni fisicamente indistinguibili come realmente distinte, ciò comporta una conseguenza inaccettabile per la teoria della relatività generale. Essa diventerebbe, infatti, una teoria indeterministica, le cui equazioni non sarebbero in grado di determinare l’evoluzione di un modello di spazio-tempo. Tuttavia, questo rafforzamento dell’argomento di Leibniz ha un prezzo: l’argomento del buco si applica soltanto a una teoria dello spazio-tempo assoluto, secondo cui i punti di tale spazio-tempo sono sostanze la cui identità è indipendente dalle grandezze metriche da essi possedute. In altre parole, l’argomento del buco è un’obiezione conclusiva contro la prima versione di sostanzialismo menzionato poco sopra. Questo argomento non riguarda tuttavia la seconda versione, per cui le proprietà metriche sono proprietà caratteristiche dei punti di spazio-tempo. In effetti, il sostanzialismo metrico è rafforzato dalla teoria della relatività generale. Un argomento importante a suo favore è quello delle cosiddette soluzioni vuote delle equazioni di campo di Einstein: esistono soluzioni di tali equazioni che non ammetteranno materia, cioè soluzioni in cui il tensore di energia-impulso che rappresenta la 58

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materia, è nullo. Nelle soluzioni vuote, esiste il campo metrico, ma non la materia. Ci si può naturalmente chiedere se le soluzioni vuote rappresentino reali possibilità fisiche (e non siano solamente un surplus di struttura matematica, cfr. la discussione sulle configurazioni simmetriche nel paragrafo 2.3). Tuttavia, queste soluzioni mostrano che il campo metrico-gravitazionale è autonomo nel senso che non dipende dall’esistenza nell’universo di particelle che possiedano una massa e che ne costituirebbero l’origine (la sorgente). In elettrodinamica possiamo anche usare la nozione di campo elettromagnetico libero se ci si propone di calcolare l’influenza di tale campo sul moto di una determinata particella carica ignorando le sue sorgenti, che possono anche essere situate in una zona remota del suo cono di luce passato. Non vi è tuttavia alcuna ragione per non pensare che questo campo sia stato determinato da particelle cariche che ne costituirebbero la fonte. Nella teoria della relatività generale la stessa idea riappare con il nome di principio di Mach, il quale afferma che la distribuzione della massa nell’universo determina la metrica dello spazio-tempo. Questo principio, tuttavia, non è valido in relatività generale, nel senso che la distribuzione della massa determinerebbe da sola la metrica dello spaziotempo. Esso risulta essere valido soltanto in un senso limitato: data una metrica iniziale, la distribuzione della massa determina l’evoluzione di questa metrica, nel senso della sua curvatura. Tuttavia, l’esistenza delle soluzioni vuote mostra che nulla impedisce che la metrica iniziale sia curva, senza che questa curvatura dipenda dalla presenza di masse alla sua origine. In generale, è chiaro che la distribuzione di materia non può determinare le relazioni spaziali o spazio-temporali tra oggetti materiali: l’idea stessa di distribuzione di materia presuppone, infatti, quella delle relazioni di distanza tra gli oggetti materiali. Pertanto, le relazioni spazio-temporali non appaiono solo nel tensore metrico, ma anche nel tensore di energia-impulso4. Ciò che rafforza lo statuto della metrica nella teoria della relatività generale è che la gravitazione è unificata alla metrica. Se includiamo il campo metrico nella nostra ontologia, ritroviamo le due possibilità discusse nel paragrafo 4.2 riguardanti il campo elettromagnetico. A prima vista si può sostenere che i valori del campo metrico nei punti dello spazio-tempo siano proprietà di questi punti. In questo caso, essi sarebbero considerati come sostanze soggiacenti al campo metrico, dal momento che possiedono proprietà matemati4

Cfr. Lehmkuhl, 2011.

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camente espresse dal tensore metrico)5. Un’altra possibilità è quella di sostenere che i campi, compreso quello metrico, siano una sorta di materia prima sui generis. Questa posizione sostituisce le particelle con i campi e, di conseguenza, vi è solo un tipo di materia. Nel contesto della teoria della relatività generale, questa posizione è conosciuta come una sorta di relazionalismo rispetto allo spaziotempo6. Secondo questa posizione, c’è un plenum di campi anziché di relazioni di distanza tra punti di materia. Ci si può tuttavia chiedere se tale concezione meriti la caratterizzazione di relazionalismo, in quanto non c’è più una divergenza di principio con il sostanzialismo. Entrambi, infatti, ammettono il campo metrico nell’ontologia e quindi accettano una ricca struttura geometrica come fatto ontologico primitivo. Per questa versione di relazionalismo si tratta di un campo di materia alla stregua di altri, mentre il sostanzialista gli concede uno statuto privilegiato, considerandolo come costituente dello spazio-tempo su cui vengono poi definiti dei campi di materia come, per esempio, quello elettromagnetico.

Cfr. Field, 1980 e 1985. Cfr. in particolare Rovelli, 1997, e Dieks, 2001, sezione 6; Pooley, 2001 e Pooley, 2013, sezione 7, per una discussione filosofica. 5 6

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6. FISICA RELATIVISTICA E ONTOLOGIA

6.1. Il super-sostanzialismo La geometrizzazione della gravità nella teoria della relatività generale permette di proporre un sostanzialismo rispetto allo spazio-tempo più radicale di quello tradizionale, che si configura come un dualismo tra spazio-tempo e materia, in cui questa è costituita da particelle o campi, inseriti in uno spazio-tempo che esiste indipendentemente da essi. Una posizione ancora più radicale consisterebbe nell’affermare che lo spazio-tempo sia in realtà l’unica sostanza esistente, e la materia verrebbe dunque ridotta a una sua proprietà. Nella letteratura contemporanea, questa posizione è conosciuta come supersostanzialismo1; essa è immune sia all’argomento di Leibniz (si veda il paragrafo 2.2), sia all’argomento del buco (si veda il paragrafo 5.2): questi argomenti, infatti, sfruttano l’idea che le relazioni tra oggetti materiali restino invariate mentre i punti di spazio-tempo in cui gli oggetti materiali (o una parte di essi) sono localizzati cambino, ma se la materia è costituita da proprietà di punti spazio-temporali, non possiamo considerarla immutata cambiando i punti dello spazio-tempo che possiedono tali proprietà. Possiamo far risalire la concezione che identifica la materia con l’estensione spazio-temporale a Cartesio. Dato che, infatti, egli caratterizza la materia come estensione spaziale, ed essendo questa l’essenza degli oggetti materiali, possiamo proporre una lettura di Cartesio in cui si afferma l’identità tra materia e spazio2. L’olandese Baruch Spinoza (1632-1677), che prende il sistema filosofico cartesiano come punto di partenza, difende questa concezione più esplicitamente nella sua Etica (1677) – che è soprattutto un trattato di metafisica –, dove sviCfr. Sklar, 1974, pp. 221-224. Cfr. soprattutto Princìpi di filosofia, seconda parte, §§ 4, 10-12. Sostenitori di tale interpretazione di Cartesio sono Hesse (1961, p. 103) e Hartz (1989, pp. 23-24); si veda invece soprattutto Woolhouse (1994, pp. 30-33) per una visione contraria a essa. 1 2

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luppa la sua teoria concernente la fisica – in particolare, nello scolio della proposizione 15. Egli presume che esista una sola sostanza, nel senso di un’unica entità la cui esistenza non dipende da altre. Spinoza, inoltre, ritiene che i concetti di fisico, materiale ed esteso abbiano lo stesso significato e la stessa estensione semantica. È interessante notare che si ritrova un’allusione a questa concezione anche in Newton nel suo manoscritto Della gravitazione (probabilmente redatto tra il 1665 e il 1670)3. Il filosofo contemporaneo Jonathan Bennett elabora in dettaglio l’interpretazione spinoziana dell’identificazione tra sostanza fisica e spazio, nel suo libro A Study of Spinoza’s “Ethics” (1984)4. Secondo Bennett, tutte le proposizioni che si riferiscono a oggetti nello spazio sono riducibili a proposizioni che si riferiscono a regioni di spazio, e che attribuiscono a esse proprietà fisiche. Bennett riassume la sua interpretazione di Spinoza come segue: Questa posizione suggerisce che vi sia una sola sostanza, lo spazio nella sua totalità, le cui regioni ricevono molteplici qualità come l’impenetrabilità, la massa e così via, in modo che una proposizione qualunque che affermi l’esistenza di un corpo sia riducibile a una proposizione esprimente qualcosa a proposito di una regione di spazio (Bennett, 1984, § 22.1, trad. di T. Ferrando).

Tuttavia, le proprietà fisiche delle regioni spaziali non sono identiche alle proprietà attribuite agli oggetti che troviamo in queste regioni. Bennett, allora, aggiunge ai concetti delle proprietà delle regioni di spazio un asterisco (*). Scrive: Dire di una pozzanghera che è viscosa equivale a dire di una certa regione di spazio che è viscosa*, ovvero che possiede quella proprietà specifica delle regioni che concettualizziamo dicendo che ci sono cose viscose. E dire che c’è una regione viscosa* equivale a dire che lo spazio è localmente viscoso* (ivi, § 23.5, trad. di T. Ferrando).

Ridurre la materia allo spazio significa, dunque, ricostruire le proprietà che attribuiamo agli oggetti che lo popolano in base a proprietà appartenenti a punti o alle regioni dello spazio in cui essi sono localizzati. Secondo questa concezione, la materia è identica allo spazio5. I punti o le regioni di spazio costituiscono la materia, e non soltanto Si veda la definizione di corpo. Cfr. Bennett, 1984, cap. 4. Per un’interpretazione contraria, cfr. soprattutto Curley, 1988, cap. 1. 5 Cfr. anche Clifford, 1876. 3 4

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le entità fisiche di base, ma anche gli unici oggetti del mondo fisico, possedendo proprietà fisiche, che sono tutte proprietà di punti o regioni spaziali. Il possedere proprietà fisiche conferisce allo spazio una struttura interna. Tale struttura è, a sua volta, costituita dalle diverse proprietà fisiche (o dai diversi valori di queste proprietà) che lo spazio possiede in diverse regioni. Si noti che non è possibile ricostruire questa concezione postulando uno spazio vuoto e poi aggiungendo la materia in un secondo momento (nel senso di acquisizione di proprietà fisiche da parte dello spazio): non esiste una distinzione ontologica tra spazio e materia. Non c’è spazio senza proprietà fisiche, e quindi non c’è spazio vuoto. Tuttavia, l’idea di ridurre tutte le proprietà fisiche alle proprietà di punti o di regioni spaziali si deve confrontare con due obiezioni conclusive: 1. Questa concezione non è in grado di spiegare quali siano le proprietà fisiche dei punti dello spazio a cui possiamo ridurre le proprietà fisiche tradizionali che attribuiamo agli oggetti localizzati nello spazio. Spinoza (e l’interpretazione di Bennett) non offrono argomenti per rispondere a questa domanda. Questa posizione si presenta come un’ontologia della fisica, in contrapposizione a una semplice ridescrizione linguistica, che impone l’uso di aggettivi al posto dei nomi per descrivere il contenuto dello spazio, ma non risolve alcuna questione ontologica. Per esempio, non si eliminano le sedie dell’ontologia dicendo: “Questa regione dello spazio è sediale” anziché dire “c’è una sedia in questa regione di spazio”. Per sostenere il super-sostanzialismo, è necessario indicare delle proprietà che siano autentiche dello spazio e alle quali possano essere ridotte tutte le proprietà fisiche6. 2. Il super-sostanzialismo non è in grado di rendere conto del movimento. Si può, per esempio, spostare una sedia (o qualsiasi oggetto o particella) da una regione dello spazio a un’altra. La sedia chiaramente rimane la stessa, ma la regione in cui è localizzata cambia; se essa fosse una proprietà della regione di spazio in cui si trovava in un certo tempo, ciò porterebbe alla conclusione assurda che essa non sia la stessa attraverso il tempo; diverse regioni dello spazio avrebbero acquisito successivamente la proprietà di essere “sediali”, di modo che ogni volta si tratterebbe di una diversa occorrenza di questa proprietà. 6

Cfr. Sklar, 1974 , pp. 166-167, 222-223.

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Se passiamo dallo spazio tridimensionale della fisica newtoniana allo spazio-tempo quadridimensionale della fisica relativistica, possiamo rispondere alla seconda obiezione. La sedia (e, in generale, qualsiasi oggetto materiale) può essere considerata come il contenuto (o anche la proprietà) di una regione di spazio-tempo e cercare di ricostruirne il movimento e il cambiamento su questa base. Inoltre, se si prende la teoria della gravitazione proposta nel contesto della relatività generale come modello, siamo in grado di affrontare anche la prima obiezione. 6.2. La geometrodinamica Il progetto che mira a identificare la materia con lo spazio-tempo riceve nuovo slancio nell’ambito della teoria della relatività generale, in quanto si può affermare che in tale ambito si riduca una proprietà materiale (la gravitazione) a una proprietà geometrica dello spazio-tempo. Considerando la geometrizzazione della gravitazione come punto di partenza, possiamo proporci di mostrare che tutte le proprietà materiali sono, in effetti, identiche a delle proprietà geometriche. Esiste un programma fisico concreto che va in questa direzione: la geometrodinamica concepita da John A. Wheeler dalla fine degli anni ’50. Questo programma propone di costruire la fisica riconoscendo come sostanza esclusivamente lo spazio-tempo. Il suo punto di partenza è quello di interpretare la teoria della relatività generale come una riduzione della teoria della gravitazione a una descrizione geometrica dello spazio-tempo (in particolare alla sua curvatura). Su questa base, la geometrodinamica di Wheeler prevede di ridurre anche l’elettrodinamica e la fisica delle particelle elementari a una descrizione geometrica dello spazio-tempo, senza riconoscere l’esistenza di nessun altro oggetto fisico (come particelle o campi presenti nello spazio-tempo, ma distinti da esso). Wheeler scrive: Lo spazio-tempo è solo un’arena in cui i campi e le particelle si muovono come entità “fisiche” ed “estranee” a esso? O il continuum quadridimensionale è tutto ciò che esiste? Una geometria curva e vuota può essere una sorta di magico materiale da costruzione in grado di costituire ogni elemento del mondo fisico: (1) una leggera curvatura in una regione dello spazio descrive un campo gravitazionale; (2) una geometria ondulata con un diverso tipo di curvatura descrive un campo elettromagnetico in un’altra; (3) una regione annodata ad alta curvatura descrive una concentrazione di carica e massa-energia che si muove come una particella? I campi e le

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particelle sono entità immerse nella geometria, o non sono altro che geometria? (1962b, p. 361, trad. di T. Ferrando e A. Oldofredi)7.

L’ipotesi è quindi che il mondo fisico sia identico al continuum spaziotemporale quadridimensionale e alle sue proprietà geometriche, come la curvatura. Le particelle e i campi non sarebbero entità supplementari rispetto allo spazio-tempo, ed esistenti in esso, ma spazio-tempo stesso fornito di alcune proprietà geometriche. Questa concezione risolve il problema (1) menzionato alla fine della sezione precedente: le proprietà geometriche possono senza dubbio essere considerate come autentiche proprietà dello spazio-tempo. Nonostante ciò l’ambizioso programma di Wheeler è fallito, dal momento che i seguenti problemi non sono stati risolti. 1. L’elettrodinamica: è stato dimostrato con diversi controesempi che la descrizione geometrica proposta dalla geometrodinamica non consente di distinguere nel contesto dell’elettrodinamica tra differenti e ben determinate condizioni iniziali fisiche8. 2. Le singolarità: la geometrodinamica voleva evitare le singolarità9. Questo tentativo non è riuscito, in quanto le equazioni relative alla struttura geometrica dello spazio-tempo non vi si applicano. Di conseguenza, se ci sono singolarità, esiste qualcosa che la teoria che dovrebbe descrivere la struttura geometrica dello spazio-tempo non può trattare10. 3. Le particelle elementari: le particelle elementari che compongono la materia sono fermioni (cioè particelle con spin semi-intero), come per esempio gli elettroni. Queste particelle, tuttavia, non possono essere trattate nel quadro della geometrodinamica11. È a seguito del terzo problema, in particolare, che nel 1973 Wheeler abbandonò la geometrodinamica come programma per la ricostruzione della fisica a partire dal solo spazio-tempo12. In sintesi, possiamo sempre difendere il super-sostanzialismo come un progetto metafisico, 7 Per un’esposizione dettagliata, si veda Wheeler, 1962a, soprattutto pp.  xi-xii, 8-87, 129-130, 225-236. Cfr. anche Graves, 1971, capp. 4 e 5, in particolare pp. 236, 312-318. 8 Cfr. Misner, 1974, pp. 12-14. 9 Wheeler, 1962a, in particolare pp. 25-31, 45-66. 10 Cfr. Stachel, 1974, pp. 33-39. 11 Cfr. ivi, pp. 45-46. 12 Cfr. Misner, Thorne e Wheeler 1973, § 44.3-4, in particolare p. 1205.

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ma non è chiaro come questo progetto possa essere compatibile con la fisica delle particelle elementari13. 6.3. Fisica relativistica e metafisica del tempo Anche se il programma volto a ridurre la fisica alla geometria dello spazio-tempo è fallito, la fisica relativistica propone la fusione di spazio e tempo in uno spazio-tempo quadridimensionale con una geometria determinata da coni di luce definiti in ogni suo punto (si veda il capitolo 4). Tuttavia, l’idea di unificare spazio e tempo nello spazio-tempo a quattro dimensioni sembra paradossale. Mentre lo spazio e il tempo sono entrambi omogenei (cioè, nessun punto nello spazio o nel tempo è privilegiato), il tempo è diverso dallo spazio poiché non è isotropico: esso ha una direzione privilegiata, che scorre dal passato al futuro, mentre non esiste una direzione privilegiata nel caso dello spazio. Se consideriamo il tempo come unito allo spazio in uno spazio-tempo quadridimensionale, si abbandonano la sua direzione e il sua passaggio come caratteristiche globali dell’universo. L’unificazione dello spazio e del tempo in uno spazio-tempo a quattro dimensioni ha avuto un impatto importante sulla filosofia del tempo. Secondo una concezione dell’esistenza che sembra essere vicina al senso comune, esiste solo ciò che è presente. Ciò che è futuro non esiste ancora e ciò che è passato non esiste più. Questa concezione è conosciuta come presentismo. Più in generale, secondo tale concezione ciò che esiste dipende dal tempo, nel senso che esiste solo ciò che vi è in un determinato momento. Possiamo affermare in questo contesto che esiste solo ciò che è presente, ma tuttavia, ammettendo come esistente in tale contesto sia ciò che è presente che ciò che è passato. Questa visione dell’esistenza presuppone una teoria del tempo concepita come scorrimento dal passato al futuro (il passaggio del tempo): un momento futuro si avvicina sempre più al presente, diventa presente, poi passato e se ne allontana sempre di più. Di conseguenza, i modi del tempo (passato, presente e futuro) sono suoi modi oggettivi. In seguito alla classificazione di McTaggart (1908), oggi questa concezione del tempo è chiamata la teoria A del tempo. È, per così dire, una teoria dinamica del tempo (tensed theory of time). In opposizione a questa visione del tempo e dell’esistenza ne esiste un’altra, secondo cui l’esistenza non dipende dal tempo. Al contrario, 13

Cfr. Lehmkuhl, 2016, per una valutazione contemporanea.

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tutto ciò che è nel tempo esiste semplicemente. Tutto nel mondo fisico esiste in un dato momento (e occupa un certo spazio), ma ciò non significa che esista solo ciò che vi è in un determinato momento. Possiamo caratterizzare questa concezione come una visione atemporale di ciò che esiste (tensless theory of existence). Questa posizione è anche conosciuta come eternalismo, perché l’esistenza non dipende da un certo tempo; essa è compatibile con la teoria dinamica del tempo (teoria A). Se ci basiamo sulla questa teoria, possiamo dire che ciò che è passato e ciò che è futuro esistono proprio come ciò che è presente. Tuttavia, questa concezione dell’esistenza è più vicina a un’altra teoria del tempo, che oggi chiamiamo teoria B, sempre seguendo McTaggart (1908). Secondo questa teoria, a esistere sono soltanto le relazioni “essere prima” (più presto), “essere dopo” (più tardi) ed “essere simultanei” tra istanti di tempo o eventi nel tempo. Ma non c’è un istante di tempo che può essere oggettivamente descritto come quello attuale. Di conseguenza, non c’è scorrimento del tempo dal passato al futuro attraverso il presente. Le modalità del tempo non sono, dunque, oggettive. Possiamo pertanto considerare che la teoria B è una teoria statica del tempo. Possiamo riassumere le relazioni logiche tra queste teorie nel modo seguente: (1) La teoria dinamica dell’esistenza implica la teoria dinamica del tempo. (2) Quest’ultima non implica la tuttavia la prima. Di conseguenza – da (1) –, la teoria statica del tempo implica la teoria statica dell’esistenza. Ma – da (2) –, la teoria statica dell’esistenza non implica la teoria statica del tempo. Le nozioni dei modi del tempo, cioè le nozioni di presente, futuro e passato non vengono utilizzate nelle scienze naturali in generale. Tuttavia, la teoria della relatività ristretta solleva un’obiezione alla teoria dinamica del tempo e dell’esistenza. Secondo la relatività ristretta, infatti, non esiste un presente oggettivo, dal momento che non esiste una simultaneità assoluta. Ciò che è presente è relativo a un dato sistema di riferimento, e non ve ne è alcuno privilegiato. Ciò che è presente (simultaneo) rispetto a un determinato sistema di riferimento può appartenere al passato di un altro sistema di riferimento, o al futuro di un terzo osservatore. Poiché non esiste un presente oggettivo, non vi sono modi di tempo oggettivi. Nel linguaggio della teoria della relatività ristretta, l’aggettivo “presente” (“ora”) ha lo stesso status dell’avverbio “qui”: entrambi indicano la posizione del soggetto parlante nello spazio-tempo quadridimensionale. Poiché non esiste un “qui” oggettivo, non esiste un “presente” oggettivo. Solo nel caso in cui scegliamo arbitrariamente un punto dello spazio-tempo come 67

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“presente” ci sono un futuro e un passato oggettivi relativi a questo punto, definiti dal suo cono di luce14. 6.4. Fisica e metafisica dell’universo blocco La visione statica del tempo e dell’esistenza applicata allo spaziotempo quadridimensionale della fisica della relatività è conosciuta come metafisica dell’universo blocco (block universe). In questo contesto, l’universo è concepito come un singolo blocco costituito dalla totalità dello spazio-tempo con tutto il suo contenuto, vale a dire tutto ciò che si trova nello spazio-tempo esiste semplicemente e costituisce il contenuto di tale universo blocco. Più precisamente, se si accettano i principi della costanza della velocità della luce e dell’equivalenza di tutti i sistemi di riferimento inerziali, quello che rimane è la scelta tra solipsismo ed eternalismo. In questo contesto, secondo il solipsismo esiste solo il punto dello spazio-tempo in cui ora mi trovo: dal momento che non esiste una simultaneità oggettiva nell’ambito della relatività, il presentismo si riduce alla posizione per cui esiste solo il punto spazio-temporale presente (ciò che è “qui” e “ora”). Ora, ogni punto dello spazio-tempo può pretendere di essere “qui” e “ora”. Se si vuole evitare l’assurda conclusione che il punto in cui mi trovo adesso è oggettivamente privilegiato, essendo l’unico vero “qui” e “ora” (solipsismo), dobbiamo affermare che tutti i punti dello spazio-tempo esistono semplicemente con tutto il loro contenuto fisico (eternalismo). Nessuna posizione intermedia è disponibile15. Se, per esempio, volessimo assumere la prospettiva per cui passato e presente esistano (il passato, in questo contesto, è definito dal cono di luce che passa per il punto di riferimento), arriveremmo alla seguente conclusione paradossale: nel momento in cui un evento futuro (nel cono di luce futuro del punto in questione) diviene reale, una parte di “altrove” diventa altrettanto reale, ma appartiene al passato senza essere mai stata nel futuro o nel presente del punto di riferimento (si veda la figura nel capitolo 4.3). Di conseguenza, l’unica posizione effettivamente difendibile, sulla base dei due principi della teoria 14 Riguardo a questa conseguenza si vedano Putnam, 1967; Stein, 1968, soprattutto pp. 15 e 18, e 1991, soprattutto p. 159; Dorato, 1995, capp. da 11 a 13, soprattutto pp. 186-187, 210; Sider, 2001, cap. 2.4; e Saunders, 2002. Questi autori sostengono tesi differenti (Stein si oppone a Putnam), ma sono d’accordo nel riconoscere questa conseguenza. 15 Cfr. Stein, 1968 e 1991; Saunders, 2002.

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della relatività ristretta che sono conservati nella teoria della relatività generale, è quella che sostiene che tutto ciò che è nello spazio-tempo quadridimensionale esiste semplicemente. Qual è il contenuto dell’universo blocco? In metafisica, è consueto distinguere tra le categorie di sostanza e di processo. In questo contesto, la nozione di sostanza si riferisce a un oggetto fisico che persiste interamente per un certo tempo o per l’eternità. Una sostanza non possiede parti temporali, ma solo parti spaziali (a meno che non sia indivisibile, come nel caso delle particelle elementari). Un processo, al contrario, è un oggetto fisico che ha parti spaziali e parti temporali, ed è costituito da eventi, nel senso di ciò che accade nei punti dello spaziotempo. Un processo è una serie continua di eventi che sono collegati tra loro da intervalli spazio-temporali di tipo tempo. Gli eventi sono, di conseguenza, le parti fondamentali dei processi. Essi sono oggetti fisici che persistono per un certo tempo e sono composti da eventi. Si dice che le sostanze endurano (cioè, continuano a esistere nella loro interezza per un certo tempo o eternamente), mentre i processi perdurano (cioè durano per un certo tempo, e non vi è un istante nel quale essi esistono completamente; possiedono parti temporali e parti spaziali) – endure e perdure, in inglese16. Nell’ambito dell’universo blocco, si può concepire ogni oggetto materiale come una sequenza spazio-temporale di eventi simili, chiamati eventi genidentici17. Si utilizzano i termini come “linea di universo” o “verme spazio-temporale”. Una pietra, per esempio, che consideriamo nel senso comune come una sostanza, completamente persistente nel tempo, è in realtà, secondo questa concezione, una serie continua di eventi spazio-temporali, cioè una serie continua di punti o regioni di spazio-tempo in cui esistono le proprietà fisiche che costituiscono la pietra. Molti filosofi, a cominciare da Bertrand Russell (1872-1970) e Willard Van Orman Quine (1908-2000), ritengono che la fisica della relatività parli a favore di una metafisica di eventi e processi18. Ciò che avviene in un punto o in una regione dello spazio-tempo  –  le proprietà fisiche esistenti nel punto o nella regione in questione – è determinato una volta per tutte e quindi immutabile, come l’universo blocco nel suo insieme. Tuttavia, è possibile proporre in questo contesto Cfr. Lewis, 1986b, p. 202 Per un’elaborazione di questa posizione si vedano Heller, 1990; Sider, 2001; Benovsky, 2006, prima parte; e Balashov, 2010. Sulla nozione di genidentità si vedano Carnap, 1928, §§ 128 e 159; e Reichenbach, 1956, p. 38. 18 Cfr. Russell, 1969, cap. 14; e Quine, 1960, § 36. 16 17

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la seguente ricostruzione di ciò che abitualmente consideriamo come il movimento di un oggetto attraverso lo spazio e il tempo: prendiamo una sequenza continua di punti o regioni dello spazio-tempo; questi punti sono separati da intervalli spazio-temporali di tipo tempo; eventi simili si svolgono in questi punti. È possibile considerare questa sequenza come una linea dell’universo o come una regione più estesa nello spazio-tempo. Ciò che è solitamente considerato il movimento di un oggetto attraverso lo spazio è in realtà una sequenza continua di punti o regioni di spazio-tempo che possiedono un contenuto fisico simile. Si deve considerare, tuttavia, la seguente obiezione: se sostituiamo particelle puntiformi con eventi puntiformi (che formano linee continue) e anche la geometria tridimensionale con una quadridimensionale per rappresentare le relazioni tra eventi, otteniamo una variazione nella configurazione degli eventi nell’universo blocco, ma non il cambiamento. Tuttavia, poiché queste relazioni esistono tutte insieme, non esiste alcun cambiamento. Solo se dividiamo l’universo blocco in ipersuperfici tridimensionali e le confrontiamo, siamo in grado di definire il cambiamento – che si riferirebbe alla differenze tra queste ipersuperfici. Queste sostituzioni, però, non riguardano l’ontologia, poiché essa consiste nel blocco quadridimensionale19. Questa obiezione, nondimeno, tralascia il fatto che la fisica relativistica e la metafisica dell’universo blocco non trattano il tempo come una dimensione supplementare dello spazio. I punti su ogni linea di universo sono ordinati secondo il criterio di essere prima o dopo, essendo questo ordine unico e avente una direzione. Ciò è anche implicato dalla teoria B del tempo. Di conseguenza, esiste un tempo locale per ogni oggetto (linea di universo), ma non un tempo globale. Confrontando diversi punti su ciascuna linea di universo, possiamo introdurre la nozione di cambiamento, in termini di differenza tra questi, tenendo conto che, per fare ciò, si deve presupporre un ordine temporale come fatto primitivo, che esiste indipendentemente dal cambiamento. Anche se in questo modo si può includere il cambiamento nell’universo blocco, non ne esiste alcuno per introdurre il divenire temporale, poiché non esistono eventi che diventino reali nel tempo. Tutto nel mondo fisico esiste atemporalmente e, in tal modo, il mio futuro esiste allo stesso modo del mio passato. Si può cercare di concepire una nozione di divenire temporale relativistica che sostituisca quella ordinaria20, ma questi tentativi non possono cambiare il fatto che, 19 20

Geach, 1965, in particolare p. 365, è il riferimento classico per questa obiezione, Cfr. Dorato, 1995, capp. 11-13; Dieks, 2006; Harrington, 2008.

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secondo la concezione dell’universo blocco, nulla può cominciare a esistere o diventare reale. Come dice il matematico e fisico Hermann Weyl (1885-1955): Il mondo oggettivo è semplicemente: non accade. Soltanto allo sguardo della mia coscienza, in movimento lungo la linea d’universo che rappresenta la vita del mio corpo, una sezione di questo universo può offrirsi come un’immagine che fluttua nello spazio e che cambia continuamente nel tempo. (Weyl, 1949, p. 140).

In conclusione, non è chiaro se la metafisica dell’universo blocco possa includere una concezione del cambiamento che soddisfi la nostra esperienza del mondo. 6.5. Il relazionalismo leibniziano nella fisica relativistica Il relazionalismo leibniziano deve far fronte a due problemi nel contesto della fisica relativistica, in particolare in relatività generale: le relazioni di distanza tra punti di materia sono sostituiti da relazioni spazio-temporali tra eventi, ed essi sembrano essere grandezze di campo piuttosto che particelle. Così, il relazionalismo sviluppatosi nel contesto della teoria della relatività generale è un relazionalismo di campi che comprende in particolare il campo metrico, e che dunque si avvicina al sostanzialismo sullo spazio-tempo (si veda il capitolo 5), in contrasto con quello leibniziano che comprende relazioni di distanza che individuano punti materiali (si veda il paragrafo 2.2). Tuttavia, un leibniziano può opporsi al relazionalismo di campo. Nella relatività generale (come in qualsiasi altra teoria di campo) i campi sono studiati a partire dal moto delle particelle. Non esiste alcuna prova diretta dell’esistenza di queste entità, dal momento che ogni prova sperimentale viene presentata sotto forma di posizioni e cambiamenti di posizioni di oggetti discreti. Così, tutte le determinazioni empiriche del campo gravitazionale consistono in osservazioni del movimento dei corpi, nel senso dei cambiamenti nelle relazioni spaziali tra loro. Anche nel caso di fenomeni puramente gravitazionali, come le singolarità dello spazio-tempo o le onde gravitazionali, tutto ciò che è osservabile è il cambiamento delle relazioni di distanza tra oggetti materiali. Come dice Einstein: Il campo gravitazionale si manifesta nel movimento dei corpi. Di conseguenza, il problema della determinazione del moto di questi corpi in base alle sole equazioni di campo è di fondamentale importanza (Einstein e Infeld, 1949, p. 209, trad. di T. Ferrando).

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Data questa situazione è possibile anche nella fisica relativistica considerare i campi (compreso quello metrico) come parte della struttura dinamica della teoria, piuttosto che considerarli come appartenenti all’ontologia primitiva. Da questo punto di vista, la geometrizzazione della dinamica, o la geometria che diventa dinamica, conferma semplicemente la posizione secondo cui la geometria dello spazio-tempo e i parametri dinamici formano un pacchetto che ha il compito di fornire una descrizione semplice e informativa del cambiamento delle distanze tra oggetti fisici. Il fatto che le particelle non appaiano nelle equazioni di campo della teoria della relatività generale non significa che non esistano particelle, ma che alla scala a cui si utilizza la teoria della relatività generale, si può astrarre dalla descrizione fondamentale della materia in termini di particelle puntiformi e sostituirla con una descrizione efficace in termini di campi, come un fluido non comprimibile o della “polvere cosmica”. Allo stesso modo, il fatto che la struttura dinamica della teoria della relatività generale non riveli le relazioni di distanza istantanee tra le particelle non significa che non esista alcuna configurazione di punti materiali individuati da tali relazioni. Sulla base di questa ontologia, rimane una questione aperta se la struttura dinamica che presenta la migliore descrizione del cambiamento di questi relazioni, realizzando il migliore equilibrio tra semplicità e contenuto informativo, è formulata in termini di interazioni istantanee tra le particelle (come in meccanica newtoniana) o in termini di interazioni ritardate (o anche anticipate), come nella fisica relativistica21. Inoltre, come per la meccanica newtoniana, è ugualmente possibile formulare una versione relazionalista della relatività generale, con delle configurazioni spaziali istantanee nella struttura dinamica, come per esempio la teoria di Barbour 22. L’argomento a favore di questo relazionalismo leibniziano è la sua parsimonia ontologica. Al contrario della metafisica dell’universo blocco, questa ontologia presuppone solo una condizione di spazialità minimale (vale a dire che le relazioni di distanza ammesse come primitive soddisfano la diseguaglianza triangolare; si veda il capitolo 2). In particolare, questa ontologia non presuppone alcuna condizione metrica rispetto al tempo (come gli intervalli spazio-temporali ben definiti tra i punti-eventi nell’universo blocco). Assumendo il cambiamento di queste relazioni di distanza come fatto primitivo, questa ontologia è empiricamente Cfr. Vassallo e Esfeld, 2016. Si vedano il capitolo 2.3 e Barbour, 2012; Gomes e Koslowski, 2013; e Gryb e Thébault, 2016 per una valutazione filosofica. 21 22

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corretta nel senso che non ha alcun problema a integrare il divenire temporale e il passaggio del tempo sulla base di questo cambiamento. In conclusione, le diverse posizioni che si possono adottare in relazione alla fisica relativistica confermano ancora una volta che l’ontologia è una questione filosofica. Non è fissata dalla struttura geometrica e dinamica proposta da una teoria fisica, qualunque sia tale struttura.

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7. LA NON LOCALITÀ QUANTISTICA

7.1. L’esperimento mentale di Einstein del 1927 Durante il congresso Solvay tenutosi a Bruxelles nel 1927, Albert Einstein ha proposto un “esperimento mentale” (Gedankenexperiment) volto a dimostrare chiaramente le difficoltà interpretative del contenuto fisico della meccanica quantistica. Qui di seguito viene proposta una versione di tale esperimento formulata da Louis de B ­ roglie (1892-1987) e pubblicata nel 1959, in quanto di più facile accesso: Consideriamo una particella chiusa in una scatola B le cui pareti sono impenetrabili. Supponiamo che attraverso una procedura qualsiasi, per esempio inserendo un doppio pannello attraverso la scatola B, la si riesca a dividere in due parti isolate B1 e B2 che vengono successivamente trasportate in due luoghi tra loro molto distanti, come Parigi e Tokyo. […] La particella resta allora potenzialmente presente nella totalità delle scatole B1 e B2, e la sua funzione d’onda  è composta da due rami di cui 1 è localizzato in B1, e 2 in B2. […] Le leggi della probabilità della meccanica ondulatoria ci dicono che se conduciamo un esperimento, a Parigi, sulla scatola B1 che ci permette di rilevare la presenza della particella al suo interno, la probabilità di ottenere un risultato positivo è |C1|2 mentre quella di ottenerne uno negativo è |C2|2. Secondo l’interpretazione usuale, ciò avrebbe il significato seguente: essendo la particella presente “potenzialmente” nella totalità delle due scatole prima dell’esperimento di localizzazione, essa si localizzerebbe improvvisamente nella scatola B1 a Parigi nel caso di un risultato positivo e si localizzerebbe improvvisamente nella scatola B2 a Tokyo nel caso di un risultato negativo (de Broglie, 1959, pp. 963-964, trad. di A. Oldofredi).

La meccanica quantistica rappresenta i sistemi fisici – come per esempio la particella di questo esperimento mentale – attraverso una funzione d’onda , la quale si sviluppa secondo un’equazione lineare e deterministica, vale a dire l’equazione di Schrödinger. Questa evoluzione porta come conseguenza il fatto che i sistemi fisici si possono rappresentare in termini di una sovrapposizione tra le diverse posizioni nello spazio fisico in cui essi possono essere localizzati – nel nostro esempio, prima dell’esperimento di localizzazione, vi è una sovrapposizione della 74

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posizione della particella nella scatola B1 e B2. Il significato operazionale di una sovrapposizione consiste nel poter calcolare le probabilità esatte di trovare la particella in uno dei termini della sovrapposizione, utilizzando una regola introdotta da Max Born (1882-1970) per cui, attraverso il quadrato del modulo (valore assoluto) della funzione d’onda ||2, vengono definite le probabilità dei risultati delle misurazioni. Nel nostro caso, vi è una probabilità del 50% di trovare la particella nella scatola B1 a Parigi, e una probabilità del 50% di trovarla nella scatola B2 a Tokyo. Tuttavia, la linearità dell’equazione di Schrödinger impedisce che tale sovrapposizione di stati possa rappresentare il fatto che dopo la misurazione, la particella sia localizzata o nella scatola B1 a Parigi o nella scatola B2 a Tokyo. Questa è la ragione per cui in meccanica quantistica si postula che, nel momento in cui si effettua una misurazione, l’evoluzione della funzione d’onda secondo l’equazione di Schrödinger viene sospesa e che la  “collassa” in uno dei termini della sovrapposizione. Il paradosso che Einstein cerca di mettere in evidenza attraverso il suo Gedankenexperiment è il seguente: supponiamo di aprire la scatola a Parigi e trovarla vuota. Di conseguenza, l’azione (locale) di aprire la scatola B1 (a Parigi) ha come effetto immediato un’alterazione (locale) nella scatola B2 a Tokyo, in quanto si ha che la particella si trova proprio in questa scatola. Prima dell’apertura di B1, la particella non si trova né nella scatola a Parigi né in quella a Tokyo. Questa è la motivazione per cui Einstein ha in seguito utilizzato l’espressione «fantomatico effetto a distanza»1: un’osservazione in un determinato luogo (in questo caso a Parigi), può avere come effetto immediato un cambiamento in un altro, separato dal primo da una qualsiasi distanza (in questo caso la distanza tra Parigi e Tokyo). Werner Heisenberg (1901-1976), collaboratore di Niels Bohr (1885-1962) e uno dei fondatori della meccanica quantistica, concorda con questa conseguenza. Egli risponde come segue all’esperimento mentale di Einstein: […] si comprende facilmente che questa azione si propaga con velocità superiore a quella della luce. È però ben evidente che una tale propagazione d’influenza non può affatto essere utilizzata per trasmettere un segnale con velocità superiore a quella della luce, di guisa che il comportamento qui segnalato del pacchetto d’onde non è affatto in contraddizione col postulato fondamentale della teoria della relatività (Heisenberg, 1976, p. 51). 1 In una lettera a Max Born, n. 84 del 3 marzo 1947, a p. 186 della già citata edizione italiana; in tedesco spukhafte Fernwirkungen (Born e Einstein, 1969, p. 215); nella traduzione inglese si legge spooky action at a distance (Born e Einstein, 1971, p. 158).

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Il collasso della funzione d’onda non può essere utilizzato per inviare segnali che si propaghino con una velocità maggiore di quella della luce, poiché il risultato di un tale collasso non può essere controllato. Nel nostro caso, i due possibili risultati (trovare la particella nella scatola B1 o B2) sono equiprobabili. Tuttavia, ciò non significa che non vi sia alcun conflitto con la teoria della relatività (ristretta e generale): queste teorie non parlano della possibilità o dell’impossibilità di inviare segnali a una determinata velocità, ma collocano tutto quello che può influenzare ciò che avviene in un determinato punto dello spazio-tempo nel suo cono di luce passato (o nel suo cono di luce futuro, ma mai al di fuori della struttura definita dal cono di luce; si veda il capitolo 4). Ora, nel nostro caso, vi è un’influenza tra eventi separati da un intervallo di tipo spazio. È proprio questa la non-località quantistica che preoccupa Einstein dal momento che è in chiaro conflitto con le sue teorie della relatività. Come Einstein anche de Broglie ritiene inaccettabile questa conseguenza, e trae la seguente conclusione dall’esperimento mentale einsteiniano: L’unica interpretazione ragionevole mi sembra essere questa: la particella era in una delle due scatole B1 o B2 già prima dell’esperienza di localizzazione, ma non sappiamo in quale, e le probabilità considerate dalla usuale meccanica ondulatoria riflettono questa ignoranza; se la rileviamo nella scatola B1 è perché era già in questa scatola, se non riusciamo a trovarla, allora essa è localizzata in B2. Tutto diviene chiaro perché torniamo all’interpretazione classica della probabilità, dove questa è conseguenza della nostra ignoranza. Ma dal momento in cui ammettiamo tale prospettiva, sembra che la descrizione della particella per mezzo dell[a funzione d]’onda , pur conducendo a una rappresentazione perfettamente esatta delle probabilità, non ci fornisca una descrizione completa della realtà fisica poiché la particella deve avere una posizione prima dell’esperimento che la riveli, e l[a funzione d]’onda  non ci dice nulla a riguardo (de Broglie, 1959, p. 964, trad. di A. Oldofredi).

Dunque, da ciò si conclude che la meccanica quantistica è incompleta, poiché ci fornisce soltanto le probabilità di trovare particelle qualora si osservino, ma non descrive né le loro posizioni reali, né le loro traiettorie. Affermare che le particelle non siano precisamente localizzate nello spazio fisico (e quindi non seguano traiettorie definite) porta all’assurda conseguenza di dover ammettere fantomatici effetti a distanza quando si misurano le loro posizioni. Che si accetti o non accetti il ragionamento di Einstein e de Broglie, l’esperimento mentale che abbiamo discusso delinea il seguente problema: o la meccanica quantistica nella sua formulazione standard è incompleta o implica ciò 76

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che Einstein chiama «fantomatici effetti a distanza»2. In altre parole, questo Gedankenexperiment evidenzia due problemi: il problema della non località (sembra che le operazioni in un ben determinato luogo possano influenzare in modo immediato ciò che succede a una distanza arbitrariamente grande nello spazio) e il problema della misura (sembra che l’operazione di misurazione crei una realtà fisica che non esiste indipendentemente da essa). 7.2. L’argomento di Einstein, Podolsky e Rosen del 1935 In un articolo pubblicato nel 1935 con i suoi collaboratori Boris Podolsky e Nathan Rosen (in seguito divenuto noto con l’acronimo EPR, dalle iniziali dei tre autori), Einstein estende e riformula l’esperimento mentale del 1927 proponendo un caso che coinvolge due particelle: essi considerano le posizioni e le velocità di due particelle simultaneamente emesse da una stessa fonte che si allontanano successivamente in direzioni spaziali opposte, in modo tale che la distanza che le separa aumenti gradualmente. A differenza della meccanica classica, nel caso quantistico, in virtù delle relazioni d’incertezza di Heisenberg, le particelle non possono avere un valore simultaneamente determinato per le grandezze di posizione e velocità, nel senso che non è possibile misurare contemporaneamente e con precisione arbitraria i valori di queste osservabili. Nell’esempio considerato da EPR, inoltre, la teoria quantistica afferma che se scegliessimo di misurare il valore della posizione di una delle due particelle otterremmo un risultato determinato, così come se misurassimo la posizione dell’altra; lo stesso risultato è valido se decidessimo di effettuare su questi oggetti misurazioni delle loro velocità. Tuttavia, se la meccanica quantistica esclude la simultanea attribuzione di un determinato valore di posizione e di velocità alle particelle quantistiche, si potrebbe concludere, quindi, che l’interazione locale con una di queste due particelle (scelta della variabile da misurare e ottenimento del risultato della misura) possa influenzare ciò che si verifica in un’interazione locale con l’altra particella, indipendentemente dalla distanza spaziale o spazio-temporale che le separa. Ancora una volta, questo esperimento mentale ci pone di fronte al seguente dilemma: o la meccanica quantistica è incompleta, dal momento che non rivela i valori di posizione e di velocità che gli oggetti quantistici possiedono 2

Cfr. Norsen, 2005.

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indipendentemente dai processi di misura, o essa implica la presenza di “fantomatiche azioni a distanza”, poiché un’interazione locale di misura su una delle due particelle influenza le proprietà dell’altra particella, indipendentemente dalla distanza che intercorre tra questi due oggetti. Il fisico americano David Bohm (1917-1992) nel 1951 ha proposto un esperimento mentale del tipo EPR che si presta ad analisi matematiche nettamente meno complicate. In questo caso, al posto di considerare la posizione e la velocità di due particelle, Bohm si concentra sul loro spin. Lo spin è un parametro che contribuisce al momento cinetico proprio di un sistema quantistico e figura solo nella struttura dinamica propria della fisica quantistica, essendo una quantità assente nel contesto della fisica classica. In natura esistono sistemi quantistici di spin semi-intero (fermioni) come, per esempio, gli elettroni. In questo caso lo spin può assumere soltanto due valori ben determinati in ogni direzione spaziale, vale a dire “spin positivo” e “spin negativo”. Ciò che vale per le variabili di posizione e di velocità nell’esempio di Einstein, Podolsky e Rosen vale anche per lo spin nella direzione dell’asse delle x (spin x), delle y (spin y) e nella direzione delle z (spin z): secondo la meccanica quantistica, se una particella ha un valore di spin determinato in una certa direzione, non ha valori di determinati per questa grandezza in nessun’altra direzione. Bohm (1951, pp. 611-622) immagina, dunque, una situazione in cui due particelle di spin semi-intero vengono emesse simultaneamente da una stessa sorgente e si allontanano in direzioni spaziali opposte, di modo che la distanza spaziale tra esse aumenti gradualmente. Se si sceglie di misurare lo spin x di una delle particelle e si ottiene un valore determinato come esito della misura, il risultato di un’osservazione della stessa grandezza (spin x) sull’altra particella indicherà invariabilmente il valore opposto a quello ottenuto nella prima misurazione; ciò resta valido se si sceglie di misurare lo spin nella direzione y o z. Ora, se la meccanica quantistica esclude che una particella abbia un valore definito di spin x e di spin y e di spin z, allora sembra che l’interazione locale con una delle due particelle possa influenzare i fatti che si verificano in un’interazione locale con l’altra particella, indipendentemente dalla distanza spaziale o spazio-temporale tra le due particelle. Matematicamente, in questo caso abbiamo a che vedere con una sovrapposizione antisimmetrica delle correlazioni (“prima particella spin positivo e seconda particella spin negativo” meno “prima particella spin negativo e seconda particella spin positivo”). Possiamo scrivere questo stato come segue:

(7.1)

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In questa espressione, 12 rappresenta lo stato di spin totale, cioè lo stato di spin delle due particelle, rispettivamente rappresentate da 1 e 2, il segno “  ” rappresenta il valore spin positivo e il segno “  ” rappresenta il valore di spin negativo. Il segno  indica il prodotto tensoriale tra i possibili stati di spin delle due particelle; in (7.1) 12 indica uno stato noto come “stato di singoletto” in cui il parametro totale di spin possiede un valore nullo (zero). 12 è uno stato puro, mentre nessuna delle due particelle che lo compongono si trova in uno stato puro, non possedendo un valore di spin determinato in nessuna direzione. In questo caso, parliamo non solo di una sovrapposizione di diversi e possibili valori di un parametro (in questo caso, una sovrapposizione tra spin positivo e spin negativo), ma anche di un entanglement degli stati di due o più oggetti. Lo stato di queste due particelle è espresso da una singola funzione d’onda 12 che stabilisce una correlazione tra i possibili valori di spin delle due particelle: se una di queste assume un valore di spin determinato in una direzione, l’altra particella invariabilmente assumerà il valore di spin opposto nella stessa direzione. Ora, l’acquisizione di un determinato valore di spin si verifica nel momento in cui si effettua un processo di misurazione, cosicché abbiamo nuovamente a che fare con la riduzione della funzione d’onda, ovvero con il suo collasso in uno dei due termini della sovrapposizione3:

(7.2)



(7.3)

Ancora una volta, ci domandiamo come vada interpretato il collasso della funzione d’onda durante un processo di misura. Se è qualcosa di epistemico (cioè un aggiornamento delle informazioni a disposizione dell’osservatore), ne consegue che la meccanica quantistica è incompleta, poiché il sistema è sempre o nello stato (7.2) o nello stato (7.3), ma la teoria non dispone dell’informazione sullo stato reale del sistema. Se è qualcosa di ontologico, la conseguenza è accettare che nella teoria quantistica vi siano ciò che Einstein chiamava “fantomatiche azioni a distanza”, poiché l’atto di effettuare una misura su una delle due particelle ha come conseguenza che entrambe acquisiscono un valore di spin determinato nella direzione misurata, indipendentemente dalla distanza che le separa. 3 Nel prossimo capitolo tratteremo in dettaglio il fenomeno del collasso della funzione d’onda.

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7.3. Il teorema di Bell del 1964 John S. Bell (1928-1990), matematico e fisico del cern di Ginevra, si è domandato se sia possibile completare la meccanica quantistica come proposto da Einstein, cioè evitando le “fantomatiche azioni a distanza” di cui abbiamo parlato in questo capitolo. Per rispondere a tale quesito, egli ha dimostrato un teorema il cui risultato stabilisce che nessuna teoria fisica a variabili nascoste in cui valga il principio di località è in grado di riprodurre la predizioni statistiche della meccanica quantistica. In questo enunciato del teorema di Bell dobbiamo interpretare il termine “predizioni statistiche” nel senso di distribuzioni probabilistiche su una serie di misure in certe condizioni: Bell riuscì a dimostrare che le assunzioni dell’argomento EPR, vale a dire quella del realismo locale – per cui gli oggetti quantistici possiedono proprietà indipendentemente dalla loro osservazione – e la località impongono delle restrizioni che sono empiricamente violate dalla teoria quantistica. Tuttavia, dato il suo straordinario successo empirico, si conclude dal teorema di Bell che un suo completamento con variabili nascoste locali non è possibile4. Torniamo all’esperimento mentale di Bohm e prendiamo in considerazione due particelle di spin semi-intero emesse contemporaneamente dalla stessa sorgente, nonché due eventi di misurazione di spin in una data direzione effettuati su ciascuna delle due particelle; questi eventi di misura sono separati da un intervallo di tipo spazio (si veda la figura 4.1). Siano A e B i due eventi di misura nelle regioni dello spazio-tempo 1 e 2, denotiamo con a e b i due parametri di spin misurati sulle due particelle e sia A una specificazione completa, secondo la teoria in considerazione, di tutto ciò che esiste (delle variabili nascoste) in una regione spazio-temporale 3a e 3b, che è localizzata nel cono di luce passato dei due eventi A e B, e che può influenzare, dunque, i loro risultati (si veda la figura 7.1). A partire da ciò, Bell usa la seguente ipotesi di località per la prova del suo teorema: data la specificazione di  nella regione 3a, b e B non contribuiscono a determinare ciò che accade nella regione 1 dove A è localizzato. Allo stesso modo, data la specificazione di  nella regione 3b, a e A non contribuiscono a determinare ciò che accade nella regione 2 dove B è localizzato.

4

Bell, 1964, ristampato in Bell, 2010, pp. 20-30.

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Fig. 7.1 – Diagramma spazio-temporale della situazione considerata da Bell nella prova del suo teorema. Immagine adattata da Seevinck (2010, appendice)

Formalmente, possiamo scrivere questa condizione di località come segue:

(7.4)

In questa formula, P (|) rappresenta la probabilità condizionata di ottenere un certo risultato di misura di spin A o B (A  1, B  1). Questa formula stipula che il risultato di misura A dipende unicamente da a e , ma che è indipendente sia da b che da B: dati b e B, la probabilità di A non cambia e viceversa. Da (7.4) possiamo derivare una condizione, nota con il nome di fattorizzabilità, che si può scrivere nel modo seguente:

(7.5)

Data , (7.4) ci dice che la probabilità del risultato di una misura sulla particella nella regione 1 dipende esclusivamente dalla variabile misurata su quella particella; analogamente, tale risultato è valido per la misurazione sulla particella nella regione 2. Questi fatti si esprimono dicendo che la probabilità per la congiunzione dei due risultati è fattorizzabile nelle probabilità dei rispettivi (singoli) risultati, sulla base della definizione di eventi indipendenti in teoria della probabilità. In breve, l’equazione (7.5) indica che le probabilità che compaiono nel lato destro dell’uguaglianza sono tra loro indipendenti. Per questa 81

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ragione, tale equazione descrive anche un sistema totale classico, come per esempio un lancio di due monete (le due particelle): la probabilità di ottenere come esito la congiunzione “testa” e “testa” è data dal prodotto delle probabilità di questi due eventi (che sono tra loro indipendenti): 0, 5   0, 5    0, 25. Oltre alla premessa di località (7.4), per dimostrare il suo teorema Bell ne utilizza un’altra che può essere caratterizzata come “condizione di indipendenza”: la scelta dei parametri da misurare a e b sono indipendenti da ; in altre parole,  non influenza queste scelte. La condizione di indipendenza si configura come un requisito generale per qualsiasi esperimento scientifico: se le scelte dei parametri da misurare in un sistema non fossero indipendenti dal suo stato passato, l’esperimento non sarebbe un modo affidabile per ottenere informazioni sul sistema in questione. In questi casi si parla anche di condizione di non-cospirazione, per cui lo stato passato del sistema non può esercitare alcuna influenza sui parametri da misurare. Questa premessa non dice nulla sul libero arbitrio degli sperimentatori visto che i parametri da misurare possono essere scelti da una macchina; essa esclude unicamente che  in qualche modo determini a e b. Il teorema di Bell afferma che nessuna teoria fisica che rispetti le condizioni di località e di indipendenza può riprodurre le previsioni statistiche della meccanica quantistica; questo enunciato è sperimentalmente verificabile. Tutti gli esperimenti volti a confermare o smentire questo teorema sono noti come “esperimenti di Bell”, anche se Bell stesso non ha mai direttamente preso parte ad alcun esperimento che andasse in questa direzione. La maggior parte di questi esperimenti presentano il seguente set-up: due particelle di spin semi-intero (più precisamente, due fotoni che si comportano, in questa situazione, come particelle di spin semi-intero) vengono emessi contemporaneamente dalla stessa sorgente e si allontanano l’uno dall’altro in direzioni opposte. Si determinano le variabili di spin da misurare sulle due particelle. Il confronto tra i risultati della misura conferma le previsioni della teoria quantistica. Tuttavia, i risultati della misura mostrerebbero correlazioni maggiori rispetto a quelle permesse se le condizioni di localizzazione e di indipendenza fossero state rispettate. Gli esperimenti condotti dal gruppo di Alain Aspect all’inizio degli anni ’80 a Parigi (Aspect, Dalibard e Roger, 1982) sono particolarmente significativi. I parametri di spin da misurare sono fissati in questi esperimenti solo dopo l’emissione delle due particelle dalla sorgente, e le due misure sono separate l’una dall’altra da un intervallo spazio-temporale di tipo spazio. Ciò consente di escludere qualsiasi 82

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possibilità di inviare un segnale che trasmetta a una particella le informazioni sulla variabile da misurare o sul risultato della misura sull’altra, considerato che la velocità di propagazione di qualsiasi segnale ha come limite superiore la velocità della luce (vari esperimenti sono stati condotti in seguito a quelli di Aspect)5. Poiché la premessa d’indipendenza è un requisito generale per tutti gli esperimenti scientifici, la premessa messa in discussione dal teorema di Bell e dalle sue prove sperimentali è quella della località (7.4). La meccanica quantistica viola tale condizione, e di conseguenza contraddice anche la condizione di fattorizzabilità (7.5): se è noto il risultato della misura di un’osservabile di una delle due particelle in seguito a una misurazione, allora le probabilità del risultato della misura della stessa osservabile sull’altra particella cambiano. Nel caso dello spin già considerato, i risultati di spin positivo e spin negativo non sono equiprobabili, un risultato è più probabile dell’altro. Per dimostrare ciò in un esperimento in cui sono coinvolte solo due particelle di spin semi-intero, si devono considerare le correlazioni statistiche che si ottengono quando c’è un certo angolo tra le direzioni di spin misurate su entrambe le particelle.

Fig. 7.2 – Schema di un esperimento di Bell con due fotoni emessi simultaneamente da una sorgente comune; la grandezza di spin viene misurata da detector. Gli eventi della scelta dei parametri da misurare e l’effettiva osservazione dei fotoni avviene in regioni spaziali separate di un intervallo di tipo spazio.

5

A tal proposito si segnala in particolare Tittel et al., 1998.

83

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Di conseguenza, si parla di non-località quantistica: le probabilità di risultati di misura in definiti punti dello spazio-tempo non sono completamente determinate da ciò che accade nei loro coni di luce passati; gli eventi situati in punti di spazio-tempo separati da queste regioni da un intervallo di tipo spazio contribuiscono a determinare le probabilità di ciò che accade in questi punti6. In altre parole, data la situazione rappresentata nella figura 7.1, è possibile concepire una situazione S (o mondo possibile) identica rispetto a essa per quanto riguarda il cono di luce passato dell’evento di misurazione in A (o B), per cui anche in questo mondo possibile avremo lo stesso cono di luce passato per A; tuttavia, in S, immaginiamo che vi sia una differenza nel cono di luce passato di B (o A). Ciò può essere causa di una differenza nelle probabilità del risultato di un’osservazione in A (o B)7. Non è quindi possibile completare la meccanica quantistica con parametri aggiuntivi (anche conosciuti come variabili nascoste) che siano locali, cioè che rispettino il principio di località (7.4). Per via del teorema di Bell e degli esperimenti sopra menzionati, si deve quindi cercare di rendere intelligibile la non-nocalità quantistica, piuttosto che parlare semplicemente di “fantomatiche azioni a distanza”.

6 7

Cfr. Maudlin, 2011, capp. 1-6. Cfr. ivi, pp. 118-127.

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8. LA FUNZIONE D’ONDA QUANTISTICA E IL PROBLEMA DELLA MISURA

8.1. I principi di separabilità e di azione locale Einstein riassume la sua filosofia della natura nell’articolo Meccanica quantistica e realtà (1948) come segue: […] è caratteristico degli oggetti fisici l’essere concepiti come disposti in un continuum spazio-temporale; in questa disposizione, appare essenziale il fatto che in un dato istante gli oggetti considerati della fisica reclamino un’esistenza singola autonoma in quanto “collocati in regioni distinte dello spazio”. Fuori dall’ipotesi di una simile esistenza autonoma (di un “esserecosì”) dei singoli oggetti spazialmente separati  –  ipotesi che deriva in primo luogo dalla riflessione quotidiana  –  non sarebbe possibile un pensiero fisico nel senso per noi abituale; né si vede come potrebbero essere formulate e verificate delle leggi fisiche senza una netta distinzione di questo tipo. La teoria dei campi ha portato alle estreme conseguenze questo principio, localizzando negli elementi spaziali infinitesimi (quadridimensionali) sia gli oggetti elementari – esistenti indipendentemente gli uni dagli altri – posti a base della teoria, sia le leggi elementari postulate per essa. Caratteristico della reciproca indipendenza tra due oggetti spazialmente separati (A e B) è il seguente principio, applicato in modo coerente solo nella teoria dei campi: un influsso esterno esercitato su A non ha alcun influsso diretto su B. La rinunzia radicale a questo “principio di contiguità” renderebbe impossibile l’idea dell’esistenza di sistemi (quasi) chiusi e quindi l’enunciazione di leggi empiricamente verificabili nel senso per noi abituale (Born e Einstein, 2015, p. 201).

In questa riflessione Einstein si basa sulle teorie di campo, come l’elettrodinamica di Maxwell e la sua stessa teoria della gravitazione, la teoria della relatività generale. Secondo queste teorie, ciò che esiste è localizzato in punti dello spazio-tempo, in modo tale che, se due oggetti fisici qualsiasi sono spazialmente separati allora i parametri che si attribuiscono a uno qualsiasi dei due oggetti sono indipendenti da quelli che si applicano all’altro. In altre parole, possiamo assegnare a ognuno di questi oggetti una descrizione del suo stato, indipendentemente da quello dell’altro. Lo stato del sistema totale composto da questi due 85

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oggetti, di conseguenza, è semplicemente dato dalla congiunzione (la somma, il prodotto) degli stati presi singolarmente dei due oggetti. Questo è, in sostanza, ciò che afferma il principio di separabilità. Il principio di azione locale prescrive invece che le interazioni tra oggetti fisici si propaghino da un punto dello spazio a un altro, e di conseguenza si trasmettano a una velocità finita (vale a dire, inferiore o uguale a quella della luce, ma mai superiore a essa). Ora, in fisica quantistica il parametro dinamico del campo classico viene sostituito dalla funzione d’onda, che è a sua volta un campo. Tuttavia, contrariamente ai campi classici, la funzione d’onda non è definita nello spazio fisico in tre o quattro dimensioni (spazio-tempo), ma nello spazio delle configurazioni. Se consideriamo N particelle, lo spazio delle configurazioni possiede 3N dimensioni, ovvero una dimensione per la posizione di ciascuna particella in ognuna delle tre coordinate dello spazio fisico. Se, per esempio, consideriamo una configurazione di tre particelle, lo spazio delle configurazioni avrà nove dimensioni. Ogni punto nello spazio delle configurazioni rappresenta, quindi, una possibile configurazione di particelle nello spazio fisico. Questo è il motivo per cui la teoria quantistica è una teoria non-classica: il parametro di campo che utilizza non viene definito nello spazio fisico. Poiché il parametro dinamico centrale della fisica quantistica è un campo definito sullo spazio delle configurazioni, lo stato che questo oggetto assegna ai sistemi fisici descrive l’intera configurazione di particelle considerate (ne segue che per l’intera configurazione di particelle che costituiscono il nostro universo, la funzione d’onda è dunque una funzione d’onda universale). In generale, non è possibile separare questo stato nei singoli componenti che verrebbero attribuiti a ogni singola particella. In breve, il motivo per cui il formalismo della meccanica quantistica rinuncia al principio di separabilità di Einstein, è che esso utilizza un parametro dinamico di campo definito sullo spazio delle configurazioni, non sullo spazio fisico. Tutti gli altri parametri dinamici (compresi massa e carica), inoltre, sono situati al livello della funzione d’onda, e nella fisica quantistica non possiamo considerare questi parametri come rappresentanti delle proprietà locali o intrinseche delle particelle. Per esempio, anche se consideriamo solo una particella quantistica con una funzione d’onda che indica una sovrapposizione delle possibili localizzazioni o traiettorie (come nel caso dell’esperimento mentale di Einstein del 1927 descritto nel capitolo precedente), gli effetti della massa o della carica della particella in questione possono in linea di principio essere testati 86

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su tutte le sue possibili posizioni o traiettorie1. Nello spazio delle configurazioni, la funzione d’onda segue un’evoluzione che corrisponde a quella di un campo locale, un’evoluzione descritta dall’equazione di Schrödinger (lasciamo per il momento da parte il postulato del collasso della funzione d’onda): (8.1)



ˆ , detto hamiltoniano, In questa equazione differenziale, l’operatore H rappresenta l’energia totale dell’oggetto o della configurazione di oggetti nell’argomento della funzione d’onda, e h- la costante di Planck divisa per 2. L’equazione (8.1) descrive così l’evoluzione temporale della funzione d’onda nello spazio delle configurazioni, e non l’evoluzione di posizioni o velocità delle particelle nello spazio fisico – come fanno invece le leggi di Newton o Lorentz. In altre parole, poiché la funzione d’onda si applica ai punti dello spazio delle configurazioni, la legge che descrive la sua evoluzione rappresenta l’evoluzione dell’intera configurazione, e non quella delle particelle prese individualmente. È evidente, dunque, che l’equazione di Schrödinger stabilisca una correlazione tra l’evoluzione dinamica di tutte le particelle che costituiscono una data configurazione. In breve, la violazione del principio di separabilità implica anche una violazione del principio di azione locale2. Da ciò è possibile anche comprendere le due caratteristiche che distinguono la non-località quantistica dall’azione a distanza che si ha nella fisica newtoniana. La non-località quantistica, innanzitutto, è indipendente dalla distanza spaziale che intercorre tra le particelle, mentre la gravità newtoniana diminuisce in funzione del quadrato della loro distanza – si veda in particolare l’equazione (1.3). Ciò è spiegato dal fatto che la funzione d’onda viene definita nello spazio delle configurazioni: essa si applica a una configurazione di particelle indipendentemente dalla distanza che le separa. In secondo luogo, la non-località quantistica è selettiva: le correlazioni EPR non si applicano a tutte le particelle indiscriminatamente, come accade invece per la gravitazione, ma solo a quelle in stato entangled. La fisica quantistica è per così dire discriminatoria, non vi è un entanglement di “tutto con tutto”, come vorrebbero alcune presentazioni popolari e inaccurate dell’olismo quantistico. Nella citazione d’apertura di questo capitolo, Einstein sottolinea fermamente l’importanza dei principi di separabilità e azione locale: 1 2

Cfr. Brown et al., 1995, 1996; e Esfeld et al., 2017. Cfr. Henson, 2013 e Esfeld, 2017 contro Howard, 1985 e 1989.

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egli afferma che senza il primo, «non sarebbe possibile un pensiero fisico nel senso per noi abituale; né si vede come potrebbero essere formulate e verificate delle leggi fisiche senza una netta distinzione di questo tipo». In relazione al secondo, egli afferma che «[l]a completa eliminazione di questo principio renderebbe impossibile l’idea dell’esistenza di sistemi (quasi) chiusi e la formulazione di leggi che possono essere verificate dall’esperienza nel senso che ci è familiare». In effetti, se questi due principi non fossero validi, non potremmo isolare oggetti fisici e ottenerne informazioni attraverso esperimenti (del resto l’universo intero non è un oggetto che può essere manipolato dall’esperienza scientifica). Queste osservazioni confermano, tuttavia, soltanto che non ha senso parlare di un entanglement universale. Anche se lo stato della configurazione di particelle dell’intero universo è entangled, la teoria deve consentire la descrizione di suoi sottosistemi, la cui evoluzione è quasi indipendente dal resto dell’ambiente. Per essere più precisi, le conseguenze nefaste di cui parla Einstein deriverebbero da una completa eliminazione dei principi dell’azione locale e di separabilità, e dunque, anche all’interno dello schema di Einstein, resta aperta la possibilità che una teoria abbandoni questi principi senza mettere in discussione la possibilità di testare le leggi fisiche facendo esperimenti su dei sistemi quasi isolati dal resto dell’universo. In questa sezione abbiamo visto (i) come la violazione dei principi di separabilità e azione locale è ancorata nel formalismo della meccanica quantistica, e (ii) che questa violazione è una conseguenza del fatto che tale teoria sostituisca un usuale parametro di campo definito sullo spazio fisico con uno (la funzione d’onda) definito sullo spazio delle configurazioni. Tuttavia, questa sostituzione apre la questione di come la funzione d’onda e la legge che ne determina l’evoluzione nello spazio delle configurazioni (l’equazione di Schrödinger) siano legate alla realtà fisica. Questa domanda solleva un problema che è conosciuto come il “problema della misura”. 8.2. Il problema della misura Il problema della misura è costituito dalle tre proposizioni seguenti3. 1. La funzione d’onda  fornisce una descrizione completa di oggetti quantistici, cioè una descrizione che raccoglie tutte le proprietà possedute da un certo oggetto in un dato momento. 3

Cfr. Maudlin, 1995, p. 7.

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2. La funzione d’onda  evolve nel tempo secondo l’equazione di Schrödinger, che è lineare e deterministica. 3. Quando viene effettuata una misurazione, si ottiene un unico risultato ben definito. Se, per esempio, misuriamo lo spin di un elettrone in una data direzione, otteniamo un risultato espresso da una determinata posizione della lancetta del dispositivo di misura; la lancetta può trovarsi esclusivamente in due ben determinati stati, in una posizione che indica “spin positivo” o in una posizione che indica “spin negativo”. A prima vista abbiamo buone ragioni per accettare ognuna di queste tre proposizioni considerate individualmente. Ora, anche se la congiunzione di qualsiasi coppia di tali proposizioni è consistente, la congiunzione totale di tutte queste proposizioni genera una contraddizione. Il problema riguarda in particolare il fatto che se consideriamo le prime due proposizioni come punto di partenza, arriviamo alla conclusione paradossale che, alla fine di un processo di misurazione, né l’oggetto misurato né lo strumento di misura possiedono uno stato determinato. Come conseguenza dell’equazione di Schrödinger, infatti, l’interazione che avviene nel processo di misura causa l’entanglement tra l’apparato classico di misura e il sistema quantistico osservato. Lo stesso Schrödinger mette in evidenza questo problema in un celebre esperimento mentale. Egli immagina che un gatto sia posto in una scatola chiusa, in modo tale che non si possa agire dall’esterno sul sistema in essa contenuto. Ivi è inserita anche una piccola quantità di atomi di una sostanza radioattiva, e un recipiente contenente un veleno che, se inalato dal gatto, provocherebbe immediatamente la sua morte. Se un atomo decade, si avvia un meccanismo che rompe la fialetta contenente il veleno, uccidendo così il gatto. Il decadimento di un atomo radioattivo è un tipico processo quantistico. Supponiamo che la probabilità che un atomo radioattivo decada in un’ora è di 1/2. Secondo l’equazione di Schrödinger, dopo un’ora, gli stati di tutti gli oggetti sono entangled. Di conseguenza, lo stato del sistema totale consiste in una sovrapposizione delle seguenti correlazioni: “nessun atomo decaduto, meccanismo non azionato, gatto vivo” e “un atomo decaduto, meccanismo azionato, gatto morto”4. Se consideriamo il gatto come un dispositivo di misurazione che indica se l’atomo sia effettivamente decaduto, l’applicazione del formalismo della teoria quantistica mostra, dunque, che lo stato del dispositivo 4

Cfr. Schrödinger, 1935, p. 812.

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di misura è entangled con lo stato del sistema quantistico, e pertanto non fornisce alcuna indicazione sul valore della proprietà misurata (l’“essere morto” o l’“essere vivo” del gatto, nel nostro esempio, si riferisce rispettivamente al fatto che almeno un atomo della sostanza radioattiva presente nella scatola sia effettivamente decaduto oppure no). L’aggiunta di un osservatore che apre la scatola non modifica questa situazione in termini di formalismo della teoria quantistica. In questo caso, lo stato del sistema totale è semplicemente una sovrapposizione di correlazioni: “nessun atomo decaduto, meccanismo non azionato, gatto vivo, osservatore che vede il gatto vivo” e “un atomo decaduto, meccanismo azionato, gatto morto, osservatore che vede il gatto morto”. A partire dal formalismo della teoria quantistica non abbiamo quindi accesso alla descrizione degli oggetti macroscopici (come i dispositivi di misura o gli osservatori umani) intesi come ognuno in possesso di uno stato determinato.

Fig. 8.1 – Il gatto di Schrödinger.

Questo problema è dello stesso tipo di quello considerato in precedenza nel paragrafo 7.2: invece di due particelle di spin semi-intero, in questo caso abbiamo a che fare con un oggetto microscopico e con un oggetto macroscopico composto a sua volta da tanti oggetti microscopici (come un gatto o un dispositivo di misura). Lo stato totale di questi due oggetti è entangled e non fattorizzato, cioè non descrivibile attraverso il loro prodotto, che descrive invece una situazione in cui ognuno dei due oggetti è in uno stato determinato e indipendente dallo stato dell’altro. 90

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Possiamo anche formulare il problema della misura nel modo seguente, mettendo l’accento non sul fatto che l’equazione di Schrödinger sia lineare, ma sul fatto che sia deterministica5: 1. La funzione d’onda  fornisce una descrizione completa di oggetti quantistici, ovvero una descrizione che raccoglie tutte le proprietà possedute da un certo oggetto in un dato momento. 2. La funzione d’onda  evolve nel tempo secondo l’equazione di Schrödinger. 3. Esperimenti descritti da identiche funzioni d’onda iniziali danno, a volte, esiti differenti; la probabilità di ogni risultato possibile è data dalla regola di Born. Anche in questo caso, la congiunzione di qualsiasi coppia di queste tre proposizioni è consistente, ma la congiunzione di tutte e tre porta a una contraddizione. In particolare, la congiunzione delle prime due proposizioni implica che la terza sia falsa. La meccanica quantistica, tuttavia, è una teoria che funziona molto bene; essa è, infatti, confermata dall’esperienza sperimentale e apre la strada a molte applicazioni tecniche, incluse quelle che sfruttano l’entanglement. La ragione per cui ciò accade è che tale teoria fornisce un algoritmo (basato sulla regola di Born) che consente di calcolare precisamente le probabilità relative ai possibili esiti di misurazioni, e tali previsioni trovano piena conferma empirica. La situazione si presenta, dunque, in questo modo: abbiamo un algoritmo che funziona molto bene, ma dobbiamo affrontare il problema della comprensione di ciò che questo algoritmo afferma sulla natura. Una formulazione di questo problema è costituita dalla congiunzione delle tre proposizioni viste poc’anzi. 8.3. La decoerenza Se la congiunzione delle tre proposizioni che costituiscono il problema della misura genera inconsistenze, dobbiamo allora abbandonare una di esse per poter ottenere una teoria coerente. Contrariamente a ciò, negli anni Settanta venne proposto un nuovo approccio (ancora oggi molto in voga tra fisici e filosofi della fisica) che suggerisce che si possa ottenere una teoria quantistica consistente senza dover necessariamente abbandonare nessuno di questi enunciati. Questo programma di ricerca 5

Cfr. Maudlin, 1995, p. 11.

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utilizza la nozione di decoerenza; l’idea che ne sta alla base è di non concepire un oggetto quantistico e un dispositivo di misurazione come isolati dal resto dell’universo, quanto piuttosto di prendere in considerazione anche l’ambiente esterno. In breve, la decoerenza mostra a prima vista che lo stato del sistema quantistico è entangled non solo con lo stato dello strumento di misura, ma con tutto il suo ambiente; di conseguenza tale prospettiva implica un “aumento” dell’entanglement invece che una sua riduzione. La teoria della decoerenza mostra anche che l’entanglement è diffuso nell’ambiente, implicando che è possibile fornire una descrizione dell’oggetto quantistico preso isolatamente, non considerando il suo stato entangled con l’ambiente (attraverso un’astrazione e semplificazione della situazione fisica in questione); e questa descrizione è utile nella pratica6. Dal punto di vista teorico, tuttavia, va sottolineato che la decoerenza non aggiunge nulla alla discussione sul problema della misura. In primo luogo, il fatto che si possa descrivere lo stato di un oggetto non considerando il suo essere entangled con lo stato di altri oggetti, non fornisce alcun argomento per concludere che in generale tale entanglement non esista più. In secondo luogo, non si può affermare che la decoerenza ci permette di spiegare perché gli oggetti appaiano a un osservatore come se avessero dei valori determinati per le proprietà che vengono misurate o osservate: la decoerenza non annulla la possibilità che se un osservatore interagisce con un oggetto si possa riproporre la situazione del gatto di Schrödinger; lo stato dell’osservatore stesso, infatti, diventa entangled con quello dell’oggetto osservato e di tutto il suo ambiente. In terzo luogo, anche se la decoerenza riuscisse a determinare una situazione in cui l’oggetto quantistico sia in uno stato determinato (che è matematicamente impossibile), il problema della misura come è stato presentato sopra rimarrebbe inalterato: le leggi dinamiche che regolano lo sviluppo dei sistemi quantistici sono deterministiche o indeterministiche. Nel primo caso, il risultato della misurazione è dipendente dalle condizioni iniziali dell’esperimento stesso; e qui la descrizione fornita dalla funzione d’onda non può essere completa, in quanto si possono concepire situazioni iniziali descritte da funzioni d’onda identiche, ma che portano a risultati differenti (come nel caso di qualsiasi misurazione dello spin di un elettrone). È quindi necessario indicare esplicitamente ulteriori variabili che determinino questo processo e che non vengono 6 Si vedano Bacciagaluppi, 2007, e Schlosshauer, 2007, nonché gli articoli in Giulini et al., 1996, e Blanchard et al., 2000.

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prese in considerazione dalla funzione d’onda – negazione della proposizione (1). Nel caso di una dinamica non deterministica, si deve allora introdurre in modo esplicito un’equazione non lineare e stocastica che rimpiazzi quella di Schrödinger – negazione della proposizione (2)7. 8.4. Il collasso della funzione d’onda La formulazione standard della meccanica quantistica che viene usualmente presentata nei manuali, risolve il problema della misura negando la proposizione (2): quando si effettua una misura, l’evoluzione temporale della funzione d’onda data dall’equazione di Schrödinger viene interrotta, e si assiste a una riduzione della sovrapposizione in uno stato in cui l’oggetto quantistico assume un valore determinato per l’osservabile misurata. Questa riduzione del pacchetto d’onde è nota anche come “collasso della funzione d’onda”. In altri termini, si produce una dissoluzione dell’entanglement in modo che tutti gli oggetti coinvolti acquisiscano uno stato determinato e siano tra loro correlati; tale processo è stocastico. Questa proposta è stata formulata in modo esplicito nel libro I fondamenti matematici della meccanica quantistica del 1932 del matematico Johann von Neumann (1903-1957), che si inserisce nella corrente di pensiero di Niels Bohr e Werner Heisenberg. Questa corrente è anche tradizionalmente conosciuta come la “scuola di Copenhagen”. Von Neumann, tuttavia, lascia aperta la questione riguardo a quali siano i processi fisici responsabili per il collasso della funzione d’onda (1932/1947, capitolo VI.1). Come già discusso in precedenza, se interpretiamo il postulato del collasso della funzione d’onda in senso epistemico, siamo obbligati a negare la proposizione (1): in questo caso, la funzione d’onda quantistica e la sua evoluzione secondo l’equazione Schrödinger da soli non sono sufficienti a descrivere lo sviluppo reale degli oggetti quantistici. D’altro canto, se si intende questo postulato ontologicamente, come descrizione di un processo fisico che si verifica in natura, ne consegue che esso sia non-locale. Tuttavia, come abbiamo visto nella sezione precedente, la non-località è ancorata in modo più profondo nel formalismo della meccanica quantistica: non viene introdotta dal postulato del collasso della funzione d’onda. Dobbiamo, dunque, distinguere tra la non-località e l’ipotesi che la misura crei una realtà che non esiste indipendentemente da essa. 7

Cfr. Maudlin, 1995, pp. 9-13 e Adler, 2003.

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Quest’ultima idea è, in effetti, priva di significato. La proposizione secondo cui il collasso della funzione d’onda sia un processo naturale causato da atti di misurazione (e solo da questi) è completamente ad hoc e incoerente: non c’è differenza fisica tra un processo di misurazione e qualsiasi altra interazione fisica. In altre parole, non esistono al contempo un’interazione gravitazionale, un’interazione elettromagnetica e, in più, un’interazione di misura che richiede una legge particolare. Poiché la misura è un’interazione, è ovvio che il risultato di un’osservazione esprima l’esito di quella stessa interazione, e che non sveli necessariamente lo stato dell’oggetto antecedente alla misurazione stessa. Tuttavia, è necessario distinguere questa trivialità dall’idea che un atto di misura crei una realtà che non esisterebbe indipendentemente da tale osservazione. I processi e i dispositivi di misura, inoltre, non sono generi naturali. Gli esseri umani usano vari oggetti fisici come dispositivi di misura secondo le loro esigenze; non si può dare una precisa definizione fisica di un dispositivo di misura e di un processo di misurazione. I dispositivi di misura sono un’invenzione degli esseri umani che compaiono in tarda epoca nell’evoluzione dell’universo e che presuppongono l’esistenza di oggetti macroscopici situati nello spazio (oggetti a loro volta composti oggetti microscopici). John Bell si prende gioco dell’idea che degli atti di misura (e solamente questi) inducano il collasso della funzione d’onda: [c]he cos’è di preciso che qualifica certi sottosistemi ad assumere questo ruolo [di apparati di misura]? E la funzione d’onda dell’universo attese miliardi di anni per fare salti, fino a quando non apparve un essere vivente unicellulare? Oppure dovette aspettare un po’ più a lungo, in attesa di un misuratore più qualificato (con un dottorato)? (Bell, 2010, p. 290).

Bell indirizza esplicitamente la seguente domanda ai fisici in un articolo sull’ontologia della teoria quantistica dei campi: [u]na spiegazione preliminare di questi concetti era intitolata Quantum field theory without observers, or observables, or measurements, or systems, or apparatus, or wave function collapse, or anything like that [Teoria dei campi senza osservatori, o osservabili, o misurazioni, o sistemi, o apparati, o collassi della funzione d’onda, o cose simili], il che potrebbe far pensare che l’argomento in questioni sia di tipo filosofico. Ma insisto nell’affermare che il mio interesse è di natura strettamente professionale. Penso che le formulazioni convenzionali della teoria quantistica, e in particolare della teoria quantistica dei campi, siano ben poco professionali nella loro vaghezza e ambiguità. I fisici teorici dovrebbero essere in grado di fare meglio (ivi, p. 230).

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Una possibile reazione a questa critica consiste nel ripiegare sul fatto che l’algoritmo quantistico (la regola di Born) funziona perfettamente per ottenere statistiche sui risultati di misura. Tuttavia, adottando questo atteggiamento, rinunciamo a una teoria che ci spieghi cosa succede tra la preparazione di un esperimento e la registrazione del suo risultato (in altre parole, una teoria che descriva i processi fisici che si verificano in natura durante i processi di osservazione). Ciò ha principalmente due conseguenze: da una parte, si riconosce che la meccanica quantistica è incompleta dato che non fornisce una spiegazione e una descrizione dei processi che si verificano in natura, e dall’altra, ne consegue la necessità di abbandonare l’idea della fisica come “teoria della phýsis”, cioè della natura. Nei due capitoli seguenti, tre (o meglio quattro) proposte saranno discusse per rispondere alla sfida proposta da Bell. Fare di meglio in questo contesto significa sviluppare una teoria quantistica che sia allo stesso livello teorico della meccanica classica, dell’elettrodinamica o della teoria della relatività. Fare di meglio, tuttavia, non significa fornire migliori previsioni di quelle ottenibili attraverso la teoria quantistica. Al contrario, l’obiettivo è di dedurre la regola di Born da un formalismo quantistico contenente leggi che descrivano ciò che accade nella natura.

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9. LA FISICA QUANTISTICA COME TEORIA SULLA NATURA

9.1. La teoria a molti mondi Torniamo al problema della misura; tale problema deriva dal fatto che la proposizione (1), secondo cui la funzione d’onda fornisce una descrizione completa degli oggetti quantistici, e la proposizione (2), per cui essa evolve dinamicamente secondo un’equazione lineare e deterministica (cioè l’equazione di Schrödinger), portano alla conclusione che, in generale, i processi di misura non producono risultati univoci: alla fine di una misurazione, il gatto di Schrödinger non è vivo o morto, ma in uno stato di sovrapposizione tra questi due stati. Tale conclusione, tuttavia, più che essere una rappresentazione fedele della realtà sembra essere una riduzione all’assurdo. In generale, se accettiamo che gli esiti di processi di misura abbiano risultati definiti, le proposizioni (1) e/o (2) devono essere modificate per risolvere questo problema. Ciononostante, si può anche adottare una posizione diversa secondo cui (1) e (2) costituiscono il nucleo del formalismo della meccanica quantistica e, dunque, questa teoria ci costringe ad ammettere che le misurazioni non abbiano, in generale, nessun risultato ben definito: il gatto di Schrödinger, allora, si trova in una sovrapposizione di stati (l’essere vivo e l’essere morto). Questa proposta radicale trova la sua prima compiuta elaborazione nella tesi di dottorato di Hugh Everett III (1930-1982)1. L’idea di base per una teoria della natura risultante dalla congiunzione delle proposizioni (1) e (2) è la seguente: ogni volta che il formalismo della meccanica quantistica descrive lo stato di diversi oggetti tra loro entangled, dove tale entanglement è costituito da una sovrapposizione di correlazioni, ciascuna di tali correlazioni viene considerata reale e persistente nel tempo; più precisamente, ognuna di esse costituisce un “ramo” dell’universo. Dunque, riconsiderando l’esperimento mentale del gatto di Schrödinger, esiste un ramo (i) dell’universo in cui nessun 1

Cfr. Everett, 1957.

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atomo nel contenitore è decaduto e il gatto è vivo, ed esiste anche un altro ramo (ii) dell’universo in cui uno degli atomi decade e il gatto è morto. Dal momento che ci sono molti stati entangled che consistono in un gran numero di sovrapposizioni, e dal momento che l’entanglement potrebbe toccare tutti gli oggetti dell’universo e tutte le possibilità di evoluzione di questi oggetti (se non c’è collasso della funzione d’onda), ne segue che esiste un numero grandissimo di rami dell’universo. Per ciascun oggetto, allora, ci sono un gran numero di copie che esistono in differenti rami dell’universo. Per questa ragione, la teoria di Everett è nota con il nome di teoria a molti mondi (many worlds). Considerando un osservatore, ciò che avviene è semplicemente quanto abbiamo descritto nella presentazione dell’esperimento del gatto di Schrödinger nel capitolo precedente: lo stato di coscienza dell’osservatore è correlato (entangled) con lo stato dell’oggetto. Segue dall’idea di Everett, dunque, l’esistenza di un gran numero di “copie” di ciascun osservatore e della sua coscienza, che esistono nei vari rami dell’universo. Ne consegue che vi sono rami dell’universo in cui l’osservatore percepisce un gatto vivo, e altri rami dell’universo in cui una copia dello stesso osservatore percepisce una copia dello stesso gatto, ma morto. Poiché non vi è alcuna interferenza tra questi rami (e tale risultato può essere provato sulla base della decoerenza), l’osservatore che vede il gatto vivo non ha alcun accesso cognitivo alla copia di se stesso che vede il gatto morto in un differente universo e viceversa. La sfida principale per l’interpretazione di Everett è quella di stabilire un collegamento tra questa teoria e la nostra esperienza. Non si può semplicemente abbandonare la proposizione (3) del problema della misura secondo cui la performance di misurazioni porta sempre a risultati ben definiti. Se questo enunciato non è corretto, allora diventa necessario spiegare perché il mondo ci appare come se ci fossero oggetti che hanno posizioni ben definite gli uni rispetto agli altri (come gli atomi che costituiscono il gatto e che sono configurati in modo tale che il gatto sia vivo o morto). La strategia seguita dai sostenitori dell’idea everettiana è quella di interpretare lo sviluppo della funzione d’onda dell’universo secondo l’equazione di Schrödinger come contenente la nostra esperienza. Everett stesso si è limitato a dire che i risultati dei processi di misurazione sono contenuti nei diversi rami della funzione d’onda dell’universo2. Tuttavia, questa risposta non è sufficiente, perché tutti i possibili risultati di una misurazione sono contenuti nei rami della 2

Cfr. Barrett, 2015.

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funzione d’onda dell’universo, ed è necessario spiegare perché uno di questi risultati, a esclusione degli altri, ci appare reale. Nella letteratura contemporanea si possono distinguere tre strategie per fornire tale spiegazione. 1. Le molte menti: secondo questa proposta, i diversi rami dell’universo esistono solo in relazione alla mente dell’osservatore. Parliamo in questo caso di molte menti (many minds), in contrapposizione ai molti mondi (many worlds). Ci sono, in questo caso, molteplici rami della mente di ogni osservatore tra i quali non ci sono interferenze, e ogni ramo della mente ha un’esperienza precisa (come la percezione di un gatto vivo o la percezione di un gatto morto)3. Si può obiettare a questa posizione che essa sposti il problema dalla relazione fra il postulato della ramificazione dell’universo e la nostra esperienza a una teoria della mente molto peculiare, la cui connessione con la nostra esperienza mentale non è affatto chiara. 2. Lo spazio delle configurazioni come spazio fisico: come spiegato nel capitolo 8, la funzione d’onda è definita nello spazio delle configurazioni. Se però la si interpreta come un oggetto reale che costituisce la realtà quantistica, ne segue che la nostra realtà fisica si riduce a un campo definito in uno spazio multidimensionale. In breve, lo spazio con tre o quattro dimensioni non può più essere lo spazio fisico; ciò che viene chiamato “lo spazio delle configurazioni” è da considerarsi il reale spazio fisico (erroneamente, a questo punto, perché non ci sono configurazioni di particelle rappresentate dai punti di questo spazio). In un secondo momento si cerca di interpretare l’evoluzione della funzione d’onda dell’universo in questo spazio in diversi rami attraverso la decoerenza, includendo un equivalente funzionale della nostra esperienza. Dunque, non ci sono configurazioni di atomi che compongono un gatto vivo o un gatto morto, ma c’è qualcosa nello sviluppo della funzione d’onda dell’universo che corrisponde funzionalmente alla nostra percezione di un gatto vivo o di un gatto morto4. 3. La funzione d’onda nello spazio fisico: anche se ammettiamo come oggetto esistente soltanto la funzione d’onda, possiamo sostenere la Cfr. in particolare Albert e Loewer, 1988, e Lockwood, 1989, capp. 12-13. Cfr. in particolare Albert, 1996 e 2015, capp. 6 e 7. Albert, tuttavia, ammette la possibilità di aggiungere un collasso della funzione d’onda nello spazio delle configurazioni o una particella-universo (‘the marvellous point) in questo spazio per risolvere il problema della misura. In ogni caso, secondo il suo punto di vista, qualunque sia la realtà fisica, essa si trova nello spazio delle configurazioni. 3 4

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posizione secondo cui i differenti rami dell’universo esistono nello spazio-tempo fisico in quattro dimensioni. Tuttavia, sembra che lo spazio-tempo stesso si moltiplichi ogni volta che la funzione d’onda si sviluppa in più rami, o si arriva alla conseguenza paradossale secondo cui proprietà mutualmente esclusive esistono nella stessa regione spazio-temporale, come un dispositivo di misurazione il cui puntatore indica 1 e lo stesso dispositivo il cui puntatore indica 1. In ogni caso, questa posizione cerca anche di spiegare la nostra esperienza attraverso un equivalente funzionale degli oggetti fisici ordinari nello sviluppo della funzione d’onda dell’universo nei suoi molteplici rami5. In ogni caso, l’idea che la realtà consista in uno sviluppo della funzione d’onda in più rami dell’universo lascia numerose questioni aperte: quando si verifica questo processo di ramificazione? Com’è possibile che gli oggetti, incluse le masse, si duplichino? Questo processo può rispettare la versione relativistica del principio secondo cui tutti i sistemi di riferimento inerziali sono equivalenti (invarianza di Lorentz: si veda il capitolo 4)? Inoltre, l’equazione di Schrödinger descrive uno sviluppo temporale reversibile, come fa in linea di principio anche la teoria della decoerenza. Lo sviluppo dei molteplici rami dell’universo è quindi anch’esso reversibile? Può esserci una fusione di rami? Riguardo alla nostra esperienza, non c’è solo il problema di spiegare come mai gli oggetti ci appaiano con posizioni ben definite, ma anche quello di sapere quale significato possiamo dare alle probabilità. La meccanica quantistica è una teoria che può essere interpretata operazionalmente, poiché la funzione d’onda rende possibile calcolare precisamente le probabilità per i risultati di misura. Tuttavia, secondo la teoria dei molti mondi, tutto ciò che è possibile secondo il formalismo della meccanica quantistica esiste fattualmente. Pertanto, le probabilità quantistiche non possono riguardare né il fatto che questo o quel risultato di una misura esista con l’esclusione di altri possibili risultati, né la nostra ignoranza su quale sarà il risultato di una misura. In altre parole, in una teoria deterministica come la meccanica classica, le probabilità traducono la nostra ignoranza sulle esatte condizioni iniziali, basandosi sull’ipotesi riguardo allo sviluppo tipico di un determinato sistema (si veda il paragrafo 3.2). Se secondo l’interpretazione a molti mondi, tuttavia, tutto ciò che è possibile esiste, questo modo di concepire le probabilità in una teoria deterministica è scartato. Sembra 5 Cfr. Wallace, 2012, parte I e III; cfr. anche Bell, 2004, cap. 15, sezione 5; e Allori et al., 2011.

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quindi che non ci sia nessun posto per le probabilità come guida alle azioni di agenti razionali, perché ogni possibile futuro di ogni agente sarà effettivamente esistente in un ramo dell’universo. In altre parole, per ogni possibile futuro di un individuo, vi è un suo duplicato che vivrà questo futuro. In ogni caso, lo status delle probabilità nella teoria everettiana è oggetto di controversie6. 9.2. La teoria GRW: versione Ghirardi Se accettiamo, al contrario di quanto accade nella teoria di Everett, che le misurazioni abbiano risultati definiti, possiamo seguire ciò che è scritto nei manuali di meccanica quantistica, e supporre che il postulato del collasso della funzione d’onda stabilisca il collegamento che consente di rappresentare i risultati di una data misurazione. Tuttavia, per costruire una teoria coerente su questa base, si deve modificare l’equazione di Schrödinger in maniera tale da ottenere un’equazione che includa uno sviluppo non lineare e stocastico per . Cerchiamo quindi di rendere preciso e comprensibile ciò che il postulato del collasso della funzione d’onda introduce in maniera arbitraria. Se ci proponiamo, in altre parole, di risolvere il problema della misura abbandonando la proposizione (2), è necessario formulare una dinamica coerente che porti a risultati di misurazione senza che si utilizzino nozioni come “misurazione” o “dispositivo di misurazione”, concetti che non ammettono specifiche definizioni fisiche. Esiste, a questo riguardo, una proposta dettagliata introdotta dai fisici italiani Gian Carlo Ghirardi, Alberto Rimini e Tullio Weber (GRW; 1986)7. Nella teoria GRW, l’evoluzione della funzione d’onda è data da una modificazione dell’equazione di Schrödinger. Questo cambiamento è basato sull’idea che la funzione d’onda subisca salti stocastici di localizzazione spontanea nello spazio delle configurazioni, tra due salti, tuttavia, la funzione d’onda evolve secondo l’equazione di Schrödinger. GRW introduce due parametri aggiuntivi, cioè la media  e l’ampiezza  dell’operatore di localizzazione della funzione d’onda nello spazio delle configurazioni. Si possono intendere questi due parametri come nuove costanti di natura, i cui valori sono dedotti sperimentalmente. Il valore comunemente accettato per  è dell’ordine di 1015s1; questo 6 Cfr. da un lato Wallace, 2012, parte II; Wilson, 2013; e dall’altro Dawid e Thébault, 2014; Maudlin, 2014; Dizadji-Bahmani, 2015; e Albert, 2015, cap. 8. 7 Cfr. anche Ghirardi, 2005, capp. 16.8 e 17.

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valore implica che la localizzazione spontanea della funzione d’onda di una particella individuale si verifica solo in una scala temporale astronomica dell’ordine di 1015s. D’altra parte, per un oggetto macroscopico composto da 1023 particelle, la localizzazione spontanea della sua funzione d’onda si verifica in una minuscola frazione di secondo. Di conseguenza, possibili sovrapposizioni macroscopiche (come quella tra lo stato “gatto vivo” e “gatto morto”) si dissolvono ben prima di essere empiricamente osservabili. L’idea è, quindi, che un oggetto microscopico preso isolatamente abbia una probabilità oggettiva molto bassa di subire una localizzazione spontanea in una posizione ben definita. Se, d’altra parte, consideriamo un oggetto macroscopico composto da un numero molto grande di particelle microscopiche, allora una di queste particelle subirà quasi immediatamente una localizzazione di modo che, grazie all’entanglement degli stati di queste particelle, avranno tutte una posizione definita. L’oggetto macroscopico sarà quindi in una posizione ben determinata. Pertanto, se si mette un oggetto microscopico in interazione con un oggetto macroscopico (come, per esempio, durante un processo di misura), lo stato del primo diventa entangled con il secondo, in modo che l’oggetto microscopico sia incluso nella riduzione di stato che si verifica in quello macroscopico. In tal modo acquisirà anch’esso una posizione determinata nello spazio fisico. Tuttavia, il semplice fatto di aggiungere un operatore di localizzazione della funzione d’onda all’equazione di Schrödinger non è sufficiente per risolvere il problema della misura, dal momento che abbiamo sempre a che fare con un’equazione che descrive l’evoluzione della funzione d’onda nello spazio delle configurazioni. Rimane quindi problematico collegare la funzione d’onda e la legge della sua evoluzione temporale – proposizioni (1) e (2) – agli eventi nello spazio fisico a tre o quattro dimensioni (come i risultati di misura che si verificano in precise posizioni nello spazio fisico – proposizione (3). Tutti gli approcci che accettano come punto di partenza che ci siano tali eventi che cercano di risolvere il problema della misura sostenendo che il formalismo della meccanica quantistica si riferisce a delle entità nello spazio fisico e che descrive la loro evoluzione, sono noti con il nome di teorie con ontologia primitiva8. Questo modo di utilizzare la nozione di ontologia primitiva è più stringente rispetto al modo in cui questo termine è stato introdotto nel capitolo 3. Nel contesto quantistico, parliamo anche di “esseribili locali” (local beables). John Bell (2010, cap. 7) ha creato questo 8

Cfr. Allori et al., 2008, 2014.

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neologismo per focalizzare l’attenzione sul fatto che ogni teoria fisica, per essere precisamente formulata, deve indicare esplicitamente quali entità esistano nello spazio e nel tempo, e che la nozione operativa di “osservabile” non debba essere considerata fondamentale, come invece accade nel caso dei manuali di meccanica quantistica. Rispondendo a questa sfida, Ghirardi propone un’ontologia secondo cui ciò che esiste nello spazio fisico tridimensionale è un campo di densità di materia (Ghirardi, Grassi e Benatti 1995). Questo campo m t (x) assume valori di densità di materia nei punti dello spazio fisico secondo la seguente legge, che stabilisce un collegamento tra la funzione d’onda nello spazio delle configurazioni e la distribuzione della materia nello spazio fisico9: (9.1)



In questa equazione, m rappresenta la densità di materia nei punti x dello spazio fisico R3 a un tempo t, k indica la variabile corrispondente alle particelle e Mk la massa della particella kappesima. Tuttavia, benché tale teoria sia formulata con un numero determinato di particelle k   1,  … , N essa non propone un’ontologia costituita da oggetti corpuscolari. Quindi, anche se aggiungessimo all’equazione di Schrödinger dei parametri che inducessero il collasso della funzione d’onda, sarebbe necessario concepire un’ulteriore legge che stabilisca un collegamento tra la funzione d’onda e la distribuzione della materia nello spazio fisico, anche se questa distribuzione è completamente rappresentata dalla funzione d’onda. Secondo questa teoria, nota come teoria GRWm, non ci sono particelle (cioè, non esistono oggetti discreti) in natura. C’è un solo oggetto nell’universo, vale a dire un campo di densità di materia che si estende in tutto lo spazio e possiede differenti gradi di densità nei suoi diversi punti che variano nel tempo. In altre parole, la teoria GRWm è l’esempio paradigmatico di un’ontologia che ammette un campo come unica forma di materia (si veda il capitolo 4). Questa teoria spiega la nostra percezione degli oggetti discreti mediante una concentrazione spontanea di densità di materia in alcune regioni dello spazio. Tale concentrazione è rappresentata nel formalismo GRWm dalla localizzazione spontanea della funzione d’onda nello spazio delle configurazioni. Per illustrare cosa si intende con localizzazione spontanea secondo questa teoria, torniamo un momento 9

Cfr. ivi, sez. 3.1.

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all’esempio della particella nel box presentato da Einstein durante il Congresso Solvay del 1927 e discusso nel capitolo 7. Quando la scatola è divisa in due metà B1 e B2 di uguali dimensioni, la densità di materia della particella è anch’essa divisa in due parti di eguale densità che si propagano in direzioni opposte, dal momento che le scatole vengono spedite da Bruxelles a Parigi e Tokyo rispettivamente. Supponiamo di aprire la scatola B1 a Parigi e trovarla vuota. Per questo caso, la teoria GRWm propone la seguente spiegazione: al momento dell’apertura della scatola B1 a Parigi, la parte della densità di materia della particella in questa scatola si disloca immediatamente in modo che tutta la densità di materia relativa alla particella si ritrovi concentrata nella scatola B2 a Tokyo. Questa delocalizzazione è rappresentata dal collasso del funzione d’onda della particella nello spazio delle configurazioni, collasso indotto dall’apertura della scatola a Parigi. Tuttavia, questa delocalizzazione non è uno spostamento che avviene con una certa velocità, bensì ha luogo istantaneamente, qualunque sia la distanza da percorrere nello spazio fisico. Questa spiegazione richiama la critica di Einstein in termini di “azione a distanza”, ovvero un trasporto istantaneo di materia (massa) attraverso distanze spaziali arbitrariamente grandi. Non si ha la certezza, inoltre, che la teoria GRWm fornisca veramente una soluzione al problema della misura. Il dibattito si focalizza sul fatto che, in seguito a una localizzazione spontanea della funzione d’onda nello spazio delle configurazioni, la maggior parte della densità di materia rappresentata dalla funzione d’onda in questione è concentrata in un preciso luogo dello spazio fisico, ma c’è ancora una piccola frazione della densità di materia che non è localizzata nello stesso luogo. A questo riguardo, è utile riconsiderare l’esperimento del gatto e considerare una situazione in cui l’evoluzione determinata dall’equazione di Schrödinger porti a una sovrapposizione di due stati macroscopici di uguale probabilità (gatto vivo e morto). L’evoluzione secondo l’equazione GRW garantisce che i due stati in sovrapposizione non rimangano uguali, ma che uno di essi (per esempio quello che corrisponde a un gatto morto) si avvicini all’unità, mentre l’altro diventi estremamente piccolo (approssima lo zero). In termini di densità di materia questo significa che, anche se la maggior parte della densità che costituisce il gatto è in una forma tale che esso sia morto, c’è ancora una piccola concentrazione di questa densità nello stato “gatto vivo”. Il problema, dunque, è che la concentrazione di densità di materia del “gatto vivo”, non importa quanto piccola, è funzionalmente e strutturalmente identica a quella del “gatto morto”. In breve, sembra che se uno dei due 103

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risultati sia reale, l’altro in qualche modo lo sia altrettanto10. In ogni caso, la teoria GRW non può riprodurre esattamente le previsioni a cui i libri di testo della meccanica quantistica giungono usando la regola Born. Ci sono situazioni in cui vi è una lieve differenza tra i due tipi di predizioni. Questo fatto apre, almeno in linea di principio, la strada a dei test sperimentali della teoria GRW11. 9.3. La teoria GRW: versione Bell C’è un altro modo di risolvere il problema del collegamento tra la funzione d’onda e la sua evoluzione secondo l’equazione GRW nello spazio delle configurazioni da un lato, e la materia e la sua evoluzione nello spazio fisico dall’altro. Non è necessario, infatti, attribuire al collasso della funzione d’onda un significato ontologico di dislocazione istantanea della materia nello spazio fisico (che è proprio ciò che Einstein mira a colpire). Bell (2010, cap. 22) propone che solo gli eventi di localizzazione spontanea della funzione d’onda nello spazio delle configurazioni rappresentino la materia nello spazio fisico, ma non la sua evoluzione tra due salti. A ogni evento di localizzazione spontanea della  nello spazio R3N corrisponde la comparsa di materia concentrata intorno a un punto nello spazio fisico. È diventato abituale chiamare questi eventi “flashes”12, e la teoria è nota quindi come teoria GRWf. I flashes sono tutto ciò che esiste nello spazio-tempo: data una distribuzione iniziale di flashes, la funzione d’onda descrive la probabilità oggettiva che altri eventi di localizzazione si verifichino intorno ad alcuni punti spazio-temporali. Tuttavia, nessun evento o processo nello spazio-tempo consiste in una riduzione di sovrapposizioni o di stati entangled che corrisponderebbero alla riduzione della funzione d’onda nello spazio delle configurazioni. La ragione è che non ci sono sovrapposizioni o stati entangled nello spazio-tempo fisico, ma solo flashes in ben determinati punti dello spazio-tempo. Prendendo alla lettera le conseguenze dell’assunzione di questa ontologia, gli oggetti macroscopici sarebbero “galassie di flashes”. Anche se si può supporre che tale idea permetta di ricostruire gli 10 Cfr. Maudlin, 2010, pp. 134-138; per una conclusione opposta, cfr. Monton, 2004; Wallace, 2014; Albert, 2015, pp. 150-154; Egg ed Esfeld, 2015, sezione 3. 11 Cfr. Curceanu et al., 2016. 12 Questo termine è stato introdotto da Tumulka, 2006, p. 826.

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oggetti macroscopici13, la distribuzione dei flashes nello spazio-tempo è sparsa: ci sono flashes solo nei punti spazio-temporali in cui avviene una localizzazione spontanea, in accordo con il formalismo della teoria GRW. Questo fatto è problematico per il seguente motivo: la teoria GRWf rende conto della comparsa e scomparsa spontanea dei flashes, ma non è in grado di trattare le interazioni. In particolare, la concezione delle interazioni di misura prevista nel formalismo originale di GRW (Ghirardi, Rimini e Weber, 1986) non si applica a un’ontologia dei flashes. Anche se si ammette che un dispositivo di misura sia costituito da una “galassia di flashes” non c’è nulla, secondo la teoria GRWf, con cui il dispositivo di misura interagisca: né una particella che entra nel dispositivo, né una densità di materia o un’onda. C’è solo un flash nel suo cono di luce passato (che prende il posto di quello che è solitamente considerato un oggetto quantistico), ma questo flash è effimero, come tutti gli altri. In breve, si può dubitare che la teoria dei flashes abbia i mezzi concettuali per costituire un’ontologia convincente della nostra realtà fisica.

13

Cfr. l’obiezione di Maudlin, 2011, pp. 257-258.

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10. FISICA QUANTISTICA E FISICA CLASSICA

10.1. La meccanica bohmiana Considerando la discussione delle teorie di Everett e GRW svolta nel capitolo precedente, si possono mettere in evidenza tre caratteristiche comuni a questi framework teorici. Innanzitutto, (i) il formalismo di queste teorie è concepito in termini di variabili denotanti posizioni di particelle, proprio come quello della meccanica classica; lo spazio delle configurazioni, infatti, è definito in funzione del numero di particelle considerate in una data situazione fisica. Nondimeno, nell’ontologia di tali teorie non sono contemplati oggetti corpuscolari: da un lato, secondo la teoria di Everett esiste solo la funzione d’onda, dall’altro, ciò che esiste nell’universo per la teoria GRW, sono o un campo di densità di materia (GRWm) o degli eventi di localizzazione isolati (i flashes di GRWf ). Inoltre, (ii) il parametro che si riferisce alla posizione svolge un ruolo cruciale in questi formalismi: in Everett la ramificazione della funzione d’onda si riferisce alle diverse posizioni presenti nel suo argomento, mentre in entrambe le versioni della teoria GRW, attribuiamo sempre alla posizione un valore definito (la densità di materia nei punti di spazio da una parte, la posizione dei flashes dall’altra) e ricostruiamo tutte le altre osservabili su questa base. Infine, (iii) la discussione della teoria GRWm ha dato chiare indicazioni di come il postulato del collasso della funzione d’onda concepito ontologicamente, e quindi ritenuto un processo fisico, fornisca una spiegazione problematica della non-località quantistica; è lecito chiedersi, dunque, se si possa rinunciare a esso nelle leggi che supponiamo rappresentino ciò che accade in natura. Ciò detto, la questione da porsi è allora se possiamo trasformare un formalismo che soltanto superficialmente si riferisce a particelle, in un’effettiva ontologia per la meccanica quantistica, propriamente concepita e formulata in termini di particelle caratterizzate dalle loro posizioni nello spazio fisico e governate da un legge che ne descriva l’evoluzione. 106

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Questo progetto può essere motivato anche in virtù del seguente ragionamento, che ricalca quello di Bell esposto in precedenza, basato sulle possibili soluzioni al problema della misura in termini di “esseribili locali” definite nello spazio fisico1: (i) qualsiasi risultato di misurazione consiste in una posizione precisa di un oggetto, come il puntatore di un dispositivo che indica una determinata direzione, un punto su uno schermo, ecc. (ii) Se gli oggetti macroscopici (come i dispositivi di misurazione) si trovano situati nello spazio, gli oggetti microscopici che li compongono si trovano conseguentemente anch’essi nello spazio, (iii) Gli oggetti macroscopici sono localizzati indipendentemente dal fatto che qualcuno li osservi (e affermiamo ciò rifacendoci al senso comune). Sarebbe assurdo, per esempio, presumere che la luna non occupi una precisa posizione quando non osservata (magari perché il cielo è troppo nuvoloso). (iv) Segue da (ii) e da (iii) che gli oggetti microscopici che compongono quelli macroscopici sono localizzati indipendentemente da qualsiasi osservazione. Dunque, concludiamo che (v) gli oggetti microscopici sono localizzati quando compongono gli oggetti macroscopici se e solo se sono sempre localizzati. Sarebbe assurdo assumere che un oggetto macroscopico (come un dispositivo di misura) possa interagire con un oggetto microscopico non localizzato in alcun luogo nello spazio, e che tale interazione in qualche modo “costringa” l’oggetto microscopico ad assumere istantaneamente una posizione. Di conseguenza, siamo portati a supporre che il collasso della funzione d’onda non sia un processo fisico che si verifichi nello spaziotempo. Questo argomento porta alla seguente conclusione: l’ontologia primitiva di particelle non cambia durante la transizione dalla fisica classica alla fisica quantistica. Ciò che cambia è la struttura dinamica delle teorie, vale a dire la legge che governa il moto delle particelle. Possiamo far risalire la prima teoria fisica che implementa tale conclusione – presentata al congresso di Solvay nel 1927 – al fisico francese L. de Broglie (1928). Essa fu poi sviluppata e ampliata dal fisico statunitense D. Bohm nel 1952 e in seguito ulteriormente elaborata da Bell negli anni ’602. La versione sviluppata da Bell è attualmente la più diffusa, ed è nota come “meccanica bohmiana”3. Possiamo riassumere la struttura fondamentale della meccanica bohmiana con i seguenti quattro postulati: Cfr. Bell, 2010, in particolare il cap. 7. Cfr. ivi, in particolare i capp. 3, 4, 17. 3 Cfr. Dürr, Goldstein e Zanghì, 2013, e Dürr e Teufel, 2009 per un’introduzione matematica e fisica alla teoria; e Goldstein, 2006 per un’introduzione di facile accesso. 1 2

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1. Esiste sempre una configurazione Q nell’universo che contiene un numero N di particelle costante caratterizzate unicamente dalle loro posizioni (Q1, t , Q2, t , …, QN, t)  R3 nei punti dello spazio euclideo tridimensionale a ogni istante di tempo t  R. 2. La funzione d’onda è il parametro dinamico centrale della teoria, e ha il compito di determinare la velocità delle particelle nel tempo data la loro posizione. La funzione d’onda, dunque, guida letteralmente le particelle, ragion per cui la legge del moto che ne governa l’evoluzione temporale è conosciuta come equazione di guida:

(10.1)

dove h- è la costante di Planck divisa per 2p,  è la parte immaginaria e m la massa (per semplificare il formalismo dell’equazione assumiamo che la massa abbia un valore costante per tutte le particelle). 3. La funzione d’onda, a sua volta, si sviluppa dinamicamente secondo l’equazione di Schrödinger. 4. L’equazione di guida e l’equazione di Schrödinger sono legate a una misura di probabilità, conosciuta come “ipotesi di equilibrio quantistico”, che implica la regola di Born per la predizione dei risultati di misurazioni su sottosistemi dell’universo. Partendo da questi postulati, la meccanica bohmiana deduce l’algoritmo quantistico presentato nei manuali di testo4. Il primo postulato contiene il cuore, l’aspetto principale della soluzione che la meccanica bohmiana propone per risolvere il problema della misura: c’è sempre una determinata configurazione di particelle nell’universo con una precisa posizione nello spazio fisico; il gatto di Schrödinger, quindi, si trova sempre o in una configurazione che costituisce il gatto vivo o in una che costituisce il gatto morto. Non vi è sovrapposizione di stati in natura. Tuttavia, le posizioni reali che tali oggetti assumono nello spazio fisico non sono conoscibili; ne segue che la teoria bohmiana rifiuta la proposizione (1) del problema della misura, secondo cui la funzione d’onda fornisce una descrizione completa degli oggetti fisici (si veda il paragrafo 8.2). Per questa ragione, in letteratura si sostiene che questa teoria aggiunga variabili cosiddette “nascoste” al formalismo standard della meccanica quantistica. Tuttavia, l’espressione “variabili nascoste” può generare un malinteso, dal momento che ciò 4 Per questo risultato, cfr. principalmente Dürr, Goldstein e Zanghì, 2013, cap. 2, e Goldstein e Struyve, 2007.

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di cui si ha evidenza e ciò che spiega l’evidenza stessa sono proprio le posizioni degli oggetti nello spazio fisico, sebbene i valori di tali posizioni non siano conoscibili. In breve, se c’è qualcosa di “nascosto”, è piuttosto la funzione d’onda (in quanto non è mai osservabile). A tal proposito Bell sostiene con vigore che considerare, nella teoria di Bohm, le posizioni delle particelle “variabili nascoste” e non la funzione d’onda è “un esempio di stupidità storica” (Bell 2010, p. 217). In effetti, egli sottolinea (ivi, p. 222) che ogni risultato di misura consiste nell’osservazione di una posizione precisa di un determinato oggetto. In altre parole, tutte le misurazioni vengono ridotte a misure di posizione, e tutti i risultati di misura, conseguentemente, vengono registrati in termini di posizioni di oggetti, come accade per esempio nel caso di una determinata posizione di un puntatore di un dispositivo di misura. Anche nel celebre esperimento della doppia fenditura, che si suppone metta in evidenza la natura ondulatoria degli oggetti quantistici, ciò che viene osservato sono le tracce lasciate da particelle sotto forma di punti su uno schermo. Durante la discussione delle teorie di campo classiche, inoltre, abbiamo mostrato che tutta l’evidenza sperimentale è costituita dalle posizioni relative delle particelle e dal cambiamento della loro posizione: i campi sono introdotti per spiegare appunto tale cambiamento (si vedano i paragrafi 4.2 e 6.5); ecco spiegato il motivo per cui la meccanica bohmiana privilegia la posizione, che risulta essere l’unica proprietà di tali oggetti. Le altre osservabili quantistiche, compreso lo spin, non sono proprietà intrinseche degli oggetti quantistici, e nemmeno le proprietà contestuali, ovvero le proprietà che esistono solo nel contesto delle misurazioni. Questo è semplicemente il modo in cui gli oggetti si comportano in determinate situazioni sperimentali, ossia è una rappresentazione certe forme del movimento di oggetti5. Pertanto, la meccanica bohmiana pone tutti i parametri (tra cui la massa e la carica) nella funzione d’onda, che, come detto, è il parametro dinamico centrale dell’intera teoria6. Il parametro m nell’equazione guida (10.1), dunque, è solo una costante e non una proprietà appartenente alle particelle prese individualmente. Inoltre, anche nel contesto della meccanica bohmiana si deve tener conto della non-località quantistica stabilita dal teorema di Bell (si veda il paragrafo 7.3). Questo è il motivo per cui l’equazione guida (10.1) è definita per l’intera configurazione delle particelle dell’universo Q, e la funzione d’onda  che vi figura 5 Cfr. Bell, 2010, pp. 47-48, e Norsen, 2014, per il trattamento dello spin in questo senso. 6 Cfr. Brown et al., 1995 e 1996; Pylkkänen et al., 2015; Esfeld et al., 2017.

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è quindi la funzione d’onda universale. La velocità di ogni particella a ogni istante di tempo t dipende in linea di principio dalla posizione di tutte le altre particelle nell’universo a t, per mezzo della funzione d’onda . Tale dipendenza, tuttavia, non significa che qualche entità venga delocalizzata istantaneamente nello spazio fisico: le particelle bohmiane si muovono sempre seguendo traiettorie continue nello spazio fisico con una determinata velocità. I loro movimenti sono correlati l’uno all’altro senza che ci sia qualcosa nello spazio che trasmette questa correlazione. Essa formalmente si spiega con il fatto che la teoria bohmiana aggiunge alla funzione d’onda nello spazio delle configurazioni il postulato secondo cui un punto Q rappresenta l’attuale configurazione delle particelle nello spazio fisico, in modo che l’equazione di guida descriva l’evoluzione di questo punto nello spazio delle configurazioni. Concettualmente, le particelle sono caratterizzate solo dalle loro posizioni, o più precisamente dalle loro posizioni relative, cioè le loro distanze. Ora, in una configurazione di particelle caratterizzate unicamente dalla loro distanza, cambiare la distanza tra due particelle, in linea di principio, può avere l’effetto di cambiare le relazioni di distanza di tutte le particelle della configurazione: una particella non può avvicinarsi o allontanarsi da un’altra senza cambiare anche la sua distanza dalle altre particelle nella configurazione. Tuttavia, non avrebbe senso cercare un agente o una forza per trasmettere quel cambiamento. In questo modo si rende intelligibile il fatto che possano esserci movimenti correlati tra le particelle, senza che ci sia nulla nello spazio fisico che stabilisca queste correlazioni, ma non viene spiegato il perché esistano correlazioni specifiche evidenziate, per esempio, nell’esperimento EPR. 10.2. L’olismo quantistico In questo contesto si può parlare di olismo dinamico: esiste un solo parametro dinamico, ovvero la funzione d’onda che fissa l’evoluzione della configurazione della materia nella sua interezza, dato che ogni teoria fisica è una teoria universale, cioè che si applica all’intero universo. Nella teoria newtoniana della gravitazione, inoltre, anche la forza di gravità è un’interazione che agisce a distanza, nel senso che, in linea di principio, l’accelerazione gravitazionale di una particella in un dato tempo dipende dalle posizioni e masse di tutte le altre particelle presenti nell’universo. Tuttavia, l’attrazione gravitazionale viene sempre calcolata per coppie di particelle sulla base di un parametro dinamico 110

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che viene assegnato a ciascuna presa singolarmente, vale a dire la sua massa gravitazionale. In fisica quantistica, al contrario, esiste un solo parametro dinamico per tutte le particelle. A oggi non è possibile spiegare, attraverso le conoscenze acquisite, il motivo per cui la dinamica che descrive nel modo più adeguato ciò che accade in natura sia olistica (fisica quantistica) piuttosto che locale (teoria classica dei campi). Sarebbe inutile, inoltre, cercare un meccanismo che stabilisca correlazioni non-locali, simili a quelle avanzate dal teorema di Bell, ma si può comunque sottolineare che l’olismo dinamico non è limitato alla fisica. Esso si può applicare anche ai concetti: secondo l’olismo semantico, il contenuto concettuale di una credenza o proposizione consiste in relazioni inferenziali con altre credenze o proposizioni. Pertanto, la modifica delle une o delle altre in linea di principio cambia le relazioni inferenziali nel contesto nel sistema in questione7. Sebbene non si possano addurre motivazioni al fatto che l’olismo dinamico si applichi alla fisica quantistica, possiamo tuttavia proporre una spiegazione in termini di unificazione, sottolineando che tale olismo può essere presente in altre aree, come per esempio la semantica. In semantica, come in fisica quantistica, dobbiamo limitare l’olismo per renderlo comprensibile. Quindi, anche se il cambiamento di una credenza o proposizione implica in linea di principio un cambiamento nelle relazioni inferenziali tra tutte le altre credenze e proposizioni di un dato sistema, il significato di questo cambiamento deve essere limitato a un numero ristretto di credenze o proposizioni: ogni cambiamento concettuale è intelligibile solo sulla base di uno sfondo stabile, composto da una maggioranza di relazioni inferenziali immutate tra credenze o proposizioni. Allo stesso modo, Einstein sottolinea che una sospensione completa dei principi di separabilità e azione locale renderebbe la fisica come la conosciamo impossibile, perché non potremmo più isolare i sistemi fisici individuali e fare esperimenti su tali sistemi isolati (si veda il paragrafo 8.1). La meccanica bohmiana risponde a questo requisito nel modo seguente: sebbene la funzione d’onda universale si sviluppi temporalmente secondo l’equazione di Schrödinger in modo tale che gli stati entangled non si dissolvano mai (nessun collasso) grazie alla decoerenza, in molte situazioni è possibile introdurre funzioni d’onda effettive per sottosistemi dell’universo (o anche singole particelle), che in situazioni pratiche si sviluppano in modo indipendente dal loro ambiente. 7

Cfr. Esfeld, 2001 per un confronto tra queste differenti forme di olismo.

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Le particelle descritte da funzioni d’onda effettive spesso tracciano traiettorie classiche o quasi classiche. In questo modo, la meccanica bohmiana fornisce una transizione verso il dominio della fisica classica, anche se la sua struttura dinamica è profondamente non-locale. Così, nell’esperimento mentale di Einstein del 1927, la particella è sempre o nella scatola che viene inviata a Parigi o nella scatola che viene inviata a Tokyo, muovendosi su una traiettoria classica (si veda il capitolo 7). In conclusione, la teoria di Bohm, benché profondamente non-locale, non ammette “più non-località del necessario” per ottenere previsioni corrette: essa propone un trattamento classico del caso di Einstein del 1927, e un trattamento non-classico del caso EPR. 10.3. Lo statuto ontologico della funzione d’onda La funzione d’onda quantistica è un parametro di campo e, come abbiamo già discusso in precedenza (si veda il paragrafo 4.2), ciò è problematico: l’idea di un’interazione tra campo e particelle, infatti, si rivela spinosa già nell’elettrodinamica classica. In aggiunta, nel contesto della fisica quantistica, la funzione d’onda non è definita nello spazio fisico a tre o quattro dimensioni, bensì nello spazio delle configurazioni. Come potrebbe un campo definito in tale spazio influenzare il movimento degli oggetti in un altro spazio? Nella teoria di Bohm, così come nella teoria GRW, la  è un parametro dinamico che viene introdotto attraverso la funzione dinamica che svolge l’ontologia primitiva (particelle, densità di materia o flashes). Questo fatto rende concretamente possibile concedere alla funzione d’onda lo statuto di parametro dinamico, e non ontologico, in base al quale sarebbe un oggetto fisico ulteriore rispetto agli elementi dell’ontologia primitiva. Inoltre, possiamo interpretare lo statuto di  nel contesto della metafisica humeana (si veda il paragrafo 3.4): così come i parametri classici quali massa e carica, la funzione d’onda è uno strumento per ottenere una descrizione sia semplice che informativa del movimento delle particelle, che manifesta determinati pattern o regolarità. In virtù di essi il parametro dinamico della funzione d’onda (la funzione d’onda universale così come le quelle effettive) figura nelle leggi che descrivono questo movimento8. Questa non è solo una presa di posizione filosofica: Dowker e Herbauts (2005) hanno sviluppato un modello fisico concreto in questo senso nel quadro della teoria GRWf lavorando con uno spazio-tempo discreto. 8

Cfr. Miller, 2014; Esfeld, 2014; Callender, 2015; e Bhogal e Perry, 2017.

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A questo riguardo esistono anche proposte volte a formulare la meccanica quantistica senza utilizzare la funzione d’onda nella sua struttura dinamica9. L’idea è di usare direttamente le traiettorie delle particelle bohmiane per concepire una dinamica che contenga un’interazione quantistica, oltre alle interazioni classiche; questo approccio, tuttavia, deve ammettere traiettorie multiple per singole particelle, e per questo motivo si parla di molti mondi classici che interagiscono tra loro. Se consideriamo la funzione d’onda come un parametro dinamico nel contesto della metafisica humeana, si ha come conseguenza l’impossibilità di ammettere alcuna relazione di entanglement in natura in aggiunta alle relazioni di distanza tra le particelle. Lo stato quantistico non connette misteriosamente il movimento delle particelle attraverso lo spazio guidandole o controllandole in modo coordinato; non ci sono stati quantistici in natura, sebbene tutte le proposizioni formulate in termini di stati quantistici siano perfettamente vere. In altri termini, è un fatto contingente che il modo in cui le particelle si muovono è tale da mostrare alcune correlazioni stabili, di modo che se ci proponiamo di rappresentare il loro movimento in modo semplice e informativo, dobbiamo farlo attraverso uno stato quantistico entangled e una legge in cui figuri una funzione d’onda in tale stato. Data questa legge, abbiamo quindi un truth-maker per le proposizioni controfattuali su ciò che accadrebbe al moto di altre particelle se intervenissero in un certo modo sul movimento di una particella specifica, senza che però sia necessario ammettere che vi siano in natura misteriose influenze che agiscono a distanza da una particella all’altra. In ogni caso, questa non è una forma di strumentalismo riguardo alla funzione d’onda: quest’ultima è, a prima vista, un parametro dinamico che figura nella legge del moto per le particelle, ed è essa stessa soggetta a una legge (cioè l’equazione di Schrödinger). Queste leggi, inoltre, sono legate al calcolo della probabilità dato che viene utilizzata per calcolare le probabilità dei risultati di misura, in base alla regola di Born. In breve, la funzione d’onda non è soltanto uno strumento per il calcolo delle probabilità ma, anzi, il suo ruolo fondamentale è dinamico pur non implicando che essa appartenga all’ontologia primitiva di una teoria quantistica. Riassumendo, la meccanica bohmiana mette in evidenza che un’ontologia minimalista di particelle caratterizzate unicamente dalle loro distanze relative e dal cambiamento di queste può essere a tutti gli 9

Cfr. Schiff e Poirier, 2012; Hall et al., 2014; e Sebens, 2015.

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effetti una valida alternativa in meccanica quantistica10. Il formalismo della meccanica quantistica, in ogni caso, si basa su un numero determinato e finito di particelle. A questo proposito, la meccanica bohmiana mostra che non vi è alcuna ragione per non considerare le particelle presenti nel formalismo della meccanica quantistica come particelle in senso ontologico, cioè come oggetti puntiformi che si muovono su traiettorie continue. In questo modo, è possibile ottenere una soluzione chiara al problema della misura, e una comprensione della non-località quantistica. Ne consegue che, se abbandonassimo un’ontologia particellare, dovremmo affrontare il problema della misura e quello dell’“azione a distanza”. È possibile allora affermare che ciò che cambia nella transizione dalla meccanica classica alla meccanica quantistica non è l’ontologia primitiva, ma la struttura dinamica che descrive l’evoluzione per le configurazioni di particelle. Tuttavia, è bene tenere presente che la nozione di ontologia primitiva usata nel contesto della nostra ontologia minimalista è più generale di quella di “esseribili locali” impiegata da Bell per marcare il contrasto tra un’ontologia quantistica basata sulla funzione d’onda (come la teoria di Everett) da un lato, e un’ontologia che ammette entità fisiche nello spazio tridimensionale (al fine di risolvere il problema della misura) e che considera la funzione d’onda un parametro per descrive l’evoluzione di queste entità, dall’altro. L’ontologia minimalista di cui abbiamo parlato in questo libro lascia aperta soltanto la questione della geometria che rappresenta queste distanze e il loro cambiamento. In altre parole, essa non si impegna a sostenere che questa geometria debba essere tridimensionale piuttosto che quadridimensionale (si vedano i paragrafi 2.2 e 3.1). Dal punto di vista di tale ontologia, allora, l’obiezione centrale contro la teoria di Everett non è che manchino le “esseribili locali” nello spazio in tre o quattro dimensioni, ma che l’ontologia dualista in cui si abbiano uno spazio e un campo materiale definito su questo non è motivata indipendentemente da quante siano le sue dimensioni. 10.4. Lo statuto ontologico delle probabilità Come nel caso dell’ontologia primitiva, non ci sono ragioni convincenti per cambiare la concezione della probabilità nella transizione dalla meccanica classica alla meccanica quantistica. In tutte le teorie 10 Per elaborazioni della meccanica bohmiana senza impegno ontologico verso uno spazio e un tempo assoluti, cfr. Vassallo et al., 2017, e Vassallo e Ip, 2016.

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quantistiche il cui formalismo ha riferimenti diretti a oggetti esistenti nello spazio fisico, e che interpretano la funzione d’onda come un parametro dinamico utilizzato per descriverne l’evoluzione, vi è un accesso epistemico limitato alle proprietà delle entità che costituiscono l’ontologia primitiva della teoria data11. Se conoscessimo la configurazione completa di questi oggetti (come per esempio le posizioni delle particelle bohmiane o dei flashes in GRWf o la densità di materia in GRWm), potremmo usare le correlazioni non-locali per scambiare informazioni a una velocità superiore a quella della luce, violando la teoria della relatività speciale. Tuttavia, poiché la misura è un’interazione tra oggetti, ne segue che il nostro accesso agli oggetti fisici possa essere limitato. In meccanica quantistica, infatti, il principio di indeterminazione di Heisenberg rivela questo limite di accesso: non possiamo misurare simultaneamente con precisione arbitraria posizione e velocità di un oggetto quantistico. Nella fisica classica, questo accesso limitato può spesso essere ignorato perché, in molte situazioni, l’incertezza minima sulle condizioni iniziali non modifica l’accuratezza delle previsioni. Ciò non toglie che, in tale contesto, ci sono molte situazioni in cui questa incertezza ha gravi conseguenze. Se, per esempio, viene lanciata una moneta, una piccola variazione nelle condizioni iniziali può cambiare drasticamente l’esito del lancio; proprio per tale motivo si possono ottenere solo previsioni probabilistiche. In fisica quantistica, tuttavia, questa sensibilità rispetto alle condizioni iniziali è generica. Questo è il motivo per cui per esempio non è interessante calcolare le traiettorie delle particelle bohmiane. Non abbiamo altra scelta che trattare le descrizioni probabilistiche, perché non possiamo conoscere esattamente le condizioni iniziali. Le variazioni minime nelle condizioni iniziali hanno, in generale, nella fisica quantistica, gravi conseguenze per l’evoluzione futura dei sistemi quantistici. Le probabilità, pertanto, fanno parte in ogni caso del calcolo quantistico a causa della nostra ignoranza delle esatte condizioni iniziali, indipendentemente dal fatto che la legge dinamica sia deterministica (l’equazione di Schrödinger e l’equazione di guida in meccanica bohmiana) o stocastica (l’equazione GRW). A seguito di ciò, è importante chiedersi se il fatto di ammettere o meno il collasso della funzione d’onda come un processo che si verifica in natura, porti a una soluzione convincente del problema della misura. Se le dinamiche sono deterministiche, possiamo interpretare le probabilità nella meccanica bohmiana come in meccanica statistica 11

Cfr. Cowan e Tumulka, 2016.

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classica (si veda il paragrafo 3.2): le leggi dinamiche della teoria sono correlate a una misura di probabilità, nota come ipotesi all’equilibrio quantistico, che implica la regola Born per le previsioni dei risultati di misura su sottosistemi dell’universo. In tal modo, la teoria risponde alla domanda su quale evoluzione dei sistemi fisici possiamo tipicamente aspettarci data la nostra ignoranza riguardo le esatte condizioni iniziali. In sintesi, possiamo affermare che non è del tutto corretto, nel contesto della fisica quantistica, cercare di dedurre le proposizioni sulla realtà che ci circonda a partire dall’algoritmo riguardante gli operatori (gli osservabili). Questo algoritmo ha lo scopo di rendere possibile il calcolo delle probabilità dei risultati di misura, ma non consente di fare deduzioni riguardo alla struttura ontologica del mondo (con il rischio di cadere nella trappola del problema della misura). La riflessione sulle possibili soluzioni a questo problema mostra che possiamo dedurre l’algoritmo della formulazione standard della meccanica quantistica, come nella meccanica statistica classica, dalle leggi di natura che descrivono l’evoluzione delle esseribili locali, indipendentemente dal processo di misurazione.

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11. FISICA QUANTISTICA E FISICA RELATIVISTICA

11.1. La teoria quantistica dei campi La teoria che descrive la struttura della materia a livello fondamentale nella fisica teorica contemporanea non è la meccanica quantistica, bensì la teoria quantistica dei campi; essa è un tentativo di unificare la meccanica quantistica con la relatività ristretta proponendo, in particolare, una teoria dell’elettrodinamica quantistica. In generale, il modello standard della teoria quantistica dei campi include tutte le particelle elementari ed elabora le loro interazioni in termini di campi. La caratteristica più sorprendente di questa teoria è che nel formalismo standard utilizzato per produrre previsioni dei risultati di misura, il numero di particelle non rimane costante: si osservano eventi di creazione e annichilazione di particelle, e tali eventi sembrano dipendere dallo stato di moto dell’osservatore. Da un lato, in questo dominio un’ontologia di particelle sembra essere stata esclusa: se non c’è un numero definito di particelle che persistono, esse non possono essere oggetti fondamentali1. Dall’altro non è affatto chiaro che l’ontologia propria della teoria quantistica dei campi e del modello standard delle particelle elementari abbia come oggetti fondamentali i campi, poiché gli enti che si trovano nel formalismo di questa teoria non sono classici: essi, infatti, generalmente non possiedono valori definiti in punti dello spazio-tempo quadridimensionale2. Se si preferisce un’ontologia in termini di campi, il problema che si pone riguarda la formulazione di una dinamica che tenga conto delle evidenze sperimentali in maniera adeguata, dato che i risultati di tutte le osservazioni condotte consistono in posizioni definite di qualche genere di oggetti – come per esempio le tracce di elettroni e positroni in una camera a nebbia, o le tracce lasciate da muoni nel rilevatore atlas al cern, noto per la rilevazione della particella di Higgs. In breve, 1 2

Cfr. Halvorson e Clifton, 2002; Kuhlmann, 2010, cap. 8; Ruetsche, 2011, capp. 9-11. Cfr. Baker, 2009.

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nella teoria quantistica dei campi, come in qualsiasi altra branca della fisica, la prova sperimentale consiste nell’osservazione del movimento di particelle. Campi, onde e altre entità intervengono soltanto per spiegare tali evidenze. Di fatto, il problema della misura della meccanica quantistica si ripropone inalterato nel contesto della teoria quantistica dei campi3. Qualsiasi tentativo di soluzione deve tenere conto di ciò che accade in natura al livello dei processi individuali e non può accontentarsi di fornire esclusivamente predizioni statistiche. Nella teoria quantistica dei campi, inoltre, riappare il classico problema delle relazioni fra un campo e la particella che lo crea, che, come abbiamo visto nel paragrafo 4.1, rende il formalismo dell’elettrodinamica classica inconsistente. Questa difficoltà può essere risolta con una procedura matematica nota come rinormalizzazione che, però, dato lo stato attuale della ricerca in fisica teorica, non conduce a una legge dinamica in grado di rispondere alla domanda su quali siano i processi individuali che hanno luogo in natura. In altre parole, questa procedura non ci aiuta a trovare una soluzione al problema della misura. Per quanto riguarda le soluzioni a questo problema, la situazione è la stessa che ci si presenta nel contesto della meccanica quantistica. In particolare, da un lato vi è l’opposizione tra una teoria basata esclusivamente sulla funzione d’onda e il suo sviluppo secondo una versione relativistica dell’equazione di Schrödinger (la teoria di Everett o molti mondi) e, dall’altro, una teoria che prende come punto di partenza l’esistenza di una configurazione di oggetti nello spazio-tempo quadridimensionale e interpreta la funzione d’onda come un parametro utilizzato per descrivere l’evoluzione di tale configurazione. In particolare, si può applicare la meccanica bohmiana anche nel dominio della teoria quantistica dei campi: c’è una configurazione di un numero grandissimo ma finito di particelle caratterizzate esclusivamente dalle loro posizioni (dalle distanze che le separano) e dai cambiamenti in queste distanze; esse, inoltre, sono permanenti, ossia, non sono né create né annichilite, e formano quello che è noto come “il mare di Dirac” (Dirac Sea). Alcune di queste particelle possono avere valori di energia negativi, ma tuttavia, secondo questa teoria, l’energia è solo un parametro che appare nella rappresentazione dell’evoluzione delle distanze tra particelle, invece di essere una loro proprietà intrinseca e pertanto, i valori di energia negativa nel formalismo non pongono alcun problema interpretativo. Analizzando ciò che afferma tale teoria, 3

Cfr. Barrett, 2014.

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se le particelle nel mare di Dirac sono in uno stato di equilibrio non sono osservabili. Questo è il motivo per cui questo stato è chiamato “vuoto”, sebbene esso non sia affatto vuoto, ma pieno di particelle. Ciò che invece è osservabile sono le eccitazioni di questo stato di equilibrio, che si manifestano attraverso l’apparizione e scomparsa di particelle dal e nel vuoto. Poiché lo stato di equilibrio non è unico, l’apparizione e la scomparsa delle particelle dipendono dallo stato di movimento dell’osservatore. Attraverso l’introduzione di operatori di creazione e annichilazione in un formalismo che coinvolge un numero fisso di particelle permanenti il cui movimento è governato da una legge deterministica (equazione guida), risulta possibile dedurre le previsioni statistiche del formalismo standard della teoria quantistica dei campi. In tal modo si risolve il problema della misura anche in questo contesto4. Dobbiamo trovare, infatti, una soluzione a tale problema, perché i singoli risultati di misura sono il collegamento tra la teoria e ciò e il mondo empirico. Qualunque sia la soluzione che adottiamo per risolvere questo problema, essa deve andare oltre formalismo standard delle teoria dei campi affinché venga fornita una descrizione dei processi che si verificano in natura. Ciò dimostra ancora una volta che è inutile cercare di trarre conclusioni ontologiche a partire da un formalismo di operatori il cui scopo è solamente quello di calcolare previsioni statistiche per risultati di osservazione. 11.2. La non-località quantistica e la fisica relativistica La teoria quantistica dei campi unisce la meccanica quantistica con la teoria della relatività ristretta, nel senso che le predizioni statistiche sui risultati di misura rispettano l’invarianza di Lorentz (cioè non dipendono da un preciso ordine temporale di eventi separati da un intervallo di tipo spazio). Tuttavia, qualunque sia la formulazione della teoria quantistica dei campi che preferiamo, non abbiamo una legge dinamica che rispetti tale invarianza e che includa una descrizione dei processi di misurazione che portino a risultati di misura definiti. Infatti la teoria di Bohm – sia nel contesto della meccanica quantistica che per la teoria quantistica dei campi – prescrive una legge fondamentale, cioè l’equazione guida, che presuppone una foliazione dello spazio-tempo in ipersuperfici spaziali ordinate nel tempo, e ciò 4

Cfr. Colin e Struyve, 2007; ed Esfeld e Deckert, 2017, cap. 4.

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viola l’invarianza di Lorentz introducendo una simultaneità oggettiva, anche se possiamo supporre che questa foliazione sia introdotta dalla funzione d’onda universale5. Le previsioni statistiche dei risultati delle misurazioni, tuttavia, sono operazionalmente compatibili con l’invarianza di Lorentz. In altre parole, questa foliazione oggettiva non è empiricamente accessibile a causa della nostra conoscenza limitata delle posizioni delle particelle, la quale ci impone di ricorrere a previsioni statistiche (si veda il paragrafo 10.4). Nella teoria GRWf, è possibile formulare la struttura dinamica in modo che si rispetti l’invarianza di Lorentz se consideriamo la distribuzione dei flashes nell’intero spazio-tempo6. Un risultato simile può essere ottenuto nella teoria GRWm per quanto riguarda la distribuzione della densità di materia7. Tuttavia, questa estensione relativistica non consente di trattare l’interazione tra i flashes poiché si può mostrare che non vi è modo di rappresentare la loro evoluzione in maniera tale che sia Lorentz invariante, ossia si presenta la necessità di assumere un ordine temporale definito per questi eventi, sebbene questo ordine temporale non sia accessibile negli esperimenti8. La ragione di ciò si deve ricercare nell’esistenza di correlazioni tra eventi separati da un intervallo di tipo spazio evidenziate dal teorema di Bell (si veda il capitolo 7). La teoria quantistica non rispetta il principio di località (7.4), che afferma che tutti i fattori che possono influenzare un dato evento sono situati nel suo cono di luce passato. Sarebbe però affrettato concludere che la fisica quantistica ci costringa a ritornare a una struttura dinamica newtoniana, basata su una correlazione istantanea tra tutti gli eventi dell’universo che si verificano simultaneamente (“azione a distanza”). La tensione tra la non-località quantistica e la fisica relativistica si trova generalmente nella formulazione della dinamica in termini di campi, assumendo che la retrocausalità (causalità dal futuro verso il passato) sia esclusa. La formulazione della teoria dell’elettrodinamica classica colloca ogni influenza nel passato immediato di un dato evento, rappresentando le interazioni come trasmesse da campi. Di conseguenza, abbiamo formulato la premessa di località proprio come viene proposta nel teorema di Bell, ossia in modo tale che le influenze locali vengano situate nel cono di luce passato di un dato evento. Come Cfr. Diirr et al., 2014. Cfr. Tumulka, 2006. 7 Cfr. Bedingham et al., 2014. 8 Cfr. Esfeld e Gisin 2014; e Barrett, 2014. 5 6

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già sottolineato nel capitolo 7, il teorema di Bell stabilisce che la fisica quantistica violi il principio di località (assumendo il prerequisito generale di indipendenza fra lo stato passato del sistema e il parametro da misurare). Appare chiaro, quindi, che questo principio non sia valido in fisica quantistica: la funzione d’onda è un parametro di campo definito nello spazio delle configurazioni, cioè è un campo soggetto a una dinamica locale solo in tale spazio. Pertanto, contrariamente alla fisica relativistica, la funzione d’onda correla il movimento delle particelle indipendentemente dalla loro distanza nello spazio fisico. Ora, quando una struttura dinamica di una data teoria fisica correla eventi separati da un intervallo di tipo spazio, in linea di principio è possibile riformulare un’equivalente struttura che implementi delle azioni retrocausali, cioè che interpreti l’influenza tra eventi separati da intervalli di tipo spazio come trasmessi dal futuro. Una tale struttura dinamica è sì relativistica, poiché tutte le influenze si trovano all’interno dei coni di luce, ma non rispetta il principio di azione locale di Einstein (si veda il paragrafo 8.1), ovvero il principio di località che vige nella teoria dei campi, perché ciò che influenza un determinato evento proviene dal suo cono di luce futuro e passato. Durante la discussione dell’elettrodinamica classica, si è menzionata la possibilità di formularne la struttura dinamica senza il parametro di campo, sotto forma di un’interazione diretta tra le particelle che possa provenire dal passato (interazione ritardata) e dal futuro (interazione anticipata) – teoria di Wheeler-Feynman (si veda il paragrafo 4.2). Rinunciando al parametro di campo, si perde la formulazione della struttura dinamica che consente di risolvere le equazioni differenziali in termini di precise condizioni iniziali. Tuttavia nel caso dell’elettrodinamica classica, così come nel caso quantistico, si può concepire in linea di principio una formulazione della struttura dinamica basata sia sull’interazione ritardata sia sull’interazione anticipata tra particelle9. Anche la teoria di Bohm ammette in linea di principio una tale formulazione10. Contrariamente al caso dell’elettrodinamica classica, come illustrato dalla teoria Wheeler-Feynman, nel caso quantistico l’opzione delle azioni anticipate deve, tuttavia, includere un parametro di campo nella struttura dinamica, lavorando con onde ritardate e anticipate. Ammettere un’azione anticipata viola anche la menzionata premessa di indipendenza 9 Cfr. Cramer, 2016 per la formulazione fisica più conosciuta oltre a Price, 1996, cap. 9; Dowe, 1996 e Corry, 2015 per argomenti filosofici. 10 Cfr. Sutherland, 2008.

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del teorema di Bell, dal momento che non vi è indipendenza tra lo stato passato del sistema e la scelta del parametro da misurare. Tuttavia, non vi è alcuna influenza diretta tra essi poiché entrambi sono correlati soltanto dall’influenza dei risultati di misura futuri. Qualsiasi teoria sull’azione anticipata implica una tale correlazione, e questa, stabilita dall’influenza del futuro, non implica necessariamente un paradosso o una cospirazione11. Una dinamica di interazione diretta tra particelle può allora, in linea di principio, essere empiricamente adeguata; se è vero, tuttavia, che essa fornisce una dinamica relativistica anche per il caso quantistico, dobbiamo sottolineare che include anche un’azione anticipata oltre a quella ritardata. 11.3. La direzione del tempo Indipendentemente dalla posizione che si adotta in relazione alla tensione tra non-località quantistica e fisica relativistica, è un dato di fatto che il tempo possieda uno statuto diverso nella dinamica quantistica piuttosto che nella geometria dello spazio-tempo a quattro dimensioni. Ciò emerge chiaramente prendendo in considerazione una dinamica che include il collasso della funzione d’onda, come l’equazione GRW. Se il collasso della funzione d’onda descrive un processo che avviene effettivamente in natura, allora esso è un processo irreversibile. È naturalmente possibile che dopo un collasso della  gli oggetti coinvolti ritornino nuovamente in uno stato entangled, ma è impossibile per un oggetto che ha acquisito una posizione precisa in seguito al collasso ritornare immediatamente nello stato in cui si trovava prima che si verificasse il processo spontaneo di localizzazione. Di conseguenza, si può dire che l’equazione GRW descrive un tipo di processo che è intrinsecamente irreversibile12 e, inoltre, che tale equazione implichi esplicitamente una direzione del tempo, in quanto mostra un’asimmetria temporale. In aggiunta, se ammettiamo una dinamica che includa il collasso della funzione d’onda, ci impegniamo a formulare una legge di natura che non è deterministica, bensì stocastica. Sosteniamo, dunque, che esistano processi le cui condizioni iniziali sono descritte da funzioni d’onda identiche (per esempio, l’emissione di due elettroni nelle condizioni dell’esperimento descritto da Bell), ma i cui risultati sono diversi 11 12

Cfr. Price, 1996, cap. 9; e Lazarovici, 2014. Cfr. Albert, 2000, cap. 7.

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(per esempio, nel contesto sperimentale menzionato sopra, il risultato della misurazione sarà in un caso “spin-up” nell’ala sinistra e “spindown” nell’ala destra, e l’inverso nell’altro caso). Se la descrizione delle condizioni iniziali di un tale processo fornita dalla funzione d’onda è completa, ne segue che la differenza tra i risultati della misurazione può essere spiegata soltanto dal fatto che questo processo è irriducibilmente stocastico. In tal caso, stiamo considerando un processo che, a differenza di tutti gli altri conosciuti in fisica classica (in cui le probabilità sono introdotte per spiegare la nostra ignoranza riguardo alle esatte condizioni iniziali), è di per se stesso probabilistico. È un fatto notevole che probabilità irriducibili e processi per costruzione irreversibili appaiano congiuntamente. A eccezione di una certa tipologia di legge che include il collasso della funzione d’onda, come quella vista nel caso della teoria GRW, tutte le altre candidate per divenire leggi fondamentali di natura descrivono processi che sono intrinsecamente reversibili. Ciononostante, anche in questi esiste un’asimmetria temporale. Se una particella si sposta nello spazio da un punto a a un punto b, questo movimento è reversibile: la particella può tornare da b ad a. Non c’è una direzione privilegiata nello spazio essendo esso isotropico; il tempo, invece, non lo è poiché possiede una direzione. Se una particella si sposta da a a b c’è un fluire del tempo: la particella si ritrova in b “più tardi” di quando si trovava in a. Se la particella inverte la direzione del suo movimento e ritorna da b ad a, non ritorna indietro nel tempo. Tornerà in a “più tardi” di quando si trovava in b. Si può comprendere il fatto che le leggi della meccanica rappresentino tutti i processi come reversibili in questi termini: se un processo che conduce da una configurazione di particelle a a una configurazione di particelle b è ammesso dalle leggi della meccanica, allora è ammissibile anche un processo che porti da b ad a. Pertanto, una legge rappresenta un processo come irreversibile se e solo se la legge ammette un processo che porti da a a b ma esclude un processo inverso che porti da b ad a. Nulla in questa analisi, tuttavia, ci costringe a concludere che quando si verifica un processo che porti da b ad a venga invertita non solo la direzione nello spazio, ma anche la direzione nel tempo in modo tale che il ritorno ad a abbia luogo prima dell’arrivo a b. Questo ragionamento può essere applicato all’intero universo, considerando che la configurazione delle particelle che subiscono un processo di spostamento da a a b e di ritorno da b ad a contenga tutte le particelle dell’universo. Di nuovo, nulla in questa situazione ci costringe a concludere che la direzione del tempo è invertita quando il processo cambia la sua direzione spaziale. 123

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Tuttavia, la stragrande maggioranza dei processi che ci sono familiari sono irreversibili: la vita è un processo di invecchiamento che non può essere invertito; se un bicchiere cade dal tavolo, il vetro si rompe, ma la probabilità dell’evento della sua ricostruzione spontanea, che ripristinerebbe il suo stato iniziale, è infinitesima, e così via. La spiegazione comune del fatto che i pezzi di vetro non riformino spontaneamente il bicchiere e quindi non tornino nel loro stato iniziale è la seguente: l’energia che il vetro possedeva è dispersa in un gran numero di pezzi di vetro le cui direzioni di movimento non sono coordinate. Nel vocabolario della termodinamica, diciamo che l’entropia è aumentata, e con entropia si intende appunto una misura della dispersione di energia. Le leggi della meccanica non escludono che il processo che ha portato alla rottura del bicchiere possa essere invertito senza alcun intervento esterno. Tuttavia, le condizioni iniziali per invertire questo processo non sono quasi mai soddisfacibili. Poiché le condizioni di coordinazione delle direzioni del movimento delle particelle che consentono la formazione del vetro sono altamente improbabili, questa spiegazione solleva la questione di come possano esserci vetri che possono, in seguito, rompersi. La risposta standard a questa domanda è che le condizioni iniziali dell’universo sono molto specifiche: lo stato iniziale dell’universo è uno stato di entropia estremamente basso. Questa proposta è chiamata “l’ipotesi del passato” (past hypothesis). Su tale base possiamo spiegare perché l’universo si sviluppi subendo un aumento dell’entropia (seconda legge della termodinamica), senza che questo sviluppo sia reversibile, sebbene le leggi della meccanica descrivano tutti i processi come reversibili13. Si può arrivare a sostenere che le condizioni iniziali speciali dell’universo siano all’origine della direzione del tempo14, ma nulla ci costringe a trarre questa conclusione; possiamo per esempio sostenere che il tempo scorrerebbe anche se non ci fossero processi irreversibili nell’universo. Si possono dunque distinguere quattro posizioni rispetto alla direzione del tempo. 1. La direzione del tempo non è fondamentale. Ciò che ci appare come una direzione temporale si spiega attraverso delle condizioni iniziali specifiche dell’universo, ovvero uno stato iniziale a entropia molto bassa. Questa posizione si inserisce bene nella fisica e metafisica dell’universo blocco (si veda il paragrafo 6.4), pur senza implicarla. 13 14

Cfr. Albert, 2000, capp. 2-4, ma anche le obiezioni di Earman, 2006, a questa ipotesi. Cfr. per esempio Field, 2003 e Loewer, 2007.

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2. La direzione del tempo non è fondamentale, ma il cambiamento lo è, ed esso include una direzione. Ciò che ci appare come una direzione del tempo deriva dalla direzione del cambiamento, poiché utilizziamo un parametro temporale per misurarlo. Questa posizione è una forma di relazionalismo leibniziano (si veda il capitolo 2). 3. La direzione del tempo è fondamentale, benché le leggi della natura non esprimano questa direzione15. 4. La direzione del tempo è fondamentale, e le leggi che includono un’asimmetria temporale (come la legge GRW) servono da modello per le leggi fondamentali. 11.4. La gravità quantistica Come abbiamo detto, l’unificazione della fisica quantistica con la teoria della relatività ristretta pone un problema a causa della nonlocalità quantistica, dato che viene sollevata la questione se la struttura dinamica fondamentale richieda un ordine temporale oggettivo oppure no, esigendo dunque una foliazione privilegiata dello spazio-tempo. La gravità quantistica è un progetto per l’elaborazione di una teoria fisica fondamentale che tenti di unificare la meccanica quantistica con la teoria della relatività generale. Quest’ultima si occupa della gravitazione in termini di geometria dello spazio-tempo (e dunque, modella tale interazione localmente): esso possiede una curvatura in virtù del campo metrico, ed è esso stesso un’entità dinamica (si veda il capitolo 5). La meccanica quantistica e la teoria quantistica dei campi invece sono teorie non locali, poiché, come detto, la funzione d’onda non è un campo locale definito nello spazio fisico; inoltre, queste teorie trattano lo spazio-tempo come uno sfondo non dinamico. Ci sono diverse linee di ricerca volte a formulare una teoria quantistica della gravitazione. Le più importanti sono la teoria delle stringhe e la gravità quantistica a loop16. Inoltre, ci sono tentativi volti a formulare una teoria bohmiana della gravità quantistica17 oltre che una teoria relazionalista ispirata a Leibniz18 e una teoria che cerca di ricostruire lo spazio-tempo a partire da elementi primitivi discreti (causal set Cfr. Maudlin, 2007, cap. 4, e Norton, 2010. Cfr. in particolare Weingard, 2001; Witten, 2001; Kiefer, 2004; Rovelli, 2004 e 2007; Rickies, 2014. 17 Cfr. Dürr, Goldstein e Zanghì, 2013, cap. 11, e Vassallo ed Esfeld, 2014. 18 Cfr. Barbour et al., 2014; Gryb e Thébault, 2016. 15 16

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theory)19. Nel contesto di quest’ultima teoria, così come per la teoria della gravità quantistica a loop, in particolare, è comune pensare che lo spazio-tempo non sia fondamentale, ma che sia un’entità emergente20. Si dovrebbe essere tuttavia cauti riguardo a questa tesi21: a prima vista, infatti, è necessario distinguere tra una geometria specifica, come quella di uno spazio-tempo quadridimensionale, che è un continuum, e delle relazioni di distanza che costituiscono l’estensione. Anche se la prima fosse solo un mezzo di rappresentazione con un dominio limitato di applicazioni, le relazioni di distanza potrebbero comunque essere fondamentali. Inoltre, dobbiamo distinguere tra l’emergere del tempo e l’emergere dello spazio. Già nel relazionalismo leibniziano, il tempo emerge dal cambiamento (si veda capitolo 2). L’emergere del tempo, in contrasto con l’emergere dello spazio, è quindi ben studiato. Anche se molti approcci diversi vengono sviluppati in gravità quantistica, per il momento non disponiamo ancora di una teoria consolidata in questo ambito. Tali differenti approcci, non sono neppure ancora in grado di fare previsioni empiriche e, per questo motivo, sono anche lontani dal poter proporre una soluzione al problema della misura. In generale, concludendo, è sbagliato cercare di trarre conclusioni ontologiche da un formalismo in cui le nozioni fondamentali sono quelle di operatori. In meccanica quantistica, per esempio, nonostante le relazioni di incertezza di Heisenberg, possiamo difendere una teoria con un’ontologia di particelle che abbiano sempre una determinata posizione e velocità. Allo stesso modo, nonostante i fenomeni di creazione e annichilazione delle particelle nella teoria quantistica dei campi, è possibile difendere una teoria con un numero costante di particelle. Lo standard per le proposizioni sulla natura basate sulla fisica quantistica non è il formalismo degli operatori che consente il calcolo delle previsioni statistiche dei risultati di misura, ma la soluzione al problema della misura che viene proposta. Questo problema, infatti, riguarda ogni teoria quantistica.

Cfr. per esempio Sorkin, 1991; Reid, 2001. Cfr. Huggett e Wuthrich, 2013. 21 Cfr. Lam ed Esfeld, 2013. 19 20

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12. I LIMITI DELLE SCIENZE NATURALI

12.1. La spiegazione dei fenomeni Ritorniamo all’atomismo. La prima formulazione di cui siamo a conoscenza, quella di Democrito (circa 460-370 a.C.), mette già in evidenza la spiegazione dei fenomeni naturali fornita da questa posizione filosofica: […] nel vuoto si muove in ordine sparso una pluralità infinita di sostanze indivisibili e indifferenziate, oltre che prive di qualità e di affezioni. Quando si avvicinano, incontrandosi o intrecciandosi, appaiono quegli aggregati, uno dei quali va sotto il nome di acqua, il secondo di fuoco, il terzo di piante, l’altro di uomini (frammento 179, DK 68 A 57).

L’idea è, quindi, che tutti gli oggetti visibili siano composti da particelle microscopiche indivisibili, e che tutte le differenze tra tali oggetti (in un determinato momento così come nel corso del tempo) si spieghino attraverso (i) il modo in cui queste particelle sono disposte nello spazio, e (ii) il modo in cui le configurazioni di particelle cambiano nel tempo. Come abbiamo visto e spiegato nei vari capitoli di questo libro, tali particelle sono caratterizzate dalle loro posizioni relative (cioè dalle distanze che le separano e dal cambiamento di tali distanze), e non hanno, dunque, essenze intrinseche nel senso di proprietà qualitative. Questa osservazione è, tuttavia, indipendente dall’interpretazione adottata rispetto ai parametri di massa, carica ed energia come proprietà di particelle da un lato, o come appartenenti esclusivamente alla struttura dinamica di una data teoria fisica dall’altro (cioè come parametri che consentono una rappresentazione semplice e informativa del movimento delle particelle). Inoltre, anche se fossero proprietà attribuibili alle particelle, non sarebbero in ogni caso proprietà qualitative, ma disposizioni atte a modificare in un certo modo le distanze relative tra le particelle, date certe condizioni (come, per esempio, la massa gravitazionale è una disposizione di attrazione reciproca delle particelle). La caratterizzazione degli oggetti fisici unicamente per mezzo dell’estensione – cioè attraverso le distanze che li separano – e del 127

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movimento, risale a Cartesio che nel fare ciò, si oppose alla filosofia scolastica del Medioevo. Newton poi è il primo a sviluppare una precisa e universale teoria fisica su questa base (si veda il capitolo 2). Tale concezione ha come conseguenza lo slittamento del carattere qualitativo e fenomenico della nostra esperienza (per esempio, i colori, gli odori, i suoni percepiti) dalla natura, al livello della nostra coscienza. Si parla, dunque, di qualità secondarie che non sono proprietà degli oggetti fisici. Concettualizzare la natura unicamente in termini di distanze tra punti di materia (particelle) e cambiamenti in queste distanze (movimento) consente una spiegazione semplice, elegante e generale di tutti i processi naturali, come sottolinea la citazione di Democrito: possiamo rappresentare ogni cambiamento in natura come un cambiamento di distanze tra i punti di materia. La nozione di sopravvenienza permette di concettualizzare la relazione tra natura come viene descritta dalla fisica in termini di particelle in movimento, e natura come ci appare nella nostra esperienza (percezione dei colori, suoni, odori, ecc.). Se le B sopravvengono sulle A, quando due cose, situazioni, ecc. sono identiche rispetto alle A, allora esse sono allo stesso modo identiche rispetto alle B. In altri termini, non può sussistere alcuna differenza tra le B senza che esista una differenza al livello delle A. Può essere stabilita, dunque, una dipendenza asimmetrica tra le esperienze fenomeniche, le B, e le variazioni delle distanze tra particelle, le A. Tuttavia, ciò non vuol dire che ci possa essere una semplice riduzione tra i due piani, le esperienze fenomeniche da una parte, e le variazioni delle distanze tra punti di materia dall’altra. Rimane una differenza tra una configurazione di atomi caratterizzata unicamente in termini di relazioni spaziali (ed eventualmente, in termini di disposizioni al cambiamento di queste relazioni) e le qualità sensoriali dell’esperienza. Dunque, questo significa solo che possiamo stabilire una correlazione stabile tra le due, che ci consente di utilizzare le distanze relative tra gli atomi e il cambiamento di queste distanze per spiegare le differenze fra le qualità sensoriali dell’esperienza e il loro mutamento. Queste osservazioni ribadiscono ancora una volta che tutti i risultati di osservazioni sperimentali consistono soltanto in posizioni relative di oggetti che sono successivamente collegati alle qualità fenomeniche della nostra esperienza sensoriale. In una lettera a Maurice Solovine (1875-1958), Einstein spiega la sua visione del rapporto fra fisica e fenomeni nel modo seguente: 1. Ci sono date le E (esperienze immediate). 2. A sono gli assiomi, dai quali traiamo conclusioni. Dal punto di vista psicologico gli A poggiano sulle E. Ma non esiste alcun percorso 128

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logico che dalle E conduca agli A; c’è solamente una connessione intuitiva (psicologica) e sempre “sino a nuovo ordine”. 3. Dagli A si ricavano, con procedimento deduttivo, enunciati particolari S che possono pretendere di essere veri. 4. Gli S sono messi in relazione con le E (verifica per mezzo dell’esperienza). Questa procedura, a ben vedere, appartiene essa stessa alla sfera extralogica (intuitiva), non essendo di natura logica la relazione tra i concetti che intervengono negli enunciati e le esperienze immediate. Questa relazione tra gli S e le E è tuttavia (pragmaticamente) molto meno incerta di quella che sussiste tra gli A e le E (per esempio, tra il concetto di cane e le corrispondenti esperienze immediate). Se una tale corrispondenza, pur restando inaccessibile alla logica, non potesse essere stabilita con un elevato grado di certezza, tutto l’armamentario logico non avrebbe alcun valore ai fini della “comprensione della realtà” (esempio, la teologia). L’aspetto essenziale è qui il legame, eternamente problematico, fra il mondo delle idee e ciò che può essere sperimentato – l’esperienza sensibile (Einstein, 1988, p. 743). Sebbene Einstein usi la parola “dato” per descrivere l’esperienza E, non cade nella trappola del mito del dato di Sellars (1912-1989; si veda Sellars, 1956), poiché sostiene chiaramente che la relazione che sussiste tra proposizioni ed esperienza sia di natura extralogica. Einstein, inoltre, non lascia dubbi sul fatto che gli assiomi A delle teorie fisiche debbano essere postulati; non possiamo dedurli dalle proposizioni che descrivono l’esperienza. Dopo aver postulato gli assiomi – come quelli che stabiliscono l’esistenza di atomi caratterizzati dalle loro relative distanze e delle leggi che ne regolano il moto –, possiamo dedurre delle proposizioni S che forniscono dei risultati sperimentali e quindi collegarle all’esperienza fenomenica E. Tuttavia, la spiegazione dei fenomeni non si realizza attraverso la concettualizzazione delle configurazioni delle particelle in quanto tali, ma tramite delle leggi dinamiche formulate per spiegare l’evoluzione di queste configurazioni. Per esempio, una configurazione effimera di particelle a forma di gatto non è un gatto; solo una configurazione stabile di questo tipo lo è. Quindi, sono le dinamiche ad assicurare la stabilità degli oggetti macroscopici e, così facendo, aiutano a spiegare i fenomeni. Su questa base, la disputa tra i sostenitori di un’ontologia per la meccanica quantistica alla Everett (“molti mondi”) e i sostenitori di un’ontologia alla Bohm (ontologia primitiva nel senso ristretto di materia distribuita nello spazio fisico, le “esseribili locali”; si veda il capitolo 9) si riduce alla seguente domanda: al fine di spiegare l’esisten129

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za di oggetti macroscopici, come per esempio un gatto, è sufficiente trovare qualcosa nella funzione d’onda universale che manifesti un’evoluzione che corrisponde funzionalmente al comportamento tipico di un gatto, così che tale funzione d’onda universale (ovvero lo stato quantistico dell’universo che essa rappresenta) possa essere concepita come materia nell’universo, anche se questa funzione d’onda (ovvero questo stato quantistico) esiste in uno spazio a moltissime dimensioni? Oppure, dovremmo riconoscere nell’ontologia un oggetto materiale, nel senso di composto da particelle microfisiche, in modo che l’evoluzione di questa configurazione di particelle esemplifichi il comportamento tipico di un gatto?1 12.2. Determinismo fisico e determinismo metafisico Lo scopo delle leggi fisiche è di fornire una rappresentazione il più possibile semplice e informativa dell’evoluzione della configurazione di particelle che compongono la materia. Questo è il motivo per cui privilegiamo le leggi deterministiche: se le leggi sono formulate sotto forma di equazioni differenziali che ammettono soluzioni inserendo condizioni iniziali, allora, nel caso delle leggi deterministiche, per tutte le possibili condizioni iniziali (input), queste leggi danno tutta l’evoluzione passata e futura del sistema in questione (output). In questa prospettiva, l’impegno per il determinismo è già inserito nella struttura dinamica di una teoria fisica. I parametri dinamici che figurano nelle leggi determinano tutta l’evoluzione passata e futura di una data configurazione iniziale di materia, e questo è il modo più semplice e informativo, in una teoria fisica, di rappresentare il cambiamento che si verifica nell’universo. Potremmo non essere in grado di raggiungere una tale teoria. Tuttavia, se abbiamo solo delle leggi stocastiche per descrivere l’evoluzione di una data configurazione, possiamo comunque chiederci se sia possibile fare di meglio, cioè, se sia possibile trovare parametri che fissano il cambiamento. Per tornare all’esempio della teoria quantistica GRW, è una questione aperta se il collasso della funzione d’onda così come viene modellizzato in quel contesto sia irriducibilmente stocastico o se vi sia un meccanismo ancora sconosciuto che lo determini (per esempio prendendo in considerazione la gravitazione)2. In altre parole, una volta ottenuti i parametri 1 2

Cfr. Albert, 2015, capp. 6 e 7; Maudlin, 2010 e 2015. Cfr. Penrose, 1989, cap. 8.

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che determinano univocamente l’evoluzione di una configurazione di materia, sappiamo che l’obiettivo è raggiunto: abbiamo ottenuto una rappresentazione del cambiamento semplice e informativa, poiché descrive tutte le modifiche passate e future in una certa configurazione di materia (output), data una configurazione iniziale (input). L’unica domanda che rimane aperta è quindi se la teoria sia empiricamente corretta e se si possa ancora migliorare la sua semplicità senza perdere il suo contenuto informativo. Le virtù di una teoria fisica, come la sua semplicità e il suo contenuto informativo, non devono essere confuse con discutibili commitment metafisici. Per esempio, sarebbe assurdo criticare la legge gravitazionale di Newton per il suo determinismo, poiché questa legge è semplice e universale. Allo stesso modo, non possiamo argomentare contro le differenti interpretazioni della teoria quantistica come quella di Everett o di Bohm basandoci sul fatto che sono deterministiche, mentre a oggi ogni teoria che includa il collasso della funzione d’onda è indeterministica. Inoltre, è anche possibile formulare una teoria quantistica stocastica con traiettorie per le particelle3, ma essa è meno semplice e meno informativa della meccanica bohmiana. Il determinismo implementato nella struttura dinamica di una teoria fisica non ha di per se stesso alcuna conseguenza metafisica. Lo stesso vale per la struttura dinamica deterministica di una teoria biologica come la genetica o la neurobiologia. Anche in questi casi, le teorie biologiche o neurobiologiche che implementano una dinamica deterministica cercano di raggiungere una rappresentazione più semplice e informativa possibile dell’evoluzione dei sistemi nei loro domini. In breve, in questi casi si sta parlando di virtù delle teorie scientifiche e non delle loro pretese metafisiche. In generale, occorre distinguere tra scienza e scientismo, inteso come l’utilizzo e l’applicazione di strutture relative alla rappresentazione del mondo naturale per lo studio e l’analisi della mente umana. Riducendo la natura a estensione e movimento, Cartesio cerca di proporne una rappresentazione che sia al contempo semplice e informativa. Questa rappresentazione apre così la strada alla possibilità di «renderci come maestri e possessori della natura» (Discorso sul metodo, sesta parte); dicendo questo, Cartesio mira in primo luogo al progresso in medicina, cioè alla lotta contro le malattie. Tuttavia, è chiaro che la ricerca di questo progetto non ha alcuna implicazione in relazione allo spirito umano (e specialmente al libero arbitrio). 3

Cfr. Nelson, 1966 e 1985.

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Se si possono trarre conseguenze metafisiche discutibili dalle leggi di natura, ciò non accade sulla base di queste leggi in quanto tali, ma a causa della loro interpretazione metafisica. Se si accetta la metafisica humeana, il determinismo fisico (biologico, o ancora neurobiologico) non può avere alcuna conseguenza per la mente umana (e specialmente per il libero arbitrio), poiché, secondo questa metafisica, non vi è nulla in natura che determina, fissa o forza le particelle a evolvere in un certo modo (si veda il capitolo 3). Il movimento delle particelle manifesta de facto determinati pattern o regolarità, sulla cui base cerchiamo di formulare una struttura dinamica che sia allo stesso tempo semplice e informativa. Se questa ricerca conduce alla formulazione di leggi deterministiche, è perché la scienza ha raggiunto il suo obiettivo (supponendo che queste leggi siano rappresentazioni corrette). Innanzitutto, vi è il movimento delle particelle, comprese le nostre interazioni con la natura, e successivamente la nostra formulazione di leggi fisiche, in modo che queste non esercitino in quanto tali alcuna influenza sull’evoluzione della natura, e non possano pertanto entrare in conflitto con la nostra libertà4. Solo e unicamente se si sostiene in metafisica la posizione secondo cui le leggi fisiche sono, o rappresentano, entità che intervengono nel mondo fisico agendo sulla configurazione della materia (se, per esempio, si sostiene che esse rappresentino disposizioni o poteri in natura; si veda il paragrafo 3.3), può derivarne un conflitto con il libero arbitrio. Ciò accade unicamente e solamente se si difende in filosofia della mente una posizione (rispetto al libero arbitrio) che è conosciuta come libertarismo, in contrasto al compatibilismo5. Si nota del resto immediatamente che se si crea un tale conflitto, nondimeno ciò non dipende assolutamente dal fatto che le leggi fisiche siano deterministiche o stocastiche: nel secondo caso, il fatto che esse determinino il movimento di una certa configurazione di materia (compresa quella del cervello umano) in una certa direzione con una certa probabilità, che non dipende dal libero arbitrio, comporta che esista un conflitto tra quest’ultimo e leggi di natura allo stesso modo che se tali leggi fossero deterministiche6. Pertanto, l’argomento che cerca di stabilire un conflitto tra le leggi fisiche da un lato – in particolare quelle deterministiche – e la libertà umana dall’altro, è comunque errato. In generale, deve essere fatta una chiara distinzione tra la legittimità delle leggi scientifiche e l’ideologia scientista. Cfr. Beebee e Mele, 2002. Cfr. Esfeld, 2012, cap. 8, per questo dibattito in filosofia della mente. 6 Cfr. Loewer, 1996, ed Esfeld, 2000. 4 5

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12.3. La riduzione funzionale e i suoi limiti La nostra discussione sulle teorie fisiche si è basata sulla distinzione tra l’ontologia primitiva da una parte e la struttura dinamica dall’altra. L’ontologia primitiva si riferisce a ciò che esiste semplicemente nel mondo secondo il formalismo di una teoria. La struttura dinamica, d’altro canto, include tutti i parametri introdotti in virtù della funzione svolta al fine di implementare le leggi del moto per l’ontologia primitiva (si veda il paragrafo 3.1). Per esempio, una configurazione di particelle in movimento costituisce l’ontologia primitiva della meccanica di Newton, mentre la massa (gravitazionale e inerziale) fa parte della struttura dinamica di tale teoria dato che viene introdotta attraverso la funzione che esercita per il movimento delle particelle (resistenza all’accelerazione, accelerazione gravitazionale). Tuttavia, l’ontologia primitiva non consiste per forza in insiemi di oggetti rappresentati in una geometria tridimensionale o quadridimensionale. Se sosteniamo una teoria quantistica alla Everett, possiamo affermare che un campo rappresentato dalla funzione d’onda, in quello che è normalmente considerato come lo spazio delle configurazioni, esiste semplicemente e costituisce dunque l’ontologia primitiva della teoria nel senso ampio del termine qui usato (si veda il paragrafo 9.1). Tuttavia, l’ontologia primitiva non dipende strettamente da una particolare teoria fisica, come invece accade nel caso delle strutture dinamiche: come mostrano gli esempi della meccanica bohmiana nel contesto quantistico e in teoria dei campi, è possibile supportare un’ontologia primitiva di particelle puntiformi in movimento, rappresentate in una geometria tridimensionale o quadridimensionale, sia per le teorie fisiche che spaziano dal dominio proprio della meccanica di Newton, che per le teorie della fisica contemporanea. Altrimenti detto, per rispondere all’obiezione della meta-induzione pessimistica contro il realismo scientifico, una ontologia primitiva di particelle caratterizzate unicamente dalle loro posizioni relative e dal loro cambiamento, è molto meno soggetta alla minaccia antirealista rispetto a una struttura dinamica che varia nelle diverse teorie fisiche. In breve, la struttura dinamica cambia considerevolmente dalla meccanica newtoniana alla fisica quantistica, passando per le teorie relativistiche dei campi locali, mentre invece possiamo sostenere che l’ontologia primitiva rimanga la stessa. Una volta definita l’ontologia primitiva, è possibile introdurre parametri per definire le equazioni del moto per le entità della nostra teoria. Tali parametri vengono introdotti funzionalmente alla descrizione dell’evoluzione temporale dell’ontologia primitiva stessa. Ciò implica 133

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che quest’ultima funge da truth-maker per tutte quelle proposizioni vere in cui questi parametri sono utilizzati (indipendentemente dal fatto che uno status ontologico sia concesso o meno a tali parametri in aggiunta agli elementi dell’ontologia primitiva). Per esempio, se l’ontologia primitiva consiste di particelle in movimento, possiamo introdurre le nozioni di massa, di carica, di campo e così via attraverso la loro funzione per il movimento delle particelle, in modo che l’effettivo movimento di queste possa rendere vere le proposizioni in cui appaiono questi parametri. Ciò vale analogamente per la funzione d’onda come parametro dinamico nelle teorie quantistiche che ammettono un’ontologia primitiva distinta dalla funzione d’onda stessa (ontologia primitiva di “esseribili locali”). Quando si dispone di un’ontologia primitiva i cui elementi fungono da referenti ultimi per le nostre teorie scientifiche (anche lasciando aperta la questione su quali siano effettivamente tali referenti ultimi), è possibile applicare tale procedura anche a teorie di scienze particolari come la chimica, la biologia e la neurobiologia. Tutti i parametri di tali teorie possono essere introdotti in funzione del ruolo dinamico che svolgono per le entità dell’ontologia primitiva della fisica. In ultima analisi, le entità fisiche e la loro evoluzione consentono di verificare le proposizioni sulla natura di tali teorie scientifiche. Ciò non implica, tuttavia, che l’ontologia primitiva sia il fondamento della nostra conoscenza scientifica. Per riprendere le celebri idee di Quine in materia di epistemologia, le proposizioni che definiscono l’ontologia primitiva si trovano vicino a un ipotetico centro della nostra rete di conoscenze, mentre le proposizioni che definiscono la struttura dinamica di una data teoria, si trovano più lontane dal centro. Nel caso ci sia un conflitto con la nostra esperienza, vale a dire con proposizioni che sono ai margini della nostra rete di credenze, si riformulano in primo luogo le strutture dinamiche delle teorie, prima di modificare l’ontologia primitiva. Tuttavia, l’idea di un’ontologia primitiva formata da particelle puntiformi caratterizzate soltanto dalle loro posizioni relative e dal loro cambiamento, va di pari passo con la progettazione di leggi semplici e informative sul movimento di tali particelle. La forma che queste leggi assumono però cambia relativamente all’ampliamento o al mutamento della nostra conoscenza per mezzo di osservazioni sperimentali. In breve, le proposizioni che descrivono l’ontologia primitiva sono giustificate, come tutte le altre proposizioni, dalla loro integrazione nel sistema coerente della totalità della nostra conoscenza. Se diamo per scontato il rapporto di sopravvenienza tra le configurazioni delle particelle (oppure, tra le configurazioni dei neuroni nel 134

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cervello) e i nostri stati mentali, possiamo senz’altro applicare questo metodo di riduzione funzionale alla psicologia e ai concetti mentali in generale, definendoli come funzioni per il comportamento delle entità a cui fanno riferimento. Queste entità, ovvero le particelle e il loro movimento sono, alla fine, la base ultima di sopravvenienza. Tuttavia, ciò sembra dar luogo a un paradosso: a partire da Cartesio, interpretiamo gli oggetti fisici come caratterizzati solo dalla loro estensione e movimento, relegando le qualità sensoriali (come colori, suoni, odori, ecc.) alla coscienza degli osservatori. Se questi, a loro volta, ammettono una definizione funzionale per i parametri fisici (quali massa, carica, campi, funzioni d’onda e così via) o per i parametri biologici quali l’attitudine (fitness), l’operazione che consiste nel relegare le qualità sensoriali degli oggetti fisici alla coscienza, diventa allora priva di significato, poiché queste qualità apparterrebbero alla natura allo stesso modo degli altri parametri dinamici delle teorie fisiche. Ancora una volta, questa conclusione è indipendente dal fatto che uno status ontologico sia concesso a questi parametri: massa, carica, campi, sono parametri attribuiti agli oggetti fisici in contrasto ai colori, suoni, odori, ecc. In breve, se tutto, a eccezione degli elementi dell’ontologia primitiva, è costituito da parametri che ammettono una definizione funzionale, non ha senso fare una distinzione di principio tra parametri come massa, carica, campi da un lato, e colori, suoni, odori, ecc., come figurano nella nostra esperienza sensoriale, dall’altro. Tale paradosso è il motivo per cui in filosofia della mente le questioni riguardanti l’esperienza sensoriale, il contenuto concettuale dei nostri pensieri e la normatività rimangono aperte7.

7

Cfr. Esfeld, 2012, a questo riguardo.

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INDICE ANALITICO

Adler, Stephen 93 Albert, David Z. 98, 100, 104, 122, 124 Allori, Valia 35, 99, 101 Anassimandro 13 Anassimene 13 Aristotele 9, 13, 14, 15 Armstrong, David M. 44 Aspect, Alain 82, 83 atomismo 13, 16, 17, 23, 28, 127 azione a distanza 45, 87, 103, 114, 120 azione anticipata 49, 121, 122 azione locale 45, 54, 55, 85-88, 111, 121 azione ritardata 49 Bacciagaluppi, Guido 92 Baker, David J. 117 Balashov, Yuri 69 Barbour, Julian 32, 49, 72, 125 Barrett, Jeffrey A. 97, 118, 120 Bedingham, Daniel 120 Beebee, Helen 132 Bell, John S. 80-84, 94, 95, 99, 101, 104, 107, 109, 111, 114, 120-122 Benatti, Fabio 102 Bennett, Jonathan 62, 63 Benovsky, Jiri 69 Bertotti, Bruno 32 Bhogal, Harjit 112 Bird, Alexander 39 Black, Robert 43 Blanchard, Philippe 92

Bohm, David 78, 80, 106-115, 118, 119, 121, 125, 129, 131, 133 Bohr, Niels 15, 75, 93 Born, Max 75, 85, 91, 95, 104, 108, 113, 116 Brown, Harvey R. 87, 109 buco, argomento del 57, 58, 61 Callender, Craig 112 Carnap, Rudolf 69 Cartesio 14, 15, 24, 61, 128, 131, 135 Clarke, Samuel 23 Clifford, William K. 62 Clifton, Rob 117 Colin, Samuel 119 collasso della funzione d’onda 76, 79, 87, 93, 94, 97, 98, 100, 102, 104, 106, 107, 115, 122, 123, 130, 131 cono di luce 51-53, 59, 68, 76, 80, 84, 120, 121 Copenhagen, scuola di 93 Corry, Richard 121 Cowan, Charles W. 115 Cramer, John G. 121 Curceanu, Catalina 104 Curley, Edwin M. 62 Dalibard, Jean 82 Dawid, Richard 100 de Broglie, Louis 74, 76, 107 Deckert, Dirk-André 23, 43, 119 decoerenza 91, 92, 97-99, 111 Democrito 16, 127, 128 determinismo 130, 131, 132

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Dieks, Dennis 60, 70 Dirac, Paul A. M. 118, 119 direzione del tempo 122-125 disposizioni 23, 39, 40, 42, 44, 47, 127, 128, 132 Dizadji-Bahmani, Foad 100 Dorato, Mauro 68, 70 Dowe, Phil 121 Dowker, Fay 112 Dürr, Detler 107, 108, 127 Earman, John 57, 124 Egg, Matthias 104 Einstein, Albert 14, 15, 50, 54, 57, 58, 71, 74, 75, 77-80, 85, 86-88, 103, 104, 111, 112, 121, 128, 129 elettrodinamica classica 36, 112, 118, 120 entanglement 79, 87-89, 91-93, 96, 97, 101, 113 esperienza sensoriale 128, 135 eternalismo 67, 68 Everett, Hugh 129, 131, 133 fantomatico effetto a distanza 75 Feynman, Richard 17, 48, 49, 121 Field, Hartry 47, 60, 124 French, Steven 24 Galilei, Galileo 22, 50, 51 Geach, Peter 70 Geometrodinamica 64, 65 Ghirardi, Giancarlo 100, 102, 105 Gisin, Nicolas 120 Giulini, Domenico 92 Goldstein, Sheldon 107, 108, 125 Gomes, Henrique de Andrade 72 Grassi, Renata 102 Graves, John C. 65 gravità quantistica 125, 126 Grossman, Marzel 57 GRW, teoria di 100, 102-106, 112, 115, 120, 122, 123, 125, 130 Gryb, Sean 72, 125

Hall, Ned 41, 113 Halvorson, Hans 117 Hamilton, William 37, 87 Harrington, James 70 Hartz, Glenn 61 Heisenberg, Werner 15, 75, 77, 93, 115, 126 Heller, Mark 69 Henson, Joseph 87 Herbauts, Isabelle 112 Hesse, Mary B. 61 Hoefer, Carl 57 Howard, Don 87 Huggett, Nick 31, 126 Hume, David 40-44, 49, 112, 113, 132 identità degli indiscernibili 23, 24 Infeld, Leopold 71 Ip, Pui Him 114 ipotesi del passato 124 Kiefer, Claus 125 Koslowski, Tim 72 Kuhlmann, Meinard 117 Ladyman, James 24 Lam, Vincent 24, 126 Lazarovici, Dustin 37, 122 Lebesgue, Henri 37 Lehmkuhl, Dennis 59, 66 Leibniz, Gottfried W. 10, 14, 15, 2224, 28, 29, 31, 32, 57, 58, 61, 71, 72, 125, 126 Leucippo 16 Lewis, David 41-44, 69 Loewer, Barry 44, 98, 124, 132 Lorentz, Hendrik 46, 51, 87, 99, 119, 120 Mach, Ernst 28, 30, 34, 59 Maudlin, Tim 33, 39, 57, 84, 88, 91, 93, 100, 104, 105, 125, 130 Maxwell, James C. 45, 46, 49, 50, 54, 85

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McTaggart, John E. 66, 67 Mele, Alfred 132 metafisica 13-16, 61, 66, 68-72, 124, 131, 132 metafisica humeana 40-44, 112, 113, 132 metafisica super-humeana 43 meta-induzione pessimistica 133 Michelson, Albert A. 50 Miller, Elizabeth 112 Misner, Charles W. 65 misura, problema della 77, 85, 88, 9193, 96-98, 100, 101, 103, 107, 108, 114-116, 118, 119, 126 mito del dato 129 Molière 40 mondi possibili 44 Monton, Bradley 104 Morley, Edward 50 Mumford, Stephen 39 Nelson, Edward 131 Newton, Isaac 9-11, 14-23, 28, 29, 31, 32, 34, 36, 45, 49, 50, 53, 54, 57, 62, 64, 72, 87, 120, 128, 131, 133 non-località quantistica 76, 84, 87, 106, 109, 114, 119, 120, 122 Norsen, Travis 77, 109 Norton, John 57, 125 olismo dinamico 110, 111 olismo quantistico 87, 110 olismo semantico 111 ontologia primitiva 34-36, 38, 41, 42, 44, 48, 49, 72, 101, 107, 112-115, 129, 133-135 Penrose, Roger 130 Perry, Zee 112 Physis 13, 95 Planck, Max 87, 108 Platone 14, 15 Podolsky, Boris 77, 78 Poirier, Bill 113 Pooley, Oliver 60

presentismo 66, 68 Price, Huw 121, 122 probabilità 36-38, 42, 74-76, 81-84, 89, 91, 99, 100, 101, 103, 104, 108, 113-116, 123, 124, 132 proposizioni controfattuali 36, 44, 48, 113 Putnam, Hilary 68 Pylkkänen, Paavo 109 Quine, Willard V. O. 69, 134 Ramsey, Frank P. 41 realismo scientifico 42, 133 realismo strutturale ontico 24 Reichenbach, Hans 69 Reichert, Paula 37 Reid, David D. 126 relatività generale 47, 54, 55, 57-61, 64, 69, 71, 72, 85, 125 relatività ristretta 50, 51, 53-55, 67, 69, 117, 119, 125 relazionalismo 23, 24, 27-29, 31, 32, 33, 60, 71, 72, 125, 126 riduzione funzionale 133, 135 Rimini, Alberto 100, 105 Roger, Gérard 82 Rosen, Nathan 77, 78 Ross, Don 24 Rovelli, Carlo 60, 125 Ruetsche, Laura 117 Russell, Bertrand 69 Saunders, Simon 68 Schiff, Jeremy 113 Schlosshauer, Maximilian A. 92 Schrödinger, Erwin 74, 75, 87-93, 96, 97, 99, 100-103, 108, 111, 113, 115, 118 Sebens, Charles 113 secchio, esperimento del 22, 29 Seevinck, Michiel P. 81 Sellars, Wilfrid 129 Separabilità 85, 86-88, 111 shape dynamics 32

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Sider, Theodore 68, 69 sistema di riferimento 21, 22, 30, 5053, 67 Sklar, Lawrence 61, 63 solipsismo 68 Solovine, Maurice 128 sopravvenienza 128, 134, 135 Sorkin, Rafael D. 126 sostanzialismo 33, 46, 56-58, 60, 71 sovrapposizione 74, 75, 78, 79, 86, 89, 90, 93, 96, 103, 108 Spinoza, Baruch 61, 62, 63 Stachel, John 65 Stein, Howard 68 struttura dinamica 34, 36, 38, 40-42, 48, 49, 56, 72, 78, 107, 112-114, 120, 121, 125, 127, 130-134 Struyve, Ward 108, 119 super-sostanzialismo 61, 63, 65 surplus di struttura 23, 59 Sutherland, Roderick I. 121 Talete 13 teoria quantistica dei campi 46, 94, 117-119, 125, 126 Teufel, Stefan 107

Thébault, Karim 72, 100, 125 Thorne, Kip S. 65 Tittel, Wolfgang 83 Tumulka, Roderich 104, 115, 120 universo blocco 68-72, 124 van Fraassen, Bas 20 Vassallo, Antonio 32, 35, 72, 114, 125 von Neumann, John 93 Wüthrich, Christian 126 Wallace, David 99, 100, 104 Weber, Tullio 100, 105 Weingard, Robert 125 Weyl, Hermann 71 Wheeler, John A. 48, 64, 65 Wheeler-Feynman, teoria di 48, 49, 121 Wilson, Jessica 100 Witten, Edward 125 Woolhouse, Roger S. 61 Zanghì, Nino 107, 108, 125

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Filosofia della Natura

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La filosofia della natura è antica quanto la filosofia stessa ed è da sempre legata alla ricerca scientifica della natura: scienza e filosofia hanno d’altronde un obiettivo comune, comprendere la natura. Scopo di questo libro è fornire una panoramica della filosofia della natura contemporanea, partendo dalla filosofia naturale di Newton per poi considerare la teoria dei campi insieme alla fisica della relatività, per arrivare alla fisica quantistica. Un testo brillante e accessibile che, come sostiene Mauro Dorato nella sua prefazione, è “di enorme importanza per avere un panorama aggiornato della filosofia della fisica contemporanea”.

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prefazione di Mauro Dorato www.rosenbergesellier.it

Ispirata all’idea di una nuova Filosofia della natura, Phýsis si propone come spazio editoriale per lavori che abbiano al centro della loro riflessione la natura nei suoi molteplici aspetti e come luogo di integrazione e confronto fra i diversi saperi e le diverse tradizioni filosofiche.

diretta da Emilio Carlo Corriero e Iain Hamilton Grant

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Filosofia della Natura Fisica e ontologia