La filosofia della natura in Kant
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biblioteca filosofica di Quaestio collana diretta da Costantino Esposito e Pasquale Porro

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© 2009, Pagina soc. coop., Bari

Questo volume è pubblicato con un contributo di fondi PRIN 2007 e del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali Università degli Studi di Cassino.

Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma rivolgersi a: Edizioni di Pagina via dei Mille 205 - 70126 Bari tel. e fax 080 5586585 http://www.paginasc.it e-mail: [email protected]

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Paolo Pecere

La filosofia della natura in Kant

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Proprietà letteraria riservata Pagina soc. coop. - Bari Finito di stampare nel luglio 2009 dalla Serigrafia Artistica Pugliese Solazzo s.n.c. - Cassano delle Murge (Bari) ISBN 978-88-7470-096-7 ISSN 1973-977X

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Indice sommario

Prefazione

XI

Parte prima Filosofia e fisica. Dalla monadologia al criticismo 1. Una questione preliminare: perché Kant si occupò tanto di fisica?

3

1.1. La filosofia naturale tra fisica e metafisica, p. 3 1.2. L’innesto della fisica nella metafisica precritica, p. 8 1.3. Lo scopo della fisica nel sistema del criticismo, p. 25

2. Le sostanze e il mondo sensibile. L’idea di una metafisica dello spazio e il suo abbandono

34

2.1. Estetica trascendentale e metafisica, p. 34 2.2. Spazio e sostanze: fonti kantiane, tra Newton e Leibniz, p. 39 2.3. Spazio, forza e mondo noumenico: il Kant precritico, p. 86 2.4. Conclusioni: contingenza e relatività di tutte le proprietà oggettive, p. 143

3. Il problema della fisica nella filosofia trascendentale

154

3.1. Metafisica e natura: elementi e problemi sistematici, p. 154 3.2. Possibilità delle cose e intuizione empirica: il concetto di «esibizione», p. 185 3.3. Conseguenze del principio dell’esibizione per la psicologia, p. 202 3.4. Sostanza corporea e problema trascendentale della fisica, p. 208

V

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A) Due ipotesi sulla storia del criticismo dopo la Critica, p. 208 B) Sviluppo della prima ipotesi: esibizione puramente intuitiva, p. 220 Prima analogia dell’esperienza, p. 221 - Seconda analogia dell’esperienza, p. 225 - Terza analogia dell’esperienza, p. 229 - Principi metafisici della scienza della natura, p. 232 - Critica della facoltà di giudizio, p. 235 - Opus postumum, p. 239

C) Sviluppo della seconda ipotesi: esibizione e dinamica, p. 240 Analogie dell’esperienza, p. 241 - Critica della facoltà di giudizio, p. 249 - Principi metafisici della scienza della natura, p. 250 - Dopo il 1786, p. 259

3.5. Conclusioni: funzione trascendentale della fisica e relativizzazione della sostanza corporea, p. 272

4. Legalità e fondamento: il significato esemplare della fisica newtoniana per la filosofia

278

4.1. Concetto di forza e limiti della conoscenza, p. 278 4.2. Analogie tra fisica newtoniana e filosofia, p. 300

Parte seconda La metafisica della natura corporea nei Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft 5. Principi metafisici e scienza della natura

321

5.1. Il metodo della nuova metafisica e la possibilità della fisica matematica, p. 321 5.2. Non una “fondazione della fisica newtoniana”: fisica pura e scienze empiriche, p. 343 5.3. Appendice. Elementi puri ed elementi empirici nei Principi metafisici: necessità di una nuova posizione del problema, p. 370

6. Materia e movimento: gli elementi della fisica pura

392

6.1. Il problema del concetto empirico di materia, p. 393 6.2. Concetti del movimento, p. 411 6.3. Movimento, affezione e influsso fisico: un problema irrisolto dei Principi metafisici, p. 420

VI

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7. La Foronomia: spazio e movimento

447

7.1. Movimento spazio quiete: dalla percezione alla costruzione, p. 447 7.2. Principio di relatività e composizione dei movimenti, p. 458 7.3. Spazio puro e spazio assoluto: passaggio dalla geometria alla scienza del movimento, p. 469

8. La Dinamica

472

8.1. Dinamica e forza: premesse storiche del dinamismo kantiano, p. 472 A) Dynamica: fisica leibniziana e ricezione kantiana, p. 472 B) Le definizioni della forza: dalla dinamica leibniziana al dinamismo newtoniano, p. 484 8.2. Le forze fondamentali della materia e il concetto di sostanza fisica, p. 498 A) La forza repulsiva originaria e la materia del meccanicismo, p. 498 B) La forza repulsiva originaria: esame della dimostrazione (Teorema 1), p. 503 C) La parte e il punto: concetto dinamico di sostanza e continuità della materia (Teorema 4), p. 518 D) La forza attrattiva originaria: conflitto tra le forze fondamentali e origine della densità, p. 530 8.3. Dinamica pura e dinamica empirica, p. 548 A) Forza di attrazione originaria e gravitazione universale, p. 548 B) Incomprensibilità delle forze fondamentali e limiti della fisica pura, p. 560 C) Meccanicismo, dinamismo e passaggio alla fisica: legge delle forze e struttura della materia, p. 569 8.4. Conclusioni. Risultati e limiti della Dinamica, p. 586

9. La Meccanica: ripensamento dei concetti newtoniani

591

9.1. Gli elementi della meccanica metafisica, p. 591 9.2. Quantità di materia e quantità di movimento, p. 597 A) Quantità di materia, massa, quantità di movimento: riorganizzazione delle definizioni newtoniane, p. 597 B) Costruzione della quantità di movimento: premesse foronomiche e dinamiche, p. 602 C) La stima della quantità di movimento: pesatura e azione a distanza, p. 606

VII

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9.3. Le leggi della meccanica metafisica, p. 609 A) Prima legge della meccanica: conservazione della quantità di materia, p. 609 B) Seconda legge della meccanica: legge d’inerzia e vis inertiae, p. 613 C) Terza legge della meccanica: azione e reazione, comunicazione del movimento. Conclusioni sulla determinazione a priori dell’oggetto fisico, p. 622 9.4. Appendice. Relatività della massa e legge di azione e reazione: confronto con la trattazione di Mach, p. 636

10. La Fenomenologia

643

10.1. Movimento relativo, reale, assoluto, p. 643 10.2. Fenomenologia della percezione e problema del vuoto, p. 653

Parte terza Spazio, materia e forza nell’Opus postumum. Dalla fisica alla filosofia trascendentale 11. Il Passaggio dalla metafisica alla fisica: itinerario e problema dell’Opus postumum

667

12. Dall’ipotesi dell’etere al nuovo schematismo dinamico (1785-1799)

685

13. La materia cosmica come presupposto trascendentale

730

13.1. Il nuovo concetto del Weltstoff e le prove della sua esistenza, p. 730 A) Il concetto della materia cosmica e la difesa della filosofia trascendentale, p. 730 B) Le prove «analitiche» dell’esistenza del Weltstoff nei fogli ‘Übergang 1-14’ (1799), p. 746 13.2. Affezione e influsso: la biforcazione del Passaggio, p. 760

14. Fenomeno indiretto, autoaffezione, autoposizione, spazio: ritorno dalla fisica alla filosofia trascendentale

775

VIII

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Appendice. Il problema formale della legalità fisica nella Kritik der Urteilskraft

795

1. L’obiettivo gnoseologico della terza Critica, p. 795 2. Armonia e ambiguità della forma: sul tentativo di collegare bellezza naturale e legislazione della natura, p. 804

Figure

823

Indice bibliografico

827

Indice dei nomi

845

IX

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Questo libro è il risultato di ricerche avviate nell’anno 2001, nell’ambito del dottorato in “Logica ed epistemologia” dell’università «La Sapienza» di Roma. Versioni precedenti di alcune parti sono comparse nei seguenti lavori: la traduzione con introduzione e note di commento dei Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft (2003); la tesi di Dottorato Immanuel Kant: filosofia e fisica, discussa nell’a.a. 2004; il volume Immanuel Kant: dinamica e metafisica (2004); l’articolo Space, Aether and the Possibility of Physics in Kant’s Late Thought, comparso nella miscellanea C. Cellucci-P. Pecere, Demonstrative and Non-Demonstrative Reasoning in Mathematics and Natural Science (2006). Desidero ringraziare i professori che hanno reso possibili, seguito e incoraggiato le diverse fasi del lavoro, in primo luogo Costantino Esposito e Mirella Capozzi. Ringrazio anche, per i consigli e il supporto ricevuti in questi anni, Luigi Punzo, Raffaele Bruno, Stefano Poggi, Massimo Mugnai, Mauro Dorato, Angelo Bassi, Cinzia Ferrini, Chiara Fabbrizi, Silvia De Bianchi, Edmondo Colella e non ultimo Vincenzo De Risi. Infine il pensiero va all’indimenticabile insegnamento del prof. Emilio Garroni, che negli anni degli studi universitari mi ha convinto ad approfondire lo studio di Kant. Un grazie anche alla famiglia Beikircher, senza la cui affettuosa ospitalità lo studente, il dottorando, il contrattista e il ricercatore non avrebbero potuto trascorrere tanti mesi a München. Il libro è dedicato a Adriano, che ha retto il mondo con un dito.

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Prefazione

Questo libro propone un’interpretazione complessiva della filosofia della natura nel pensiero di Kant, che mette in rilievo come la riflessione sulle scienze non fu soltanto un aspetto settoriale tra i tanti delle ricerche kantiane, isolabile dal resto della sua filosofia teoretica, ma costituì invece un momento essenziale sia della critica alla metafisica precedente, sia dei diversi tentativi intrapresi da Kant per formare e portare a compimento una nuova metafisica. Questa prospettiva, per quanto solo occasionalmente solidale con tesi ben affermate negli studi kantiani, è stata sviluppata presupponendo e tentando di sintetizzare un ampio e eterogeneo sviluppo storiografico, di cui conviene accennare alcuni aspetti fondamentali. È stato riconosciuto da tempo come Kant, pur non essendo uno scienziato della natura vero e proprio, abbia dato un contributo storicamente esemplare alla distinzione e alla giustificazione teorica degli elementi metafisici, matematici ed empirici che costituiscono la scienza della natura, ponendo coordinate analitiche fondamentali per l’epistemologia e per la storia della scienza successive. Un grande interprete di Kant e della scienza moderna come Cassirer, per esempio, riteneva opportuno impiegare concetti kantiani per capire Cusano, Leonardo, Galilei, Newton. Non si trattava del pregiudizio scolastico di un “neokantiano”: di fatto molte delle migliori indagini storiche sulla genesi e la struttura della scienza moderna sono ritornate alle pagine e alle distinzioni operate da Kant, ritrovandovi un punto di riferimento teorico obbligato. Ancora nel 1975 il grande storico della cultura Eugenio XI

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Garin, tracciando un bilancio della questione del “platonismo” della scienza moderna, e sottolineandone l’irriducibile ambiguità, costituita dalla compresenza di metodologia e misticismo matematico, concludeva: «Chi abbia presenti, per fare un unico grande esempio, i primi scritti scientifici di Kant col loro faticoso dibattersi fra fisica e metafisica, prima di cartesiani e leibniziani, poi di newtoniani e humiani, fino al lento emergere e definirsi di una determinazione di campi, di limiti, di strutture, di fondamenti concettuali, di metodi, comprenderà come solo allora, in qualche modo, in quella laboriosa “critica” del sapere “scientifico”, si concludesse un processo apertosi fra la crisi rinascimentale della filosofia e la rivoluzione galileiana della scienza»1. Al di là dei dettagli, la conclusione era chiara: i protagonisti della filosofia naturale dei secoli XVI-XVII non distinguevano nettamente tra ipotesi metafisiche e metodi fisici, come gli studiosi hanno gradualmente riconosciuto approfondendo i motivi platonici della rivoluzione scientifica; ma se gli storici sono stati in grado di tracciare questa distinzione di elementi − e separare, per esempio, in Copernico le suggestioni “pitagoriche” ed “ermetiche” dal contributo strettamente matematico ad un’astronomia eliocentrica, in Galilei il “platonismo” matematico dai contributi sperimentali e teorici alla nuova meccanica matematica, e ancora in Newton le idee teologiche, alchemiche e i rimandi all’antichità negli “scolii classici” dal ragionamento che stabilì la legge di gravitazione universale – ciò è stato possibile perché questi storici hanno ripercorso idealmente l’itinerario del pensiero di Kant, che riuscì infine a separare la metafisica dogmatica dalla critica della conoscenza, senza negare il momento puramente teorico della scienza, e anzi affermandone con decisione la necessità. Tuttavia, non appena si consideri il «lento emergere e definirsi» delle idee kantiane in filosofia naturale, si deve precisare che quel processo di chiarimento teorico sulla scienza non coincise esclusivamente con la genesi del criticismo, ma attraversò momenti essenziali sia prima sia dopo la pubblicazione della Critica della ra1 E. GARIN, Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali tra XIV e XVIII secolo, Roma/Bari 1975, pp. 316-317.

XII

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gion pura, in corrispondenza con i diversi tentativi di elaborare una metafisica sistematica (lo riconosceva, qualche pagina dopo, lo stesso Garin). La storiografia kantiana del XX secolo, in effetti, ha seguito un percorso di revisione analogo e parallelo a quello degli studi sulla scienza e la filosofia moderne. Ciò che era sfuggito nei primi studi storicamente rigorosi sul Kant “scienziato della natura”, tra i quali spicca la fondamentale monografia di Erich Adickes, Kant als Naturforscher (1924-1925), era proprio la funzione integrante della scienza della natura per la riforma della metafisica. Certo anche a causa di questa situazione storiografica un interprete come Heidegger, nel suo tentativo di presentare Kant come iniziatore di una nuova «fondazione della metafisica», negò addirittura l’importanza della riflessione sulla scienza della natura per il problema della metafisica. Tuttavia, per opporsi così agli indirizzi esegetici positivistici e neokantiani, Heidegger perdeva di vista sul piano teoretico il significato autentico della «metafisica della natura» del criticismo2. Presso gli storici successivi, invece, si è gradualmente ravvivata l’esigenza di una comprensione storica della filosofia naturale kantiana che tenesse conto anche dei suoi aspetti metafisici. Questa linea di ricerche, ancora viva, ha talvolta condotto e conduce alcuni specialisti – analogamente a quanto accade con l’interpretazione della scienza moderna nel suo complesso – al tentativo eccessivo di ridimensionare la rottura del pensiero critico rispetto alla metafisica precedente. Ancora una volta l’equivoco si basa sull’attribuire a Kant un’idea di metafisica che non gli apparteneva: stavolta quella della metafisica leibniziana o wolffiana, su cui Kant si era effettivamente formato, ma che con il criticismo era stata profondamente ripensata e in alcuni casi definitivamente abbandonata3. Ma l’approfondimento degli stu2 Il testo di E. ADICKES, Kant als Naturforscher, Berlin 1924-25, resta imprescindibile per l’esame delle dottrine scientifiche kantiane e delle sue fonti e sarà tenuto continuamente presente nel corso del nostro esame. Di Heidegger mi riferisco ovviamente a Kant und das Problem der Metaphysik, Bonn 1929, ma va tenuto presente in proposito anche il dibattito con Cassirer tenutosi a Davos nello stesso anno, i cui documenti si trovano nella quarta edizione del libro (Frankfurt a.M. 1973). 3 Mi riferisco al tentativo di ristabilire una sorta di “metafisica latente” del criticismo, già presente nella storiografia tedesca della prima metà del secolo scorso (due

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di sulla filosofia naturale ha infine messo in luce la centralità teoretica e la complessità del rapporto di Kant con la scienza della natura, che è ben lungi dal potersi ridurre al punto di vista della Critica della ragion pura. A partire dagli anni ’50, in particolare, si è sentita la necessità di tornare su testi che anche gli interpreti più simpatetici – come i neokantiani di Marburg – avevano svalutato in quanto troppo legati alla situazione scientifica dell’epoca: cioè, per un verso, gli scritti scientifici precedenti e successivi alla Critica, per l’altro i Principi metafisici della scienza della natura e l’Opus postumum (si pensi, in contesti diversi, agli studi di Vuillemin, di Tonelli, di Mathieu). È stata dunque restituita la giusta attenzione al fatto che, dopo la Critica, Kant non si contentasse di aver stabilito alcuni principi generali della scienza della natura, ma continuasse piuttosto, nella nuova cornice, la ricerca di una compiuta metafisica della natura che aveva caratterizzato il suo pensiero fin dagli anni giovanili e che contribuiva ora a orientare e decidere le sorti della filosofia trascendentale. Queste constatazioni non sono ancora saldamente stabilite come dovrebbero tra gli specialisti di Kant. Inoltre, non sono diventate terreno comune di quelli che, occupandosi di proseguire e riformare sul piano teorico tradizioni filosofiche del XX secolo come il neokantismo, la fenomenologia, il neopositivismo, conservano ancora l’immagine della filosofia naturale kantiana diffusa all’inizio del secolo scorso: quella, dico, del Kant che avrebbe presupposto la geometria euclidea e la fisica newtoniana, e che perciò come filosofo naturale sarebbe stato senz’altro superato dagli sviluppi delle scienze del secolo successivo. Un’immagine che, associata all’ipotesi di un alternativo (ma non meno problematico) “ritorno a Leibniz”, divenne dominante nei primi decenni del secolo finanche nella cittadella degli studi kantiani, la rivista «Kant-Studien». Caratteristica fondamentale di questa interpretazione era la esempi tra i tanti: M. WUNDT, Kant als Metaphysiker, Stuttgart 1924; G. MARTIN, Immanuel Kant. Ontologie und Wissenschaftstheorie, Köln 1951, Berlin 19694), e che è ripreso con decisione in alcuni studi americani recenti (per es. negli studi di Americks, Langton, Watkins, citati in bibliografia), che saranno esaminati a suo tempo nel corso del libro.

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quasi totale identificazione della filosofia della natura di Kant con quanto si poteva leggere nella Critica della ragion pura, in particolare nell’Estetica e nella Logica trascendentale, che della filosofia della natura contenevano solo i principi più astratti. Tra le cause per cui continua a persistere questo equivoco, che rischia di impoverire i molti “ritorni a Kant” di cui si continua a parlare (soprattutto in ambito accademico), c’è forse anche la mancanza di una ricostruzione della filosofia naturale kantiana che insista sulla indissolubile continuità problematica che lega gli scritti kantiani successivi al 1781 a quelli precedenti. In ogni caso questo libro si propone una tale ricostruzione, resa possibile e opportuna anche da diversi brillanti studi particolari degli ultimi quindici anni su Kant e le scienze della natura4. Ai fini dell’interpretazione complessiva l’esame si concentrerà sui problemi che caratterizzano fin dall’inizio l’interna unità della filosofia naturale kantiana: la riflessione sullo spazio e sull’affezione dei sensi, la funzione fondamentale della fisica nel sistema della filosofia teoretica, il tentativo di realizzare una «fisica pura» dinamistica che incomincia nei primissimi scritti, viene ripreso nei Principi metafisici del 1786 e prosegue attraverso una cospicua quantità di riflessioni e interventi fino ai più tardi manoscritti dell’Opus postumum. Particolare attenzione ho dedicato proprio a questo periodo successivo alla prima edizione della Critica, prima di tutto perché esso è stato solitamente meno considerato nelle ricostruzioni d’insieme, ma soprattutto per ricalcare l’intensificazione del lavoro kantiano sulla filosofia naturale che lo caratterizza, e indagarne le ragioni. Per trovare un filo conduttore attraverso il complesso intreccio di fonti, testi successivi, riflessioni e ripensamenti, mi è sembrato opportuno prestare particolare attenzione all’“elemento sistemati4 Ricordo subito gli studi di M. FRIEDMAN, Kant and the Exact Sciences, Cambridge Mass. 1992, e E. FÖRSTER, Kant’s Final Synthesis. An Essay on the ‘Opus postumum’, Cambridge Mass./London 2000, che sono stati di fondamentale importanza nella preparazione di questo lavoro. Nelle ultime fasi di elaborazione ho potuto leggere anche il libro di K. WESTPHAL, Kant’s Transcendental Proof of Realism, Cambridge 2004, nella cui ricostruzione generale ho trovato molti confortanti elementi di consenso rispetto a quanto veniva emergendo dalle mie ricerche.

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co” del pensiero di Kant. Non soltanto perché ritengo in generale – condividendo un’impostazione ben rappresentata tra gli studiosi kantiani – che non ci si possa contentare di una storiografia che si limiti a individuare le fonti di un autore e a separare i molteplici “motivi” del suo pensiero, lasciando in ombra proprio lo specifico della riflessione filosofica, cioè l’elaborazione originale del pensiero5; ma anche perché solo l’esatta descrizione degli elementi teorici e delle argomentazioni può impedire la tendenza a intravedere “anticipazioni” e “riprese” – storicamente scorretta e teoricamente infruttuosa – che nel caso dell’interpretazione di Kant è stata particolarmente accentuata. Anche da questo punto di vista ho ritenuto opportuno sottolineare l’importanza di rileggere gli scritti successivi al 1781, nella speranza di proporre una ricognizione della filosofia naturale di Kant più ricca e obiettiva – da cui attingere eventualmente anche per gli innesti e i prelievi teorici6. 5 Per “elemento sistematico” intendo l’esame dei concetti e delle argomentazioni che a una dettagliata indagine storico-contestuale sul significato degli elementi teorici faccia seguire la sua analisi logica. Traggo l’espressione dal prezioso saggio metodologico di uno dei massimi storici del Kant scienziato, G. TONELLI, Qu’est-ce que l’histoire de la philosophie?, in «Revue philosophique de la France et de l’étranger», 152 (1962), 289-306, tr. it. in ID., Da Leibniz a Kant, Napoli 1987, pp. 293-309. L’autore parla della duplice esigenza di ricostruire storicamente la «situazione iniziale», o «pattern», che fa da sfondo al pensiero di un autore, e poi l’«elemento sistematico o, più esattamente, il sistema di giustificazione e di organizzazione che conferisce una struttura alle dottrine esposte» e ne caratterizza anche il contributo originale. Tonelli poneva delle questioni analoghe a quelle sollevate nello stesso anno dal celebre libro di T. KUHN, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago 1962, del tutto indipendentemente e muovendo da una storiografia filosofica che in Europa era fortemente impegnata in questi anni su temi metafisici (si pensi a Gueroult, altro autore di importanti riflessioni sulla storiografia). L’attenzione alla ricostruzione argomentativa è stata fruttuosa particolarmente negli studi kantiani angloamericani più recenti, come quelli ricordati nella nota precedente. 6 L’ipotesi di considerare i Metaphysische Anfangsgründe del 1786 e l’Opus postumum come due tentativi successivi e diversi di stabilire i “principi metafisici” della scienza della natura è stata avanzata in Italia da S. MARCUCCI, Kant e i primi principi «metafisici» della scienza della natura: dai Metaphysische Anfangsgründe del 1786 all’Opus postumum, in ID., Studi kantiani, Lucca 1988, I, pp. 15-42. La proposta avanzata in questo articolo, tuttavia, non è stata sviluppata da Marcucci attraverso un esame approfondito di questi due episodi fondamentali della metafisica della natura del

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Il tema che si è imposto quale filo conduttore principale dell’esposizione è il rapporto tra metafisica e fisica, che si snoda attraverso numerose svolte e complessi tentativi di sintesi e – imposto inizialmente da circostanze storico-culturali di cui diremo – occupa in genere la massima attenzione di Kant fino agli ultimissimi anni. Da questa scelta risultano immediatamente le esclusioni, che erano inevitabili in un lavoro già piuttosto lungo, e che coincidono anche con i limiti delle mie personali competenze. In primo luogo la logica, da cui Kant trae moltissimi degli strumenti analitici e argomentativi con cui viene trattata la filosofia naturale, soprattutto nel periodo del criticismo. In secondo luogo la filosofia della matematica: mi sono limitato a richiamarne quando necessario alcuni aspetti significativi, ma ho constatato in generale che Kant tenne effettivamente separata la riflessione sulla matematica dal progetto di una metafisica della natura che doveva procedere in base «a semplici concetti», e in genere vi si dedicò meno rispetto alla fisica. È poi rimasta a margine la teoria dell’organismo: essa non offre significativi contributi riguardo ai principali problemi di filosofia naturale che occuparono Kant; inoltre la concezione del giudizio teleologico non subì sostanziali modifiche in seguito alla sua fissazione intorno al 1790, mentre dopo quest’anno ebbero luogo numerose riforme del pensiero kantiano sul piano metafisico e fisico, che si mostreranno particolarmente rilevanti per la ricostruzione complessiva. Nel complesso ho dedicato poco spazio alla Critica della facoltà di giudizio, dove pure si trova l’altra grande tematizzazione della filosofia della natura nell’ambito delle opere di argomento trascendentale: sia perché non mi pareva di poter aggiungere molto rispetto agli studi già disponibili, sia perché anche questo qualcosa restava piuttosto estrinseco rispetto al filo conduttore tematico principale; perciò ne ho trattato in una appendice. In generale mi pare significativo che lo sviluppo del pensiero kantiano su tutti i temi fin qui elencati non abbia determinato un ritorno critico sui concetti fondamentali dell’Estetica e dell’Analitica trascendentale paragonabile a quello che si presenta, nell’Ocriticismo, né dei problemi che hanno condotto Kant alla riapertura del problema della fisica negli anni ’90.

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pus postumum, a partire dalla riflessione sulla fisica. Per la stessa ragione, riguardo alla fisica stessa, ho scelto infine di approfondire concetti e ipotesi della fisica empirica – che sono stati già eccellentemente affrontati in numerosi studi7 – soltanto nei casi e per gli aspetti che hanno un rilievo per la problematica metafisica generale che ricostruisco nella prima parte. Tutte queste esclusioni, dunque, mi sono sembrate funzionali a ritrovare quella che mi sembra la linea problematica fondamentale della filosofia naturale kantiana, che passa soprattutto per i testi di argomento fisico, ma coincide solo accidentalmente con una vera e propria ricerca da fisico. Per tutti questi motivi, che spero si mostreranno giustificati, ho accolto la generosa proposta del prof. Costantino Esposito di affrontare una ricostruzione complessiva di questo tema. La struttura del lavoro non segue un ordine rigorosamente cronologico, ma di fatto sono approfonditi di volta in volta i temi e i problemi fondamentali che collegano e orientano la successione degli scritti kantiani lungo i tre grandi assi temporali degli scritti «precritici», della Critica della ragion pura e degli scritti successivi. La prima parte contiene uno studio generale del rapporto tra filosofia trascendentale e fisica considerato nelle sue principali coordinate storiche, che risalgono all’epoca dei primissimi scritti kantiani e a un contesto filosofico dominato dai modelli di Newton e Leibniz. Ho approfondito in primo luogo (capitolo 2) alcuni aspetti delle ricerche di cosmologia in età precritica, in particolare il progressivo abbandono del progetto di una metafisica dello spazio, poiché vi si trova a mio avviso il prologo di tutta la filosofia naturale del criticismo: la composizione dell’Estetica trascendentale determinò infatti, insieme alla posizione di alcune premesse fondamentali positive di tutta la filosofia della natura, anche la rinuncia alla soluzione di alcuni classici problemi metafisici della filosofia naturale precedente, che Kant aveva affrontato soprattutto all’om7 Oltre ai libri di Adickes e Friedman già ricordati, esistono molti lavori su aspetti e problemi particolari del nostro tema che verranno discussi nel corso del lavoro. In Italia si può ricordare l’imponente progetto avviato da P. GRILLENZONI, Kant e la scienza, di cui è comparso finora il primo volume dedicato agli anni 1747-1755 (Milano 1998).

XVIII

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bra di Leibniz. Nel capitolo 3 presento un’interpretazione del significato sistematico della fisica nel sistema del criticismo, che attraverso il problema tecnico della «esibizione» dei concetti conduce agli sviluppi della filosofia naturale successiva al 1781. In questo capitolo si trova la giustificazione dell’inquadramento generale del libro, cioè dell’esigenza di seguire lo sviluppo degli scritti di fisica e dinamica fino agli ultimissimi anni kantiani, poiché proprio negli anni ’90 Kant ritorna approfonditamente su problemi cruciali che nelle opere precedenti erano stati trattati in modo difettoso, o lasciati da parte. Infine – dopo aver lungamente sostato sull’eredità leibniziana – ho ritenuto opportuno svolgere nel capitolo 4 il tema del rapporto tra filosofia e fisica newtoniana, per quel che concerne non i dettagli tecnici della fisica – che sono affontati nelle parti successive – ma l’impostazione filosofica generale: alla luce della generalizzazione gnoseologica del concetto di forza, Kant espresse questo nesso in tre importanti analogie tra la filosofia newtoniana e la propria (comparse rispettivamente negli anni 1764, 1786 e 1787), di cui ho cercato di mostrare il diverso significato. La seconda parte (capp. 5-10) contiene uno studio della metafisica della natura corporea (o fisica pura) esposta nei Principi metafisici della scienza della natura del 1786. Si tratta dell’opera di più ampio respiro dedicata nel criticismo alla filosofia naturale, e anche dell’unico tentativo compiuto di dare una sistemazione a elementi e teorie di filosofia naturale che Kant conosceva e elaborava fin dall’esordio. Rispetto alla parte precedente, che contiene un inquadramento storico e interpretativo generale, si trova qui la dettagliata esposizione di un testo meno frequentato: perciò ho dato più spazio alle citazioni e nell’analisi ho seguito l’ordine delle cinque sezioni in cui si articola l’opera. Inoltre, rispetto alla parte precedente, più metafisica, ho prestato maggiore attenzione qui ai concetti scientifici particolari che Kant presuppone e rielabora8. 8 Non si tratta comunque di un “commentario”, ma pur sempre di uno studio che si concentra sui problemi generali messi a fuoco nella parte precedente. Un commentario ricchissimo di materiale è da poco disponibile: K. POLLOK, Kants “Metaphysische

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La terza parte è dedicata agli scritti successivi al 1786 e in particolare all’Opus postumum. Si tratta di nuovo di uno studio selettivo, che si concentra, dopo un breve inquadramento generale, sullo sviluppo straordinario che ricevono in questi anni i problemi studiati in precedenza. Particolare attenzione ho prestato alla graduale modificazione di questioni originariamente considerate fisiche in questioni trascendentali. Questo vale in particolare per il concetto di etere, o calorico, che viene considerato negli ultimi anni ’90 come «spazio ipostatizzato»; e più in generale per la stessa nozione di fisica empirica, che viene ritenuta bisognosa di una nuova fondazione filosofica a priori, la quale dà luogo successivamente alle riflessioni sul «sistema elementare delle forze motrici», su un nuovo «schematismo della facoltà di giudizio», sul «fenomeno indiretto» come anticipazione dell’oggetto fisico, che proseguono senza soluzione di continuità verso nuove riflessioni strettamente trascendentali su temi come l’autoaffezione e l’autoposizione del soggetto nello spazio. Si riscontra in genere un ritorno dalla fisica a questioni dell’Analitica e dell’Estetica trascendentale – riconosciuto esplicitamente da Kant stesso – che conforta infine l’ipotesi di lettura complessiva fin qui avanzata. Parlare di conclusioni, al di qua dell’esposizione, può essere fuorviante. In ogni caso, rispetto alla tendenza dominante negli studi kantiani, si possono indicare alcuni risultati, la cui rilevanza mi è apparsa solo nel corso della redazione definitiva dei diversi capitoli e che dunque si possono considerare a buon titolo delle conclusioni intrinseche delle mie ricerche. Il primo, come si accennato all’inizio, è l’importanza della fisica per il compimento della filosofia trascendentale. Essa consiste nella convergenza del progetto di realizzare un sistema della filosofia teoretica con il problema di dare una fondazione a priori alla fisica, il quale si articola a sua volta in diversi problemi particolari le cui molteplici fonti ho cercato di volta in volta di mettere adeguatamente in evidenza. Questo ruolo sistematico è per molti versi analogo a quello che la fisica rivestiva nella metafisica precritiAnfangsgründe der Naturwissenschaft”. Ein kritischer Kommentar, Hamburg 2001(d’ora in poi citato come MA Kommentar).

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ca, ma assume nella cornice del criticismo una precisa valenza teorica di cui ho cercato di definire origine e funzione nel modo più esatto possibile. Il secondo è il superamento dell’opinione erronea secondo cui Kant si sarebbe proposto – con più o meno successo – di realizzare una “fondazione della fisica di Newton”. Questo pregiudizio è la principale fonte del disinteresse per lo sviluppo della filosofia naturale kantiana dopo la Critica – cioè, proprio per il periodo in cui il Kant “critico”, presupponendo la logica, fece i conti con la fisica vera e propria. Per un verso è evidente che la metafisica e poi la filosofia trascendentale di Kant costituiscano un tentativo di porre le basi razionali di una cosmologia di tipo newtoniano: un universo infinito, organizzato secondo leggi matematiche e occupato da una molteplicità di mondi, che era stato il risultato faticosamente raggiunto dall’astronomia e dalla fisica europee dei secoli XVI-XVII, è ormai un presupposto acquisito, di cui Kant si occupa soprattutto per elaborarne una giustificazione filosofica alla luce di un’idea di natura retta per quanto possibile dal principio della legge fisico-matematica. Ma, al di là di questo dato generalissimo e in sé poco caratterizzante, l’idea di una “fondazione della fisica di Newton” è scorretta, per due ragioni di fondo. La prima è che il rapporto tra filosofia e fisica in Kant non può essere ricondotto a una categoria di “fondazione” che, presupponendo il contenuto della scienza da fondare, è inadeguata a esprimere i molteplici piani teorici distinti da Kant per articolare il passaggio dai concetti della metafisica generale a quelli della fisica sperimentale – distinzioni in cui risiede spesso gran parte del contributo filosofico kantiano: per esempio, dal punto di vista della teoria maturata negli anni Novanta, la filosofia trascendentale è seguita dalla fisica pura e ancora da un sistema elementare delle forze e da un rispettivo schematismo, e solo in base a questi molteplici presupposti è possibile parlare delle particolari teorie scientifiche, come la fisica di Newton, che da questo apparato dottrinale ricevono secondo Kant diversi elementi concettuali e argomentativi, anche al di là di quanto credessero gli scienziati di orientamento empiristico. La seconda ragione è che Kant non aveva presente senz’altro qualcosa come una “fisica di Newton”, paragonabile a quella conXXI

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solidatasi come meccanica classica nel secolo successivo, ma piuttosto un complesso di testi e problemi, che si diramano spesso dai luoghi più marginali dei Principia mathematica e dell’Ottica di Newton, oltre che da testi di altri fisici e metafisici che si cimentavano con l’interpretazione della nuova fisica. Cosa fu la Naturlehre, cui il professore di Logica e metafisica conferì sì grande importanza per la filosofia nel suo complesso, e in cosa consistette il particolare punto di vista di Kant rispetto alle opere di Newton e alle scienze della natura dell’epoca sono questioni trattate specificamente in un paragrafo (il § 5.2), ma che vengono tenute costantemente presenti nel corso delle analisi particolari della fisica pura nei capitoli successivi. Proprio una delle tesi fondamentali della filosofia naturale kantiana su cui avremo modo di soffermarci a lungo, quella della continuità della materia, costituisce il miglior esempio dell’autonomia dell’indagine kantiana rispetto alla fisica newtoniana. Essa si pone in antitesi alle rappresentazioni corpuscolari della materia: ne risulta infatti una risoluzione della sostanza corporea separata in un sistema cosmico di interazioni dinamiche interne a una sostanza materiale unica (se ne tratterà in dettaglio nei §§ 8.2-8.4 e 13.1). Pur attraversando tutto lo sviluppo degli scritti di filosofia naturale almeno dagli anni ’70 fino all’Opus postumum, questa tesi resta sempre problematica, è anzi la fonte dei principali problemi della teoria della materia, proprio nella misura in cui essa è frutto di una critica filosofica dei concetti scientifici più diffusi e non trova adeguato appoggio in nessuna teoria fisica dell’epoca. Infine, considerando la varietà di posizioni e strategie allestite da Kant nel tentativo di precisare quel collegamento tra metafisica e fisica, in cui ne andava della stessa scientificità di entrambe le discipline, mi pare di aver messo in evidenza – al di là del problema del “sistema” – una complessità della teoria della conoscenza a priori di cui raramente si trova traccia nelle discussioni su Kant e il kantismo. Non si tratta solo della complessità storica di una teoria che viene mutando e sviluppandosi tra diverse revisioni, ma anche di una complessità sistematica evidenziabile nella stessa prima formulazione della filosofia della natura del criticismo, cioè nelle trattazioni di concetti come spazio, materia, soXXII

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stanza, causa, movimento, forza, che rimandano la propria conclusione oltre i confini testuali della Critica della ragion pura: per cui nella teoria della conoscenza a priori è possibile e opportuno distinguere elementi metafisici, matematici, fisico-ipotetici che Kant cerca di comporre e ordinare secondo l’idea della sintesi trascendentale, attraverso un processo che oltrepassa l’ambito dell’Analitica trascendentale, sul quale solitamente si è concentrata l’attenzione degli interpreti. Anche da quest’ultimo punto di vista, che tende a mettere in luce il lavoro del pensiero rispetto alla forma esteriore del sistema (che del resto, in Kant, è essenziale a quel lavoro), si sono rivelati esemplari i materiali dell’Opus postumum, che insieme agli scritti minori e alle riflessioni manoscritte precedenti giustificano l’impressione di un pensiero intrinsecamente aperto verso nuovi problemi. Infine la speranza è che il lettore possa ricavare dall’esposizione molto più di quanto così riassunto, e magari più di quanto ha pensato l’autore stesso, come a me è avvenuto leggendo altri libri migliori di questo.

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Parte prima Filosofia e fisica. Dalla monadologia al criticismo «J’ai fait costruire une tour au haut de la quelle je placerai une observatoire: l’étage d’en bas devient une grotte, le 2e une salle pour des instruments de physique» [Da una lettera di Federico II a Voltaire, 10 ottobre 1739]

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Capitolo 1 Una questione preliminare: perché Kant si occupò tanto di fisica?

1.1. La filosofia naturale tra fisica e metafisica L’interesse per la scienza della natura o filosofia naturale (Naturwissenschaft, Naturphilosophie) attraversa tutta l’opera di Kant. Una questione di fisica fu il tema della sua primissima pubblicazione, i Gedanken von der wahren Schätzung der lebendigen Kräften (1747). Lo stesso si può dire della dissertazione magistrale De igne (1755) e del suo primo libro, la Allgemeine Naturgeschichte und Teorie des Himmels (1755). Tra il 1754 e il 1758 pubblicò inoltre ben otto scritti brevi di stretto argomento fisico. Anche negli scritti di argomento metafisico prodotti in ambito accademico – la Principiorum primorum metaphysicorum nova dilucidatio (1755) e la Monadologia physica (1756) – concetti e principi fisici occupavano un ruolo di grande importanza. Lo stesso si può dire delle opere degli anni ’60, come lo Einzig mögliche Beweisgrund zu einer Demonstration des Dasein Gottes (1763) e lo scritto Über die Deutlichkeit der Grundsätze der natürlichen Theologie und der Moral (1764). L’attenzione per la fisica non diminuì con il conseguimento della cattedra di Logica e metafisica e poi con l’elaborazione del criticismo. Lo testimoniano i numerosi e non occasionali riferimenti alla fisica nelle tre Critiche, un’opera esplicitamente dedicata alla «parte pura» della scienza della natura come i Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft (1786) e i nuovi scritti brevi di argomento fisico come Über die Volkane im Monde (1784) e Über den Einfluß des Mondes auf die Witterung (1792). 3

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La lettura delle riflessioni manoscritte e delle Nachschriften relative alle sue lezioni universitarie conferma e accresce l’immagine di un interesse continuo per la filosofia naturale, che dagli esordi giovanili prosegue ininterrotto fino agli ultimissimi anni1. Come mostra una primissima ricognizione tematica filosofia naturale e fisica vengono di fatto a coincidere, tenendo conto che quest’ultima riguardava una grande varietà di fenomeni, di cui solo la minor parte erano trattati matematicamente: perciò, al di qua delle distinzioni sistematiche che Kant introdurrà nel criticismo, parleremo indifferentemente dell’una e dell’altra, secondo una tendenza peraltro dominante nella manualistica dell’epoca. Fatta questa precisazione, dunque, la riflessione kantiana sulla fisica ci si presenta come un unico tragitto carsico, fitto di incertezze, svolte e ripensamenti, di cui le opere pubblicate non rappresentano che delle parziali e a volte occasionali emersioni. Infine, a conferma della rilevanza del tema per le stesse questioni metafisiche e trascendentali, l’imponenza dei manoscritti pubblicati integralmente nel 1936 col titolo di Opus postumum (circa 1796-1800) documenta addirittura una tarda intensificazione dell’impegno sulla fisica; lo stesso progetto di un «Passaggio dai Principi metafisici della scienza della natura alla fisica» – come suona il titolo di lavoro che compare in queste carte, destinate ad assorbire tutte le energie dell’ultimo Kant – sembra testimoniare che dietro la questione di una scienza particolare, che di per sé poteva costituire solo un’appendice disciplinare del sistema, si celasse una questione filosofica più generale. È noto d’altra parte che il Kant “scienziato” non produsse mai alcun risultato di rilevo in fisica e anzi non padroneggiò mai adeguatamente la disciplina, tanto da andare incontro a frequenti 1 Le riflessioni di argomento fisico si trovano nel vol. XIV delle Gesammelte Schriften, con un ricchissimo e insuperato apparato di note redatto dall’editore Erich Adickes, che documenta i rapporti tra Kant e le scienze del suoi tempo. Le Vorlesungen di argomento fisico si trovano nel vol. XXIX, pp. 67-169. Un elenco dei corsi tenuti da Kant si trova in E. ARNOLDT, Möglichst vollständiges Verzeichnis aller von Kant gehaltenen oder auch nur angekündigten Vorlesungen nebst darauf bezüglichen Notizen, in ID., Gesammelte Schriften, Berlin 1907-09, vol. IV, pp. 335ss. Cf. W. STARK, Einleitung, in KgS XXV, pp. XCVIIss.

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fraintendimenti ed errori2. Anche l’originalità delle sue ipotesi fisiche, talvolta sottolineata a dispetto delle capacità nello svilupparle, viene fortemente ridimensionata dallo studio delle fonti3. È 2 Lo dimostrò in dettaglio lo stesso Adickes, dapprima nelle sue Anmerkungen ai pertinenti volumi dello Handschriftlicher Nachlass, nell’edizione dell’Accademia di Berlino, poi nella fondamentale monografia che corona il suo studio dei manoscritti kantiani: E. ADICKES, Kant als Naturforscher, Berlin 1924 (Bd. I), 1925 (Bd. II). Sull’approccio essenzialmente non matematico di Kant alla fisica si veda ADICKES, Kant als Naturforscher, I, pp. 2ss., 17ss., 49ss., che in base al suo esame dettagliato delle fonti insiste sul dilettantismo scientifico di Kant e sulla risultante infruttuosità di tutte le sue congetture fisiche. Adickes insiste sul fatto che Kant sarebbe stato capace di intuizioni geniali (come quella della cosmogonia “nebulare”), ma poco incline al lavoro di elaborazione matematica e di verifica sperimentale che in molti casi lo avrebbero aiutato a evitare i difetti logici delle sue ipotesi. Sostiene, in particolare, che le conoscenze kantiane in matematica oltrepassavano a fatica l’aritmetica di base, e ricorda come questi avesse escogitato qualche esperimento, ma ne avesse realizzati solo un paio, di scarso rilievo. Per tutte queste ragioni Adickes conclude che Kant avrebbe avuto una Geistesanlage non da «scienziato», ma da «filosofo naturale», e lo paragona in tal senso a Schelling. Ma in verità questo paragone non aiuta a fare chiarezza sulle esatte competenze kantiane e sulle circostanze in cui esse si formarono. Si discute ancora su quanto avesse pesato l’educazione accademica kantiana su questa situazione di “dilettantismo”, e alcuni studiosi recenti rimarcano come lo stesso Knutzen, che fu il principale referente scientifico negli anni della sua formazione, non appartenesse alla piccola élite di scienziati tedeschi in grado di padroneggiare i dettagli matematici della fisica newtoniana. Un episodio in proposito è molto istruttivo: nel 1738 Knutzen aveva predetto la comparsa di una cometa, che fu avvistata puntualmente nell’inverno del 1744. Egli pubblicò dunque un saggio sulle comete, in seguito al quale divenne noto oltre i confini di Königsberg. Euler reagì subito osservando, in diverse occasioni, che la cometa osservata nel cielo non era la stessa di cui si riferiva la previsione di Knutzen, e così ridimensionava implicitamente le ambizioni scientifiche di quest’ultimo con un giudizio negativo sulle sue competenze matematiche. Considerando l’incidente occorso al maestro non c’è da stupirsi se Euler, due anni dopo, avrebbe ignorato l’esordio del giovane allievo. L’aneddoto è documentato in H.-J. WASCHKIES, Physik und Physikotheleologie des jungen Kant, Amsterdam 1987, p. 310. Su questo aspetto della formazione kantiana si veda M. KUEHN, Kant. A Biography, Cambridge 2001, pp. 83-88, che insiste a sua volta sullo scarso livello della didattica all’Albertina. 3 Penso per esempio al giudizio di una originalità o addirittura genialità della cosmogonia “nebulare” esposta nella Allgemeine Naturgeschichte, che è ancora diffuso ed ha contribuito alla reputazione del Kant scienziato sotto il titolo di “ipotesi KantLaplace”. È noto infatti che simili ipotesi genetiche, consuete già in fisica cartesiana, erano già sviluppate anche nella fisica più recente (si pensi, per restare ai casi noti a Kant, a Buffon e Wright of Durham). Anche la teoria dinamica della materia, di cui ci occuperemo a lungo, sviluppava idee newtoniane in modo analogo a numerosi autori

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poi un fatto significativo che la sua filosofia della natura non seppe ispirare nei posteri alcun risultato scientifico di rilievo, per non parlare di “nuove scienze”: poiché essa, al contrario del «nuovo atteggiamento teoretico – cioè [...] metafisico» che Koyré sottolineava quale fattore essenziale della rivoluzione scientifica del secolo XVII, mirava alla delimitazione d’ambito e dunque, proprio sul piano dei principi, alla chiusura delle scienze. Non a caso, dunque, Kant dovette affrontare fin dall’inizio il disinteresse se non addirittura il biasimo dei fisici di professione per i suoi interventi scientifici. Ciononostante continuò a rivolgersi idealmente agli scienziati della natura fino agli ultimissimi anni, con una convinzione adamantina che non poteva nascere da una ormai superflua ricerca di riconoscimento, ma si fondava su un’intrinseca esigenza del suo pensiero4. Lo attestano i tardi manoscritti rimasti precedenti e contemporanei. L’originalità kantiana, lo vedremo, risiede più nell’impostazione filosofica generale (per es. l’antiteleologismo) e nella connessione di queste ipotesi con concetti e problemi della metafisica, che nel loro effettivo sviluppo fisicoipotetico. 4 Riassumiamo gli episodi salienti della ricezione della filosofia naturale kantiana presso i fisici. Lo scritto sulle forze vive, in cui il ventitreenne Kant osava correggere quasi tutti i protagonisti della disputa, venne già deriso da Lessing in un epigramma (M. KUEHN, Kant. A Biography, p. 95), e ciononostante inviato nel 1749 a Euler, che rispose con un pesante silenzio (la lettera di accompagnamento è pubblicata da H.-P. FISCHER, Kant an Euler, «Kant-Studien» 76 (1985), pp. 214-218. La Allgemeine Naturgeschichte fu inizialmente quasi ignorata, tanto che Kant ritenne opportuno inserire un riassunto della sua «cosmogonia» nel suo secondo libro (lo Einzig mögliche Beweisgund). Dopo la comparsa delle Cosmologische Briefe über die Einrichtung des Weltbaues di Lambert (1761), in cui veniva avanzata un’ipotesi analoga sulla formazione delle galassie, Kant ebbe la soddisfazione di un riconoscimento illustre, poi testimoniato dalla pubblicazione del carteggio (si veda lettera di Lambert del 13 novembre 1765, in KgS X, 52-53, da cui si evince che questi teneva soprattutto a rimarcare la precedenza delle sue idee su quelle di Kant). Un rinnovato interesse per la Allgemeine Naturgeschichte si ebbe negli anni del criticismo, quando però Kant era interessato soprattutto alla connessione sistematica tra filosofia trascendentale e fisica. Nei Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft, ormai celebre, egli si rivolgeva direttamente ai fisici di professione, augurandosi che «una mano più abile» portasse a compimento il progetto intrapreso nella nuova opera di far precedere i principi metafisici a quelli fisici in capo agli stessi manuali (MA 478). Il silenzio dei fisici fu quasi totale, e venne spezzato prevalentemente da voci fortemente critiche (v. cap. 3, nota 122). Un certo apprezzamento per quest’opera sarebbe arrivato, a partire dai

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inediti, ma è noto anche che egli giunse a dichiarare pubblicamente, nei tardi anni ’90, che la mancanza di una nuova opera sui principi «filosofici» – e non matematici – della filosofia naturale costituiva uno «iato» nel sistema del criticismo5. Ci si può domandare dunque a quale scopo Kant si rivolse ininterrottamente alla fisica. La ragione di questo impegno non può risiedere in un interesse accidentale, incoraggiato magari dalla moda culturale e da quella che Kant stesso definisce – in riferimento a Newton – la «blühendsten Zustande» della filosofia naturale dell’epoca6. La vera ragione risiede piuttosto nel più noto, e confessato, interesse kantiano per la metafisica. Un vero e proprio rimando reciproco di metafisica e fisica è infatti il tema principale di tutta la filosofia della natura kantiana. Esso costituisce il motivo unificante di tutte le opere e i luoghi che abbiamo ricordato, e rimane costante attraverso i diversi modi in cui fisica e metafisica vengono successivamente definite. È ovviamente anche il tema su cui Kant seppe muoversi con maggiore abilità e originalità: il che ripaga anche lo studioso che ne voglia ripercorrere lo sviluppo. tardi anni ’90, solo presso autori come Schelling, e poi Hegel, che però ne fraintesero del tutto l’impostazione metodologica e la richiamarono impropriamente a sostegno della propria polemica antinewtoniana. Alla luce di queste vicende nel complesso poco esaltanti, colpisce che Kant non esitasse a dedicarsi negli ultimi anni alla redazione di una nuova opera in cui sosteneva con argomenti vecchi e nuovi la necessità di principi «filosofici» e non solo matematici della fisica. 5 La questione dello «iato» nel sistema venne posta in due lettere del 1798, a Ch. Garve e a J.G.C.C. Kiesewetter. Kant vi insiste sull’importanza di completare questa opera, in cui «il compito della filosofia critica sarà completato» (lettera a Kiesewetter, 19 ottobre 1798, KgS XII, 258; la lettera a Garve, del 21 settembre, si legge in KgS XII, 257). I resoconti dei biografi sono concordi sull’entusiasmo kantiano per il suo ultimo progetto, ma anche in una certa enfasi agiografica che invita alla prudenza. È però particolarmente significativa la testimonianza di Jachmann, secondo il quale Kant avrebbe sostenuto che la nuova opera sarebbe stata la «chiave di volta di tutto il suo insegnamento [Lehrgebäude]» in quanto doveva «dimostrare conclusivamente la tenuta [Haltbarkeit] e la reale applicabilità [reelle Anwendbarkeit] della sua filosofia». R.B. JACHMANN, Immanuel Kant geschildert in Briefen an einen Freund, Königsberg 1804 (rist. Bruxelles 1968), Dritter Brief, pp. 17-18. 6 Logik, KgS IX, 32.

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Lungo questo sviluppo si possono individuare alcuni caratteri costanti del suddetto rimando reciproco: la fisica presuppone una metafisica da cui trarre concetti fondamentali e principi dotati di validità necessaria, mentre la metafisica attinge dalla fisica la caratterizzazione dei fenomeni empirici in cui questi stessi concetti e principi si concretizzano, traendovi ispirazione per una propria riforma. Il nesso tra le due discipline ha dunque un aspetto organico, che però resta latente fintanto che Kant resta legato all’idea – destinata a rimanergli tale – di una metafisica del tutto autonoma rispetto alla fisica. Nel criticismo, invece, il nesso organico tra metafisica e fisica diviene esplicito. Isolate l’una dall’altra, le due discipline perdono la propria scientificità: una metafisica senza applicazioni fisiche manca di un sicuro riferimento oggettivo (almeno dal punto di vista teoretico), mentre la fisica matematico-empirica senza principi metafisici resta ignara dei presupposti che la distinguono da una mera «arte» (Kunst). Parafrasando Kant si può dire che la metafisica senza fisica è vuota, mentre la fisica senza metafisica è cieca. Compimento di una nuova metafisica e perfezionamento della fisica dunque tendono a coincidere. Il luogo in cui questa coincidenza viene dichiarata in modo esemplare è la Prefazione ai Principi metafisici della scienza della natura. La cesura del criticismo determina dunque, anche e soprattutto riguardo a questo tema, un radicale rivolgimento concettuale. Volendo capire meglio in che cosa consistesse lo scopo sistematico della fisica sarà perciò opportuno distinguere la filosofia naturale precritica, che è senz’altro metafisica, da quella del criticismo, che Kant chiamerà «filosofia della natura». Vi ritroveremo due versioni molto diverse di una dipendenza reciproca tra metafisica e fisica, che fu in entrambi i casi essenziale.

1.2. L’innesto della fisica nella metafisica precritica È opportuno richiamare innanzitutto i tratti fondamentali del rapporto tra metafisica e fisica quale veniva impostato nel contesto filosofico in cui ebbe luogo la formazione kantiana: da qui infatti Kant riprende i termini e i problemi della questione, affrontandoli 8

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da subito con una certa originalità7. Il sistema di Wolff costituisce certamente lo sfondo sistematico più adeguato per introdurre la questione, tenendo presente che esso costituì per Kant nello stesso tempo un sistema di riferimento privilegiato ma anche un obiettivo critico. La questione del luogo sistematico della filosofia naturale comporta infatti – in modo più immediatamente evidente di quanto non accada nel criticismo – un ripensamento delle distinzioni di piano, tipiche del sistema wolfiano, tra l’ontologia, come metafisica generale, la cosmologia, come metafisica speciale, e la fisica empirica vera e propria. Fin dallo scritto sulle forze vive è evidente uno sforzo di ritornare sulle ragioni della distinzione tra metafisica e fisica ripartendo – come aveva fatto Leibniz – dallo stesso piano della dinamica empirica e matematica. In questo scritto si coglie già quello che rimarrà l’aspetto più originale di tutta la filosofia naturale kantiana: si tratta del tentativo di cercare nella fisica newtoniana l’ispirazione per la riforma e il perfezionamento di una metafisica monadologica di ispirazione leibniziana e wolffiana. Considerando ora alcuni aspetti generali di questo tentativo possiamo vedere come in esso prese forma quella peculiare determinazione del rapporto tra metafisica e fisica che restò valida fino alla cesura del criticismo. Verso una simile impresa Kant era stato avviato certamente dall’esempio del suo maestro Martin Knutzen. Questi introdusse Kant alla disputa sull’influsso tra le sostanze e fu forse il primo autore tedesco ad introdurre l’attrazione newtoniana nel contesto di tale disputa metafisica, destinata a dirigere l’impostazione della filosofia naturale kantiana fino alle estreme appendici del criticismo. La disputa sull’influsso, che ebbe luogo nelle università tedesche nei 7 Sulla genesi del pensiero kantiano e le sue fonti sono stati scritti numerosi studi eccellenti, e alcuni aspetti fondamentali risultano definitivamente chiariti. Ancora fondamentali restano gli studi di M. CAMPO, La genesi del criticismo kantiano, Varese 1953, e G. TONELLI, Elementi metodologici e metafisici in Kant dal 1745 al 1768, I, Torino 1959, che però si ferma al 1762. In quest’ultimo libro si trova eccellentemente chiarita l’originalità del pensiero kantiano di questi anni. Si vedano più di recente le utili sintesi di FRIEDMAN, Kant and the Exact Sciences, pp. 1-28; B. FALKENBURG, Kants Kosmologie, Frankfurt a.M. 2000, pp. 25-59; M. SCHONFELD, The Philosophy of the Young Kant. The Precritical Project, Oxford 2000.

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primi decenni del XVIII secolo, non fu di certo tra gli episodi più brillanti del pensiero europeo del secolo, e presenta anzi le caratteristiche più negative delle discussioni scolastiche da cui discendeva; ma è fondamentale ricordarne i tratti generali perché essa – anche con la sua astrattezza – costituisce il primo contesto in cui formano gli interessi filosofici di Kant riguardo alla fisica, e un sistema di riferimento essenziale anche per valutare gli sviluppi della filosofia naturale più tarda8. La nozione di influsso, ampiamente diffusa nella scolastica medievale, concerneva la caratterizzazione del nesso causale tra le sostanze che compongono il mondo9. La discussione era complicata, alla luce della filosofia cartesiana, dal riacutizzarsi della questione del rapporto tra anima e corpo, ma era stata riaccesa in Germania soprattutto con l’adesione di Wolff alla teoria dell’armonia prestabilita e la popolare esposizione di questa dottrina che questi aveva dato nei Vernünftige Gedanken del 1720 (la cosiddetta Metafisica tedesca). Adottando una terminologia leibniziana, Wolff parlava di influsso tra le sostanze quando l’una contiene in sé la ragione (Grund) di proprietà dell’altra: ma con ciò restava indeterminato il preciso significato metafisico di questa relazione. Come era noto, Leibniz aveva fermamente negato che gli accidenti potessero «migrare» da una sostanza all’altra, e in particolare aveva denunciato l’assurdità che un simile influsso potesse descrivere i rapporti tra anime e corpi. Con la teoria dell’armonia prestabilita, dunque, egli aveva sostituito questa relazione di fondazione con 8 Per un inquadramento generale è ancora fondamentale il libro di B. ERDMANN, Martin Knutzen und seine Zeit, Leipzig 1876. Sulle difficoltà wolffiane relative all’influsso fisico, e le soluzioni avanzate dai primi interpreti, si vedano anche: M. CAMPO, La genesi del criticismo kantiano, in part. pp. 105-112; M. CASULA, Die Lehre von der prästabilierten Harmonie in ihrer Entwicklung von Leibniz bis A.G. Baumgarten, «Studia Leibnitiana Supplementa» 14 (1975), 397-414; E. WATKINS, The Development of Physical Influx in Early Eighteenth Century Germany: Gottsched, Knutzen, and Crusius, «Review of Metaphysics», 49 (1995), 295-339; ID., From Pre-established Harmony to Physical Influx: Leibniz’s Reception in 18th Century Germany, «Perspectives of Science», 6 (1998), 136-203. 9 Si veda per es. F. SUÀREZ, Disputationes metaphysicae, XII, s. 2, n. 4, 13 (cf. Disputaciones metafisicas, ed. S. Rábade Romeo-S.Caballero Sánchez-A. Puigcerver Zanón, Madrid 1960, vol. II, pp. 351-352 ; 358).

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una mutua corrispondenza stabilita da Dio, e in questo senso, pur parlando di influsso, egli ne affrancava il concetto da ogni connotazione realistica e lo considerava come una relazione che risulta dai concetti individuali delle sostanze10. Wolff aveva accolto con una certa prudenza la teoria leibniziana, di cui non comprendeva fino in fondo le ragioni, sviluppandola in una diversa metafisica dualistica: egli accoglieva il valore delle tesi leibniziane rispetto al problema psicologico dell’influsso tra anima e corpo, ma non il panpsichismo di Leibniz e dunque non accoglieva l’ambiziosa deduzione metafisica del mondo sensibile della tarda monadologia11. Quasi subito, comunque, Wolff era stato oggetto dei violenti attacchi dei pietisti, che lo accusarono di fatalismo e ne determinarono la cacciata da Halle nel 1723. Di fronte a questi attacchi, negli anni successivi, egli sfumò ulteriormente le sue posizioni tentando di sottolineare l’autonoma consistenza del suo sistema rispetto all’ipotesi dell’armonia prestabilita. In ogni caso furono le sue iniziali incertezze – su cui dovremo tornare al momento di trattare della metafisica dello spazio – a incoraggiare prima ancora dell’offensiva pietista un lavoro di chiarimento, che ebbe inizio immediatamente presso i suoi seguaci. Il primo a occuparsene – con molta chiarezza – fu Georg Bernhard Bilfinger, il quale già nel 1721 contrappose la dottrina dell’influsso fisico, che ammette una reale azione reciproca tra corpo e anima (nella percezione e nel movimento volontario), a quelle dell’occasionalismo e dell’armonia pre10 Per esempio, Leibniz parlava indifferentemente di armonia o «influsso» nella corrispondenza con Clarke, che era stata pubblicata nel 1717, e tradotta in tedesco nel 1720 (CLC 493). 11 Già nella Ratio praelectionum del 1718 Wolff aveva ammessa l’armonia prestabilita in psicologia per spiegare l’influsso tra anima e corpo, ma nei Vernünftige Gedanken dell’anno successivo dichiarava di avere «ancora riserve» ad ammettere le monadi nel senso leibniziano, il che pregiudicava anche l’accettabilità dell’armonia di tutte le monadi. WOLFF, Ratio praelectionum Wolffianarum in mathesin et philosophiam universam, Halle (1718) 17352, sec. II, cap. 3, §§ 11-12, in WGW II, 36, pp. 144146; Vernünftige Gedanken von Gott, der Welt und der Seele des Menschen, auch allen Dingen überhaupt, Halle (17201) 175111, § 598, rist. in WGW, I, 2, p. 368-369. Cf. ERDMANN, Martin Knutzen, pp. 57, 61-64. Sull’influsso in Wolff si veda anche J. ÉCOLE, La métaphysique de Christian Wolff, Hildesheim/New York 1990, in WGW III, 12.1, pp. 301ss.

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stabilita, e così facendo compose una triade rimasta canonica per le discussioni metafisiche successive, che giunge fino a Kant12. Il violento contesto polemico non giovava a una discussione già pregiudicata in partenza da una certa aporeticità: Bilfinger dichiarava che «l’armonia prestabilita è il solo sistema valido», ma già nel 1724 Wolff affermava di averla ammessa «quasi contro voglia»; inoltre non riceveva la dovuta attenzione il fatto che Bilfinger ritornasse alla tesi della facoltà rappresentativa di tutte le monadi. Si ebbero negli anni successivi vari tentativi di risolvere la questione con più sottili distinzioni, per esempio di tenere separate la questione psicologica da quella metafisica. Importante era la caratterizzazione, posta da Bilfinger13, dell’influsso fisico come «naturale» ma «estrinseco» (in quanto congiunge sostanze eterogenee) e di quello dell’occasionalismo come «sovrannaturale» ed «estrinseco» (in quanto attribuisce ogni cambiamento a Dio, dunque a una sostanza eterogenea rispetto alle altre, capace di violare l’ordine della natura), ai quali veniva preferito l’influsso dell’armonia prestabilita, in quanto «naturale e intrinseco», cioè conforme a principi d’ordine nella successione delle rappresentazioni validi per entrambi i generi di sostanza (in questo senso “naturale”) e tali da collegare solo sostanze omogenee. Il punto fondamentale non era dunque l’ammissione dell’influsso, ma la sua specifica determinazione metafisica, e per questa ricerca si avanzavano diversi criteri orientativi: se in Bilfinger prevalevano criteri di semplicità e omogeneità, sempre più acuta divenne negli anni successivi – anche a 12 G.B. BILFINGER, Dissertatio de harmonia praestabilita, Tübingen 1721. L’opera venne rielaborata due anni dopo con il titolo (che vale la pena di riportare per intero) di De harmonia animae et corporis humani maxime praestabilita, ex mente illustris Leibnitii, commentatio hypothetica (Frankfurt 1723). Si vedano qui i §§ 13-17 in cui si precisa che i tre sistemi sono i soli possibili (3a ediz. del 1741, rist. in WGW III, 21, pp. 10-13). Un’esposizione più concisa si trova nelle successive Dilucidationes philosophicae de Deo, anima humana, mundo, et generalibus rerum affectionibus (Tübingen 1725), in part. sez. III, cap. IV, § CCCXXI ss. (rist. in WGW III, 18, pp. 313ss.). La tripartizione dei sistemi dell’influsso viene ripresa nella trattazione di A.G. BAUMGARTEN, Metaphysica, Halle (17391) 17797, rist. Hildesheim/New York 1982, § 436-465, ed è dunque sotto gli occhi di Kant in tutto il periodo della filosofia critica (per le sue lezioni di metafisica Kant usò la quarta edizione del 1757). 13 Dilucidationes, § CCCXII.

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seguito dell’insistenza polemica di Crusius sul “concreto” – la tendenza a privilegiare il raccordo della teoria con i fenomeni, per cui molti simpatizzanti del pensiero wolffiano accolsero diverse versioni di influsso fisico14. Il ritorno al piano della fenomenologia dell’influsso si concentrò, oltre che sul fatto della volontà libera – dominante a livello della polemica pietista, ma teoreticamente molto scarno – anche sulla rappresentazione fisico-meccanica dell’azione reciproca. Quest’ultima tendenza è tipica per esempio delle teorie dell’influsso di Gottsched, di Reusch, e infine anche del Systema causarum efficientium (1735) di Knutzen, che presenta anche un ritorno al monismo metafisico e costituisce, per entrambe le caratteristiche, il modello più prossimo del primo intervento di Kant nello scritto sulle forze vive. Torneremo su alcuni dettagli di queste discussioni trattando della metafisica dello spazio. Quel che importa qui è ricordare l’ipotesi originale e ambiziosa del giovane Kant – che in ciò si mostrò subito autonomo rispetto a Knutzen – di una determinazione dell’influsso tra le sostanze mediante il concetto di azione a distanza, mutuato dalla fisica newtoniana. Lo studio del primo scritto kantiano è in effetti prezioso, nonostante i tanti infortuni argomentativi che lo percorrono, soprattutto perché mostra come Kant tentasse una trascrizione metafisica dell’azione a distanza per determinare l’influsso tra le sostanze, ricavandone la stessa genesi della rappresentazione spaziale; e tutto questo, a giudicare dal testo, ancora prima di accogliere pienamente la fisica della gravitazione newtoniana (cosa che si può considerare avvenuta con certezza solo intorno al 1754)15. 14 Le posizioni differivano a volte in modo sottile, ma tanto le discussioni interne alla metafisica wolffiana, e l’esigenza del sistema di collegarla con le altre scienze, quanto le polemiche pietistiche, incoraggiarono una diffusione di diverse varianti di influsso fisico, che però poteva essere ideale o reale. In questo senso parlare di armonia o influsso fisico non basta a distinguere in modo pertinente le diverse posizioni dell’epoca, e la stessa categoria del “wolffismo” si dimostra quanto mai vaga. 15 Nella Allgemeine Naturgeschichte, d’altra parte, Kant potrà scrivere (KgS I, 308): «L’attrazione è dunque senza dubbio una proprietà della materia che si estende tanto quanto la coesistenza che costituisce lo spazio, collegando le sostanze attraverso dipendenze reciproche, oppure, per dire più propriamente, l’attrazione è questa stessa

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Questi primissimi cenni ci servono dunque a stabilire un assunto fondamentale che vale per l’intero itinerario della filosofia naturale precritica: la tradizione scolastica di ispirazione leibniziana e wolffiana ne costituisce il modello metafisico, già di per sé frammentario e controverso; ma questo modello viene da subito ripensato e per così dire ricomposto in modo originale attingendo a nozioni fisiche. D’altra parte la fisica newtoniana – sulla cui prima conoscenza diretta da parte di Kant non possediamo notizie certe16 – viene accolta fin da subito attraverso una impostazione metafisica che ne modifica spesso radicalmente il senso rispetto alle delimitazioni poste da Newton, e viene impiegata come elemento chiave per la fondazione di una metafisica che ancora manca. Proprio per questo, come il nostro studio confermerà in ogni parte, si deve parlare solo con molte riserve di elementi “leibniziani” e “newtoniani” della filosofia naturale kantiana. Lo si può cominciare a vedere attraverso una rassegna di alcuni elementi teorici degli scritti precritici, che ci aiuterà a definire gli aspetti più generali del rapporto tra metafisica e fisica nel lungo itinerario “precritico”. Tra gli elementi “leibniziani” si potrebbe annoverare in primo luogo la stessa precedenza logica della metafisica sulla meccanica, che si traduce nel tentativo di deduzione di spazio, tempo e movimento dall’attività delle sostanze immateriali e costituisce in ciò un aspetto fondamentale di tutti gli scritti precritici. Ma questo progetto dinamico-metafisico viene elaborato attraverso una nozione di sostanza tipicamente wolffiana (che era diversa da quella originale di Leibniz) secondo cui le sostanze vengono localizzate nelrelazione universale che unisce le parti della natura in uno spazio: essa si diffonde [erstreckt] dunque per tutta l’estensione di quest’ultimo, in tutte le ampiezze della sua infinità». 16 Non è chiaro quando Kant avesse letto per intero i Principia mathematica e l’Ottica. La notizia secondo cui Knutzen avrebbe «prestato Newton» al giovane Kant è riportata dal biografo e amico di Kant L.E. BOROWSKI, Darstellung des Leben und Charakters Immanuel Kants, Königsberg 1804, p. 92. Cf. KUEHN, Kant. A Biography, p. 88, che però solleva dubbi sull’attendibilità della biografia di Borowski, ivi pp. 9-12. In ogni caso i testi di Newton circolavano ampiamente a Königsberg fin dall’inizio del secolo, e la Allgemeine Naturgeschichte dimostra una conoscenza di prima mano. Diverse citazioni delle due opere maggiori di Newton si trovano poi nei Principi metafisici.

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lo spazio. Inoltre Kant conferisce fin dall’inizio scarso rilievo alla possibilità di determinare l’influsso tra le sostanze considerandone l’attività percettiva – l’universalità della Vorstellungskraft e la potenzialità deduttiva di una simile ipotesi leibniziana erano appunto tra le questioni più incerte del wolffismo – e procede piuttosto, come già Knutzen, ragionando in termini geometrici e fisicodinamici. Il fatto che Kant da metafisico ricorra a concetti fisici newtoniani, dunque, è almeno incoraggiato da un contesto in cui – come vedremo meglio – era già in atto una libera interpretazione della metafisica leibniziana. D’altra parte il riconoscimento di una philosophia naturalis, quale indagine sulle «vere cause» dei fenomeni fisici, distinta e superiore rispetto alle ipotesi dei matematici, non era affatto una prerogativa della tradizione leibniziana e wolffiana in opposizione a quella newtoniana. Diffusa in tutta Europa con il platonismo e l’aristotelismo tardomedievali e rinascimentali, era ben presente anche nella cultura inglese, non soltanto nel platonismo di Cambridge, ma anche nella stessa tradizione baconiana della filosofia sperimentale. Lo stesso Newton si era richiamato a questa idea quando aveva rimesso ai «filosofi naturali» il compito di indagare la causa della gravità e i suoi seguaci si erano divisi tra chi aveva decretato la vanità di tali indagini (come i fisici olandesi, e molti dei francesi) e chi aveva mantenuto oscillazioni analoghe a quelle del maestro, tentando diverse soluzioni, ora nel senso di un dinamismo essenzialistico (come nel caso di John Keill), ora tornando a un meccanicismo di tipo cartesiano (come Euler). Tra questi i dinamisti come Keill costituirono uno dei modelli fondamentali di Kant, non solo nel primo scritto, ma ancora in quelli degli anni ’50. Il fatto che un giovane metafisico e vorace lettore di fisica, come era il giovane Kant, si rivolgesse a questi modelli è ben comprensibile se si considera che la fisica wolffiana era altrettanto integralmente dinamistica rispetto a certo newtonianismo, ma molto meno promettente dal punto di vista della descrizione dei fenomeni (parallelamente, che egli esordisse con la traslazione dell’azione a distanza a livello monadologico mostra quanto poco “newtoniana” fosse la sua metafisica). All’originaria commistione di metafisica e fisica non contribui15

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rono comunque soltanto ragioni intrinsecamente teoriche. La contesa tra newtoniani e wolffiani, che era accesissima in seno all’Accademia delle Scienze di Berlino fin dalla sua fondazione, scandì i temi a cui Kant decise di dedicare quasi tutti i suoi primi scritti. L’episodio più rilevante, dal nostro punto di vista, è costituito dal concorso sulle monadi bandito nel 1745, che vide opporsi il Presidente Maupertuis e il matematico Euler (che in metafisica era tendenzialmente un cartesiano) contro i wolffiani, difesi in sede istituzionale dal segretario Formey, in quello che fu probabilmente un tentativo pilotato fin dal principio di screditare la monadologia17. Letti su questo sfondo i frammenti di metafisica che si possono ricavare dal primo scritto kantiano testimoniano di una posizione originale, ispirata verosimilmente da un ideale di irenismo filosofico, che caratterizzerà tutta la filosofia di Kant, e che consiste peraltro nell’escogitare posizioni inaccettabili a entrambi i partiti in lotta18: egli fa infatti propria una metafisica delle sostanze incorporee (cosa che sarebbe parsa infondata tanto a Maupertuis quanto a Euler), ma la realizza mediante il concetto di azione a distanza, che era per i wolffiani un anatema; e certo anche Leibniz in persona avrebbe ritenuto fantasioso l’ideale richiamo alla sua dinamica metafisica contenuto in questo scritto. I successivi sviluppi di una teoria metafisica dell’influsso, che trovano espressione sistematica negli anni ’55-’56 e poi ancora nella dissertazione del ’70, presentano caratteristiche analoghe. Ma alla luce del carattere incompiuto del primo gruppo di scritti e della nota insoddisfazione che Kant dichiarò subito riguardo alla seconda si deve dire subito che Kant non avanzò mai una compiuta teoria dell’influsso tra le sostanze immateriali; il che, insieme alle sue ripetute affermazioni (fino agli anni ’60) sulla metafisica come scienza ancora cercata, conferma che la metafisica leibniziana costituì per lui – per ra17

Sul concorso, conclusosi nel 1748, si veda TONELLI, Elementi metodologici, p.

190. 18 Sull’irenismo, che Kant ereditava idealmente da Leibniz, insiste opportunamente SCHONFELD, The Philosophy of the Young Kant, pp. 56-62 (cf. KgS I, 32). TONELLI, Elementi metodologici, parla di «eclettismo», ma soprattutto per insistere sull’opportunità di non rinchiudere in un aggettivo l’originalità e le tante prospettive che si aprono nelle prime opere kantiane.

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gioni che dovremo esaminare – soprattutto un ideale offuscato, che esigeva ancora una realizzazione. Un altro elemento che si potrebbe considerare “leibniziano” è l’insistenza sull’autonomia della natura, che veniva opposto – notoriamente nella corrispondenza tra Leibniz e Clarke – all’ammissione newtoniana di un necessario intervento divino a tutela dell’ordine della natura (per esempio, per la conservazione universale della quantità di movimento). Leibniz in persona si era vantato della semplicità della sua filosofia naturale rispetto a Newton con i suoi riferimenti al diretto intervento di Dio nelle cose del mondo, e Kant farà di questa stessa esigenza di autonomia uno dei suoi principi irrinunciabili, rimandando la teleologia al piano metafisico di un generale ordinamento razionale della natura19. Di nuovo, però, la realizzazione di questo principio comporta la ricerca di una legalità che Kant cerca di verificare fin dall’inizio sul piano fisico, senza prendere in considerazione l’ipotesi leibniziana di ricavarla dal concetto stesso della sostanza individuale. Dopo gli scritti degli anni ’47 e ’54-’56, in cui la legalità della natura è concepita in termini di forze attrattive e repulsive, questa ricerca procede attraverso una crescente rivalutazione metodologica dell’esperienza, a cui si accompagnano numerosi richiami al metodo newtoniano per la stessa definizione del metodo metafisico (il più significativo sarà contenuto nello scritto del ’64 sui principi della teologia naturale e della morale). Per tale sviluppo dell’ideale dell’autonomia della natura un modello esemplare era rappresentato certamente da Maupertuis. È particolarmente significativo che Kant nello Ein19 La critica al Dio «orologiaio» che deve riparare di tanto in tanto la sua opera difettosa è l’argomento principale del primo scritto di Leibniz, che diede luogo alla polemica con Clarke (CLC 23). La polemica, in sé interrotta, risultò nei decenni successivi in una diffusione della tesi dell’autonomia della natura all’interno della stessa filosofia naturale newtoniana, che celebrò nel XVIII la sua piena vittoria. Su questo aspetto della polemica tra Leibniz e Clarke sono ancora da leggere le eccellenti pagine di A. KOYRÉ, From the Closed World to the Infinite Universe, Baltimore/London 1957, pp. 235-276. La posizione kantiana è affermata più volte negli scritti degli anni ’50: caratterizza la tesi principale della Allgemeine Naturgeschichte e costituisce il motivo filosofico di molti scritti fisici minori di questo periodo. In seguito trova espressione generale soprattutto nella seconda sezione dello Einzig mögliche Beweisgrund (KgS II, 93-154).

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zig Mögliche Beweisgrund del 1763 − ritornando sul tema di un concorso del’Accademia delle scienze bandito nel ’56 − prendesse posizione a favore della necessità delle leggi di natura, elevando il principio di minima azione di Maupertuis dal piano fisico a piena dignità metafisica. Di nuovo, come nel caso dell’azione a distanza, un concetto sorto in campo newtoniano (anche se, stavolta, tutt’altro che estraneo a quello leibniziano), veniva traslato e innestato nella problematica di una filosofia naturale monadologica. Un discorso analogo vale per gli espliciti tentativi di riformulare una teoria dell’armonia prestabilita, in cui si ripete (nel ’55 e nel ’70) la predilezione per una teoria che, rispetto a quella leibniziana, privilegi la legalità collettiva delle sostanze rispetto a quella individuale: dove la differenza posta da Kant – che forse non colpisce in pieno l’originaria posizione di Leibniz – si coglie soltanto sul piano fisico, considerando l’efficacia del concetto di gravitazione. La fisica newtoniana, concepita in termini filosoficamente più rigorosi di quanto avesse fatto lo stesso Newton, era dunque un modello di autonomia della natura tanto quanto la metafisica leibniziana, favorito però dalla sua efficacia descrittiva sul piano empirico: il primo libro di Kant, la Allgemeine Naturgeschichte, è la testimonianza migliore di questo orientamento. Un discorso analogo si potrebbe fare anche per altre due dottrine particolari, che si possono considerare “leibniziane” almeno per quanto riguarda il confronto con i newtoniani, cioè l’ammissione del pieno o la relatività del movimento: ne apprezzeremo in seguito l’enorme importanza e, di nuovo, il trattamento originale. Ma l’altro elemento metafisico che conviene qui introdurre è la nozione del fenomeno, inteso come contenuto rappresentativo cui corrisponde un fondamento ad esso eterogeneo. Si tratta di un altro concetto che si ritroverà in tutta la filosofia naturale kantiana, mutato di valore con il mutare del contesto metafisico. Anche in questo caso, infatti, Kant poteva interpretare in questi termini leibniziani anche il fenomeno della fisica newtoniana, cioè il semplice dato dei sensi (la Naturbegebenheit), come molti fisici tedeschi avevano già cominciato a fare, e insomma si trovava a dover definire il fenomeno in un contesto già profondamente sincretistico. Del fenomeno leibniziano Kant mantiene dunque, ancora una volta, il com18

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pito di un suo collegamento con il piano metafisico delle sostanze, intraprendendo però lungo vie originali la ricerca di una tale fondazione. In generale si può concludere: dalla metafisica leibniziana e wolffiana Kant ricava soprattutto alcuni elementi di impostazione generale, che contribuiscono al compito di realizzare una scienza che descriva il fondamento sostanziale del mondo fenomenico, trovando in esso il principio di una piena autonomia della natura stessa. Concetti e metodi per realizzare questa metafisica Kant li cerca però liberamente attingendo alla fisica, convinto che una metafisica soddisfacente non sia ancora stata compiuta. Così facendo, fino al 1770, realizza uno svolgimento originale del compito che Leibniz aveva assegnato alla filosofia naturale, tale da condurre a uno sconfinamento della rigida dicotomia teorizzata da quest’ultimo e al tentativo di far intersecare variamente fisica empirica e metafisica, recando in quest’ultima concetti e metodi della precedente. Nel criticismo, invece, principi logico-trascendentali e concetti fisici verranno tenuti rigorosamente distinti, mentre il loro collegamento sarà ritenuto indispensabile per il conseguimento di una conoscenza oggettivamente valida. L’impostazione della metafisica leibniziana – dapprima abbandonata di fatto – verrà a questo punto abbandonata in linea di principio. Un discorso speculare e analogo si può fare ora per i presunti elementi “newtoniani” della filosofia naturale. Abbiamo già visto che l’azione a distanza viene introdotta nella metafisica dei Gedanken prima ancora che si possa parlare di un’adesione alla fisica newtoniana. Ma i testi più significativi sono proprio quelli (comparsi tra il 1755 e il 1756) della prima, entusiastica adesione alla fisica di Newton, nei quali Kant realizza un tentativo sistematico più compiuto (benché ancora frammentario) di cosmologia metafisica, e cioè il De igne, la Nova Dilucidatio, la Monadologia physica, la Allgemeine Naturgeschichte. Non se ne può ricavare un sistema, ma questi testi sono indubbiamente legati da una fitta rete di riferimenti, e si possono riunire sotto il titolo comune di un abbozzo di “cosmologia monadologica attrazionista”, dove lo stesso termine ‘cosmologia’, che era stato adottato in metafisica da Wolff nella Cosmologia generalis del 1731 e ripreso da Maupertuis nel19

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l’Essai de cosmologie del 1750 per introdurre stavolta un’esposizione newtoniana, esprime il carattere disciplinarmente aperto delle ricerche kantiane. Come si è detto, il vero e proprio elemento newtoniano è qui la gravitazione, che viene considerata il fenomeno dell’influsso tra le sostanze. Il concetto di gravitazione, dunque, viene sottratto alle cautele del metodo sperimentale newtoniano, che pure Kant mostra di conoscere bene. Le riserve di Newton vengono del tutto abbandonate, non solo nel senso che Kant pretende di conoscere la causa del fenomeno della gravitazione (che sarebbe l’influsso metafisico tra le sostanze), ma anche perché cerca di procedere da questa causa a una deduzione della gravitazione come proprietà essenziale della materia e finanche alla determinazione a priori delle sue proprietà matematiche. Riguardo a questo tentativo ingegnoso, che esamineremo in seguito, è dunque evidente che il “newtonianismo” è molto peculiare, ed è forse addirittura fuorviante esprimersi in questi termini: Kant “finge” deduzioni in stile wolffiano, nonostante la volontà di affrancarsi da questo modello e di contrastarlo. Ma la ricezione del concetto di gravitazione, di cui studieremo tutte le sfaccettature, ci permette subito di sottolineare quanto il rapporto di Kant con la fisica matematica newtoniana fosse in generale problematico. Nonostante i richiami alle opere di fisici matematici come Maupertuis, Euler e Keill, l’atteggiamento di Kant rispetto alla fisica matematica rimane quella di un ammiratore esterno, preoccupato soprattutto dei problemi filosofici: viene apprezzata l’esattezza che la matematica è capace di arrecare, viene addirittura sostenuta, nella Monadologia physica, l’esigenza programmatica di realizzare una «metaphysica cum geometria iuncta»; tuttavia, i dettagli matematici di questa impresa vengono lasciati a margine del discorso filosofico. La cosa dipende forse anche da una scarsa competenza personale di Kant, che non era in sé un’eccezione presso i filosofi estimatori del newtonianismo (come Voltaire e la marchesa di Châtelet), e finanche presso molti fisici tedeschi di professione, ma non può restare senza conseguenze teoriche per l’ambizioso progetto metafisico kantiano, proprio in quanto questo poggia anche sul concetto della legge gravitazionale. Negli stessi anni in cui Kant riprende in sede metafisica l’ipo20

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tesi, in sé non nuova, di una giustificazione della legge matematica della gravità in base a considerazioni geometriche (la Monadologia physica compare nel 1756), è in corso infatti una disputa sulla validità universale della formula newtoniana presso i maggiori fisici matematici dell’epoca. Euler, acerrimo oppositore del concetto di azione a distanza e ben lontano dal deduttivismo geometrico di alcuni attrazionisti inglesi, considera da diversi anni la possibilità che la legge dell’inverso del quadrato, per quanto valida in prima approssimazione, possa richiedere delle correzioni per render conto dei moti di oggetti poco distanti (come quelli reciproci dei pianeti). Riguardo ai moti reciproci di Terra e Luna Clairaut afferma senz’altro la necessità di una correzione nel 1748, per poi correggersi l’anno successivo. Euler riconosce il valore delle indagini di Clairaut, che conferiscono «nuovo lustro alla teoria del grande Newton», solo nel 1750, dopo aver potuto conoscere i metodi di derivazione sviluppati da quest’ultimo e inviati per il concorso dell’Accademia di Berlino sulle disuguaglianze dei moti lunari rispetto alla teoria newtoniana, proposto dallo stesso Euler per l’anno successivo. Nonostante tutto, continuando a occuparsi dei moti lunari fino agli anni ’70, Euler conserverà il dubbio sulla possibilità di aggiungere un fattore correttivo alla legge di Newton20. Tutte problematiche di cui Kant non darà mai notizia di essersi accorto, mentre ancora nei Principi metafisici del 1786 presenterà, sia pure con significative cautele, l’ipotesi matematica di trent’anni prima. È fondamentale tener presente tutto questo, nell’accingerci a studiare la filosofia naturale del criticismo, poiché come è noto Kant dichiarerà nella Prefazione ai Principi metafisici che la scienza della natura non è possibile «senza l’ausilio della mate20 L’episodio è ricordato, da ultimo, in R.S. CALINGER, Leonhard Euler: Life and Thought, in R.E. BRADLEY-C.E. SANDIFER (eds.), Leonhard Euler: Life, Work, Legacy, Amsterdam/Oxford 2007, pp. 32-34. Euler pubblicò le derivazioni dei moti lunari in due volumi rispettivamente del 1753 e del 1772. Un utile riepilogo della questione si può ricavare dalla dissertazione di P. SCHROEDER, La genèse de la loi de la gravitation universelle et le tentative de sa démonstration à travers le problème des trois corps et la théorie de la Lune – de Newton à Euler et Laplace, Bamberg 2006, che mostra come la questione si prolungò ancora fino a Poincaré e rimase aperta almeno fino all’intervento di Einstein.

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matica», in un passo che è frequentemente citato – spesso a sproposito – per sottolineare una sua straordinaria attenzione al ruolo della matematica in filosofia naturale. Vedremo infatti che la tesi di un necessario contributo della matematica alla stessa metafisica corrisponde all’esigenza di sviluppare una parte pura della scienza della natura, del tutto autonoma rispetto alla fisica matematico-sperimentale. Questo orientamento, come si vede, si trova già negli scritti degli anni ’50. L’intera questione ci interessa non soltanto per quanto riguarda la ricezione della fisica, ma anche per introdurre un aspetto della filosofia della matematica kantiana che un così gran ruolo svolgerà nel criticismo, e che ha anch’esso un certo legame storico con il newtonianismo. Ben presto, infatti, Kant adotta una concezione costruttiva del metodo matematico, e come abbiamo appena visto ne fa uso anche in metafisica. Le dimostrazioni geometriche cui si riferisce, per studiare la divisibilità infinita dello spazio o la composizione dei moti, sono tutte realizzate mediante la costruzione geometrica (il bilancio si avrà, a posteriori, nello scritto metodologico del ’64). Per tutti gli anni ’50 e ’60 Kant presenta diversi elementi di una fondazione metafisica della geometria, ma lo fa soprattutto attraverso concetti teologici e teleologici, senza trovare un nesso intrinseco tra la teoria della sostanza finita e le proprietà geometriche dello spazio. Negli anni ’60 egli accoglie invece la primitività della rappresentazione dello spazio e del tempo, che era peraltro diffusa presso i fisici e i filosofi di questi anni, tra i quali in proposito non è molto utile distinguere i newtoniani (Kant incontrò questa posizione, variamente argomentata, soprattutto in Crusius, Euler, Lambert). Ma nello sviluppo dei pensieri kantiani in materia risiede certamente un altro elemento di rottura rispetto a Leibniz, di cui dovremo studiare attentamente le conseguenze, e che condurrà infine all’abbandono del progetto di una metafisica dello spazio nel senso monadologico di una deduzione dello spazio dalle sostanze: nel criticismo si consolida la tesi che non si può dare una risoluzione logica o metafisica di spazio e tempo. Perciò, anche se Kant afferma l’indispensabile contributo dei principi trascendentali per la formazione delle proposizioni matematiche, egli tiene sempre distinti i principi filosofici da quelli matematici, in 22

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quanto questi ultimi si basano anche sulle forme dell’intuizione. In questo senso vanno lette anche le tarde affermazioni dell’Opus postumum sulla impossibilità di «principi filosofici della matematica», che si riferiscono anche alla fisica matematica e in particolare alla sua componente intuitiva spazio-temporale21. L’ultimo aspetto “newtoniano” che occorre accennare qui, e che si presenta abbondantemente negli scritti degli anni ’60, corrisponde alla definizione del concetto di forza: uno dei punti più importanti e complessi della cosmologie metafisiche di ispirazione leibniziana, che di nuovo Kant ritenne opportuno sviluppare guardando agli inglesi. La dinamica era stata per Leibniz non soltanto una disciplina fisica, ma il vero e proprio elemento di continuità tra la metafisica e la fisica. Conservandone il rilievo, Kant accoglie un concetto di forza newtoniano, che dalla fisica si estende non solo alle altre scienze della natura ma alla stessa gnoseologia. Secondo questo concetto la forza si definisce in base alla connessione dei fenomeni secondo una legge (il che valeva anche per Leibniz), ma si accompagna intrinsecamente all’ignoranza del fondamento dei fenomeni stessi. Questo nesso legalità-fondamento era molto diffuso presso fisici ed interpreti empiristi di Newton, in diverse varianti, dal tendenziale strumentalismo metodologico a un pieno scetticismo, e sono dunque molteplici le fonti che Kant poteva tenere presenti. Ciò che importa, comunque, è che esso era del tutto estraneo alla dinamica e alla metafisica di Leibniz, il quale aveva anzi lottato apertamente contro le tesi lockiane e newtoniane su una certa imperscrutabilità della forza, vedendovi né più né meno che il famigerato ritorno alle qualità occulte degli scolastici. Kant prese invece spunto dal concetto newtoniano di forza proprio 21 È particolarmente interessante rilevare la distanza che separa gli abbozzi di Introduzione all’opera incompiuta sul «Passaggio», dove Kant insiste su questo punto contro D’Alembert e Abraham Kästner – per es. nei fogli che fece copiare in vista della redazione definitiva: KgS XXII, 544-546 – da un testo come gli Initia rerum mathematicarum metaphysica di Leibniz, che è del 1714 (ma restò inedito), dove si legge che «vi è un’arte analitica più ampia della matematica, dalla quale la scienza matematica mutua tutti i suoi metodi più eccellenti» (GM VII, 17). Gli interlocutori di Kant sono piuttosto Newton, Wolff, e appunto, nell’Opus postumum, D’Alembert e Kästner. Seguiremo questa vicenda di allontanamento dalla filosofia leibniziana nel § 2.2.

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come modello esemplare di una delimitazione intrinseca e insuperabile della conoscenza umana, ben prima di caratterizzare questa delimitazione nei termini trascendentali dell’Estetica, e poi ne mantenne l’importanza in tutto il criticismo. Il carattere specificamente “newtoniano” di questo motivo, di nuovo, è discutibile, e verrà discusso. Esso costituisce comunque un utile punto di vista, tra i tanti, su come l’ispirazione metafisica leibniziana della filosofia precritica entrasse in crisi, e cominciasse quella riflessione scettica che condurrà alla dottrina dell’idealità di spazio e tempo. Prima di superare questo spartiacque, e avendo concluso questa prima ricognizione di elementi “leibniziani” e “newtoniani”, siamo in grado di riassumere lo scopo della filosofia naturale nel pensiero precritico. In essa i concetti fondamentali sono quelli di sostanza, causa, influsso, ecc., che Kant concepisce grossomodo nei termini scolastici del manuale di Baumgarten su cui terrà lezione, ma che tenta di comporre in un sistema soddisfacente con l’ausilio di concetti dinamici d’ispirazione newtoniana. Dunque, introducendo una distinzione tra elementi fisici e elementi metafisici che Kant non sempre mantiene rigorosamente, si può dire che i concetti propriamente fisici servono a corroborare e integrare la ricerca di una metafisica del mondo sensibile (che anche Wolff, del resto, aveva sviluppato in due scienze, ontologia e cosmologia). Tra i compiti di questa metafisica monadologica vi è la deduzione dello spazio dalle sostanze: con la rinuncia ad essa, e con la nuova dottrina della sensibilità, formulata nel 1770, si può considerare avviata la ricerca di una nuova filosofia della natura. L’indicatore di questo passaggio è il pieno rovesciamento della gerarchia concettuale. Prima di esso Kant assume in linea di principio il seguente ordine di precedenza metafisico: (1) sostanza; (2) forza; (3) influsso; (4) spazio/tempo; (5) movimento; (6) altri fenomeni particolari; egli cerca di far corrispondere a quest’ordine un processo deduttivo, anche se di fatto non riesce a rispettare questa successione logica nell’effettivo svolgimento teorico. La dinamica metafisica comunque precede la dottrina della sensibilità e la fisica vera e propria. Con la nuova dottrina della sensibilità, invece, (1) spazio e tempo vengono considerati come concetti originari, in base a cui, mediante la riflessione sui fenomeni, vengono ricavati i con24

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cetti dinamici. In particolare, nella nuova «metafisica della natura corporea», che sostituisce nel nuovo sistema la cosmologia precritica, la riflessione sull’intuizione della materia e del movimento (2), permette di definire la forza motrice (3) e l’influsso (4), e solo in seguito si deve trovare la determinazione della sostanza (5) quale elemento permanente nel continuum fenomenico. La spiegazione dei fenomeni particolari (6), infine, viene lasciata alle ricerche sperimentali, di cui vengono anticipati solo i principi metodologici. Il passaggio al criticismo è demarcato anche a livello terminologico. Solo negli anni ’80 (restando sul piano dei testi pubblicati) Kant parla di una «filosofia della natura» o di una «metafisica della natura», contrapponendole alla fisica empirica. È il riconoscimento di una accurata distinzione di principio tra elementi a priori ed elementi empirici della filosofia naturale, che Kant sottolineerà più volte entro un preciso quadro sistematico, e che è anche l’esito negativo dei tanti tentativi misti e incompiuti dell’itinerario precedente. Cerchiamo dunque di caratterizzare lo scopo di questa nuova filosofia della natura nel contesto più ampio di una metafisica, di cui la filosofia trascendentale era insieme propedeutica e parte integrante.

1.3. Lo scopo della fisica nel sistema del criticismo La risposta stavolta sembra fornirla lo stesso Kant, in due passi “gemelli”, di non facile interpretazione: la fisica risponderebbe al compito di «realizzare» concetti e principi della filosofia trascendentale, fornendo ad essi esempi «in concreto» e, con questi, un vero e proprio «significato»22. Ma per determinare la funzione di questa realizzazione (o «esibizione») nel contesto sistematico del criticismo, e dunque interpretare i passi in cui Kant la presenta (negli anni cruciali ’86 e ’87), si pone un dilemma: si tratta infatti di decidere se questo compito di «esibizione» intuitiva costituisca 22 MA 478; KrV B 291. Nel primo passo questo significato proviene dalla «dottrina generale dei corpi, cioè dalla forma e dai principi dell’intuizione esterna»; nel secondo dall’«intuizione esterna».

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una mera appendice illustrativa o se esso si porti dietro il compito di una integrazione argomentativa della stessa filosofia trascendentale. Questo problema ci impegnerà a lungo e la sua soluzione costituirà l’esito più laborioso e originale di questo studio. Per capirlo bisogna introdurre subito alcuni aspetti generali della nuova «filosofia della natura» del criticismo, alcuni dei quali riprenderemo in maggior dettaglio al momento di tentare una soluzione del dilemma (nel capitolo 3)23. La filosofia della natura (prescindendo qui dalla psicologia) si suddivide in filosofia trascendentale e fisiologia razionale, la prima riferita a una natura in genere e dunque a intuizioni indeterminate, la seconda all’intuizione particolare della materia. Come è noto la filosofia trascendentale costituisce per Kant il «canone» di ogni uso della ragione; egli esprime questa funzione negativa, con particolare efficacia, in questo passo della Dottrina del metodo: «ogni conoscenza sintetica della ragion pura nel suo uso speculativo, secondo tutte le dimostrazioni [Beweise] che abbiamo condotto sin qui, è del tutto impossibile»24. La validità della filosofia trascendentale (poiché quel Beweise difficilmente si riferisce qui alle sole «prove» dell’Analitica dei principi) decide dunque, nello stesso tempo, della impossibilità di ogni metafisica dogmatica. Se la filosofia trascendentale restasse in qualche modo incompiuta, però, essa non sarebbe scienza, e la possibilità teorica di una metafisica si riaprirebbe. Ci si domanda dunque quali dottrine e testi costituiscano il tutto compiuto della filosofia trascendentale. Nel passo citato Kant identifica il «canone» con l’Analitica trascendentale e questa è in generale la posizione che emerge dal testo della Critica. Per quanto egli riconoscesse che la filosofia trascendentale non era stata pienamente esposta in quest’opera, e dunque non era propriamente compiuta come sistema, quel che interessava ai fini della «critica trascendentale» della metafisica era infatti «comprendere i principi della sintesi a priori nella loro estensione» (KrV A 23 Sui dettagli architettonici del sistema torneremo approfonditamente nel § 3.1. Lo schema si trova nella fig. 1. 24 KrV A 796/B 824. Si tratta di un brano del capitolo intitolato Il canone della ragion pura.

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12/B 25-26). In questa prospettiva la scienza della natura corporea, che nelle opere precritiche come abbiamo visto svolgeva una funzione essenziale per la costituzione della metafisica, non svolgerebbe invece nel criticismo alcun ruolo per la sua esclusione dal campo del sapere, che si deciderebbe sul piano della pura critica logico-trascendentale25. Esistono tuttavia diverse evidenze del fatto che, in seguito alla pubblicazione della Critica della ragion pura (nel 1781), e disponendosi alla realizzazione del sistema, Kant modificasse le proprie idee sul ruolo sistematico della fisica. La domanda fondamentale sulla possibilità della metafisica veniva fatta precedere, nei Prolegomena (1783) e nella Introduzione alla seconda edizione della Critica (1787), da quella sulla possibilità della fisica. E gli esempi di giudizi sintetici a priori effettivamente validi erano ricavati proprio dalla fisica (costanza della quantità di materia in tutti i cambiamenti, uguaglianza di azione e reazione). Dalle Analogie dell’esperienza, d’altra parte, era già evidente una parziale coincidenza concettuale (e in taluni casi quasi una identità) tra principi trascendentali e principi fisici, che le nuove formulazioni dei principi nel 1787 mettevano in maggiore evidenza. Questo rapporto tra principi fisici e trascendentali era definito dalla successione sistematica della parte trascendentale e di quella fisiologica della filo25 Un nesso diretto tra la fisica e la determinazione dei limiti della conoscenza è accennato in una nota al capitolo sull’Ideale trascendentale (KrV A 575/B 603): «Le osservazioni e i calcoli degli astronomi ci hanno fornito informazioni meravigliose; ma la più importante delle loro scoperte è lo svelamento dell’abisso di ignoranza che, in caso diverso, la ragione umana non sarebbe mai stata in grado di immaginare. La riflessione su questo argomento non potrà fare a meno di produrre una grande trasformazione nella determinazione degli scopi ultimi dell’uso della nostra ragione». Il passo sembra ispirato da alcune considerazioni svolte da Lambert in una lettera a Kant del 1770 (J.H. Lamberts deutscher gelehrter Briefwechsel, hrsg. J. Bernoulli, vol. I, Berlin 1781, rist. in J.H. LAMBERT, Philosophische Schriften, Hildesheim 1968, vol. IX; pp. 362-363. Il luogo è citato in epigrafe alla parte II di questo libro). Nonostante sia molto suggestivo dal nostro punto di vista, lo si deve inserire nel novero delle analogie tra fisica (in particolare: astronomia) e filosofia trascendentale, di cui si tratterà in seguito (cap. 4). Queste analogie, per quanto illuminino altri aspetti del rapporto di Kant con la fisica, che riguarda anche la filosofia pratica, non sono pertinenti per stabilire la funzione della fisica all’interno della filosofia teoretica, che si decide in sede di dottrina del giudizio.

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sofia della natura, il cui piano architettonico era schematizzato nella Dottrina del metodo del 1781. Ma questo rapporto si doveva precisare con la redazione delle successive parti del sistema, e in questi anni veniva mutando appunto l’idea di come doveva procedere il passaggio dai principi generali e quelli particolari, e dunque la specificazione del sistema. Nella prima redazione della Critica questo passaggio veniva concepito come un semplice approfondimento analitico dei concetti, a testimonianza del fatto che Kant riteneva conclusa l’indagine sulla sintesi a priori. Ma nell’anno ’85 Kant indagò da capo la legittimità dei nuovi principi metafisici della fisiologia razionale, come testimoniano le differenze metodologiche e architettoniche tra il piano dell’81 e l’opera dell’86 (nuovo rilievo assegnato alla matematica, scomparsa della parte psicologica). Il risultato fu l’introduzione di un nuovo dominio della sintesi a priori, proprio della fisica pura, che veniva definitivamente acquisito all’interno del sistema. Si trattava ora di comprendere se la giustificazione e la collocazione sistematica di questa nuova sintesi a priori non comportasse un rilievo retrospettivo per la filosofia trascendentale nel suo complesso. Una risposta a questa domanda, a dire il vero piuttosto sibillina, Kant tentò di darla appunto nei due passi da cui siamo partiti, uno comparso nell’86 (nella Prefazione ai Principi metafisici, scritta probabilmente dopo il resto dell’opera), l’altro nell’87 (nella nuova Nota generale sul sistema dei principi). Vi sosteneva che concetti e «teoremi» (stavolta il riferimento è proprio ai Grundsätze e alle rispettive Beweise dell’Analitica dei principi) della metafisica generale (= filosofia trascendentale) non possederebbero «senso e significato» se non intervenisse l’esibizione della fisica pura che li riferisce a oggetti in concreto. La prima difficoltà interpretativa che pongono queste affermazioni è che l’endiadi «senso e significato» ricorre altrove nel testo della Critica per indicare (in contesto trascendentale) il generico riferimento all’intuizione quale condizione indispensabile per la validità oggettiva dei concetti. Se dunque si vuole conservare al testo dell’87 una massima coerenza teorica e terminologica si deve pensare che qui Kant stesse un po’ ambiguamente accennando a quella stessa funzione dell’intuizione in genere, che nella fisica trova il suo impiego scientifico (rimande28

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rebbe dunque alla fisica, come intero, per indicarne una parte costitutiva, l’intuizione empirica). Una tale eccezione all’assoluto rigore terminologico non sarebbe di per sé una novità nella scrittura kantiana. Diversi indizi, tuttavia, suggeriscono una diversa lettura, che attribuisce maggiore valore al mutamento del pensiero kantiano (rinunciando dunque a una comprensione sincronica dei vari luoghi pertinenti nelle opere del criticismo) e comporta il riconoscimento che il sistema critico subisse un ripensamento più radicale di quanto Kant stesso fosse disposto a concedere. In primo luogo il compito della suddetta esibizione era svolto dai nuovi Principi metafisici: quest’opera, però, non solo non conteneva semplici analisi di concetti (come invece aveva previsto Kant nelle sue precedenti dichiarazioni sul compimento del sistema), ma neanche conteneva un repertorio descrittivo di intuizioni empiriche «in concreto». Essa, come abbiamo detto, conteneva invece l’indagine su una nuova sintesi a priori, quale condizione della scienza della natura − dunque del “concreto” − limitata oltretutto al solo caso degli oggetti corporei ad esclusione delle intuizioni interne. Perciò si impone l’ipotesi che il «senso e significato» delle dottrine trascendentali dipendesse non dalle semplici intuizioni, ma dal buon esito delle nuove «dimostrazioni» (stavolta «Demonstrationen» matematiche) della fisica pura. Questa ipotesi sembra confermata dal grande impegno che Kant profuse, negli anni successivi al 1786, per integrare e in alcuni casi rielaborare completamente le tesi della fisica pura, ritornando in molti casi su ipotesi che aveva ponderato fin dagli anni precritici. Questo impegno poteva forse esser sorto dal solo riconoscimento di problemi intrinseci della nuova teoria e delle sue dimostrazioni, problemi che erano del resto stati denunciati in varie sedi dai critici di Kant; poteva dipendere, dunque, dalla cura per una parte difettosa del sistema. Se però si aprono i folti fascicoli dell’Opus postumum si trova l’inequivocabile testimonianza del fatto che Kant non soltanto tentasse una vera e propria riforma della fisica pura, ma, per realizzare tale riforma, intraprendesse una nuova indagine trascendentale sulla possibilità di una scienza della natura, introducendo nuovi metodi e nuove condizioni necessarie (preliminari rispetto alla semplice intuizione) per l’applicazione di concetti come sostanza, for29

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za e influsso e dunque per la determinazione di oggetti dell’intuizione esterna (e, nell’ultimissima fase, anche per la conoscenza di sé). È chiaro però che, se si pongono nuove condizioni a priori relativamente alla intuizione degli oggetti, quest’ultima si può considerare possibile solo a condizione che tutte queste condizioni siano soddisfatte. Così che l’inseparabile unità teorica della filosofia della natura nel suo insieme, benché mai dichiarata in sede ufficiale, si rivela in privato sotto la penna di Kant26. Alla luce di questi cenni introduttivi possiamo dunque così caratterizzare lo scopo della fisica nella filosofia del criticismo: essa possiede una parte valida a priori che serve a «realizzare» i concetti della filosofia trascendentale (o ontologia) mediante una estensione della dottrina dei concetti e dei giudizi, e svolge dunque una funzione essenziale al raggiungimento dello stesso obiettivo della critica della metafisica. Infatti la filosofia della natura nel suo complesso è pietra di paragone della scientificità del criticismo e perciò, indirettamente, dell’irrealizzabilità della metafisica della natura dogmatica, sia essa materialismo o idealismo, ateismo o fanatismo27. Per questa ragione − piuttosto che per una sottintesa prova a sostegno di una ormai teoreticamente inservibile teleologia, o per una intrinseca ambizione scientifica − dovrà essere possibile stabilire una fisica a priori come «parte pura» della fisica nel suo complesso28. La testimonianza più significativa di que26 Da questo punto di vista anche l’analogia tra metafisica e scienza della natura assume un rilievo per la questione che stia seguendo. La fisica insegna che: «...non posso fermarmi a queste intuizioni, se esse devono diventare conoscenze, bensì devo riferirle, in quanto rappresentazioni, a qualcosa come oggetto, e devo determinare quest’ultimo per loro tramite...» (KrV B XVII). 27 L’elenco delle dottrine che la critica deve «tagliare alla radice» si trova in KrV B XXXIV. Troveremo conferma di questa tesi trattando dell’importanza sistematica dell’Opus postumum e di come Kant dovette preoccuparsi dello «iato» nel sistema anche perché l’incompiutezza della filosofia trascendentale riapriva la possibilità di avanzare tesi scettiche o speculative (§ 13.1.A). 28 Cf. B. FALKENBURG, Die Funktion der Naturwissenschaft für die Zwecke der Vernunft, in V. GERHARDT (hrsg.), Kant im Streit der Fakultäten, Berlin/New York 2005, pp. 117-133, la quale insiste sulla funzione di critica al naturalismo, che era in effetti una delle metafisiche dogmatiche avversate da Kant. Secondo l’autrice Kant riterrebbe anche che il compimento della scienza della natura incoraggia soggettivamente la fede

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sta conclusione, per quanto si tratti di un minimo intervento testuale, è forse proprio la riformulazione delle Analogie dell’esperienza nella seconda edizione della Critica: nei nuovi enunciati viene infatti messo in evidenza l’immediato significato fisico dei principi trascendentali, la cui piena giustificazione, tuttavia, dipende da una trattazione diversa dall’Analitica dei principi, e deve avvenire cionondimeno a priori29. Se questo fu lo scopo della fisica nel criticismo, si capisce meglio come mai Kant dedicasse tanti sforzi, negli anni della sua massima celebrità, a perfezionare la sua filosofia della natura. Riguardo a questo impegno, per tornare al punto da chi siamo partiti, si in Dio, e così facendo promuove indirettamente lo scopo ultimo della ragione, cioè la legislazione morale. Cf. KrV A 850/B 878. Si tratta di un tipo di argomento tipico del Kant precritico, che è inadeguato a determinare il baricentro della filosofia naturale del criticismo, poiché in fondo assegna al compimento della nuova metafisica un valore positivo riguardo alla valutazione del soprasensibile. Cf. per es. Allgemeine Naturgeschichte, KgS I, 228, dove Kant può concludere dalla legalità della materia alla causa prima, «e questa causa non può essere che un Dio, proprio perché la natura, persino nel caso, non può procedere altrimenti che con ordine e regolarità». 29 Sul fatto che il concetto di esperienza della filosofia trascendentale comportasse un intrinseco riferimento alle scienze della natura, come è noto, insisteva già Hermann Cohen nel classico Kants Theorie der Erfahrung. Di recente, traendo un bilancio dei suoi fondamentali studi sulla filosofia naturale di Kant, Michael Friedman ribadisce analogamente, contro una distinzione di ispirazione fenomenologica operata da Gerd Buchdahl, che la filosofia trascendentale non si riferisce a una «esperienza comune», ma formula principi scientifici dotati di significato fisico (Philosophy of Natural Science, in P. GUYER (ed.), The Cambridge Companion to Kant and Modern Philosophy, Cambridge 2006, in part. 319-320. Cf. G. BUCHDAHL, Metaphysics and the Philosophy of Science, Cambridge Mass. 1969, pp. 638-639). Friedman, nel capitolo su The Significance of Pure Natural Science within the Critical system, conclude: «L’applicazione delle categorie a oggetti dell’esperienza in generale è possibile solo per mezzo di, e, per così dire, attraverso la loro precedente applicazione alla scienza pura della natura» (op. cit., p. 322). In generale si tratta di osservazioni ineccepibili che capiterà di verificare e precisare di continuo nel corso delle analisi particolari. Occorre tuttavia sottolineare subito che i principi dell’esperienza non si identificano per Kant con quelli di uno o più dati sistemi scientifici, e anzi, considerando nei dettagli il collegamento istituito tra filosofia trascendentale e fisica si trova – come cercherò di mostrare – che le dottrine fisiche, nella misura in cui fossero già disponibili e non controverse, vengono essenzialmente ripensate alla luce di autonome tesi filosofiche: in questo senso Kant cerca di distinguere una parte «metafisica» della scienza della natura, indipendente dalla contingenza storico-empirica e stabilita con metodi differenti.

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può subito ricavare adesso un’altra conclusione generale: e cioè che l’interesse di Kant per la fisica non soltanto non fu animato dalla mentalità del fisico, ma procedette addirittura mediante una sistematica trasfigurazione del contenuto della fisica, dapprima metafisica, poi trascendentale. Inizialmente, forse, questa fu incoraggiata dallo stato ancora poco rigoroso di tanta fisica dell’epoca, in cui la distinzione tra i problemi scientifici e il mare delle ipotesi non era sempre agevole; e anche dalle difficoltà soggettive di un giovane che, per orientarsi in tale contesto, non potè godere della guida scientifica di mentore qualificato (come invece accadde, per esempio, a Leibniz, a Euler, agli stessi apprendisti newtoniani Voltaire e Madame du Châtelet)30. Ma in seguito, certamente, tale trasfigurazione dipese dal fatto che alla fisica veniva assegnato un compito in sede filosofica che nessuna teoria scientifica aveva risolto, e che forse nessuna dottrina semplicemente empirica poteva risolvere. Questo aspetto del rapporto tra filosofia e fisica definisce in fondo il problema più caratteristico che Kant lasciò in eredità a tutti coloro che hanno attribuito (e attribuiscono) alla sua opera un valore esemplare per la determinazione del rapporto tra filosofia e scienza della natura. *** Nei capitoli successivi ripercorreremo in dettaglio i tre temi fondamentali che sono emersi nel corso di queste considerazioni introduttive, nel seguente ordine: la storia dell’abbandono della metafisica del mondo sensibile (considerata nei suoi aspetti rilevanti per la filosofia naturale successiva), il rapporto tra filosofia tra30 I mentori in questione furono rispettivamente Huygens (a Parigi), Johann Bernoulli (a Ginevra) e Maupertuis. Erano ovviamente tutti protagonisti della contemporanea ricerca scientifica, mentre lo stesso non si può dire dei maestri di Kant in matematica e fisica, e cioè professori dell’Università Albertina come Johann Teske e Knutzen. A questa circostanza va forse aggiunta la limitata diffusione delle novità bibliografiche tipica dell’ambiente di Königsberg, che poté rendere difficile a Kant tenersi al passo con i progressi scientifici dell’epoca. Si vedano in proposito le testimonianze discusse da ERDMANN, Martin Knutzen und seine Zeit, pp. 7-8, che cita il caso della mancata conoscenza del Traité de dynamique (1743) di D’Alembert nella prima opera kantiana (1747).

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scendentale e scienza della natura, il significato gnoseologico del concetto di forza. Dal punto di vista del criticismo essi corrispondono rispettivamente ai problemi del fondamento metafisico della natura in una metafisica dogmatica, della possibilità della natura e della cosa individuale dal punto di vista critico-trascendentale, infine della posizione non più scientifica di un fondamento inconoscibile, che viene effettuata per analogia con il concetto fondamentale della fisica matematica, cioè la forza.

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Capitolo 2 Le sostanze e il mondo sensibile. L’idea di una metafisica dello spazio e il suo abbandono KANT: Herr von Leibniz Ein guter Bekannter von mir Mit welchem ich ausgedehnte Spaziergänge machte wir ermüdeten niemals wir verstanden uns von Anfang an wie keine zweiten T. BERNHARD, Immanuel Kant (1978)

2.1. Estetica trascendentale e metafisica La concezione di spazio e tempo come forme dell’intuizione, esposta nell’Estetica trascendentale, costituisce una premessa fondamentale di tutta la filosofia della natura del criticismo. Il concetto fondamentale in cui si esprime questa subordinazione della filosofia della natura all’estetica è quello del fenomeno, che dipende per definizione dalla determinazione di spazio e tempo come forme dell’intuizione empirica. Le conseguenze da esso apportate nella filosofia della natura si possono suddividere in due aspetti fondamentali, l’uno negativo, l’altro positivo. L’aspetto negativo consiste nella contingenza e «soggettività» di ogni conoscenza empirica, che circoscrive fin dai suoi primi elementi il campo di validità della conoscenza e lascia aperta la possibilità di pensare senza contraddizione l’incondizionato, pur senza poterlo mai conoscere. L’aspetto positivo, che corrisponde alla funzione di «organo» dell’Estetica (A 46/B 63) per la conoscenza degli oggetti esterni, dipende dal fatto che ogni conoscenza oggettiva si deve riferire necessariamente all’intuizione sensibile. Concetti come sostanza, forza e influsso che costituiscono gli elementi fondamentali della metafisica precritica e di una cosmologia metafisica in genere, possono 34

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essere impiegati solo in riferimento ai fenomeni dati con l’intuizione sensibile. Ma, come Kant sottolinea in una Nota aggiunta nella seconda edizione, dato che ogni elemento intuitivo della conoscenza consiste in «semplici rapporti» spazio-temporali, l’applicazione empirica dei concetti puri dinamici dovrà ottenersi mediante una sintesi di tali rapporti, senza poter assumere alcun sistema di riferimento assoluto, né metafisico, né meccanico. È questa la conseguenza positiva del fenomenismo kantiano per la filosofia naturale, che ne costituirà forse l’aspetto più originale, e insieme più problematico1. Il testo dell’Estetica, tuttavia – complice anche l’isolamento della trattazione della sensibilità rispetto agli elementi logici della conoscenza – non permette di distinguere tutte le ragioni che condussero Kant a questo peculiare fenomenismo, che maturarono attraverso lunghe ricerche su questioni di metafisica e filosofia naturale, ma ne presenta solo la conclusione gnoseologica generale: l’abbandono dell’intuizione intellettuale. L’esclusione di ogni intuizione non sensibile («almeno per noi uomini»), che determina l’impossibilità stessa di avanzare ipotesi sul fondamento dei fenomeni, viene assunta fin dalle prime righe dell’Estetica senza una approfondita giustificazione. La tesi della necessità di spazio e tempo come rappresentazioni a priori, nelle rispettive esposizioni metafisiche, assume anch’essa l’identificazione tra intuizione sensibile e intuizione possibile (anche se la necessità di cui si tratta, in quanto circoscritta alle facoltà umane, è una necessità ipotetica). Se poi si ricorre alla deduzione trascendentale, dove la tesi dell’applicabilità solo empirica delle categorie viene esplicitamente argomentata, l’assunzione che «ogni nostra possibile intuizione è un’intuizione sensibile» (§ 22) viene richiamata dall’Estetica. D’altra parte, come è ben noto, il testo dell’Estetica è fittissimo di rimandi alle cose in sé, quali fondamenti inconoscibili dei fenomeni, la cui conoscibilità Kant aveva ammesso nella Dissertazione del 1770; e vi è sottolineato con grande enfasi che, se si togliesse la forma della rappresentazione umana, spazio e tempo, insieme a 1 Si tratta della seconda delle Note generali all’Estetica trascendentale, KrV B 6667. Torneremo su queste tesi fondamentali alla fine di questo capitolo (§ 2.4).

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tutti gli oggetti che contengono, non sarebbero nulla. Non stupisce dunque che, presso quasi tutti i primi interpreti di Kant, l’idealismo trascendentale venne considerato bisognoso di un’integrazione metafisica, della quale gli empiristi denunciavano la latente presenza (Garve e Feder), mentre i wolffiani ne lamentavano la mancanza (Ulrich, Eberhard); e anche i primi sostenitori più “ortodossi” del criticismo dovettero avvertire il problema di un chiarimento in proposito, in particolare sul significato puramente negativo del noumeno (Beck, Reinhold): problema che, ovviamente, divenne fondamentale a partire dalle note obiezioni di Jacobi e Enesidemo-Schulze2. Kant stesso, nell’Estetica, prende in considerazione le ipotesi alternative sulla natura dello spazio e del tempo diffuse nella filosofia dell’epoca, sostenendo che esse «entrano in conflitto con i principi dell’esperienza»3. Tutte queste tesi vengono considerate come affermazioni di una realtà assoluta di spazio e tempo, alternative a quella dell’idealità trascendentale, e suddivise nelle due ipotesi secondo cui spazio e tempo sarebbero «sussistenti» o «inerenti». La tesi della sussistenza, che rappresenta «comunemente il partito dei fisici matematici», viene respinta perché essa ammetterebbe due «non-cose» eterne ed infinite, e renderebbe problematico pensare qualcosa che sia al di là del campo dei fenomeni. La tesi dell’inerenza è respinta perché renderebbe inintelligibile la validità apodittica di scienze come la geometria. Ma la trattazione kantiana di queste tesi è semplicatoria e sbrigativa. In primo luogo, la classificazione kantiana non rende conto della complessità delle ipotesi sulla natura dello spazio e del tempo cui si riferisce. La distinzione di un partito dei fisici matematici (sostanzialista) e di un partito dei fisici metafisici (relazionista) fa perdere di vista la compresenza di interessi matematici e metafisici che caratterizzava quasi tutti gli autori che Kant poteva avere presenti. Presso i so2 Un’ottima trattazione di questi aspetti della prima ricezione kantiana si trova in F.C. BEISER, The Fate of Reason: German Philosophy from Kant to Fichte, Cambridge Mass. 1987; ID., German Idealism: The Struggle against Subjectivism, 1781-1801, Cambridge Mass. 2002. 3 KrV § 7, A 39/B 56ss.

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stenitori della sussistenza dello spazio, con cui vanno intesi i fisici di orientamento newtoniano, le speculazioni metafisiche erano piuttosto comuni (a partire da Newton in persona), e anche Maupertuis e Euler, nonostante le riserve scettiche, non negavano affatto la possibilità di distinguere una dimensione trascendente da quella dei fenomeni. D’altra parte, riferendosi a chi aveva considerato spazio e tempo come «rapporti tra i fenomeni (contiguità e successione) astratti dall’esperienza e rappresentati confusamente nella loro separazione», Kant pensava ai sostenitori della filosofia «leibniziano-wolffiana». Ma la caratterizzazione di Kant era in realtà abbastanza adeguata solo per la filosofia di Wolff, il quale per primo aveva rifiutato questa denominazione di scuola. Riguardo poi alla confutazione delle tesi in questione troviamo delle vere e proprie omissioni. Dando per scontata l’assurdità del sostanzialismo, Kant non menziona nemmeno le speculazioni sull’onnipresenza e l’eternità di Dio, che conosceva bene e aveva ancora di recente tentato di riformare in un senso accettabile. Ma il silenzio più interessante riguarda la tesi dei «fisici metafisici», la cui discussione viene concentrata sulla validità della geometria, mentre ne viene taciuto proprio il contenuto specificamente metafisico, e cioè la concezione monadologica dello spazio e del tempo. Le cose non vanno molto diversamente nella Anfibolia dei concetti della riflessione, che pure contiene un confronto con alcune tesi di Leibniz sulla precedenza metafisica della sostanza dotata di rappresentazione rispetto a spazio e tempo. Le tesi leibniziane non vengono infatti direttamente confutate, bensì considerate valide su un piano puramente intellettuale, separatamente da ogni considerazione fenomenologica. La nuova concezione della sensibilità, invece, viene presupposta nella sua validità e autonomia: spazio e tempo vengono dati «per sé» e non sono subordinati al concetto delle sostanze quali risultati della confusione della rappresentazione «poiché l’intuizione sensibile è una condizione soggettiva del tutto particolare che sta a priori alla base di ogni percezione e la cui forma è originaria» (KrV A 268/B 323-4, cors. mio). Posta questa tesi, che in tutta le sezione viene presupposta, Kant può affermare – invertendo l’ordine storico dei concetti – che Leibniz «intellettualizzò» le forme della sensibilità (KrV A 275/B 331). 37

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In definitiva, gli argomenti metafisici sulla natura di spazio e tempo, sia da parte newtoniana che da parte leibniziana e wolffiana, non vengono nemmeno presi in considerazione, mentre l’intera tesi dell’Estetica si affida alle considerazioni sui concetti di spazio e tempo, nella esposizione metafisica, e all’argomento trascendentale tratto dalla validità apodittica delle scienze esatte. Ovviamente, la ragione teorica di queste omissioni si può ricavare da quelle sezioni dell’Analitica trascendentale che riguardano la formulazione di giudizi oggettivamente validi, e cioè l’Analitica dei principi e i paragrafi della Deduzione trascendentale che a essa rimandano. Nella sezione dedicata al Fondamento della distinzione di tutti gli oggetti in phaenomena e noumena, che traccia il bilancio di queste parti dell’opera, l’uso trascendentale dell’intelletto – dal quale devono risultare anche le ipotesi metafisiche sulla natura di spazio e tempo – viene escluso di nuovo in base alla tesi che per poter riferire un concetto a un oggetto occorre una intuizione empirica4. Stavolta, però, Kant è in grado di illustrare la sua tesi alla luce dei capitoli precedenti, e ripercorre la tavola delle categorie mostrando caso per caso che, senza considerare le forme della sensibilità, non si può parlare propriamente di quantità, opposizione, sostanza, causa, contingenza ecc. In base a questo criterio di significanza le congetture sulla natura dello spazio e del tempo vengono escluse dal campo stesso dell’ipotizzabile, e si capisce che Kant potesse ritenere inutile e fuorviante menzionarle nell’Estetica trascendentale. Nonostante questo, tuttavia, sarà opportuno gettare uno sguardo retrospettivo alle ricerche che Kant stesso intraprese, prima dell’elaborazione del criticismo, per allestire i principi di una metafisica del mondo sensibile in base a principi intelligibili. Nel corso dello studio della filosofia della natura del criticismo, infatti, si impone più volte un confronto tra essa, elaborata integralmente sul piano del fenomeno, e quella precritica, dotata del concetto di monade e di un mondo intelligibile. Perdendo di vista questo collega4 KrV A 239/B 298: compare qui il concetto di esibizione, di cui esamineremo nel prossimo capitolo l’importanza fondamentale per la pars construens del discorso kantiano.

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mento retrospettivo molti degli aspetti fondamentali della nuova filosofia naturale risulterebbero incomprensibili. Per esempio una ricostruzione storico-genetica del peculiare fenomenismo kantiano aiuta a capire come i tentativi (ancora in corso ad opera di alcuni studiosi) di restaurare una metafisica della natura latente del criticismo, con gli strumenti stessi che Kant decretò inservibili, costituiscano semplicemente un ritorno dal criticismo alle aporie della metafisica precritica. L’abbandono di una metafisica dello spazio ha poi importanti conseguenze anche sul piano geometrico, comportando l’impedimento di ogni speculazione sulle proprietà metriche dello spazio e consolidando una concezione intuizionistica dello spazio che attraversa tutto l’edificio dimostrativo della fisica pura. Infine, soprattutto, questo confronto riguarda i concetti «dinamici» che dalla filosofia trascendentale provengono alla fisica pura: quello di sostanza materiale, che nella nuova filosofia non potrà più ricavarsi sul presupposto di un centro di attività metafisico, e dovrà venire laboriosamente costruito in base a diverse premesse; quello di forza fondamentale, rispetto al quale Kant passa gradualmente da un concetto puramente metafisico a un tentativo di fondazione cinematica; quello di influsso, che è dapprima presupposto metafisico e teologico dell’unità del mondo, per poi divenire presupposto trascendentale e nello stesso tempo fisico dell’unità dell’esperienza. Ancora nell’Opus postumum, in effetti, la curvatura trascendentale assunta dal concetto di etere reca traccia del problema di indagare i presupposti dell’esperienza dello spazio fisico nei termini di un fenomenismo che ha rinunciato alla determinazione della sostanza soprasensibile. Per farsi un’idea dei problemi del fenomenismo precritico, tuttavia, non basta ripercorrere gli scritti kantiani, ma occorre estendere la ricostruzione storica alle fonti che ne occasionarono l’elaborazione.

2.2. Spazio e sostanze: fonti kantiane, tra Newton e Leibniz Il punto di partenza ideale per una ricostruzione della metafisica dello spazio kantiana è senza dubbio la corrispondenza tra Leibniz 39

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e Clarke, in cui si trova un punto di partenza per la costituzione di quell’opposizione tra fisici metafisici e fisici matematici che Kant conservò fino al criticismo. L’episodio, e le discussioni successive cui esso diede luogo, costituiscono una vicenda complessa, caratterizzata fin dal principio da una singolare lacunosità. Le figure di Leibniz e Newton torreggiano infatti come modelli, non solo per Kant, ma per gran parte dei filosofi naturali tedeschi del XVIII secolo, tuttavia mancano da entrambe le parti delle esposizioni adeguatamente approfondite della filosofia dello spazio, e perciò è a volte difficile anche solo formulare distintamente le tesi contrapposte su una medesima questione. Lo scambio epistolare da questo punto di vista giovò poco, perché entrambi gli autori rimasero saldamente sulle rispettive posizioni, a volte dando l’impressione di fingere di non capire, e infine la comunicazione venne interrotta dalla morte di Leibniz. È questa la prima ragione per cui quell’esigenza di rielaborazione originale, cui Kant risponde in modo esemplare, si poneva in generale per tutta la generazione di filosofi tedeschi che si usa raccogliere sotto il titolo di wolffiani. Se si mira a una ricostruzione teorica, e non a una semplice cronaca, parlare di newtoniani e leibniziani gioverà a poco, e sarà impossibile qui presentare una ricostruzione complessiva. Sarà sufficiente, tuttavia, seguire alcune linee problematiche che sono fondamentali per comprendere la ricomposizione teorica che Kant venne attuando fin dai suoi primi scritti, attingendo in tempi e modi diversi a elementi teorici sviluppati all’ombra dei nomi di Newton e Leibniz. In prima approssimazione, la ricezione kantiana si può così schematizzare. In una prima fase – che va dagli esordi fino agli anni ’70 – Kant intraprende un tentativo di deduzione dello spazio dalle sostanze le cui premesse si iscrivono nella filosofia leibniziana e nella sua ricezione wolffiana. Con la genesi del criticismo, Kant pone una distinzione tra le tesi di Leibniz, coerenti ma infondate, e quelle tipiche del wolffismo, colpevoli di veri e propri errori logici: nel complesso, viene abbandonato lo sfondo monadologico che fin qui dominava le ipotesi metafisiche. Le tesi della metafisica cui alludeva Newton in alcuni luoghi dei suoi scritti, e che coincidevano in larga misura con le idee di Henry More, costituiscono fino a questo punto un termine di riferimento marginale. In 40

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seguito, soprattutto negli anni ’90, Kant ritorna su questioni tipiche del dibattito metafisico precedente, soprattutto di parte newtoniana, come la presenza del soggetto nello spazio e la possibilità delle forze, che vengono rielaborate in una nuova ricerca trascendentale sullo spazio. Alla luce di questo riferimento anche uno degli ultimi risultati considerevoli della filosofia naturale, la teoria dello «spazio sensibile» o «ipostatizzato», non appare come un’escogitazione senza precedenti. Richiamiamo dunque gli episodi salienti della vicenda, partendo dall’autore che fu punto di riferimento comune alle future parti avverse5. Descartes, nel 1641, aveva identificato spazio e estensione fisica, conservando dubbi sulla sua infinità attuale (parlava di indefinitum), che riservava in senso pieno solo a Dio. Nella nuova cornice del cartesianesimo, che conferiva realtà sostanziale all’estensione, si ripresentarono vecchi dilemmi metafisici: ammettere lo spazio poteva significare porre un altro ente infinito insieme a Dio, limitando la realtà di quest’ultimo, o addirittura negandola. In ossequio a questo punto di vista teologico vennero avanzate diverse soluzioni, fondate su sottili distinzioni metafisiche: per esempio Malebranche identificò Dio con lo spazio infinito intelligibile, diverso da quello sensibile, Spinoza fece dell’estensione uno dei suoi infiniti attributi. La posizione destinata a influenzare maggiormente l’autore dei Principia mathematica – e che presenta un particolare interesse dal punto di vista degli sviluppi kantiani – fu però quella di Henry More6. Questi identificava Dio con lo spazio intelligibile, infinito e indivisibile, ma obiettava a Descartes l’identificazione di spazio e materia, in base al criterio empirico della impenetrabilità. Per determinare il rapporto tra Dio e lo spazio dell’esperienza 5 Per la parte della vicenda che giunge da Descartes alla polemica Leibniz-Clarke è ancora fondamentale la ricostruzione di KOYRÉ, From the Closed World to the Infinite Universe, pp. 99-276. 6 Tratterò del rapporto tra Kant e More soprattutto dal punto di vista di quanto Kant poteva ritrovare negli Scholia newtoniani e nelle rielaborazioni di newtoniane di autori come Clarke. È un fatto, però, che Kant possedeva una copia dell’Enchyridion metaphysicum, ed è probabile che in alcuni casi, di cui si dirà a suo tempo, tenesse direttamente presente quest’opera (cf. A. WARDA, Immanuel Kants Bücher, Berlin 1922, p. 52).

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More introduceva il concetto di una sostanza capace di riempire lo spazio senza essere impenetrabile, e in base a questa azzardata premessa era in grado di collegare il concetto di spirito con una vastissima fenomenologia che comprendeva tra le altre cose le interazioni gravitazionali, elettriche, magnetiche e il movimento volontario. Nel 1687 comparvero i Principia mathematica, in cui Newton riprende alcuni elementi di queste tesi di More – che aveva conosciuto fin dagli anni degli studi al Trinity College – ma tenta di rifondarle con argomenti fisici, lasciando a margine le speculazioni metafisiche7. Così lo spazio assoluto, altrettanto infinito e indipendente dai sensi, viene ammesso in meccanica in quanto presupposto necessario per la distinzione tra moti veri e apparenti. Il vuoto, che è proprietà dello stesso spazio, non è diretta conseguenza del primato ontologico di Dio sulle creature, ma va ammesso per diverse ragioni fisiche: per esempio, i cieli si mostrano privi di resistenza, e diversi fenomeni suggeriscono l’opportunità di ammettere intervalli vuoti all’interno dei corpi8. Infine, com’è ben noto, Newton ammette la gravità dichiarando di non conoscerne la causa e nega che si tratti di una proprietà essenziale dei corpi9. 7 L’importanza che le idee di More ebbero per il giovane Newton è documentata soprattutto dal taccuino pubblicato in J.E. MCGUIRE-M. TAMMY, Certain Philosophical Questions: Newton’s Trinity Notebook, Cambridge 1983. Sulla critica di More a Descartes e al meccanicismo in genere si veda A. GABBEY, Henry More and the Limits of Mechanism in S. HUTTON (ed.), Henry More (1614-1687). Tercentenary Studies, Dordrecht/Boston/London 1990, pp. 19-35. Sull’importanza del “neoplatonismo”, dell’”alchimia”, dell’“ermetismo” per la formazione dei concetti fisici di Newton si è avuto un ampio dibattito. Si vedano R.S. WESTFALL, Newton and the Hermetic Tradition, in A.G. DEBUS (ed.), Science, Medicine and Society in the Renaissance, London 1972, 2, pp. 183-198; ID., The Role of Alchemy in Newton’s Career, in M.L. RIGHINI MONELLIW.R. SHEA (eds.), Reason, Experience and Mysticism in the Scientific Revolution, New Yok 1975, pp. 189-232; J.E. MCGUIRE, Neoplatonism and Active Principles: Newton and the Corpus Hermeticum, in R.S. WESTMAN-J.E. MCGUIRE, Hermeticism and the Scientific Revolution, Los Angeles 1977, pp. 93-142. Un’ottima sintesi della questione si trova in A.R. HALL, Henry More and the Scientific Revolution, nella miscellanea su More appena citata, pp. 37-54: l’autore sottolinea l’autonomia con cui Newton, pur influenzato dalla metafisica di More, ne rielabora concetti e argomenti critici. 8 NEWTON, Principia, p. 575 (Lib. III, Prop. VI, Coroll. III-IV: vuoto nei corpi e spiegazione della densità); pp. 692-693 (Lib. III, Lemma IV, Coroll. 3: vuoto tra i corpi). 9 Ivi, Lib I., Sez. XI, Prop. LXIX, Scolio, p. 298.

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Lo spazio vuoto e infinito, la materia impenetrabile come suo riempimento, le interazioni dinamiche come proprietà originarie: ecco altrettanti elementi fondamentali che, attraverso la mediazione di Newton, Kant rielaborerà all’interno del criticismo. Tuttavia, molto prima di arrivare alla filosofia trascendentale, bisogna riconoscere che Kant rifiuterà da metafisico le ipotesi sviluppate da Newton e dai suoi seguaci, che erano state già oggetto delle critiche di Leibniz. In effetti dopo la pubblicazione dei Principia mathematica i seguaci assediarono il maestro per convincerlo a sciogliere le riserve. Le prime sollecitazioni provennero da Bentley, che assunse senz’altro un risvolto metafisico-teologico della gravità, provocando (nelle lettere degli anni 1692-93) una prima concessione privata di Newton: la gravità non sarebbe essenziale alla materia, ma richiederebbe una causa immateriale. Su questa linea Raphson (1702) richiamò l’attenzione sullo sfondo metafisico della fisica matematica, identificando spazio infinito e Dio, e richiamandosi a More contro Spinoza. Newton prese pubblicamente posizione nelle Queries posposte all’edizione latina dell’Opticks (1706), confermando implicitamente il consenso con questo genere di metafisica: vi affermava la dipendenza della gravità da una causa intelligibile e avanzava la celebre dottrina dello spazio come sensorio di Dio. Questo passaggio dal riserbo da matematico, tenuto nella prima edizione dell’opera, alle brevi dichiarazioni congetturali aggiunte a margine, scatenò gli interventi dei metafisici. Vennero anche le accuse di materialismo, tra le quali quelle particolarmente rilevanti di Berkeley (1710) e proprio di Leibniz. Quest’ultimo, che aveva già rigettato i principi non meccanici di More (nel 1696), accusando quest’ultimo di reintrodurre le qualità occulte, rivolse le stesse critiche a Newton (1710-1712). Avvertito da Cotes – e quindi tenendo forse già conto di queste obiezioni leibniziane – Newton presentò nel 1713 il nuovo Scolio generale ai Principia, in cui insisteva sulla distinzione tra Dio e lo spazio (come suo sensorio), e affermava che fenomeni come la gravità, lungi dal favorire filosofie atee, provano l’azione diretta di un Signore. Con la dottrina dell’onnipresenza di Dio e la questione della sua azione volontaria si stabilivano i temi destinati a dominare – anche a svantaggio della chiarezza logica – il dibattito tra Leibniz e 43

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Clarke (1715-1716), al quale prese parte dalle retrovie lo stesso Newton, e in seguito ancora le discussioni nella Germania dell’aetas wolffiana. Le posizioni di Kant furono inizialmente quasi del tutto sbilanciate sul lato leibniziano: relativismo contro sostanzialità dello spazio, pienezza contro il vuoto, determinismo delle ragioni contro volontà arbitraria. L’unica significativa eccezione è la nozione di azione a distanza. Tuttavia anche in questo caso Kant rifuse i concetti newtoniani nel contesto teorico determinato dalla filosofia accademica di impostazione leibniziana, sia per le circostanze particolari in cui avvenne la sua formazione, sia perché fin dall’origine quella che venne chiamata da Voltaire la «metafisica di Newton» non possedeva una compiutezza tematica paragonabile a quella leibniziana, ma consisteva piuttosto in una serie di ipotesi, formulate attingendo prevalentemente alle idee metafisiche dal più recente platonismo inglese, ma il cui originale sviluppo non era ricavabile in base ai semplici accenni pubblicati10. Anche in virtù di questa vaghezza molti aspetti delle speculazioni newtoniane (come l’analogia tra volontà e forza, il riempimento dello spazio senza impenetrabilità, la stessa dottrina dello spazio come sensorio) erano destinati a restare vivi nella memoria di Kant, lasciando traccia nelle ultimissime riflessioni trascendentali sulla fisica degli 10 In base allo studio dei molti inediti, nel XX secolo, si è resa possibile invece una ricostruizione storicamente attendibile delle concezioni metafisiche di Newton. Si trattò comunque di congetture ipotetiche che Newton sviluppò anche attraverso concetti teologici e alchemici, conservando sempre la tipica attenzione alla verifica sperimentale: si pensi al caso dello «spirito sottile» menzionato nello Scolio generale del 1713, che era ben diffuso nella filosofia naturale precedente, ma riceve particolare attenzione solo dal momento in cui Newton – incoraggiato dagli esperimenti di F. Hauksbee – si forma la speranza in una sua osservabilità sperimentale attraverso i fenomeni elettrici e luminosi. A questo proposito è da vedere l’interessante abbozzo inedito di «conclusione elettrica» dei Principia mathematica, scritto poco prima dello Scolio generale del 1713, di cui si trova una traduzione commentata in NEWTON, The Principia. Mathematical Principles of Natural Philosophy, tr. by I.B. Cohen-A. Whitman-J. Budenz, che include di I.B. COHEN, A Guide to Newton’s Principia, Berkeley/Los Angeles/London 1999, pp. 283-292. Ci si può fare un’idea della situazione degli studi e delle questioni ancora aperte sulle concezioni speculative di Newton consultando i molti articoli pertinenti in I.B. COHEN-G.E. SMITH, The Cambridge Companion to Newton, Cambridge 2002.

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anni ’90. Ma prese alla lettera queste idee newtoniane svolsero un ruolo molto marginale, e in genere Kant – seguendo Maupertuis – condivise il giudizio leibniziano che ne denunciava l’estrinsecità, riassunta nella tesi dell’assoluto arbitrio di Dio sulla natura. Per ripercorrere la storia della metafisica dello spazio precedente alla critica occorre dunque concentrarsi sull’eredità leibniziana, che stavolta giustifica e rende necessarie considerazioni più approfondite. Da Leibniz, si è detto, proveniva a Kant il problema metafisico di determinare il rapporto tra sostanze, quali fondamenti puramente intelligibili, e spazio, tempo e estensione materiale, quali fenomeni che risultano dalle proprietà di queste sostanze. Poiché la metafisica del tempo non venne significativamente sviluppata da Kant, e della fondazione dinamica della materia parleremo in seguito, mi sembra opportuno concentrare l’attenzione sulla metafisica dello spazio, che occupa invece un ruolo fondamentale in tutti gli scritti precritici11. Ma la metafisica dello spazio di Leibniz, da cui vorremmo partire, è argomento estremamente complesso: collocato all’incrocio delle riflessioni sulla sostanza, sulla geometria, sulle facoltà conoscitive, sulla dinamica, tra le quali è già molto arduo trovare una sintesi, non trova in nessun luogo degli scritti leibniziani una sistemazione complessiva, tanto che la sua ricostruzione mette ancora in grande difficoltà gli studiosi12. Se poi ci 11 Per una ricostruzione storica generale che dedichi particolare attenzione alla filosofia tedesca sono ancora molto utili il capitolo su spazio e tempo del secondo volume dell’Erkenntnisproblem di Cassirer (1907, 19112, in CGW 3, pp. 372-437) e W. GENT, Die Philosophie des Raumes und der Zeit: vol. I, Hildesheim 1926; vol. II, Hildesheim 1928 (rist. Hildesheim 1971). 12 Senza entrare nella questione dell’evoluzione del pensiero di Leibniz, terrò conto soprattutto della metafisica leibniziana dell’ultimo periodo, riferendomi soprattutto agli scritti dinamici e metafisici degli anni ’90, alla Monadologia, ai Principi della natura e della grazia, al carteggio con Clarke. Per una ricostruzione complessiva della metafisica leibniziana, che dà conto del dibattito contemporaneo, si veda D. RUTHERFORD, Leibniz and the Rational Order of Nature, Cambridge 1995, in part. le pagine sulla teoria della sostanza (pp. 133-174). Per un’ampia trattazione delle questioni del fenomenismo e della sostanza si veda anche R.M. ADAMS, Leibniz. Determinist, Theist, Idealist, New York/Oxford 1994, pp. 217-307. Sulla filosofia dello spazio dell’ultimo Leibniz è da vedere il bellissimo libro di V. DE RISI, Geometry and Monadology. Leibniz’s Analysis Situs and Philosophy of Space, Basel/Boston/Berlin 2007, che

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si pone dal punto di vista kantiano la ridotta disponibilità dei testi leibniziani fa apparire addirittura inevitabile quella libera rielaborazione delle idee leibniziane, che caratterizza la ricezione kantiana così come quella dei suoi contemporanei. Nondimeno è opportuno cercare di tratteggiare le linee fondamentali dell’originale pensiero leibniziano: sia perché proprio la perdita (e la tentata integrazione) di alcuni suoi aspetti, insieme alla complessità e alla problematicità intrinseca del quadro complessivo, determinò le aporie da cui prese avvio la ricerca kantiana; sia perché, come vedremo, intorno alla metà degli anni ’80 Kant cominciò a modificare la propria esposizione delle tesi di Leibniz, sottolineandone la stretta affinità con le proprie13. Per introdurre la questione si può cominciare dalla definizione leibniziana dello spazio come «ordine delle coesistenze» e dunque come «qualcosa di puramente relativo»14. Che lo spazio contenga solo relazioni, e che non sia né sostanza, né accidente, bensì un ens imaginarium, sono determinazioni che il criticismo conserverà. Ma questa definizione costituisce anche il punto di partenza della più ingenerosa delle obiezioni kantiane, secondo cui addirittura si avrebbe un empirismo della geometria in prospettiva «leibnizianowolffiana». Questa obiezione compare in un passo fondamentale che conviene riportare per intero: [I fisici metafisici] considerando spazio e tempo come rapporti tra i fenomeni (di contiguità e successione) astratti dall’esperienza, anche se rappresentati confusamente, si vedono costretti a negare la loro validità o almeno la loro certezza apodittica alle teorie a priori della matematica nei riguardi delle cose reali (ad esempio nello spaho trovato particolarmente prezioso per il tentativo di ricostruire la «deduzione dello spazio» come forma della percezione confusa in base alla teoria dell’espressione. Per la questione qui trattata si veda anche D. GARBER, What Leibniz Really Said?, in D. GARBER-B. LONGUENESSE, Kant and the Early Moderns, Princeton/Oxford 2008, pp. 6478, che sottolinea come la costante mutevolezza del pensiero leibniziano pregiudichi fin dall’inizio qualsiasi tentativo, come quello kantiano, di ricondurlo a una lista di tesi. 13 Torneremo su questa ultima fase della ricezione kantiana alla fine del prossimo paragrafo. 14 Si veda per es. il terzo scritto di Leibniz a Clarke, § 4 (CLC 53).

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zio); questa infatti non ha mai luogo a posteriori, e i concetti di spazio e di tempo, da questo punto di vista, non risultano che prodotti della facoltà dell’immaginazione, la cui fonte deve essere cercata effettivamente [wirklich] nell’esperienza, dai cui rapporti astratti l’immaginazione ha fatto qualcosa che contiene indubbiamente quanto in essi vi è di universale, ma che non può sussistere [stattfinden] senza le restrizioni che la natura ha congiunto ad essi15.

L’obiezione di un empirismo della matematica, presente già nella Dissertazione del ’70, colpisce solo il primo dei due temi affrontati in questa pagina – validità pura ed empirica della matematica − che conviene esaminare separatamente. Essa si basa su un semplice ragionamento: una relazione presuppone i termini, e questi, nel caso della metafisica leibniziana dello spazio, devono essere in ultima analisi sostanze; ma l’intuizione delle sostanze è solo sensibile; dunque, la relazione d’ordine ha origine pienamente empirica, e i ragionamenti condotti su di essa valgono solo nei limiti dell’astrazione che la produce – cioè i limiti dell’induzione – senza possedere validità oggettiva. Ciò che manca a questa interpretazione è una adeguata caratterizzazione del rapporto stabilito da Leibniz tra intelletto, forma della sensibilità e esperienza, che ancora fino alla fine del secolo sarebbe stato ridotto alla formula indadeguata di una percezione confusa di «elementi semplici» che sono nei fenomeni, e che solo l’intelletto avrebbe la capacità di distinguere16. Una prima rettifica dell’obiezione kantiana ci dà occasione di introdurre la fondamentale distinzione di piano che Leibniz pone tra lo spazio ideale, oggetto della geometria, e il suo fondamento metafisico – distinzione che il Kant precritico ricalcherà perfetta15 KrV A 39-40/B 56-57. Cf. Fortschritte der Metaphysik, KgS XX, 278-279 (caso della tridimensionalità). 16 Si veda per es. J.A. EBERHARD, Über den wesentlichen Unterschied der Erkenntnis durch die Sinne und durch den Verstand, in «Philosophisches Magazin», 1 (1780), pp. 290-306, in part. p. 303: «Noi non sappiamo distinguere, nell’immagine, i fondamenti di ciò che è esteso. Si trovano fuori dell’ambito della sensibilità, possono essere pensati soltanto dall’intelletto con i suoi concetti universali». Kant, nella sua risposta a Eberhard, farà finalmente chiarezza su questo punto (Über eine Entdeckung, 1790, KgS VIII, in part. 218-219).

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mente. La definizione in termini di coesistenza delle sostanze comporta un riferimento alle monadi, che costituiscono il fondamento dello spazio, ma questo riferimento non impedisce a Leibniz di sottolineare che lo spazio, in quanto ente ideale, può essere considerato in astratto, e anzi, in sé non è altro che il risultato di un’astrazione. Proprio un atto di astrazione, infatti, permette di trascurare le differenze tra i costituenti ultimi della natura e produce la rappresentazione di un continuo omogeneo e interminato, che in sé non ha realtà17. In base a questa perdita di contenuti divengono possibili la geometria e dunque la stessa meccanica, quali scienze matematiche pure o miste, fondate su concetti del senso comune «chiari e distinti»18. È possibile che Kant conoscesse queste tesi leibniziane, ma non le prendesse in seria considerazione perché gli mancava una loro giustificazione. Infatti, come è possibile che un’astrazione produca la forma spaziale? Anche ammesso questo, si pone il secondo problema: cosa garantirebbe che i ragionamenti a priori condotti sul piano formale di un’astrazione, cui si ridurrebbero le proposizioni matematiche, siano validi non solo in sé, ma anche «per le cose reali»? Questa distinzione, solo accennata nel passo citato, 17 Sull’idealità

del continuo si veda per es. GP II, 282 n. nozioni del senso comune, «chiare e distinte», «sensibili e intelligibili a un tempo», si veda soprattutto la Lettera alla Regina Sofia Carlotta su ciò che è indipendente dai sensi e dalla materia (1702), GP VI, 501-502. Sullo spazio ideale cf. Nouveaux essais II, V; II, XIII, § 17; lettera a De Volder del 19 gennaio 1706, GP II, 282; lettera a Des Bosses, 31 luglio 1709, GP II, 379. Gli equivoci, in base ai testi disponibili, erano quasi inevitabili: si veda per es. Madame du Châtelet la quale, da poco folgorata dalla filosofia leibniziana, dichiara che lo spazio è un’astrazione dalle cose estese, così come il numero è un’astrazione dalle cose numerate, ma non chiarisce la natura di questa astrazione (Institutions physiques, Paris 1740/Amsterdam 1741; Amsterdam 17422, rist. in WGW III, 28, §§ 72ss., in part. pp. 94-112). Una chiara affermazione dell’inesattezza della lettura kantiana si trova già in Cassirer, il quale insisteva giustamente sulla distinzione dell’immaginazione, e trovava nella sua ricostruzione storica una conferma della successiva, «libera ricostruzione sistematica» kantiana di Leibniz nei Principi metafisici. CASSIRER, Leibniz’ System in seinen wissenschaftlichen Grundlagen (Marburg 1902), in CGW 1, pp. 148ss., 235-245. Su tutta la questione dell’immaginazione e le scienze «miste» della natura si veda l’utile sintesi di R. MCRAE, The Theory of Knowledge, in N. JOLLEY (ed.), The Cambridge Companion to Leibniz, Cambridge 1995, in part. pp. 178-190. 18 Sulle

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viene posta nettamente qualche riga dopo: «Essi [i fisici metafisici] non possono né addurre il fondamento della possibilità delle conoscenze matematiche a priori (in quanto manca loro una intuizione a priori vera e oggettivamente valida), né istituire un accordo necessario tra quelle affermazioni e le proposizioni d’esperienza». Separando i piani della validità formale e di quella oggettiva Kant poteva ragionare in analogia con il caso dell’illegittimo passaggio dalla logica formale alla metafisica, che l’opera avrebbe in ogni punto contestato. Il punto decisivo dell’intera questione dello spazio era dunque proprio l’origine della rappresentazione dello spazio geometrico, che agli occhi di Kant veniva ridotta impropriamente a un atto logico di astrazione, mentre possedeva uno statuto trascendentale, e come tale permetteva anche di spiegare la validità della matematica pura. Kant poteva dunque concludere: «Nella nostra teoria sulla vera costituzione di queste due forme originarie della sensibilità entrambe le difficoltà [validità pura e empirica] sono rimosse». La teoria dell’idealità trascendentale, definendo spazio e tempo come forme dell’intuizione, ne spiegava nello stesso tempo l’origine pura e la validità empirica. Kant dunque si riferiva esclusivamente alla teoria leibniziana dello spazio come rappresentazione confusa perché vi vedeva giustamente l’equivalente della sua tesi, in cui si decideva anche la questione epistemologica della validità empirica della matematica pura. Il rifiuto della definizione relazionale – e, ammesso che ne avesse conoscenza, dei livelli di astrazione ammessi da Leibniz – era forse una conseguenza del fatto che la questione dell’Estetica si concentrava sullo statuto trascendentale dello spazio. Ma è importante vedere in base a quale ricostruzione della teoria leibniziana, nella Critica, Kant conducesse la discussione. La prima constatazione da fare è che la definizione leibniziana dello spazio viene riferita da Kant ora a «rapporti [...] tra fenomeni», ora a «rapporti delle sostanze». In effetti entrambe le espressioni sono valide perché, come viene precisato nell’Anfibolia a proposito degli indiscernibili, «Leibniz considerò i fenomeni come cose in se stesse, quindi come intelligibilia, cioè oggetti dell’intelletto puro (pur chiamandoli fenomeni a motivo della confusione delle loro rappresentazioni)» (A 264/B 320). Leibniz, dunque, avrebbe so49

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stenuto che la percezione si riferisce alle cose stesse, ma che essa le rappresenta come fenomeni nello spazio e nel tempo a causa della sua confusione. Dato però che nello spazio e nel tempo si trovano intuizioni perfettamente distinte non si vede come il concetto di percezione confusa possa collegare la forma dei fenomeni con le sostanze che vi starebbero a fondamento. Si tratta di vedere ora se questa interpretazione kantiana, e l’aporia in essa rilevata, caratterizzasse adeguatamente il pensiero di Leibniz, o della «filosofia leibniziano-wolffiana» cui viene attribuita indistintamente l’intera ipotesi sulla conoscenza sensibile. In primo luogo non bisognerà confondere la distinzione dei piani empirico, immaginario e intellettuale, che Leibniz ammette, dall’ipotesi metafisica sul fondamento dello spazio, che era il punto essenziale per Kant. Anche in Leibniz si trova una definizione dello spazio come «ordine della coesistenza dei fenomeni»19. Dal punto di vista empirico, infatti, la rappresentazione dello spazio si forma con l’osservazione dei corpi e delle loro rispettive posizioni (situs), che per astrazione vengono identificate con luoghi (loci)20. Si di19 Lettera a Des Bosses del 16 giugno 1712: «spatium est ordo coexistentium phaenomenorum» (GP II, 450-451). Non è forse un caso se questa definizione compare nello stesso contesto in cui Leibniz si dedica maggiormente alla teoria della sostanza corporea. 20 Il passo fondamentale è il § 47 del quinto scritto a Clarke: «Ecco come gli uomini giungono a formarsi la nozione dello spazio. Considerano che più cose esistono a un tempo e trovano tra esse un certo ordine di coesistenza, secondo il quale il rapporto tra le une e le altre è più o meno semplice. È la loro situazione o distanza. Quando accade che uno di questi coesistenti muti il suo rapporto con una moltitudine di altri, senza che essi mutino i rapporti tra loro, e che un nuovo venuto acquisti un rapporto uguale a quello che il primo aveva con gli altri, si dice che è avvenuto al suo posto. E tale mutamento si chiama moto, e si trova in quello in cui sta la causa immediata del mutamento. E quando parecchi, o anche tutti, mutano secondo certe regole note di direazione e velocità, si potrà sempre determinare il rapporto di situazione che ciascuno acquista rispetto a ogni altro, e persino quello che ogni altro avrebbe, o che esso avrebbe rispetto a ogni altro, se non fosse mutato o se fosse mutato altrimenti. E supponendo, o fingendo, che tra questi coesistenti ve ne siano in un numero sufficiente che non abbiano subito mutamenti, si dirà che quelli che con tali esistenti fissi hanno un rapporto tal quale altri avevano precedentemente rispetto ad essi, hanno occupato il medesimo posto che questi ultimi avevano occupato. E ciò che comprende tutti questi posti è chiamato spazio. Il che fa vedere come, per avere l’idea del posto e, di con-

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stinguono dunque, a rigore, un «ordine delle situazioni», che è diverso a seconda del dato stato dell’universo che si considera, dallo «spazio astratto», che è «quest’ordine delle situazioni concepite come possibili»21, ovvero la finzione di un ricettacolo che persiste identico a se stesso, che Leibniz paragona a quella di un albero genealogico, rifiutandone l’ipostatizzazione: su questo piano si innestano anche le rappresentazioni della meccanica. Ma tornando ai corpi, che costituiscono l’elemento empirico concreto di questa astrazione, Leibniz afferma con decisione (almeno negli anni in esame) che essi, considerati dal punto di vista metafisico, non sono che fenomeni, cioè enti che non esistono realmente e la cui unità è posta dalla ragione. In quanto «apparenze» sensibili, essi rimandano alle monadi, che sono vere unità e ne costituiscono il fondamento. La tesi in base a cui, secondo il rigore metafisico, esistono solo le monadi – ed è dunque opportuna una spiegazione dei fenomeni in base al «cospirare» delle percezioni – è affermata chiaramente da Leibniz negli scritti dei suoi ultimi anni22. Come, però, in base ai fenomeni, si dovesse concepire il collegamento tra essi e le monadi («come ricavare la realtà dai fenomeni») è un problema cui Leibniz stesso tentò di dare una (o più di una) risposta adeguata fin nei suoi ultimi scritti e che pone molte difficoltà agli interpreti. Sarà utile ai nostri fini tratteggiare almeno il tipo di soluzione verso cui doveva avviarsi il pensiero leibniziano in base alle sue premesse, in particolare a partire dal concetto cardine di tutta la sua gnoseologia, che è il grande assente nella ricezione kantiana: seguenza, dello spazio, basti considerare i rapporti e le regole dei loro mutamenti, senza che vi sia bisogno di figurarsi alcuna realtà assoluta fuori delle cose di cui si considera la situazione» (CLC 142-143). 21 Quinto scritto a Clarke, § 104: «Non dico affatto che lo spazio è un ordine o situazione, ma un ordine delle situazioni, o secondo il quale le situazioni sono disposte; e che lo spazio astratto è quest’ordine delle situazioni concepite come possibili. Dunque è qualcosa di ideale» (CLC 171). 22 Si vedano per esempio la già citata lettera a Des Bosses del 16 giugno 1712; l’abbozzo di lettera a Nicolas Rémond (luglio 1714), GP III, 622-624; l’Entretien de Philarete et d’Ariste (1713), GP VI, 585-586. Una nuova edizione critica dello scritto è ora in LEIBNIZ, Dialoghi filosofici e scientifici, a cura di F. Piro-E. Pasini-G. Mormino, Milano 2007, pp. 933-964. Altri luoghi sono citati da RUTHERFORD, Leibniz, p. 233, n. 7.

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quello di espressione. La relazione di espressione collega due molteplici istituendo tra i rispettivi elementi un rapporto di corrispondenza secondo una regola, ed è considerata da Leibniz la caratteristica fondamentale dell’idea, molti anni prima della sua tarda monadologia. Il collegamento dell’espressione con il fenomeno dipende dal suo innesto nella teoria della sostanza individuale. Quest’ultima, come è noto, si fonda sull’assunzione logico-metafisica del «concetto individuale» (per es. nel Discorso di metafisica) o, come Leibniz preferisce scrivere più tardi, della «legge degli stati» che individua una sostanza definendo il regolare decorso delle sue percezioni. Si aggiunga che ogni monade, sia pure oscuramente, reca in ogni suo stato la conseguenza di tutti gli stati precedenti e le premesse di tutti quelli successivi; che ogni singolo stato è uno stato percettivo (le monadi sono costituite dai propri stati interni) e come tale è espressivo degli stati di tutte le altre monadi: da queste premesse di conclude che ogni singola percezione contiene in nuce l’espressione di tutti gli stati passati e futuri di tutte le monadi, e si giunge alla formula secondo cui la percezione di ogni monade «esprime» tutto l’universo. A questo quadro va poi aggiunta la finitezza della monade, che determina appunto la sua incapacità di intuire immediatamente la totalità delle relazioni tra le monadi: la monade è perciò «confusamente onnisciente»23. Si parla dunque di fenomeno in quanto un determinato molteplice nella percezione possiede un rapporto di espressione parziale riguardo alla totalità delle proprietà intrinseche delle altre monadi. Lasciando da parte per ora il problema di cosa siano queste proprietà (che sarà di grande momento per Kant), possiamo infine domandarci: come mai, all’interno di questo sistema di premesse, la rappresentazione confusa dei sensi si presenta sotto forma spaziale e temporale? Una risposta a questa domanda deve prima di tutto muovere dalla constatazione che, se una tale deduzione dello spazio e del tempo si deve poter dare (come il sistema richiede), le monadi stesse 23 L’espressione si trova già in un manoscritto del 1676: «Mihi videtur Omnem mentem esse omnisciam, [sed] confusè», in LEIBNIZ, Opuscules et fragments inédits, éd. L. Couturat, Paris 1903 (rist. Hildesheim 1988), p. 10. Cf. Principes de la nature et de la grace, § 13, GP VI, 604; Monadologia, § 60, GP VI, 616-617.

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non possono considerarsi a rigore localizzate. Veramente Leibniz aveva ammesso in gioventù l’esistenza di atomi indivisibili in base all’analisi del continuo, e dovette sviare non poco i lettori della Monadologia ricavando l’esistenza delle monadi come semplici in base all’analisi del composto; ma nei suoi scritti più tardi egli afferma in più luoghi che, dal punto di vista del rigore metafisico, le monadi non occupano un punto, e che l’estensione non è composta, ma «risulta» dai semplici24. In caso contrario, d’altra parte, la stessa idea di una risoluzione dello spazio nelle monadi sarebbe vanificata, e si avrebbe piuttosto una composizione di punti, che però sarebbe inconsistente dal punto di vista metafisico: non sarebbe concepibile infatti né dal punto di vista di Dio, che non percepisce confusamente, né da quello della monade finita, che si troverebbe di fronte a una intuizione sensibile priva di ragioni metafisiche (così, forse, Leibniz avrebbe considerato la dottrina di Kant). Poiché dunque le monadi sono costituite di percezioni, ne si risulta che proprietà percettive come grandezza, figura ed estensione, che sono immaginarie, devono essere in qualche modo de24 Leibniz si pronuncia contro la localizzazione soprattutto entrando nei dettagli tecnici della metafisica con i suoi più fini corrispondenti. Si veda per es. in GP II, 268, 275 (a De Volder, 1704): i corpi non sono «composti», ma «risultano» dalle monadi; GP II, 450-451 (a Des Bosses). Ma qualcosa si poteva ricavare anche dal carteggio con Clarke. Nel secondo scritto Leibniz scrive, commentando il concetto di sensorio, che se anche l’anima si trovasse in un luogo del corpo, ciò non aiuterebbe a comprenderne le appercezioni di ciò che sta fuori del punto (§ 4, CLC 37). Nella risposta di Clarke (§4, CLC 48) viene accennata l’ipotesi metafisica (già in More) secondo cui lo spirito, come lo spazio, sarebbe indivisibile e nondimeno esteso. Leibniz insiste che le teorie della localizzazione, puntuale o estesa, sono entrambe incapaci di spiegare l’appercezione e in genere sono «idola tribus» (terzo scritto, § 12, CLC 56). Per l’analogia punto-monade, che si trova per es. nel § 2 dei Principi (GP VI, 598) era rilevante la considerazione fenomenologica del «punto di vista» delle monadi: questa indubbiamente suggeriva una localizzazione delle monadi, a meno di non dare per assunto il rapporto tra monadi e sostanze corporee, che è infatti un altro dei grandi problemi su cui si concentra il tardo pensiero di Leibniz. Sulla localizzazione delle monadi e il “riduzionismo” metafisico leibniziano è in corso da alcuni anni una viva discussione tra gli studiosi: oltre agli studi già citati si vedano almeno J.A. COVER-G. HARTZ, Are Leibnizian Monads Spatial?, «History of Philosophy Quarterly» 11 (1994), pp. 295-316, e, per una recente sintesi della questione, M. FUTCH, Leibniz’s Metaphysics of Time and Space, Berlin 2008, pp. 152-153.

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dotte dal concetto della percezione finita, in quanto risultati di una limitazione intrinseca dell’espressione monadica. Dato però che la relazione tra le monadi, dal punto di vista metafisico, è definita dal contenuto percettivo (le monadi «non hanno finestre»), e dato che questa percezione è almeno in parte confusa, si capisce come mai insieme alla non località delle monadi Leibniz affermasse anche che esse non possono non rappresentarsi nello spazio, e che, se considerate isolatamente dal corpo, esse sarebbero come «disertori dell’ordine generale»25. Questa precisazione aiuta a cogliere un altro punto che dovette sfuggire a Kant: benché dal punto di vista metafisico la forma dell’intuizione deve provenire da proprietà intrinseche, la cercata deduzione dello spazio, dato che (come sto supponendo)26 queste proprietà consistono in stati percettivi, non 25 GP VI, 545-6. Cf. Opuscules et fragments, pp. 14-15, GP II, 253. Per Leibniz «l’essenza dell’anima è rappresentare corpi». Una tesi analoga era stata sostenuta da SPINOZA, Ethica, II, Prop. 11, 13; anche Spinoza, poi, aveva un concetto di espressione, che caratterizza il rapporto tra sostanza e attributi (Ethica, I, Def. VI); ma questa teoria non fornisce una spiegazione delle caratteristiche formali dell’estensione. Lo segnalo perché la lettura kantiana del concetto di espressione simbolica dei noumeni, nel 1770, mancando la teoria di un’espressione isomorfica, più che a Leibniz sarà prossima a Spinoza (al quale forse Kant si riferirà implicitamente). 26 Cf. Principes, § 2, GP VI, 598: «una monade in se stessa non potrebbe distinguersi da un’altra, sul momento, se non per qualità e azioni interne, le quali non possono essere altro che le sue percezioni [...] e le sue appetizioni (vale a dire le sue tendenze da una percezione all’altra)». È opportuno almeno menzionare qui il problema interpretativo di come si debba caratterizzare la limitatezza della percezione nella monadologia di Leibniz, perché esso ha un evidente legame storico e teorico con la questione kantiana del noumeno. Il tentativo leibniziano si fondava sulle ipotesi dell’esistenza delle monadi completamente determinate ab initio, del rapporto espressivo tra le percezioni (armonia), e dell’imperfezione della espressività monadica individuale. La prima e la terza di queste tesi, in particolare, sembrano porre la necessità che alcune delle proprietà delle monadi non si possano in linea di principio cogliere sensibilmente, e dunque dar luogo all’ammissione di proprietà noumeniche inconoscibili. Se infatti una conoscenza perfettamente adeguata del mondo è irraggiungibile, come Leibniz riconosce, come si devono intendere le proprietà che l’espressione non coglie? Se le si intende come proprietà inconoscibili, si avrebbe il ricorso a qualità occulte che Leibniz si fece sempre un vanto di escludere dalla filosofia; se invece, come suggerisce la seconda premessa, le si intende come stati percettivi, allora sarebbe pensabile una percezione adeguata del mondo i cui contenuti fossero sensibili. Ma i contenuti percettivi sensibili dipendono appunto dalla parzialità dell’espressione. Nel caso di una conoscenza perfetta, infatti, l’intera ipotesi prevedeva l’annullamento dei fenome-

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può procedere dalla considerazione isolata della singola monade da un punto di vista logico-metafisico ma deve derivare dall’analisi dei fenomeni e dunque dalle relazioni tra le monadi, in quanto percettivamente interconnesse. Come Leibniz precisa in una lettera a De Volder (GP II, 277-8), addirittura, l’ordine essenziale tra le monadi deve essere decifrato in base all’ordine delle relazioni spaziali e temporali che la monade percepisce da un certo punto di vista. In base a questi elementi si può ricostruire come avrebbe potuto procedere una deduzione dello spazio come forma della percezione confusa. La percezione dei sensi contiene elementi distinti e elementi oscuri. I primi, riconducibili a spazio, tempo, figura e movimento, possono essere isolati, dando luogo alla fisica matematica. Dal punto di vista metafisico, tuttavia, il principio di ragione (poste le sostanze individuali) nega che la sola distinzione locale sia sufficiente a distinguere tra loro due sostanze. Occorre dunque una spiegazione del fatto che le percezioni dei corpi, che devono esprimere le relazioni tra le monadi, contengano una distinzione estrinseca come quella locale, la quale avviene precisamente entro quel continuo omogeneo che è lo spazio. La rappresentazione dello spazio deve insomma formarsi in base alla percezione di proprietà qualitative, intrinseche ed espresse dalla situani sensibili e dunque avrebbe perso ogni contatto con l’esplicazione dell’esperienza. Se dunque si trattasse di percezioni non sensibili, puri pensieri, resterebbe il problema di come concepire in base ad essi l’armonia tra le monadi, senza far ricorso ad alcun contenuto fenomenologico. Occorrerebbe in effetti assumere il punto di vista di Dio, oltrepassando però i confini di ogni esperienza. Pare dunque che, dal punto di vista della contingenza della conoscenza empirica, il pensiero di Leibniz e quello di Kant convergano più di quanto la diversità delle premesse potrebbe far credere. Le rispettive teorie del fenomeno non possono infatti escludere del tutto il concetto di un inconoscibile, ma solo limitarsi a privarlo di una positività (inevitabilmente antropomorfica) che renderebbe possibile concepire una violazione dell’ordine della natura. La dottrina idealistico-trascendentale del noumeno, in ogni caso, intendeva precisamente dar conto di questa aporia di una metafisica delle sostanze spirituali rinunciando a ogni spiegazione della sensibilità e escludendo una nozione positiva dell’inconoscibile. Un’interessante esposizione della metafisica leibniziana dal punto di vista di ciò che è concepito da Dio, piuttosto che dalle monadi, viene accennata in uno studio preparatorio per una lettera a Des Bosses del 1712, GP II 428-439.

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zione, e di proprietà quantitative, solo apparenti, che danno luogo al fenomeno della distinzione locale27. Che in tal modo dovesse procedere la metafisica dello spazio leibniziana sembra evidente. E tuttavia è vano cercarne un compiuto svolgimento negli scritti leibniziani, e se si considerano i soli scritti che Kant potè vedere non ne rimangono che alcuni frammenti. Inoltre, diverse ipotesi ausiliarie concorrevano a comporre questa dottrina incompiuta, aumentandone la problematicità intrinseca, nonché ovviamente quella della sua ricezione. Esse riguardano in genere il passaggio dalla deduzione della distinzione locale in genere in quanto distinzione non qualitativa – che si ricava per definizione dalla confusione dell’espressione – alla deduzione delle proprietà particolari del fenomeno, da quelle geometriche dello spazio a quelle dei corpi. Nelle ricerche geometriche Leibniz trovava modo di confermare e corroborare le sue ipotesi metafisiche. La stessa definizione dello spazio come «ordine delle situazioni» implica un riferimento a una nozione, il situs, cui Leibniz dedicò una nuova scienza geometrica. Questa doveva costituire la base di un efficace strumento descrittivo per le relazioni spaziali, e veniva presentata da Leibniz come il risultato di un avanzamento analitico rispetto alla primitività dell’idea di estensione in Descartes28. In quanto scienza matematica delle qualità, in particolare, la nuova geometria si prestava ad essere accostata al compito metafisico di una caratterizzazione delle proprietà spaziali che si poneva nella monadologia. I numerosi scritti dedicati da Leibniz, fino agli ultimi anni, alla fondazione e allo sviluppo del calculus situs rimasero però quasi del tutto inediti, e il XVIII secolo ne ebbe solo qualche frammentaria notizia29. 27 Sul nesso tra posizione e espressione si veda LEIBNIZ, Opuscules et fragments, p. 9 e RUTHERFORD, Leibniz, 188-197. 28 Nella lettera a De Volder datata 24 marzo/3 aprile 1699, GP II 169-170, l’estensione veniva risolta in «pluralità, continuità e coesistenza». Leibniz precisava che tra queste nozioni la coesistenza è l’unica a trovarsi esclusivamente nell’estensione. Il situs ne determinava l’ordine, prescindendo dunque dalla continuità dello spazio. 29 L’idea leibniziana di una geometria qualitativa era nota al secolo XVIII almeno a partire da un riferimento di Wolff (nel 1718), ed era stata ricordata da Samuel König

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L’aspetto qui rilevante della questione risiede nel fatto che le relazioni situazionali, nello studio che ne faceva Leibniz, non comportavano l’estensione e la continuità dello spazio, e che dunque, dal punto di vista della deduzione metafisica, occorreva qualche ragione per spiegare queste proprietà del fenomeno. A questo nuovo compito deduttivo faceva verosimilmente riferimento la definizione dell’estensione come «diffusione della situazione», alla quale non corrisponderebbe nelle intenzioni leibniziane un procedimento dell’immaginazione (la classica generazione di linee, curve e superfici dal movimento del punto), ma la rappresentazione geometrica di una vera e propria deduzione dell’estensione a partire dal punto30. Anche su questo passaggio le ricerche di Leibniz restaronel corso del suo carteggio polemico con Maupertuis sul principio di minima azione. Ma fino all’800 mancarono i testi che avrebbero reso possibile una sua valutazione adeguata, e questa si orientò poi soprattutto su un accostamento, comprensibile ma inadeguato, tra l’analysis situs e branche della geometria non-metrica come la geometria proiettiva e la topologia. Sulla storia dell’analysis situs si veda DE RISI, Geometry and monadology, pp. 1-126. 30 In effetti si trovano vari accenni, quasi tutti inediti, alla formazione dell’estensione dalla «ripetizione continua» o «diffusione o continuazione» della situazione. Si vedano per es. lettera a Des Bosses del 21 luglio 1707 (GP II, 339) e la Entretien de Philarete et Ariste (1713), GP VI, 584-585. DE RISI, Geometry and Monadology, pp. 412-413, la ritrova negli scritti inediti sulla caratteristica geometrica e propone di dare ragione della necessità che ogni monade attui questa «ripetizione» – che forma lo spazio – in base alla confusione della percezione. Non pare comunque che Leibniz giungesse a una articolazione soddisfacente di questo ragionamento, che in effetti si può solo tentare di ricostruire raffrontando scritti geometrici, tesi metafisiche e frammenti del suo pensiero tardo, ma non si trova mai enunciato e sviluppato in tutti i suoi aspetti in un singolo scritto. CASSIRER, Leibniz’ System, CGW 1, 134-135, ricorda l’analogia tra questa teoria e la speculazione sulla geometria di tradizione platonica, contrapponendovi la prospettiva di Aristotele, secondo il quale il punto è definito come termine di un procedimento astrattivo e non può mai fungere da principio costruttivo dell’estensione. L’analogo di Aristotele, in questo confronto, sarebbe verosimilmente Kant, che sostiene in effetti la precedenza dell’estensione sul punto, quale suo confine. Ma senza dare una ragione di questa diffusione sul piano metafisico essa, come pure quella neoplatonica, risulta indistinguibile dalla «descrizione» geometrica dell’estensione di Kant, cioè un’operazione di sintesi che non produce ma presuppone lo spazio. Un concetto di «quantità» come ripetizione di differenze estrinseche ricompare nella filosofia della natura di Hegel, il quale riprendeva il concetto cartesiano e spinoziano di quantità concepita con l’intelletto, e anche la congiunzione tra concetto di quantità e concetto di materia che trovava in Leibniz. Si veda HEGEL, Wissenschaft der

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no a uno stadio esplorativo; ma soprattutto tanto la scientia situs, quanto la corretta spiegazione della presenza locale della monade, che doveva istituire il collegamento concettuale tra la metafisica e quello strumento geometrico, rimasero al di fuori dell’orizzonte kantiano, con la conseguenza filosoficamente rilevante che questi non avrebbe mai saputo fornire sul piano geometrico una definizione matematica di spazio che non presupponesse l’estensione. Un discorso analogo si può fare riguardo alla spiegazione del fenomeno del corpo, questione la cui intricatezza spinse Leibniz negli ultimi anni a esitare sulla stessa liceità di una nozione di «sostanza materiale». Su questo punto i testi leibniziani presentano nuovamente diverse difficoltà intrinseche, e queste – anche quando il pubblico potè leggere testi fondamentali come la corrispondenza con il gesuita Des Bosses (una scelta comparve nel secondo volume dell’edizione Dutens, nel 1768) – potevano incoraggiare gli equivoci suggeriti dai più noti testi metafisici e far intendere, con esiti finanche grotteschi (si pensi a Voltaire), che i corpi sarebbero composti di monadi disseminate nello spazio. Anche in questo caso, d’altra parte, si può ricavare dai diversi testi leibniziani quale potesse essere un modo di procedere per una tale spiegazione in base alle sole proprietà intrinseche delle monadi: si tratterebbe cioè determinare un rapporto di dominanza di una monade rispetto alle altre, dominanza che dovrebbe risiedere nella maggiore perfezione espressiva delle percezioni. Da una tale gerarchia di dominanza si ricaverebbero almeno i rapporti topologici di inclusione o esclusione tra le monadi a livello fenomenico. La questione, comunque, dà ancora molto da discutere gli studiosi31. Tuttavia la ricordiamo qui soprattutto perché, abbandonate le coordinate della teoria dell’espressione, anch’essa scompare del tutto dall’orizzonte dei primi interpreti, lasciando l’ipotesi dell’armonia prestaLogik. Die Lehre vom Sein (Berlin 18322), II, 1, A, Nota 1, in ID., Gesammelte Werke, Hamburg 1968 ss., vol. 21, pp. 177-179. 31 Si vedano per es. R.M. ADAMS, Phenomenalism and Corporeal Substance in Leibniz, in P.A. FRENCH-T.E. UEHLING-H.K. WETTSTEIN (eds.), Contemporary Perspectives on the History of Philosophy, Minneapolis 1983, pp. 217-257; RUTHERFORD, Leibniz, pp. 265-282.

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bilita quale unico strumento per definire il rapporto tra monade e organismo. Alla luce di questa breve ricognizione degli elementi della metafisica dello spazio di Leibniz possiamo ora apprezzare la distanza tra la loro unità di impostazione originaria e la loro ricollocazione frammentaria nell’edificio della Critica, distanza determinata in genere dalla scomparsa dall’orizzonte del criticismo dell’ipotesi dell’espressività della monade. Un filo conduttore per questo raffronto lo forniscono i diversi passaggi attraverso cui, nel pensiero leibniziano, veniva argomentato il passaggio dai fenomeni alle sostanze immateriali, che muovevano 1) dall’appercezione; 2) dall’analisi del continuo; 3) dallo studio del movimento in dinamica. L’argomento che muove dall’appercezione per ricavarne la sostanza semplice proviene ovviamente dalla tradizione cartesiana, ma è sviluppato da Leibniz in modo originale. Con l’appercezione acquisiamo lo stesso concetto di sostanza, poiché essa ci presenta quella «multorum in uno expressio» in cui consiste la percezione, che nessun concetto meccanico è in grado di spiegare. La ricezione di questa dottrina leibniziana, come vedremo meglio tra breve, fu pesantemente condizionata all’inizio del XVIII secolo dalla perdita della spiegazione propriamente monadologica del fenomeno corporeo. Così veniva perduta la specificità della ricerca leibniziana rispetto al suo sfondo cartesiano, consistente proprio nella negazione della res extensa, e l’armonia prestabilita veniva considerata come una concordanza tra stati psichici e stati fisici di due sostanze. Tolta l’ipotesi dell’espressione universale, che come abbiamo visto imponeva che le monadi non fossero concepibili separatamente dalle loro percezioni sensibili, veniva distinta un’armonia universale dall’armonia particolare tra anima e corpo, e la psicologia razionale era privata di ogni riferimento intrinseco ai fenomeni32. Si ponevano così, nei testi fondamentali per la formazione kantiana, le premesse per l’accusa che Kant rivolge a Leibniz nel 32 Già Foucher sostenne, in base alla medesima interpretazione, che nell’ipotesi dell’armonia prestabilita l’esistenza dei corpi sarebbe stata superflua (lettera a Leibniz comparsa sul «Journal des sçavans», settembre 1695, GP I, 426). Argomenti come questo vennero ripresi nel corso della polemica dei pietisti contro Wolff.

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criticismo di aver paragonato tutti gli oggetti «solo con l’intelletto», prescindendo dal contributo della sensibilità33. Si vede così che, tendenzialmente, il testo della psicologia razionale veniva effettivamente a ridursi a quella «singola rappresentazione: Io penso», che Kant pone a capo della sua critica nei Paralogismi della psicologia razionale, facendo piazza pulita di tutti gli argomenti che ne volessero ricavare una sostanza. È significativo, allora, il modo in cui Kant si spiega il fatto che Leibniz dotasse le monadi di una capacità rappresentativa: quest’ultima è infatti la sola proprietà assolutamente interna di cui abbiamo esperienza e che poteva essere escogitata per qualificare la sostanza semplice, indipendente ed inestesa; quando invece, come abbiamo visto, per Leibniz queste erano intrinsecamente inconcepibili senza facoltà rappresentative e separate dal corpo34. L’analisi del continuo ci presenta una distorsione analoga. Abbiamo visto quante ambiguità dei testi leibniziani potessero suggerire una localizzazione delle monadi nei punti, e lo stesso Kant si tormentò per almeno venti anni prima di dichiarare l’inconsistenza teorica di questa ipotesi (nel 1766). È noto, d’altra parte, che Kant svolge nella seconda Antinomia la critica di ogni composizione dello spazio mediante i semplici, identificando questi ultimi con i punti35. È notevole che egli aggiunga la seguente osservazione: «il vero e proprio significato della parola monade (secondo l’uso di Leibniz) dovrebbe riferirsi solo al semplice, il quale è dato immediatamente come sostanza semplice (per esempio nell’auto33 KrV A 270/B 326. Mi riferisco alla teoria delle relazioni tra gli enti nelle ontologie della linea Wolff-Baumgarten-Meier, tutta dominata dalla essenzialità delle proprietà interne e di cui l’Anfibolia kantiana costituisce una diretta confutazione. Si vedano per esempio BAUMGARTEN, Metaphysik, §§ 7-264 («predicati interni») e 265-350 («predicati esterni o relativi», tra cui identico-diverso, simultaneo-successivo, causacausato); G.F. MEIER, Metaphysik, Halle 1755, 17652, §§ 200-234. 34 KrV A 283/B 339. Non sorprende dunque che – come vedremo nel prossimo paragrafo – Kant in alcune riflessioni inedite interpretasse il pensiero di Leibniz come un «idealismo» materiale, in senso analogo a quello attribuito a Berkeley nei testi pubblicati. 35 KrV A 435/B 463: «lo spazio non consiste di punti». Su compositum e totum cf. A 438/B 466.

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coscienza) e non come elemento di un composto, che si potrebbe chiamare più opportunamente atomus» (KrV A 441-442/B 469470). Si trova qui una prima distinzione dell’autentica monadologia leibniziana dalla monadologia fisica, dottrina che Kant stesso aveva elaborato negli scritti precritici entro un orizzonte teorico prevalentemente wolffiano. Ma la corretta separazione della monade leibniziana dalla monade fisica non si accompagna al recupero dell’originario concetto leibniziano, e Kant resta fermo a una separazione tipicamente wolffiana tra psicologia e cosmologia, che costituisce il segno visibile della dissoluzione teorica di ogni “deduzione” dello spazio dalle sostanze. Per un verso, considerando la monade come soggetto logico-metafisico indipendente dal proprio contenuto percettivo fenomenico, Kant non vi trova nessun attributo che permetta di ritornare (sia pure ipoteticamente) da essa al fenomeno dell’estensione. Anche da questo punto di vista si vede che la trattazione della sostanza intelligibile resta nei limiti di una psicologia razionale empiricamente vuota, che paradossalmente si occupa di un oggetto dell’esperienza «nella misura in cui quest’ultimo cessa di essere un oggetto dell’esperienza» (KrV B 427). Per l’altro verso, la distinzione kantiana non tiene conto del rapporto tra monadologia e geometria, con conseguenze rilevanti per la concezione dello spazio. A questo proposito l’oblio delle ricerche leibniziane su una analysis situs non è priva di rilievo. Dal punto di vista della geometria di situazione, infatti, Leibniz aveva proposto una definizione dello spazio come insieme di punti e uno studio delle proprietà geometriche in base alla nozione di congruenza, a prescindere da considerazioni quantitative (e dunque al riparo dalle note difficoltà de compositione continui che una definizione insiemistica dello spazio notoriamente creava). Kant invece esclude che lo spazio possa consistere in un insieme di punti e lo considera come una «intuizione infinita data» originariamente continua36. 36 Si noti che, a livello dell’immaginazione e dello spazio ideale Leibniz condivideva sia l’infinità (potenziale), sia la precedenza del tutto sulle parti. La differenza tra Leibniz e Kant, circa queste tesi, risiede soprattutto nella teoria sul fondamento noumenico dell’ens imaginarium, in cui Leibniz ritrova la precedenza della parte sul tutto e l’infinità attuale come perfezione intelligibile. Su questi temi è ancora utile A.J.

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Se però si considera che l’analysis situs doveva costituire lo sfondo per la definizione metafisica dello spazio come ordine delle situazioni si capisce come mai Kant, mancandone, non potesse rendersi comprensibile a livello empirico la precedenza delle parti sul tutto, pur riconoscendone la validità logica nell’Anfibolia. Non sembra un caso, dunque, che l’analysis situs di Leibniz venga portata da Kant come esempio di presunto tesoro nascosto proprio all’inizio dello scritto Von dem ersten Grunde des Unterschiedes der Gegenden im Raume (1768), nel quale per la prima volta egli prende le distanze da una concezione relazionistica dello spazio (quasi a riconoscere, in un postumo omaggio, che, se solo la dottrina leibniziana fosse emersa in piena luce, forse le cose sarebbero potute andare diversamente)37. Per le stesse ragioni Kant non potè mai rendersi concepibile una «diffusione della situazione» in termini metafisici, mentre riconosce e sviluppa la nozione di diffusione a livello dinamico. Di nuovo, tuttavia, il carattere della dinamica leibniziana risulta profonDIETRICH, Kants Begriff des Ganzen in seiner Raum-Zeitlehre und das Verhältnis zu Leibniz, Halle 1916, repr. Hildesheim 1975. 37 KgS II, 377: «Il celebre Leibniz possedeva molte cognizioni effettive, con cui arricchì le scienze, ma anche molto più grandiosi progetti per conoscenze che il mondo invano ha atteso che egli mettesse in atto. Non voglio qui decidere se la causa debba porsi nel fatto che i suoi tentativi gli sembrarono ancora troppo incompleti, scrupolosità propria degli uomini più meritevoli e che ha sottratto sempre alla scienza molti preziosi frammenti, o se gli capitò quel che Boerhaave sospetta dei grandi chimici, che cioè essi spesso abbiano annunciato degli artifici, come se già ne fossero in possesso, quando invece, confidando nel loro talento, avevano soltanto la persuasione che l’esecuzione non poteva loro fallire se solo l’avessero voluta intraprendere. È per lo meno verosimile che quella certa disciplina matematica, che egli per primo intitolò Analysis situs, e la cui perdita ha deplorata, tra gli altri, anche Buffon trattando delle complicazioni [Zusammenfaltungen] della natura nei germi, non sia stata mai nulla più che un puro pensiero [Gedankending]. Io non so esattamente quanto l’oggetto, che io qui mi propongo di trattare, sia affine a quello che aveva in mente il grande uomo qui ricordato; ma, a giudicare dal significato delle parole, io cerco qui filosoficamente il primo fondamento della possibilità di ciò, di cui egli intendeva determinare matematicamente la grandezza». Come si vede Kant – che disponeva solo di notizie indirette – interpreta la teoria di Leibniz come matematica e non filosofica. Perciò pare che egli non la collegasse con l’operazione di analisi del concetto di estensione, cui Leibniz aveva fatto riferimento in diversi luoghi.

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damente modificato. L’idea fondamentale che Kant riprende dalla dinamica leibniziana è la tesi secondo cui l’estensione (in senso cartesiano) deve essere scomposta nei predicati della «antitipia» e della sua diffusione38. E tuttavia, con la scomparsa dell’ipotesi dell’espressione, viene meno nel criticismo la distinzione leibniziana tra una forza originaria e una forza derivata, la prima associata alla realtà della sostanza in senso proprio, la seconda definita nei termini della sua manifestazione fenomenica. La forza attiva originaria, per esempio, coincide con l’attività percettiva nella sua componente distinta, mentre la forza attiva derivata è la vis viva. Coerentemente con questo disegno, per esempio, già la Theoria motus abstracti del 1671 associava la conservazione della forza viva, resa evidente dai fenomeni, alla dipendenza legale degli stati successivi della percezione, il cui correlato appercettivo è la memoria39. Questo parallelismo tra concetti psicologici e concetti fisici scompare nella teoria della forza kantiana: la ragione consiste nella delimitazione che Kant prescrive all’analisi delle facoltà psichiche fondamentali e delle forze, in base alla quale la spiegazione del commercio tra anima e corpo resta in linea di principio impossibile40. La deduzione dell’estensione fisica, così, viene cercata in una dinamica di forze che vengono dette ancora «fondamentali», ma sono derivate dal fenomeno della materia quali sue condizioni essenziali. Nel loro concetto manca la nota dell’attività, che congiunge nella concezione leibniziana la forza alla spontaneità della sostanza e alla espressività delle percezioni: così la materia kantiana è intrinsecamente «senza vita» e l’organismo rimane un fenomeno empirico causalmente inesplicabile. Il massimo problema della dinamica kantiana, del resto, sarà la determinazione dei bor38 La tesi leibniziana è menzionata nel § 1 dei Gedanken, KgS I, 17. Si tratta dell’unica citazione diretta dello Specimen dynamicum nell’intero corpus kantiano. Sul rapporto tra dinamica kantiana e leibniziana torneremo approfonditamente nel § 8.1.A. Osservo subito che Leibniz includeva nella definizione di materia anche l’inerzia o «resistenza al moto», che per ora può rimanere a margine del nostro discorso (v. cap. 6, nota 11). 39 Cf. Theoria motus abstracti (Mainz 1671), GP IV, 230. 40 Si veda in part. KrV B 427-428. Sul concetto di «forze e facoltà fondamentali», cui qui Kant rimanda, si veda infra § 4.1.

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di delle sostanze materiali in base all’interazione di forze motrici, un compito verso il quale anche una considerazione più profonda della monadologia – che nella deduzione dell’impenetrabilità ha un altro dei suoi punti oscuri – non avrebbe recato gran vantaggio. Si può concludere dunque che la spaccatura tra progetto leibniziano di una metafisica del mondo sensibile e criticismo kantiano, che abbiamo seguito a partire dalla questione dello spazio, corrisponde all’abbandono delle sostanze immateriali, e che questo abbandono, nell’esame retrospettivo della Critica, è condizionato dalla scomparsa dell’ipotesi dell’espressività. Tolta quest’ultima, la sostanza indipendente e priva di relazioni fisiche esteriori è privata di ogni contenuto fenomenologico, e diviene la kantiana cosa in sé. Tutta la vicenda è stata fin qui presentata come una contrapposizione tra due grandi ipotesi filosofiche. È opportuno ora approfondire sul piano storico alcuni passaggi intermedi che scandirono il passaggio dall’una all’altra, concentrandoci su tre motivi principali che saranno essenziali per lo studio della filosofia naturale precritica: aporia della metafisica dello spazio; emancipazione delle idee dinamiche dal quadro metafisico leibniziano; abbandono di ogni teoria della conoscenza noumenica. Cerchiamo dunque di mettere a fuoco le circostanze che condizionarono l’interpretazione kantiana di Leibniz e in particolare incoraggiarono la radicale separazione tra determinazioni intellettuali e determinazioni sensibili che Kant ascrisse al «sistema intellettuale del mondo», per contrapporlo all’idealismo trascendentale. Abbiamo visto che, per una interpretazione della metafisica di Leibniz, i testi erano solo parzialmente disponibili, le difficoltà erano sotto gli occhi di tutti, il rischio di equivoci quasi inevitabile. In mancanza di una piena comprensione della originale metafisica leibniziana, infatti, l’immagine degli infiniti punti di vista delle monadi sull’universo, in cui il punto di vista è associato a un luogo dello spazio, non incoraggiava forse senz’altro una localizzazione della sostanza spirituale? E del resto lo stesso Leibniz, per illustrare la tesi della comunicazione infinita delle sostanze, non aveva forse evocato l’immagine dell’universo fisico come plenum dei corpi, in cui ogni movimento produce una modificazione universa64

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le?41 Non aveva insistito sul fatto che, senza il corpo, le monadi non costituiscono una natura? E ancora, la tesi dell’espressione confusa di tutto l’universo non poteva essere presa per una determinazione puramente psicologica, riferibile alla percezione dei sensi? Del resto per illustrare la tesi dell’espressione confusa di tutto l’universo Leibniz aveva portato l’esempio degli urti tra le gocce del mare, che un udito più fine potrebbe in linea di principio distinguere. Accadde che in equivoci del genere cadesse uno degli ultimi corrispondenti di Leibniz e insieme il massimo responabile del riaccendersi dell’attenzione sulla metafisica di quest’ultimo in Germania, cioè Wolff. Ma è noto che le dottrine di Wolff, che in molti luoghi rielaboravano e integravano quelle di Leibniz, vennero costantemente confuse negli anni della formazione kantiana con quelle dello stesso Leibniz, dando luogo a quell’etichetta di filosofia «leibniziano-wolffiana» che Kant, almeno per quanto riguarda la scienza della sensibilità, conserva ancora nel 1781. Con Wolff si può dunque far cominciare una vicenda di ricezione del pensiero leibniziano che attraversa in Germania tutto il XVIII secolo, che soltanto negli anni ’50-’60 presenta i primi segni di un pubblico riconoscimento che dovesse esservi un pensiero leibniziano non wolffiano, e di cui Kant stesso sarà protagonista, negli anni ’80, quando rivendicherà la propria prossimità alle tesi di un Leibniz autentico, distinguendole da quelle dei suoi epigoni42. L’opera 41 Molto ingannevole in tal senso il § 61 della Monadologia, in cui, dopo aver introdotto la rappresentazione cosmica delle monadi Leibniz propone un’analogia (GP VI, 617): «E i composti si accordano [symbolisent] in questo con i semplici. Poiché essendo tutto pieno, il che rende tutta la materia collegata, e producendo ogni movimento nel pieno qualche effetto sui corpi distanti in rapporto alla distanza, in modo che ogni corpo è affetto non solo da quelli che lo toccano, e risente in qualche modo di tutto ciò che accade loro, ma anche per mezzo loro risente di quelli che toccano per primi dai quali è toccato immediatamente, ne consegue che la comunicazione giunge a qualsiasi distanza. E di conseguenza ogni corpo risente di tutto ciò che avviene nell’universo, tanto che colui che tutto vede potrebbe leggere in ciascuno ciò che avviene dappertutto e persino ciò che è avvenuto o avverrà, osservando nel presente ciò che ne è distante sia secondo il tempo sia secondo il luogo». Si tratta di una analogia tra mondo delle monadi, collegate dall’espressione, e mondo sensibile, collegato da un influsso meccanico. 42 Ricordiamo sommariamente le vicende dell’espressione ‘filosofia leibniziano-

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wolffiana, in effetti, piuttosto che integrare le lacune della filosofia leibniziana, servì soprattutto a ispessire le nubi che la avvolgevano, poiché di fatto spostava altrove l’asse delle tesi metafisiche. Sarà dunque utile tratteggiarne alcuni dettagli, poiché in essi, insieme all’oblio delle ricerche leibniziane, si pongono distintamente i nuovi problemi da cui muoverà la filosofia naturale kantiana. La metafisica dello spazio è un caso esemplare. Wolff sostiene wolffiana’. Essa comparve per la prima volta nelle Dilucidationes philosophicae di Bilfinger nel 1725. Essa si diffuse poi al punto da poter comparire nei titoli delle opere dei primi storici del wolffismo, come Georg Volckmar Hartmann (1737) e Carl Günter Ludovici (1738). Wolff protestò in diverse sedi, accusando Bilfinger di essere il responsabile della confusione e sottolineando con qualche acredine la sua indipendenza dalla monadologia leibniziana: l’avrebbe conosciuta poco e tardi, e si trattava comunque di un «enigma, tale che io non l’ho completamente risolto e non vorrei risolverlo, anche se potessi [ob ich wohl könnte], perché non ne ho bisogno ai miei scopi». Come a distinguere il proprio sobrio costume dimostrativo dalle avventurose speculazioni di Leibniz, Wolff concludeva che il sistema di quest’ultimo «comincia solo là dove il mio finisce» (lettera a E.C. Manteuffel dell’11 maggio 1746, cit. nel saggio del curatore in H. WUTTKE (hrsg.), Christian Wolffs eigene Lebensbeschreibung, Leipzig 1841, rist. in WGW 10.1, pp. 82-83). La breve autobiografia che Wolff aveva messo a disposizione di Gottsched, caldeggiando un chiarimento e un distinguo, fu pubblicata solo nel 1841 (cf. ivi, in part. pp. 140-142). Negli anni ’60, quando ormai le differenze interne tra i “wolffiani” e la diffusione di concetti lockeani e newtoniani contribuivano a spegnere la contesa nell’ambito dall’Accademia delle Scienze di Berlino, si cercò un ritorno a Leibniz: nel 1768 l’Accademia bandì il concorso per un Éloge de Leibniz, e tra il ’68 il ’71 compariva sulla «Histoire de l’Académie» un Essai d’une conciliation de la Métaphysique de Leibniz avec la Physique de Newton (l’autore era N. Béguelin). Al riaccendersi dell’interesse per le idee di Leibniz in Germania contribuirono anche le edizioni di testi leibniziani di Raspe (1765) e Dutens (1768). Su questa fase della ricezione si veda G. TONELLI, Leibniz on Innate Ideas and the Early Reactions to the Publication of the «Nouveaux Essais» (1765), in «Journal of the History of Philosophy», 12 (1974), pp. 437-454. La distinzione di Leibniz dai suoi seguaci, affermata da Kant negli anni ’80, non contribuì a un chiarimento decisivo: non sviluppava infatti una ricostruzione della filosofia wolffiana e come stiamo cominciando a vedere si basava a sua volta su una comprensione di Leibniz ancora molto limitata. La distinzione tra pensiero di Wolff e pensiero di Leibniz è stata chiarita solo nel XIX secolo, ed è presupposta e esaminata nei suoi diversi aspetti da tutti i più recenti studiosi di Wolff. Si vedano per es. J. ÉCOLE, Wolff était-il leibnizien?, in ID., Novelles études et nouveaux documents photographiques sue Wolff, Hildesheim 1997 (WGW III, 35), pp. 131151. Particolarmente chiaro H.-J. ENGFER, Von der Leibnizschen Monadologie zur empirischen Psychologie Wolffs, in S. CARBONCINI/L. CATALDI MADONNA, Nuovi studi sul pensiero di Christian Wolff, Hildesheim 1992 (WGW III, 31), pp. 193-215).

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nettamente l’esigenza di una deduzione della quantità dalla teoria della percezione confusa43, ma ne dà una versione che si può definire la reductio ad absurdum del già enigmatico tentativo leibniziano. Nella cosiddetta Metafisica tedesca − una delle sue opere più note − Wolff considera la confusione dei sensi come indistinzione di «molte piccole figure» e «molti piccoli movimenti», che magari una magnificazione dei sensi potrebbe rendere distinti; e anche quando, su un piano più rigorosamente metafisico, intraprende un tentativo di definizione della confusione si riferisce all’impossibilità di rappresentare proprietà degli elementi fisici inestesi, cioè di quelli che Kant chiamerà atomi44. È evidente che Kant criticando la dottrina «leibniziano-wolffiana» della percezione sensibile pensava a una tale posizione, in cui l’intrinseca confusione delle percezioni leibniziane veniva sostituita con una limitatezza psicologico-empirica delle facoltà umane. Ma sulla via di una sovrapposizione con Leibniz indirizza la stessa opera di Wolff, perché in essa non si trova a questo proposito un netto distacco da Leibniz, quanto una effettiva incomprensione e un tentativo di ricalcarne parzialmente le tesi, stravolgendone il significato. Che a Wolff sfuggisse del tutto la strategia leibniziana di ricavare lo spazio dalle proprietà della percezione è evidente in numerosi luoghi del suo sistema, e si esprime nella stessa separazione e successione architettonica tra ontologia (dove si trovano le trattazioni di spazio e tempo, in base al concetto generico di ente o cosa), cosmologia e psicologia. Certo, a livello di formule, la trattazione wolffiana si richiama a quella di Leibniz: lo spazio viene definito come un «ordine dei simultanei, in quanto coesistono»; da questo va poi distinto lo spazio considerato in astratto, come esteso uniforme e continuo, che non va preso per un ente (come fanno materialisti e newtoniani) in quanto è una nozio43 Wolff, peraltro, espone nel suo trattato di matematica alcune idee leibniziane sulla geometria ma, come dirà Leibniz, lo fa «secondo il suo stile», spingendo quest’ultimo a scrivere gli Initia rerum mathematicarum metaphysica (rimasti poi inediti). Sulla differenza tra la concezione dello spazio di Leibniz e Wolff si vedano già CASSIRER, Leibniz’ System, p. 240; GENT, Die Philosophie des Raumes, pp. 207ss. 44 Il passo citato è nei Vernünftige Gedanken von Gott, §§ 771-772, WGW I, 2, p. 482. Sulla teoria degli elementi dei corpi torneremo nelle prossime pagine.

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ne immaginaria. Ma se si segue lo sviluppo di queste tesi si trova che l’origine della percezione spaziale, insieme alle proprietà dello spazio astratto, viene piuttosto assunta che fondata. Il problema si presenta fin dalle prime battute del sistema con la maldestra dimostrazione dell’esteriorità dei coesistenti, in occasione della quale si incontra un singolare concorso di dato empirico e presunte dimostrazioni, tanto comune nelle opere di Wolff. L’esteriorità dei coesistenti viene dimostrata in base a un passaggio dalla distinzione concettuale all’esteriorità spaziale, nel quale si assume come un dato di fatto che le cose che percepiamo distinte (da noi, o reciprocamente) vengono rappresentate come esteriori. La stessa coesistenza o simultaneità, in base a questo presupposto, viene ricavata dalla possibilità di rappresentare molti diversi in uno, presa anch’essa come un dato di fatto. Questa operazione sintetica costituisce la definizione dell’estensione: «Si plura diversa, adeoque [!] extra se invicem existentia (§ 544), tamquam in uno repræsentamus; notio extensionis oritur». Dato che il passaggio dalla diversità all’esteriorità non viene ulteriormente argomentato, né qui né nelle altre opere, l’estensione viene di fatto ricavata da un’analisi psicologico-empirica della percezione, piuttosto che fondata (sia pure ipoteticamente) in una sua proprietà metafisica. La definizione dello spazio come ordine dei coesistenti compare in seguito, quasi a margine della difettosa introduzione di queste premesse. Successivamente Wolff cerca di dimostrare che lo spazio, considerato in astratto, è continuo, esteso, uniforme45. 45 Si vedano già i Vernünftige Gedanken, § 45, § 52, e poi tutta la discussione nella Philosophia prima sive Ontologia, Frankfurt a.M. (17301) 17362, §§ 544-569 (estensione, continuità ecc.), 589-601 (spazio e sue proprietà), rist. in WGW II, 3, pp. 425441, 454-462. Cf. Cosmologia generalis, Frankfurt a.M. (17311) 17372, § 219-221, in WGW II, 4, pp. 168-170. Ecco la nozione dell’esteriorità [Extrinseci notio] (Ontologia, § 544): «Si quid percipimus tamquam a nobis diversum, aut, si mavis, ubi nobis alicuius conscii sumus tamquam a nobis diversi; illud extra nos repræsentamus. Et illa extra se invicem repræsentamus, quæ tamquam a se invicem distinta percipimus». Ecco la definizione dell’estensione, Ontologia, § 548: «Si plura diversa, adeoque extra se invicem existentia (§544), tamquam in uno repræsentamus; notio extensionis oritur: ut adeo Extensio fit multorum diversorum, aut, si mavis, extra se invicem existentium, coëxistentia in uno, atque conflituatur multorum extra se invicem existentium unione» (cf. Vernünftige Gedanken, § 53). Wolff rileva la debolezza della definizione

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La trattazione della sostanza presenta una situazione speculare. È significativo che Wolff, nell’ontologia, non si serva del concetto di sostanza per definire lo spazio. Nei preliminari ontologici viene presupposto che i coesistenti siano sostanze, e in seguito viene assunto come un dato di fatto che le sostanze vengono rappresentate (e si rappresentano reciprocamente) come reciprocamente esterne. Per cui si può pensare che nella trattazione della sostanza finita, distribuita tra cosmologia e psicologia, si possa trovare un più stringente ripensamento di quel collegamento tra sostanza semplice, situazione ed estensione, che in Leibniz rimaneva un punto problematico da chiarirsi nella teoria della percezione. Ma dall’esame dei testi wolffiani risulta che il rapporto di eterogeneità e fondazione della sostanza rispetto al mondo fenomenico viene del tutto abbandonato. Il passaggio in cui viene stabilita questa svolta consiste nell’ammissione che non tutte le sostanze semplici sono dotate di forza rappresentativa: una tesi che influenzerà le discussioni filosofiche in Germania per diversi decenni. Anche le premesse di questa tesi si pongono fin dai primi passaggi del sistema, addirittura nel primissimo, cioè l’analisi della coscienza. Wolff ne ricava infatti l’esistenza di se stessi e delle cose altre da sé, e in base a questa duplice assunzione procede in seguito a trattare separamente dell’anima e dei corpi: una distinzione empirica (la sola che Wolff concepisca oltre a quella puramendi estensione, ricavata in base alla precedente, dopo aver dato l’esempio della linea (§ 548): «patet adeo, ad notionem extensionis minime sufficere, ut plura extra se invicem existant, sed requiritur praeterea, ut inter se uniatur sicque unum efficiant». Ma l’obiezione viene ristretta al caso degli insiemi discreti, mentre essa colpisce poi la stessa dimostrazione dell’estensione dello spazio (§ 594). Già a margine della definizione generale di estensione si avverte opportunamente che i distinti non devono essere modi o accidenti (se no l’anima con le sue facoltà e – si può aggiungere – ogni collezione di pensieri sarebbe estesa!). Per cui si presuppone che i termini dell’unione di cui si tratta siano sostanze collegate dall’armonia prestabilita. Ma anche così non si capisce come mai le sostanze vengano rappresentate (e si rappresentino) reciprocamente esterne. L’ambiguità concettuale in questo passaggio dalla diversità all’esteriorità venne rilevata già da LAMBERT, Neues Organon, oder Gedanken über die Erforschung und Bezeichnung des Wahren und dessen Unterscheidung vom Irrthum und Schein, Leipzig 1764, Alethiologie, §§ 49-50, pp. 485-486 (rist. in ID., Philosophische Schriften, vol. I, Hildesheim 1965).

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te razionale) costituisce dunque il fondamento della distinzione tra psicologia e cosmologia, e con ciò anche del dualismo metafisico. La trattazione dell’ente semplice nell’ontologia, in seguito, procede ancora su un piano astratto, privo di contenuto fenomenologico, il che ha due conseguenze: la prima è la latente assunzione di una precedenza fenomenologica delle percezioni esterne, che è suggerito forse già dall’equivalenza terminologica tra ente e «cosa» e si esprime in modo netto nella precedenza dell’esame degli enti composti rispetto a quello dei semplici, i quali sono ricavati indirettamente dall’analisi della nozione di composto; la seconda è lo svuotamento fenomenologico della metafisica della sostanza semplice, che si esprime nella “neutrale” determinazione degli enti semplici, in quanto finiti, con un grado intensivo46. Questo concetto di grado non possiede alcun riferimento privilegiato alla dimensione metafisica della percezione, anzi viene introdotto per analogia con la grandezza estensiva e illustrato con la velocità. A questo punto, come Wolff stesso ammise, si esaurisce il consenso con quanto Leibniz disse sulle monadi («kurz, und unterweilen wie ein Rätzel»), poiché egli non vede ragione di considerare le forze delle sostanze omogenee tra loro47. Così, con qualche esitazione, Wolff conclude che la via appercettiva e la via dinamica alla sostanza sem46 WOLFF,

Vernünftige Gedanken, § 106, WGW I, 2, pp. 53-54.

47 WOLFF, Vernünftige Gedanken [...] Anderer Theil (Anmerkungen alla metafisica te-

desca), Frankfurt a.M. (17241) 17404, § 215, rist. in WGW I, 3, p. 369: «Ora, io non posso negare che, esaminando in modo appropriato qualcosa di quel che il sig. Leibniz ha detto nel suo modo breve, e talvolta come per enigma, ho trovato che esso ha dappertutto la sua correttezza, e che egli lo ha ponderato molto bene, e non soltanto menzionato superficialmente; ma nonostante questo io non mi sono potuto determinare a dargli approvazione nella dottrina delle monadi. Senz’altro io capisco bene, in base a ciò che ho esposto dimostrativamente sulle proprietà generali, che le cose semplici in genere, e dunque anche gli elementi, devono avere una forza, che produce in essi costantemente qualcosa di mutevole, di modo che si mostra chiaramente la differenza di stato in ciascuno di essi rispetto agli altri; tuttavia, io non vedo ancora alcuna necessità per cui tutte le cose semplici dovrebbero avere una stessa specie di forza, e sospetto piuttosto che negli elementi delle cose corporee si debba trovare una forza, da cui si lasci ricavare in modo intelligibile la forza dei corpi, che questi ultimi mostrano, insieme allo stesso mutamento, nel movimento». Si tratta di uno dei rari luoghi in cui Wolff si esprime sulle sue ragioni di abbandonare la monadologia di Leibniz.

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plice, che in Leibniz abbiamo visto dover convergere verso un’unica teoria, si biforcano: la forza inerente alle sostanze può essere rappresentativa o motrice, ma le due non possono essere identificate. La metafisica wolffiana consiste dunque in un dualismo, che egli contrappone ai monismi dell’idealismo e del materialismo: si deve ammettere l’esistenza dei corpi accanto all’esistenza delle anime, e porvi a fondamento due specie eterogenee di sostanze semplici48. Abbiamo ricordato in precedenza le discussioni cui diede luogo il sistema dualistico così impostato da Wolff. In esso osservazioni e argomenti già noti al cartesianesimo, insieme a una più marcato rilievo conferito alle distinzioni empiriche, condussero dapprima a una prudente adesione alla tesi dell’armonia prestabilita (tra anima e corpo), poi al suo progressivo abbandono49. Certamente queste oscillazioni furono influenzate dalla violenta offensiva pietista, e dovettero rendere ancora più difficile un chiarimento teorico. Tuttavia bisogna sottolineare che il sistema wolffiano, prim’ancora di essere attaccato, possedeva una intrinseca confusione concettuale, di cui poterono eventualmente approfittare i suoi avversari. Lo stesso abbandono dell’ipotesi dell’armonia prestabilita costituisce l’espressione più chiara di questa circostanza: la ritrattazione provenne dall’esilio, dunque seguì la violenza; tuttavia i dubbi erano stati messi in chiaro fin dal principio, e non vennero revocati in 48 È singolare che nella presentazione di monismo e dualismo, in psicologia razionale, l’esempio dell’idealista sia quello già classico di Berkeley, mentre Leibniz, che pure avrebbe avuto tutti i titoli per figurare quale idealista monista, non viene nominato. Si può sospettare che Wolff fosse trattenuto non solo dalla consapevolezza dei debiti riguardo alla metafisica di Leibniz, ma anche dalla consapevolezza di non intenderla bene. WOLFF, Psychologia rationalis, Frankfurt/Leipzig 17402 (17341), §§ 32-39. 49 Per esempio Wolff trovava conferma del dualismo metafisico nel contenuto empirico delle percezioni interne ed esterne, affermando che le regole dei corpi non permettono di spiegare le percezioni e gli appetiti, né le regole di percezioni e appetiti riescono a spiegare il moto: l’inerzia dei corpi e il movimento volontario ne sono i classici esempi. Si veda WOLFF, Psychologia rationalis, § 79; cf. Vernünftige Gedacken, § 762. Erano tutti temi già presenti nelle critiche cartesiane al sistema di Leibniz e poi nella corrispondenza con Clarke. Wolff proponeva dunque una «lex perceptionis» che regolasse i due generi di fenomeni, secondo una versione schiettamente dualistica di armonia prestabilita (Vernünftige Gedanken, §§ 527ss., 598ss., 765ss.)

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seguito. Bisogna in effetti sottolineare il fatto che il sistema wolffiano potesse essere privato di quell’ipotesi senza crollare. Esso non presentava infatti una articolata ipotesi sulla connessione degli enti: ammetteva che le sostanze «patiscono reciprocamente», ma non si addentrava nella questione se queste passioni siano reali o apparenti, come aveva voluto Leibniz. Era fin dall’inizio implicito che il suo massimo problema dovesse essere proprio quello della spiegazione dell’influsso, riguardo al quale Wolff stesso riconobbe infine di incontrare «difficultates inextricabiles»: che era una scappatoia molto diffusa all’epoca, ma nondimeno, pronunciata dal campione di una metafisica razionalista, una dichiarazione di resa concettuale50. Vediamo ora qualche altro dettaglio, che ci sarà utile in seguito, dei problemi che si ponevano nella metafisica wolffiana intorno agli elementi fondamentali della teoria dell’influsso: i concetti di fenomeno, sostanza, forza primitiva. Per quanto riguarda il primo di essi, in seguito all’abbandono delle monadi essenzialmente dotate di rappresentazione, Wolff può conservare a parole la nozione leibniziana del fenomeno come ente immaginario, ma non pone più il fondamento esplicativo dei fenomeni spaziali al di fuori del mondo corporeo. Il mondo corporeo, o fenomenico, possiede dunque una realtà sui generis e una totale autonomia di forma e principi, che si esprime a livello gnoseologico nella tesi della somiglianza tra rappresentazioni e proprietà degli enti composti, cioè grandezza, figure e movimenti. Nel sistema armonico wolffiano rappresentazione e stato corporeo non si somigliano in base alla conformità a una regola strutturale, ma in termini intuitivi (Wolff parla di «immagine»)51. Questo passaggio – come segnala la stessa adozione del termine Vorstellung − costi50 Le citazioni sono tratte da WOLFF, Cosmologia, § 207, 294 nota, WGW II, 4, pp. 158, 223. 51 Vernünftige Gedanken, § 769, WGW I, 2, p. 481: «Poiché dunque l’anima ha una forza con cui si rappresenta il mondo (§. 753), anche queste rappresentazioni devono avere una somiglianza con le cose [Dingen] che sono nel mondo. Se infatti non avessero alcuna somiglianza, allora l’anima non si rappresenterebbe il mondo, ma qualcos’altro. Un’immagine [Bild] che non è simile alla cosa [Sache] che deve rappresentare non è un’immagine di questa, ma di un’altra cosa».

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tuisce una innovazione sottile ma radicale nella nozione di fenomeno. Se infatti in Leibniz la percezione è una multorum in uno expressio, dove i multa sono gli stati (percettivi) delle monadi, ora i multa delle percezioni spaziali sono direttamente i corpi con le loro proprietà essenziali, grandezza, figura, movimento52. L’affermazione per cui queste ultime proprietà sarebbero a loro volta fondate nelle sostanze semplici, che Wolff mantiene, non possiede più il senso leibniziano di una riduzione dei fenomeni spazio-temporali alle percezioni delle sostanze, poiché, come si è visto, il concetto di rappresentazione è ormai ridotto a una datità psicologica, in cui si prende atto di relazioni tra le cose. Che ne è allora, in questa dottrina del fenomeno, della confusione delle percezioni sensibili? Essa non consiste più nell’impossibilità di distinguere proprietà delle monadi e nella conseguente rappresentazione spaziale, ma nella impossibilità di distinguere intuitivamente le singole sostanze semplici, che non sono oggetti di esperienza possibile. In altre parole, la modificazione della nozione di fenomeno si può così riassumere: mentre nell’ipotesi di Leibniz percepiamo il mondo (la totalità delle monadi) confusamente, e dunque ce lo rappresentiamo spazialmente (attraverso i corpi, che secondo il rigore metafisico non esistono), secondo Wolff percepiamo le cose diverse da noi in un mondo spaziale, in cui non sappiamo distinguere tra loro gli elementi semplici dei corpi, e dunque la percezione è confusa53. Ma che cosa sono le sostanze semplici dei corpi? Questi «elementi» sono ricavati dall’analisi degli enti composti, non però in quanto li fondano, ma in quanto li compongono. È la tesi tipicamente wolffiana della localizzazione delle sostanze in un punto, in cui l’analogia leibniziana tra punto e monade diviene identità, e che costituisce l’atto di nascita di quella dottrina ibrida e un po’ 52 Si veda di nuovo la definizione dell’estensione, Ontologia, § 548, dove gli esteriori sono il dato, da cui sorge la nozione di estensione: «Si plura diversa, adeoque extra se invicem existentia (§ 544), tamquam in uno repræsentamus; notio extensionis oritur: ut adeo Extensio fit multorum diversorum, aut, si mavis, extra se invicem existentium, coëxistentia in uno, atque conflituatur multorum extra se invicem existentium unione». 53 Si veda in primo luogo Vernünftige Gedanken, §§ 77, 83. Sulla dottrina wolffiana del fenomeno come oggetto della conoscenza confusa cf. Cosmologia, §§ 224-226.

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mostruosa che fu la monadologia fisica. Abbiamo visto che, in essa, la via verso una spiegazione metafisica dello spazio può considerarsi in linea di principio sbarrata. Il primo problema affrontato dalla teoria degli elementi, come riconosce lo stesso Wolff, risiede piuttosto nella spiegazione del fenomeno dei corpi, in particolare della coesistenza degli elementi che dà luogo all’estensione finita. Per la soluzione di questo problema Wolff riprende diverse tesi leibniziane. In primo luogo distingue i punti matematici, omogenei, da quelli che chiama atomi fisici, o elementi dei corpi, che sono le sostanze inestese individualmente distinte (in questo caso, però, localizzate)54. Senza questa distinzione, che del resto si impone in base al principio di ragion sufficiente, Wolff sostiene che la divisibilità infinita dell’estensione condurrebbe alla tesi della irrealtà dei corpi. Si tratta insomma di ritrovare quelle unità vere che distinguono una parvenza dal corpo come fenomeno ben fondato. L’influsso reciproco tra questi elementi che «sunt in loco», ma «non implent loco», che dà luogo all’unità del mondo, dovrà essere fondato nelle loro proprietà interne, cioè non relazionali. Come Leibniz, Wolff ne trova l’espressione fenomenica nei rapporti meccanici tra i corpi, e riprende la tesi fondamentale della dinamica leibniziana secondo cui la forza motrice dei corpi (che egli identifica con la forza attiva) è un fenomeno ben fondato, che deve dipendere dalle proprietà delle sostanze semplici55. Ma l’abbandono della tesi leibniziana secondo cui tutte le sostanze percepiscono (ciò che costituiva la forza attiva di Leibniz), insieme alla conservazione di queste tesi metafiche, conduce la teoria degli elementi dei corpi verso la propria insuperabile aporia. In primo luogo, senza attribuire a queste sostanze la percezione, le proprietà fondamentali che Wolff attribuisce alle sue sostanze inestese restano in linea di principio incomprensibili, come egli stesso conclude: «elementorum determinationes intrinsecæ, seu genericæ et specificæ, ignorantur». Ma se le cose stanno così la stessa distinzione individuale degli elementi dei corpi, postulata dal principio degli indi§ 187. «vis activa sive motrix corporum ex sustantiis simplicibus resultat» si legge nella Cosmologia, § 180, WGW II, 4, p. 144. 54 Cosmologia, 55 Che

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scernibili, risulta fenomenologicamente vuota, e il riferimento wolffiano a proprietà «interne» delle sostanze che stanno a fondamento dei corpi si rivela illusorio56. In queste tesi wolffiane intravediamo l’autentico obiettivo delle critiche kantiane, nella sezione sull’Anfibolia e in genere nella Critica. Si legga la conclusione wolffiana nello scritto Von dem Begriff eines Cörpers (1730): «Se noi dunque comprendessimo distintamente gli stati interni di ciascun singolo elemento, di cui l’uno si 56 Si veda Cosmologia, sez. II, cap. II, De elementis corporum, §§ 176-214, WGW II, 4, pp. 143-165, in part. § 183 (qualità intrinseche degli elementi), § 202 (in queste qualità deve risiedere la ragione della coesistenza degli elementi, e dei suoi modi); cap. III, De ortu corporum ex elementis (§§ 215-301, in part. §§ 220-221, origine dell’estensione dall’unione degli elementi coesistenti). Infine, la distinzione degli elementi semplici è ricavata dal principio di ragione (se fossero identici, sarebbero indiscernibili; e non si spiegherebbero la figura e l’estensione stessa). L’estensione era stata definita mediante l’unione dei diversi, ma ora si vede che i diversi sono puramente postulati come fondamenti dei fenomeni, senza che però se ne conoscano le proprietà in genere. La stessa relazione tra corpi e elementi viene detta ora di composizione (§ 176: corpora sunt aggregata), ora di fondazione (i corpi resultant dagli elementi, come loro aggregati: § 192, nota). Il passo citato viene dalla discussione sulla conoscibilità della forza primitiva (§ 359): qui Wolff prende nuovamente le distanze dalle «oscurità» della monadologia di Leibniz, stavolta relativa all’inesse della forza alla sostanza, e commenta: «nostrum itaque fuit id intelligibili modo esplicare» (§ 358, nota). Ma la spiegazione «intelligibile» consiste proprio nella nozione degli elementi, da cui la forza motrice «resultare debere», dove gli elementi restano inconoscibili, e altrettanto deve restare la presunta deduzione della forza motrice. Si vede dunque che Wolff procedeva ex obscuris ad obscuriora. Sulla questione della conoscenza confusa e della conoscibilità degli elementi dei corpi Wolff ritorna con una certa ampiezza nello scritto Von dem Begriff eines Cörpers (1730), in WGW I, 21.1, pp. 190-234, in part. § 10; Von dem Begriff eines Cörpers. 2tes Stück (1731), ivi, pp. 235-256. Vi si legge che la ragione della composizione (o ratio coëxistentiae: cf. Cosm., § 202) e della continuità deve essere cercata nelle proprietà qualitative delle cose semplici («Beschaffenheiten (qualitatibus) der einfachen Dinge») in quanto elementi dei corpi. Senza ammettere tale fondamento dei fenomeni non c’è scampo contro la negazione idealistica dell’esistenza reale dei corpi (il cui primo modello è Zenone). Ma si deve ammettere nondimeno che queste proprietà, poiché esse riguardano lo stato interno di enti semplici (non percipienti!), ci sono del tutto ignote (p. 247). Dalla trattazione risulta chiaramente che, mentre in teoria viene ammessa una somiglianza tra fenomeni e proprietà degli enti semplici, la somiglianza su cui si basa la conoscenza sensibile intercorre tra fenomeni e affezioni organiche dei sensi (p. 245), e proprio per questo non si riescono a distinguere tra di loro gli elementi dei corpi. Ma la loro distinzione estrinseca – chiara e confusa – è proprio il fenomeno (ben fondato) dell’estensione.

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lascia spiegare in base all’altro, ne risulterebbe allora un’altra forma, rispetto a quella che ci mostrano l’immagine dell’estensione e della continuità [Wenn wir also den innern Zustand eines jeden einzelnen Elementes, deren sich einer aus dem andern erklären lasset, deutlich fasseten: so käme ganz eine andere Gestallt heraus, als welche uns das Bild der Ausdehnung u. Stetigkeit zeiget]». A queste parole si può riferire benissimo il commento di Kant nella Critica, secondo cui di questa «diversa forma» delle cose in sé noi non capiremmo nulla, nemmeno se ce ne parlassero, perché non possiamo affatto concepire un’altra forma di intuizione. Il medesimo discorso si può fare per la dinamica dato che, a parole, la teoria conserva anche la dipendenza metafisica dello spazio dagli elementi stessi, ma l’azione di questi elementi è ormai concepibile solo sul piano fisico. Nella cosmologia wolffiana non si sa nulla dell’influsso come conseguenza della diversa perfezione percettiva delle monadi, tuttavia si conserva l’idea di una forza attiva originaria fondata negli elementi inestesi; di conseguenza la dinamica non è più l’espressione fenomenica della metafisica della percezione, come in Leibniz, ma non può ancora essere una dinamica fisico-matematica metafisicamente neutrale, poiché non concede che spazio, tempo e materia siano concetti originari. Questa tensione si esprime nel concetto di forza primitiva, del quale Wolff deve ammettere: «vis primitiva intelligibili modo explicari nequit»57. Sul piano della fisica empirica, del resto, egli procede a una sistemazione sincretica di elementi cartesiani, leibniziani e finanche newtoniani che mostra la grande distanza che separa il suo sistema dalle idee di Leibniz58. Il tentativo di sintesi in ogni caso doveva incontrare difficoltà di principio, prima tra tutte la conciliazione tra l’attività originaria delle sostanze, che si esprimerebbe 57 Di

nuovo Cosmologia, § 359, WGW II, 2, p. 260. La discussione e parziale accettazione delle leggi del moto di Newton si trova nella sez. II della Cosmologia, De Legibus motus. Nonostante le riserve su diverse questioni di fisica, diversi luoghi delle opere di Wolff contengono veri e propri elogi di Newton. Che Wolff avesse comunque una comprensione limitata della fisica di Newton è stato sottolineato da più parti: si veda CAMPO, Cristiano Wolff e il razionalismo precritico, Milano 1939, rist. in WGW III, 9, pp. 238-254 (che parla di «incastonamento»); WASCHKIES, Physik und Physikotheologie des jungen Kant, pp. 391ss. 58

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in un costante tendenza al cambiamento, e l’inerzia, che invece impone una tendenza costante a conservare lo stato: una difficoltà irrisolta, che Euler non mancò di censurare con severità59. D’altra parte le polemiche con i newtoniani si limitavano alla nota questione della gravitazione e non andavano oltre motivi di polemica già ampiamente sviluppati da Leibniz e altri60. Alla luce di queste considerazioni siamo in grado di apprezzare le grandi difficoltà che le cosmologie metafisiche di impostazione wolffiana dovevano incontrare, e che i primi interpreti di Wolff in effetti incontrarono, ma senza averne piena coscienza teorica. In primo luogo, per ora, ci interessa la vanificazione della definizione leibniziana di spazio, che nel diverso contesto metafisico wolffiano non venne riconosciuta. Anche da questa, certamente, dipende l’impegno profuso dai metafisici di scuola wolffiana per sviluppare nuove teorie dell’influsso o dell’armonia. La caratteristica fondamentale di queste teorie che qui ci interessa risiede nella tendenza a cercare una caratterizzazione dell’influsso in termini fisico-dinamici. Questo genere di esito della monadologia si poneva naturalmente in base alle premesse del sistema wolffiano (a meno di non tornare a Leibniz), poiché consisteva nell’assumere lo spazio e i fenomeni fisici per tentare di ricavarne una determinazione fenomenologica delle sostanze e del loro influsso attraverso la forza motrice. Questa tendenza si coglie per esempio, proprio nell’ambiente di Königsberg, in Knutzen61 e in Gott59 Tra i molti luoghi in cui Wolff afferma le due tesi si vedano Vernünftige Gedanken von Gott, § 124: «Una cosa che esiste separatamente [vor sich bestehendes Ding] si sforza costantemente di modificare il proprio stato»; § 610, dove è affermata legge di inerzia per i corpi, con rimando in nota ai Principia di Newton (WGW I, 2, pp. 65, 377-378). Euler ne ricaverà una contraddizione nella cosmologia wolffiana, affermando che in essa le proprietà dei corpi devono rispecchiare quelle degli elementi. Si veda infra pp. 82-83. 60 Si possono ricordare anche la polemiche dirette che Wolff ebbe sugli «Acta eruditorum» con i newtoniani John Keill (nel 1709) e John Freind (1711): in quest’ultimo scritto, discutendo la tendenza diffusa a considerare l’attrazione come un principio certissimo, Wolff richiamava i discepoli di Newton alla prudenza del maestro. I documenti furono ripubblicati in WOLFF, Meletemata mathematico-philosophica, Halle 1740: nn. XI-XII, pp. 37-44 (epistola di Keill e risposta di Wolff); n. XX, pp. 60-67 (scritto contro Freind). Rist. in WGW II, 35. 61 Knutzen ritorna al monismo e deduce dal «fatto» dell’influsso la reciproca rap-

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sched62, nei quali la determinazione in questione viene ricavata dal fenomeno della impenetrabilità, che avrà un ruolo fondamentale anche per Kant. È interessante poi accennare alla presentazione del nostro problema contenuta in quello che sarà per Kant il testo metafisico di riferimento, la Metaphysica di Baumgarten. Anche qui si può rinvenire quell’imbarazzo teorico che suggerì anche ai metafisici di abbandonare la nave wolffiana e andare in cerca di un terreno più solido. La dottrina degli elementi contiene infatti una flagrante sovrapposizione di concetti leibniziani e wolffiani, che non viene rilevata dall’autore. Le componenti semplici del mondo vengono chiamate monadi, e dotate senz’altro della facoltà di percepire. D’altra parte, viene mantenuta la nozione wolffiana di «punti fisici», e si accenna al fatto che il commercio intramondano potrebbe risiedere nella stessa relazione spaziale (una posizione che Kant discuterà con attenzione nelle sue lezioni di metafisica)63. Poiché Baumgarten mostra altrove di essere un pensatore originale, e non un maldestro ripetitore, viene il sospetto che l’infedeltà a Wolff che emerge da queste posizioni non nasca tanto (o solo) da una incomprensione, quanto da una consapevole non comprensione, e dunque dall’esigenza di una riforma, che comunque Baumgarten non soddisfò mai64. presentazione delle monadi. In questo senso si può dire – come fece Erdmann – che si riavvicina alle tesi di Leibniz. Al momento di determinare meglio l’influsso, tuttavia, egli muove dall’impenetrabilità dei corpi (M. KNUTZEN, Sistema causarum efficientium, Leipzig 1745, §§ 29, 32). 62 J.Ch. GOTTSCHED, Erste Gründe der gesamten Weltweisheit, Leipzig (1755) 17627 (rist. WGW III, 20.1-2), I. § 400. Si trova qui un’ipotesi su come le monadi riempiono lo spazio che assomiglia molto a quella kantiana della Monadologia physica: «Infatti, poiché hanno forze motrici e di resistenza [widerstehende], non si penetrano l’un l’altra; invece ognuna rimane fuori dell’altra. Perciò molte [sostanze] che si trovano vicine [neben einander] riempiono anche uno spazio». 63 Per es. Metaphysik Mrongovius, KgS XXIX, 865ss. La tesi proviene dal fatto che Baumgarten considera la posizione come proprietà delle monadi, dunque il movimento come modificazione delle proprietà delle monadi determinata dalle posizioni di tutte le altre (BAUMGARTEN, Metaphysica, §§ 212, 415). 64 Cf. Metaphysica, §§ 400-401. Su uno stravolgimento attuato da Baumgarten della metafisica di Wolff e sulla fondamentale mediazione che la sua opera costituì per la ricezione kantiana insiste J. ÉCOLE, De la connaissance qu’avait Kant de la métaphysique wolffienne, ou Kant avait-il lu les ouvrages métaphysiques de Wolff?, «Archiv für

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In questo contesto maturano le critiche di Crusius al sistema di Wolff (che Crusius considera come «philosophiae leibnitianæ propagator»). La trattazione crusiana costituisce il primo esempio esplicito di quell’abbandono di una metafisica dello spazio (e del tempo) che era un’altra delle vie d’uscita dalle aporie del wolffismo. Essa non costituiva beninteso una novità, ma si accompagna piuttosto al generale ritorno verso una concezione della filosofia naturale ben diffusa nella filosofia tedesca precedente, secondo qui questa può ambire al massimo ad affermazioni verosimili, e che poteva soddisfare anche i teologi preoccupati di salvare la libertà dell’anima contro gli abusi speculativi del fatalismo wolffiano. Ma al di là di questi accenti polemici, la metafisica di Crusius conteneva una severa (ed efficace) critica dell’ontologia wolffiana, in cui l’intera deduzione dell’esistente dal possibile veniva contestata, e si imboccava con decisione la via di quel primato teorico del concreto che tanta influenza avrà sul pensiero kantiano precritico. Il punto di partenza della metafisica crusiana è dunque l’esistenza, ma questa consiste nell’aggiunta delle determinazioni spaziali e temporali all’essenza di una cosa. Riguardo a questi concetti Crusius mette in chiaro che la definizione dello spazio come ordine delle cose coesistenti, in quanto queste ultime devono essere sostanze, presuppone la relazione propriamente spaziale del «neben einander» e che perciò le parole wolffiane non esprimono alcuna definizione dello spazio. È anzi impossibile, secondo Crusius, fornire una definizione che riconduca lo spazio a concetti più semplici, poiché di esso non si può dire che sia sostanza, accidente, o relazione, ma solo rilevare l’essenza mostrando il modo in cui se ne acquisisce il concetto: cioè con la distinzione (empirica) tra ciò che esiste (che è nel tempo e nello spazio) e ciò che è invece solo penGeschichte der Philosophie», 73 (1991/3), rist. in ID., Nouvelles études [...] sur Wolff, pp. 263-276, il quale però, stranamente, non menziona la distinzione kantiana tra monadologia di Leibniz e monadologia fisica (del tipo wolffiano) negli scritti successivi alla Critica della ragion pura. Si noti che Baumgarten definisce ideale l’influsso in cui c’è reazione tra le monadi e che la determinazione di azione e reazione avviene nell’ambito della rappresentazione spaziale (cf. Metaphysica, § 408). Queste premesse potevano suggerire quell’innesto della fisica newtoniana sulla monadologia che Kant teorizza negli anni ’55-’56 tentando proprio una nuova teoria dell’influsso fisico ideale.

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sato. In metafisica, insomma, occorre risalire al di qua di Leibniz e riaffermare l’irriducibilità delle categorie aristoteliche di ubi e quando65. Un discorso analogo si può fare per un’altra tesi della cosmologia di Crusius, quella dell’incomprensibilità delle forze fondamentali. Essa veniva posta a coronamento di una nuova concezione degli elementi, in cui la semplicità di questi ultimi veniva definitivamente lasciata a margine della fisica. Crusius ammette infatti parti omogenee e parti disomogenee dei corpi, dove queste ultime, che si distinguono per l’essenza e dunque per la specifica forza, sono dette «parti fisiche», e possono appartenere a composti fisici o anche a sostanze inestese omogenee come appunto l’«elemento» (Element). Così la teoria wolffiana degli elementi inestesi dei corpi, di cui abbiamo visto la difficoltà di introdurre distinzioni interne tra gli elementi, viene spostata su un piano strettamente fenomenologico-empirico, in cui gli elementi vengono inferiti dai composti, classificati mediante proprietà fisico-chimiche, e riferiti a altrettante forze fondamentali, che non sono ulteriormente comprensibili66. Questi bre65 CH.A. CRUSIUS, Entwurf der notwendigen Vernunftwahrheiten, Leipzig 1745, § 49, pp. 77-79 (rist. in Die philosophischen Hauptwerke, hrsg. von G. Tonelli, vol. 2, Hildesheim 1964). Poiché Leibniz muoveva proprio da un’insoddisfazione per l’elenco aristotelico delle categorie – per es. osservando che il luogo è una relazione – si potrebbe parlare di un ritorno all’aristotelismo, che era del resto lo sfondo della filosofia di Thomasius, alla cui scuola si formò anche Crusius. In ogni caso l’originarietà dello spazio era tipica del cartesianesimo, sul cui sfondo soprattutto Leibniz aveva riaperto la questione. 66 Il primato di spazio, tempo e forza come concetti originari dell’esistente viene affermato già nell’ontologia dell’Entwurf, § 59, pp. 103-105, prima che ci si addentri nella cosmologia. Esso sembra essere stato accolto da Kant negli stessi termini, negli anni ’60, come vedremo tra breve esaminando le Reflexionen, e attraverso l’insegnamento kantiano influenzerà anche Herder. Negli anni ’80, in base a un più articolato concetto di forza fondamentale, Kant censurerà infine gli abusi speculativi dell’allievo in dinamica. Per gli elementi dei corpi si vedano i §§ 108-109, pp. 178-180, dove viene distinto il «semplice fisico» (che non ha parti «fisiche», cioè eterogenee: per es. l’acqua, il sale la terra, che compongono una goccia di sangue) dal «semplice metafisico» (ciò che non ha parti «integrali», cioè omogenee: che è l’inesteso). Si tratta poi di mostrare che il concetto matematico di semplicità non deve essere applicato alle sostanze, che sono semplici in senso filosofico (che è anche fisico) (§§ 115-119). Il che avviene in base all’argomento secondo cui «non si può pensare una forza senza soggetto, e nessun soggetto senza uno spazio» (§ 118, p. 192. Qui Crusius sembrerebbe

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vi cenni mostrano anche l’aridità dell’intera disciplina di una cosmologia di ispirazione wolffiana. Ma Crusius, che non aveva grande interesse e dottrina in fisica, sembra interessato soprattutto a prevenire uno sconfinamento speculativo della fisica (quale quello leibniziano) e ristabilire l’influsso fisico contro il fatalismo67. Nel farlo approfitta del resto di una debolezza che era già nella cosmologia wolffiana, la quale escludeva in linea di principio la possibilità di un rapporto fondativo tra elementi e estensione: per cui si vede che Crusius spiccò la testa della metafisica della natura wolffiana (la monade fisica), ma Wolff aveva già abbassato le armi. L’importanza che la critica crusiana alle tesi wolffiane ebbe per Kant non deve essere limitata a una generica influenza sulle prime opere, poiché, come stiamo per vedere, gran parte degli scritti kantiani sulla questione degli anni ’60 e ’70 – editi e inediti – contengono tracce evidenti di una meditazione sulle tesi crusiane. Bisogna precisare, però, che l’orientamento verso il concreto dell’ontologia crusiana conduceva a una ideale convergenza con la polemica antiwolffiana dei sostenitori della fisica newtoniana, e che dunque questi partiti tanto eterogenei poterono fare lega nel pensiero del giovane Kant68. Il ruolo svolto dal newtonianismo per la critica della metafisica wolffiana, dal punto di vista dell’intera cultura filosofica settecenaddirittura negare che l’elemento sia inesteso). Kant si riferirà criticamente a quest’ultima tesi nella dissertazione del 1770. 67 Per la teoria dell’influsso fisico si veda Entwurf, § 363. 68 Crusius e i suoi seguaci trovarono sponda per la loro polemica antiwolffiana presso l’Accademia delle Scienze di Berlino in occasione del concorso sull’ottimismo del 1753, che vide vincitore il crusiano Adolf Friedrich Reinhard, e forse incoraggiato da tale sodalizio Crusius accentuò gli accenti antileibniziani nelle sue opere e edizioni successive. La convergenza di Crusius con i newtoniani è comunque evidente in più punti: si veda per es. la tesi della discernibilità delle cose mediante sola posizione (Entwurf, § 97), che ricalca perfettamente quanto già sostenuto da Clarke contro gli indiscernibili di Leibniz, e in genere la già citata equazione tra esistenza e localizzazione, che Kant criticherà nella Dissertazione del ’70. Per lo più, tuttavia, si trattava di riflessioni già presenti in Wolff (si pensi alla speculazione sull’onnipresenza divina o alla tesi sull’inconoscibilità del fondamento della forza) che ora, tolta la cornice deduttivistica wolffiana, potevano più liberamente accordarsi con quelle di campo newtoniano. La cornice polemica, insomma, era essenziale a questo strano sodalizio.

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tesca, è rilevante quanto quello del pietismo, e si lega alle vicende dell’Accademia delle Scienze. La critica a Wolff e seguaci, che Voltaire cominciava a insinuare già nel suo epistolario con Federico II, troverà quasi una sanzione istituzionale nella controversia accademica sulle monadi del 174869. Del resto l’attenzione di Kant per le vicende dell’Accademia delle Scienze fu tale da ispirare i temi dei suoi scritti prodotti in ambito non accademico fino agli anni ’60. Tra i protagonisti di queste vicende troviamo almeno due autori fondamentali per le questioni che stiamo seguendo, ovvero Euler e Maupertuis. Per quanto riguarda Euler, i suoi interventi nei dibattiti filosofici dell’epoca furono ridotti ma incisivi. Sul piano fisico essi sono ispirati solitamente da un meccanicismo fisico di stampo cartesiano che Kant non riterrà mai accettabile, persistendo nella convinzione leibniziana che l’impenetrabilità non sia una proprietà originaria. Tuttavia il metodo della critica di Euler al wolffismo, consistente nel muovere dai fenomeni e dai principi fisici per confutare il deduttivismo metafisico, costituisce un modello fondamentale per gli scritti kantiani degli anni ’60. Tra le tesi particolari ebbe una grande importanza per Kant quella dell’eterogeneità tra anima e corpo, che Euler difese risolutamente in ogni occasione, trovandovi come altri newtoniani un presupposto della libertà dell’agire: Kant sentirà il bisogno di citarlo direttamente quando, nella Dissertazione del 1770, avanzerà un’analoga distinzione di principio70. Ma è notevole appunto che Euler giungesse a questa tesi attraverso un approfondito esame della cosmologia wolffiana. Egli coglieva una circolarità nel passaggio dagli elementi fisici ai fenomeni, dietro cui vi sarebbe stata di fatto un’astrazione dai fenomeni dei 69 Sul concorso del 1748 si veda TONELLI, Elementi, p. 190. Sulla penetrazione della fisica newtoniana nella filosofia tedesca del XVIII secolo si trova un’utilissima sintesi in P. CASINI, Newton in Prussia, «Rivista di filosofia», 91/2 (2000), pp. 251-282. 70 Euler discute i tre canonici sistemi dell’influsso nello scritto Enodatio quaestionis: utrum materiae facultas cogitandi tribui possit necne? Ex principiis mechanicis petita, comparso nel 1746 negli Opuscula varii argumenti (1, pp. 277-286; EOO s. III, 2, pp. 367-372). Euler rispondeva negativamente «in base ai principi meccanici», cioè la legge d’inerzia, mostrando un certo favore per la teoria dell’influsso fisico di Knutzen.

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corpi agli elementi stessi, e ne contestava la liceità, sostenendo che sul piano fisico si riscontra una legge di conservazione dello stato (la legge d’inerzia, che Wolff accoglie), e non anche (come Wolff vuole sul piano metafisico) una legge di un mutamento costante degli stati71. Accanto a queste obiezioni propriamente cosmologiche si pongono le più note critiche di Euler alla monadologia, che costituiscono il suo più articolato intervento nelle dispute filosofiche del tempo e furono certamente molto importanti per Kant: le monadi venivano contestate in base al ragionamento secondo cui l’infinita divisibilità dello spazio comporterebbe la negazione degli elementi semplici; per converso, è assurdo credere che lo spazio possa comporsi di semplici. Si trattava di ragionamenti validi per le monadi wolffiane – considerando che Wolff non elaborò alcuno strumento geometrico per superare il problema – ma che Euler rivolgeva senz’altro anche contro Leibniz, pur riconoscendo che questi aveva sostenuto l’infinita divisibilità della materia: l’errore dei monadisti vi si riduceva a una flagrante contraddizione. Queste tesi costituiscono un presupposto programmatico del tentativo kantiano, nella Monadologia physica, di difendere le monadi puntuali senza negarne l’infinita divisibilità, e nello stesso tempo ricavarne una forza di attrazione essenziale. Dunque la trattazione di Euler dovette essere importante per consolidare in Kant la confusione tra Leibniz e Wolff, anche se Kant si limitò a considerarne gli argomenti critici. È verosimile anche che l’intera polemica costituisse la circostanza per cui Kant – dopo i Gedanken, che costituiscono da questo punto di vista il suo testo più “leibniziano” – si concentrò sul problema del riempimento dello spazio, trascurando o dando per scontato quello della genesi dello spazio stesso72. Ri71 Uno sviluppo di queste critiche cosmologiche si trova in una lettera di Euler a Bilfinger del 3 novembre 1738, in Briefe von Christian Wolff aus den Jahren 17191753, St. Petersburg 1860 (rist. in WGW I, 16), n. 148, pp. 233-235. 72 La prima esposizione pubblica delle critiche di Euler si trova in uno scritto comparso anonimo: Gedanken von den Elementen der Cörper, in welchem das Lehrgebäude von den einfachen Dingen und Monaden geprüfet, und das wahre Wesen der Cörper entdecket wird, Berlin 1746 (EOO s. III, 2, pp. 347-366). Un’esposizione successiva molto chiara si trova nelle Institutiones calculi differentialis cum eius usu in analisi infinitorum ac doctrina serierum, Petropoli 1755, I, § 79 (EOO s. I, 10, p. 68), dove si leg-

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guardo al concetto di spazio, la trattazione puramente meccanica di Euler diverrà fondamentale per Kant solo negli anni ’60, al momento di intraprendere una via metodologicamente diversa per l’indagine di questo concetto. Ma in questo caso Kant non considera Euler come un vero e proprio interlocutore filosofico, bensì come il grande geometra. Le cose stanno molto diversamente nel caso di Maupertuis, il cui pensiero filosofico esprime moltissime tesi che Kant verrà via via accogliendo fino al criticismo. In generale Maupertuis sostiene un fenomenismo scettico che coincide con quello del criticismo sul punto della inconoscibilità delle cose in sé. La differenza fondamentale tra le due posizioni consiste nel fatto che Maupertuis discute le varie ipotesi sulla causa dei fenomeni discusse nelle filosofie cartesiana, lockiana e newtoniana, mentre Kant nel criticismo pone una delimitazione di principio del conoscibile, che decreta l’impossibilità di avanzare ipotesi sul soprasensibile73. Riguardo allo spazio, Maupertuis lo considera come una proprietà fenomenica di cui non possiamo dire se e in che modo rige in particolare che «l’acutissimo L e i b n i z , primo inventore delle monadi [...] stabilì che la materia è assolutamente divisibile all’infinito. Infatti non si può pervenire alle monadi prima che il corpo sia diviso in atto all’infinito. Con ciò, tuttavia, l’esistenza degli enti semplici, da cui i corpi sarebbero costituiti, viene subito tolta». (Bisognerebbe discutere cosa avrebbe replicato Leibniz – probabilmente più cose, in scritti diversi: nel 1671, per es. egli ammette le stesse premesse, e ne conclude gli indivisibili o inestesi, GP IV, 228-229; in ogni caso, per Leibniz, la questione non si esauriva con l’analisi del continuo). L’argomento verrà poi ripreso nelle Lettres a une princesse d’Allemagne, Saint Petersbourg 1768 (lett. LXXVI; EOO III, 11, pp. 164166). Ma sembra certo che Kant avesse una conoscenza precedente degli scritti di Euler sulle monadi: la Monadologia physica, come vedremo, sembra rispondervi direttamente con l’obiettivo di riconciliare la metafisica con la geometria senza cedere all’atomismo. Le tesi di Euler sulla contraddizione dei monadisti erano riprese puntualmente nella dissertazione premiata di J.H.G. JUSTI, Untersuchung der Lehre von den Monaden und einfachen Dingen, Berlin 1748, § 49: «Una cosa semplice non deve riempire alcuno spazio; ma molte cose insieme devono invece riempire uno spazio; vi può essere contraddizione più manifesta?» 73 Sulla differenza tra scetticismo e delimitazione del conoscibile, riguardo al dibattito sulla debolezza della ragione nel XVIII secolo, si veda il quadro generale in TONELLI, The “Weakness” of Reason in the Age of Enlightenment, «Diderot Studies», XIV (1971), pp. 217-244.

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specchi le «cose in sé» e dopo aver passato in rassegna le tante ipotesi metafisiche sulla causa del fenomeno – a) esseri finiti, siano essi corpi o anime, 2) Dio (immaterialismo), 3) il fondo della nostra anima (Leibniz) – si assesta su una posizione scettica, cui corrisponde un fideismo più o meno sincero su cui gli interpreti si dividono74. Riguardo alla forza e alla sostanza egli afferma parimenti che questi concetti non ci aiutano ad andare oltre quanto osserviamo nei fenomeni (per esempio dell’attrazione e dell’impenetrabilità), e si schiera nettamente contro le monadi75. In effetti Maupertuis accoglie l’attrazione universale newtoniana solo dopo uno studio dubbioso dei fenomeni76, e in seguito sottopone l’ipotesi di estendere la dinamica ad altre proprietà della materia alla condizione di scoprire nuove leggi. Queste considerazioni aiutano a capire la distanza abissale che separa in fisica il pensiero di Maupertuis da quello di Crusius, al di là della comune opposizione al wolffismo. Questa distanza viene rimarcata da un semplice concetto, quello di legalità: mentre Crusius si contenta di una distinzione qualitativa tra i suoi elementi, e torna verso una fisica non matematica, Maupertuis pone quale criterio di validità di un concetto il fatto che esso abbia una relazione con la legalità delle nostre percezioni77. In questa diffe74 Sui temi del fenomenismo, dell’inconoscibilità di forza e sostanza in Maupertuis si veda TONELLI, La pensée philosophique de Maupertuis, Hildesheim 1987, pp. 8-16, 26-27, 30-34, 92-104, 126-130, che presenta un ricchissimo resoconto sulla diffusione di questi temi nel pensiero filosofico e scientifico europeo dei secoli XVII e XVIII. Si veda anche D. BEESON, Maupertuis. An Intellectual Biography, Oxford 1992, il quale, al contrario di Tonelli, ritiene che Maupertuis abbracciasse un sincero scetticismo fideista di ispirazione pascaliana (in part. pp. 160-163). 75 MAUPERTUIS, Lettres, VIII, Sur les monades, in ID., Oeuvres, Lyon 1768, II, pp. 262264. Su Kant e Maupertuis, a proposito del concetto di forza, torneremo nel § 4.1. 76 Riflettendo sulla questione della forma dei corpi celesti Maupertuis dapprima dubitò (in base a un equivoco) della legge dell’inverso del quadrato, poi si ricredette e dichiarò che l’attrazione è essenziale alla natura delle cose nel Discours sur les différentes figures des astres (1732). La vicenda è ricostruita in BEESON, Maupertuis, pp. 76-95. 77 Muovendo dalla tesi di Newton sulla opportunità di ammettere altre specie di forze oltre all’attrazione, e dunque dalla frontiera chimica lasciata aperta dalla fisica del maestro, Maupertuis giungeva così alla tesi di una molteplicità di proprietà della materia e di leggi corrispondenti (in sé non ulteriormente comprensibili). Si veda MAUPERTUIS,

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renza si trova la caratteristica che spingerà Kant dalle secche di una monadologia scolastica ormai separata dalla legalità dei fenomeni, oltre Crusius, all’idea di una nuova cosmologia metafisica.

2.3. Spazio, forza e mondo noumenico: il Kant precritico Veniamo dunque alla ricerca del Kant precritico lungo la via originale di una conciliazione tra metafisica e fisica, seguendo i nostri temi della teoria dello spazio, della sostanza e della forza. Il percorso che seguiremo in questo paragrafo si può suddividere in quattro fasi: 1) Nelle sue prime opere, dai Gedanken alla Monadologia physica, si trova una ripresa del programma leibniziano di una metafisica dello spazio e di una dinamica come scienza della sostanza semplice. La monadologia è tipicamente wolffiana, ma Kant cerca di trarne una cosmologia migliore elaborando una sua concezione dell’armonia prestabilita che trova supporto nell’attrazionismo newtoniano, per collegarvi un tentativo di costruzione dinamica dei corpi. Questi tentativi patiscono tutti le inconseguenze che Kant trae dall’idea stessa di una monadologia fisica, le quali però restano implicite, tanto riguardo alla metafisica dello spazio, quanto riguardo alla determinazione della forza e delle sostanze immateriali. 2) Nei primi anni ’60 Kant afferma la primitività del concetto di spazio e, come emerge soprattutto dalle riflessioni manoscritte, incomincia a dubitare della possibilità di collegare lo Systême de la nature (s.l., ma Erlangen 17511), § III, in Oeuvres, II, pp. 140-141. Tesi tipiche del newtonianesimo, che più avanti sono però chiaramente rivolte contro la filosofia di Wolff (§ VIII): «L’esperienza ci insegna, anche se non possiamo sapere come la cosa avvenga, che degli esseri nei quali si trovi l’intelligenza e la materia possono agire sui corpi: ma l’esperienza non ci insegna, né si potrà mai concepire, come possano farlo delle sostanze immateriali, senza il concorso immediato dell’Essere onnipotente. La cosa sarà ancora più incomprensibile se si intende che queste sostanze immateriali siano inoltre prive d’intelligenza: perché allora non soltanto non avremo più alcuna idea che possa servirci a esplicare le loro operazioni, ma non avremo nemmeno alcuna idea che ci possa far concepire la loro esistenza» (Oeuvres, II, pp. 142-143, cors. mio). Riguardo all’armonia prestabilita va sottolineato che Maupertuis, come Crusius, identificava le metafisiche di Wolff e quelle di Leibniz. Si veda per es. Lettres (1752), IV, Sur la maniere dont nous appercevons, in Oeuvres, II, pp. 228-242, dove viene esposto il punto di vista attribuito a Leibniz, ma lo si illustra in nota con la psicologia di Wolff.

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spazio con le proprietà delle sostanze. La possibilità di una conoscenza delle sostanze intelligibili non viene messa in dubbio e Kant conserva in genere molte dottrine della cosmologia degli anni ’55-’56. D’altra parte inizia una riflessione gnoseologica sul concetto empiristico e newtoniano di forza, in quanto connessione legale di fenomeni senza comprensione della sua causa. 3) Nei Träume eines Geistersehers (1766) Kant afferma una scepsi radicale sulla possibilità stessa della conoscenza delle sostanze intelligibili e dell’intuizione intellettuale. Nello scritto sullo spazio (1768) tenta una definizione dello spazio che non muova da proprietà interne, muovendo da considerazioni geometriche, e abbandona ufficialmente il relazionismo; infine, nella dissertazione del 1770, afferma l’idealità di spazio e tempo come forme dell’intuizione, separandone i principi da quelli della conoscenza intelligibile. Negli stessi anni ipotizza, privatamente e a lezione, una teoria non monadologica sul fondamento dello spazio, capace di ricollegarsi con la metafisica newtoniana e con l’ipotesi di una conoscenza simbolica degli intelligibili: idee la cui comunicazione pubblica si trova solo accennata in uno scolio della dissertazione. 4) Come testimoniano ancora una volta le riflessioni manoscritte, Kant procede verso il criticismo riflettendo sulla nozione di sostanza e abbozzando l’idea delle analogie dell’esperienza (metà anni ’70). Con il compimento della Logica trascendentale troviamo dunque la negazione della realtà degli intelligibili e l’affermazione che il programma leibniziano era corretto dal punto di vista del solo intelletto, ma in concreto irrealizzabile. La trattazione della sostanza e della forza dovrà dunque presupporre i principi della nuova Estetica: il che conduce a quel principio di relatività delle proprietà fisiche cui abbiamo accennato in apertura di capitolo, e che dominerà le vicende successive della fisica kantiana. Ripercorriamo ora questo itinerario in qualche dettaglio. La dottrina della sostanza che fa da sfondo ai Gedanken del ’47 mostra subito i segni delle difficoltà wolffiane. L’anima vi è considerata senz’altro localizzata, e da questo presupposto il giovane Kant ricava addirittura il trionfo della dottrina dell’influsso fisico: poiché il luogo (Ort) non è altro che il risultato degli «effetti recipro87

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ci delle sostanze», il fatto stesso che l’anima sia in un luogo stabilisce che essa deve poter agire fuori di sé, e viceversa essere modificata dalla materia nella sua rappresentazione78. Più delle oscurità che queste premesse condividono con il modello di Knutzen, interessa rilevare la particolare accentuazione di Kant sulla precedenza delle nozioni metafisiche di sostanza e di forza sugli altri concetti cosmologici: la localizzazione dell’anima non è che una conseguenza dell’influsso reciproco delle sostanze, il cui fenomeno è lo spazio. Su questo punto Kant non si contenta di una teoria che, come quella di Knutzen, ammette che la mente agisca sugli elementi corporei ma ne considera l’azione in senso meccanico: egli intende tornare al radicalismo di Leibniz e pone le sostanze alla base della stessa rappresentazione spaziale. Il giovane Kant ha dunque colto chiaramente il problema fondamentale della cosmologia wolffiana. Nell’intero scritto non si trova però una vera e propria teoria in proposito, quanto piuttosto un richiamo piuttosto rapido: È facile mostrare che non ci sarebbero spazio e estensione se le sostanze non avessero forze, mediante cui agiscono esteriormente [außer sich]. Infatti senza questa forza non ci sarebbe alcuna connessione, senza questa nessun ordine, e senza questo infine nessuno spazio79.

Kant dunque pone la seguente gerarchia concettuale della co78 Gedanken, § 6, KgS I, 21. Con l’«astuto autore», la cui teoria Kant dichiara di voler perfezionare, è quasi certamente da intendersi Knutzen (si ricordi in proposito che era da poco comparso il Systema causatum efficientium, ma anche che questo libro era una versione ampliata della Commentatio philosophica, de commercio mentis et corporis per influxum physicum explicando, comparsa a Königsberg nel 1735). Kant contesta al suo autore di aver inteso gli effetti possibili delle forze in termini solo cinematici, mentre è possibile pensare effetti diversi. Si veda KNUTZEN, Systema causarum efficientium: § 20: «I corpi consistono di semplici o monadi», intesi come «parti»); § 27: «gli elementi semplici sono in un luogo e si muovono, anche se non riempiono uno spazio»; § 55: l’influsso fisico è inteso come «motus impressionem». La vacuità dell’innovazione kantiana, che si muove sempre nel giro d’idee tipico del wolffismo, è sottolineata giustamente da SCHONFELD, The Philosophy of the Young Kant, p. 40. 79 Gedanken, § 9, KgS I, 23.

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smologia: 1) sostanze → 2) forza → 3) connessione (nexus) → 4) ordine → 5) spazio (luogo e posizione) e movimento (come phaenomenon). In base a questo schema costruisce la sua prima ipotesi originale in tema di metafisica dello spazio e cioè la congettura sulla dipendenza delle tre dimensioni dello spazio e la legge delle forze. Essa si articola in quattro tesi: Che le sostanze, nel mondo esistente di cui siamo parte, abbiano forze essenziali tali che, nella loro congiunzione, i loro effetti si propagano secondo il doppio rapporto inverso delle distanze. Secondo, che il tutto che ne risulta abbia, in virtù di questa legge, la proprietà della triplice dimensione; terzo, che questa legge sia arbitraria, e che Dio avrebbe potuto sceglierne un’altra, per esempio del rapporto triplice inverso; quarto, infine, che da un’altra legge sarebbe conseguita anche una estensione dotata di diverse proprietà e dimensioni80.

L’originalità di questa congettura, spesso estrapolata dal contesto di questa operetta, è discutibile81. Si deve notare che, pur riferendosi evidentemente alla legge dell’inverso del quadrato, Kant parla in termini leibniziano-wolffiani di «legge delle forze», e si riferisce alla questione di come l’anima, secondo questa legge, «riceve dall’esterno le impressioni» e dunque produce rappresentazioni82. Quel che più conta, dal nostro punto di vista, è sottolineare che la congettura, proprio per questo riferimento alla legge delle forze, non contiene alcun contributo per un’autentica deduzione dello spazio, e anzi presuppone per la sua stessa formulazione la rappresentazione spaziale: ogni ipotesi sulla legge delle forze, infatti, comporta per la sua stessa formulazione che gli intervalli spaziali siano già dati. L’ambizione leibniziana di dedurre il fenome80 Ivi,

§ 10, KgS I, 24. dipendenza della legge dell’inverso del quadrato dalle proprietà geometriche dello spazio si trova già in Hooke, e veniva ripresa, tra gli altri che Kant poteva avere presenti, in Keill e Maupertuis (TONELLI, Elementi, pp. 16-18; per maggiori dettagli sulle fonti kantiane cf. cap. 8, nota 82). Kant propone di rovesciarla, prendendo spunto da un passo della Teodicea, e la rielabora con una propria congettura sui mondi possibili (cf. § 9, KgS I, 23). 82 KgS I, 23-24 e §§ 5-6, KgS I, 20-21. 81 Una

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no dello spazio, benché mantenuta nell’impianto della metafisica, è di fatto già abbandonata83. Le ragioni per cui Kant deve affrontare la questione si possono ricavare da un problema che rimarrà fondamentale in tutta la sua filosofia naturale, quello dell’unità del mondo: l’appartenenza di una parte al tutto, scrive Kant, dipende da una congiunzione tra le parti; si possono dunque pensare sostanze che non contengano alcuna relazione con altre sostanze, e, dato che il luogo dipende dai rapporti dinamici, queste sostanze esisterebbero ma non sarebbero presenti nel mondo84. Questa «proposizione paradossale», che Kant sostiene di aver ricavato per primo da «notissime verità», dipende in realtà da una distinzione tra sostanza e forza che Kant ricava dall’ontologia wolffiana. Essa mette a nudo l’assoluta chiusura di questa nozione di cosa che il criticismo – considerando questa assenza di rapporti anche riguardo al soggetto trascendentale – priverà giustamente dell’esistenza85. 83 Si noti che Leibniz, a livello fisico, assume la rappresentazione dello spazio come una nozione primitiva. Ciò è evidente, per esempio, proprio nell’argomento sulla tridimensionalità della Teodicea cui Kant dice di essersi ispirato: qui Leibniz considera la tridimensionalità come un esempio di «necessità geometrica e cieca», contrapponendola a quella delle leggi della natura, che proviene dalla scelta del meglio (I, § 351; GP VI, 322-323). Anche Knutzen, nel suo tentativo di cosmologia, non può non presupporre lo spazio (Systema causarum, § 22). Kant cerca insomma di ritrovare un fondamento puramente metafisico dello spazio, ma lo fa con strumenti intrinsecamente inadeguati all’impresa (ammesso che quest’ultima sia in genere realizzabile). Egli giungerà a considerare la tridimensionalità come un principio indimostrabile nella Untersuchung über die Deutlichkeit (KgS II, 281) e nel § 38 dei Prolegomena, infine, potrà tentare proprio in base alle proprietà della sfera una prova a priori della proporzionalità all’inverso del quadrato nella legge di gravitazione universale (KgS IV, 321). In questo modo sarà rimesso in piedi il modello di Keill, che in questa prima opera è rovesciato a scopo speculativo. 84 Gedanken, §§ 7-8, KgS I, 21-23. 85 È il caso di notare che, nonostante le aporie che abbiamo rilevato, la metafisica wolffiana considera l’appartenenza degli accidenti alla sostanza come essenziale e ipoteticamente necessaria (cf. per es. BAUMGARTEN, Metaphysica, §§ 191ss., in part. 202), e identifica la forza con la ragione dell’inerenza degli accidenti; nel caso in cui la sostanza sia ragione sufficiente, la forza si identifica con la sostanza stessa. La distinzione tra sostanza e attributi, dunque, è per certi versi una forzatura critica kantiana delle distinzioni ontologiche wolffiane. Questo iato costituirà negli anni ’60 il punto d’avvio della riflessione sul fondamento reale.

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E tuttavia, proprio la considerazione della forza e dell’interazione cosmica delle sostanze è il luogo del paralogismo. Kant infatti insiste sulla purezza metafisica della nozione di forza, separandola esplicitamente dal campo della matematica; nello stesso tempo, introducendo la sua ipotesi sulla tridimensionalità, ammette: «La forza con cui una sostanza agisce nella congiunzione con le altre [si tratta propriamente di «azione reciproca»: § 7, KgS I, 21], non può essere pensata senza una certa legge, che si mostra nel modo della sua azione»86. Successivamente ipotizza che questa legge sia quella dell’inverso del quadrato. Si vede allora che la «forza attiva», che Kant riprende da Leibniz e contrappone alla «forza motrice» al preciso scopo di ripristinare la distinzione tra piano metafisico e piano meccanico87, è in realtà caratterizzata immediatamente come forza motrice che agisce nello spazio, la cui sola qualifica metafisica è l’inerenza a una sostanza. Insomma Kant non si arrende all’ignorabimus della dinamica wolffiana, ma non ne ha ancora abbandonato le premesse. Lo stesso problema si ritrova nei tentativi di cosmologia metafisica contenuti nella Nova dilucidatio (1755) e nella Monadologia physica (1756). Anche in queste opere si trova un tentativo di ricavare lo spazio come fenomeno delle sostanze e di spiegare l’influsso, in cui l’innesto di concetti dinamici newtoniani è stavolta esplicito. Per la prima volta, infatti, Kant parla di gravitazione e non – leibnizianamente – di forza attiva. D’altra parte resta sullo sfondo – senza però scomparire – il peculiare monismo dinamico per cui la forza delle monadi è anche quella rappresentativa. L’interesse principale dei nuovi scritti accademici, infatti, è di ricavare a priori le ipotesi fisiche sviluppate nella coeva Allgemeine Naturgeschichte (1755). Si prendano – nella Nova dilucidatio – i due nuovi «principi» metafisici di successione e di coesistenza (Kant li presenta a loro volta come conseguenze del principio di ragione determinante), che riguardano appunto l’ordinamento temporale e spaziale del mondo e presentano una nuova teoria dell’influsso. 86 § 87 §

10, KgS I, 24. Cors. mio. 3, KgS I, 18.

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Il principio di successione (Prop. XII) stabilisce che «nessun mutamento può avvenire alle sostanze, se non in quanto sono in connessione con altre: è appunto questa dipendenza reciproca a determinare una mutua mutazione di stato». Questa impegnativa affermazione, come conclude lo stesso Kant (Usus 2), semplicemente recide in linea di principio la possibilità di una metafisica che neghi ogni nesso dell’anima con le cose esterne. L’obiezione è rivolta come al solito contro la versione wolffiana della monadologia, ma stavolta Kant coglie un punto problematico della monadologia nella sua stessa versione originale, cioè la deduzione del fenomeno del tempo. Il passaggio dal concetto logico-metafisico della monade al suo svolgimento successivo secondo una «legge degli stati» era infatti ancora più oscuro, in Leibniz, della sua deduzione dello spazio88. Nondimeno una legge dei cambiamenti fondata su un influsso reciproco universale non sembra capace di raggiungere il medesimo obiettivo: una reciproca determinazione di attributi può avvenire benissimo simultaneamente, che è proprio quanto accade con le relazioni spaziali89. Anche se il concetto di influsso viene introdotto in base al secondo principio (principio di coesistenza), il principio di successione vi si riferisce già. L’ordinamento dell’esposizione si spiega con l’assunzione kantiana della sostanza isolata da un mondo, che ora, come conseguenza del principio di successione, viene privata della successione degli stati90. Per introdurre il commercio, che si è reso così necessario, il principio di coesistenza pone la dipendenza delle sostanze dall’intelletto divino (KgS I, 412-413): 88 L’oscurità di questo punto era stata colta già da Foucher nel «Journal des sc¸avans» del 12 settembre 1695 e sottolineata da P. BAYLE, Dictionaire historique et critique (16971), «Rorarius», Paris 1820-1824 (repr. Genève 1969), XII, pp. 610-611. Sul tema si veda ora l’ampia trattazione di FUTCH, Leibniz’s Metaphysics of Time and Space. 89 Sul passaggio mancante dall’influsso al cambiamento si trovava un’ipotesi nel § 4 dei Gedanken, dove in base alla reciproca limitazione dell’azione delle sostanze «nello stato di coesistenza», e all’assunto secondo cui la sostanza deve agire con tutta la sua forza, Kant ricava che la sostanza agisce lungo la «seconda dimensione» del mondo, cioè successivamente (KgS I, 19). Si tratta di un altro esempio del ragionamento ibrido di quell’operetta, che Kant non ritiene opportuno riprendere nel decennio successivo. 90 Kant ne ricava, in base all’evidenza empirica delle mutazioni dell’anima, una confutazione dell’idealismo: «Plura extra anima adesse necesse est» (KgS I, 411)

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Le sostanze finite non hanno in base alla loro mera esistenza nessuna relazione tra loro e non apparterrebbero assolutamente ad alcun sistema di scambio se non fossero sostenute da un principio comune di esistenza – ossia l’intelletto divino – in modo da essere conformate a relazioni reciproche [mutuis respectibus].

Lo stesso schema dell’intelletto divino che concepisce l’esistenza delle sostanze ne stabilisce anche il commercio, che è dunque estrinseco e contingente. Kant ha abbandonato la tesi di un influsso fisico immediato e propone una gerarchia concettuale in cui viene posta l’esistenza contingente della sostanza finita, cui si aggiunge il commercio (nello «schema dell’intelletto divino»), da cui derivano inseparabilmente l’esistenza delle sostanze, la loro coesistenza (il cui fenomeno è lo spazio), e la successione dei loro stati (il cui fenomeno è il tempo); secondo queste dimensioni si può pensare la causalità degli stati, sia fisici sia psichici, richiesta dal principio di ragione determinante. La struttura di tutti questi passaggi, se si prescinde dal loro correlato fenomenico, ha due assi: le sostanze contingenti dipendono per la loro esistenza da un ente necessario, la successione e l’influsso reciproco tra i loro stati dipendono da un disegno intelligente. Incardinando così l’esistenza e la legalità della natura in un medesimo atto metafisico Kant dà forma a un’ipotesi che conserverà fino agli anni ’70. Ci si può dunque domandare, a questo punto: perché non proseguire con Leibniz? Qual è la ragione per cui l’armonia prestabilita leibniziana, come Kant afferma, deve essere sostituita da quella kantiana? La prima, scrive Kant, lascerebbe le sostanze metafisicamente isolate, in quanto introduce un «consenso», non una «dipendenza» tra di esse91. La differenza tra queste due ipotesi risiederebbe in una evidenza empirica: sebbene sia vero che le singole sostanze abbiano un’esistenza indipendente le une delle altre, «cionondimeno tutte le cose nell’universo si trovano [reperiantur] collegate da un mutuo nesso» (KgS I, 413). Ma la presunta evidenza empirica di un nexus substantiarum non basta affatto a decidere delle diverse ipotesi metafisiche che devono spiegarlo (Knutzen, per esempio, la invocava a 91 KgS

I, 412 (Prop. XII, Usus 2), cf. 415.

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sostegno dell’influsso fisico). Non sembra dunque che essa possa far pendere la bilancia verso un diverso sistema del commercio, episodio cruciale del distacco della filosofia naturale kantiana dal suo sfondo leibniziano. La questione si chiarisce meglio con il successivo passaggio in cui Kant pretende di ricavare le conseguenze fenomeniche e fisiche dei suoi concetti. Il commercio delle sostanze consiste nella determinazione reciproca dei loro stati, e questa risulta nella nozione di spazio. Ma posto che il fenomeno esterno del commercio sia l’avvicinamento dei corpi, scrive Kant, esso consiste nell’attrazione newtoniana. Quest’ultima dunque dipenderebbe dallo stesso nesso delle sostanze da cui deriva anche lo spazio e sarebbe la più originaria tra le leggi della natura (Usus 5, KgS I, 415): Inoltre, poiché le determinazioni delle sostanze sono in rapporto vicendevole, cioè sostanze diverse tra loro agiscono reciprocamente (nel senso che l’una determina alcunché in un’altra), la nozione dello spazio si riduce alle azioni concatenate delle sostanze, alle quali è necessariamente sempre congiunta una reazione. Per tutto l’ambito dello spazio, in cui i corpi stanno in relazione tra loro, il fenomeno esterno di questa universale azione e reazione, se consiste in un reciproco avvicinamento dei corpi, prende il nome di a t t r a z i o n e ; questa attrazione, essendo prodotta dalla sola compresenza, si estende a qualsiasi distanza, ed è l’a t t r a z i o n e n e w t o n i a n a cioè la gravitazione universale; è probabile che sia prodotta dallo stesso nesso tra le sostanze, con cui queste determinano lo spazio, perciò essa è la legge di natura più originaria a cui sia vincolata la materia, che non perdura se non per l’immediato sostegno di Dio, secondo la stessa tesi di coloro che si proclamano seguaci di Newton.

Con questa nuova ipotesi Kant pretende – come nei Gedanken – di derivare sia lo spazio che il fenomeno della gravitazione da una stessa interazione tra le sostanze, che produce l’uno e si manifesta nel secondo. Una ragione per cui il collegamento tra questi concetti è cercato nell’attrazione newtoniana consiste certamente nella universalità empirica di quest’ultima. Questo sarà peraltro l’aspetto della fisica newtoniana che Kant non smetterà di celebrare finanche in epoca più tarda. Il concetto che finalmente ha intro94

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dotto una compiuta legalità universale tra i fenomeni fisici si presta dunque a dar espressione al commercio universale tra le sostanze. Questa specificazione ipotetica dell’influsso suggerisce una congettura sulla ragione per cui Kant considera la propria armonia della dipendenza preferibile a quella leibniziana del consenso. La differenza specifica della teoria kantiana non consisterebbe tanto nella universalità (che spetta anche all’ipotesi leibniziana), quanto piuttosto nel fatto di arrecare nel concetto del commercio, e dunque nel cuore della cosmologia metafisica, una maggiore distinzione logica. Una tale affermazione, s’intende, va intesa alla luce della tesi che Kant guadagnerà in sede logica attraverso l’abbandono della dottrina leibniziana della sensibilità, e cioè che si acquista la maggiore distinzione di un concetto non solo mediante scomposizione, ma anche «per sintesi»92. Nella fase che stiamo vedendo Kant non ha ancora cominciato la revisione gnoseologica che lo condurrà a questo risultato; ma si vedrà, considerando anche i do-

92 Il concetto di distinzione (Deutlichkeit) sintetica dei concetti è oggetto di molte riflessioni kantiane a cominciare dagli anni ’60: essa riguarda il rapporto tra un concetto semplice e l’intuizione corrispondente, e non comporta un vero e proprio arricchimento logico della conoscenza. Si veda per es. Refl. 2392, KgS XVI, 341-342: «Non tutta la distinzione sorge analiticamente, cioè mediante note che si trovano già nel concetto di una cosa, ma in molti casi sinteticamente mediante note che non vengono incluse nel concetto, ma vengono connesse ad esso come tali da appartenergli». Sul tema si veda M. CAPOZZI, Kant e la logica, I, Napoli 2002, pp. 518-524. Il tema della Deutlichkeit e del suo rapporto con il concreto, rispetto agli scritti dei primi anni ’60, è toccato anche in TONELLI, Kant. Dall’Estetica metafisica all’estetica psicoempirica, [s.l.] 1955, pp. 146-147, 165-167, che sottolinea opportunamente il legame con la metodologia di Crusius e Lambert, ma non fa cenno di un aspetto cosmologico della questione. L’orizzonte dell’estetica baumgartiana rende questo ampliamento intuitivo ancora privo di una funzione sul piano della distinzione propriamente logica. Il contributo degli esempi avrà ben altro rilievo nella filosofia trascendentale, dove viene ulteriormente articolato grazie al concetto di conoscenza sintetica. Solo l’esempio fornito mediante l’intuizione esterna permetterà di rappresentarci l’oggetto «in concreto», procurando un elemento indispensabile di distinzione «estetica», ma nello stesso tempo mediante questo esempio sarà possibile in alcuni casi limitati estendere la conoscenza sinteticamente e a priori, e dunque procurare maggiore distinzione «logica» alle categorie: è il caso di quelli che infine saranno detti «principi metafisici». Cf. infra §§ 3.2, 3.4, 5.1.

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cumenti manoscritti, che questa revisione è stata resa necessaria proprio dall’aporia di una metafisica dello spazio, in cui il fenomeno della percezione non risultava più fruttuoso per una spiegazione armonica della legalità cosmica (che anzi conduceva all’idealismo); e che, mancando quella teoria, la nozione di influsso si riduceva davvero a un mero composto logico dei concetti di sostanza e azione. È notevole del resto che proprio l’attrazione originaria, nella filosofia critica della natura, costituirà il solo esempio di una nota extraessenziale del concetto di materia ricavabile sinteticamente a priori93. L’intera congettura, con il suo anacronismo, ci porta dunque a intravedere già nell’innesto della fisica nella metafisica dell’anno ’55 un primo movimento dalle secche della monadologia verso il progetto di una fisica pura indipendente dal concorso di fondamenti intelligibili. In ogni caso, tornando alla Nova dilucidatio, bisogna riconoscere che il collegamento dei concetti metafisici con quelli di spazio, tempo e gravitazione è difettoso, come si può mostrare caso per caso. In primo luogo, Kant non fa alcun esempio delle relazioni tra le sostanze pensate nell’intelletto divino, in cui consisterebbe la loro azione reciproca sul piano metafisico: perciò la risoluzione dello spazio rimane solo presunta. Una primitività concettuale delle relazioni spaziali sembra del resto assunta nella precedente trattazione del principio degli indiscernibili, dove la distinzione locale, in quanto determinazione esterna, viene considerata necessaria alla determinazione completa delle cose tanto quanto le determinazioni interne94. L’intera discussione, di marcata impostazione crusiana, conferma che l’obiettivo leibniziano di ricavare le proprietà esterne da quelle interne è abbandonato. In effetti, come conferma un inciso della Monadologia physica, lo spazio viene considerato «fenomeno delle relazioni esterne delle sostanze» (KgS I, 480). Ma in assenza di una qualificazione di relazioni “esterne” non locali, come abbiamo visto, si deve concludere che Kant non ha tentato alcuna derivazione di quelle locali, e che la definizione citata contiene una peti93 MA

509, Teorema 5, nota. Cf. infra § 9.2. XI, 2, KgS I, 409-410.

94 Prop.

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zione di principio. La risoluzione dello spazio in relazioni tra le sostanze, come vedremo, è un compito che Kant non intraprenderà più. Veniamo ora alla derivazione della successione negli stati delle sostanze, e dunque del tempo. Anche il tempo dipende dal commercio posto arbitrariamente dallo schema dell’intelletto divino. Se in esso non fossero pensate connessioni, allora non si darebbe alcuna connessione tra le sostanze: il che vuol dire, secondo il principio di successione, che non si darebbe mutamento alcuno, e le sostanze rimarrebbero immutabili come Dio. Ma come si passa dal commercio, che costituisce lo spazio, al mutamento, che costituisce il tempo? Se si considerano le sostanze poste in relazione da Dio, «nel protrarsi dell’esistenza (in continuatione existentiae) in conformità a questa idea le determinazioni rimangono in seguito (postea) in relazione tra loro ossia agiscono e reagiscono, ed esiste un certo stato esterno alle singole sostanze, che non ci potrebbe essere sulla base della loro sola esistenza, prescindendo da questo principio» (KgS I, 414). Come si vede, la successione temporale (in continuatione existentiae [...] postea) è una condizione affinché, posta l’azione e reazione reciproca delle sostanze, si inneschi il mutamento cosmico. Kant dunque prefigura il fenomeno del cambiamento per ricavarne il tempo astrattivamente. Ma il solo modo che Kant conosce per ricavare il cambiamento da qualche altro principio viene illustrato, nello stesso anno, dall’incipit della Allgemeine Naturgeschichte, però «secondo principi newtoniani»95. Se ora si considera il concetto di gravitazione si ritrova l’inconseguenza che abbiamo già intravisto studiando i Gedanken. Si osservi infatti che la definizione delle relazioni concide sul piano logico-metafisico con quella del commercio, ma a quest’ultimo, posto che il suo fenomeno sia l’avvicinamento, deve corrispondere la gravitazione: perciò dallo stesso schema dell’intelletto divino bisogna ricavare tanto lo spazio quanto la gravitazione. Ma il concetto 95 È chiaro d’altra parte che non si può ricavare una determinazione temporale dal presupposto che lo schema divino sia un «actus perdurabilis». Si tratta infatti di una determinazione propriamente atemporale (l’eternità), tanto che Kant si vanta di aver stabilito l’immutabilità di Dio.

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newtoniano di gravitazione, come abbiamo già rilevato, presuppone per definizione lo spazio metrico e dunque non può essere una conseguenza dell’influsso al pari dello spazio96. Il legame tra influsso e gravitazione, ammesso che se ne possa conservare la distinzione, consiste solo in una debole analogia: entrambi corrispondono a leggi universali universali degli stati, l’uno delle sostanze in sé considerate, l’altra dei corpi. Abbiamo già rilevato, però, il riserbo kantiano riguardo alle proprietà interne delle sostanze, che ritroveremo in tutti gli scritti successivi. In effetti, tolto il carattere estrinseco del commercio rispetto alle sostanze in sé considerate, e tolta la nozione di un commercio fondato su stati interni (che non ha più la funzione di definire lo spazio e resta puramente intelligibile), nulla distinguerebbe il piano metafisico da quello fisico, proprio della Allgemeine Naturgeschichte, in cui il commercio dinamico è intrinseco ai corpi e avviene non appena si dia materia. In generale, dunque, i principi metafisici kantiani mirano a riprodurre la situazione originaria della storia della natura, con la sua distribuzione originaria disomogenea della materia (che corrisponde all’arbitraria escogitazione di proprietà delle sostanze) e la legge di gravitazione che mette in moto il divenire cosmico. Ma la legge di gravitazione comporta, oltre alle coordinate spazio-temporali, anche un riferimento ai corpi. Sul piano della fisica, in effetti, la Allgemeine Naturgeschiche ammette senz’altro elementi e particelle, mentre il De igne sviluppa addirittura una teoria corpuscolare della struttura della materia. Come si passa, però, dalla sostanza della metafisica al corpo? Si ha l’impressione che la fisica soccorra la metafisica fornendole un oggetto concreto, laddove questa si limita a pensare la sostanza come cosa in astratto. Ma questo significherebbe fermarsi a Wolff, mentre Kant sta appunto cercando di andare oltre. E allora: è possibile che la sola metafisica deduca le sostanze corporee? O potrà forse farlo con l’ausilio della fisica matematica – senza però prelevarvele già fatte? Ecco i problemi della successiva opera kantiana. 96 Un

MAN,

simile problema di principio della metafisica precritica è segnalato in FRIEDKant and the Exact Sciences, pp. 25-27.

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Nella Monadologia physica viene realizzato il ripensamento dell’attività delle sostanze alla luce della fisica newtoniana, e si consuma il definitivo abbandono della dinamica leibniziana reso necessario dai principi della Nova dilucidatio. Diviene evidente che la piena adesione ai «principi newtoniani» comporta il superamento di fatto della dicotomia leibniziana tra piano metafisico-dinamico e piano meccanico-matematico, attraverso il tentativo di risolvere le aporie della metafisica con un nuovo alimento concettuale. Così i concetti fisici e cosmologici entrano nella metafisica (la forza motrice d’impronta newtoniana come attività della monade, la gravitazione come fenomeno dell’influsso), quelli metafisici nella fisica (la stessa monade fisica, centro d’attività delle forze repulsive e attrattive). Il risultato di questo specimen della congiunzione di metafisica e geometria è la tesi secondo cui l’attrazione sarebbe una proprietà essenziale della materia, che era una posizione di parte tra i newtoniani, per il leibniziani un’assurdità. Riassumiamo le tesi di quest’opera, che Kant manterrà quasi invariate in dinamica fino agli anni ’80. Il problema di partenza è quello, tipicamente wolffiano, della compatibilità tra infinita divisibilità dello spazio e semplicità delle monadi come «punti fisici»97. Era un problema cruciale della monadologia dell’epoca, e per esempio era stato posto negli stessi termini da Euler per confutare la monadologia in genere98. La prima preoccupazione di 97 KgS II, 475. Si noti che Kant ammonisce di considerare come sinonimi i termini «sostanze semplici, monadi, elementi della materia, parti primitive dei corpi» (KgS II, 477, nota). Questa scelta terminologica, che proviene da Baumgarten, è resa possibile da un occultamento della distinzione tra cosmologia wolffiana e monadologia leibniziana. 98 Nel 1746 era comparso lo scritto di Euler sugli elementi dei corpi in cui sono confutate la semplicità e la forza attiva delle monadi (Gedanken von den Elementen der Cörper, EOO III, 2, pp. 350-366). Si noti che in questo scritto la critica della monadologia si basa proprio sulla tesi della incompatibilità tra monadi e infinita divisibilità dello spazio, che è il primo obiettivo polemico della Monadologia kantiana. Kant non si riferisce mai esplicitamente ad esso (comparso anonimo), né a Euler, ma la monadologia fisica persegue di fatto una strategia che pare concepita apposta per replicarvi: non solo la monade inestesa è compatibile con la divisibilità finita dello spazio, ma la sua azione originaria si mostra necessaria senza bisogno di violare l’inerzia, nel complesso dinamico del mondo; anzi, dal concetto di materia si può trar-

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Kant, nel presentare il progetto di una metafisica congiunta con la geometria, consiste dunque nel mostrare che le due scienze non si contraddicono (la prima sezione dell’opera s’intitola proprio: «L’esistenza delle monadi fisiche non è in contrasto con la geometria»). La compatibilità tra monadi (semplici, come vuole la metafisica) e spazio (infinitamente divisibile, come vuole la geometria) è trattata nelle prime 5 proposizioni: se la monade riempisse lo spazio mediante un’attività, senza occuparlo, la divisione della rispettiva sfera di attività non ne negherebbe la semplicità. Segue la parte propriamente costruttiva del saggio: data la localizzazione della monade in un punto, viene introdotta la «sfera di attività», che determina lo spazio della sua presenza in base a una forza repulsiva originaria che si irradia dal centro e oppone resistenza alla penetrazione di altre monadi in questo spazio (prop. 6-7); quest’attività viene poi fatta corrispondere al fenomeno dell’impenetrabilità (prop. 8). La seconda parte del saggio contiene il tentativo di ricavare dal nuovo dinamismo monadologico ulteriori proprietà dei corpi come il volume (prop. 10), l’elasticità (prop. 13) e i gradi originariamente diversi di densità degli elementi (prop. 11). È particolarmente significativo che, per ricavare un volume determinato, venga sostenuta la necessità di una seconda forza originaria, la forza d’attrazione, che agisca in conflitto con quella repulsiva. Il conflitto tra le forze originarie, che compare qui per la prima volta, deve servire dunque a spiegare il darsi di parti discrete di materia densa, sostituendo una spiegazione dinamica a una postulazione meccanica, qual’era per esempio quella dell’atomismo newtoniano. Kant sostiene che le due forze, in base alle condizioni geometriche della loro azione rispettivamente a contatto e a distanza, dovranno essere inversamente proporzionali l’una al quadrato, l’altra al cubo delle distanze tra i centri d’azione, essendo peraltro dotate di diversa intensità a seconda degli elementi. Questa loro proprietà generale, tuttavia, permette di anticipare che vi sarà una superficie di equilibrio tra esse, che coincide con il volume delle particelle, e che questo volume sarà sempre uguale perché l’intensità re anche la gravitazione, che a sua volta non può essere attribuita ai corpi quale proprietà essenziale.

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delle due forze nei diversi materiali varierà proporzionalmente senza modificarne il punto di equilibrio99. Il passaggio più ingegnoso di questa monadologia è proprio la derivazione della forza repulsiva dal fenomeno dell’impenetrabilità, e la successiva derivazione di una forza attrattiva originaria che in opposizione alla precedente determina il confine tra i corpi. Delle rispettive argomentazioni, che Kant sottoporrà in seguito a almeno due revisioni metodologiche (nel ’62-’63 e nell’86), ci occuperemo in seguito. Cerchiamo per ora di capire in che modo le sostanze intervengono nel ragionamento: fino alla prop. 7 Kant ne difende la compatibilità con l’estensione dinamica, nelle prop. 8 e 10 ricava questa estensione dal fenomeno dell’impenetrabilità. Ma come si giustifica la coincidenza della sostanza intelligibile con un punto?100 La questione si pone in base alla distinzione tra determinazioni interne ed esterne delle sostanze: le singole monadi sono considerate sufficientemente distinte in base a determinazioni interne (che 99 Per il volume determinato e la legge delle forze si veda Prop. X, KgS I, 483-485. Le principali differenze di questo itinerario da quello della Dinamica del 1786 sono: scomparsa della monade puntuale come centro d’azione delle forze motrici; abbandono della deduzione del volume determinato della particella, per cui il corpo rimane un concetto empirico; tentativo di ricavare (non solo di rendere pensabili) le diverse densità dal diverso grado della forza repulsiva. Cf. infra §§ 8.2-8.3. 100 Questa coincidenza, come abbiamo visto, era alla base delle critiche di Euler alla monadologia. Ma essa costituiva uno scandalo anche per alcuni sostenitori tedeschi della monadologia. Una sequenza di obiezioni contro la monadologia fisica era stata allestita in un interessante libretto di GOTTSCHED, Dubia circa monades leibnitianas quatenus ipsae pro elementis corporum venditantur, Königsberg 1721. Vi si trovano appunto dubbi rivolti alla dottrina degli elementi di Wolff (§ IV) su come le monadi possano costituire i corpi, e i chiari segni di una distinzione di questa dalla dottrina leibniziana, che Gottsched ricava dall’appena uscita Monadologia. C’è finanche (§ 14) un argomento sulla divisibilità infinita, ma solo potenziale, dei composti che anticipa molto di quanto si troverà nella seconda Antinomia kantiana («in hanc argumentatione: ubi sunt composita necesse est dari Simplicia, nullam esse consequentiam: id enim tantum sequitur: ubi sunt composita, dantur necessario simpliciora, et sic in infinitum; verum haec in transitu»). Gottsched insomma sembra aver chiaro che Leibniz deve aver inteso altro rispetto a quanto si può ricavare dai testi noti. Anche un metafisico come Plouquet criticava in questi anni la monadologia fisica, affermando che è assurdo attribuire realtà a un punto. Cf. per es. G. PLOUQUET, Principia de substantiis et phaenomenis, Frankfurt/Leipzig 1764, §§ 94-96.

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per ora non vengono messe in discussione), mentre le relazioni esterne che le connettono consistono nello spazio. Nello spazio «è lecito cercare quelle determinazioni che si riferiscono alle realtà esterne», la cui trattazione viene dunque separata da quella delle proprietà interne. Per comprendere meglio il concetto di sostanza dobbiamo però domandarci, vista la brevità dell’esposizione kantiana, che cosa si intenda per proprietà interne in questi anni ’55’56. Abbiamo visto che nella Nova dilucidatio Kant le considera inconcepibili senza il mutuo influsso: egli ritiene di aver così confutato Leibniz (che viene qui considerato idealista), e di seguito trae l’altra conseguenza che ogni spirito finito deve avere un corpo organico (che come abbiamo visto Leibniz concedeva). Sembra dunque evidente che Kant concepisca le proprietà interne come percezioni non spaziali. Non si tratta di una pura eventualità teorica: vedremo che proprio da un «sentimento interiore», negli anni ’60, Kant crederà di poter trarre l’accesso al mondo intelligibile. Ammesse queste proprietà interne, comunque, si pone il problema di pensare il collegamento tra la sostanza e lo spazio. A questo scopo Kant fa uso del concetto di una «presenza» (o «ambito») della sostanza nello spazio (prop. 7). Questo era stato uno di temi del dibattito tra Leibniz e Clarke, ed era stato poi molto discusso nella filosofica accademica tedesca. Il dibattito muoveva dal problema dell’onnipresenza divina, ruotando intorno ad alternative già diffuse nella scolastica e nella metafisica cartesiana, e attraverso l’analogia del sensorio era stato spostato al caso dell’anima umana. Entrambi i partiti concordavano nel negare una presenza reale dell’anima nel corpo, che avrebbe condotto al materialismo e reso inesplicabile la percezione, sostenendo una presenza «virtuale» concepita in diversi termini, per esempio come causalità metafisica o come percezione. A questo proposito Leibniz aveva sostenuto che la presenza locale non rende comprensibile la percezione, alludendo alla sua teoria dell’espressione101. Kant avrebbe continuato a commentare per tutta la vita queste discussioni sul piano teologico, rifiutando sul piano metafisico la tesi di una on101 Quarto

scritto di Leibniz, § 30, CLC 93-95. Cf. supra nota 24.

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nipresenza locale in favore di una più adeguata onnipresenza virtuale, ma senza ammettere mai una vera e propria causalità di Dio, che ponendolo in interazione con il mondo ne limiterebbe l’essenza102. Riguardo al caso della monade finita, tuttavia, l’obiezione non sussiste, ed egli avanza la tesi della sfera di attività, che aggira l’ostacolo della divisibilità dello spazio definendo il confine tra le monadi come risultato del conflitto dinamico e ha l’ulteriore conseguenza di togliere la difficoltà intuitiva che si ascriveva in prospettiva meccanicista all’azione a distanza, poiché rende la prima una condizione della stessa azione a contatto. Kant si riferisce per analogia al caso della presenza divina per «atto di conservazione», che non rende Dio divisibile103. Tuttavia non è chiaro cosa pensi Kant della presenza della sostanza finita dal punto di vista della percezione, il che attesta nuovamente l’assenza di una articolata teoria della rappresentazione negli scritti di questi anni. Si vede dunque che, mentre sul versante definitorio Kant si mantiene alla sostanza wolffiana e alle sue determinazioni interne, lo sviluppo cosmologico della metafisica, risolvendo le ambiguità del wolffismo, non fa uso delle determinazioni interne, e avviene piuttosto sul piano delle determinazioni esterne, assecondando le potenzialità esplicative della fisica matematica. La mancanza di una teoria compiuta della sostanza negli scritti degli anni ’55-’56 produce altre conseguenze, che giocano un ruolo fondamentale nelle ricerche successive, riguardo alle tesi dell’omogeneità tra sostanze spirituali e materiali e la loro attività. Kant sostiene ancora la presenza locale delle sostanze e dunque 102 È vero che Kant, nella Allgemeine Naturgeschichte, si riferisce non problematicamente allo spazio come «ambito [Umfang] infinito della presenza divina» (KgS I, 306; cf. 312; 313), ma lo fa appunto senza approfondire il significato metafisico di questa nozione, la cui menzione in un’opera basata sui principi newtoniani non richiedeva una particolare giustificazione. Le discussioni più interessanti della dottrina dell’onnipresenza, a commento di BAUMGARTEN, Metaphysica, §§ 956-957, si trovano in KgS XXVIII, 347 (L1) e soprattutto 1211 (Natürliche Theologie Volckmann). 103 Ancora nella discussione dell’attrazione a distanza nei Principi metafisici egli richiamerà l’obiezione che Clarke avanzava in favore del suo concetto di presenza immateriale: non si può agire «là dove non si è» (seconda risposta di Clarke, CLC 48. Cf. MA 513).

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l’infusso reciproco tra spiriti e corpi. In base all’omogeneità tra spiriti e corpi egli ricava, quale corollario del principio di ragion determinante, la tesi della conservazione di una «quantità di realtà assoluta» (KgS I, 407). La duplicità fenomenologica del concetto di sostanza comporta che questa conservazione riguardi per un verso la quantità di movimento, ma nello stesso tempo debba avere anche una validità sul piano degli spiriti. Dopo aver enumerato i casi di conservazione meccanica e termica (le «forze immense» nascoste nei combustibili sono come «molle compresse»), Kant aggiunge (I, 408): Paiono senz’altro esenti da questa legge le forze degli spiriti e il loro progresso destinato a perpetuarsi verso ulteriori perfezioni. Per parte mia però sono convinto che ne dipendono. Senza dubbio la percezione infinita – quantunque affatto oscura – dell’intero universo sempre presente all’interno dell’anima, contiene già in sé quel tanto di realtà che comunque deve essere presente nei pensieri, destinati ad essere in seguito meglio chiariti; la mente poi semplicemente volgendo l’attenzione su taluni di essi (mentre la distrae di pari grado da altri) con l’investirli di più intensa luce, si va impadronendo di giorno in giorno di una sempre maggiore conoscenza, non già in quanto ne estenda l’ambito di realtà in assoluto (giacché il materiale di tutte le idee procedente dal nesso con l’universo permane identico): cambia tuttavia in maniera variamente determinata l’elemento formale, consistente nella combinazione delle nozioni e nell’applicazione dell’attenzione ora alla loro diversità ora alla loro convenienza.

Kant istituisce dunque una doppia analogia tra quantità di moto e «materiale delle idee» – che restano uguali, anche se fenomenologicamente latenti – e movimento e percezioni, i cui cambiamenti consistono in un elemento solo «formale», rispettivamente la direzione del movimento e la distinzione di questa o quell’idea. Gli esempi fisici pongono notevoli problemi (vi si mescolano quantità di moto e forze attrattive e repulsive, si assume una teoria del calore), l’analogia è in genere forzata; ma il passo ci interessa perché è uno dei pochissimi in cui Kant tocca il tema delle percezioni oscure, che tanta importanza aveva nella metafisica 104

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leibniziana. Non vi si trova però una giustificazione del peculiare innatismo che Kant riprende da Leibniz – si ricordi che i Nuovi saggi appariranno solo dopo 10 anni – né vengono trattati il criterio di distinzione delle percezioni e il significato del perfezionamento percettivo dal punto di vista cosmologico (in termini di azione e reazione). Kant si limita a considerare l’attenzione della monade come un elemento puramente formale, che non modifica la realtà assoluta ma ne muta solo l’aspetto relativamente alla percezione attuale. È una riaffermazione del monismo, la cui rigorosa conseguenza è il ritorno al determinismo e alla teoria della libertà leibniziana104. La questione è strettamente connessa a quella dell’attività delle sostanze, che ci interesserà in filosofia naturale. Essa viene ripresa nello stesso paragrafo sulla teoria dell’influsso, dove Kant sottolinea che le sostanze agiscono realmente (contro l’occasionalismo), pur negando l’immediatezza di questa azione (contro l’influsso fisico), anche se l’atto di conservazione divina è necessario tanto alla loro esistenza quanto alla loro azione. Abbiamo visto che l’attività percettiva non viene impiegata per spiegare l’influsso, mentre nella Monadologia physica l’attività fisico-dinamica ne fornisce una spiegazione esemplare. Addirittura, poi, ci è sembrato che il collegamento dell’armonia con una legge universale delle forze motrici fosse la segreta ragione per cui Kant ritiene preferibile la sua ipotesi rispetto a quella di Leibniz. Alla luce di tutte queste considerazioni si vede che l’unità metafisica del pensiero kantiano si regge in questi anni su una debole analogia tra realtà materiale e spirituale, mentre quasi tutta la sua evidenza poggia sulla fisica; e che, tolta quell’analogia, nel criticismo sarà possibile togliere all’interazione fisico-dinamica la qualifica metafisica dell’attività. Questo passaggio, in genere poco sottolineato, costituisce in effetti il più radicale allontanamento dalla lettera e dallo spirito della metafisica leibniziana, e coincide all’interno della filosofia naturale con la rinuncia a spiegare dinamicamente la vi104 Si veda la lunga discussione sul determinismo in margine alla Prop. IX, KgS I, 398-405: «quando la spontaneità poi viene determinata in conformità alla rappresentazione dell’ottimo, prende il nome di libertà».

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ta105. Kant resta lontano da questo esito fintanto che non rinuncia alla sua ipotesi monistica sulla sostanza, rappresentativa e dunque attiva, il che avverrà solo quando troverà una nuova e migliore teoria sulla legalità delle sostanze spirituali: una tale teoria, che verrà annunciata nei Träume eines Geistersehers del 1766, decreta la separazione di principio tra le teorie del mondo sensibile e del mondo intelligibile. Già in questi anni di teorico monismo, comunque, il ragionamento fisico procede autonomamente, e conduce verso l’acquisizione di un concetto di inerzia che completa il distacco dalla dinamica leibniziana (riguardo stavolta alla vis passiva derivata). Nel Neuer Lehrbegriff der Bewegung und Ruhe (1758) Kant sviluppa infatti una teoria cinematica dell’inerzia, fondata sull’esperienza della resistenza dei corpi (quella che oggi si chiama massa inerziale). La relatività del fenomeno del movimento comporta che nessun corpo possa considerarsi in quiete assoluta, e che azione e reazione (in senso meccanico) siano uguali106. Per denominare la proprietà empirica della massa inerziale, allora, si può anche attribuire ai corpi una forza di inerzia (come facevano in molti, tra cui Newton), ma «è una pura apparenza che essi l’abbiano in sé, in piena quiete, come una forza interna, giacché in realtà essi l’hanno soltanto perché sono in reale ed eguale movimento verso il corpo urtante, e non l’hanno giammai in quanto si trovano in quiete rispetto a questo» (KgS II, 20). Compare qui, in base alla teoria del105 A proposito all’attività della sostanza nella Nova dilucidatio gli interpreti si dividono. CAMPO parla di un tendenziale spinozismo (La genesi del criticismo, p. 118), mentre TONELLI (Elementi, p. 166, nota 130) prende per buone le affermazioni kantiane, di ispirazione leibniziana, sull’attività delle monadi. Al di là della intentio auctoris invocata giustamente da Tonelli la questione sembra a rigore insolubile, data l’approssimazione teorica di queste brevi pagine. Ma l’ipotesi di uno spinozismo suggerisce anche giustamente che Kant procede ormai al di fuori dell’orizzonte leibniziano e si colloca con le sue speculazioni metafisiche piuttosto in un contesto più vagamente cartesiano. Ricordiamo che la soluzione del criticismo (libertà pratica, determinismo dei fenomeni) conserva il riferimento a un fondamento omogeneo dei fenomeni interni ed esterni, lasciandolo inconoscibile. Sullo spinozismo nel Kant metafisico torneremo nelle note 156, 157, 165; cap. 3, note 66, 136. Per gli ultimi anni v. § 13.1.A. 106 Sul significato dei termini meccanici kantiani e sui dettagli argomentativi torneremo al momento di trattare della Meccanica del 1786 (cap. 9).

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l’influsso, quella relativizzazione dei concetti di massa e forza che avrà esiti dirompenti nella fisica del criticismo, con la definitiva eliminazione teorica della sostanza spirituale. Passando ora ad esaminare gli sviluppi della questione dello spazio negli anni ’60 e ’70 converrà tenere separate le ricerche sulla scomposizione del concetto di spazio da quelle sul fondamento intelligibile dello spazio: lo suggerisce il fatto che Kant nella Dissertazione del 1770, avendo abbandonato la prima questione (negli anni ’68-’70) – in un orizzonte ormai non più leibniziano – non considera senz’altro conclusa la seconda. Le proprietà geometriche dello spazio vengono collegate con i concetti della metafisica nella seconda parte dello Einzig mögliche Beweisgrund (1763). Kant assume che le determinazioni dello spazio siano necessarie (KgS II, 93). Tuttavia, sottolineando con enfasi l’uniformità delle «armoniche relazioni» tra le infinite proprietà dello spazio, egli suppone che esse dipendano da un «fondamento supremo dell’essenza delle cose» (II, 95). Questa armonia dipendente dall’essenza delle cose viene distinta dalla finalità contingente e apparentemente intenzionale di tanti fenomeni naturali, che costituiva l’ampio repertorio della fisico-teologia della prima metà del secolo. Per chiarire questa distinzione Kant discute il caso delle leggi del moto, richiamandosi alla «importante scoperta» di Maupertuis, ovvero il principio di minima azione. Si apre così un’ampia parentesi, per noi di grande importanza, in cui Kant prende posizione sulla disputa relativa alla contingenza o necessità delle leggi del moto (che come abbiamo visto è collegata a quella dello spazio fin dai Gedanken). La questione era molto discussa e aveva visto a lungo una prevalenza di diverse tesi sulla contingenza delle leggi, la cui eccezione era costituita dallo spinozismo. Essa era stata dunque riaperta con la presa di posizione di Maupertuis in favore di una necessità assoluta, e aveva dato occasione al concorso dell’Accademia delle scienze di Berlino del 1756107. Kant afferma la necessità assoluta delle leggi del moto, di107 Questo dibattito come è noto era stato molto intenso a partire da Descartes, che aveva sottolineato l’arbitrarietà delle leggi matematiche e fisiche. Quasi tutti i protagonisti della discussione successiva avevano sostenuto in diversi modi la contingenza

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chiarando di accogliere su questo punto le tesi di Maupertuis (KgS II, 99-100): Se la contingenza viene intesa realisticamente [im Realverstande] come consistente nella dipendenza dei materiali [Materialen] della possibilità da un altro, è evidente che le leggi del movimento e le proprietà universali della materia che obbediscono ad esse devono dipendere da un qualche grande essere originario comune, principio dell’ordine e dell’armonia. Infatti chi vorrebbe sostenere che in un ampio molteplice, in cui ogni singolo abbia la sua propria natura completamente indipendente, pure, per uno strano caso, tutto si adatti così a puntino da ben combinarsi reciprocamente e in modo che nel complesso ne venga fuori un’unità? Ma, poiché ciò che deve riempire uno spazio, ciò che dev’essere capace di movimento, di urto e di pressione, non può affatto essere pensato sotto condizioni diverse da quelle da cui scaturiscono in modo necessario le dette leggi, salta chiaramente [deutlich] agli occhi che il suddetto principio comune deve riguardare non soltanto l’esistenza di questa materia e delle proprietà ad essa conferite, ma anche la possibilità di una materia in generale e l’essenza stessa. Su questa base si comdelle leggi della natura (per es. Malebranche, Cudworth, Boyle, Newton e i suoi seguaci). Leibniz aveva ricavato alcune leggi dal principio di ragione e ne aveva altrimenti sostenuto la contingenza, ma non come arbitrarietà bensì secondo il principio di una scelta migliore, seguito poi da Wolff e da tutti i wolffiani. L’avversario comune era la tesi dell’assoluta necessità, sostenuta da Spinoza e identificata con l’ateismo. Toland, riprendendo e sviluppando la tesi della necessità, aveva sostenuto che, se la materia agisce necessariamente, allora anche le leggi del movimento devono essere necessarie. Ma si poteva attribuire un’attività alla materia e nello stesso tempo conservare la contingenza delle leggi: era la posizione dei newtoniani olandesi ’sGravesande e Musschenbroeck. Maupertuis aveva ipotizzato la necessità assoluta delle leggi del moto in una memoria del 1748 (Les loix du mouvement et du repos, déduites d’un principe de métaphysique, rist. come Recherche des lois du mouvement, in Oeuvres, IV, pp. 29-42), ma poi aveva sostenuto che questo stesso ordine testimoniava la saggezza del creatore (senza però riprendere la speculazione leibniziana sui mondi possibili). La posizione di Maupertuis aveva aperto un vivo dibattito, di cui è testimonianza il concorso bandito nel 1756: «Se la verità dei principi della statica e della meccanica è necessaria o contingente». Sull’intera vicenda e la sua ripresa in Kant si vedano: TONELLI, La nécessité des lois de la nature au XVIIIe siècle et chez Kant en 1762, «Revue d’histoire de sciences et de leurs applications», XII (1959), pp. 225-241; A. CHARRAK, Contingence et nécessité des lois de la nature au XVIIIe siècle, Paris 2006, in part. pp. 121-162.

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prende che queste leggi del movimento siano assolutamente necessarie alla materia, cioè che, presupposta la possibilità della materia, sia contraddittorio che essa agisca secondo altre leggi, il che è una necessità logica della più alta specie; ma si comprende anche che, nondimeno, la stessa possibilità intrinseca della materia, cioè i dati ed il reale che sta a fondamento di questo pensabile, non sia data indipendentemente o per se stessa, ma sia posta da un principio nel quale il molteplice ottiene unità e il diverso connessione, il che dimostra la contingenza delle leggi del movimento intese realisticamente.

Come di consueto Kant non riprende in blocco la tesi di Maupertuis, ma ne trae spunto per una propria teorizzazione originale (volendosi forse far scudo dell’autorità dell’uomo illustre per prevenire l’accusa di spinozismo). Egli di fatto presenta una tesi già avanzata nella Allgemeine Naturgeschichte108, attribuendo all’intera questione un rilievo strettamente metafisico e giungendo finanche a dichiarare che proprio il chiarimento di questo aspetto metafisico dovette essere la segreta intenzione del concorso accademico del ’56. Inoltre, mentre Maupertuis muoveva da diverse evidenze matematico-sperimentali, diverso è il modo in cui Kant giustifica la tesi, ricollegandola al suo «unico argomento» teologico109. Le leggi del moto sono contingenti riguardo all’esistenza, in quanto la materia della possibilità che ne definisce gli elementi dipende “realmente” da un essere necessario (è la tesi fondamentale della prima sezione); ma esse sono necessarie riguardo all’essenza. Dal punto di vista metafisico bisogna rilevare che Kant, per carat108 Nella Allgemeine Naturgeschichte la constatazione di una libera conformità a regole vantaggiose in natura suggerisce che gli «elementi di diversa natura» (come aria, acqua, calore) che producono le regolarità siano «riconducibili ad un intelletto infinito, nel quale furono concepite le proprietà essenziali di tutte le cose»; questo sarebbe «non soltanto la fonte di tutti gli esseri, ma anche delle prime leggi che ne regolano l’attività» (KgS I, 225-226). 109 Si noti che Kant pone l’attrazione tra gli esempi delle regolarità fisiche che ispirerebbero il principio di minima azione, e che egli la considera una conseguenza delle proprietà dello spazio. Abbiamo detto invece di quanto scrupolo sperimentale precedette la piena accettazione della legge di gravità newtoniana da parte di Maupertuis. Sul principio di minima azione in Maupertuis si veda l’appendice a M. GUEROULT, Leibniz. Dynamique et métaphysique, Paris 1967.

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terizzare la contingenza della materia riguardo alla sua esistenza, adombra quel concetto di «fondamento reale» che verrà approfondito nello scritto sulle quantità negative – con l’esempio dell’atto volontario della creazione – e che serve a tenere a distanza la «necessità assoluta» dal suo sviluppo spinoziano e conservare la rappresentazione dell’«autore intelligente»110. Ma la questione che ci interessa approfondire è fisica: dato che l’intenzione kantiana è separare l’ordine dinamico della natura dall’intervento di Dio (al punto di ipotizzare una legalità della stessa storia), la necessità in questione, benché Kant la ricolleghi alla bontà divina, va dimostrata analiticamente. Dunque: perché le leggi del moto sarebbero necessarie? Bisogna rispondere: questa necessità discende per Kant da quella delle proprietà dello spazio. Questa deduzione viene qui solo accennata, dove si parla delle «condizioni» da cui scaturiscono in modo necessario le leggi, che non possono essere altre che quelle geometriche, e poi più avanti ripresa con l’esempio delle leggi dell’urto111. Ma sappiamo che Kant possiede un solo genere di teoria riguardo alle leggi «essenziali» della materia che sta considerando (riempimento dello spazio, urto, ecc.), ovvero quella elaborata negli scritti degli anni ’56-’58 in cui le leggi delle forze attrattive e repulsive (Monadologia physica), la legge di inerzia e 110 KgS II, 85-86 (critica dell’appartenenenza di tutte le proprietà a Dio, in base al principio dell’opposizione reale; esse sono piuttosto sue conseguenze); II, 87 (rapido richiamo sulla determinazione a priori dell’essere necessario come dotato di intelletto e volontà – in quanto perfezioni); II, 123 (ripresa della questione dal punto di vista «a posteriori» della fisico-teologia). Si tratta di posizioni di un antropomorfismo che, pur su basi diversissime, si conserva ancora nelle opere del criticismo. 111 KgS II, 133-134: «Io credo che concetti universali dell’unità degli oggetti matematici possano dare a conoscere anche le ragioni dell’unità e della perfezione della natura [...] I rapporti spaziali sono così infinitamente vari, e nondimeno permettono una così certa conoscenza e una così chiara intuizione, che, come hanno hanno già servito eccellentemente da simboli per conoscenze di tutt’altra specie (per es., ad esprimere le aspettative negli eventi fortuiti), così possono fornirci anche il mezzo per riconoscere, dai più semplici e universali principi, le regole della perfezione delle leggi causali necessarie della natura, in quanto queste dipendono da rapporti». I soli casi che vengono discussi sono le leggi dell’urto, rispetto a cui Kant sottolinea quel principio di «uguaglianza» dei rapporti, o simmetria, che dominerà ancora tutta la fisica pura fondata sull’Estetica trascendentale. Si vedano le conclusioni di questo capitolo, § 2.5, e § 9.3.C per l’esame specifico della questione meccanica.

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la legge di azione e reazione (Neuer Lehrbegriff) vengono derivate in base a considerazioni puramente geometriche. Si capisce dunque che egli possiede già degli argomenti originali a sostegno della tesi generale che ora decide di avanzare: posta la necessità delle proprietà dello spazio sono necessarie anche le proprietà della materia e del movimento112. Poste queste ultime, si può procedere a una storia della natura priva di qualsiasi ipotesi teleologica particolare113. La tesi kantiana poggia dunque, in ultima analisi, sulla necessità delle proprietà dello spazio. Tra gli esempi di materiali o «dati» della possibilità delle cose vi sono infatti anche concetti geometrici come triangolo e angolo retto, e la possibilità di un triangolo rettangolo viene ricavata dal principio di contraddizione (KgS II, 77). Ora, come viene sostenuto nella seconda parte del libro, mentre il passaggio all’esistenza delle cose dipende dal volere di Dio, la disposizione all’ordine dipende dalla possibilità delle cose e non dall’arbitrio divino. Il fatto che Kant attribuisca nello stesso tempo questo ordine a un disegno intelligente non può dunque significare la possibilità di una scelta diversa nella combinazione dei 112 Si vede dunque che, nonostante la critica ai metafisici e l’importanza attribuita alla considerazione dei risultati matematici, Kant accoglie una posizione inversa a quella sostenuta da Euler all’inizio delle sue Réflexions sur l’espace et le tems (Mémoires de l’académie des sciences de Berlin, IV (1748), Berlin 1750, pp. 324-333; EOO s. III, 2, pp. 376-383) – benché poi quest’ultima opera sia favorevolmente citata all’inizio dello scritto sulle quantità negative per illustrare l’opportunità di rivolgersi agli scritti dei matematici al fine di evitare le astrattezze dei metafisici (KgS II, 168). Euler infatti assume gli assiomi della fisica di Newton per ricavarne la necessità di spazio e tempo assoluti. Kant al contrario invita chiaramente a indagare il fondamento metafisico di spazio e tempo, per ricavarne la necessità delle leggi di natura. La necessità di assumere lo spazio puro quale principio della geometria e della fisica, che viene conservato nella filosofia critica, non esonera dunque i filosofi dal dovere di farne un esame metafisico e gnoseologico. 113 Nella nuova cornice di questo scritto, dunque, Kant riprende le sue obiezioni alle tesi newtoniane dell’intervento divino nel corso della natura (KgS II, 120-121) e ripresenta la cosmogonia newtoniana emendata della Allgemeine Naturgeschichte (II, 137-151). L’eccezione degli organismi lo conduce ad ammettere l’insufficienza delle semplici leggi meccaniche per spiegare la generazione, auspicando però la ricerca di una spiegazione per quanto possibile esente dal ricorso al soprannaturale (II, 114115).

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possibili114. Abbiamo visto del resto che Kant, già nel ’56, ha rovesciato l’ipotesi (del ’47) di una dipendenza della tridimensionalità dello spazio dalla legge (contingente) di gravitazione. Egli abbraccia dunque la tesi della necessità logica delle verità geometriche e di conseguenza anche quella della necessità delle leggi meccaniche universali. Il compito filosofico di una scomposizione del concetto di spazio viene esaminato nello scritto Über die Deutlichkeit der Grundsätze der natürlichen Theologie und der Moral, composto approssimativamente nello stesso periodo115. Si tratta di un esempio di definizione filosofica, che deve essere stabilita con la metodologia analitica e considerando il generale in abstracto (cioè senza l’ausilio di segni e figure, ma considerando il puro significato delle parole), e che si contrappone alle definizioni matematiche, che procedono per costruzione. Dato il concetto di spazio, l’analisi filoso114 Proprio a tal fine Kant introduce una distinzione tra dipendenza «morale» e «amorale» di tutte le cose da Dio nella Seconda considerazione. Si veda in part. KgS II, 100-101: «La possibilità intrinseca delle cose presenta a colui che ne decide l’esistenza, i materiali, i quali contengono una singolare capacità di accordo e un’insita adattabilità ad un tutto molteplicemente ordinabile e bello. Che un’atmosfera esista, per i fini da raggiungere con essa, può essere attribuito a Dio come principio morale. Ma che vi sia, nell’essere di un unico principio così semplice, tanta fecondità; che vi siano, insite già nella sua possibilità, tanta convenienza e armonia, da non aver esso bisogno di una nuova disposizione per accordarsi, in conformità alle molteplici regole dell’ordine, con altre cose possibili di un mondo, ciò non può esser di nuovo attribuito ad una libera scelta». Cf. II, 145: «Nelle proprietà dello spazio vi sono rapporti belli, e nell’immenso molteplice delle sue determinazioni vi è un’unità meravigliosa. L’esistenza di tutta questa armonia, in quanto la materia dovette riempire lo spazio, è da attribuire, con tutte le sue conseguenze, all’arbitrio della causa prima; ma per quanto concerne la reciproca adattabilità di tante conseguenze, che, tutte, stanno in così grande armonia con le cose del mondo, sarebbe assurdo ricercarla di nuovo in un volere»: dove Kant sembra distinguere l’armonia, intrinseca alle proprietà dello spazio, dall’esistenza come riempimento materiale, cui spetta lo stesso ordine indipendentemente dal decreto divino. Il riferimento a una «regola dell’ottimo» è a p. 109, ma esso va inteso (come faceva già Maupertuis) nel senso che l’ordine stesso, per quanto sia il solo possibile, è prova di un creatore intelligente. Anzi Kant deriva da questa necessità la superiorità del suo argomento fisico-teologico rispetto a quello che considera l’ordine della natura contingente, sostenendo che quest’ultimo prova l’esistenza di un «direttore» intelligente, che non è però anche creatore (II, 122-123; 124-125). 115 Sulla redazione dei due scritti si veda KgS II, 470, 494.

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fica può procedere a una scomposizione (Zergliederung) delle sue note caratteristiche (Merkmale), tra le quali Kant elenca la stessa relazione di esteriorità tra le cose e la tridimensionalità. L’espressione di queste proprietà costituisce dunque altrettante «proposizioni fondamentali» indimostrabili, alle quali la comprensione filosofica si deve arrestare. Si è infatti raggiunto il «concetto distinto della cosa», che si esprime nei «pensieri semplici»116. Le operazioni in cui consiste questa scomposizione delle idee sono indicate come «confronto, subordinazione e delimitazione». In generale Kant pensa a una scomposizione logica di un concetto complesso nelle sue note semplici, fino a generi sommi. Abbraccia dunque la nozione di una «sicura esperienza interiore, cioè una coscienza evidente [augenscheinlich] immediata», che permette in metafisica di possedere conoscenze distinte anche senza aver scomposto fino in fondo i concetti nella loro definizione117. Il modello della scomposizione dei concetti in generi e specie si rivelerà però impraticabile per la risoluzione delle forme dell’intuizione, determinando una radicale innovazione delle dottrine logiche kantiane118. 116 KgS II, 277-278, 28-282, 283. Kant considera qui legittimo il punto di vista dei matematici, per i quali lo spazio è un «dato», poiché ritiene inutile per la matematica un’analisi filosofica dei suoi concetti fondamentali: giudizio che non abbandonerà mai. D’altra parte egli considera la risoluzione dello spazio – come quella del tempo – possibile «solo in parte» (II, 281): ma non è chiaro cosa possa intendere, perché la risoluzione è sempre possibile fino ai concetti semplici e non oltre; forse vuol dire piuttosto che – come nel caso dei sentimenti umani, addotto successivamente – essi sono stati scomposti solo in parte, mentre occorre proseguire alla ricerca di diversi «concetti elementari». 117 KgS II 286. Si tratta del passo in cui il metodo della metafisica viene paragonato a quello di Newton in fisica, dove la conoscenza delle leggi di alcuni fenomeni possiede una certezza, anche se non se ne «discerne il primo fondamento nei corpi». Dunque alla compiuta scomposizione dei concetti corrisponde qui la conoscenza della loro «intera essenza». Sappiamo che, tanto nel caso della gravitazione, quanto in quello dello spazio, ciò significava dal punto di vista della cosmologia d’impostazione leibniziana e wolffiana risolvere lo spazio nelle proprietà delle sostanze. In realtà tutte le considerazioni di Kant sui molteplici assiomi filosofici e sull’evidenza sono riprese da Crusius: cf. rispettivamente KgS II, 293, e CRUSIUS, Weg zur Gewißheit und Zuverlässigkeit der menschlichen Erkenntnis, Leipzig 1747, § 185 (rist. in Hauptwerke, III, Hildesheim 1965). Sull’analogia con il metodo di Newton si veda infra § 4.2. 118 Sull’esigenza di una definizione filosofica ottenuta per via di «sviluppo di idee

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Ma l’indagine sui metodi di matematica e metafisica, per ora, ha già portato a una importante revisione degli assunti metafisici precedentemente condivisi da Kant. Egli infatti accoglie ora la tesi dei matematici secondo cui lo spazio non si compone di parti semplici, distinguendola da quella metafisica – che non esclude – secondo cui i corpi consisterebbero di parti semplici (KgS II, 281, 287). Sembra dunque che Kant avverta il bisogno di un chiarimento concettuale, poiché, introducendo le sue tesi della monadologia fisica sulla composizione dei corpi, decide di chiamare le «parti semplici» dei corpi «elementi» e non sostanze. Questo ritorno alla terminologia ortodossa del wolffismo – come confermano le riflessioni manoscritte119 – segnala che Kant giunge in questi anni a rendersi conto dello iato tra la sua ipotesi metafisica sullo spazio come fenomeno delle relazioni tra le sostanze (nella Nova dilucidatio) e la sua monadologia fisica, e riconosce ormai che ricavare da quest’ultima una definizione dello spazio è inconsistente, mentre essa può restare valida come dottrina strettamente fisica (cioè cosmologica in senso wolffiano). In effetti egli presenta come esempio di un problema filosofico irrisolto quello di provare la localizzazione deloscure, comparazione, subordinazione e limitazione» si veda KgS II, 283-284. Cf. Logik, KgS IX, 93-95. Il fatto che Kant venisse messo sulla via delle dottrine dell’Estetica precisamente dalla inadeguatezza della subordinazione logica secondo genere e specie per descrivere il campo delle intuizioni sensibili, prima e piuttosto che dalla scoperta delle antinomie, è stato sottolineato già da TONELLI, Kant, pp. 241-242, 246ss. e poi ID., Die Umwälzung von 1769 bei Kant, «Kant-Studien» 54 (1963), pp. 369-375. 119 A cominciare dalle più antiche riflessioni – se si segue la datazione canonica – troviamo subito entrambe le tesi: che spazio e tempo non siano concetti primitivi (Refl. 3709, ca. 1762-3, KgS XVII, 250) e che invece lo siano (Refl. 3716, prima del 176468, KgS XVII, 257). Viene qui aggiunta la forza, secondo una triade che, come abbiamo visto, si trova già in Crusius. La contrapposizione trova una formulazione dilemmatica nella Refl. 3790 (ca. 1764-68, KgS XVII, 293): «O lo spazio contiene il fondamento della possibilità della compresenza di molte sostanze e delle loro relazioni, o queste contengono il fondamento della possibilità dello spazio». Riguardo ai concetti matematici, almeno una volta Kant ipotizza che i «concetti elementari» vadano cercati nell’esperienza (Refl. 3744, 1764-68, KgS XVII, 280). Così, quando si legge che «il principio della forma di tutte le esperienze sono spazio e tempo» (Refl. 3717, KgS XVII, 260) bisogna tener presente che Kant non si è ancora affrancato dalla concezione dell’evidenza di Crusius, che considera certezza empirica e certezza assiomatica come due specie di una stessa evidenza immediata.

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l’anima, e dunque l’identificazione tra l’anima e l’«elemento della materia». Se infatti quest’ultimo riempie lo spazio mediante la sua forza di impenetrabilità, il modo in cui l’anima è presente nello spazio è «inconcepibile» (KgS II, 293). Kant ha dunque distinto l’elemento dei corpi, la cui azione esterna è l’impenetrabilità, dall’anima. La questione viene ripresa e approfondita nel Versuch, den Begriff der negativen Grössen in die Weltweisheit einzuführen (1763): se anche il primo fondamento dello spazio devono essere delle sostanze semplici, esse non possono comunque comporre lo spazio al modo di punti (KgS II, 168). La trattazione della opposizione reale e del fondamento reale, nel resto del saggio, stabilisce una separazione di piano tra fisica e metafisica. L’azione della forza repulsiva costituisce un «fondamento reale» dell’impenetrabilità, che dipende da una opposizione reale tra le forze motrici, e dunque non può essere ricavata come causa per scomposizione, in base al principio di identità. È significativo che questo chiarimento venga rivolto contro Crusius, cioè l’autore da cui Kant riprende, contro Wolff, la tematica dei molteplici assiomi indimostrabili in filosofia; esso vale però anche per il suo argomento sul riempimento dinamico dello spazio, che nella Untersuchung, conclusa l’anno precedente, veniva presentato ancora come esempio di analisi filosofica120. Che dire invece della scomposizione del concetto di spazio 120 KgS II, 179-180. CRUSIUS, Entwurf, § 402, pp. 775-776 (cf. § 15): «Non si lascia pensare la compenetrazione di due sostanze finite». Crusius ricava dunque l’impenetrabilità dal suo principio di pensabilità, che Kant aveva censurato nella Untersuchung perché esprimerebbe una tautologia e rischierebbe di far confondere ciò che è indimostrabile con ciò che lo è (KgS II, 295). Ora Crusius viene criticato per non aver compreso adeguatamente l’opposizione reale a causa della sua ignoranza in matematica (KgS II, 169): Kant rimanda a Newton per l’ipotesi di un passaggio continuo dall’attrazione alla repulsione nelle forze microscopiche (cf. NEWTON, Opticks, Query 31, p. 395 – si noti peraltro che Newton ipotizza una repulsione che ha inizio oltre una certa distanza dai corpi, e non entro una certa distanza, secondo l’ipotesi della Monadologia physica). L’assurdità di ricavare l’impenetrabilità dal principio di contraddizione costituirà un leit motiv della dinamica pura kantiana. Nei Principi metafisici egli rivolge l’obiezione a Lambert, che nel Neues Organon (1764) pone la solidità come proprietà semplice, considerandola invece un effetto in base alla sua costruzione nell’intuizione pura (si veda infra § 8.2 A). Anche Leibniz aveva basato l’impenetrabilità sul

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in metafisica? Essa – stando alla nuova teoria – dovrà consistere nella posizione dello spazio in base a un fondamento «secondo la regola dell’identità». Rispetto allo scritto metodologico dell’anno precedente viene dunque aggiunto un importante chiarimento dalle grandi conseguenze. Era già implicito che, se la dimostrazione matematica è costruttiva, allora dovranno esserlo anche quella dell’impenetrabilità e in genere di ogni proprietà meccanica; ora viene chiarito che questo procedimento comporta il riferimento all’opposizione reale e dunque non può essere basato sul solo principio di contraddizione, ma richiede una specifica operazione di sintesi121. D’altra parte, la sinteticità del metodo matematico non tocca la questione dell’analisi filosofica del concetto di spazio, nel quale si trovano i presupposti dell’ordine armonico di tutte le proprietà spaziali. Questo veramente aprirebbe lascerebbe aperta la possibilità teorica di una compiuta analisi delle proprietà spaziali, possibilità che Kant preclude ai matematici, ma non ai filosofi, senza dunque escludere una sorta di analitica geometrica122. Ma è significativo proprio il fatto che una tale possibilità non venga mai discussa, perché Kant principio di contraddizione, ma nel contesto della sua metafisica ciò doveva costituire verosimilmente una conseguenza alla distinzione qualitativa tra le monadi. Kant non discute mai questa connessione teorica. 121 Il concetto della Realrepugnanz, distinta da quella logica, si trova con l’esempio del movimento già nel Beweisgrund, KgS II, 86. 122 Sulla primitività della definizione di spazio per i matematici si veda KgS II, 279280. L’esempio è Wolff, che volle definire la similitudine in termini generali, per poi ricavarne come caso speciale una «definizione analitica» della similitudine geometrica (KgS II, 277; cf. WOLFF, Anfangsgründe aller mathematischen Wissenschaften (Halle 17101), Franfurt/Leipzig 17507, (rist. in WGW I, 12), p. 118). La definizione accolta da Kant è ricavata dall’intuizione: l’esempio è l’immaginazione di triangoli simili. In questo senso si capisce che Kant rifiuta definizioni puramente logiche. È singolare che proprio dalla ricerca di una definizione fenomenologica di similitudine (in base alla distinguibilità mediante sola compercezione), e dunque di congruenza, muovevano i tentativi leibniziani di dar fondamento alla sua analysis situs: «Simili sono le cose di medesima qualità. Se due cose simili sono diverse, non si possono distinguere se non per compresenza» (Initia rerum mathematicarum metaphysica, GM VII, 19). Leibniz dichiarò di essere intervenuto per chiarire i suoi pensieri riguardo alla illustrazione fatta da Wolff, «secondo il suo stile [pro more suo]», di «certe mie riflessioni sopra l’analisi degli assiomi e la natura della similitudine» (ivi, p. 17; cors. mio).

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non riesce a sviluppare l’analisi logica dello spazio, e anzi, come testimoniano le riflessioni manoscritte, si avvia in questi anni verso l’ipotesi che lo spazio non sia concetto ma intuizione123. Si noti, infine, che nel criticismo l’armonia delle relazioni spaziali (che è sempre indipendente dalla concezione costruttiva della definizione e della dimostrazione matematica) verrà attribuita alla sintesi intellettuale della forma dell’intuizione124. 123 Il passaggio dalla determinazione di concetto a quella di intuizione è argomentato nelle Refl. 4071-4073 (1769, KgS XVII, 404-405), in base alla singolarità e alla suddivisione interna per limitazione. La Refl. 4507, post 1771-ante 1776, KgS XVII, 577 conclude che lo spazio non è un concetto perché esso non è cosa in sé, né rapporto. Tutti questi giudizi dipendono strettamente dai presupposti logici di Kant. Secondo FRIEDMAN, Kant and the Exact Sciences, in part. pp. 63-66, Kant poté concludere che le relazioni spaziali non sono omogenee a quelle poste dai concetti a causa del fatto che gli mancava una logica «poliadica» come quella fregeana. La questione della definizione logica non esaurisce comunque quella trascendentale, che Kant sta per porre, e cioè: i termini reali delle relazioni, le sostanze, sono rappresentabili senza presupporre lo spazio? 124 Cf. Prolegomena, § 38 (1783), KgS IV, 320-322. Nel § 62 della Kritik der Urteilskraft Kant trova in questa armonia una conferma dell’idealità dello spazio (KgS V, 362-366). Quanto si legge qui per spiegare l’entusiasmo di Platone per la geometria è riferibile perfettamente – come di consueto in Kant – anche alle sue speculazioni giovanili sullo spazio: «Ma anche il fondamento della ammirazione di una conformità a scopi, sebbene percepita nell’essenza delle cose (nella misura in cui i loro concetti possono essere costruiti), si lascia comprendere assai bene, cioè come legittima. Le molteplici regole, la cui unità (a partire da un principio) suscita questa ammirazione, sono nel loro complesso sintetiche e non seguono da un concetto dell’oggetto, per esempio del cerchio, ma richiedono che questo oggetto sia dato nell’intuizione. Ma proprio per ciò questa unità si presenta come se essa abbia empiricamente un fondamento esterno delle regole, distinto dalla nostra facoltà rappresentativa, e l’armonia dell’oggetto con il bisogno di regole che è proprio dell’intelletto sia quindi in sé contingente e perciò possibile solo mediante uno scopo espressamente diretto a ciò. Ora proprio tale armonia, poiché a dispetto di tutta questa conformità a scopi essa viene conosciuta non empiricamente ma a priori, da sé ci dovrebbe condurre a considerare che lo spazio, mediante la cui determinazione soltanto (per mezzo dell’immaginazione conformemente a un concetto) l’oggetto era possibile, non è una qualità [Beschaffenheit] delle cose fuori di me, ma è un semplice modo rappresentativo che è in me, e che io dunque nella figura che disegno a d e g u a t a m e n t e a u n c o n c e t t o , cioè nel mio modo proprio rappresentativo di ciò che mi viene dato esternamente, qualunque cosa esso sia in se stesso, i n t r o d u c o la c o n f o r m i t à a s c o p i , non sono su di essa istruito empiricamente da quel dato e quindi non ho bisogno di nessuno scopo particolare, esterno a me, nell’oggetto».

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Abbiamo detto che Kant, abbandonando l’analisi dello spazio, procedeva – sul solco di Crusius – verso il riconoscimento che esso è oggetto di una distinzione solo intuitiva, e che, nello stesso tempo, egli considerava nonostante questo ancora aperta la questione del fondamento metafisico dello spazio. Questo duplice atteggiamento, per esempio, determina i punti di consenso e di dissenso rispetto a Lambert, di cui è nota la prossimità teorica con Kant in questi anni125. Esso si coglie anche benissimo nei due scritti dedicati alla questione negli anni 1768-1770. La considerazione dello spazio come «concetto fondamentale» (Grundbegriff) è premessa dello scritto Von dem ersten Grunde des Unterschiedes der Gegenden im Raume del 1768, e ne influenza veromilmente la concessione della realtà dello spazio assoluto (infatti, se esso non è riducibile ad altro, come potrebbe essere ideale?). Ancora una volta gli scritti dei geometri vengono considerati il luogo privilegiato di ispirazione per una determinazione del concetto di spazio, che deve avvenire a partire dai «giudizi intuitivi della geometria» (KgS II, 378). Come si vede la distinzione di un concetto semplice viene cercata nell’intuizione, ed è questa la ragione per cui Kant con125 Lambert assumeva la semplicità e indefinibilità della nozione di «estensione o spazio» in molti luoghi: si veda per es. Neues Organon, Alethiologie, §§ 36, 121; Anlage zur Architectonic, oder teorie des Einfachen und des Ersten in der philosophischen und mathematischen Erkenntniß, Riga 1771, I, §§ 46, 79 (rist. in ID., Philosophische Schriften, vol. III, Hildesheim 1965). Nello stesso tempo, egli convergeva verso le riserve maturate da Kant rispetto agli “elementi” wolffiani. Si veda la lettera a Holland del 20 ottobre 1765, J.H. Lamberts deutscher gelehrter Briefwechsel, vol. I, pp. 99-100: «In realtà perché gli entia simplicia furono tanto saccheggiati che non rimase loro né grandezza, né forma, né estensione, né la maggioranza delle forze, né proprietà e insomma quasi più niente? Indubbiamente perché si cercarono gli entia simplicia nel luogo sbagliato, cioè nella materia e nella sua divisibilità. Così si può giungere sì ad elementi materiali non ulteriormente divisi actu ma ancora divisibili, non però a ciò che propriamente si voleva cercare, cioè a sostanze che abbiano forze, o alle quali le forze siano altrettanto proprie quanto l’inertia della materia». Lambert proponeva forze come «sostanze immateriali», quali condizioni della durezza e del moto di cui abbiamo solo una espressione simbolica, in analogia con le sostanze materiali. Ma egli non sviluppava il nesso tra sostanze, forze e spazio. È significativo che Kant annotasse, negli anni ’70, che Lambert aveva analizzato la ragione, senza però svolgerne una «critica», e perciò distinguesse radicalmente la sua impresa da quella di quest’ultimo (Refl. 4866, 4900, ca. 1776-8; KgS XVIII, 14; 23).

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sidera inadeguato il tentativo di Euler, che muove invece dalle leggi della meccanica, e dunque scambia un problema (la realtà dello spazio assoluto) con un altro (la validità delle leggi della meccanica). Lo spazio assoluto, tuttavia, non è in sé oggetto di sensazione esterna, e dunque si tratta di inferirlo come condizione di dati intuitivi. Compare qui l’argomento sugli opposti incongruenti che deve decidere in favore della esistenza di uno spazio assoluto. Conviene ai nostri fini almeno riassumerne la struttura: i rapporti esterni delle parti di materia, senza ricorrere alla relazione con lo spazio stesso, non sarebbero in grado di rendere conto dell’incongruenza di figure simili ma di opposto orientamento; perciò il fatto che si diano figure incongruenti (in geometria, ma anche nell’esperienza) rende necessario ammettere uno spazio assoluto, fondamento delle determinazioni geometriche, benché quest’ultimo non sia intuibile direttamente. Il ragionamento muove dall’esame di una proprietà delle relazioni spaziali che non si riesce a dedurre dalla considerazione delle sole proprietà «interne»; ripropone dunque, a partire da un esame dell’intuizione geometrica ed empirica, un caso di irriducibilità dell’esterno all’interno analogo a quello che veniva postulato a livello metafisico-cosmologico negli anni ’50. La differenza consiste nel fatto che si tratta qui di relazioni interne alle parti di una figura, non già interne metafisicamente126. Ciò offre occasione per un duplice commento. Dal punto di vista geometrico, da cui muove tutto lo scritto, la tesi kantiana non è espressa in modo chiarissimo, e continua anche perciò a dar luogo a molte discussioni in cui non entriamo. Ma – ciò che più ci importa – la questione metafisica non viene comunque ripresa: l’argomento degli incongruenti pretende di decidere in favore di una 126 Dall’esame degli incongruenti risulta comunque, secondo Kant, l’irrealizzabilità di una concezione relazionistica dello spazio, per cui vi si è potuto vedere l’atto di nascita di una nuova teoria della conoscenza sensibile antileibniziana. Per es. J.V. BUROKER, Space and Incongruence. The Origins of Kant’s Idealism, Dordrecht 1981. Anche Buroker (p. 42) rileva che lo iato tra monadologia kantiana e leibniziana dipenderebbe proprio dall’assenza di una metafisica della percezione, senza però approfondire la questione. La revisione gnoseologica, in ogni caso, era già in atto, e trova ora soltanto un nuovo argomento, ispirato verosimilmente dalla discussione tra Leibniz e Clarke sull’orientamento dell’universo.

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concezione dello spazio assoluto, e non relativo, così come, nel 1770, esso servirà a sostenere la concezione idealistica dello spazio come intuizione pura; non entra però nella questione metafisica di un fondamento intelligibile di spazio e tempo. Su questo punto infatti Kant non ha ancora detto l’ultima parola: geometria e metafisica non procedono più congiunte, ma hanno imboccato due strade parallele127. Tra l’analisi logica dello spazio, che viene abbandonata, e la ricerca sul suo fondamento metafisico, che resta aperta, vi era ovviamente un punto di convergenza nell’originaria teoria leibniziana. Poiché Kant ha riconquistato la distinzione tra la sostanza intelligibile e rappresentativa e l’elemento dei corpi, egli può ora separare un composto di sostanze spirituali (che come tale può non essere spaziale), spazio e tempo come tota analitica e continua (nel senso di: non composti di elementi semplici, ma precedenti le proprie parti), e infine i corpi come composti di elementi fisici128. Si pone dunque la possibilità di ripensare la definizione dello spazio come fenomeno mediante un confronto con le tesi gnoseologiche leibniziane. Definire lo spazio come fenomeno, infatti, comporta la necessità di un chiarimento sulla capacità dell’intuizione sensibile di esprimere le relazioni tra le cose in sé. Tra le riflessioni manoscritte di argomento metafisico troviamo prova del fatto che Kant effettivamente contemplò la possibilità di ricavare una definizione di spazio dall’analisi della percezione confusa, prima di abbandonare l’ipotesi. Si tratta di una riflessione che costituisce forse il luogo più istruttivo, negli scritti kantiani, riguardo al confronto diretto con la teoria leibniziana del fenomeno, e alle ragioni che ne decretarono l’abbandono prima ancora che fosse av127 Sulla continuità, in tal senso, tra la tesi del ’68 e quella del ’70 l’accordo tra gli studiosi è piuttosto diffuso. Del resto lo stesso Kant scrive che la realtà o idealità dello spazio non hanno importanza per la «sicurezza della conoscenza empirica» (KrV A 39/B 56) e precisa in una riflessione che Newton e Leibniz, come fisici, lo avrebbero presupposto entrambi come «contenitore sussistente», poiché la cosa era indifferente rispetto alle diverse tesi metafisiche sulla sua realtà o inerenza (Refl. 4673, ca. 17735, KgS XVII, 642). 128 Si vedano le Refl. 3789 (ca. 1764-6), 4066 (1769), KgS XVII, 293, 402. Refl. 4420-4421 (ca. 1771), KgS XVII, 539-540.

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vistato il profilo di una nuova estetica. Vi si coglie infatti il passaggio dall’originaria problematica cosmologica alla nuova indagine trascendentale: Il fondamento superiore della congiunzione è anche il fondamento formale della possibilità del commercio. Espresso in termini sensibili esso è lo spazio. Ma lo spazio è presumibilmente soltanto l’intuizione sensibile, cui sta a fondamento la coscienza immediata (l’intuizione intellettuale), ma in cui [essa] non può essere trovata mediante alcuna scomposizione. [il corsivo è mio]129

La prima proposizione riconduce la possibilità del commercio al concetto di congiunzione, che fin qui possiede una duplice valenza teologica e psicologica. La seconda proposizione, identificando lo spazio con questo fondamento «in termini sensibili» sembra ricalcare la via leibniziana, secondo cui il fondamento reale sarebbe appunto l’armonia prestabilita delle percezioni, e dunque l’atto creativo di Dio. Ma ciò rende necessario un chiarimento sulla genesi della rappresentazione spaziale a partire dalla rappresentazione delle cose, ed è proprio questo chiarimento che viene dichiarato impossibile nel periodo conclusivo. Ammessa l’intuizione intellettuale delle cose, cioè la tesi per cui la coscienza si rappresenta le cose come sono in se stesse, non è comunque possibile ricavarne il concetto mediante una scomposizione dell’intuizione 129 Refl. 4207 (1769-70), KgS XVII, 456 («Der oberste Grund der Verbindung ist auch der formale Grund der Moglichkeit des commercii. Sinnlich ausgedrückt ist es der Raum. Aber der Raum ist vermuthlich nur die sinnliche Anschauung, der das unmittelbare Bewustsein (intellectuale Anschauung) zu Grunde liegt, aber darin durch keine Zergliederung gefunden werden kan»). Si tratta di un commento al § 359 della Metaphysica di Baumgarten, che riguarda l’unicità del mondo. L’appunto comincia infatti: «Raum und Zeit sind formale Gründe der Möglichkeit einer Welt». Si noti che, nell’ultimo periodo, si potrebbe forse anche sottintendere ‘er’ invece di ‘sie’, e leggere: «ma in cui esso [lo spazio] non può essere trovato mediante alcuna scomposizione». Sembra però che lo escludano tanto la sintassi (il soggetto del periodo precedente è infatti la coscienza), quanto l’intelligibilità. Leggendo così risulterebbe che il concetto di spazio è più semplice di quello della coscienza, ma sarebbe arduo attribuire questa tesi a Kant. È chiaro invece che egli sta riflettendo sul passaggio dall’intuizione intellettuale (che ammetterà ancora nella dissertazione) all’intuizione sensibile, la quale nella metafisica leibniziana costituisce una corruzione della prima.

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sensibile, che sarebbe dunque una sua specie (intuizione intellettuale confusa). Kant ha dunque saputo porre la domanda fondamentale che nessun interprete di Leibniz aveva fin qui posto: come mai la percezione, in quanto propria della monade inestesa e non localizzata che percepisce oscuramente il mondo, si presenta secondo la forma dello spazio? La domanda gli resta però insolubile. Egli poi non può nemmeno vedere la strategia leibniziana per risolverla poiché, come vedremo tra breve, come negli anni ’50, egli concepisce ancora l’oscurità rappresentativa come una determinazione psicologico-dinamica. In un’altra importante riflessione, muovendo stavolta dal tempo, egli considera la successione come una proprietà intrinseca alla sostanza e comincia a domandarsi – a correzione di quanto veniva posto nella Nova dilucidatio – se non sia opportuno togliere al semplice il titolo di sostanza, e riservarne l’uso al campo fenomenico130. Per questo, verso la fine degli anni ’60, riterrà opportuno abbandonare la definizione dell’intuizione sensibile come rappresentazione confusa e, non trovando che le relazioni spaziali siano «effetti» delle cose, ma condizioni di possibilità di questi effetti, abbraccerà la tesi della «soggettività» del fenomeno131. Anche la deduzione dei corpi dalle sostanze, e dunque la monadologia fisica, verrà abbandonata, benché non sia facile stabilire quando. Infine viene raggiunta l’ipotesi di lasciare al sostrato intellettuale, che rimane ignoto, il compito solo negativo di impedire la confusione tra principi sensibili e principi intellettuali; ne consegue l’abbandono delle nozioni di «fenomeno sostanziato» o «intellettualizzato», che sono legate alla deduzione del dato sensibile in base a principi intelligibili, sia riguardo alla forma conoscitiva, sia ri4122, KgS XVII, 425. veda in particolare Refl. 4078 (1769), KgS XVII, 406. Si veda, all’altro termine del passaggio concettuale, la Refl. 4378 (ca. 1771? 1769-70?), KgS XVII, 525526: la sensibilità è qui la facoltà di ordinare le cose secondo i rapporti di spazio e tempo. Non è chiaro, nelle riflessioni di questi anni, se la soggettività sia semplicemente quella empirica, e da quando Kant intraveda la sua nozione trascendentale. In ogni caso, dato che si è parlato di una fase «scettica», è opportuno segnalare l’assenza di esplicite discussioni di Locke e Hume. A giudicare dalla terminologia i principali interlocutori teorici, per tutti gli anni ’60, restano Crusius e Lambert. 130 Refl. 131 Si

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guardo alla genesi dei corpi132. Ma prima di passare all’esame della dissertazione del ’70, dove si trova una metafisica indipendente da queste ricerche e successiva a questo passaggio, è opportuno tornare a seguire le vicende parallele dei concetti di sostanza e forza spirituali, che sono fondamentali per comprenderne la genesi. Questo problema riceve particolare attenzione nelle opere degli anni ’62-’66, e la cosa non stupisce. Dopo aver abbandonato due dei luoghi teorici con cui la monadologia leibniziana dimostrava l’esistenza della sostanza spirituale, ovvero l’analisi del continuo (monade come fondamento dello spazio) e quella del movimento (in cui si troverebbe prova di una spontaneità133), non resta infatti che indagare la dimensione propriamente psicologica e spirituale, che nelle opere precedenti era rimasta in ombra. Il problema di una conoscenza puramente intelligibile comincia a porsi nel Beweisgrund, laddove Kant riconosce che le leggi della libertà non sono identiche a quelle della natura materiale, pur sforzandosi di smorzare la possibilità che la storia umana progredisca verso il peggio (KgS II, 110-111). Lo stesso riconoscimento della doppia legalità si trova nel saggio sulle quantità negative, dove realtà fisiche e realtà psichiche figurano nondimeno come altrettanti campi di applicazione del concetto di opposizione reale. Questa apertura alla psicologia del conflitto e al calcolo dei piaceri, che Kant introduce ispirandosi a Maupertuis, nasconde probabilmente una preoccupazione più profonda. Con l’abbandono del 132 Cf. la Refl. 4316 (ca. 1770-71?; 1769?), KgS XVII, 504, secondo cui la sostanza non ha luogo né spazio, ma è capace di rappresentazione sensibile, e Kant si domanda se vi siano elementi semplici nello spazio. Cf. Refl. 4381 (ca. 1771?, ca. 17735?, 1776-8?) dove sostanza e impenetrabilità appartengono a due generi incompatibili, e la loro congiunzione produce un giudizio surrettizio (esattamente l’opposto di quanto era detto nei Gedanken!). L’eterogeneità del fondamento intelligibile e l’indeducibilità del sensibile, sia del corpo che della forma conoscitiva, sono comunque raggiunte nell’importante Refl. 4500 (post 1771-ante 1776), XVII 574-575, dove si trova un bilancio dell’interpretazione di Leibniz. 133 Abbiamo visto che Kant fin dagli anni ’50 concepisce l’attività dinamica in termini di una interazione reciproca tra le sostanze. Ma, ogni attività sul piano fisico – in quanto «esteriormente dipendente e costretta» – è perciò distinta dalla vera e propria spontaneità; questa semmai è propria della vita, la cui inerenza alla materia è però incomprensibile. Il chiarimento si trova nei Träume eines Geistersehers, KgS II, 327 e n.

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determinismo della Nova dilucidatio, infatti, anche la tesi là espressa di un’omogeneità delle sostanze non ha più ragion d’essere; se però si limita la conoscenza al campo dei processi fisici si rischia di prendere la via del materialismo. Si pone dunque la questione di una conoscibilità autonoma delle sostanze spirituali come cause reali del mutamento interiore. In proposito Kant ritorna sul concetto di oscurità, dandone una interpretazione psicologicodinamica134. Ma questo progetto comporta che la monade produca le rappresentazioni per la sua stessa forza, e insomma un ritorno al concetto di monade spirituale leibniziano, il cui correlato nel wolffismo era la psicologia razionale. Proprio a partire da un’indagine critica sulla possibilità di una psicologia razionale, intorno all’anno 1765, l’intero progetto di una riforma dogmatica della metafisi134 Kant (KgS II, 181) cita MAUPERTUIS, Essai de philosophie morale (Berlin 1749), che era stato tradotto in tedesco nel 1750. È noto che Maupertuis aveva scritto quest’opera per contrastare le tesi dei materialisti e in particolare dell’Anti-Séneque di La Mettrie. La difficoltà di stabilire leggi dei mutamenti spirituali, paragonabili a quelle meccaniche, è riconosciuta da Kant nel capitolo 3 (in part. II, 196). Ecco il passo sulla rappresentazione KgS II, 199-200: «C’è qualcosa di grande e, a quanto mi sembra, di molto esatto in quel pensiero del sig. von Leibniz: l’anima abbraccia l’intero universo con la sua forza rappresentativa, sebbene solo una parte infinitamente piccola di queste rappresentazioni sia chiara. E in effetti tutti i tipi di concetti non possono poggiare che sull’attività interiore del nostro spirito in quanto loro principio. Le cose esterne possono sì contenere la condizione sotto la quale si manifestano in un modo o nell’altro, ma non mai la forza di una effettiva produzione. La forza del pensiero dell’anima deve contenere il fondamento reale di tutte le cose nella misura in cui possono nascere in essa in modo naturale; e i fenomeni delle conoscenze che nascono e poi svaniscono sono evidentemente da attribuirsi soltanto all’accordo o all’opposizione di tutte queste attività». Nella nuova cornice, ritorna l’ipotesi del ’55 secondo cui la distinzione è il prodotto di un’attività di attenzione estensivamente finita su un materiale dato di rappresentazioni. Si noti che Kant applica il concetto dell’opposizione reale alla chiarezza delle rappresentazioni, in modo analogo a quanto avveniva nella monadologia leibniziana per giustificare le categorie di azione e passione. Ma piuttosto che opporre (come fa nel caso del piacere e del dispiacere), la crescita di distinzione delle rappresentazioni di un soggetto con la perdita di quella di un altro, il che sarebbe stato analogo a quanto accade in Leibniz, Kant considera la conservazione della quantità di distinzione come una proprietà delle rappresentazioni di una singola coscienza, secondo variazioni che dipendono dal modificarsi dell’attenzione (qui, peraltro, Kant ritrova il luogo del leibniziano appetitus, che non viene nemmeno menzionato). Le sue considerazioni sono insomma di psicologia empirica.

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ca va incontro alla sua dissoluzione. I primi dubbi vengono avanzati nell’annuncio delle lezioni per l’inverno 1765-66. Ma la dichiarazione di questa crisi, della conoscenza psicologica e quindi della metafisica in generale, si trova nei Träume eines Geistersehers del 1766135. Data la continuità di temi e metodi rispetto agli scritti precedenti è opportuno cercare di ricostruire il ragionamento che Kant sviluppa in questo scritto sotto il velo retorico dell’incredulità. La negazione di ogni conoscenza del soprasensibile, espressa a conclusione della prima parte (KgS II, 350), si può articolare in due passaggi: l’analisi del concetto di sostanza spirituale e il riconoscimento della mancanza di qualsiasi connessione legale che costituisca un presunto mondo spirituale. Il concetto di sostanza spirituale viene affrontato, conformemente alla metodologia filosofica impostata nel ’62, mediante un’analisi del significato della parola ‘spirito’ (II, 320). Kant afferma che, nel processo di distinzione che procede dall’analisi, si pone il

135 Nachricht von der Einrichtung seiner Vorlesungen in dem Winterhalbenjahre von 1765-1766, KgS II, 309. L’esposizione cominciava dalla psicologia empirica e dalla fisica, per arrivare solo successivamente all’ontologia, col vantaggio, offerto dalla precedenza della trattazione del concreto, di porre l’argomento «nella massima distinzione». A seguito della classificazione di tutti gli enti in viventi e non viventi doveva seguire però la trattazione della «connessione o separazione» degli enti spirituali e materiali, propria della psicologia razionale. Se dunque la psicologia razionale si fosse dimostrata incapace di risolvere la questione, sarebbe risultato necessario ripensare l’intera architettura della metafisica di questi anni. Si noti la conclusione di questo periodo: «Comincio perciò con una breve introduzione della psicologia empirica, che contiene propriamente la scienza empirica metafisica [metaphysische Erfahrungswissenschaft] dell’uomo; infatti, per quanto riguarda l’espressione ‘anima’, in questa sezione non è ancora permesso affermare che l’uomo ne abbia una». Proprio a questo tema si ricollega l’esordio dei Träume eines Geistersehers. Già all’epoca di questo testo, forse, è caduta l’idea di una psicologia razionale in senso wolffiano, e ha cominciato a sostituirla una nozione nuova di metafisica, di cui è forse indicativa la stessa espressione anfibia ‘metaphysische Erfahrungswissenschaft’. La redazione di nuovi scritti sui «principi metafisici» della filosofia naturale e di quella pratica viene comunicata a Lambert nello stesso periodo (lettera del 31 dicembre 1765, KgS X, 56). Non si sa se Kant fosse realmente in possesso di una redazione perduta; in ogni caso questo materiale si dovrà considerare preparatorio, ma certo non identico, con quanto si troverà nei «Principi metafisici» pubblicati negli anni del criticismo.

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problema del rapporto tra il concetto dell’‘avere una ragione’ e quello di un essere reale inesteso. Kant istituisce dunque un confronto tra elementi della materia (inestesi) e presunte sostanze spirituali: i primi riempiono lo spazio in un modo empiricamente determinato, l’impenetrabilità, e l’analisi ne riconduce la presenza a una sfera di attività dinamica (secondo le tesi della monadologia fisica): in questo caso è dunque empiricamente attestata la forza, anche se, tolta l’intuizione empirica della sua attività, non se può concepire la possibilità (II, 323-324). Lo spirito, in quanto distinto dall’elemento fisico, sarebbe invece un essere semplice caratterizzato da una presenza penetrabile nello spazio136. Sviluppando l’analogia con gli elementi dei corpi Kant cerca di determinarne la localizzazione mediante l’«esperienza comune», la quale attesterebbe una presenza dell’anima in tutte le parti del corpo. L’assurdità di un’estensione dell’anima nel corpo verrebbe tolta considerando anche la sua presenza nei termini di una «sfera di attività esterna» (II, 325). Kant tuttavia lascia cadere questa ipotesi: se si ammette in base alle suddette basi empiriche un’attività esterna dell’anima nello spazio viene meno ogni «caratteristica propria» dell’anima, che la distingua dall’elemento materiale, e si dà occasione a diverse assurdità. Con questo passaggio, dunque, Kant porta alla luce la più generale lacuna teorica della monadologia wolffiana. Resta però aperta la possibilità di considerare l’essere spirituale nella sua differenza specifica, che è la facoltà rappresentativa. Su questo punto l’indagine non raggiunge un esito negativo, ma aporetico: Kant ammette infatti che «ogni sostanza, anche un elemento semplice della materia, deve pure avere una qualche capacità interiore come fondamento dell’attività esteriore». Egli riconosce a questo punto la coerenza dell’ipotesi di Leibniz, secondo cui «questo fondamento interno di tutti i rapporti esterni e dei loro cambiamenti sarebbe una forza rappresentativa» (II, 328). L’ipotesi leib136 II, 320-321. È il concetto riportato nella discussione filosofica da Henry More e poi da Newton e dai newtoniani. A giudicare dalle ipotesi discusse sullo «spirito», non è escluso che Kant – pur dicendo di rifarsi all’«uso linguistico comune» (II, 347) – stesse qui riprendendo in mano direttamente l’Enchyridion di More. Lo stesso discorso vale per le riprese della questione negli scritti successivi.

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niziana di una intuizione (confusa) di tutto l’universo non viene però collegata con la soluzione del problema della presenza corporea. Troviamo dunque conferma dello scacco della metafisica kantiana: essa concepisce fin dall’inizio l’ipotesi leibniziana sulla sostanza spirituale come la sola coerente, ma non sa trarne un sistema del mondo perché riconosce quale «unico modo di collegamento» tra gli enti finiti quello fisico-dinamico (KgS II, 321, nota): Per una sostanza spirituale che [a differenza di Dio, spirito infinito] deve essere congiunta con la materia, come per esempio l’anima umana, si manifesta la difficoltà che, mentre devo pensare una reciproca connessione in un tutto di essa con esseri corporei, devo tuttavia togliere l’unico modo di collegamento che io conosca, quello che ha luogo tra enti materiali.

Muovendo dai fenomeni della rappresentazione e della vita, che rendono pensabili degli esseri spirituali, si può dunque formulare l’ipotesi di un «mondo intelligibile» che sarebbe un tutto da essi costituito137. La discussione del principio della vita, tuttavia, conferma da subito l’aporia in cui incorre la metafisica: poiché ogni spiegazione comprensibile rientra nell’ambito dei principi meccanici, dell’influsso di un principio immateriale della vita «si può riconoscere che vi è, ma non mai dire come avvenga» (II, 331). Se però si abbandona ogni criterio empirico, si può immaginare un mondo spirituale che, cessato il collegamento dell’anima con il corpo, si manifesterebbe «in chiara intuizione». Era un pericolo, si badi, cui si esponevano gli stessi newtoniani: Euler, per esempio, attribuiva la libertà alle anime e agli spiriti, in quanto sostanze semplici dotate di un’essenza del tutto diversa dai corpi138. È questo il punto in cui la speculazione, priva di qualsiasi supporto empirico, attinge all’immaginazione139. 137 KgS

II, 329-330. L’ipotesi è esposta alle pp. 334-337. von den Elementen der Cörper, §§ 52-54; EEO III, 2, pp. 361-362. 139 II, 332. Il punto di contatto tra la problematica metafisica e la figura del visionario viene in seguito stabilita in termini rigorosi: la rappresentazione estetica potrebbe essere presa per manifestazione confusa di un concetto soprasensibile, la visione come fenomeno di un «infusso spirituale vero» (II, 338-340). L’associazione che 138 Gedanken

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Per porre freno a simili fantasie Kant presenta una propria ipotesi sul mondo intelligibile, fondata sul «sentimento morale» in quanto «fenomeno» interno sottoposto a una «regola del volere universale». In base al fatto che la costrizione morale si manifesta come una «dipendenza» reciproca, Kant istituisce dunque una analogia tra questa azione reciproca spirituale, che conferirebbe unità al mondo intelligibile, e l’azione della gravitazione newtoniana (II, 335). Questa analogia, che Kant riprenderà nel criticismo, viene sviluppata qui nel tentativo di determinare effettivamente le «leggi pneumatiche» di un mondo intelligibile: per cui ogni anima prenderebbe un «posto» in accordo con il suo stato morale, così come i corpi assumono una posizione spaziale in accordo con le leggi del moto, e la distanza corrisponderebbe a un intervallo del grado di bontà (II, 336). Quest’ipotesi conferma che, mentre il tentativo di determinare una legalità omogenea delle sostanze è stato abbandonato, Kant considera ancora la possibilità di determinare una legalità specifica del mondo intelligibile dal punto di vista teoretico, trattando di sostanze e relazioni. L’analogia di una legalità moKant istituisce tra speculazione metafisica e immaginazione non era una forzatura, dal punto di vista delle discussioni di monadologia del wolffismo. Implicitamente, questo vale per l’«arte dell’analogo della ragione» di Baumgarten, che presupponeva pur sempre la validità teoretica delle analogie sul soprasensibile (e si noti che in queste pagine Kant sviluppa una teoria della conoscenza simbolica che verrà ripresa nella terza Critica). Ma, a causa dello statuto incerto del concetto di intuizione intellettuale, esistevano anche casi di abuso esplicito. Per esempio proprio a Königsberg era comparsa la dissertazione di uno dei professori colpiti dalla polemica antiwolffiana, Ch.G. FISCHER, Quaestio philosophica. An spiritus sint in loco?, Königsberg 1723. Qui la soluzione del problema della localizzazione veniva ricavata da una definizione della presenza in termini intenzionali e non locali. L’anima, dunque, esiste fintanto che pensa (§ 54) e si può trovare nei luoghi più diversi. Tra gli esempi di questa presenza virtuale Fischer includeva il paradiso e altri luoghi immateriali. Per cui davvero, in base a quest’opera di impostazione scolastica, la metafisica sconfina nel delirio: l’uomo «pone puri oggetti della sua immaginazione fuori si sé e li considera come cose realmente presenti» (KgS II, 346). 140 KgS II, 342-343. In sede di conclusioni di questa prima parte teoretica (II, 351352) Kant afferma che la dottrina filosofica degli esseri spirituali può essere compiuta solo come dottrina negativa di una «necessaria ignoranza riguardo a una supposta specie di esseri». Si prefigura dunque l’esito della critica della psicologia razionale, che verrà raggiunto nel criticismo con un nuovo esame sistematico.

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rale, che nel criticismo viene sviluppata per definire un «mondo intelligibile» in senso non teoretico, viene dunque sviluppata in senso ipostatico. L’ipotesi, in seguito, si rivela essere un esercizio dialettico: viene abbandonata perché è empiricamente infondata e perché conduce alla finzione di un mondo ideale privato, che manca appunto di ogni legalità universale140. Il fatto che Kant la liquidi scrivendo che essa non serve ai fini pratici (II, 369) non è affatto una boutade rousseauiana, bensì mostra che egli si rende già conto dello iato tra concetti morali e concetti teoretici, che quell’ipotesi trascurava. In effetti, benché Kant continui ancora per molti anni (in privato e a lezione) a esaminare le ipotesi sull’esistenza separata dell’anima, con questa opera, come egli stesso afferma (II, 352), si può considerare già raggiunto l’esito negativo della sua ricerca di una legalità metafisica che renda intelligibile il rapporto tra il mondo sensibile e le monadi che ne costituirebbero il fondamento immateriale141. Nello stesso tempo, come abbiamo rilevato, all’abbandono delle ipotesi leibniziane e wolffiane segue nella seconda metà degli anni ’60 un confronto con le posizioni metafisiche che facevano da sfondo alla fisica di Newton. Come nel caso precedente, tuttavia, l’approccio di Kant consiste nell’assumere le tesi di una parte, facendone però la critica. Così, la conclusione che le ipotesi sulla causa dell’agire volontario non possano essere altro che «finzioni» (Erdichtungen), tali da non potersi nemmeno paragonare alle «ipotesi» della scienza della natura che permettono di collegare i fenomeni secondo leggi empiriche, sembra rivolta soprattutto alla facilità con cui Newton e seguaci, dall’esperienza del movimento libero, traevano l’ipotesi dello spirito142. Conformemente a questo at141 È in effetti la resa dei conti con l’idealismo metafisico che Kant stesso aveva osteggiato fin dai suoi primi scritti. Cf. II, 365: «Swedenborg è un idealista, dal momento che nega che la materia di questo mondo abbia una propria sussistenza, e perciò intende forse considerarla solo un fenomeno coerente, che proviene dalla connessione del mondo degli spiriti». 142 II, 370-371. È significativo quel che scrisse Newton intervenendo nella polemica Leibniz-Clarke, riguardo all’assurdità di introdurre una ipotesi come l’armonia prestabilita per spiegare ciò che «l’esperienza giornaliera» mostrerebbe, e cioè il mo-

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teggiamento, nello scritto del 1768 dove riprendeva il problema dello spazio a partire dalle tesi dei newtoniani, egli non soltanto proponeva un proprio argomento originale in favore dello spazio assoluto, ma sottolineava anche l’importante conseguenza metafisica che questo spazio «esiste indipendente dall’esistenza di ogni materia ed ha anche una realtà propria come primo principio della possibilità della composizione della materia» (II, 378). Anche dal punto di vista di questo ritorno, molto libero, su nozioni newtoniane si capisce come mai l’abbandono della definizione relazionistica di spazio e la tesi della realtà dello spazio assoluto non escludessero ancora l’indagine su un fondamento metafisico dello spazio geometrico, ad esso eterogeneo. Per questa via, riflettendo sullo spazio della fisica newtoniana – che come tale non aveva una metafisica sua propria – Kant giungeva in prossimità di diverse ipotesi metafisiche sullo spazio, come quelle di Malebranche e Spinoza. Ne troviamo subito conferma considerando l’ultima espressione pubblica della metafisica precritica, nella dissertazione De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis (1770). Nel primo paragrafo del testo incontriamo un singolare ritorno a determinazioni leibniziane, in cui spicca d’altra parte l’abbandono di una definizione monadologica dello spazio. Discutendo il problema della rappresentazione sensibile del semplice e dell’infinito (KgS II, 387-389), Kant prende atto di un «dissenso tra facoltà sensitiva e facoltà intellettuale», da cui deriva una impossibilità «soggettiva» di rappresentare in concreto le idee astratte accettate dall’intelletto. Fin qui troviamo un ritorno a distinzioni sui fenomeni e gli intelligibili non estranee all’orizzonte leibniziano; ma da questa analisi viene tratta l’esigenza di una duplice trattazione cosmologica, a seconda che la forma del mondo venga definita seguendo le leggi della sensibilità o quelle dell’intellezione. Così spazio e tempo stabiliscono un rapporto tra parti di un tutto seconvimento volontario del corpo per azione dell’anima (lettera di Newton a Conti, 26 febbraio 1716, CLC 63). Abbiamo visto comunque che anche Knutzen fondava la certezza dell’influsso fisico sull’esperienza. Una posizione analoga era sostenuta da Lambert nella lettera Holland del 19 agosto 1765 (J.H. Lamberts deutscher gelehrter Briefwechsel, vol. I, pp. 76-85).

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do «leggi dell’animo» o «della sensibilità», che vengono conosciute in occasione dell’esperienza ma si devono nondimeno considerare innate143. Essi sono però fenomeni, che «testimoniano l’esistenza di un qualche principio comune di un nesso universale, ma non ancora lo espongono» (II, 391). Domandiamoci ora: cosa sarebbe qui il principio del nesso cosmologico, e come lo si conosce? Kant pone nel § 2 una importante distinzione tra «coordinazione» delle sostanze, che definisce la forma del mondo, e dunque il nesso tra le sostanze, e «subordinazione», che definisce il rapporto tra causa e causato, principio e principiato. Successivamente (§ 5) la subordinazione viene presentata anche come l’operazione fondamentale dell’«uso logico» dell’intelletto, che si può rivolgere indifferentemente a cognizioni intellettuali o sensibili. Mediante questa operazione, tuttavia, non è possibile caratterizzare le relazioni tra le cose – cioè la loro coordinazione – poiché essa ordina concetti secondo generi e specie: è questo uno dei punti chiave che, come conferma lo studio delle riflessioni manoscritte, hanno condotto Kant, attraverso la rielaborazione di concetti originariamente crusiani, verso la nuova teoria delle intuizioni pure144. Per stabilire la coordinazione tra i fenomeni, allora, Kant dichiara di adottare un duplice procedimento: la legge della sensibilità sarebbe stata trovata osservandone l’azione «in occasione dell’esperienza»145; nel caso della coordinazione tra le sostanze intelligibili, le relazioni dovranno essere «date» con l’«uso reale» dell’intelletto (II, 393). A questo punto, però, dovrà essere possibile definire un rapporto tra le forme della coordinazione sensibile e un «principio 143 KgS II, 404 («leges sensualitatis»), 406 («neque aliud hic connatum est nisi lex animi»). 144 I due sensi della «subordinazione» sono in CRUSIUS, Weg, §§ 132-137, pp. 232250. Il processo di rielaborazione delle nozioni di spazio e tempo, in quanto forme di «coordinazione» e non di «subordinazione», si può studiare in diverse interessanti riflessioni, per lo più ispirate da queste discussioni di Crusius. Si vedano in particolare: Refl. 3935, XVII, 354; n. 4048, XVII, 397. Sulla nozione di «coordinazione» nel Kant precritico e la sua origine nelle riflessioni estetiche dell’epoca, si veda TONELLI, Kant, pp. 171-173, 248-249, 264-265, 279-283. 145 KgS II, 395. Essa ha poi ovviamente diversi fondamenti non empirici, che vanno dall’argomento sugli incongruenti ai vari argomenti (originarietà, singolarità, validità della matematica, ecc.) che si ritroveranno nelle «esposizioni» dell’Estetica.

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dei possibili influssi» tra le sostanze che costituisce la «forma essenziale» del mondo. Questo rapporto, come viene precisato in seguito, non consiste in una somiglianza tra gli oggetti «come appaiono» e gli oggetti «come sono», né per la materia né per la forma146, anche se i fenomeni sono causati da essi147. Piuttosto la connessione spaziale in genere si può considerare come l’aspetto intuitivo di una relazione di tutte le sostanze, senza che ciò tolga l’esigenza di esporre forma e principio di questa relazione in termini intellettuali148. Nella sezione dedicata al principio della forma del mondo intelligibile, cioè della possibilità del commercio tra le sostanze, troviamo però una trattazione manchevole, che Kant stesso quasi subito dichiarò insoddisfacente149. Vi si ritrovano in primo luogo, nella nuova cornice, i ragionamenti cosmologici del ’55 e del ’63: (§ 17) Le sostanze come tali sono contingenti, ma in quanto contingenti non sono immediatamente in relazione reciproca, bensì tutte separatamente in relazione a una causa. Pertanto, se passa tra di esse qualche relazione, occorre una ragione che la determini (il che esclude l’influsso fisico, che pretende di concepire queste relazioni immediatamente). (§ 18) Se tali sostanze fossero tutte necessarie, esse non formerebbero nemmeno un tutto. (§ 19) Dunque un tutto di sostanze è un tutto di sostanze contingenti, il mondo, che ha la sua causa fuori di sé. (§ 20) Questa causa è un singolo ente, o non vi sarebbe relazione mediata tra le sostanze: «l’unità nella congiunzione delle sostanze dell’universo è conseguente alla dipendenza di tutte da un ente [ab uno]» (II, 408). Ritroviamo così il 146 KgS II, 393: «Inoltre la sensazione, che costituisce la materia della rappresentazione sensuale, tradisce sì la presenza di qualcosa di sensibile, ma qualitativamente dipende dalla natura del soggetto, in quanto modificabile da questo oggetto; parimenti anche la forma della medesima rappresentazione attesta sì un certo rapporto rispettivo [respectus] o relazione propria dei sensi, ma non è propriamente un adombramento o schema dell’oggetto». 147 KgS II, 397: «[I fenomeni] essendo concetti sensuali o apprensioni, testimoniano come causati della presenza dell’oggetto: e ciò vale contro l’idealismo». 148 È la domanda che introduce la sezione sul mondo intelligibile (II, 406): «Su che principio poggi questa relazione di tutte le sostanze, che riguardata intuitivamente [intuitive spectata] si chiama spazio». 149 Lettera a Lambert del 2 settembre 1770 (KgS X, 98).

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nesso necessario in virtù del «sostenersi [per sustentationem] di tutte le cose da un principio comune», e l’armonia «generalmente prestabilita», che viene opposta a quella «singolarmente stabilita» – cioè senza legge universale – leibniziana, rendendo possibile l’influsso reale tra le sostanze. Si noti intanto che, conformemente alle conclusioni dei Träume eines Geistersehers, Kant ha rinunciato a una determinazione dell’influsso. La questione cardine che si voleva risolvere era «in che modo in generale abbia luogo un nesso tra molti e una totalità tra tutti» (II, 407). Ma il nesso tra le sostanze, isolato dal fenomeno della gravitazione, che nei tentativi precedenti aveva prestato un contenuto intuitivo all’ipotesi metafisica, e definito in base a puri concetti modali e relazionali, rimane un concetto astratto e intuitivamente indeterminato. Anzi, Kant afferma in seguito che questo nesso è indeterminabile: «Che cosa costituisca le relazioni esterne delle forze nelle sostanze immateriali, sia tra di loro sia riguardo ai corpi, sfugge completamente all’intelletto umano, come acutamente notato perfino dal sagacissimo Eulero». L’appunto è rivolto contro coloro che «fingono» una presenza locale di Dio, concependola in vari sottili modi (§ 27, II, 414). La tesi kantiana, dunque, è la seguente: si può affermare che la dipendenza metafisica da un essere necessario rende possibili gli influssi metafisici; ma questi ultimi, insieme al modo della loro azione, restano sconosciuti. L’inferenza della tesi – lasciando per ora a margine la sua delimitazione – è però tutt’altro che evidente, così come già nel ’55 e nel ’63. Un chiarimento si può ricavare considerando gli sviluppi privati di un tentativo di metafisica dello spazio non monadologica, che Kant intraprende in questi anni, sollecitato dalla riflessione sullo spazio newtoniano. Essa fa capo alla definizione: «lo spazio è il fenomeno dell’esistenza di tutte le cose mediante una»150. Il nesso tra 150 Refl. 4086 (1769), KgS XVII, 409-410. Qui Kant pensa lo spazio come «fondamento della possibilità del commercio delle sostanze mediante leggi della sensibilità», e si interroga su una possibile inferenza da esso a una causa prima (e dal tempo all’eternità di questa causa). Si osservi che Clarke, per evitare ogni sospetto di panteismo, aveva concluso (nel quinto scritto del carteggio con Leibniz, §§ 38-48, CLC 194): «Dio non esiste nello spazio e nel tempo; ma la sua esistenza causa lo spazio e il tempo». Nel quarto scritto (§ 10, CLC 11) Clarke aveva scritto che «spazio e durata sono fuori

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ente necessario e spazio risiede in una analogia tra totalità intelligibile e totalità sensibile. L’intelletto divino, infatti, viene considerato una totalità collettiva delle perfezioni da cui procedono per limitazione tutti i concetti particolari (ciò che nel criticismo diviene l’ideale della ragione)151. Senza assumere l’intelletto divino la stessa realtà finita sarebbe inconcepibile. Analogamente, anche lo spazio è una totalità collettiva e infinita poiché ogni parte finita dello spazio è definita per delimitazione rispetto alle altre e dunque presuppone lo spazio infinito. Lo spazio però è una forma dell’intuizione che rende sensibili degli influssi, senza fornire di essi alcuna ragione. L’ipotesi consiste dunque nel fare di questa analogia con l’ente perfettissimo un rapporto di fondazione, e spiegare il darsi dello spazio come analogo soggettivo di un atto di congiunzione intelligibile degli enti e conseguenza di quell’atto. In questo senso la coordinazione sensibile delle sostanze viene a coincidere con la loro comune dipendenza da una causa prima, che sta a fondamento di tutte le sostanze e del loro commercio. L’intuizione sensibile e il commercio intersostanziale, in base a questi diversi presupposti metafisici, trovano così un principio comune. Posta dunque l’esistenza delle sostanze spirituali e dell’ente perfettissimo, Kant ha formulato l’ipotesi di un nuovo collegamento tra cosmologia (causa prima) e gnoseologia (possibilità dell’intuizione sensibile), alternativo a quello della tradizione leibniziana. Deciderà almeno di accennare a questa ipotesi sulla «causa» dell’intuizione sensibile nello scolio alla sezione quarta della Dissertazione: Infatti la mente umana non viene affetta dalle cose esterne ed il mondo non si apre all’infinito alla sua vista se non i n q u a n t o e s sa stessa sia unitamente a tutto il resto sostenut a d a u n ’ i d e n t i c a f o r z a i n f i n i t a. La mente dunque non sente le realtà esterne se non tramite la presenza di una medesima causa sostentatrice comune, e perciò lo spazio, che è la condizione di Dio e sono conseguenze immediate e necessarie della sua esistenza», il che veramente pareva negare l’incondizionato arbitrio divino da egli sostenuto altrove. In ogni caso Leibniz non poté replicare al quinto scritto; e Kant tentò per una via originale di sviluppare questo nesso causale. 151 Si vedano in part. Refl. 4189, 4206, 4212, 4244-4248, 4257, 4262, 4319.

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universale e necessaria conosciuta sensitivamente della compresenza di tutte le cose, può essere detto la o n n i p r e s e n z a d e i f e n o m e n i 152.

Con questa ipotesi, verso cui lo spingeva tutto il suo sistema precedente, Kant ammette di muoversi verso l’ammissione di Malebranche che «intuiamo tutte le cose in Dio», e afferma che queste speculazioni sono prive di validità apodittica. Senza questa ipotesi, però, la connessione concettuale tra coordinazione sensibile e dipendenza metafisica delle sostanze dall’ente necessario è indecifrabile. Verso un’ipotesi teologica alternativa a quella leibniziana, in effetti, muoveva proprio il modo in cui Kant, negli anni ’60, aveva richiamato l’ipotesi leibniziana dell’espressione nei termini di una materia della possibilità. Sulla metafisica accennata in questo scolio generale si impongono ora alcune considerazioni. In primo luogo, rispetto al suo contenuto positivo: Kant “newtonizza” distinguendo la legge dei fenomeni dalla loro causa, la cui indagine oltrepasserebbe i confini della «certezza apodittica»; nondimeno egli ammette la determinabilità del mondo intelligibile, circoscrivendo il limite dell’indagine alla determinazione del rapporto causale tra forma sensibile e forma intelligibile. Tuttavia, gli elementi della teoria della forma intelligibile sono tutti logico-metafisici, e, isolati da ogni componente sensibile, non portano a una conoscenza distinta della sostanza individuale. Kant stesso insiste sul fatto che i passaggi innovativi dello scritto del 1770 non risiedono nella parte dogmatica, ma soprattutto nel compito «elenctico» di separare determinazioni sensibili e intelligibili. Lo stesso fine «dogmatico» dei concetti intellettuali viene considerato la costituzione di un modello o «misura comune di tutti gli altri enti relativamente al loro contenuto reale», cioè la «perfezione dei noumeni», che ha rispettivamente un caso teoretico, Dio, e uno pratico, la perfezione morale (§ 9, KgS II, 395-396). Negando l’intuizione intellettuale, del resto, Kant afferma che manca ogni criterio per 152 Scolio alla sez. 4, KgS II, 409-410. Kant discute questa ipotesi “favorita” nelle sue lezioni di metafisica, ben oltre gli anni ’70: cf. per es. Metaphysik K3 (1794-95), KgS XXIX, 1008.

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distinguere sostanze intelligibili individuali (§ 10, II, 396). Tutta la metafisica teoretica si concentra dunque nella determinazione dell’intelletto archetipo divino, come modello e anche – «in quanto esiste realmente» – principio del divenire. Occorre sottolineare che questa concezione delle determinazioni intellettuali, in quanto perfezioni astratte che vengono definite rispetto all’intelletto divino e solo mediatamente riferite alle sostanze finite, singolarmente affine a quella avanzata storicamente da Leibniz – e del resto sviluppata a partire dall’“unico argomento” – viene conservata in alcuni luoghi del criticismo per definire le determinazioni positive delle cose in sé153. Ma, dato che alcuni interpreti insistono eccessivamente su una esoterica metafisica kantiana che si nasconderebbe in questi cenni a elementi precritici, bisogna ricordare anche che la critica della teologia razionale porterà nel criticismo a ridurre l’ideale della ragione a uno statuto regolativo. In ogni caso la sostenibilità di questa metafisica è dubbia già in base alle attuali premesse, come viene in chiaro negli stessi appunti kantiani degli anni ’70, in cui si osserva la formazione testuale dell’estetica trascendentale. L’indagine su un possibile fondamento della conoscenza sensibile non è esclusa dalla teoria dei giudizi surrettizi, proprio perché essa non riguarda la considerazione di qualcosa di sensibile in termini intellettuali, o viceversa, ma proprio una derivazione del sensibile (o fenomenico) dall’intelligibile, che in quanto legati da un nesso reale possono ben essere eterogenei. D’altra parte la relazione causale tra Dio e mondo sembra sottoponibile alla critica della nozione di forza nella Dissertazione, secondo cui 153 Si vedano per esempio le Bemerkungen che Kant fece inserire a capo della Prüfung der Mendelssohn’schen Morgenstunden del seguace L.H. Jakob, KgS VIII, 154. Dopo aver esposto la teoria della risoluzione della sostanza in relazioni – su cui torneremo nel prossimo paragrafo – Kant ne ricava che le cose in sé si devono determinare in modo puramente intellettuale, mediante la caratterizzazione delle realtà nell’intelletto divino; proprio questo le distinguerebbe dalle cose sensibili. Sulle perfezioni come determinazioni intelligibili in Leibniz si veda ADAMS, Leibniz, pp. 113-134. Kant qui distingue le «vere realtà» da quelle del fenomeno, che mutano di grado. Si osservi che anche Newton, nella terza delle Regulae philosophandi introdotta nella seconda edizione dei Principia (1713) negava – adottando la terminologia tardoscolastica – che proprietà dotate di «intensione» e «remissione» del grado, come la gravità, fossero proprietà «essenziali ai corpi» (Principia, pp. 552-555).

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«non è lecito ammettere una forza originaria se non è data dall’esperienza, e non c’è discernimento di intelletto che possa concepirne a priori la possibilità». In altre parole: Kant adduce la forza (la potenza divina), senza determinare veramente una legge. L’estensione di questa critica al caso precedente si coglie bene in una riflessione, con cui possiamo considerare conclusa la nostra ricognizione storica sulla metafisica dello spazio: Noi non possiamo comprendere [einsehen] il rapporto causale dell’intellettuale con il sensitivo e la determinazione della sensibilità secondo principi puramente intellettuali o viceversa. Per es. il primo fondamento della composizione, la prima azione mediante libertà, l’origine e inizio del mondo154.

Si vede che in queste righe – come del resto nel § 1 della Dissertazione – è già in atto la costituzione della futura dottrina delle antinomie. Nella sezione cosmologica della Critica si trova un’interessante ripresa di questi concetti, proprio riguardo al problema dell’origine della forma della sensibilità: Quando dunque valutiamo le azioni libere rispetto alla loro causalità, possiamo giungere soltanto alla loro causa intelligibile, non a l d i l à d i q u e s t a; possiamo sapere che tale causa può essere libera, ossia determinata indipendentemente dalla sensibilità, e che in tal modo essa può costituire la condizione sensibilmente incondizionata dei fenomeni. Ma chiedersi perché mai il carattere intelligibile fornisca, entro le circostanze presenti, proprio questi fenomeni e questo carattere empirico, è qualcosa che oltrepassa di gran lunga ogni facoltà che la nostra ragione possiede di dare un risposta, e oltrepassa addirittura ogni suo diritto al semplice domandarla, come 154 Refl. 4619 (ca. 1772-1776), KgS XVII, 611. Il termine ‘einsehen’, nella terminologia logica kantiana, designa propriamente un grado di conoscenza razionale, superiore a quello dell’intelletto; il termine viene impiegato spesso per discutere l’impossibilità di comprendere la possibilità delle forze, in modo tale cioè da dedurne a priori gli effetti in base a concetti semplici (si veda infra §§ 4.1, 8.3.B). Un passaggio solo «soggettivo» dalla sintesi empirica a un fondamento di ogni connessione e determinazione è esplorato ancora nella Refl. 4733 (1773-77? ca. 1770-71?), KgS XVII, 691, dove Kant chiarisce che lo spazio «non è la prova» di un essere originario «che tutto contiene e in cui tutto è sostenuto [sustentiert]».

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se si volesse chiedere perché mai l’oggetto trascendentale dia alla nostra intuizione sensibile esterna proprio e unicamente un’intuizione n e l l o s p a z i o, e non una qualsiasi altra intuizione155.

Per la formazione della teoria della verità del criticismo manca un elemento positivo: l’acquisizione del principio della possibilità dell’esperienza quale principio supremo di ogni conoscenza sintetica, da cui consegue immediatamente la distinzione tra conoscere e pensare. Questo passaggio avviene proprio in occasione di successive riflessioni sul concetto di sostanza. Ma l’aspetto negativo della metafisica merita un ulteriore commento: fintanto che sussiste l’ipotesi di una omologia tra forma dei fenomeni e forma dei noumeni, e data la precedenza del tutto sulle parti valida a livello sensibile, solo la eterogeneità e indeducibilità dei fenomeni rispetto ai noumeni escludono che la scienza dei noumeni assuma una fisionomia spinozistica. Kant stesso riconoscerà più volte che ammettendo la realtà trascendentale dello spazio si ottiene la filosofia di Spinoza. Questo era dunque il rischio che animava i rimproveri di Kant ai newtoniani e a tutti coloro che – come Crusius – ammettevano la realtà dello spazio e la spazialità come condizione di ogni esistenza; un rischio che, forse per evitare pericolosi equivoci, viene qui evocato con l’esempio della tesi, «non lontana» da questa, di Malebranche156. 155 È un passo dal Chiarimento dell’idea cosmologica di una libertà in connessione con la necessità universale della natura, KgS A 557/B 585. Tutta la sezione sviluppa l’analogia tra causa trascendentale del carattere e della forma della sensibilità. Il carattere empirico è noto «mediante forze e facoltà, che esso esterna nei suoi effetti» (A 546/B 574). Kant ritorna su questi concetti nella sezione sulla prova cosmologica dell’esistenza di Dio (KrV A 613-614/B 641-642): «Molte forze della natura, che manifestano la loro esistenza mediante certi effetti, restano per noi insondabili [unerforschlich], perché l’osservazione non ci conduce abbastanza avanti sulle loro tracce. L’oggetto trascendentale, che sta a fondamento dei fenomeni, e con esso il fondamento per cui la nostra sensibilità ha queste condizioni supreme piuttosto che altre, sono e resteranno per noi insondabili: per quanto la cosa stessa sia data, noi non la comprendiamo [eingesehen]». 156 Metaphysik Dohna (1792-93), KgS XXVIII, 666: «Se consideriamo reale lo spazio, allora accettiamo il sistema di Spinoza. Egli credeva in una sola sostanza, e assumeva che tutte le sostanze del mondo fossero determinazioni inerenti a quella divina». Si può dire d’altra parte che Kant, nello scolio del 1770, considera lo spazio come espressione in senso spinoziano, e non leibniziano, anche se non vuole seguire Spino-

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Quali saranno, nel criticismo, gli esiti di questa distinzione di piano dei mondi? Nel caso del mondo sensibile, restando la precedenza del tutto, si porrà il problema della individuazione della sostanza, che la tesi del dualismo e dell’affezione come «presenza» reale lasciano fin qui ancora risolto sul piano del rapporto con il noumeno. L’intera ipotesi sul mondo intelligibile verrà meno, e con essa ogni speculazione sul rapporto di omologia tra questo e il mondo sensibile. Il ricorso al concetto di una «forza» divina prefigura già qui il modo in cui, anche nel criticismo, verrà distinta l’esistenza dei fenomeni dall’idea di un sostrato soprasensibile: dato che la scepsi sulla conoscibilità della sostanza era molto diffusa, per evitare ogni equivoco, Kant insisterà che, mentre la sostanza «è ciò viene dato con le sue proprietà», il rapporto tra effetti e cause è invece un nesso tra eterogenei, e, anche a voler pensare il fondamento del mondo sensibile, lo lascia del tutto ignoto157. Ma delza nel considerarlo attributo (v. nota successiva). Riguardo alle affinità tra la metafisica precritica e lo spinozismo si può ancora osservare: che l’argomento teologico fondato sul materiale di ogni possibilità che Kant rielabora nel Beweisgrund era di origine cartesiana, e ripreso anche da Leibniz (Nouveaux Essais IV, XI, § 14; Monadologia, §§ 43-44), ma che Kant, nei Fortschritte, considera il concetto di Dio come ente perfettissimo inesorabilmente associato allo spinozismo: «Questo uno che la metafisica fa apparire come per incanto – e ci si chiede con meraviglia come faccia – è il sommo bene metafisico. Esso contiene il materiale per la produzione di tutte le cose possibili, come la cava di marmo per la produzione di statue d’infinita varietà, le quali, nel loro complesso, sono possibili solo per limitazione [...] questo D i o m e t a f i s i c o (il realissimum) cade però fortemente in sospetto di esser tutt’uno col mondo (malgrado tutte le proteste contro lo spinozismo), come un tutto degli esseri esistenti» (KgS XX, 302). L’equivalenza tra spinozismo e realismo trascendentale, che abbiamo incontriamo in diversi punti della nostra ricostruzione, è affermata per esempio nella Nachschrift di metafisica K3, KgS XXIX, 977-8. Cf. KgS XXVIII, 732; XXIX, 1008-9. 157 La prima tesi è affermata nelle appena citate Bemerkungen, KgS VIII, 154. L’eterogeneità tra sostanza ed effetti è sottolineata, negli anni ’80, proprio per operare una presa di distanza dallo spinozismo (si veda infra § 4.1). Non è detto che l’accorgimento fosse riuscito, dato che si discute ancora se in Spinoza la sostanza si risolva negli attributi o li trascenda come fondamento definibile solo negativamente. Negli scritti e nei resoconti di lezioni di metafisica si trovano anche altri argomenti contro lo spinozismo, che sono tutti discutibili ma che non è opportuno discutere qui. In realtà la vera presa di distanza dallo spinozismo, e da tutte le metafisiche precedenti, sarà la critica dell’idea di un ente perfettissimo in teologia razionale. Presupponendola, nel criticismo, l’uso antispinoziano del concetto di forza sarà nuovamente rimandato al mo-

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la riflessione sulla sostanza, sulla sua unità o molteplicità, determinabilità o indeterminabilità, dobbiamo ora cominciare a seguire le importanti sorti all’interno della filosofia del criticismo. Alla luce della dottrina dell’eterogeneità dei principi sensibili e intelligibili la trattazione della sostanza si biforca, in quanto al piano metafisico precedente si affianca (fin quasi a cancellarlo) il piano immanente dell’esperienza possibile. Così si tratta di sostanza in due sensi, a seconda che essa designi la realtà assoluta che sta a fondamento del fenomeno o la permanenza dell’oggetto mutevole. Nel primo caso si ha un nesso realtà-causa-sostanza; nel secondo caso si ha un nesso realtà-determinazione temporale dell’esistenza-sostanza. La compresenza di queste due vie è ben evidente nel cosiddetto Nachlass di Duisburg (1775 circa). Qui per un verso viene affermato il necessario passaggio dal fenomeno alla posizione di una sostanza che agisce sui sensi; nello stesso tempo, però, viene indagata la possibilità di applicare empiricamente questo concetto di sostanza sotto il nuovo titolo di principi dell’esposizione dei fenomeni (che sono la prima versione delle analogie dell’esperienza). Le due nozioni sono difficilmente compatibili, e daranno luogo nel criticismo a una complicata articolazione dei concetti di azione e passione (affezione). Il punto per ora mancante nella trattazione kantiana, e che rimarrà sempre un po’ in ombra, è proprio quello dell’apparente disomogeneità delle due nozioni riguardo alla condizione temporale. Mentre infatti l’esposizione del concetto di sostanza sorge proprio dalla considerazione della successione, non è immediatamente chiaro se l’affezione – da cui Kant sta cercando ora di ricavare la sostanza noumenica – sia sottoposta o meno a condizioni temporali (cioè se sia un processo temporalmente esteso, istantaneo, o proprio atemporale)158. dello newtoniano della causa ignota di una legalità nota, che come è noto era invocata da Clarke contro Leibniz per salvare l’arbitrio divino. 158 Si veda in particolare la Refl. 4679, p. 1, KgS XVII, 663: «Un oggetto dei sensi è solo ciò che produce un effetto [wirkt] sui miei sensi, per cui agisce [handelt] e quindi è sostanza». Cf. sotto, righe 19-20: «la semplice apprensione spiega [erklärt] già, che dietro il fenomeno ci deve essere una sostanza, causa della composizione». Si trova in seguito il concetto di una applicazione del concetto di sostanza, della sua espo-

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Analogamente si presenta, negli stessi anni, il caso parallelo (diciamo psicologico) del soggetto cosciente, che è occasione dell’ennesimo ritorno su Leibniz. Che gli stati siano percezioni del soggetto, e che queste posseggano una struttura temporale propria del fenomeno, costituisce ora un semplice assunto fenomenologico – da cui muoverà la stessa deduzione trascendentale delle categorie. D’altra parte la sostanzialità del soggetto, se intesa nel senso cartesiano, comporterebbe che la sua esistenza sia concepibile indipendentemente da ogni relazione temporale e spaziale. Questa nozione di sostanza è però un elemento estraneo alla nuova teoria della conoscenza empirica. La sua critica, in effetti, costituisce il passaggio mancante verso la piena generalizzazione, a livello trascendentale, delle «analogie dell’esperienza». Gli enti pensanti posso rappresentarmeli come sostanze solo in quanto «impresto» ad essi il mio Io analogicamente, ma in realtà nella stessa interiorità del soggetto non si trovano le condizioni per stabilirne la sostanzialità. Introducendo queste dottrine, che verranno distesamente sviluppate nell’Analitica e nella Dialettica trascendentale, Kant ritiene ora opportuno riconoscere una certa coerenza al sistema intellettuale del mondo di Leibniz. Il «mondo mistico» (come lo chiama ora riecheggiando la propria ipotesi del ’70) costituisce infatti un concetto metafisico in sé coerente, nell’ambito del quale i corpi devono essere dedotti dagli «enti pensanti». Questo sistema, scrive ora Kant, conduce direttamente all’idealismo, ma in sé «non è catsizione, che verrà sviluppato nella dottrina delle analogie dell’esperienza (si veda Refl. 4681, p. 2, XVII, 667: «analogie del fenomeno» o «analogie dell’intelletto», «principi dell’osservazione» o «dell’esposizione»; «presunzioni dell’esperienza»). Così, quando si legge che «le funzioni intellettuali hanno inizio in occasione (bei) dell’apprensione, soltanto la specificazione ci dà la regola di applicazione di questo concetto», si può pensare che: 1) l’affezione dia occasione al concetto di una causa esterna, da cui si inferisce la sostanza; 2) l’applicazione di questo concetto debba avvenire empiricamente, e dunque nel tempo. Per cui l’affezione deve poi essere rappresentata come affezione fisica. Riguardo al primo passaggio, però, si tratta di capire se l’introduzione della causa sorga da un giudizio o piuttosto da un sentimento di passività. Ma, almeno dal punto di vista del criticismo, la prima ipotesi violerebbe le condizioni dell’esperienza (è la celebre obiezione di Schulze alla causalità noumenica), la seconda porrebbe a capo dell’intera estetica un concetto empirico. Riprenderemo il discorso nel § 6.3.

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tivo», e anzi non lo si può confutare, ma non si dà un fondamento sufficiente per ammetterlo: Kant lo dice a maggior ragione, dopo aver provato a lungo a trovare un tale fondamento159. Considerando questi testi e tutta la vicenda precedente, stupisce meno il fatto che, dopo la comparsa della Critica, in cui Kant ha ritenuto opportuno sottolineare soprattutto la novità delle proprie concezioni, il giudizio sul Leibniz intellettualistico dell’Anfibolia venga notevolmente modificato. Leibniz diviene allora l’autore di un sistema «platonico» e «in sé coerente», ma oggettivamente non valido, che sarebbe stato però frainteso dai propri ammiratori, poiché non affermò che lo spazio è in sé un «rapporto tra le cose in sé», né affermò che i corpi sono composti di monadi; ma intese piuttosto tratteggiare la tesi secondo cui esso è «forma dell’intuizione sensibile», e rimandò a un sostrato intelligibile puramente ideale quale fondamento della sensibilità. Insomma la metafisica di Leibniz, per quanto Kant è riuscito a capirla, non poteva consistere nelle tesi wolffiane, e viene assimilata alla prospettiva del criticismo che ne costituisce «la vera apologia». Infine Leibniz diviene soprattutto il «grande matematico» e il custode di una nozione puramente negativa del noumeno. Si tratta forse di un tentativo di nobilitare il criticismo, ma anche dell’esito estremo di uno sforzo trentennale di capire le idee leibniziane e i loro “fondamenti”, fino al punto di rielaborarle in una metafisica che, benché diversa, si propone agli occhi di Kant gli stessi scopi di quelle di Leibniz e Wolff160. 159 Sulla «definizione sbagliata della sostanza di Descartes» v. Refl. 4762, KgS XVII, 720. Per l’analogia della coscienza v. Refl. 4699, XVII, 679; KrV A 265-6/B 321-2. Sull’idealismo di Leibniz: Refl. 4716, 4718, XVII, 685-686. L’idealismo «mistico» viene qui distinto da quello «fisico», in quanto ammette i corpi, ma li dota di proprietà «fanatiche», cioè di rappresentazioni. Si noti, infine, che la discussione dell’armonia prestabilita dell’Anfibolia si riferisce a un’ipotesi indistinguibile da quella sviluppata da Kant intorno al 1770 (v. KrV A 275/B 331). 160 MA 507-508; Entdeckung, KgS VIII, 248-251. Nella lettera a Kästner del 5 agosto 1790 Kant afferma che il criticismo condivide con le filosofie di Leibniz e Wolff lo scopo di ammettere e conoscere il soprasensibile, ma si distingue per il fatto di raggiungere tale obiettivo per via pratica (KgS XI, 186). Di fatto il dialogo con Leibniz continuò: la dottrina delle forme dell’intuizione, per non ricadere nell’empirismo di un’antropologia, doveva infatti giustificare in qualche modo l’universalità di tali forme per tutti i soggetti conoscenti, e questa era a suo modo una forma di armonia. Perciò

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L’indagine storica si trova ora di fronte a un salto. Se infatti ci trasferiamo all’interno del criticismo, le due nozioni di sostanza qui affiancate vengono più nettamente distinte, e separate anche terminologicamente. Identità nel molteplice temporale e spaziale, per un verso; fondamento del fenomeno, che però è inconoscibile. Ma abbiamo trovato così, in una prima formulazione rudimentale, i temi fondamentali della filosofia della natura del criticismo, che ci occuperanno nei prossimi due capitoli.

2.4. Conclusioni: contingenza e relatività di tutte le proprietà oggettive Prima di procedere possiamo trarre due conclusioni generali sul concetto kantiano di fenomeno, in quanto, come abbiamo detto all’inizio, da esso dipendono alcune caratteristiche fondamentali della filosofia della natura del criticismo. La prima riguarda il rapporto tra il fenomeno e il noumeno e dunque la delimitazione del dominio della natura. Nel rapporto, che viene istituito nel criticismo, tra molteplice sensibile e presunto fondamento intelligibile viene del tutto meno l’espressività, per cui si ha a che fare con un fenomeno che non individua nemmeno analogicamente alcuna proprietà delle cose in sé. Nell’ipotesi leibniziana, come abbiamo visto, il rapporto espressivo collegava sempre contenuti percettivi, per cui la cosa in sé kantiana è piuttosto un frutto del sistema wolffiano, che trasferiva l’espressività all’interno della sensibilità. Ma è necessario sottolineare il mutamento della posizione kantiana con il passaggio al criticismo. Abbiamo visto che, riguardo al 1770, è corretto dire che Kant ammette un mondo intelligibile di cui il fenomeno è incapace di catturare analogicamente la struttura, e di cui lo spazio esprime per analogia soltanto la generica congiunzione. Passando al criticismo, come è noto, i testi concedono in qualche misura due letture: la prima afferma che la cosa in sé è reKant cercò nella terza Critica una deduzione trascendentale del senso comune. Ma la nuova dottrina degli elementi (spazio, tempo e categorie) non verrà più messa in discussione, e di metafisica del mondo sensibile non si parlerà più nel vecchio senso trascendente: a questo punto la tormentata vicenda della ricezione leibniziana può dirsi conclusa, mentre si apre già quella dell’esegesi kantiana.

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sponsabile dell’affezione dei sensi e dunque, quale «causa dei fenomeni», conserva una positività, ma che di essa non sappiamo nulla perché le nostre facoltà ce la rendono soggettivamente indeterminabile161. La seconda afferma che la cosa in sé (identicamente al noumeno) è un concetto negativo, problematico, un concettolimite: «non è il concetto di un oggetto, bensì la questione, inevitabilmente congiunta con la limitazione della nostra sensibilità, se non possano esserci oggetti del tutto slegati dall’intuizione sensibile: domanda alla quale può esser data soltanto una risposta indeterminata, e cioè che siccome l’intuizione sensibile non si riferisce indifferentemente a tutte le cose, allora rimane un posto libero per oggetti diversi. Questi ultimi non possono dunque essere assolutamente negati, ma in mancanza di un concetto determinato (dato che nessuna categoria è adatta a farlo), non possono neppure essere affermati»162. Certamente la prima ipotesi conserva una continuità con il pensiero precritico e produce la nota inconseguenza dell’ammettere una determinazione causale del noumeno; la seconda ipotesi è più coerente con le innovazioni del criticismo. La revisione del concetto di noumeno, infatti, esclude precisamente la possibilità di formulare ipotesi sulla forma di una oggettività trascendente e in generale di accertare l’esistenza di una oggettività non fenomenica, e Kant scrive chiaramente (nel seguito del passo citato), che l’intelletto delimita la sensibilità in quanto «pensa un oggetto in se stesso, ma solo come oggetto trascendentale, che è la causa del fenomeno (quindi non è esso stesso fenomeno), e che non può essere pensato né come quantità, né come realtà, né come sostanza, ecc. (poiché tali concetti esigono sempre forme sensibili, entro cui determinare un oggetto); nei riguardi di tale oggetto trascendentale si è completamente all’oscuro se esso sussita in noi o fuori di noi, se si annullerebbe con l’annullamento della 161 Per

es. KrV A 393; A 538/B 566; A 696/B 724; Entdeckung, KgS VIII, 215. A 287-288/B 343-344. Poco prima (A 286/B 342-3) Kant ammette la possibilità di un’altra forma di intuizione, ma afferma che essa ci rimarrebbe comunque incomprensibile. Sulla negatività e problematicità del noumeno cf. per es. A 356, A 255/B 311, B 429, e, sulla nostra incapacità di comprendere senza intuizione il presunto «interno» dei fenomeni, A 277-278/B 333-334. 162 KrV

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sensibilità o se resterebbe»163. Il problema è insolubile, eppure resta stabilito che l’oggettività è solo quella fenomenica, sottoposta alla forma dell’intuizione sensibile e intersoggettiva. Kant considera la sostanza inseparabile dal nesso universale dei fenomeni e non trova nella sostanza noumenica alcun elemento per rendere meglio comprensibile tale nesso. Venendo meno la distinzione numerica tra due domini di oggettività, anche l’ipotesi espressiva risulta non formulabile. Dunque, a rigore, non colpiscono il fenomenismo kantiano nella sua formulazione più tarda tanto le vecchie obiezioni di scuola leibniziana-wolffiana, secondo cui dal criticismo risulterebbe necessario tornare alle sostanze intelligibili della metafisica precedente, quanto, più di recente, le diverse versioni dell’ipotesi della cosiddetta «alternativa negletta», secondo cui, posto che lo spazio sia una forma dell’intuizione sensibile, non ne conseguirebbe che le cose in sé siano certamente non spaziali164. 163 KrV A 288/B 344, cors. mio. Kant afferma più volte e molto chiaramente la possibilità di pensare secondo le categorie senza però conoscere, in quanto le categorie posseggono un significato logico proprio, che va distinto da un loro illegittimo uso trascendentale. Questa evidenza aiuta a sciogliere molte delle ambiguità testuali. 164 Quest’ultimo gruppo di ipotesi è stato sviluppato soprattutto in area anglo-americana, in base a concetti di “realismo” e “idealismo” in parte estranei alla problematica kantiana e che ancora pesano nelle discussioni più recenti. Per una rassegna recente si veda H. ALLISON, Kant’s Trascendental Idealism (1983), New Haven/New York 20042, pp. 3-19. Dal punto di vista storico, la posizione stessa di una tale ipotesi trascura il fatto che Kant ha tentato a lungo, e poi rinunciato, a stabilire una oggettività noumenica senza l’ausilio dei fenomeni. Sul piano strettamente esegetico, dunque, sono da rifiutare i tentativi di ricostruire di una metafisica non scritta del criticismo, che ne costituirebbe la sotterranea continuità con il pensiero precritico (secondo quanto sostiene per es. K. AMERICKS, The Critique of Metaphysics: Kant and Traditional Ontology, in P. GUYER (ed.), The Cambridge Companion to Kant, Cambridge 1992, pp. 249279). Si tratta dunque più che altro di un’ipotesi di riforma del criticismo. I risultati più interessanti in tal senso sono emersi da un esame dei concetti kantiani mediante cui andrebbe stabilito un presunto ordine intelligibile delle cose, dove però sono stati privilegiati concetti intuitivamente sensibili. Per es. L. FALKENSTEIN, Kant’s Intuitionism: A Commentary on the Transcendental Aesthetics, Toronto 1995, pp. 183-185, discutendo l’ipotesi di una derivabilità dell’ordine spazio-temporale, ricorda che tra le percezioni si può istituire un ordine «comparativo», fondato sulle proprietà intrinseche come l’ordine dei colori, mentre l’ordine spaziale sarebbe un ordine presentativo, estrinseco e dipendente dalla rappresentazione soggettiva. Anche il rapporto di dominanza tra le monadi leibniziane costituiva un tale ordine, senza fare ricorso però non

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Resta da considerare come il criticismo giustifichi il concetto di una affezione dei sensi e quello di una necessità di pensare il noumeno. Il primo problema può essere forse risolto considerando il concetto di affezione dell’Estetica come una formulazione astratta, che in seguito si chiarisce con la piena determinazione del mondo fisico, in cui l’affezione diviene empirica. L’astrazione sarebbe del resto resa inevitabile dal fatto che l’altro correlato empirico dell’affezione, il corpo del soggetto conoscente, viene introdotto solo molto avanti nella Critica, e anche qui messo piuttosto in ombra. In ogni caso il problema dell’affezione potrà essere discusso adeguatamente solo alla luce della fisica pura, che ne fornisce alcuni elementi essenziali: lo riprenderemo più avanti. Riguardo al secondo problema, grande rilievo è stato dato al concetto di libertà e alla prova di una validità oggettiva dei concetti metafisici in filosofia pratica. Tuttavia occorre sottolineare che gli oggetti inconoscibili, dal punto di vista teoretico, devono essere pensati per la sola ragione della contigenza delle facoltà conoscitive, e che i concetti pratici, che per Kant sono costitutivi del mondo intelligibile, non forniscono alcun elemento per la ricomposizione di una cosmologia metafisica165. Inoltre, come si è cera proprietà empiricamente percepibili. È significativo che una recente critica della proposta di Falkenstein tenti di presentare un ordine intelligibile, ma indipendente dalla prospettiva degli osservatori («pre-empirico»), mediante l’uso di relazioni topologiche (che però l’autore considera «esterne», senza rilevare che il suo è un tentativo di proseguire sulla via aperta da Leibniz: P. HERISSONE-KELLY, The Trascendental Ideality of Space and the Neglected Alternative, «Kant-Studien» 98, 2007, pp. 269282). La questione metafisica, comunque, resterebbe quella di stabilire se sia possibile pensare un ordine intelligibile dei noumeni, tale da poter essere messo in corrispondenza con l’ordine spazio-temporale. Ottenuto questo, si dovrebbe poi cercare di capire se può esservene solo uno, o se invece possono esservi molti ordini noumenici; e, in tal caso, stabilire quale di essi debba corrispondere strutturalmente all’ordine spazio-temporale empirico: si ripresenta insomma la questione dei mondi possibili. Abbiamo già visto che, con la riforma trascendentale della logica modale, Kant restò fin dagli anni ’60 privo di strumenti per descrivere le relazioni d’ordine tra sostanze in un mondo intelligibile, restandogli queste parimenti contingenti e reciprocamente isolate. 165 Tra questi tentativi (in sé istruttivi) di ristabilire una metafisica non scritta, a partire dalla causalità trascendentale, si vedano soprattutto WESTPHAL, Kant’s Trascendental Proof of Realism, pp. 36-67 e E. WATKINS, Kant’s Metaphysics of Causality, Cam-

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cato di mettere in evidenza, questa contingenza delle facoltà risiede nella inesplicabilità della forma dell’intuizione, che Kant ha raggiunto al termine del lungo itinerario che abbiamo ricostruito. Per cui si può intendere il riferimento al fondamento dei fenomeni in senso logico come l’affermazione che, non potendosi comprendere il fondamento della forma dell’intuizione − cioè elaborare una spiegazione del perché si intuisca nello spazio e nel tempo che non sono sostanze −, allora sfugge anche quello degli oggetti empirici stessi; perciò, come lo spazio è un ente immaginario, così le sostanze fenomeniche sono «niente, prescindendo dalle nostre facoltà conoscitive». Sottolineare la mancanza di un fondamento logico della forma dell’intuizione costituisce un modo più fedele di interpretare il pensiero di Kant alla luce del suo itinerario, che ha attraversato diversi tentativi di determinare teoreticamente il soprasensibile e ha ricavato la nuova dottrina della libertà pratica e dei postulati solo successivamente alla nuova estetica. Nello stesso tempo costituisce un possibile punto di partenza per una critica dell’ipotesi idealistico-trascendentale: infatti, piuttosto che attraverso un ritorno alla metafisica precritica o alla teoreticizzazione bridge 2005. Il contenuto del mondo intelligibile è costituito nel criticismo dalle determinazioni morali (KrV A 808/B 836; cf. Refl. 4245, 4349; KgS XVII, 479, 515-516). Ricordiamo che, secondo la congettura dei Träume, queste ultime potrebbero forse condurre a un ordine di perfezione che sostituisca l’ordine «quasi-spaziale» postulato nelle ricostruzioni citate sopra. Ma nel criticismo la perfezione morale e in genere le determinazioni morali stesse sono concepibili solo per il contrasto con i sensi, che si manifesta agli esseri finiti attraverso la legge morale (mentre la pura volontà buona resta un ideale). D’altra parte l’idea di una perfezione morale, presa oggettivamente, conduce per Kant fatalmente all’identificazione col sommo bene e all’unione mistica delle anime in Dio. La realtà di un mondo ultraterreno extra-temporale comporterebbe la negazione di ogni determinazione morale, e con essa di ogni ente pensante individuale: in tal senso essa comporterebbe – come tutti i panteismi orientali e occidentali – «la fine di ogni pensiero» (Das Ende aller Dinge, KgS VIII, 335-336). In ogni caso Kant non fece alcun tentativo di ricerca in tal senso. È significativo peraltro che egli non attribuisce la contingenza dell’ordine a diversi mondi possibili, ma a diverse specie di soggetti percipienti. Ciò fa pensare che egli considerasse l’idea teoretica del «sostrato soprasensibile» come un concetto negativo singolare, privo di molteplicità estensiva. D’altra parte la stessa molteplicità dei soggetti liberi attestati dalla coscienza morale, che Kant considera un’evidenza contro lo spinozismo, contraddice una simile ipotesi sul piano fenomenologico.

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dei concetti pratici, è stato attraverso diverse analisi del concetto di spazio che sono sorte storicamente le principali concezioni alternative a quella kantiana166. Ai nostri fini, comunque, importa rilevare come questa contingenza “soggettiva” della forma dell’intuizione si rifletta a vari livelli sull’intera filosofia della natura. Per esempio, come è ben noto, è essenziale alla concezione della libertà pratica e dell’organismo, che Kant considera realtà empiriche prive di spiegazione secondo «leggi meccaniche». Ma, come è meno noto, vi sono importanti evidenze anche nel contesto della stessa meccanica. Per esempio Kant tratta i corpi come sostanze fenomeniche cercandone una condizione all’interno del mondo fenomenico stesso, e individua una di queste condizioni nell’azione a distanza; ma se egli non trova scandalo in questo concetto, pur senza radicarlo più in una realtà metafisica, è proprio perché non attribuisce un valore sostanziale o espressivo agli intervalli spaziali. Per la stessa ragione egli aggira le ragguardevoli difficoltà intuitive che si presentano nella sua teoria sulla struttura della materia, considerandole come inessenziali difficoltà «della costruzione»167. Infine, proprio perché la sensibilità è una forma dell’intuizione soggettiva e contingente, benché universale, analogia e simbolo, che si basano sull’esibizione sensibile, divengono nel criticismo metodi per una determinazione estetica del soprasensibile che non può ampliare in linea di principio la sua conoscenza; e d’altra parte la stessa possibilità di assumere una omogeneità della natura e formulare analogie a scopi scientifici dipende nella terza Critica da un nuovo 166 Kant stesso ammette che le definizioni analitiche, in filosofia, «possono essere errate per molti aspetti a causa dell’intoduzione di note che in realtà non sono nel concetto o per difetto di quella completezza che è essenziale a una definizione, non potendosi mai esser certi della compiutezza dell’analisi» (KrV A 732/B 760). Proprio un avanzamento analitico del concetto di spazio, avutosi con la geometria e la fisica dei secoli successivi, hanno costituito effettivamente il punto di partenza di numerose obiezioni all’estetica e dunque alla filosofia naturale kantiana, che vennero celebrate all’inizio del secolo scorso come un dato acquisito. Una sintesi chiarissima di queste critiche si trova in H. REICHENBACH, Philosophie der Raum-Zeit Lehre, Berlin 1928 (rist. in ID., Gesammelte Werke, Braunschweig/Wiesbaden 1977ss., vol. II), §§ 1, 8-9, 13. 167 MA 505, 522.

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principio trascendentale della facoltà di giudizio, che si deve ricavare dall’interno dell’esperienza stessa (considerando il caso dei giudizi estetici): per cui la bellezza non è più l’espressione sensibile di una legalità metafisica, ma è piuttosto un’occasione per cogliere in atto la stessa universalità soggettiva delle facoltà conoscitive. Passiamo ora alla seconda conseguenza dell’Estetica per la filosofia della natura che vogliamo mettere in evidenza. Essa consiste nel fatto che tutte le proprietà oggettive consistono in proprietà relazionali nel fenomeno. A un tale passaggio dalla filosofia trascendentale alla fisica allude già il testo dell’Anfibolia (KrV A 283/B 339ss.). Kant afferma che, dal punto di vista puramente logico («secondo semplici concetti»), l’interno è «il substrato di tutte le relazioni esterne», poiché «i concetti di relazione presuppongono sempre delle cose date assolutamente e senza di esse sono impossibili»: dunque l’ipotesi leibniziana sarebbe giusta se non si considerassero le condizioni dell’intuizione. Nella sensibilità, invece, si trovano «meri rapporti» senza «cose date assolutamente» e dunque senza nulla di «assolutamente interno». Cionondimeno una sostanza nello spazio, il cui concetto è quello di una «estensione impenetrabile», può costituire il «sostrato di tutte le intuizioni esterne». A questo punto troviamo la sorprendente affermazione che come tale sostrato si può considerare lo spazio stesso, «che consiste, assieme a tutto ciò che contiene, di meri rapporti ideali o anche reali». Per rapporti reali occorre intendere quelli che definiscono la sostanza nello spazio, localmente distinta ma connessa con le altre secondo una opposizione reale. Viene qui accennata l’omogeneità delle relazioni spaziali e di quelle dinamiche, in quanto le seconde vengono definite in base alle variazioni delle prime, che si ritroverà nella Dinamica del 1786. Che in linea di principio ogni proprietà fenomenica oggettiva consista in meri rapporti viene affermato nella prima delle nuove Note generali sull’Estetica trascendentale (1787; KrV B 66-67): Per confermare questa teoria dell’idealità del senso esterno, come pure di quello interno, dunque di tutti gli oggetti dei sensi in quanto meri fenomeni, può servire più di ogni altra la seguente osserva-

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zione: tutto ciò che nella nostra conoscenza appartiene all’intuizione (esclusi dunque il sentimento di piacere e dispiacere, e la volontà, che non sono affatto conoscenze) non contiene altro che semplici rapporti: rapporti dei luoghi in un’intuizione (estensione), rapporti di mutamento dei luoghi (movimento) e leggi, secondo cui questo mutamento viene determinato (forze motrici).

Kant intende qui verificare la sua tesi dell’idealismo, in base all’assunzione che le cose in sé non consistono in pure relazioni, che viene implicitamente assimilata alla concezione leibniziana168. Ma ci interessano le conseguenze positive di questo principio di relatività per la filosofia naturale. Kant assume implicitamente una equivalenza tra conoscenza scientifica e conoscenza esterna, poiché il progetto di una psicologia pura come scienza del senso interno è stato lasciato da parte nell’anno 1785 e, come vedremo meglio, la funzione di esibizione dei concetti metafisici è stata assegnata alla sola fisica. La fisica pura è stata definita nei Principi metafisici una 168 Lo stesso ragionamento si trova esposto con molta chiarezza nelle Bemerkungen zu Jakob’s Prüfung (KgS VIII, 153-154), dove Kant lo presenta come un risultato dei Principi metafisici comparsi nello stesso anno. Su questo punto esiste effettivamente una contrapposizione tra la teoria delle relazioni kantiana e quella leibniziana. Secondo quest’ultima, infatti, una relazione implica sempre che si possa stabilire un rapporto di inerenza alle sostanze delle rispettive proprietà relative. Cf. M. MUGNAI, Leibniz’s Theory of Relations, «Studia Leibnitiana Supplementa», 28, 1992. Nella relazione fenomenica kantiana, viceversa, la relazione costituisce le sostanze, e non è sempre possibile stabilire se e in che misura la proprietà relativa inerisca a una delle sostanze poste in relazione (si veda la trattazione della sostanza in meccanica, § 9.3.C). Su questa tesi kantiana e sul confronto con la metafisica leibniziana si trovano interessanti discussioni in R. LANGTON, Kantian Humility. Our Ignorance of Things in Themselves, Oxford 1998. Langton ricava l’inconoscibilità delle cose in sé dal fatto che Kant avrebbe sostenuto contro Leibniz la tesi metafisica di una «irriducibilità delle relazioni», per conservandone il concetto di sostanza; il ruolo della riflessione su spazio e tempo in questa vicenda resta a margine. Viceversa, credendo di rispecchiare meglio l’ordine logico e storico, faccio dipendere il principio di relatività delle proprietà nel criticismo dal tentativo precritico fallito di riduzione delle proprietà relazionali: il che esclude ogni residuo di metafisica non relazionistica. Discuto qui di seguito di questo principio di relatività nella sua formulazione generale. La principale conseguenza particolare della teoria delle relazioni fenomeniche si troverà nello studio del movimento nella Fenomenologia kantiana, in cui ritorneremo sul paragone con la teoria leibniziana.

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pura «dottrina del movimento». Tutto questo comporta che, nonostante ci siano elementi non intuitivi della conoscenza (i concetti), questi possono essere applicati agli oggetti esterni soltanto tramite gli elementi intuitivi, ma questi ultimi – nella misura in cui contirbuiscono alla conoscenza − consistono di predicati intrinsecamente relativi. La conseguenza generale di questa circostanza è che una scienza pura della natura avrà il compito di determinare le proprietà della sostanza in base all’applicazione di concetti (anche relazionali) a proprietà intuitive, che sono intrinsecamente relative, facendo dunque a meno di qualunque sistema di riferimento assoluto, tanto metafisico, quanto meccanico. In questo principio di relatività delle proprietà risiede una caratteristica strettamente originale della filosofia della natura del criticismo. Esso è anche all’origine di diversi problemi originali che essa dovrà affrontare. Per esempio, 1) ricavare la prima forza fondamentale della materia (la forza repulsiva originaria) dalla pura intuizione del movimento, e dunque un’azione di resistenza da un fenomeno che è intrinsecamente relativo; 2) ricavare la seconda forza fondamentale (la forza attrattiva originaria) dalla necessità che essa limiti la precedente entrando in conflitto con essa, e dunque, nuovamente, ricavare la rappresentazione di un conflitto dinamico da proprietà essenzialmente relative dell’intuizione pura; 3) dedurre il corpo esteso dal conflitto di queste forze, senza poter assumere alcuna asimmetria originaria nella distribuzione continua della materia, ma soltanto la possibilità di una densità originariamente diversa della materia nei diversi punti dello spazio. A questi problemi dinamici, tipici della filosofia naturale kantiana, si possono aggiungere quelli relativi ai concetti meccanici: per esempio la determinazione della quantità di materia in base allo studio dell’urto, che si fonda sull’intuizione pura dello spazio con le sue proprietà essenzialmente relative e simmetriche, e ancora quella dello stesso movimento reale e assoluto, che Kant conserva accanto al puro movimento relativo privo di determinazioni dinamiche e meccaniche. In generale: la fisica pura dovrà dedurre le relazioni reali da quelle ideali, senza presupporre nulla di dato assolutamente. Come vedremo al termine del prossimo capitolo, ciò comporterà anche che una proprietà che nel pensiero leibniziano spettava solo agli enti ideali, cioè il primato del tutto 151

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sulla parte, diviene propria di ogni realtà, e infine conduce la filosofia naturale kantiana verso l’abbandono completo delle sostanze individuali molteplici e separate. Questa specificità della filosofia naturale del criticismo si coglie bene considerando che essa si distingue da tutte le principali concezioni alternative rappresentate all’epoca di Kant: da Newton e dai newtoniani, di cui Kant condivide molti concetti dinamici, ma che pongono lo spazio assoluto (e, in alcuni casi, gli atomi); da sostenitori della relatività del moto come Descartes e Huygens, cui Kant in cinematica e meccanica resta molto prossimo, ma che negano la precedenza dello spazio sui corpi e non ammettono forze fondamentali e costruzioni dinamiche di questi ultimi; da fenomenisti metafisici come Leibniz e Berkeley, che pongono (sia pure con argomenti diversi) la sostanza incorporea a fondamento dei movimenti e dei corpi; infine – esempio di singolare affinità teorica con la sua monadologia giovanile, ma che Kant quasi certamente non conosceva – da Boscovich, che in fisica nega tanto il moto assoluto, quanto le sostanze spirituali, ma assume le monadi fisiche quali centri assoluti di forza. L’impostazione della filosofia naturale del criticismo non ha dunque eguali nel secolo XVIII. Tuttavia, come vedremo, Kant non riesce a ricavarne una teoria del tutto compiuta e consistente, anche a causa dello stesso isolamento scientifico in cui le premesse filosofiche lo costringono. In effetti il problema di ricavare tutte le proprietà fisiche dal solo fenomeno, che Kant aveva considerato solubile sul piano dell’intuizione pura, e da cui aveva ricavato l’intrinseca necessità di collegare metafisica e matematica, tormenta la teoria kantiana fino alla seconda metà degli anni ’90, quando egli comincia a esplorare (negli appunti dell’Opus postumum) la possibilità di introdurre un secondo livello del fenomeno, nel quale le forze motrici vengono classificate sistematicamente e anticipate dall’intelletto prima di essere rappresentate intuitivamente nei movimenti. Questa ipotesi è importante perché sostituisce su un piano soggettivo e trascendentale il piano metafisico della comunanza intelligibile tra le sostanze, che nel pensiero precritico costituiva il fondamento logico della dinamica. Essa ripristina dunque una stratificazione tra puro fenomeno e concetti dinamici, a conferma delle difficoltà kantiane 152

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nell’inferire questi ultimi mediante una fisica puramente relazionistica. Nello stesso tempo, però, Kant sviluppa un modo diverso di ricavare le forze dai fenomeni, non più mediante una dimostrazione matematica sul conflitto delle realtà, come nei Principi metafisici dell’86, ma mediante una deduzione trascendentale. È possibile a questo punto che i due argomenti coesistano, ma i testi dell’Opus postumum suggeriscono che il nuovo argomento sostituisca il precedente, che Kant cerca a lungo di rielaborare per poi non presentarlo più. Si pone allora un problema che investe l’intera filosofia naturale: se la fondazione “intuitiva” della dinamica venisse meno, verrebbero meno anche le ambizioni deduttive della fisica pura, e, posta l’ipotesi di una anticipazione dei rapporti dinamici, resterebbe da giustificare a priori la realtà di un sistema dinamico di influssi. Ma proprio alla prova trascendentale dell’esistenza di una materia cosmica, quale sostrato delle forze motrici, è dedicato il più organico gruppo di manoscritti kantiani del 1799 (fogli ‘Übergang 114’). A questo scopo Kant recupera dal suo repertorio concettuale il concetto del materiale di ogni possibilità che, neutralizzato a livello noumenico, torna fondamentale a livello fenomenico, e viene ipostatizzato, quale condizione materiale dell’intuizione esterna la cui esistenza si può provare a priori. Dunque proprio una indagine trascendentale sulla rappresentazione sensibile, diversa però da quella di Leibniz che Kant non conobbe mai, rende possibile l’unità del mondo fenomenico e anche la fisica. Mentre Leibniz, date le monadi e Dio, non riteneva necessario ammettere l’esistenza della materia, Kant, negata la possibilità di provare la realtà oggettiva di monadi e Dio in filosofia teoretica, trova necessario provare l’esistenza della materia; e in luogo di una armonia prestabilita, e dell’ideale di un sistema di relazioni metafisiche empiricamente irraggiungibile cui si approssimano le percezioni finite, si ha nel criticismo l’ideale empiricamente irraggiungibile di un «sistema del mondo» fisico, cui si approssimano tutte le conoscenze empiriche. Ma abbiamo introdotto così, anticipando i limiti del fenomenismo puro degli anni ’80, la tesi di uno statuto trascendentale della fisica nel pensiero kantiano successivo: la sua compiuta giustificazione ci occuperà nel capitolo successivo. 153

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Capitolo 3 Il problema della fisica nella filosofia trascendentale

3.1. Metafisica e natura: elementi e problemi sistematici Se ci si interroga sul rapporto tra la filosofia trascendentale e la fisica è opportuno considerare prima di tutto il piano sistematico che Kant stesso ritenne necessario tracciare nella Critica. Nell’Architettonica della ragion pura egli afferma infatti la necessità di anteporre l’idea di una scienza alla sua realizzazione, perché «l’unità sistematica è ciò che prima di tutto rende la conoscenza comune una scienza», ma un sistema è appunto «l’unità di molteplici conoscenze secondo un’idea» (KrV A 832/B 860). La successiva esposizione di un sistema delle conoscenze filosofiche contiene effettivamente le definizioni di metafisica, metafisica della natura e di fisica che ci aiutano a inquadrare la questione. Apprestandoci a leggerla, tuttavia, occorre tenere presente che l’esecuzione del progetto qui delineato andrà incontro a difficoltà, e che tutte queste scienze, per diverse ragioni, non verranno realizzate secondo lo schema originario. I problemi di esecuzione, tuttavia, sorgeranno e verranno affrontati all’interno delle coordinate sistematiche qui tracciate, le quali dunque costituiscono una premessa fondamentale per comprenderli1. 1 L’ordinamento sistematico di pensieri, lungi dal costituire un mero criterio espositivo, costituisce per Kant nello stesso tempo un requisito di scientificità e un metodo euristico. Lo sottolineava già, non a caso, il massimo studioso delle riflessioni manoscritte kantiane nella sua dissertazione: E. ADICKES, Kants Systematik als Systembildendes Factor, Berlin 1887. Sull’ordinamento sistematico come metodo euristico si ve-

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Cominciamo dunque a seguire lo schema kantiano (fig. 1). Per prima cosa Kant distingue, sulla scorta di quanto lungamente argomentato in precedenza, la conoscenza filosofica, ricavata da concetti, e quella matematica, ricavata dalla «costruzione di concetti» (A 837/B 865)2. La filosofia viene definita anche «legislazione della ragione» (A 840/B 868). Questa definizione della filosofia, tutt’altro che neutrale, contiene un riferimento retrospettivo a tutto l’itinerario della Critica e in particolare alla deduzione trascendentale delle categorie, in cui è stata raggiunta la conclusione secondo cui l’intelletto è «esso stesso il legislatore della natura», cioè la facoltà di connettere i fenomeni senza la quale una natura, «un’unità del molteplice fenomenico secondo regole», non potrebbe sussistere affatto3. Dunque la filosofia è legislazione della ragione perché ogni conoscenza, e anzi ogni esperienza, si fonda sull’applicazione di principi dell’intelletto al molteplice delle rappresentazioni. Una volta isolata la filosofia, Kant procede con la classificazione delle sue parti a seconda del loro oggetto4. La filosofia possiede

da M. CAPOZZI, Kant on Heuristics as a Desirable Addition to Logic, in C. CELLUCCI-P. PECERE (eds.), Demonstrative and Non-Demonstrative Reasoning in Mathematics and Natural Science, Cassino 2006, pp. 123-181. 2 Questa distinzione fondamentale è argomentata nel capitolo La disciplina della ragion pura nel suo uso dogmatico (KrV A 712/B 740-A 738/B 766). Essa è preceduta da una distinzione più generale tra conoscenza razionale, che procede «ex principiis», e conoscenza storica, che procede «ex datis». La trascuro in quanto trattasi di una distinzione relativa alla modalità di acquisizione di un sapere più che alla sua legittimità: per questo motivo, come scrive Kant, è possibile apprendere storicamente un sapere originariamente razionale (come dev’essere un sistema filosofico) senza averlo minimamente padroneggiato razionalmente. Più rilevante ai nostri fini è il caso inverso, cioè quello dell’apprendimento ex principiis di un materiale originariamente da acquisirsi storicamente: si tratta infatti della scienza empirica, di cui la fisica costituisce un esempio. 3 KrV A 126. Cf. B 160 e Prolegomena, § 36. 4 In effetti, Kant premette a questa classificazione una distinzione, basata sulle fonti delle conoscenze, tra filosofia razionale e filosofia empirica. Ma il concetto qui accennato di «filosofia empirica», che corrisponderebbe a quello di una conoscenza ricavata da concetti empirici, si sovrappone a quello di sapere empirico che si ritrova al termine della classificazione stessa. In effetti, Kant non impiega quasi mai questo titolo di filosofia empirica, che qui sembra comparire soprattutto per completezza nell’andamento dicotomico della classificazione, e intende per «filosofia in senso pro-

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due soli oggetti, la natura e la libertà, e a seconda di essi si suddivide in filosofia della natura, che riguarda ciò che è, e filosofia dei costumi, che riguarda ciò che deve essere (A 849/B 868). Questa distinzione, certamente non inconsueta, viene subito integrata con l’introduzione rivoluzionaria della nuova scienza della «critica». «Ora, la filosofia della ragion pura è o p r o p e d e u t i c a (esercizio preliminare), la quale esamina la facoltà della ragione rispetto ad ogni conoscenza pura a priori, e si chiama c r i t i c a; oppure, in secondo luogo, è il sistema della ragion pura (scienza), vale a dire l’intera conoscenza filosofica (quella vera così come quella apparente) ottenuta dalla ragion pura ed esposta in connessione sistematica, e si chiama m e t a f i s i c a» (A 841/B 869). Ma la metafisica, aggiunge Kant poco dopo, «si divide in metafisica dell’uso s p e c u l a t i v o e in quella dell’uso p r a t i c o della ragion pura, ed è quindi o metafisica della natura o metafisica dei costumi» (ibidem). Per cui la filosofia si suddividerebbe in tre parti: la critica, la m e t a f i s i c a d e l l a n a t u r a e la m e t a f i s i c a d e i c o s t u m i (A 850/B 868). Prima di proseguire nell’articolazione interna della metafisica della natura (quella dei costumi viene accantonata in vista di una trattazione successiva) Kant stesso rileva una prima incongruenza tra la distinzione ideale dello schema architettonico e la distinzione effettiva delle conoscenze, osservando che la critica si può considerare parte integrante della metafisica generale: «questo nome [metafisica] può esser dato anche all’intera filosofia pura includendo la critica, per raccogliere insieme tanto l’indagine di tutto ciò che può essere conosciuto a priori, quanto l’esposizione di ciò che costituisce un sistema delle pure conoscenze di questo genere ma che è distinto da ogni uso empirico e matematico della ragione» (A 841/B 869). Di fatto, come è evidente nei Prolegomena5, prio» (A 850/B 868) quella razionale e cioè (almeno per definizione) indipendente da principi empirici. 5 Cf. Prolegomena, § 15, KgS IV, 294-295: «Ora, noi siamo realmente in possesso di una scienza pura della natura, la quale a priori e con tutta quella necessità che è richiesta per proposizioni apodittiche espone le leggi a cui la natura è sottomessa. E qui non ho bisogno di chiamare a testimonio che quella propedeutica alla dottrina della natura, che, sotto il titolo di scienza universale della natura, precede ogni fisica (che

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Kant include la critica (insieme alla fisica pura) in una «propedeutica filosofica» alla scienza della natura, mentre la metafisica generale, separata dalla sua applicazione empirica, resta una pura idea. Kant continuerà fino agli anni ’90 ad annunciare qua e là la prossima realizzazione di un «sistema di metafisica», ma questo sistema non verrà mai realizzato. La ragione di questo differimento affonda nello stesso concetto di questa progettata metafisica. Essa avrebbe dovuto contenere l’esposizione dei concetti puri e dei concetti da essi composti, i predicabili, cioè di tutti i concetti appartenenti tradizionalmente all’ontologia; avrebbe poi contenuto la discussione delle condizioni della loro applicazione agli oggetti dei sensi, per prolungarsi infine, sempre secondo lo schema delle metafisiche di impostazione wolffiana, nell’esposizione delle parti speciali – psicologia, cosmologia e teologia razionali – che però, alla luce della Critica, avrebbero contenuto una trattazione puramente critica di questioni dogmaticamente insolubili. In definitiva, si sarebbe trattato di ripetere dottrine già sostanzialmente esposte nella Critica, o di ripeterne altre ormai prive di valore conoscitivo, e cioè elencare concetti logico formali assumendone un possibile uso trascendentale, per ottenere quelle dottrine cui qui Kant accenna chiamandole «conoscenze apparenti»6. Non stupisce dunque se, incalzato dai suoi estimatori e seguaci che insistevano sulla necessità di fornire la filosofia trascendentale di una vera e proè fondata su principi empirici). In essa si trova la matematica applicata ai fenomeni, e anche proposizioni semplicemente discorsive (tratte da concetti), le quali costituiscono la parte filosofica della conoscenza pura della natura. Ma pure v’è in essa anche parecchio che non è del tutto puro e indipendente da fonti sperimentali come il concetto di moto, di impenetrabilità (sul quale si fonda il concetto empirico di materia), di inerzia, ecc., i quali vietano che essa possa dirsi del tutto una scienza pura della natura». 6 La metafisica veniva trattata secondo questi principi espositivi nelle Nachschriften delle lezioni di metafisica degli anni del criticismo. Un documento esemplare della struttura del sistema di metafisica annunciato da Kant si trova tra i manoscritti dell’Opus postumum (KgS XXI, 454-458, stampato già, secondo la trascrizione di Adickes, in KgS XVIII, 659ss.). Qui Kant indica esplicitamente l’ordine della esposizione, con l’esempio della categoria di quantità: «1. Concetto. 2. Origine di esso suddivisione sintetica [sintesi?] (a priori). 3. Dominio (solo oggetti dei sensi). 4. Principio (sotto questo concetto). – Predicabili (Possibilità della mathesis pura)».

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pria fondazione metafisica, Kant intervenne infine – contro Fichte – per ribadire ciò che nella sostanza aveva sostenuto fin dall’inizio: e cioè che la Critica conteneva già l’essenziale di quella metafisica7. In definitiva, dunque, non è la critica ad essere architettonicamente inclusa nella metafisica, ma è piuttosto quest’ultima ad essere assimilata alla critica come filosofia trascendentale. Se della metafisica generale non resta che una trattazione critica, la metafisica della natura resta l’unica metafisica possibile. Kant stesso avverte che essa è quella che «si usa chiamare metafisica in senso stretto» (A 842/B 870). Dal modo in cui la presenta, in effetti, ci si rende conto che essa non è, come può far pensare il titolo, una metafisica particolare, ma contiene «i principi ricavati da semplici concetti (dunque con esclusione della matematica) della conoscenza teoretica di tutte le cose». Essa, in generale, «tratta, secondo concetti a priori, di tutto, in quanto è» (A 845/B 873; dove, ovviamente, il concetto di essere sarà subordinato al principio dell’esperienza possibile). Procedendo all’articolazione interna della metafisica della natura (fig. 2), Kant introduce la distinzione tra una metafisica che faccia astrazione da oggetti che siano dati, identificata alla filosofia trascendentale, e una vera e propria «fisiologia della ragion pura» che invece si occupi della «natura» come insieme degli oggetti dati mediante i sensi. La metafisica (o filosofia) della natura si articola in due parti (A 845/B 873ss.): la prima è la «filosofia trascendentale», o «ontologia», che «tratta soltanto dell’i n t e l l e t t o e della ragione stessa in un si7 Questo sistema viene menzionato come «metafisica della natura» in KrV A XXI. È significativo che, dopo il 1786, Kant non usi più questa espressione – che ha assunto un senso nuovo nei Principi metafisici – ma si riferisca più in generale al «sistema di metafisica»: vedi per es. KrV B XXXVI; A 82/B 108 ss.; lettera a Mendelssohn del 16 agosto 1783 (KGS X, 344-347); Prolegomena § 39 (KgS IV 324); lettera a L.H. Jakob dell’11 settembre [?] 1787 (KgS X, 493-495). Numerose le affermazioni degli anni ’90: Kritik der Urteilskraft, Prefazione, KgS V, 170; lettera a J.S. Beck del 20 gennaio 1792, KgS XI 313-316; Fortschritte der Metaphysik, KgS XX, 310. La Erklärung in Beziehung auf Fichtes Wissenschaftslehre del 7 agosto 1799, pubblicata sulla «Allgemeine Literaturzeitung», è ristampata in KgS XII, 370-371: qui Kant sembra fare un passo indietro sulla distinzione fra critica e sistema, per ribadire contro la filosofia fichtiana che la Critica contiene l’essenziale della filosofia pura.

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stema di tutti i concetti e di tutti i principi che si riferiscono ad oggetti in generale, senza assumere oggetti che s i a n o d a t i» − e questa scienza, sia pure senza la compiutezza del trattato scolastico, è stata esposta già nella Analitica trascendentale; la seconda parte «tratta della n a t u r a , cioè del complesso degli oggetti dati (siano essi dati ai sensi o, se si vuole, a un’altra specie di intuizione), ed è quindi f i s i o l o g i a (sebbene solo rationalis)» (A 845/B 873)8. Quest’ultima si suddivide a sua volta in due parti, a seconda che vi si indaghi un uso della ragione «fisico» («immanente») o «iperfisico» («trascendente»). Il primo «si riferisce alla natura, nella misura in cui la sua conoscenza può essere applicata all’esperienza (in concreto), il secondo si riferisce a quella connessione degli oggetti dell’esperienza che oltrepassa ogni esperienza». La prima parte, dunque − la «fisiologia immanente» − «tratta della natura come il complesso di tutti gli oggetti dei sensi, dunque così come ci è data, ma soltanto secondo condizioni a priori, sotto le quali essa può esserci data in generale»; essa si articola a sua volta in «metafisica della natura corporea», o «fisica razionale», e «metafisica della natura pensante», o «psicologia razionale», a seconda che si riferisca gli oggetti del senso esterno o interno. La «fisiologia trascendente», invece, si compone di cosmologia trascendentale e teologia trascendentale, le quali si occupano rispettivamente della totalità degli oggetti dell’esperienza, e del collegamento dell’intera natura con un ente che la trascende. In conclusione, «l’intero sistema della metafisica consiste di quattro sezioni principali: 1) L’o n t o l o g i a [o filosofia trascen8 In una parentesi che ho eliminato nella citazione, Kant precisa che gli oggetti dati in questione potranno essere «dati ai sensi o, se si vuole, a un altro genere di intuizione». Questo riferimento a altre specie di intuizione cade in seguito, quando il discorso si limita alla fisiologia immanente (che tratta della natura «come è data a noi») e dunque va riferito ai soli casi di cosmologia e teologia razionali. Non è, in sostanza, che un accenno alla possibilità (solo logica) che le aporie insuperabili cui vanno incontro le conoscenze di tal genere siano superate mediante un’altro modo di intuire oggetti, definito solo negativamente in opposizione all’intuizione sensibile. Si tratta dunque della consueta delimitazione negativa della conoscenza in quanto riferita ai fenomeni, che non apre di fatto alcuna prospettiva teoretica ma lascia spazio alla possibilità della filosofia pura pratica fondata sul concetto di libertà.

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dentale]. 2) La f i s i o l o g i a r a z i o n a l e. 3) La c o s m o l o g i a r a z i o n a l e. 4) La t e o l o g i a r a z i o n a l e. La seconda parte [...] contiene due sezioni, la physica rationalis e la psychologia rationalis» (A 846/B 874). La cosmologia razionale e la teologia razionale, come è noto, sono state dissolte come scienze apparenti nella Dialettica trascendentale, per cui la metafisica della natura sarà costituita essenzialmente di ontologia e fisiologia razionale. Il rapporto tra queste due scienze, come si è accennato, non risulta però immediatamente comprensibile. La prima infatti fa astrazione da oggetti che ci siano dati, ma, come insegna la Critica, deve far riferimento ad essi o restare priva di validità oggettiva. D’altra parte la fisiologia immanente fa riferimento a oggetti dei sensi, ma non può ricavare i propri principi dall’intuizione di questi oggetti, perché altrimenti non sarebbe in grado di fornire conoscenze a priori. Troviamo dunque due problemi aperti – indipendenza dell’ontologia e possibilità della fisiologia pura – la cui soluzione sarà necessaria al raggiungimento del nostro obiettivo di comprendere il ruolo della fisica nel sistema. Per quanto riguarda la fisica stessa, infine, Kant distingue la «fisica razionale», in quanto contiene dei principi a priori derivati da semplici concetti, dalla «fisica generale» dei fisici matematici, che assume questi concetti e principi senza indagarne l’origine (KrV A 847/B 875 nota): Non si pensi che con questa denominazione [physica rationalis] io intenda ciò che comunemente si chiama physica generalis, e che appartiene più alla matematica che alla filosofia della natura. La metafisica della natura, infatti, è del tutto separata dalla matematica, e anche se è ben lontana dall’ampliare le nostre conoscenze nella stessa misura della matematica, tuttavia è molto importante per quanto riguarda la critica della conoscenza pura dell’intelletto in generale, laddove tale conoscenza vada applicata alla natura. In mancanza di essa gli stessi matematici, in quanto dipendono da certi concetti comuni − che in realtà sono metafisici −, hanno gravato inconsapevolmente la fisica [Naturlehre] con ipotesi che scomparirebbero se sottoposte alla critica di questi principi, senza che peraltro una tale critica possa arrecare il minimo danno rispetto all’uso della matematica in questo campo (uso cui non si può assolutamente rinunciare).

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A queste due discipline va aggiunta infine la «fisica empirica», in quanto basata sull’osservazione e l’esperimento. Piuttosto che tre discipline separate, tuttavia, queste distinzioni interne alla fisica individuano tre distinte fonti della conoscenza fisica: i concetti a priori, la matematica e l’esperienza. A questo punto, tuttavia, il contributo esatto di queste distinte fonti e il loro rapporto reciproco resta ancora da chiarire: per esempio nel 1786, quando intraprenderà il tentativo di stabilire questo rapporto reciproco degli elementi della fisica, Kant abbandonerà l’ipotesi che la fisica pura sia «del tutto indipendente dalla matematica». Ma soprattutto, negli anni ’90, gli si porranno nuovi problemi relativi alla fisica empirica. In generale, Kant troverà che la posizione ipotetica di leggi nell’indagine fisica comporta altri e diversi presupposti a priori, sia formali sia materiali. Troviamo così la terza questione in cui si può articolare la nostra ricerca, e che si può riassumere nella domanda: dati i principi metafisici e matematici, come è possibile la stessa fisica empirica? Come si era anticipato, lo schema sistematico definisce delle scienze, ma pone un problema aperto di legittimità in tutti e tre i casi pertinenti alla filosofia naturale (ontologia, fisiologia razionale, fisica empirica). Ovviamente la distinzione tra queste diverse scienze non dipenderà da una diversità di oggetto, ma dalla diversa origine degli elementi della conoscenza, i quali in ultima analisi si riferiscono a un oggetto dato dall’intuizione empirica. Proprio da questo principio di ordinamento Kant fa dipendere la diversità architettonica tra il proprio sistema e quello di Wolff. Il sistema wolffiano, infatti, concepisce il rapporto tra ontologia e metafisiche speciali come un rapporto di subordinazione del particolare all’universale. Ma così facendo perde di vista che le diverse scienze si distinguono tra loro non per la generalità dell’oggetto, ma per l’origine delle relative conoscenze. Per esempio, in questo modo i confini tra matematica e metafisica rischiano di essere posti erroneamente nella differenza delle proprietà studiate (rispettivamente quantità e qualità − A 714-5/B 742-3); inoltre, distinguendo secondo l’oggetto, non si possiede neanche un criterio adeguato per separare ciò che è metafisica da ciò che non lo è, poiché i principi «primi» si distinguono allora so161

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lo per il grado di universalità9. Perciò l’articolazione della metafisica in quattro parti (ontologia, cosmologia, psicologia, teologia) aggira il problema della validità dei principi ontologici per le diverse metafisiche speciali, introducendo i diversi generi di enti senza alcuna indagine sull’origine delle rispettive proprietà. Così, quando Kant sostituisce l’ontologia con la filosofia trascendentale, non si tratta di una superficiale rinuncia all’«orgoglioso nome» di ontologia (B 303), ma piuttosto del riconoscimento che la sintesi trascendentale presuppone un riferimento all’esperienza, e non si riferisce direttamente a oggetti. In questo senso è fondamentale sottolineare che la nuova disciplina, comunque la si chiami, è una logica trascendentale, cioè una disciplina razionale discorsiva indipendente da elementi intuitivi, comprensiva di un nuovo «organo», l’analitica. Per quanto riguarda la metafisica speciale, Kant raccoglie la psicologia nella fisiologia razionale, accostandole la fisica pura, che nello schema wolffiano non compare come disciplina autonoma. Solo con la fisiologia immanente, infatti, l’ontologia trova una applicazione agli oggetti dei sensi (essendo negata la possibilità di un riferimento a oggetti non sensibili). Ma questa funzione non soltanto richiede il contributo di una parte pura della fisica bensì, come si vedrà, verrà svolta di fatto dalla sola fisica pura10. 9 «[...] io domando: il concetto di ciò che è esteso appartiene alla metafisica? Rispondete: sì! Ma allora anche quello di corpo? Sì! E quello di corpo fluido? Diventate perplessi, perché se si va avanti così tutto apparterrà alla metafisica. Da ciò si vede che il semplice grado di subordinazione (il particolare sotto l’universale) non può affatto determinare i confini di una scienza, ma, nel nostro caso, deve farlo la totale eterogeneità e diversità dell’origine» (A 843-4/B 871-2). Perciò quando – come faceva Wolff – si definiva la metafisica come «la scienza dei primi principi della conoscenza umana, non si designava in tal modo un genere del tutto particolare di conoscenza, ma solo un rango relativo all’universalità, di modo che però essa non poteva essere distinta dall’empirico in maniera riconoscibile; infatti anche tra i principi empirici ce ne sono alcuni più universali, e quindi più elevati rispetto ad altri, e, nella serie di una tale subordinazione (poiché non si distingue ciò che è del tutto a priori da ciò che è soltanto a posteriori), dove si deve fare la cesura che divida la prima parte e i membri superiori dall’ultima e da quelli subordinati?» (A 843/B 871). La definizione di metafisica è ripresa direttamente da BAUMGARTEN, Metaphysica, § 1: «Metaphysica est scientia primorum in humana cognitione principiorum». 10 Va sottolineato che la fisica empirica di scuola wolfiana, in base allo stesso problema di indistizione logica sottolineato da Kant, includeva molti temi di quella che

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In conclusione, possiamo così riassumere i problemi della filosofia della natura: 1) Possibilità dell’ontologia, in quanto non si riferisce a oggetti determinati; 2) Possibilità della fisiologia razionale, in quanto scienza a priori che si riferisce a concetti empirici; 3) Possibilità della fisica empirica, in quanto assume una legalità specifica della natura; 4) A questi va aggiunto un meno evidente problema di individuazione della sostanza, in quanto, come vedremo, quest’ultima non viene posta in ontologia, ma nemmeno data con la semplice intuizione empirica. La soluzione di questi problemi dovrà dunque fornire anche piena legittimità alle distinzioni architettoniche. In correlazione con essi, d’altra parte, Kant definisce nel criticismo quattro concetti di natura, che delimitano i diversi domini di conoscenze individuati dalle parti del sistema, procedendo dal più astratto verso il più concreto. Egli distingue infatti: una «natura in genere», corrispondente alla filosofia trascendentale o ontologia; una «natura particolare» (interna ed esterna), corrispondente alla fisiologia razionale (rispettivamente, dottrina dell’anima e dottrina dei corpi); una natura come «sistema delle leggi empiriche» (nel 1790), che corrisponde alla fisica empirica, ma presuppone, oltre ai principi metafisici e matematici, ancora un principio trascendentale della facoltà di giudizio che sarà indagato nella Critica della facoltà di giudizio; infine una «natura» delle cose individuali, la cui conoscenza non è concludibile e dunque è solo parzialmente oggetto di scienza, ma che presuppone pur sempre un sistema di conoscenze Kant cerca di isolare come fisica pura. È il caso dello stesso trattato di WOLFF, Vernünftige Gedanken von den Würkungen der Natur, Halle 1723, dedicato alla scienza dei corpi, che fornirà il modello ai manuali wolffiani di fisica e, mediatamente, gran parte del materiale dottrinale ridiscusso da Kant nei Principi metafisici della scienza della natura. Uno dei testi più rilevanti al di fuori della scuola wolffiana è quello di Crusius, per il quale vale la medesima considerazione: Anleitung über Naturbegebenheiten ordentlich und vorsichtig nachzudenken, Leipzig 1749 (17742), rist. in Hauptwerke, vol. IV.

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− cioè, nel caso della sostanza materiale, di nuovo la fisica empirica. Esaminiamo ora in maggior dettaglio la distinzione tra questi domini, e dei problemi rispettivi. Essa ci presenta la suddivisione del lavoro filosofico che scandirà le ricerche kantiane di filosofia naturale nel ventennio del criticismo – e di conseguenza anche la nostra esposizione. (1) I primi due concetti di natura definiscono il rapporto tra filosofia trascendentale (o ontologia) e fisiologia. La prima di queste scienze non si riferisce a oggetti dati, mentre la seconda si riferisce alla natura, intesa come «complesso di tutti i fenomeni» (KrV A 419/B 446n). Una simile distinzione secondo l’oggetto è però ancora confusa, fintanto che non si chiarisce la funzione della sintesi trascendentale dei fenomeni. La natura viene definita in tal senso come la «connessione dei fenomeni, nella loro esistenza, secondo regole necessarie, cioè leggi» (A 216/B 263), o, come Kant scrive nella seconda edizione nella Critica, come «conformità a leggi dei fenomeni nello spazio e nel tempo» (B 165). Da questi passi emerge una distinzione tra due concetti di natura, il cui rapporto reciproco è il seguente: la natura come insieme dei fenomeni, che Kant chiama anche «natura materialiter spectata» (B 446), possiede prima di tutto la proprietà della «conformità a leggi», secondo cui gli oggetti che la costituiscono sono connessi in base a leggi universali; infatti senza questa conformità a leggi dei fenomeni non sarebbe possibile la stessa esperienza di oggetti. Questa proprietà è il tema dell’ontologia, che viene isolato intenzionalmente e raccolto sotto il titolo di una «natura in genere (überhaupt)» (B 165)11. La possibilità dell’ontologia del criticismo non dipende dunque dal semplice riferimento alle «cose in genere»12 (che anzi rischia 11 Il fatto che la natura come legalità – la natura in genere – costituisca un aspetto (in termini logici: una nota caratteristica) della natura materialiter spectata e sia dunque contenuta nel concetto di questa è confermato in alcuni luoghi dove questa astrazione viene meno e si legge, per esempio, che per natura intesa «materialiter» (o «substantive») si intende «il complesso dei fenomeni in quanto questi sono interamente connessi mediante un principio interno di causalità» (A 418/B 446). 12 KrV A 719/B 747: «Certo, esiste una sintesi trascendentale che si basa su semplici concetti e che riesce soltanto al filosofo, ma essa non riguarda mai nient’altro che

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di condurre subito all’illusione dialettica), ma dal riconoscimento di una legalità trascendentale implicita nell’esperienza. In luogo del concetto di possibilità di una cosa, dunque, si ha quello di possibilità dell’esperienza e l’esperienza (come «conoscenza empirica»), non la cosa, è il concetto primitivo della metafisica della natura: la possibilità dell’esperienza è possibilità della natura13. Il concetto kantiano di esperienza contiene infatti quello di una regolarità necessaria. Mentre però una certa regolarità del pensiero e della natura viene considerata da Kant come un dato di fatto, la legalità in senso proprio, in quanto comporta una regolarità necessaria − e solo come tale rende possibile parlare di una natura − richiede una giustificazione a priori14. La conoscenza come legislazione della ragione deve dunque trovare giustificazione a partire dall’analisi dell’«esperienza possibile», secondo i ben noti passaggi dell’Analitica trascendentale: così nella Deduzione trascendentale viene sostenuta la necessità che leggi ricavate dall’uso delle categorie (come il principio di causalità) siano valide della natura (materialiter spectata), mentre nell’Analitica dei principi viene esposto il contenuto e provata di caso in caso la validità di queste leggi tenendo conto delle forme dell’intuizione. Queste conoscenze sono ricavate, però, astraendo del tutto dal contenuto particolare dell’intuizione, e vengono riferite al solo molteplice di percezioni date nello spazio e nel tempo, considerate come astratti termini una cosa in generale, e le condizioni sotto le quali la sua percezione può appartenere a un’esperienza possibile». 13 Prolegomena, § 36, IV, 319. Per indicare lo strato trascendentale della conoscenza Kant usa anche la locuzione di ‘esperienza in genere’, che corrisponde a quella di ‘natura in genere’. Tra i due concetti non c’è in effetti una differenza di contenuto, ma il primo termine esprime l’attività conoscitiva, mentre il secondo considera isolatamente la legalità trascendentale che questa attività pone. Per esprimere la sottile distinzione tra esperienza in genere e natura in genere ci si può servire della terminologia intenzionale di Husserl e affermare, per es., che l’esperienza in genere è il complesso degli atti noetici di cui la natura in genere è il correlato noematico. 14 Sulla regolarità in genere, come dato di fatto, si veda per es. Logik, KgS IX, 11 e KrV A 113. Su regola e legge si veda K. GLOY, Die kantische Theorie der Naturwissenschaften, Berlin 1976, pp. 19-62. Un’analisi storica e sistematica del concetto kantiano di esperienza si trova in H. HOLZEY, Kants Erfahrungsbegriff. Quellengeschichtliche und bedeutungsanalytische Untersuchungen, Basel/Stuttgart 1970.

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della connessione legale introdotta con l’applicazione delle categorie. In altre parole, il medio che permette di estendere la conoscenza trascendentale non è una intuizione, ma appunto la possibilità dell’esperienza. La legittimità della filosofia trascendentale come scienza indipendente si basa dunque su questa astrazione dei suoi concetti e sull’indipendenza argomentativa dei rispettivi giudizi sintetici. Questi si basano infatti su prove «discorsive», o «acroamatiche», che non fanno uso dell’intuizione. Per la stessa ragione, tuttavia, essi sono validi solo mediatamente, in riferimento all’intuizione empirica15. Perciò Kant può concludere che l’intera ragion pura non contiene «un solo giudizio direttamente sintetico in base a concetti» (A 736/B 764). La conoscenza razionale pura, in altre parole, non contiene «nessuna proposizione sintetica determinante, ma solo un principio della sintesi di possibili intuizioni empiriche» (A 722/B 750) – il che rimanda alla scienza basata sull’intuizione empirica il compito di introdurre fondatamente l’oggetto in quanto sostanza individuale dotata di proprietà determinate16. (2) Togliendo l’astrazione, dunque, si ritrova il molteplice dei fenomeni variamente determinato dall’intuizione, che è oggetto delle successive parti della filosofia naturale. Ma gli oggetti trattati dalla fisiologia razionale, come si ricava dalla sua definizione, non sono tutti i fenomeni della natura materialiter spectata, e dunque non sono ancora gli oggetti considerati in toto, ma solo alcune loro proprietà essenziali: per es., sono corpi e dunque oggetti estesi e impenetrabili. Anche in questo caso, le proprietà considerate ver15 Si vedano, tra i molti luoghi, KrV A 722/ 474, e soprattutto A 734-738/B 762766, dove Kant espone le «prove» filosofiche, distinguendole dalle «dimostrazioni» matematiche fondate sull’«evidenza» intuitiva. Fa il punto sulla questione CAPOZZI, Kant e la logica, I, pp. 580-585. La peculiarità del Grundsatz trascendentale, conclude Kant, è che esso «rende per primo possibile il proprio fondamento dimostrativo, l’esperienza, e deve esserne presupposto» (A 737/B 765). 16 Il problema della costituzione dell’oggetto in senso pieno è lasciato da parte, in ontologia, dove Kant parla in genere di un oggetto (Gegenstand) dato dall’intuizione empirica, che viene considerato in astratto come il correlato intenzionale dell’intuizione. È significativo poi che, nelle stesse pagine della dottrina del metodo, la conoscenza empirica venga identificata con la conoscenza «meccanica» (A 721/B 749), e si parli della materia, che indica il sostrato delle determinazioni oggettive, come di un qualcosa di «fisico» (A 723/B 751).

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ranno ordinate secondo il filo conduttore delle categorie e dovranno costituire un insieme finito. Ma il criterio dell’origine delle conoscenze impedisce di considerare i nuovi principi metafisici come una semplice specificazione di quelli trascendentali. Una tale specificazione, secondo cui lo schema architettonico corrisponderebbe a un’inferenza sillogistica del particolare dall’universale, non porterebbe infatti a nuove conoscenze e risiederebbe nell’applicazione dei già acquisiti principi trascendentali ai due generi di oggetti, corpi e anime, in analogia con quanto avviene nel sistema wolffiano. Un’interpretazione del genere17 è inadeguata perché Kant presenta i nuovi «principi metafisici» come un ampliamento della conoscenza, che non viene ricavato mediante la rappresentazione intuitiva degli oggetti corrispondenti, ma considerando solo alcune proprietà essenziali di questi ultimi, per ricavarne a priori delle ulteriori determinazioni18. Quali siano questi concetti empirici e come possano inferirsene a priori altre determinazioni oggettive, però, non viene trattato nella Critica. Perciò lo stesso Kant sente almeno il bisogno, nell’Architettonica, di sollevare il problema della legittimità di questa parte ulteriore della metafisica basata su concetti empirici: Anzitutto, come posso aspettarmi una conoscenza a priori, quindi una metafisica, relativa a oggetti che sono dati ai nostri sensi, quindi a posteriori? E come è possibile conoscere secondo principi a priori la natura delle cose e ottenere così una fisiologia r a z i o n a l e? La risposta è: noi non prendiamo dall’esperienza nient’altro che quel che è necessario per darci un oggetto, tanto del senso esterno quanto del senso interno (A 847/B 875).

La questione, tuttavia, rimane irrisolta. La risposta kantiana definisce infatti il contributo empirico alla fisiologia immanente in modo solo negativo, affermando che, una volta assunti i concetti empirici di corpo o anima, essa procede senza far riferimento a nessun altro principio empirico, cioè a nessun giudizio ricavato dal17 È 18 Si

sostenuta, per esempio, da ADICKES, Kant als Naturforscher, I, p. 262 veda per es. Kritik der Urteilskraft, § V, KgS V, 181.

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l’esperienza. Ma Kant non spiega in che modo il concetto empirico contenuto nella fisiologia si colleghi ai concetti puri, né chiarisce come, in base a esso, si ottengano a priori le nuove conoscenze metafisiche. Il problema risiede proprio nella posizione di un concetto empirico alla base di conoscenze a priori, le quali, se devono essere distinte da quelle della filosofia trascendentale, devono in qualche modo essere collegate a questo concetto. La soluzione di questo problema, dunque, comporta una ulteriore delucidazione sulla legittimità di una metafisica della natura particolare, che Kant intraprenderà solo nei Principi metafisici della scienza della natura del 1786. Il modo piuttosto intricato in cui Kant risolve la questione in quest’opera verrà esaminato nella parte II. Per ora basti dire che egli, senza scuotere le basi della sua precedente teoria della dimostrazione, troverà nel ricorso all’intuizione pura, e dunque nell’indagine sulla possibilità della fisica matematica, la via intermedia tra ontologia e fisica sperimentale. (3) Come abbiamo visto, tuttavia, la distinzione di una fisiologia pura lasciava ancora intatto il problema della fisica empirica. A giudicare dalla Critica, di nuovo, questo problema risulta poco vistoso, o addirittura inesistente. Kant mette in chiaro che, una volta stabilita la legislazione generale (trascendentale) della natura, resta il compito di trovare le «leggi particolari» della natura. Si prenda il caso del principio di causalità. Il principio trascendentale di causalità stabilisce che ogni cambiamento ha una causa. La stessa esperienza della successione oggettiva degli stati di una sostanza presuppone che ogni stato precedente determini il successivo secondo una regola. Alla luce di questa trattazione trascendentale della causalità il concetto precritico di «legge sensibile» della successione viene affrancato dal campo della sensibilità, e risulta tanto inadeguato quanto la descrizione humiana del nesso causale come matter of fact: «la semplice percezione lascia indeterminata la relazione oggettiva dei fenomeni che si succedono» (KrV B 234). Ciò che viene determinato trascendentalmente, tuttavia, è la sola necessità di un collegamento causale in generale; resta da determinare quale specie di legalità di volta in volta corrisponda a questo nesso anticipabile a priori. Il passaggio alla fisiologia razionale, da questo punto di vista, non esaurisce il pro168

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blema. Nella Critica Kant insiste soprattutto sul fatto che la conoscenza del mutamento è inconcepibile a priori, senza considerare fenomeni particolari; una volta aggiunto il fenomeno del movimento, in fisica pura, dal principio di causalità discenderà quello di inerzia. Ma la possibilità di una natura come molteplice dato e connesso secondo un sistema di leggi empiriche rimane in entrambi i passaggi ancora a margine. Molti indizi suggeriscono che Kant, fino al 1786, non prendesse in attenta considerazione questo problema perché era concentrato su altre questioni. Per esempio, nella discussione della seconda analogia, egli parla, per designare la connessione causale, talvolta semplicemente di regola, precisando quasi sempre che trattasi di regola necessaria, e solo in alcuni casi che si deve trattare anche di regola universale19. È probabile che Kant dia sempre per implicita l’universalità accanto alla necessità, dato che si tratta di caratteri indissolubili del principio trascendentale20. In realtà la trattazione trascendentale ha stabilito solo la necessità che si dia una regola di successione degli stati, ma non l’universalità di una specifica regola di connessione che ne specifichi il contenuto. Ciò è evidente ogni volta che Kant propone degli esempi tratti dalla fisica: la diffusione del calore, il peso di un corpo (KrV A 202-3/B 247-8), la solidità di un contenitore che racchiude un fluido (KrV A 204/B 249), infatti, sono proprietà empiriche, che come tali sono soggette, insieme ai nessi causali che ne determinano la scienza, a un’universalizzazione puramente induttiva. Proprio su questo iato, in effetti, si basa la distizione kantiana tra principio di causalità e leggi causali particolari21. L’«analogia dell’esperienza» kan19 La regola e la sua necessità vengono menzionate più di dieci volte per es. in A 193/B 238ss., A 197/B 242ss., A 201/B 246ss. e nello stesso enunciato della prima edizione A 189. L’universalità è menzionata solo due volte: A 196/B 241, A 200/B 245. Nell’enunciato di B il termine ‘regola’ è espunto, verosimilmente perché Kant lo considera analiticamente racchiuso nel concetto di connessione causale. 20 Cf. KrV B 3-4: «Necessità e rigorosa universalità sono [...] i segni [Kennzeichen] sicuri della conoscenza a priori e si implicano reciprocamente in modo inscindibile». Sono le pagine dell’Introduzione in cui Kant si rivolge al problema dell’empirismo humiano. 21 Su questo iato c’è un accordo pressoché universale tra gli interpreti. Si vedano

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tiana, insomma, non pare esaurire il contenuto dell’«analogia della natura» (per cui la natura è sempre «semplice e consonante con se stessa») di cui parlava Newton nelle sue Regole del filosofare22. Il problema dell’universalità dei nessi causali resta così nuovamente esposto alle obiezioni di Hume23. Per comprendere le ragioni di questa messa tra parentesi di un problema, che Kant non avrà difficoltà a riconoscere, è utile leggere un passo della seconda edizione della Critica in cui viene presentato il rapporto tra leggi trascendentali della natura e leggi empiriche (KrV B 164-165). Dato che ogni percezione possibile dipende dalla sintesi dell’apprensione, ma a sua volta questa stessa sintesi empirica dipende dalla sintesi trascendentale, e quindi dalle categorie, ne segue che tutte le percezioni possibili, quindi anche tutto ciò che potrà sempre giungere alla coscienza empirica, cioè tutti i fenomeni della natura, per quanto riguarda la loro congiunzione devono sottostare alle categorie; da queper es. G. BUCHDAHL, The Conception of Lawlikeness in Kant’s Philosophy of Science, in L.W. BECK (ed.), Kant’s Theory of Knowledge, Dordrecht 1974, rist. in BUCHDAHL, Kant and the Dynamics of Reason, Oxford 1992, pp. 229-230 e il resoconto, limitato alla letteratura anglofona, di M. FRIEDMAN, Causal Laws and the Foundations of Natural Science, in GUYER (ed.), The Cambridge Companion to Kant, p. 193, n. 7. Risultati sostanzialmente ripresi nella sintesi di G. BONIOLO, Leggi trascendentali, metafisiche ed empiriche in Kant, in G. BONIOLO-M. DORATO (a cura di), La legge di natura. Analisi storico-critica di un concetto, Milano 2001, pp. 101-153. 22 NEWTON, Principia, p. 553. Come ancora avveniva nel Kant precritico, la giustificazione delle regole e della conformità della natura a leggi universali rimanda qui alla teologia razionale: soluzione che nel criticismo deve cadere. 23 A. LOVEJOY, On Kant’s Reply to Hume, «Archiv für Geschichte der Philosophie», 19 (1906), pp. 380-407, sostenne in proposito che Kant aveva male interpretato il problema di Hume, senza risolverlo affatto. A prescindere dall’effettiva importanza del modello humiano, che in anni recenti è stata giustamente ridimensionata, L.W. BECK, A Prussian Hume and a Scottish Kant, in ID., Essays on Kant and Hume, New Haven 1978, p. 126, distinse correttamente due aspetti del problema di causalità: il primo corrisponde all’universalità dei nessi causali – Beck lo chiama «same-cause-same-effect» – il secondo alla stessa esistenza di nessi causali – Beck lo chiama «every-eventsome-cause». Kant affronterebbe il secondo, dunque non sarebbe corretto parlare di un non sequitur. Le osservazioni di Beck, benché corrette, non risolvono la questione. Se almeno alcuni nessi causali in natura non possedessero un certo grado di universalità, il concetto kantiano di natura come legalità rimarrebbe privo di oggettività.

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ste ultime la natura (considerata semplicemente come natura in generale) viene a dipendere come dal fondamento originario della sua necessaria conformità a leggi (in quanto natura formaliter spectata). Ma nemmeno la facoltà pura dell’intelletto è in grado di imporre, mediante le sole categorie, leggi a priori ai fenomeni, oltre a quelle su cui si basa una n a t u r a i n g e n e r a l e [Natur überhaupt], intesa come conformità a leggi dei fenomeni nello spazio e nel tempo. Le leggi particolari, poiché riguardano fenomeni empiricamente determinati, n o n p o s s o n o e s s e r e t o t a l m e n t e [vollständig] r i c a v a t e dalle categorie, anche se sottostanno tutte quante a queste ultime. Per poter arrivare a conoscere, i n g e n e r a l e, queste leggi particolari deve intervenire l’esperienza.

Il passo contiene, rispetto ai tanti altri in cui Kant descrive il rapporto tra leggi trascendentali della «natura in generale» e leggi particolari della natura (come insieme dei fenomeni nella loro concreta complessità)24, una aggiunta di grande importanza. Il riferimento all’esperienza, infatti, sembra contraddire quanto Kant afferma nell’Introduzione: «L’esperienza non conferisce mai ai suoi giudizi una autentica e rigorosa universalità, bensì solo un’universalità presunta e comparativa (mediante induzione), di modo che propriamente si deve dire: stando a quanto abbiamo finora osservato, non risulta alcuna eccezione a questa o a quell’altra regola» (KrV B 3-4). Nel passo citato Kant scrive invece che le leggi empiriche non sono totalmente ricavate da quelle trascendentali: potrebbero esserlo dunque in parte. Che cosa può significare questa affermazione? Certamente la nuova redazione, come in molti altri casi, è influenzata dal lavoro da poco concluso sui Principi metafisici. Il punto essenziale non si trova, però, nella trattazione del principio causale, ma in genere nella rielaborazione della dinamica pura, con cui Kant ha ritenuto possibile stabilire a priori alcune proposizioni della fisica newtoniana. In particolare, l’esempio è quello della legge di gravitazione, di cui appunto la nuova fisica pura ha anticipato «in parte» il contenuto, lasciando all’indagine propria24 Cf. per es. Prolegomena, KgS IV, 318-20, Erste Einleitung zur Kritik der Urteilskraft, KgS XX, 208-9.

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mente empirica la determinazione esaustiva dei suoi parametri quantitativi. Presupponendo questo suo risultato originale, in questi anni, Kant indica più volte nella fisica di Newton il modello esemplare di una fisica che è stata capace di fornire a priori i principi della connessione tra i fenomeni25. In numerosi luoghi, Newton viene indicato come colui che, con il concetto di gravitazione, ha introdotto in fisica un principio necessario e universale. In una riflessione risalente agli anni immediatamente precedenti la pubblicazione della Critica si legge26: «Empiricamente si possono scoprire certe regole, ma non leggi – come Kepler a paragone di Newton – perché a queste ultime appartiene la necessità e dunque sono conosciute a priori». È significativo che Newton venga qui associato alle leggi necessarie poste dall’intelletto, che pure vengono dette, piuttosto che fondamenti di leggi empiriche, «fondamenti di conformità a leggi». L’immagine si ritrova in un’opera del 1784, dove si legge che «la natura ha prodotto infatti un K e p l e r, che in modo inatteso ha sottoposto le orbite eccentriche dei pianeti a leggi determinate, e un N e w t o n, che queste leggi spiegò con una causa naturale universale»27. È dello stesso periodo la ripresa, nel § 38 dei Prolegomena, del tentativo di ricavare a priori la legge di gravitazione universale. L’universalità della gravità, intesa come concetto a priori, si ritroverà ancora in diverse riflessioni del 1799, il cui contenuto si addice anche al pensiero kantiano del decennio precedente. In esse Newton viene presentato come colui che, con il concetto di gravitazione, superò «l’empirismo della teoria del moto» tipico di Kepler e Huygens: egli per primo introdusse in fisica un «principio universale», cioè un principio «vero e proprio»; con ciò agì da «filosofo» laddove gli altri illustri scienziati nominati da Kant erano rimasti alle scoperte empiriche e alle relazioni matematiche28. 25 Questo fatto è messo in evidenza con grande chiarezza, nel contesto del problema che stiamo seguendo, da M. FRIEDMAN, Causal Laws, pp. 175-180. 26 Reflexion 5414, KgS XVIII, 176. 27 Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht (1784), KgS VIII, 18. 28 KgS XXII, 521: «È effettivamente un fenomeno notevole nel campo della scienza che ci fu un momento in cui il suo progresso sembrava terminato, in cui la nave sem-

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È chiaro che si tratta di un’immagine deformata di Newton (per tacere di Kepler), e certamente Kant non ne era del tutto inconsapevole: per es., nei Principi metafisici, egli riconosce apertamente di aver corretto una incertezza di Newton assegnando alla gravità lo statuto di proprietà fondamentale della materia. In ogni caso è evidente che, negli anni ’80, la ripresa del vecchio progetto di deduzione a priori della legge di gravità, prima nei Prolegomena, poi nella Dinamica dei Principi metafisici, potrebbe costituire la ragione per cui Kant lascia a margine la questione della possibilità di quel complesso indeterminato di leggi che la fisica non ha ancora stabilito, e la cui universalità è dubbia. Nella questione particolare della gravità, infatti, ne va del tentativo di affermare a priori il primato del dinamismo sul meccanicismo. Una volta ottenuto questo, poi, è possibile che Kant guardasse con ottimismo alla riduzione degli altri fenomeni fisici, come elettricità e magnetismo, brava restare all’ancora, e non c’era nient’altro da fare per la filosofia in un determinato campo. Le tre analogie di Kepler avevano completamente enumerato i fenomeni del moto orbitale dei pianeti, benché ancora in modo solo empirico, e li avevano descritti senza fornire ancora un riferimento alle f o r z e m o t r i c i, insieme alle loro leggi, che potessero esserne le cause. – Invece dell’a g g r e g a t o dei movimenti di Kepler, che contiene solo regole raccolte empiricamente, Newton creò un principio del sistema delle forze motrici in base a cause attive. Unità». KgS XXII, 528: «Le leggi del movimento furono stabilite sufficientemente con le tre analogie di Kepler. Erano nel complesso meccaniche. Huygens conobbe anche il movimento composto, benché derivato, mediante le forze che fuggono o tendono con continuità verso il centro (vis centrifuga et centripeta); ma, per quanto entrambi vi fossero vicino [...] tutto ciò che era stato edificato non era che empirismo della dottrina del moto e mancava sempre un principio universale e propriamente detto: cioè, un concetto della ragione da cui si possa inferire a priori, come passando da una causa a un effetto, una legge della determinazione delle forze; e questa spiegazione venne fornita da Newton» [il corsivo è mio]. Un interessante tentativo di spiegare in che senso Kant poteva ritenere che Newton avesse «spiegato» le leggi di Kepler viene svolto da FRIEDMAN, Kant and the Exact Sciences, pp. 175-176. Friedman associa ai tre principi della modalità altrettanti momenti della prova della legge di gravitazione: alla possibilità delle leggi di Kepler, segue la determinazione della realtà effettiva delle forze centrali alla base di quei moti, e infine, con l’applicazione della legge di azione e reazione (necessità), viene stabilita l’universalità della legge di gravitazione. Il ragionamento di Friedman, basato su una finissima analisi dei testi newtoniani commentati da Kant (ivi., pp. 141-164, 165-210), non pare comunque attribuibile allo stesso Kant, ma costituisce piuttosto una rielaborazione originale in spirito kantiano.

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a leggi e forze sempre più semplici, e magari a un collegamento di queste con un nuovo principio filosofico29. Il problema dell’armonia tra le molteplici leggi di natura empiriche, come è noto, verrà posto nella Critica della facoltà di giudizio, comportando la ricerca di una nuova deduzione trascendentale per un principio del giudizio nel suo uso riflettente. A questo scopo Kant adotterà un procedimento analogo a quello seguito riguardo alla legge di gravità: riprenderà riflessioni vecchie per rielaborarle e giustificarle in una nuova cornice. In questo caso, si tratta delle riflessioni sulla legalità del giudizio estetico, che erano rimaste escluse dalle soluzioni argomentative dell’Estetica trascendentale, e vengono ora riprese per stabilire la legalità delle percezioni particolari30. Il problema della specificazione di un sistema di leggi empiriche provoca dunque un ampliamento nello schema architettonico del 1781, così come era avvenuto per il compimento della fisiologia razionale. Successivamente, il problema della fisica empirica richiederà un’ulteriore aggiunta all’edificio della filosofia pura. Essa viene effettuata nel corso del lavoro a un «sistema elementare delle forze motrici» (iniziato nel 1796), concepito secondo la tavola categoriale per fornire una topica completa dei giudizi della fi29 Per l’aspettativa razionale di una unificazione dinamica di fenomeni elettrici e magnetici si veda Berliner Physik, KgS XXIX, 89-91. La speranza di trovare leggi dell’elettricità analoghe a quelle della gravitazione era stata accesa dallo stesso Newton nella seconda edizione dell’Ottica, dove questi aveva riferito i risultati di numerosi esperimenti svolti da F. Hauksbee – Opticks, p. 393 – e nell’ultimo capoverso alla seconda edizione dei Principia mathematica, con il suo sibillino riferimento allo «spirito sottilissimo» quale causa delle interazioni elettriche (Principia, pp. 764-765; cf. supra cap. 2, nota 10). Kant conosceva i risultati delle opere di Aepinus, il cui lavoro sperimentale ispirerà, proprio in questi anni, la scoperta della legge di Coulomb (1786). Sulle conoscenze kantiane in materia di elettricità e magnetismo, tra anni ’60 e anni ’80, si veda ADICKES, Kant als Naturforscher, II, pp. 86-94, 148-159. Sul contesto scientifico è utile E. BELLONE, La fisica dei fluidi, in P. ROSSI (a cura di), Storia della scienza moderna e contemporanea, Torino 1988, vol. I.2, pp. 673-699. Sull’unificazione delle leggi fisiche dal punto di vista kantiano si vedano anche: M. MORRISON, Methodological Rules in Kant’s Philosophy of Science, «Kant-Studien» 80 (1989), pp. 155-172; ID., Reduction, Unity, and the Nature of Science: Kant’s Legacy?, in M. MASSIMI (ed.), Kant and Philosophy of Science Today, Cambridge 2008, pp. 37-62. 30 Esamino questo tentativo nell’Appendice al volume.

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sica, e incluso nel progetto per il Passaggio dai principi metafisici della scienza della natura alla fisica. Kant si convince gradualmente che l’applicabilità di questo sistema comporta l’esistenza di un materiale cosmico variamente determinato: si pone dunque l’esigenza di una nuova condizione materiale a priori, che egli cerca di giustificare di nuovo attraverso una prova trascendentale. Il problema della fisica empirica, come si vede, occupa dunque un posto centrale nelle tarde riflessioni kantiane, senza trovare un esito definitivo negli scritti pubblicati: al punto che la domanda «come è possibile la fisica?» compare in capo a numerosi tra i più tardi fogli dell’Opus postumum, nell’anno 1799, poco prima che Kant interrompa la sua attività filosofica. (4) Il problema di stabilire la legalità del mondo fisico acquisirà un’importanza fondamentale anche per la questione della determinazione della sostanza individuale, e addirittura della sua identità. Questo ultimo risvolto della filosofia naturale kantiana costituisce una ulteriore testimonianza del radicale spostamento di baricentro del sistema del criticismo rispetto a quello wolffiano, a dispetto delle analogie strutturali. Il problema dell’identità della sostanza individuale, infatti, veniva risolto da Leibniz e Wolff a livello dei più generali principi metafisici, o ontologici. Il primato della legalità su ogni posizione di oggettività, nel passaggio da queste fonti metafisiche al criticismo, stabilisce le condizioni di un nuovo problema della sostanza individuale. Nella metafisica di Leibniz, come abbiamo visto, il concetto individuale della sostanza è identico alla «legge degli stati»31. In base all’assunzione logico-metafisica di un concetto individuale la successione degli stati (o rappresentazioni) di una monade si può considerare l’estrinsecazione necessaria della sua definizione ade31 La concezione dell’essenza della sostanza come «legge degli stati», in polemica con quella cartesiana, è tipica della tarda monadologia, ma è già presente negli scritti di Leibniz almeno dalla seconda metà degli anni ’70 (cf. A VI 3, 326). Una discussione su continuità e discontinuità tra la teoria del concetto completo (per es. nel Discours de Métaphysique) e la teoria dinamica della sostanza degli anni ’90 si trova in RUTHERFORD, Leibniz, pp. 148-154. In queste pagine considero la seconda come uno sviluppo della prima, senza addentrarmi nella questione.

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guata32. Da questo punto di vista metafisico tutte le verità si possono considerare analitiche33. Tuttavia solo un intelletto infinito, nel quale risiedono (agostinianamente) le stesse possibilità delle cose finite, è capace di cogliere le infinite proprietà della sostanza individuale e dunque possiede la conoscenza della definizione adeguata34. Di fatto, invece, l’intelletto umano è finito, perciò rappresenta il mondo mediante i sensi e può conoscere gli stati delle sostanze solo a posteriori. Anche in Leibniz, come in Kant, la conoscenza completa di un oggetto individuale è dunque empiricamente impossibile, essendo un individuo dotato di determinazioni infinite. Ogni conoscenza si riferisce perciò a un oggetto considerato attraverso alcune delle sue infinite proprietà. Nondimeno, dal punto di vista metafisico, l’identità della sostanza individuale è fondata nel suo concetto, mentre è solo la determinazione effettiva dei suoi attributi specifici nell’intelletto finito a dipendere dal concorso dell’esperienza35. Queste dottrine, esposte con la consueta brevità negli scritti leibniziani, vengono ancora una volta accolte da Wolff attraverso 32 Tra i numerosi luoghi leibniziani sul concetto di definizione completa si vedano Discours de métaphysique, § VIII, GP IV, 432-433 e il breve scritto Primae veritates, comparso per la prima volta in Opuscules et fragments inédits, pp. 518-521 (ora in A VI, 4 A, 1643-1649). Cfr M. MUGNAI, Introduzione alla filosofia di Leibniz, Torino 2001, pp. 165-166. 33 Com’è noto, Leibniz distingue la necessità ipotetica degli stati concetto individuale dalla necessità vera e propria, come quella geometrica (si veda Discours cit., § 13, GP IV, 437). La corrispondente distinzione tra verità necessarie (o di ragione) e contingenti (o di fatto) viene illustrata da Leibniz mediante quella tra numeri commensurabili e numeri incommensurabili, poiché, come nel caso dei quozienti irrazionali, la risoluzione delle verità contingenti procede all’infinito (si veda in proposito De arte characteristica ad perficiendas scientias ratione nitentes, A VI, 4 A, pp. 909-915, in part. 912). Si noti che l’intelletto divino ha una intuizione delle verità, non analizza i concetti, perciò non incontra il problema dell’infinità dell’analisi dei contingenti. 34 Sulla presenza delle idee eterne nell’intelletto divino si vedano i Nouveaux essais, IV, XI, § 13; A VI, 6, p. 447. 35 L’infinità delle proprietà dell’individuo, tuttavia, è in Leibniz un infinito attuale, mentre in Kant corrisponde piuttosto a un infinito potenziale e al decorso stesso dei contenuti empirici di un oggetto nello spazio e nel tempo. Nel caso di Kant, per la precisione, occorrerebbe dapprima dimostrare che l’oggetto completamente determinato resti identico nello spazio e nel tempo, il che, come stiamo per vedere, è empiricamente impossibile.

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un tentativo di sistemazione e giustificazione che risulta nel complesso in una teoria diversa. In primo luogo Wolff definisce l’essenza di una cosa come la sua possibilità e istituisce una filosofia prima, o ontologia, come scienza degli enti in quanto possibili. Il concetto wolffiano di essenza di una cosa contiene la necessità e l’eternità tipiche delle proprietà degli enti matematici. Questa impostazione essenzialistica comporta che l’ontologia wolffiana astragga dalle determinazioni empiriche delle sostanze e che l’esistenza individuale non corrisponda più a una specie infima definita nel sistema intellettuale del mondo; invece un ente, completamente determinato nella sua essenza, ha bisogno per passare all’esistenza di uno speciale «complementum possibilitatis»36. Si vede dunque, ancora una volta, come il bisogno di una specificazione «in concreto» dei concetti, affermato contro Wolff da Crusius e rielaborato poi da Kant, sia in effetti iscritto fin dall’inizio nello stesso sistema wolffiano, per quanto resti all’interno di questo teoricamente implicito e messo in ombra dal concetto di essenza individuale. Così, laddove Wolff definisce la verità come «ordine dei mutamenti delle cose»37, per Kant si pone un compito che solo l’indagine sull’esperienza possibile è capace di risolvere. L’ontologia kantiana, come quella wolffiana, si riferisce per risolvere questo compito alla «cosa in generale», ma come abbiamo visto si occupa della sintesi trascendentale che rende possibile l’esperienza di oggetti, riservando il problema dell’individuazione alle parti succes36 WOLFF, Philosophia prima sive Ontologia, § 174, dove il concetto viene accostato a quello scolastico di «ecceitas». Sull’ontologia wolffiana come scienza delle essenze, e sul problema, in essa, del concetto di esistenza come «complementum possibilitatis», si veda CAMPO, Cristiano Wolff, pp. 162-185. Campo descrive con efficacia lo iato tra essenza e esistenza tipico dell’ontologia di Wolff, parlando di «mentalismo», contrapponendolo alla concretezza della sostanza di tradizione aristotelica (e, si può aggiungere, di quella leibniziana). Ma la sua analisi va integrata sul piano storico dal riconoscimento dell’enorme importanza che le scienze empiriche assumono nel wolffismo, quasi per contrasto e certo con notevole inconseguenza. Questa infatti preparò il terreno per la successiva diffusione dell’empirismo e dello stesso newtonianesimo in Germania: cosa che non si può dire dell’aristotelismo. Queste acquisizioni sono messe in evidenza nei più recenti studi wolffiani. 37 WOLFF, Vernünftige Gedanken von Gott, § 142, WGW I, 2, p. 74. Cf. la trattazione più ampia della veritas transcendentalis nell’Ontologia, §§ 495-499.

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sive del sistema. Infine, la Dialettica trascendentale esclude che questo individuo possa mai essere una sostanza semplice, troncando alla radice – in base all’Estetica e all’Analitica – le stesse premesse leibniziane che il wolffismo ancora conservava. La precedenza del concetto sintetico di legalità su quello di cosa, nella cornice del criticismo, ha come prima conseguenza che gli elementi intellettuali della conoscenza non sono più isolabili in senso metafisico, e non hanno significato oggettivo in quanto termini astratti dal processo conoscitivo, mentre l’oggettività si definisce solo mediante la loro applicazione congiunta alla materia delle percezioni. Così per un verso l’appercezione (oltre ovviamente alle forme dell’intuizione e alle categorie), per l’altro la materia logica o quella della percezione, non costituiscono nulla di oggettivo se considerate in sé (Kant direbbe: in astratto). Una relazione di applicazione dovrà legare i diversi elementi della conoscenza, e mentre a un capo dell’intero edificio del sapere si trova l’unità sintetica dell’appercezione38, all’altro estremo si trova il «reale» della percezione. Tra questi due termini astratti si costituisce l’oggettività, che proprio in corrispondenza di questi due estremi trova, insieme alle proprie condizioni, anche il problema di una sua limitazione e trascendenza: nel caso dell’appercezione, con il concetto pratico di libertà, in quanto l’affrancamento dell’appercezione dagli stati interni permette di valutare diverse massime dell’agire indipendentemente dai sensi; nel caso dell’affezione, con il problema della presunta causalità noumenica, cioè del fondamento non sensibile dei fenomeni. In effetti la possibilità di una trascendenza di tutta la natura è iscritta fin dall’inizio nel concetto sintetico della legalità: in base alla eterogeneità tra causa ed effetto, infatti, viene tolta la contraddizione da quei «concetti di na38 Lo stesso Kant, implicitamente, indica il fondamento di un’illusione dialettica nella precedenza della appercezione, e dunque del pensiero, rispetto al modo in cui vengono dati oggetti. Essa è responsabile della tentazione di un uso trascendentale dell’intelletto, cioè di una presunta conoscenza indipendente dai sensi (KrV A 289/B 3456) ma nello stesso tempo costituisce una condizione della riflessione trascendentale (KrV A 260/B 316), mediante cui viene presa coscienza del rapporto tra rappresentazioni e fonti conoscitive: la stessa causa della parvenza, dunque, permette di isolare i diversi elementi della conoscenza e di realizzare l’analitica dell’intelletto puro.

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tura trascendenti» – come la libertà e l’ente necessario – che, in cosmologia, mostrano l’impossibilità di concepire la natura come «totalità dinamica»39. Kant venne probabilmente incoraggiato ad affermare l’eterogeneità tra causa ed effetto dall’esigenza di evitare il fatalismo verso cui gli parevano dover convergere Leibniz e Spinoza insieme ai materialisti. La trascendenza della natura restava comunque solo negativa: quella di un «fondamento» logico, che dia ragione della contingenza del mondo sensibile e che non è possibile addurre, non quella di una «causa» reale. In proposito è opportuno sottolineare ancora che Kant, nel criticismo, distingue attività e passività in senso categoriale e illusoriamente trascendente dalle corrispondenti nozioni di funzione intellettuale (spontanea, logica) e di affezione dei sensi (ricettiva, intuitiva), la cui definizione si ricava dall’analisi della conoscenza. Qualsiasi recupero di una metafisica latente del criticismo, a partire dai concetti di azione e passione, costituisce dunque un altro tentativo di riportare il criticismo indietro verso le sue fonti metafisiche, privandolo della sua differenza specifica. Ma si deve allora porre la domanda: che cosa ne è della sostanza individuale? Ad essa corrisponde, in termini scientifici, il terzo concetto di natura di cui Kant fa uso nella prima Critica, e cioè la «natura formaliter spectata». Questa viene definita proprio come 39 L’eterogeneità tra causa ed effetto, propria dei «principi dinamici» dell’intelletto, è un altro segno della radicale divergenza rispetto alla dinamica metafisica leibniziana, che abbiamo già discusso. I transzendente Naturbegriffe sono in KrV A 420/B 448, alla fine della discussione su «mondo», come totalità matematica, e «natura», come «lo stesso mondo» in quanto «viene considerato grazie a un principio interno di causalità». Anche qui è sottolineato che la trascendenza della natura non potrà mai corrispondere ad alcuna conoscenza e che le analogie dell’esperienza hanno solo un uso empirico (A 180/B 223). Come è noto Kant, con tutte queste discussioni, mirava all’ammissione pratica dell’incondizionato, contro la concezione della libertà propria dell’automaton spirituale di Leibniz, che nella Critica della ragion pratica egli considera «come quella di un girarrosto» (KgS VI, 97). In Leibniz la tesi dell’omogeneità tra causa ed effetto corrispondeva ovviamente alla legge di conservazione della forza viva, in cui appunto l’effetto deve restare invariato (nella Brevis demonstratio erroris memorabilis Cartesii, comparsa sugli «Acta eruditorum» nel 1686, poi ancora nella prima parte dello Specimen dynamicum, comparsa sulla stessa rivista nel 1695, ora in GM VI, 241-242).

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«il collegamento delle determinazioni di una cosa, secondo un principio interno di causalità». Si tratta infatti di un concetto relativo non già a un insieme di cose, ma a cose individuali. In questo senso «si parla della natura della materia fluida, del fuoco, ecc.» (KrV A 418-419/B 446). Più rigorosamente, nella Prefazione ai Principi metafisici, sottolinea che, dato che la natura designa, in questo suo significato, «il primo principio interno delle determinazioni che appartengono all’esistenza di una cosa», si dovrebbe parlare di «tante scienze della natura quante sono le differenti cose, ciascuna delle quali deve contenere il proprio principio interno delle determinazioni appartenenti alla sua esistenza» (MA 467). La natura materialiter spectata corrisponde insomma all’insieme delle cose, e ciascuna di esse possiede una propria natura (formaliter spectata), cioè, come scrive qui Kant con termine scolastico, una «costituzione» (Beschaffenheit). Questi concetti di natura provengono appunto dalla tradizione scolastica leibniziano-wolffiana. Wolff definisce la natura come quella proprietà che si attribuisce a un corpo «in quanto esso è una cosa attiva»; la natura è dunque «la forza agente» propria di una cosa40. Considerando però il fatto che collettivamente, mediante l’azione di tutte le forze dei corpi, lo stesso mondo, che ne è l’insieme, possiede una forza, Wolff attribuisce al mondo stesso una natura, riconoscendo in questo concetto ciò che «si chiama semplicemente natura» o «natura delle cose»41. In base all’assunzione della verità trascendentale come principio ontologico e al concetto leibniziano di sostanza individuale, tutto ciò che una sostanza produce per la sua natura deve essere però iscritto nella sua essenza. Si giunge dunque alla identificazione in linea di principio di essenza e natura individuale, come Beschaffenheit, che è diffusa nella scolastica di impostazione wolffiana42. 40 WOLFF,

Vernünftige Gedanken, § 628, WGW I, 2, p. 384. § 629. 42 V. per es. BAUMGARTEN, Metaphysica, § 40 (natura = essentia), § 430, dove la natura è detta «complexus determinationum» e include concetti disparati come estensione, forza ecc. Essa è cioè totalità di determinazioni (non però successive, ma essenziali, appartenenti intensivamente al concetto). 41 Ivi,

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Occorre però riconoscere subito che la natura secondo quest’ultima accezione del termine costituisce un concetto che nel criticismo non può corrispondere a una conoscenza43. In quanto «primo principio interno delle determinazioni appartenenti all’esistenza di una cosa» esso non può consistere in una causa efficiente prima, nel senso aristotelico del termine, che all’interno del mondo fenomenico non si può dare per definizione. Piuttosto, se si considera l’altra formulazione kantiana – «collegamento delle determinazioni di una cosa secondo un principio interno di causalità» – si deve trattare di una regola della successione delle determinazioni che una cosa viene ad assumere nel corso della sua esistenza. Ma l’unico caso in cui dal concetto di qualcosa si può ricavare tutto il complesso delle sue determinazioni, per Kant, è quello della matematica, in cui il concetto dell’oggetto è definito arbitrariamente e le sue proprietà (ammesso che non si tratti di un concetto contraddittorio) esibite mediante la costruzione. Soltanto alla matematica, dunque, Kant riserva l’uso del termine essenza, contrapponendolo – in opposizione a Baumgarten – a quello del termine natura. «Essenza – scrive – è il primo principio interno di tutto ciò che appartiene alla possibilità di una cosa. Perciò si può attribuire alle figure geometriche (dato che nel loro concetto non è pensato nulla che esprima un’esistenza) solo un’essenza, ma non una natura» (MA 467n). L’essenza di un triangolo, in particolare, sarà espressa dalla sua definizione e realizzata nella costruzione, senza che con ciò venga posta l’esistenza di alcun oggetto, essendo il triangolo un ente puramente immaginario44. Che lo si tracci attualmente o meno, il triangolo, come ogni altro ente matematico, rimane definito nella sua essenza, né ha senso pensare che esso possa darsi come tale in una esistenza, essendo l’essenza stessa, secon43 Lo riconosce lo stesso Kant in una lettera a Reinhold del 12 maggio 1789, KgS XI, 36-37. 44 Cf. KrV A 157/B 196. Kant presuppone che l’intuizione pura mostri immediatamente l’esistenza (sui generis) di enti matematici semplici come numeri, punti e rette. Egli condivide questa assunzione con l’impostazione originaria della geometria euclidea, presente anche negli Elementa matheseos di Wolff. È appena il caso di rilevare la grande distanza di queste assunzioni da quelle della matematica successiva e, in alcuni casi, anche di quella contemporanea.

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do la concezione kantiana, una sintesi arbitraria del molteplice puro attuata dall’intelletto, e ogni modello fisico del triangolo nient’altro che un’immagine empirica prodotta secondo la regola pura. Viceversa la percezione di qualcosa nello spazio e nel tempo è condizione necessaria (benché non sufficiente) per stabilire l’esistenza di una sostanza fenomenica cui possa attribuirsi una natura. Ma le determinazioni fornite dalle percezioni sono potenzialmente infinite, e non è possibile stabilire a priori se esse possano ricavarsi da una legge unitaria. Insomma il concetto di «natura» o «essenza naturale» della tradizione Leibniz-Wolff-Baumgarten resta una definizione nominale (come segnala infine anche l’uso kantiano del termine «cosa») cui corrisponde il compito infinito di determinazione particolare della sostanza individuale45. L’impossibilità di determinare a priori la legalità individuale corrisponde in Kant all’abbandono della pretesa di comprendere la possibilità di una cosa. Storicamente, questa rivoluzione nei concetti modali comincia con l’introduzione del concetto di esistenza come «posizione» nel 1763. Kant lo ripresenta, nella Dialettica, per escludere l’identificazione tra perfezione e esistenza nella sua critica della prova ontologica dell’esistenza di Dio46, e lo introduce anche nella trattazione dei principi trascendentali per caratte45 Al concetto baumgartiano di natura corrisponde, in Kant, quello di «essenza reale» o «naturale», che si trova all’interno della Logica astraendo dalla sua realizzazione (KgS IX, 61), e corrisponde estensivamente al concetto di natura individuale della metafisica. Cf. in proposito la già menzionata lettera di Kant a Reinhold del 12 maggio 1789, in cui Kant si riferisce all’«essenza reale (la natura), cioè il primo fondamento interno di tutto ciò che appartiene necessariamente a una cosa data» (KgS XI, 36). La definizione metafisica precedente viene ricalcata nella Metaphysik Mrongovius, KgS XXIX, 933, dove la natura è «l’esistenza di una cosa in quanto è internamente determinata secondo leggi». 46 Il concetto di esistenza come «posizione», diversa da un semplice predicato logico ascrivibile idealmente all’ens realissimum, e non ulteriormente comprensibile, si trova esposto per la prima volta nello Einzig mögliche Beweisgrund (KgS II, 70-77), di cui Kant autorizzò due ristampe anche dopo il 1781 (1783 e 1794). Il concetto wolffiano di complementum possibilitatis viene criticato qui (p. 76) in riferimento anche a Baumgarten (Metaphysica, § 55). Su questo concetto di esistenza come posizione nel contesto della metafisica dell’epoca si veda CAMPO, La genesi del criticismo kantiano, pp. 279-290.

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rizzare il «postulato» trascendentale dell’esistenza (Wirklichkeit). In realtà il concetto di una «posizione assoluta» della cosa, data dalla percezione, non trova facile collocazione nel contesto dell’Analitica trascendentale, e Kant stesso, come vedremo, ammette anche una determinazione mediata dell’esistenza mediante la connessione legale dei fenomeni. D’altra parte, stando alla secca alternativa tra sensibilità e intelletto, l’alternativa alla «posizione assoluta» ed extralogica sarebbe la determinazione logica dell’esistenza di un individuo mediante il concetto di «determinazione completa»: questo però ripresenterebbe per Kant la confusione wolffiana di essenza e natura individuale, e dal punto di vista trascendentale rimane un mero ideale47. Questa novità metafisica trova conferma nella logica, dove comporta l’eliminazione dei concetti individuali48. In conclusione, come attestano molti luoghi della Critica, sarebbe l’intuizione empirica a attestare l’esistenza e a rendere possibile la conoscenza (extraessenziale) di un oggetto individuale: tra l’Estetica e la Logica non sembrano esserci alternative. Si può dunque concludere che, entro l’orizzonte concettuale della Critica, la determinazione della sostanza individuale dipenderebbe dall’intuizione immediata dell’oggetto, di cui l’inferenza in base a leggi casuali costituirebbe un sostituto solo accidentale. Tuttavia il problema non si può considerare chiuso, e, data la sua importanza, richiede ora un approfondimento. Dal punto di vista della filosofia trascendentale esso risulta effettivamente rimandato alla prestazione dell’intuizione, e in particolare alla dottrina della «esibizione» dei concetti. Ma esso, come risultato della tradizione leibniziana, possiede anche un aspetto dinamico, diffusissimo nella filosofia accademica wolffiana: la forza testimonia della sostanza. Nella filosofia kantiana questi due concetti, esibizione intuitiva e determinazione dinamica della sostanza, sono destinati a intrecciarsi strettamente, con esiti che trascendono ampiamente quanto si poteva ricavar dalla Critica. L’esibizione rimanda infatti alla determinazione dinamica, come suo compimento; ma que47 Sulla omnimoda determinatio cf. Logik, KgS IX, 97 (§11) e 99 (§ 15). Cf. Beweisgrund, KgS II, 72. 48 Logik, § 11, KgS IX, 97.

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st’ultima, e in genere ogni attività, attesta una realtà nel fenomeno, e permette anche di inferire una sostanza, ma non l’esistenza di una sostanza individuale separata dalle altre. Con queste due tesi, al cui esame dedico il resto di questo capitolo, si pongono le condizioni per una eliminazione teoretica non solo della natura individuale, ma anche delle stesse sostanze individuali molteplici. Ma abbiamo trovato anche il problema generale di tutta la filosofia naturale del criticismo. Il nostro esame dell’architettonica, infatti, ha mostrato che i diversi livelli della scienza della natura hanno richiesto di volta in volta un approfondimento metodico della teoria della conoscenza a priori. Il filo conduttore delle diverse questioni consiste però nella determinazione del rapporto tra legalità e intuizione. Nell’ontologia, la legalità trascendentale deve essere stabilita indipendentemente dall’intuizione, ma essa rimanda a quest’ultima per l’individuazione del suo oggetto. Nella fisiologia razionale si trovano nuovi principi fondati stavolta sull’intuizione pura e su alcune proprietà empiriche, ma anche in questo caso l’oggetto in concreto non può essere costruito, e rimanda all’intuizione empirica. La concreta percezione dei fenomeni costituisce poi il presupposto della nuova indagine trascendentale sulla facoltà di giudizio e sulla possibilità di una legislazione particolare della natura. Ma l’individuazione dell’oggetto empirico, insieme all’effettiva determinazione delle leggi della natura, resta affidata alla semplice osservazione empirica. Si pone però un dilemma: o l’oggettività della sostanza individuale è indipendente dall’anticipazione di una legalità, oppure essa presuppone l’anticipazione di una legalità più fine, che insegni a comporre i fenomeni in modo tale da fondare logicamente quanto l’intuizione suggerisce in modo potenzialmente ingannevole. Nel primo caso, si darebbe una determinazione oggettiva indipendente dalla legalità, contro l’impostazione generale del criticismo; nel secondo caso, sembrerebbero crollare i confini tra determinazioni logiche ed estetiche, che scandiscono l’intera architettura della filosofia naturale. Questo dilemma dell’individuazione deve essere risolto perché, senza esempi in concreto oggettivamente validi, tutto il sistema della filosofia pura della natura rischierebbe altrimenti di restare logicamente staccato dall’esperienza, come a suo tempo era accaduto alla filosofia wolf184

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fiana. Il luogo teorico su cui si concentreranno gli sforzi kantiani per risolverlo è l’indagine sulla possibilità della fisica: seguendo la questione della determinazione della sostanza individuale nel criticismo, dunque, cominciamo ora a seguire quello che si potrà chiamare il problema trascendentale della fisica.

3.2. Possibilità delle cose e intuizione empirica: il concetto di «esibizione» I risultati dell’itinerario ricostruito nel capitolo secondo si possono raccogliere intorno a due tesi: l’originarietà del concetto di spazio (e del tempo, in quanto seconda forma dell’intuizione) e l’identificazione di spazio e tempo con forme della conoscenza dei fenomeni, che come tali posseggono una irriducibile contingenza, e dunque producono l’immediato riferimento dell’intelletto alle cose in sé. Con ciò siamo alle posizioni della Dissertazione, in cui viene posta l’eterogeneità dei principi del mondo sensibile e del mondo intelligibile. La tesi con cui si entra propriamente nel criticismo è l’identificazione della conoscenza del fenomeno con la conoscenza oggettiva in genere. Si tratta di un’aggiunta fondamentale rispetto al sistema precedente, perché ora la conoscenza è possibile solo a condizione che vi sia una sintesi del molteplice sensibile, mentre i noumeni rimangono dei puri pensieri cui non si può far corrispondere alcuna oggettività. Viene con ciò esclusa la possibilità tanto dell’intuizione intellettuale quanto di una conoscenza simbolica degli intelligibili, e si pone di conseguenza l’inconoscibilità del soprasensibile. È il momento del salto dalla riflessione precritica alla tesi del criticismo, di fronte a cui si è arrestata la ricostruzione storica49. 49 A questo punto cade l’ipotesi fondamentale della metafisica kantiana precedente, secondo cui «la coordinazione secondo cui le sostanze costituiscono un tutto è la subordinazione sotto un ente primo». Cf. Refl. 4206 (1769-1771), KgS XVII, 456 (cf. nn. 4215, 4216). Infatti, Kant introduce ora l’interdetto secondo cui le ipotesi metafisiche si possono avanzare solo se è possibile metterle alla prova nei fenomeni (Refl. 4958, 1776-1778, KgS XVIII, 41). A questo passaggio, verosimilmente, si riferisce l’affermazione secondo cui «con questo mio saggio il valore di tutti i miei precedenti scritti metafisici è del tutto annullato» (Refl. 4964, 1776-1778, KgS XVIII, 42).

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Perché si possa parlare di conoscenza, dunque, bisogna distinguere l’oggettività nel fenomeno, e cioè, dato che Kant conserva la tesi aristotelica secondo cui la sostanza è la categoria cui si devono riferire tutte le altre per riferirsi a oggetti, occorre determinare la sostanza fenomenica attraverso la sintesi del molteplice sensibile. Ripercorrendo ora, a partire dalla Critica della ragion pura, il tentativo kantiano di risolvere questo compito giungeremo al problema filosofico della fisica nella sua dimensione trascendentale. Si tratterà, è bene dirlo subito, di una interpretazione in parte congetturale, che approfondisce i rimandi della Critica agli scritti successivi in cui le tematiche di filosofia naturale divengono centrali, fino agli inediti più tardi. È dunque utile tratteggiare preliminarmente i passaggi principali dell’argomentazione. Le condizioni dell’esperienza della sostanza fenomenica sono esaminate nell’Analitica in riferimento alla sola condizione temporale, ma in seguito (nei Principi metafisici della scienza della natura del 1786 e poi nelle aggiunte alla seconda edizione della Critica nel 1787) Kant afferma (1a) che la permanenza si può esperire solo a condizione di considerare anche la forma dello spazio. Ma questa condizione formale non è sufficiente. Lo stesso Kant precisa (1b) che l’applicazione in concreto delle categorie alle cose presuppone l’esistenza della materia nello spazio (il che già esclude la possibilità di trovare una sostanza fenomenica nel senso interno). Più in particolare – come si può mostrare mediante un’analisi delle analogie dell’esperienza, che lo stesso Kant adduce come esempi della sua tesi – (2) l’applicazione presuppone la connessione della materia secondo un sistema di interazioni dinamiche tra sostanze corporee, che rende possibile l’ordinamento spazio-temporale oggettivo dei fenomeni. Una tale determinazione delle sostanze corporee costituisce il passaggio decisivo dalla logica trascendentale alla filosofia della natura materiale: nella Critica esso viene fatto corrispondere a una distinzione tra natura in genere, trattata concettualmente, e intuizione delle cose in concreto. L’applicazione della categoria e l’individuazione vengono entrambe soddisfatte dal medesimo atto di intuizione immediata della cosa. Ma (3) l’intuizione empirica non può essere considerata nella filosofia trascendentale come la fonte esclusiva per la rappresentazione della sostanza cor186

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porea. Quest’ultima richiede infatti una determinazione mediata attraverso un sistema di forze e leggi, la cui possibilità viene indagata a priori nei Principi metafisici. In conclusione (4), dovrà essere possibile una scienza della natura corporea a priori, o sorgerà uno iato tra il sistema dei principi trascendentali e la scienza empirica della natura corporea, che tratta dei soli esempi in concreto di quei principi e ne assicura così la realtà oggettiva. (Dal punto di vista tecnico si tratterà in particolare di aggiungere una dottrina dello schematismo della facoltà di giudizio nel suo uso determinante, la quale verrà elaborata, come vedremo, almeno in due distinte versioni: l’una basata sulla rappresentazione del movimento, nel 1786, l’altra sul concetto della forza motrice e sulla prova trascendentale dell’esistenza di una materia cosmica, approssimativamente negli anni 1796-1799.) Abbandonata la monadologia, la filosofia della natura deve fare i conti con i problemi di una dinamica pura che non presuppone le sostanze50. Cominciamo dunque a seguire il percorso di determinazione dell’oggettività nella Critica, prestando particolare attenzione alla distinzione kantiana degli elementi gnoseologici. Assumiamo spazio e tempo come forme dell’intuizione, e con essi la sintesi del molteplice operata mediante le categorie e sottoposta all’unità sintetica dell’appercezione. In base a questi elementi è possibile una sintesi dell’omogeneo, quale in abstracto ha luogo nella matematica, ma non ancora una conoscenza. La validità oggettiva della matematica dipende mediatamente dal fatto che spazio e tempo siano forme di un’intuizione empirica51. Per avere l’intuizione empirica, come avverte già l’Estetica, dobbiamo aggiungere ancora la sensazione. La sensazione, però, non ci fornisce ancora la cercata oggettività. Non deve ingannare il fatto che Kant la presenti, all’inizio dell’Estetica, come effetto dell’affezione dei sensi causata dall’oggetto52. Non può valere più, nella Critica, 50 I

punti 1-2 vengono trattati in questo paragrafo, i punti 3-4 nel § 3.4. per es. KrV B 147. 52 KrV A 19/B 33: «L’effetto di un oggetto sulla capacità rappresentativa, in quanto noi ne veniamo affetti, è la sensazione». 51 Cf.

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quel passaggio dalla sensazione alla sostanza, effettuato mediante il concetto di affezione, che si trova ancora nelle riflessioni degli anni ’70. Il concetto di affezione costituisce in effetti un elemento non pienamente giustificato nell’Estetica. L’originarietà di spazio e tempo, insieme alla loro contingenza, permette di pensare un fondamento della sensazione, ma non certo di distinguere qualcosa di questo fondamento; anzi, non si possiede ancora un criterio per stabilire se mai si possa distinguere qualcosa di questo fondamento: a rigore, infatti, non è ancora possibile parlare di oggetto, dunque né di azione, né di affezione in senso oggettivo. D’altra parte il mero contenuto rappresentativo non è sufficiente per Kant (che in ciò si distingue da Hume) a stabilire la ricettività della rappresentazione. Il riferimento della sensazione a un oggetto sensibile, e la determinazione del rapporto di questo oggetto con i sensi, andranno dunque considerati a prescindere dal nesso sensazione-affezione, che per ora viene introdotto in astratto, e che nella fisica pura, come vedremo, verrà determinato come nesso di interazione tra oggetti e organi dei sensi. Proprio questa è la via seguita da Kant, che nell’Analitica trascendentale tratta della determinazione logica dell’oggetto mediante l’atto sintetico, assumendo il fenomeno come dato rappresentativo (KrV B 137: la conoscenza è un «determinato riferimento di rappresentazioni date a un oggetto»). A partire dalla semplice sensazione, dunque, si dovrà distinguere una stratificazione di determinazioni, in cui vengano separate quelle soggettive da quelle oggettive, per ottenere infine la determinazione della realtà effettiva che deve appartenere alla sostanza. In primo luogo occorre distinguere la stessa soggettività universale delle forme dell’intuizione, che equivale alla loro contingenza, da quella psicologico-empirica delle molteplici percezioni: poiché la prima si può presupporre identica in tutti i soggetti, mentre la seconda varia con i soggetti individuali53. Dobbiamo poi isolare il sentimento, che è associato alla sola rappresentazio53 La modalità soggettiva ma universale delle forme dell’intuizione viene distinta dalla modalità soggettività empirica (relativa al contenuto materiale della percezione) nel § 38 della Kritik der Urteilskraft, KgS V, 289-290. La prima contribuisce alla deduzione dei giudizi puri di gusto.

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ne individuale e resta perciò fuori dalla problematica di una determinazione oggettiva delle cose. Otteniamo così un molteplice eterogeneo di percezioni, più o meno chiare, in cui la forma dell’intuizione è riempita da un contenuto reale («il reale della sensazione»). A partire da questo materiale percettivo, che viene organizzato logicamente secondo i principi «costitutivi» della quantità estensiva e intensiva, si tratta di stabilire l’oggettività della sostanza. Come è noto, Kant trova nella forma della successione temporale la condizione universale cui devono essere sottoposte tutte le percezioni, e che rende possibile l’applicazione delle categorie ai dati dei sensi. Mediante la determinazione pura del tempo si può applicare così anche la categoria di sostanza, ottenendo lo schema di una permanenza del reale nel tempo; infine, si potrà individuare questo qualcosa di permanente mediante i suoi stati, il che presuppone anche un criterio di legalità nella connessione degli stati successivi, tale da far distinguere, nella successione soggettiva delle rappresentazioni, la successione oggettiva dagli stati di una sostanza in quanto vero e proprio oggetto dell’esperienza54. Nella catena argomentativa così riepilogata si ritrova lo sviluppo originario accennato da Kant all’inizio della sua riflessione trascendentale nel Duisburg Nachlass: dalla realtà percettiva all’«anticipazione» di una permanenza, da questa alla determinazione dell’esistenza individuale mediante una connessione legale delle percezioni, che costituisce il ripensamento critico del principio di ragione. Riprendendo nel dettaglio alcuni passaggi del ragionamento kantiano, ora, vogliamo domandarci: da che punto, e in che modo, l’applicazione delle categorie chiama in causa l’intuizione? Ai nostri fini è utile seguire la questione a partire dal secondo momento della deduzione trascendentale, quello cioè in cui si tratta della determinazione delle forme dell’intuizione secondo le categorie (KrV B, §§ 21-27). Dopo aver concluso che «tutte le intuizioni sensibili» – a pre54 KrV A 184-5/B 227-8: «Dunque, in tutti i fenomeni il permanente è l’oggetto stesso, cioè la sostanza (phaenomenon)». La connessione degli stati presuppone il principio trascendentale di causalità, che dunque presuppongo da ora quale condizione necessaria dell’individuazione della sostanza.

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scindere dalla loro forma – sono sottoposte alle categorie (§ 20), Kant introduce la distinzione fondamentale tra conoscere e pensare, avanzando la tesi secondo cui la categoria non ha altro uso per la conoscenza delle cose oltre a quello di essere applicata a oggetti dell’esperienza (§ 22). Viene allora ipotizzato l’uso trascendentale delle categorie, e introdotto un passaggio ulteriore della deduzione trascendentale stessa che deve servire a limitare la capacità teoretica di queste ultime. In termini trascendentali io posso determinare negativamente un noumeno rispetto alla sensibilità e, con mezzi puramente logici, anche pensarlo positivamente secondo le diverse categorie. In questo modo, però, «non mi sono rappresentato affatto la possibilità di un oggetto correlativo al mio concetto puro dell’intelletto, perché non ho potuto fornire [geben] alcuna intuizione che gli corrispondesse, ma ho potuto solo dire che la nostra intuizione non vale per esso»55. La possibilità di una cosa si può dunque accertare soltanto mediante la sua esibizione intuitiva. Il discorso filosofico, per ora, si limita a indagare una condizione generale di questa esibizione, in cui ne va anche dell’applicazione delle categorie. Quale prima e fondamentale «applicazione» delle categorie all’intuizione viene indicata nel § 24 la sintesi trascendentale dell’immaginazione (synthesis speciosa). Dato che essa consiste in una determinazione a priori del senso interno, ed avviene per mezzo dell’immaginazione produttiva, si deve ritenere che qui Kant stia anticipando la dottrina dello schematismo, o comunque si stia riferendo allo schematismo puro che è in atto anche «attraverso il molteplice di rappresentazioni date»56. Il processo dell’applicazione, dunque, non è stato con ciò trattato esaurientemente, ma ne è stato isolato un momento – lo schematismo trascendentale – per sottolineare la necessità di una prestazione dell’immaginazione produttiva sotto la guida dell’intelletto, in riferimento a un molteplice dato ai sensi «in generale». Viene introdotto infatti un momento ulteriore (§ 26), col quale viene 55 §

23, KrV B 149. I corsivi sono miei. 24, KrV B 151. Perciò, già negli esempi qui addotti dell’apprensione di una casa e del congelamento dell’acqua, la determinazione del tempo avviene rispetto a una intuizione anche spaziale. 56 §

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raggiunto il vero e proprio punto di arrivo dell’argomentazione (come era stato annunciato nel § 21, B 144-5). Esso riguarda «la possibilità di conoscere a priori, m e d i a n t e l e c a t e g o r i e, quegli oggetti che sempre e soltanto p o s s o n o p r e s e n t a r s i a i n o s t r i s e n s i» (B 159). Si tratta ora di una applicazione delle categorie al molteplice spazio-temporale, che viene presentata come un passaggio diverso dalla deduzione trascendentale propriamente detta, nella quale si astraeva dal modo della nostra intuizione. Questa applicazione consiste nell’unificazione del molteplice dello spazio e del tempo secondo le categorie, cioè nel fatto che la sintesi dell’apprensione deve essere sottoposta necessariamente alla sintesi dell’immaginazione. Ma con ciò, nuovamente, viene fatto riferimento a una dottrina che non viene pienamente sviluppata e che non assume argomentativamente l’intuizione della sostanza: si tratta della determinazione delle leggi a priori della «natura in genere», la cui compiuta trattazione, come viene detto poco oltre (§ 27), si trova nell’Analitica dei principi. La dottrina trascendentale dei concetti conclude insomma che devono darsi giudizi a priori sulla natura fenomenica, ma solo la dottrina del giudizio indaga come ciò sia possibile individuando la condizione della sussunzione (schematismo trascendentale) e poi passando alla distinta esposizione di questi giudizi e alle loro rispettive prove. In base al concetto di sostanza, nell’Analitica dei principi, viene ricavato il principio della permanenza della sostanza fenomenica. Ma la distinzione del «permanente (sostanza)» dal «mutevole» (A 182) – principio di fondo dello studio della sostanza fin dalla metà degli anni ’70 – non si riferisce ancora alle proprietà della sostanza individuale: di essa è solo stabilito che «permane» e che in natura il suo «quantum» non cambia. Benché dunque il principio sia provato indipendentemente dall’intuizione, a quest’ultima pare rimandato il compito di presentare le altre proprietà della sostanza. Se esaminiamo il testo delle tre analogie troviamo infatti che gli esempi impiegati per discutere i principi trascendentali fanno tutti ricorso all’intuizione, ma anche – circostanza singolare, che è stata già messa in evidenza – che questa intuizione è non solo temporale, bensì anche spaziale. Il fatto è particolarmente evidente nel caso delle categorie di relazione, dove viene addirittura sancito 191

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nella formulazione dei principi corrispondenti; ma esso riguarda la sintesi dell’immaginazione in genere57. Si tratta della circostanza che Kant ritiene opportuno mettere in rilievo in un’altra aggiunta della seconda edizione dell’opera, la Nota generale al sistema dei principi. Troviamo qui l’enunciato di quello che possiamo chiamare principio della possibilità delle cose, o dell’esibizione intuitiva. La prima parte dell’enunciato si riferisce all’intuizione in genere (KrV B 288): È davvero notevole il fatto che non possiamo comprendere [einsehen] la possibilità di una cosa in base alla semplice categoria, ma dobbiamo sempre disporre di un’intuizione, per mostrare [darzulegen] in essa la realtà oggettiva del concetto puro dell’intelletto. Si prendano ad esempio le categorie della relazione. In base a semplici concetti non si può assolutamente assolutamente comprendere: 1) in che modo qualcosa possa esistere soltanto come soggetto, anziché come semplice determinazione di qualcos’altro, cioè come possa essere s o s t a n z a, oppure 2) in che modo, per il fatto che qualcosa è, debba essere anche qualcos’altro, quindi come qualcosa possa essere causa, oppure 3) in qual modo, data l’esistenza di più cose, per il fatto che una di esse esista consegua qualcosa per le altre e viceversa, e in tal modo possa aver luogo una comunanza di sostanze.

Ma l’intuizione richiesta a tal scopo, aggiunge Kant qualche capoverso dopo, deve essere anche intuizione spaziale (B 291): Ma ancora più notevole è il fatto che per intendere [verstehen] la possibilità delle cose in base alle categorie, e dunque per mostrare [darzutun] la r e a l t à o g g e t t i v a delle medesime, abbiamo bisogno non semplicemente di intuizioni, ma addirittura sempre di i n t u i z i o n i e s t e r n e. 57 Per quanto riguarda la sintesi quantitativa dell’omogeneo, Kant segnala questa circostanza già in sede di deduzione trascendentale, e la sottolineerà più volte trattando della pura rappresentazione del tempo. Si può notare subito che, benché per Kant si possa forse dare in concreto un grado intensivo spazialmente inesteso (quale quello della stessa coscienza, o di un sentimento), esso non concorrerà mai alla determinazione di un qualcosa di oggettivo, a meno di non introdurre anche un riferimento a qualcosa di esistente nello spazio.

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Ci troviamo di fronte all’enunciato fondamentale riguardo al collegamento tra filosofia trascendentale e fisica a priori. La sua interpretazione non è agevole e, data la sua importanza, richiede una discussione dettagliata. In primo luogo non dobbiamo confondere la tesi qui affermata con quella del necessario concorso della forma spaziale e della forma temporale in ogni esibizione, che Kant ha affermato già nella Deduzione trascendentale. Quest’ultima è in effetti comprensibile già in base all’esibizione di concetti nell’intuizione pura, come nel caso della “linea del tempo”. In quest’ultimo caso non si tratta peraltro di puri dati intuitivi: la sintesi quantitativa nell’intuizione pura introduce l’omogeneità con uno specifico atto logico. Ora, la sintesi del molteplice empirico non soltanto toglie questa astrazione dall’eterogeneo, ma anzi – come emerge nel seguito del passo – fa del materiale così reintrodotto una condizione necessaria per l’esibizione della possibilità delle cose: questa implica dunque non soltanto l’intuizione pura dello spazio, ma anche l’intuizione di qualcosa di reale nello spazio. Si presenta così un riferimento alla materia nello spazio come condizione trascendentale, che Kant argomenta con l’esempio delle categorie dinamiche (B 291-293)58: Se prendiamo, ad esempio, i concetti puri della r e l a z i o n e, troviamo che: 1) per fornire [geben] al concetto di s o s t a n z a qualcosa di p e r m a n e n t e nell’intuizione, che gli corrisponda (e in tal modo mostrare la realtà oggettiva di questo concetto), abbiamo bisogno di un’intuizione nello spazio (della materia), perché solo lo spazio è permanentemente determinato, mentre il tempo, e quindi tutto ciò che si trova nel senso interno, scorre costantemente; 2) per presentare [darzustellen] il m u t a m e n t o, in quanto intuizione corrispondente al concetto di c a u s a l i t à, dobbiamo prendere come esempio il movimento in quanto mutamento nello spazio, anzi è soltanto così che possiamo renderci intuibili i mutamenti, la cui possibilità non può essere compresa [begreifen] da alcun intelletto puro. Il mutamento è congiunzione di determinazioni contrapposte nell’e58 Si noti subito che questo argomento è strettamente connesso alla Confutazione dell’idealismo e viene addotto infatti proprio per confutare l’idealismo nella Refl. 6311, KgS XVIII, 611-612.

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sistenza di una medesima cosa. Ora, in che modo sia possibile che a uno stato dato segua nella medesima cosa uno stato opposto, la ragione non soltanto non è in grado di renderselo comprensibile [begreiflich] senza un esempio, ma neppure di renderselo intelligibile [verständlich] senza intuizione, e questa intuizione è il movimento di un punto nello spazio, la cui esistenza in luoghi diversi (quale successione di determinazioni opposte) ci rende anzitutto intuibile il mutamento; infatti, per poter concepire [denkbar zu machen] gli stessi mutamenti interni, noi dobbiamo renderci comprensibile [faßlich machen] il tempo, quale forma del senso interno, raffigurandocelo [figürlich] con una linea, e, per mezzo dell’intuizione esterna, renderci comprensibile il mutamento interno, quindi l’esistenza successiva di noi stessi in uno stato differente, tracciando questa linea (movimento). Il fondamento vero e proprio di ciò sta nel fatto che ogni mutamento presuppone qualcosa di permanente nell’intuizione per essere anche solo percepito come mutamento, mentre nel senso interno non si dà alcuna intuizione permanente. – [3] Infine, la categoria della c o m u n a n z a, secondo la sua possibilità, non si può affatto comprendere [begreifen] per mezzo della semplice ragione, quindi la realtà oggettiva di questo concetto non si può discernere [einsehen] senza un’intuizione, e per l’appunto senza l’intuizione esterna nello spazio. Come infatti si potrà concepire la possibilità che, se esistono molte sostanze, dall’esistenza dell’una consegua reciprocamente qualcosa (come effetto) per l’esistenza delle altre, e che perciò, per il fatto che nella prima sostanza vi è qualcosa, anche nelle altre debba esserci qualcos’altro che non potrebbe essere inteso in base alla semplice esistenza di queste ultime? Infatti è proprio questo che si richiede per la comunanza, ma non è affatto comprensibile per delle cose che si isolino ciascuna per mezzo della sua propria sussistenza59.

Viene qui posta una corrispondenza tra le categorie di sostanza, causalità e comunanza, da un lato, e qualcosa che ad esse corrisponde nell’intuizione, cioè, rispettivamente: un qualcosa di permanente, il mutamento, e un influsso necessario tra le sostanze. 59 Kant non fa esempi di come l’intuizione della materia sia necessaria per la comprensione della stessa possibilità delle cose secondo le categorie di quantità e qualità, rimandando il lettore alla propria riflessione (B 293). Questo punto si chiarirà con la trattazione metafisica del concetto di corpo.

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Il primo dubbio che può sorgere intorno alla funzione svolta dall’intuizione è che essa non serva soltanto all’«applicazione» delle categorie – come si esprime il § 24 della Deduzione trascendentale – ma addirittura sia condizione del fatto che queste abbiano in genere un significato. Il ragionamento parrebbe in tal senso così riassumibile: l’intelligibilità delle categorie è possibile solo a condizione di riferirsi a determinate intuizioni corrispondenti (rispettivamente: permanenza, mutamento, influsso reciproco); ma queste intuizioni comportano la rappresentazione dell’esistenza di qualcosa nello spazio; dunque, l’intelligibilità delle categorie è condizionata dall’esistenza di qualcosa nello spazio. D’altra parte, come è noto, le categorie hanno un significato anche a prescindere dal loro uso empirico, il che è proprio all’origine di un loro uso trascendentale. Conciliare le due affermazioni non è difficile: nel caso dell’uso trascendentale si tratta di un significato puramente logico delle categorie, che proviene dalla forma dei giudizi; nel caso dell’uso empirico, si pone invece la questione di un riferimento oggettivo, che viene pure (equivocamente) detto ‘significato’. In questo secondo senso si dovrà intendere l’intelligibilità di cui tratta in questo passo. Essa viene indicata con diversi termini tutti tratti dalla sfera semantica della rappresentazione discorsiva (verstehen, einsehen, begreifen, denken), che al di là delle sfumature servono tutti a esprimere la stessa incapacità della ragione di rappresentarsi la possibilità di una cosa in base a semplici concetti. Il problema del significato, del resto, è riferito qui senz’altro alle categorie schematizzate: la restrizione del concetto di causa all’intuizione del mutamento, per esempio, rende il necessario riferimento all’intuizione una verità analitica. Si pone dunque la questione veramente decisiva: che differenza c’è tra «mostrare» (dartun; darlegen), e così facendo «rendere comprensibile» (faßlich machen) la realtà oggettiva della categorie, e «provare» (beweisen) questa realtà oggettiva? Questa distinzione ha messo in difficoltà i traduttori e la cosa non stupisce, dato che la questione interpretativa che si apre non è di facile soluzione. Dal punto di vista strettamente terminologico un verbo come ‘dartun’, che viene impiegato nell’enunciazione del principio, designa solitamente il momento illustrativo del discorso filosofico, 195

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in quanto distinto da quello argomentativo. Parrebbe dunque che Kant si riferisca semplicemente a una funzione di esemplificazione che nulla aggiunge a livello teoretico. Se però si prende il passo dei Principi metafisici, che qui Kant sta ricalcando, la distinzione sembra più sfumata, e il principio della possibilità delle cose sembra assumere un valore costitutivo (MA 478): È poi in effetti davvero notevole (sebbene qui non possa venire mostrato adeguatamente) che la metafisica generale, in tutti i casi in cui ha bisogno di esempi (intuizioni) per procurare significato ai suoi puri concetti intellettuali, debba trarli sempre dalla dottrina generale dei corpi, cioè dalla forma e dai principi dell’intuizione esterna, e se questi non sono disponibili compiutamente brancoli fra semplici concetti privi di senso, incerta ed esitante. Da ciò provengono le note controversie o almeno l’oscurità nelle questioni sulla possibilità di un conflitto fra le realtà, su quella delle grandezze intensive, e altre ancora, a proposito delle quali l’intelletto viene istruito soltanto mediante esempi tratti dalla natura corporea, che sono le condizioni sotto cui soltanto quei concetti possono avere una realtà oggettiva, cioè significato e verità. Ecco perché una distinta metafisica della natura corporea reca a quella g e n e r a l e un servizio eccellente e indispensabile, procurando esempi (casi in concreto) per realizzare i concetti e i teoremi di quest’ultima (propriamente, della filosofia trascendentale), cioè per procurare senso e significato a una semplice forma del pensiero.

Come è noto l’esigenza di procurare «senso e significato» ai concetti mediante l’intuizione, che senza di ciò rimangono vuoti, è affermata di continuo nella Logica trascendentale. Se però, come è stato affermato in base a questo passo, per realizzazione dei concetti e teoremi della filosofia trascendentale si intende la prova del riferimento di questi ad un oggetto, allora l’intero compito annunciato dalla deduzione trascendentale si deve considerare incompiuto, e i problemi della fisica pura assumono immediatamente uno statuto trascendentale. I principi dell’intelletto rimarrebbero così una «semplice forma del pensiero», e il rapporto architettonico di fondazione tra filosofia trascendentale e fisica risulterebbe identico a quello che è stato posto in precedenza tra filosofia trascen196

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dentale e esperienza: la prima renderebbe possibile infatti il suo stesso fondamento di possibilità60. Le cose però non stanno così. In primo luogo, infatti, considerare i principi dell’intelletto come una semplice forma del pensiero significherebbe identificarli con una pura sintesi intellettuale e sostituire l’intera prestazione dell’immaginazione produttiva con quella di una fisica pura. Così facendo, in primo luogo, si dovrebbe considerare superflua l’intera dottrina dello schematismo trascendentale, la cui validità e importanza Kant non revoca mai in dubbio. L’affermazione secondo cui in concreto nessuna determinazione temporale può essere rappresentata senza impiegare insieme la forma spaziale, che è frequente nello stesso periodo, non comporta di per sé un abbandono della dottrina dello schematismo trascendentale61. Ma la chiave per chiarire la questione, come abbiamo visto, la fornisce lo stesso Kant quando afferma che la prova della realtà oggettiva delle diverse categorie, nell’Analitica dei principi, non soltanto non richiede l’intuizione dello spazio, ma nemmeno un’intuizione qualsiasi. I principi trascendentali, infatti, si riferiscono alle condizioni dell’esperienza possibile, cioè della sintesi di una intuizione sensibile in genere, e solo mediatamente, dunque, alle in60 La tesi secondo cui la fisica pura costituirebbe un passaggio mancante per la prova della realtà oggettiva delle categorie è sostenuta da FÖRSTER, Kant’s Final Synthesis, pp. 56ss., secondo il quale, in ragione del fallimento dei Principi metafisici, relativo alla costruzione a priori della materia, lo «iato» di cui parlerà Kant in riferimento all’Opus postumum si riferirebbe a una necessaria esigenza di realizzazione delle categorie posta nella Critica e non ancora soddisfatta. Il procurare «senso e significato» a un oggetto ricorre ovviamente in moltissimi luoghi della Critica, dove però riferimento alle intuizioni in genere e a un oggetto determinato, che estensivamente si sovrappongono, tendono a confondersi. 61 In linea con queste considerazioni, e critico della tesi di Förster, M. FRIEDMAN, Matter and Motion in the Metaphysical Foundations and the First Critique: the Empirical Concept of Matter and the Categories, in E. WATKINS (ed.), Kant and the Sciences, Oxford 2001, pp. 53-69, in part. 56-59. Secondo Friedman l’obiettivo di fondare la «realtà oggettiva» delle categorie sarebbe già stato conseguito con la dottrina dello schematismo trascendentale, mentre i Principi metafisici si limiterebbero a fornire i soli possibili esempi da cui l’intelletto può risalire alle condizioni sotto cui le categorie possono avere realtà oggettiva. Sulla questione cf. POLLOK, MA Kommentar, pp. 87ss., 171, 174-5.

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tuizioni cui ogni esperienza come tale si riferisce; solo attraverso questa seconda mediazione, infine, essi si riferiscono anche all’oggetto empirico propriamente detto (KrV A 720/B 748): La materia dei fenomeni, attraverso cui le c o s e ci sono date nello spazio e nel tempo, può esser rappresentata soltanto nella percezione, quindi a posteriori. Il solo concetto che rappresenti a priori questo contenuto empirico dei fenomeni è il concetto della c o s a in generale, e la conoscenza sintetica a priori non ci può fornire di questo [contenuto] nient’altro che la semplice regola della sintesi di ciò che la percezione può offrire a posteriori, mai però l’intuizione dell’oggetto reale, perché quest’ultima dev’essere necessariamente empirica.

Proprio perché non si può rappresentare a priori alcun contenuto empirico, i principi dell’intelletto si basano su «prove discorsive», fondate sul principio della possibilità dell’esperienza e indipendenti da qualsivoglia evidenza intuitiva. È soltanto il riferimento a oggetti a presupporre un’intuizione, e in tal senso dunque le categorie acquisiscono oggetti in concreto: in questo caso, allora, non si potrà fare a meno dell’intuizione spaziale. Ma che questo riferimento si possa dare solo a condizione che le categorie vengano applicate al molteplice dell’intuizione viene provato senza che l’oggetto debba né darsi in atto, né essere schematicamente anticipato. La questione della possibilità delle cose, dunque, non si sovrappone alle dottrine dell’Analitica. L’equivoco, fin qui, si basava semplicemente sul fatto che la logica trascendentale si riferisce all’intuizione, e dunque mediatamente all’oggetto dell’intuizione: ma essa non richiede nelle sue argomentazioni la rappresentazione immediata dell’oggetto – e d’altra parte non può dedurre a priori l’esistenza di quest’ultimo. Questa interpretazione è confermata da un passo della Kritik der Urteilskraft in cui Kant istituisce un bilancio sulla dottrina dell’esibizione dei concetti. Qui viene svolto un collegamento esplicito con il termine ‘dimostrazione’, che ci permette di andare oltre nel nostro chiarimento (esso compare nella discussione delle idee della ragione, di cui Kant scrive che sono «indimostrabili», nel senso che non possono ricevere un’intuizione ad esse adeguata): 198

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I c o n c e t t i i n t e l l e t t u a l i devono, come tali, essere sempre dimostrabili (se con dimostrare [Demonstrieren] s’intende, come nell’anatomia, semplicemente l’esibire [Darstellen]); vale a dire, l’oggetto loro corrispondente deve poter essere sempre dato nell’intuizione (pura o empirica), ché solo così possono diventare conoscenze. Il concetto di g r a n d e z z a può essere dato nell’intuizione spaziale a priori, per esempio di una linea retta, e così via; il concetto di causa nell’impenetrabilità, nell’urto dei corpi, e così via. Quindi entrambi possono essere attestati da un’intuizione empirica, cioè il loro pensiero può essere presentato (dimostrato, indicato [aufgezeigt]) in un esempio; e questo deve poter accadere: in caso contrario non si è certi se il pensiero sia vuoto, cioè senza alcun oggetto62.

Kant continua paragonando la dimostrazione di una proposizione con quella di concetti. In logica si parla di «dimostrabile» e «indimostrabile» relativamente a proposizioni, laddove «le proposizioni dimostrabili potrebbero essere meglio designate con la denominazione di certe solo mediatamente e le altre con quella di immediatamente certe, poiché la filosofia pura ha appunto proposizioni di ambedue i tipi, se con esse si intendono proposizioni vere provabili e non provabili». Un esempio di queste ultime è la proposizione ‘Io penso’, mentre le proposizioni provabili della filosofia pura sono i principi trascendentali. In proposito viene svolta un’ultima osservazione da cui si può ricavare un chiarimento definitivo sul significato della ‘dimostrazione’ delle categorie mediante i principi metafisici (KgS V, 343): Ma a partire da principi a priori essa, in quanto filosofia, può, sì, provare [beweisen], ma non dimostrare, se non ci si vuole allontanare del tutto dal significato della parola, secondo la quale dimostrare (ostendere, exhibere) vuol dire tanto quanto esibire nello stesso tempo il suo concetto nell’intuizione (sia per provare sia anche solo 62 KU § 57 Nota I, KgS V, 342. Più oltre (V, 343) si legge: «Così si dice di un anatomista: che egli dimostra l’occhio umano quando rende intuibile mediante la dissezione di quest’organo il concetto che ha già esposto discorsivamente». Il termine «exhibitio» viene solitamente impiegato da Kant per rendere il tedesco «Darstellung», che indica la rappresentazione intuitiva di un concetto (Cf. KU § 59, KgS V, 351; Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, KgS VII, 167). Alcune volte Kant usa il termine

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per costruire): il che, se l’intuizione è a priori, significa costruirlo e, anche se invece è empirica, resta ugualmente la presentazione [Vorzeigung] dell’oggetto mediante cui viene assicurata al concetto realtà oggettiva.

Riferendosi alla distinzione tra filosofia e matematica esposta nella Critica Kant ribadisce la dottrina secondo cui il sapere dell’una è meramente discorsivo, e dunque le sue prove (fondate sul principio della possibilità dell’esperienza) non costruiscono l’oggetto, mentre la seconda è intuitiva, e come tale è la sola a poter dare vere e proprie definizioni, per poi ricavarne, sempre mediante l’intuizione pura, delle dimostrazioni. I concetti filosofici devono dunque ottenere realtà oggettiva mediante una intuizione empirica, la quale permette di istituire il riferimento ad un oggetto vero e proprio, che non può essere mai costruito. I principi trascendentali, d’altra parte, non si riferiscono direttamente all’intuizione determinata di un oggetto, ma solo a un’intuizione che avvenga secondo le forme della sensibilità. L’intuizione determinata che stiamo cercando, a cui si riferisce la prima analogia dell’esperienza, è quella della sostanza materiale, la quale, a quanto sembra, dovrà essere data immediatamente con l’esperienza. Questa conclusione sembra potersi ricavare senza ombra di dubbio dai diversi riepiloghi della questione dello schematismo negli anni ’90. L’atto dello schematismo, si legge per esempio nel manoscritto dei Fortschritte der Metaphysik, assegna «direttamente» realtà oggettiva a un concetto mediante l’intuizione corrispondente, «vale a dire allorché il concetto è presentato immediatamente», ma esso è o schematismo puro o schematismo empirico63. Ora, alla luce di tutti i luoghi citati, il principio della possibilità delle cose mediante il riferimento all’intuizione della materia nello spazio sembra acquistare un senso preciso: l’esibizione empirica non serve a dedurre ‘Darstellung’ in senso retorico, come equivalente di ‘Exposition’, per designare una illustrazione discorsiva (per es. KrV B 168). 63 KgS XX, 279. La centralità della dottrina dello schematismo è ribadita per es. nella lettera a Reinhold del 12 maggio 1789, KgS XI, 38 e poi nell’importante trattazione sull’ipotiposi, che abbiamo già citato, in KdU § 59, KgS V, 351-352.

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la validità oggettiva delle categorie (deduzione trascendentale), né a mostrarne l’applicabilità alle intuizioni sensibili spazio-temporali (schematismo), né infine a provare i principi trascendentali che si ricavano mediante l’applicazione delle categorie al molteplice puro (prove discorsive dei principi trascendentali); essa dunque non si sostituisce a nessuna dottrina della «filosofia pura». Serve invece a fornire «significato» alle proposizioni ontologiche, nel senso, stabilito da Kant nella Critica, di «riferirsi a un oggetto»: condizione presupposta dai passaggi argomentativi precedenti, ma non inclusa in essi64. A ciò non bastano infatti la condizione dello schematismo, né le prove dell’Analitica dei Principi, in quanto sono tutte dottrine che si riferiscono, sì, a un’intuizione, ma non costruiscono ancora alcun oggetto e dunque non ne forniscono l’intuizione. Se le cose stessero altrimenti, d’altra parte, si darebbe una costruzione a priori dell’oggetto e verrebbe negata la ricettività dell’apprensione che sta alla base della distinzione tra intuizione pura e intuizione empirica. Ma questa indispensabile funzione di riferimento, secondo quanto emerge dai passi fin qui esaminati, è assolta dalla semplice intuizione empirica. Se dunque ritorniamo sul passo dei Principi metafisici da cui siamo partiti, sembrerebbe che la nostra questione del rapporto tra metafisica e fisica venga 64 Cf. KrV B 302-3 nota, dove Kant scrive che, senza sussumere un’intuizione sensibile alle categorie, non si può «stabilire se il concetto si riferisca a un oggetto e possegga quindi un qualche significato». Si tratta ovviamente di una dottrina fondamentale della Critica: «Noi non possiamo conoscere nessun oggetto pensato, se non attraverso intuizioni, che corrispondano ai concetti» (B 166); «I concetti senza intuizioni sono vuoti», perciò «si ha bisogno di rendere sensibile un particolare concetto, cioè di porgergli nell’intuizione l’oggetto corrispondente perché senza di esso il concetto (come si dice) rimarrebbe senza senso, cioè senza significato» (A 240/B 299). Cf. ancora A 244 nota; B 165-166. In merito al kantiano “significato del significato”, FALKENBURG, Kants Kosmologie, p. 144, paragona il significato (Bedeutung) kantiano al Sinn di Frege, sostenendo che Kant, almeno fino al 1770, non lo distinguerebbe dalla ‘Bedeutung’ di Frege. Piuttosto, volendo a tutti i costi istituire un tale paragone, il concetto kantiano di ‘Bedeutung’ corrisponde effettivamente all’intuizione di un oggetto, che però, in quanto sempre trascendentalmente condizionata, non equivale al riferimento all’oggetto di Frege. L’equivalente del ‘Sinn’ fregeano, sempre molto approssimativamente, sarebbe in Kant il concetto in quanto regola della sintesi del molteplice. In ogni caso in Kant il termine ‘Sinn’ sembra equivalente a ‘Bedeutung’, come risulta dall’ultimo passo citato e in genere nella frequente endiadi «Sinn und Bedeutung».

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infine risolta: la fisica contribuisce alla perfezione estetica della conoscenza razionale pura, non già a quella logica; la filosofia trascendentale prova, la fisica illustra. Il problema del ruolo sistematico della fisica sembra risolto. Tuttavia, fin qui abbiamo appuntato l’attenzione sulle dottrine istituite nella Critica, e poi mai revocate in dubbio. In base a ciò abbiamo ricavato la nostra conclusione provvisoria, che considera necessaria e sufficiente l’intuizione empirica per l’esibizione della realtà oggettiva del concetto di sostanza e di tutte le altre categorie. Essa andrà verificata rispetto alla totalità degli altri scritti pertinenti del tardo pensiero kantiano, a partire dallo stesso anno 1786. Prima di procedere con l’esame, possiamo ora considerare una conseguenza fondamentale del principio della possibilità delle cose per la fisiologia razionale, e cioè la neutralizzazione della psicologia pura, che restringe il campo della nostra successiva indagine ai soli scritti di argomento fisico.

3.3. Conseguenze del principio dell’esibizione per la psicologia Le due conseguenze negative che si ricavano immediatamente dal principio della possibilità delle cose sono l’impossibilità di sostanze come oggetti del senso interno e più in generale – se presumiamo la validità del discorso per le stesse categorie modali – l’impossibilità di determinare l’esistenza di un oggetto in genere senza il ricorso all’esistenza della materia nello spazio. Ciò equivale all’impossibilità di una psicologia metafisica, sia pura sia fisologico-razionale, conseguenza che è fondamentale esaminare per comprendere il ripensamento che diede luogo anche alle altre modifiche nella seconda edizione della Critica. La questione viene infatti suddivisa rispetto ai due modi conosciuti dalla filosofia pura per accedere a una (presunta) oggettività psichica: l’uno è l’appercezione, l’altro è l’intuizione interna. Ma la gran parte delle novità testuali dell’edizione B si concentrano precisamente su questi due concetti. Rispetto all’appercezione, il testo fondamentale è la nuova sezione sui Paralogismi della psicologia razionale, in cui troviamo subito un’eccezione alla precedente conclusione sull’applicabilità 202

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della categoria di esistenza. Viene precisato infatti che la coscienza della propria esistenza, in quanto esseri pensanti, è effettivamente un’«intuizione». Si tratta però – caso unico – di una «intuizione empirica indeterminata», che si accompagna ad ogni intuizione empirica, ed è da essa indissociabile, senza fornire alcun contenuto determinato che non sia tratto da quest’ultima. In altre parole si tratta di una intuizione indiretta che si accompagna ad ogni rappresentazione, ma non permette di determinare alcun oggetto. Questa intuizione indeterminata, conclude Kant, «non significa altro che qualcosa di reale, che sia stato dato, sì, ma solo per il pensiero in generale, quindi non come fenomeno, ma neppure come cosa in se stessa (noumenon)»65. Per la stessa ragione, anche se il concetto dell’Io contraddice lo spinozismo, che vuole farne un accidente, ciò non basta ad affermare la molteplicità delle sostanze66. Per trattare invece della determinazione psicologica oggettiva veniamo alla questione, per noi di grande rilievo, di una psicologia a priori ma empiricamente fondata. L’intuizione del senso interno fornisce una conoscenza di sé come fenomeno, e dunque teorica65 KrV B 422-423, nota. Cf. Prolegomena, KgS IV, 334 nota, dove si tratta di «sentimento di una esistenza senza concetto». Bisognerebbe capire come mai questo sentimento si distingua dagli altri, al punto da poter stabilire un’esistenza senza determinarne l’oggettività: l’espressione usata nella Critica sembra dunque più adeguata. Per ottenere una piena coerenza terminologica si potrebbe forse dire che l’intuizione della propria esistenza è un’inferenza immediata, e non a rigore un’intuizione, che però si può ricavare analiticamente da ogni atto sintetico. Sull’argomento dei Paralogismi si veda la recente sintesi in M. CAPOZZI, L’io e la conoscenza di sé in Kant, in E. CANONE (a cura di), Per una storia del concetto di mente, Firenze 2005, pp. 267-326. 66 Sulla critica alla tesi spinoziana dell’unicità della sostanza in base al concetto dell’Io si veda Religionslehre Pölitz (anni ’80), KgS XXVIII, 1052-53: «Egli [Spinoza] ammise dunque che tutto ciò che è si trova in Dio. Con ciò, tuttavia, entrò in grossolane contraddizioni. Se infatti esiste un’unica sostanza, allora o io stesso devo essere questa sostanza, dunque Dio: ma ciò contraddice la mia dipendenza; oppure io sono un accidente: ma ciò contraddice il concetto del mio Io, mediante cui io mi penso con un soggetto ultimo, che non è più predicato di un’altra cosa. L’attenzione, l’astrazione, la riflessione, la comparazione sono tutti espedienti di un intelletto discorsivo; perciò non si può pensare che appartengano a Dio; infatti Dio non ha affatto concetti, ma un semplice intuito, con cui il suo intelletto conosce immediatamente tutti gli oggetti, così come sono in sé».

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mente dovrebbe essere capace di determinare anche una sostanza fenomenica interna. È certo che Kant si era dedicato alla questione in questo periodo, poiché i suoi Principi metafisici della scienza della natura dovevano contenere, nel piano originario, una sezione fisica e una psicologica (la «metafisica della natura pensante»), e quest’ultima avrebbe trattato precisamente dell’applicazione delle categorie agli oggetti del senso interno. Tuttavia questa sezione venne dapprima ridotta a un’appendice (stando almeno a quel che si legge nell’unica lettera che ne fa menzione67), e infine del tutto espunta dal testo definitivo. Nella Prefazione Kant spiegava questa vistosa asimmetria sostenendo che la prevista determinazione a priori dell’oggetto del senso interno (chiamato ancora «anima» in ossequio alla terminologia comune) non è impossibile, ma irrilevante a causa della povertà di contenuto: essa dovrebbe contenere un’analisi della rappresentazione della coscienza nel tempo in quanto flusso continuo, ma questa analisi darebbe risultati tanto ridotti – per es. il principio qualitativo della continuità di questa rappresentazione – da giustificare la sua esclusione dall’esposizione della metafisica della natura, cui pure essa appartiene in linea di principio (MA 471). D’altra parte è dubbio che una tale dottrina sarebbe stata realizzabile, almeno per quanto riguarda l’applicazione del concetto di sostanza. La permanenza dell’anima, infatti, è un modo di determinazione della sua esistenza nel tempo. Ma questo è precisamente il punto d’origine della celebre Confutazione dell’idealismo, che Kant decise di collocare nella nuova edizione dell’opera in coda alla trattazione del concetto di esistenza. Per cui si può pensare che anche questa modifica abbia avuto origine, oltre che dalle note polemiche sul significato dell’idealismo critico, anche dalla riflessione sulla possibilità di una metafisica della natura pensante, il cui esito negativo avrebbe potuto incoraggiare una ricerca delle sue condizioni trascendentali. Nella seconda Nota alla Confutazione troviamo in effetti una seconda affermazione, all’interno alla filosofia trascendentale, di un necessario riferimento all’esi67 Lettera

a Ch.G. Schütz del 13 settembre 1785, KgS X, 46.

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stenza della materia. Dopo aver affermato che l’esperienza interna è possibile solo «mediatamente e tramite quella esterna», Kant commenta (B 277-278): Ora, con ciò concorda perfettamente ogni uso empirico della nostra facoltà conoscitiva nella determinazione del tempo. Noi non soltanto non possiamo percepire alcuna determinazione temporale, se non mediante il cambiamento dei rapporti esterni (il movimento) in riferimento a ciò che permane nello spazio (per esempio il movimento del sole rispetto agli oggetti della terra), ma non abbiamo neppure nulla di permanente da poter porre come intuizione alla base del concetto di una sostanza all’infuori della m a t e r i a, e questa stessa permanenza non è prodotta dall’esperienza esterna, ma viene presupposta a priori come condizione necessaria di ogni determinazione temporale, quindi anche come determinazione del senso interno rispetto alla nostra propria esistenza tramite l’esistenza di cose esterne. La coscienza di me stesso nella rappresentazione io non è affatto un’intuizione, ma una rappresentazione semplicemente i n t e l l e t t u a l e della spontaneità di un soggetto pensante. Perciò questo io non possiede neppure il minimo predicato dell’intuizione che, i n q u a n t o p e r m a n e n t e, possa fungere da correlato alla determinazione temporale nel senso interno; così com’è, per esempio, l’ i m p e n e t r a b i l i t à per la materia in quanto intuizione e m p i r i c a.

Per quanto riguarda l’esclusione della sostanza psichica si può dubitare che il riferimento di cui si tratta qui rendesse di per sé impossibile la sua determinazione secondo il sistema dei principi trascendentali (una tale determinazione sui generis potrebbe forse essere ricavata dalla dottrina del carattere fenomenico, che in effetti costituisce un presupposto della psicologia empirica). Si capisce però che una tale applicazione sarebbe stata non soltanto sempre subordinata alla corrispondente esibizione materiale – che è quanto in senso stretto consegue dalla Confutazione – ma soprattutto incompleta. Non pare infatti che se ne potesse trarre un’intuizione corrispondente a quella dell’influsso, quale invece – introducendo il corpo del soggetto – si potrà ottenere come possibile sviluppo della tesi della Confutazione. L’ambivalenza psicofisica del «conflitto», che abbiamo trovato nello scritto sulle quantità negative, è ormai divenuta «analogia» tra il vero e proprio conflitto – quello fi205

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sico – e la contrapposizione dei moventi nel soggetto cosciente68. Questa asimmetria è forse la ragione per cui Kant si risolse a lasciare da parte la sua appendice psicologica, poiché l’“eccetera” del suo elenco categoriale nell’86 non vi poteva in effetti essere integrato da una compiuta e sistematica trattazione, quale quella richiesta per una metafisica; la presenza di una dottrina metafisica dell’anima, d’altra parte, avrebbe suscitato inevitabili confusioni rispetto alle nuove tesi portanti dell’Analitica69. Abbiamo visto del resto che proprio la scoperta di un concetto analogo, quello del sentimento morale, determina nel 1766 la crisi di una indagine metafisica sull’influsso noumenico e l’apertura di una via parallela che condurrà alla filosofia morale del criticismo. L’asimmetria si lascia correggere infatti considerando che l’analogo di un influsso si darà non in una presunta psicologia pura, ma – per restare al livello trascendentale – nella determinazione pratica della legge morale, che obbliga appunto a determinare la massima della propria azione con riguardo all’esistenza di una comunità di pensanti, come se vi si trattasse di una legge universale. Ma si tratterà appunto, semmai, di una esibizione analogica – non intuitiva – di un influsso70. Va 68 Questo punto è chiarito nel manoscritto dei Fortschritte der Metaphysik, KgS XX,

283. 69 Si noti d’altra parte che Kant, ponendo alla base di questa disciplina il concetto empirico dell’anima in quanto soggetto delle rappresentazioni nel tempo, e dunque l’esistenza del soggetto percipiente come fenomeno, avrebbe dovuto affrontare, analogamente a quanto avviene nella Dinamica a proposito dell’impenetrabilità, la questione delle condizioni di questa esistenza nel mondo fenomenico. Si può ipotizzare, dunque, che parte delle riflessioni kantiane in proposito confluissero nella Confutazione dell’idealismo, in cui viene sostenuta precisamente la tesi che condizione dell’esistenza del soggetto come fenomeno è la stessa esitenza di qualcosa nello spazio. Anche in ragione di questa asimmetria, dunque, Kant avrebbe potuto ritenere opportuno rinunciare all’esposizione della «dottrina razionale dell’anima». Sulle modifiche della seconda edizione si vedano: B. ERDMANN, Kant’s Criticismus in der ersten und zweiten Auflage der Kritik der reinen Vernunft, Leipzig 1878; M. WASHBURN, The Second Edition of the Critique, «Kant-Studien» 66 (1975), pp. 277-290. 70 Storicamente, come abbiamo visto, la metafisica dei costumi kantiana è preceduta dalla speculazione sul mondo intelligibile, per cui la comunità morale viene inizialmente concepita in analogia con quella cosmica, e progressivamente privata della propria valenza oggettiva. L’ipotesi che la legalità naturale, stabilita nell’Analitica trascendentale, possa costituire una esibizione analogica di quella intelligibile è alla ba-

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poi aggiunto che, una volta ammessa tale compatibilità tecnica nel criticismo, un tale sforzo esegetico costituisce un esercizio scolastico troppo “conservatore”, tale da oscurare il fatto che Kant ha inteso distruggere la consolidata nozione razionalistica di una sostanza pensante e così facendo ha aperto la strada per una diversa comprensione dell’essere della coscienza che ha avuto diversi prosecutori non solo nel successivo idealismo tedesco (dove, per es. in Schelling e Hegel, la Darstellung della sostanza spirituale ritroverà una sovrabbondante ricchezza di contenuti), ma ancora nel XX secolo71. In ogni caso, per tornare al nostro tema, possiamo concludere che l’esemplarità teoretica dell’intuizione interna non può assolvere adeguatamente a una funzione generale di esibizione: il che è un altro modo di giungere alla tesi dell’esibizione materiale72. se delle considerazioni sviluppate da Kant nel capitolo della seconda Critica dedicato alla «tipica della facoltà di giudizio pura pratica», KgS V, 69-70. È il caso di notare che questa importante analogia potrebbe essere un’altra delle ragioni sistematiche per cui Kant si affaticò tanto intorno alla realizzazione di una filosofia della natura. Se infatti la natura si dissolvesse in un disordine amorfo, non ci sarebbero esempi empirici di realizzazione di una legge. Non a caso l’ipotesi di un caos naturale verrà esplicitamente affrontata nella terza Critica, dove si tratta proprio di una mediazione (sia pure non dimostrativa) tra principi della natura e principi della libertà e, nel celebre § 59, la bellezza naturale viene detta «simbolo della moralità» (V, 351-354). Non bisogna del resto insistere troppo su questo punto, considerando che la legge morale conosce anche formulazioni che non fanno riferimento esplicito alla natura, ed è in genere indipendente – e anzi in contraddizione – rispetto ai principi della filosofia naturale (la stessa logica introduce il proprio tema ricorrendo all’analogia tra ordine della natura e ordine del discorso; ma quest’ultimo non deriva certo dal precedente). 71 Questa tesi è sottolineata con forza, per esempio, nell’ambito della fenomenologia del XX secolo, almeno da quando vi si tornò acutamente sul problema kantiano di determinare l’appartenenza originaria dell’Io puro al mondo sensibile senza far uso delle nozioni aristotelica o cartesiana di sostanza. Nell’analitica esistenziale di Heidegger, per esempio, la critica della reificazione cartesiana della coscienza e la tesi dell’originaria appartenenza dell’esserci al mondo sono entrambe sviluppate a partire da una fondamentale ispirazione kantiana, a dispetto dell’atteggiamento prevalentemente critico che Heidegger riserva a Kant in questi luoghi (M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Halle 1927; Tübingen 19415, §§ 20-21, 43a). Un’interessante analisi dell’essere della coscienza, che muove dalla concezione heideggeriana del «sé» e sviluppa un’originale rielaborazione dei concetti kantiani di carattere sensibile e intelligibile, si trova in P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, Paris 1990, studi nn. 4-6. 72 Il significato negativo della Nota generale per la conoscenza di sé è affermato in KrV B 293-294.

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Il passo della Confutazione ci invita però anche a ritornare sulla questione generale dell’esibizione materiale, poiché la caratterizza più precisamente come esibizione corporea: vi si ricorda infatti che, mentre l’intuizione empirica della materia viene introdotta come condizione dell’esperienza della permanenza, la stessa permanenza della materia viene provata a priori (è la tesi della prima analogia). Se però, come Kant sembra affermare qui, l’esistenza della sostanza materiale individuale, cioè della sostanza corporea, fosse condizione di ogni determinazione temporale, ciò costituirebbe una integrazione essenziale delle tre analogie riguardo al loro compito trascendentale. Infatti la prima analogia non prova l’esistenza della sostanza corporea, ma solo la permanenza di una sostanza fenomenica in genere. D’altra parte, almeno per ora (poiché non si tratta di una posizione mantenuta fino alla fine), Kant sembra dare per scontata l’identificazione tra sostanza materiale (estesa, permanente) e sostanza corporea (separata, individuale). Resta da vedere se l’intuizione empirica sia senz’altro in grado di presentare immediatamente la sostanza corporea individuale, e con essa quel predicato di impenetrabilità che «può servire da correlato della determinazione temporale», e se dunque la questione si risolva semplicemente amplificando il contributo teoretico della sensazione già introdotto nell’Estetica trascendentale. Insomma il passaggio dall’intuizione empirica della materia all’intuizione del corpo, affermato in questo passo, ci impone di riaprire la questione dell’esibizione.

3.4. Sostanza corporea e problema trascendentale della fisica A) Due ipotesi sulla storia del criticismo dopo la Critica Dallo studio della Critica abbiamo ricavato l’esclusione di una sostanza psichica, tanto nella sua versione puramente metafisica, quanto in quella fenomenica, e abbiamo raggiunto l’identità estensiva tra sostanza fenomenica e sostanza materiale. Questa conclusione ci permette di spiegare una circostanza testuale banale, ma rilevante, e cioè la grande quantità di esempi fisici ricorrenti nell’Analitica dei principi. Considerando le dottrine trascendentali kan208

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tiane abbiamo concluso che la funzione esibitiva svolta da questi esempi debba essere solo retorica, e non apra alcuna questione teorica per la filosofia pura. Prendendo dunque in considerazione la realizzazione della fisica pura nei Principi metafisici della scienza della natura il punto di vista acquisito nella filosofia trascendentale, secondo cui gli esempi proverrebbero immediatamente dall’intuizione empirica, dovrebbe restare saldo. Infatti, quale che sia l’estensione teoretica provvista dai nuovi principi metafisici, resta fermo che essi non possono fornire una costruzione della sostanza materiale, e che dunque i corpi, e con essi gli esempi meccanici di conflitto reale, ecc., vengono attestati pur sempre immediatamente dall’intuizione empirica. Perciò, in base a quanto abbiamo stabilito, anche della fisica pura si dovrà dire che essa prova dei giudizi (i «principi metafisici»), ma che la compiuta esibizione del loro significato oggettivo è provvista dall’intuizione empirica del corpo. Ma questa tesi si mostrerà inadeguata e dovremo anzi vedere che nel concetto della possibilità delle cose rimane un problema che la Critica non ha risolto e intorno a cui si muove tutta la filosofia della natura degli scritti successivi. Il problema si pone proprio con il passaggio dalla determinazione generale di una natura in genere, nella logica trascendentale, alla sua rappresentazione in concreto mediante una molteplicità di sostanze corporee individuali reciprocamente connesse, e consiste nell’esigenza imprescindibile di giustificare un passaggio a priori ulteriore che colleghi i principi trascendentali con la rappresentazione delle cose fisiche. Questo passaggio viene tentato per la prima volta (la sola resa pubblica) nei Principi metafisici, che altrimenti non avrebbero quella funzione esemplificativa che Kant attribuisce all’opera nella Prefazione, la quale sarebbe resa superflua dal semplice ricorso all’intuizione. La fisica pura ha dunque, in questo senso, una indiretta rilevanza trascendentale, che si manifesta in particolare nella sua parte più ampia, la dinamica. Troveremo in effetti che questa esigenza viene preparata già nella logica trascendentale, e che dunque il problema di una filosofia dinamica della natura corporea investe l’intera filosofia della natura73. 73 Una

tesi di questo genere è stata sostenuta da diversi autori, a partire dallo stu-

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Il nostro compito richiederà ora un lavoro di interpretazione che individui la suddetta necessità nell’intero sviluppo del criticismo kantiano. Come si è cominciato a vedere, infatti, il problema per ora solo accennato non solo non è evidente, ma sembrerebbe addirittura escluso sia dai testi, sia dalla coerenza sistematica. Si possono indicare in primo luogo delle questioni aperte della Critica, riguardo al collegamento tra fenomeno e realtà oggettiva. La prima si pone con la distinzione tra fenomeno e oggetto. Vediamo un passo particolarmente chiaro (KrV A 189-190/B 234235): L’apprensione del molteplice del fenomeno è sempre successiva. Le rappresentazioni delle parti si susseguono. Se poi esse si susseguano anche nell’oggetto sarà un punto su cui bisognerà riflettere ulteriormente, che non è contenuto nel primo punto. Ora, è pur vero che tutto può essere chiamato oggetto, persino ogni rappresentazione, in quanto se ne abbia coscienza; ma occorre un’indagine approfondita per stabilire ciò che la parola debba significare rispetto ai fenomeni, non in quanto questi (come rappresentazioni) siano degli oggetti, ma solo in quanto essi designino un oggetto. I fenomeni, in quanto sono oggetti della coscienza solo come semplici rappresentazioni, non si distinguono affatto dall’apprensione [...]. dio che ha avuto il merito di aprire la questione di una rilevanza trascendentale della dinamica, B. TUSCHLING, Metaphysische und transzendentale Dynamik in Kants opus postumum, Berlin/New York 1971. Questa linea interpretativa è stata sviluppata e approfondita in J. EDWARDS, Substance, Force, and the Possibility of Matter, Cambridge 2001 e WESTPHAL, Kant’s Trascendental Proof of Realism, in part. pp. 127-172. Sulle conclusioni generali la presente intepretazione converge in certa misura con quella di Westphal, il quale però ha di mira, piuttosto che un inquadramento del problema della fisica, la questione di una “prova del realismo”. La difficoltà che il presente studio condivide con queste letture è la quasi totale assenza di esplicite dichiarazioni kantiane di autocritica e riforma delle opere precedenti: l’evidenza si trova soltanto implicita nei tanti ripensamenti dottrinali successivi al 1786, quasi tutti manoscritti. Qui tenterò dunque di raccogliere tutte queste evidenze attraverso una ricostruzione d’insieme, muovendo da diversi luoghi interpretativi: concetti di fenomeno e oggetto fenomenico, presupposti fisico-dinamici latenti delle analogie dell’esperienza, polemica kantiana contro il meccanicismo, sviluppi delle ricerche dinamiche negli anni successivi al 1786, ritorno a una problematica e a una terminologia trascendentale a partire dal problema della fisica negli anni ’98-’99. Su alcuni di questi temi forniscono elementi utili i tre libri citati.

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Il problema della verità, in base a questa distinzione, non è esaurito sul piano logico-trascendentale (A 191/B 236): Dato che l’accordo della conoscenza con l’oggetto [Objekt] costituisce la verità, allora si vede subito come sia possibile indagare soltanto le condizioni formali della verità empirica, e come il fenomeno, di contro alle rappresentazioni dell’apprensione, possa essere rappresentato come l’oggetto [Objekt] delle rappresentazioni, distinto dall’apprensione, solo a patto di essere ricondotto a una regola, che lo distingua da ogni altra apprensione e renda necessario un modo di congiunzione del molteplice. L’oggetto è ciò che nel fenomeno contiene la condizione di questa regola necessaria.

Una cosa, dunque, è il molteplice dell’apprensione, come intuizione logicamente indeterminata, altra il fenomeno come oggetto dell’esperienza. Una distinzione terminologica tra ‘Erscheinung’ come intuizione indeterminata e ‘Phaenomenon’ come oggetto fenomenico, introdotta in un passo della prima edizione della Critica, resta un caso isolato74, mentre Kant parla spesso di ‘Erscheinung’ come oggetto. In ogni caso, il primo si presenta immediatamente nell’intuizione, il secondo è accessibile solo mediatamente, ed è «ciò nel cui concetto è u n i f i c a t o il molteplice di una data intuizione»75. A questa distinzione tra fenomeno e oggetto (o sostanza individuale) si può ricollegare anche la trattazione del concetto di esistenza. Nel fenomenismo di Leibniz e Wolff, infatti, la distinzione 74 KrV A 248-249: «Erscheinungen, so fern sie als Gegenstände nach der Einheit der Categorien gedacht werden, heissen Phaenomena». L’indeterminazione logica del fenomeno è conservata nella prima definizione dell’Estetica: «L’oggetto [Gegenstand] indeterminato di un’intuizione empirica si chiama f e n o m e n o [Erscheinung]» (KrV B 34). 75 KrV B 136. Sulla legalità come condizione per conferire alle rappresentazioni il «riferimento all’oggetto» cf. KrV A 197/B 242. A questa distinzione tra rappresentazione e oggetto si può collegare anche quella tra «giudizi di percezione» e «giudizi di esperienza» nei Prolegomena (§§ 18-20; KgS IV, 297-301). Nella Refl. 5221 (1776-8? 1773-5?), KgS XVIII, 122-123 il fenomeno viene considerato come predicato che inerisce all’oggetto permanente. In sé il fenomeno non dà un oggetto, né conoscenza («denn blosse Erscheinung gibt noch kein object»), ma esso costituisce un «lato di ciò che è costante». (cf. Refl. 5216).

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tra realtà effettiva e apparenza era introdotta mediante la legalità dei fenomeni. Kant trae la sua concezione dell’esperienza possibile da analoghe considerazioni, anche se considera la legalità trascendentale indipendente da qualsivoglia posizione di esistenza metafisica. Ci si aspetterebbe, dunque, che ai fini della determinazione dell’esistenza il concetto di legalità debba risultare primario rispetto al criterio della percezione immediata76. Nell’enunciato del secondo dei Postulati del pensiero empirico in generale, relativo appunto all’esistenza, Kant riconosce proprio la possibilità di una determinazione indiretta dell’esistenza della cosa (KrV A 225/B 272): Il postulato per conoscere la r e a l t à [Wirklichkeit] delle cose richiede la p e r c e z i o n e, quindi una sensazione di cui si abbia coscienza; certo, non la percezione immediata dell’oggetto stesso, la cui esistenza deve esser conosciuta, ma il collegamento dell’oggetto con una qualche percezione reale secondo le analogie dell’esperienza, che espongono ogni connessione reale in un’esperienza in genere.

L’interpretazione di questo passo pone una questione delicata. Non si può intendere infatti che la connessione dinamica sostituisca l’intuizione immediata: al contrario Kant sottolinea appositamente che l’esistenza non si risolve nel semplice concetto, «cosicché la percezione di essa può in ogni caso precedere il concetto». L’esistenza inferita, inoltre, viene distinta da quella intuita in base a un criterio soltanto fisiologico: se i nostri sensi fossero «più acuti» saremmo capaci di percepire immediatamente anche una sostanza, come la materia magnetica, che di fatto possiamo solo inferire secondo «principi della connessione empirica» (A 226/B 76 Sulla connessione legale dei fenomeni come solo criterio della realtà degli oggetti dei sensi, in Leibniz, si vedano almeno l’inedito De modo distinguendi phaenomena realia ab imaginariis (1683-1686), A VI, 4 B, 1500-1504; la Lettre contenant un eclaircissement des difficultez que Monsieur Bayle a trouvées dans le systeme nouveau de l’union de l’ame et du corps, comparsa sulla «Histoire des ouvrages des sçavans» del luglio 1698, GP IV, 517ss.; Nouveaux essais, IV, II, §14. Per il collegamento della legalità trascendentale con la posizione di esistenza della sostanza immateriale, come abbiamo visto, Leibniz viene assimilato a Berkeley.

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273). Se le cose stessero diversamente, si tornerebbe senz’altro alla dottrina metafisica dell’esistenza come omnimoda determinatio, che è proprio uno degli obiettivi critici del nuovo concetto di esistenza. D’altra parte il rimando alle analogie dell’esperienza solleva una questione: se infatti per cosa esistente si intende la sostanza fenomenica, bisogna riconoscere che le analogie dell’esperienza hanno fornito dei criteri di individuazione della sostanza soltanto indiretti. Applicare il concetto di sostanza ai fenomeni, infatti, significa stabilire che alcuni fenomeni devono essere considerati come attributi di una sostanza, imponendo una connessione che la semplice forma logica soggetto-predicato non permette ancora di stabilire77. Insomma Kant, analogamente a Leibniz, considera necessario integrare la percezione con il riconoscimento di una legalità, che stabilisca l’ordine tra le percezioni, e dunque permetta di distinguere quelli che egli chiama fenomeni in senso oggettivo dalle parvenze strettamente soggettive come l’arcobaleno e i sogni. Ciò sembra porre l’esigenza che una mediazione ulteriore – la specificazione della legge − colleghi il piano della percezione con quello della sostanza, senza perciò violare la dicotomia tra concetti e intuizioni. Gli esempi kantiani di cose esistenti sono di tre specie: materiali inferiti e non immediatamente percepibili (come la materia magnetica), esistenza di me stesso, esistenza dei corpi. Nel secondo caso, come sappiamo, non viene determinata alcuna sostanza. Il primo esempio, oltre che infelice dal punto di vista fisico, viene riportato al caso dell’intuizione immediata. Pare dunque che la cosa esistente cui si riferisce l’Analitica trascendentale sia in genere il corpo. La mediazione ulteriore che stiamo cercando dunque dovrà riguardare la determinazione del corpo secondo leggi di connessione dei fenomeni. Una seconda questione si pone in base a un’altra elementare constatazione sul concetto di fenomeno. Il fenomeno è una rappresentazione, l’oggetto reale invece agisce. Si tratta di una distinzio77 MA

475 nota; KrV B 142.

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ne ben nota a tutte le dottrine fenomenistiche, che è per esempio messa in evidenza sia da Leibniz che da Berkeley78. Nel caso kantiano, ovviamente, l’oggetto agente deve essere di nuovo una sostanza fenomenica. In effetti la forza, nel capitolo sulle Analogie dell’esperienza, viene indicata da Kant come il criterio di individuazione della sostanza79. La forza però non viene percepita immediatamente, ma inferita dai suoi effetti. L’individuazione della sostanza sembra dunque dover dipendere da una mediazione ulteriore, tra logica e intuizione, che è fornita dalla dinamica. L’esigenza di questa mediazione, infine, sembra esplicitamente riconosciuta da Kant nei passi sul principio dell’esibizione, in particolare in quello dei Principi metafisici, dove l’obiettivo di «realizzare» i concetti trascendentali, come quello di sostanza, viene assegnato proprio alla fisica pura. Sembra dunque che la mediazione ulteriore che stiamo cercando sia costituita proprio dalla fisica pura, e in particolare dalla dinamica pura, in cui vengono introdotte le forze fondamentali della materia quali condizioni del fenomeno dell’impenetrabilità. Il problema esegetico posto da questi passaggi dipende dalla assenza, nella filosofia trascendentale, di una mediazione ulteriore 78 Tutta la metafisica leibniziana, almeno a partire dall’elaborazione della dinamica degli anni ’90, si basa sulla posizione dell’attività delle sostanze immateriali che può essere inferita a partire dai fenomeni. Sugli scritti dinamici leibniziani torneremo nel § 8.1.A. Berkeley afferma che la sostanza si distingue per la sua attività, e su questa base afferma che essa può essere solo mente, affermando la contraddittorietà dell’idea di una sostanza corporea. Cf. G. BERKELEY, A Treatise concerning the Principles of Human Knowledge, Dublin 1710; 17342 (The Works, vol. II); I, §§ 2, 10. D’altra parte ogni proprietà fisica è un’idea, ma l’idea è qualcosa di passivo (ivi, § 25). Sul nesso tra attività e «esistenza per sé» della sostanza, i cui primi cenni si trovano almeno in Platone, la fonte kantiana più prossima è WOLFF, Vernünftige Gedanken, §§ 114-115, 125. Nella nozione wolffiana di «Würklichkeit» si trova una delle radici dell’omonimo concetto kantiano – in quanto condizione dell’esistenza come Dasein, che rimanda al concetto precritico di «posizione» e manca di questa sfumatura dinamica – e dunque del nesso tra «esistenza» e «principi dinamici». Bisogna però considerare anche la tradizione newtoniana, nella quale come è noto la questione metafisica della causa agente è tutt’altro che ignota. Per esempio lo stesso Newton, discutendo dell’onnipresenza di Dio, afferma che «il potere di agire richiede una sostanza» («virtus sine substantia subsistere non potest»: Principia, Scolio generale, p. 762). 79 KrV A 204-206/B 249-251. Torneremo tra breve su queste importanti pagine.

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tra anticipazione logica e intuizione empirica. Da questo punto di vista la sostanza deve poter essere intuita immediatamente, anche se essa può poi essere determinata in un sistema fisico-dinamico. Si aprono dunque due ipotesi di lettura: la prima consiste nel considerare l’intuizione empirica come la fonte di una attestazione immediata della sostanza materiale, che è quella corporea, di cui la fisica pura si limiterebbe a determinare a priori alcune proprietà. La seconda consiste nell’ammettere una mediazione scientifica tra determinazione logica e intuizione, consistente nella fisica pura, e in particolare nella dinamica, nella quale si porrebbero il compito e le premesse di una costruzione della sostanza materiale che si dovrebbe poi realizzare in fisica empirica. Per l’esibizione delle sostanze corporee svolgerebbe dunque una funzione essenziale lo sviluppo della fisica a priori, a integrazione della semplice intuizione, la quale non potrebbe risolvere quel compito da sola. Secondo la prima ipotesi, le questioni che abbiamo sollevato si devono risolvere senza porre una nuova determinazione a priori della sostanza individuale, che altrimenti sembrerebbe cancellare le distinzioni fondamentali del criticismo tra essenza e esistenza, tra matematica e filosofia. Perciò la molteplicità delle sostanze corporee è data con una intuizione empirica, che serve ad applicare le categorie dinamiche senza richiedere altre mediazioni: così, con l’intuizione di un corpo, si distingue l’oggetto esistente dal fenomeno indeterminato, la sostanza dall’attributo e dall’effetto. (In particolare, come suggerirà un passo della Prefazione ai Principi metafisici, l’effetto che attesta l’azione della sostanza individuale potrebbe essere in primo luogo – analogamente a quanto avviene nella dissertazione del 1770 – la stessa affezione degli organi dei sensi, rendendo non necessaria all’individuazione una specifica determinazione fisica.) Accogliendo questa ipotesi occorre allora ridimensionare il compito esibitivo della fisica pura. Kant dunque scriverebbe che l’esibizione viene effettuata nella fisica pura nel senso che quest’ultima, a differenza della logica trascendentale, si riferisce con i suoi concetti e principi metafisici all’intuizione della materia, introducendola per la prima volta nella filosofia pura. Nella seconda ipotesi, invece, l’oggetto è la sostanza fenomenica, di cui si può stabilire l’esistenza solo entro un sistema dinami215

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co di influssi, in modo da riferire ad essa determinati fenomeni come stati ed effetti. Gli effetti, ora, saranno in genere risultati di una causalità determinata in base a leggi fisiche, e solo incidentalmente le stesse impressioni degli organi sensoriali del soggetto conoscente. Il compito dell’esibizione sarà assolto da una scienza, la fisica pura, che presuppone (oltre alla logica trascendentale e alla matematica) l’intuizione empirica, ma ne esamina e amplia le proprietà essenziali riconducendole all’intuizione pura. Accogliendo questa ipotesi occorre mettere in dubbio la «posizione assoluta» dell’esistenza in base all’intuizione e, posta l’esistenza della materia, dunque al riparo dall’idealismo materiale, si dovrà ammettere la dipendenza della determinazione della sostanza dal sistema delle leggi della natura. Questa conclusione, ora, prevede la possibilità di un errore in questa determinazione che non viene per ora riconosciuta, ma di cui si trova un pieno riconoscimento nelle più tarde riflessioni sulla fisica empirica. Nell’Opus postumum Kant elaborerà un ampliamento della teoria del fenomeno, sostenendo che oltre all’inganno consistente nell’attribuire all’oggetto il modo in cui il soggetto intuisce (cioè spazio e tempo), si dà un secondo inganno, a livello «fisiologico»: Il secondo inganno [Täuschung] consiste in ciò: per quanto riguarda l’esistenza di un oggetto dei sensi, la coscienza empirica dell’oggetto (la percezione) viene presa immediatamente per un principio di connessione delle percezioni ai fini della possibilità dell’esperienza, cioè direttamente, mentre questo può avvenire solo indirettamente e l’esistenza dell’oggetto non può procedere dall’esperienza ma per essa, cioè in favore della possibilità dell’esperienza nella fisica80.

Il passo compare nel corso delle riflessioni sulla teoria del «fenomeno indiretto». Il fenomeno indiretto, a differenza del contenuto della percezione (fenomeno diretto), è anticipato schematicamente mediante l’autoaffezione, ma nello stesso tempo «rappresenta [darstellt] la cosa stessa». Questo atto di autoaffezione pro80 Foglio

‘C’ (1799), KgS XXII, 320.

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duce una «composizione delle forze motrici per la fondazione dell’esperienza come determinazione di un oggetto in quanto cosa completamente determinata (esistente) e dunque non è intuizione empirica, tantomeno concetto empirico prodotto da percezioni, ma un atto di conoscenza sintetica a priori (trascendentale) che rende soggettivamente possibile l’esperienza»81. Tutto questo porta dunque, in tutti i fogli del Konvolut X da cui provengono questi passi (1799), a riconsiderare l’esistenza come omnimoda determinatio quale ideale da realizzarsi in un sistema fisico del mondo82. L’intera ipotesi, anche se comporterebbe una revisione di più ampio respiro della logica trascendentale che Kant non affrontò sistematicamente, è la sola capace di rendere comprensibile l’indirizzo trascendentale assunto dalle ricerche kantiane in filosofia naturale dopo il 1786. Bisogna dire subito che le due ipotesi sono compatibili, se solo si tengono presenti i diversi contesti da cui traggono evidenza. La prima infatti si basa sulla cornice teorica della logica, la seconda su quella della fisica, ma il rispettivo concetto di oggetto varia a seconda delle esigenze contestuali. In logica, come abbiamo visto, Kant traccia una inflessibile dicotomia tra concetti e intuizioni, 81 I due passi citati si trovano rispettivamente nei fogli ‘D’, KgS XXII, 327 e ‘L’, KgS XXII 364-365. Sul fenomeno indiretto torneremo nel cap. 14. 82 V. MATHIEU, L’opus postumum di Kant, Napoli 1991, pp. 208ss., ha sostenuto in proposito che si avrebbe qui un «nuovo concetto di esistenza», in quanto ideale di una inesauribile approssimazione asintotica. In realtà con questo «nuovo concetto» Mathieu attribuiva a Kant un sostanziale superamento della scissione tra molteplice dato delle sensazioni e sintesi dell’intelletto, ritrovandovi l’anticipazione di teorie epistemologiche molto successive: ogni sensazione presupporrebbe un apparato intellettuale secondo cui essa corrisponde all’esistenza di un oggetto, anche se questo apparato, nell’epistemologia contemporanea, è proprio di un singolo sistema scientifico. Invece per Kant, se è vero che solo la legalità insegna a distinguere la parvenza – come l’arcobaleno o il moto relativo – dall’esistenza effettiva, è altrettanto vero che questo apparato è uno solo: quello espresso nei principi trascendentali e in quelli metafisici. D’altra parte questo sistema teorico non sopprime l’autonomia del dato percettivo, mantenendolo comunque distaccato dalla forma logica. Dunque, data la possibilità di un progresso nella dinamica sperimentale, che Kant accoglie senz’altro, si dà la possibilità teorica di un errore nella determinazione della sostanza materiale. In un tale errore, dal punto di vista della fisica attuale, incorre lo stesso Kant con il suo esempio della magnetische Materie.

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escludendo la possibilità di un concetto individuale. Ma l’oggetto cui si riferisce la teoria della formazione del concetto è una cosa percettiva, come un cane o un albero. In questo contesto, la distinzione tra concetto e intuizione si risolve in una constatazione ovvia: l’esperienza di un cane o di un albero si può certo anticipare rispetto ad alcune determinazioni generali, e si darà poi anche attraverso innumerevoli serie di percezioni, comparando le quali si formeranno concetti generali, appunto ‘cane’ e ‘albero’; ma il cane come oggetto empirico, in ultima analisi... si trova là. Sul cane si riflette, non lo si costruisce! La dottrina dell’essenza logica, secondo cui ad alcune parole si associano invariabilmente alcuni predicati, non modifica la questione. Il riferimento all’intuizione è sempre accompagnato da concetti (quali regole della sintesi), i quali individuano altrettanti aspetti empirici, potenzialmente infiniti, dell’oggetto intuito. Il corrispondente schema del giudizio (come regola dell’apprensione) viene ripreso nella logica trascendentale quale forma logica della sintesi trascendentale. Per questa ragione, nella Critica, Kant parla di intuizione empirica della cosa nello stesso senso logico, senza distinguere la cosa o “sostanza” percettiva dalla sostanza materiale vera e propria, le qualità primarie (oggettive) da quelle secondarie (soggettive)83. 83 Parlo qui di «cosa» o «sostanza della percezione» nel senso sviluppato da Cassirer negli anni ’20 del secolo scorso: egli la contrapponeva alla sostanza in senso fisico-matematico e distingueva rispettivamente uno «schematismo percettivo» da uno «schematismo geometrico o intuitivo» (tra i principali esempi storici erano Aristotele, per un verso, Galilei e Descartes, per l’altro). A questi Cassirer aggiungeva un terzo «schematismo numerico», in cui la sostanza sarebbe del tutto risolta nella legalità, come correlato di un sistema di simboli, e al quale tenderebbe implicitamente tutta la vicenda della scienza moderna (l’esposizione più chiara dei tre schematismi è nell’inedito del 1937 Ziele und Wege der Wirklichkeitserkenntnis, in E. CASSIRER, Nachgelassene Manuskripte und Texte, Hamburg 1995ss., vol. 2) . Questa interpretazione generale del processo della teoria della conoscenza è utile a esprimere la tensione interna al pensiero kantiano che stiamo introducendo. Cassirer stesso riteneva, in particolare, che Kant avesse assunto nei Principi metafisici una nozione newtoniana e dunque atomistica sulla sostanza materiale, laddove la logica trascendentale avrebbe posto l’esigenza di una riduzione della sostanza a legalità (CASSIRER, Philosophie der symbolischen Formen. Dritter Teil, Phänomenologie der Erkenntnis, in CGW 13, pp. 532-533). La tesi di una precedenza categoriale della legalità sulla sostanza, che Cassirer cerca di verificare sul piano storico, si trova già in Cohen, che ne individuò la realizzazione

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Nello stesso tempo, tuttavia, la teoria della conoscenza della Critica introduce una distinzione rigorosa tra il fenomeno e la «sostanza fenomenica», tra le qualità secondarie (soggettive), come i colori, e quelle primarie (oggettive), facendo esempi come il corpo celeste, la materia magnetica, l’etere. Ora, mentre della cosa percettiva si potrà dire che essa viene senz’altro intuita empiricamente (il corpo, per es., è individuato mediante il tatto), la sostanza fenomenica nello spazio, scrive Kant, «la conosciamo soltanto mediante forze che sono attive in esso» (KrV B 321). Discutendo delle ambizioni speculative della ragione, in un passo nell’Antinomia, egli stesso sottolinea il contrasto tra l’«esperienza comune» e la conoscenza della natura resa possibile dalla ragione guidata dalla matematica, che sola è capace di penetrare ben oltre quanto possono offrire i sensi e fornire alla stessa ricerca metafisica delle «intuizioni adeguate»84. La distinzione tra i due casi (cosa percettiva e sostanza fenomenica) spicca anche dal punto di vista del principio della relatività scientifica nel concetto ottocentesco di energia (H. COHEN, Logik der reinen Erkenntnis, Berlin (1903) 19142, III.2, in part. §§ 32-40, pp. 249-257; ID, Werke, Hildesheim/New York 1977ss., vol. 6, pp. 287-299). Negli anni ’20, invece, Cassirer attribuì un analogo significato alla «fisica del campo» post-relativistica. Nel seguito, pur ritrovando sul piano dell’esegesi kantiana molte delle idee del neokantismo marburghese (prima tra tutte la tesi di una tendenziale scomparsa delle sostanze individuali, che raggiungeremo al termine di questo capitolo), cercherò di mostrare però che questa tensione tra legalità e cosa intuitiva non corrisponde alla successione tra logica trascendentale e fisica pura, ma che essa piuttosto non si pone esplicitamente nella prima, dove la fisionomia della cosa resta indeterminata, e compare invece esplicitamente all’interno della stessa fisica pura, nella contrapposizione tra dinamismo e meccanicismo, producendovi un conflitto teorico dirompente, che avrà un’importanta primaria nell’Opus postumum. 84 KrV A 464/B 492: «Persino il valore peculiare della matematica (questo orgoglio della ragione umana) si basa sul fatto che essa – facendo da guida alla ragione nella comprensione della natura, tanto nel grande quanto nel piccolo, nel suo ordine e nella sua regolarità, come pure nella mirabile unità delle forze che la muovono, ben al di là delle aspettative di una filosofia che costruisce sull’esperienza comune [gemeine Erfahrung] – proprio con questo offre alla ragione occasione e incoraggiamento per un uso che oltrepassi ogni esperienza, e fornisce inoltre alla filosofia, impegnata in tali attività, i materiali più eccellenti per sostenere le sue ricerche, per quanto la sua natura lo permette, con intuizioni adeguate».

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delle proprietà oggettive. Infatti, in base al mero schema categoriale applicato all’esperienza in genere, la determinazione oggettiva dipende dalla sola relazione logica asimmetrica tra sostanzasoggetto e attributo-predicato; invece per la determinazione della sostanza corporea nel complesso delle relazioni fenomeniche, come risulta dall’intera dottrina degli elementi, ogni attributo si deve risolvere in relazioni spazio-temporali, che sono essenzialmente simmetriche. Il punto di contatto tra i due piani si ha con la categoria di comunanza, che impone sullo stesso piano logico di considerare la «totalità dinamica» della natura quale complesso di relazioni reciproche. Non a caso è proprio questo il luogo teorico in cui, fin dall’epoca precritica, il pensiero logico-metafisico si apriva alle determinazioni fisico-dinamiche, e che anche nel criticismo corrisponde all’assunzione a priori di presupposti fisico-dinamici, che diverranno via via espliciti negli scritti di argomento fisico dopo la pubblicazione della Critica. Per il nostro obiettivo di ricostruire la filosofia della natura, che trovò nella giustificazione cosmologica dell’unità del mondo il suo tema fondamentale, il punto di vista dinamico della seconda ipotesi risulterà più adeguato. Vedremo però che la seconda ipotesi può conservare e ampliare la precedente, permettendo nello stesso tempo una lettura più adeguata dell’itinerario kantiano in filosofia naturale dopo il 1781.

B) Sviluppo della prima ipotesi: esibizione puramente intuitiva Cerchiamo dunque di verificare nei testi la prima ipotesi di lettura, che coincide con vedute consolidate presso gli studiosi perché si fonda soprattutto sulle distinzioni operanti nella Critica e da questo punto di vista cerca di comprendere la connessione problematica degli scritti successivi al 1781. Secondo questa lettura la questione della possibilità della sostanza corporea resta al di fuori dei compiti della filosofia della natura, proprio in quanto si tratta della scienza di un essere finito, e viene risolta con il semplice atto dell’intuizione empirica. Qual è dunque il ruolo dell’intuizione della materia nella Logica trascendentale? Ricordiamo che la deduzione trascendentale ha afferma220

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to la necessità di una sintesi dell’apprensione, in cui le categorie devono essere applicate al molteplice dei nostri sensi. Questo molteplice è sempre sottoposto alla forma del tempo, che è condizione di ogni apprensione sensibile, ma la forma temporale dell’apprensione non basta in sé a stabilire il passaggio dalla successione soggettiva delle percezioni alla determinazione dei rapporti temporali che sono oggettivamente nel tempo e esprimono un nesso tra le sostanze. Ora, dato che il tempo in sé non può essere percepito – così procederà in genere l’argomentazione – si deve ammettere una connessione necessaria delle percezioni successive secondo le tre categorie di relazione (KrV B 218-219). La determinazione logica dell’apprensione secondo le categorie di relazione è allora una condizione necessaria per la rappresentazione delle relazioni temporali (permanenza, successione, simultaneità), e dunque anche del nesso universale tra le sostanze. Questa determinazione logica avviene però considerando la sola forma temporale dell’apprensione e non richiede la rappresentazione degli oggetti empirici che saranno in concreto sottoposti alle regole trascendentali. Quest’ultima rappresentazione sarà sottoposta alla condizione aggiuntiva dell’intuizione della materia nello spazio: ecco, a margine dell’intera logica trascendentale, il contributo degli “esempi in concreto”. La nostra ipotesi, riformulata alla luce delle analogie dell’esperienza, si presenta così come una circostanza banale: la determinazione pura del tempo costituisce una condizione necessaria dell’esperienza di oggetti empirici, ma solo considerando anche l’intuizione della materia nello spazio si ottiene un insieme di condizioni necessarie e sufficienti per fare esperienza. Cerchiamo ora di verificare e precisare questa ricostruzione caso per caso, cercando di distinguere l’argomentazione trascendentale dal contributo dell’intuizione esterna. Prima analogia dell’esperienza. Il riscontro di una insufficienza gnoseologica dell’intuizione costituisce il punto d’avvio dell’argomentazione della prima analogia, e definisce una situazione comune a tutte e tre le prove. Deve essere possibile stabilire dei rapporti temporali tra gli oggetti empirici, ma la semplice successione temporale delle percezioni (nella sintesi dell’apprensione) non 221

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lo permette. Il tempo stesso, infatti, non può essere percepito. Quel che si percepisce è una successione di percezioni, in cui non è possibile intuire immediatamente le relazioni temporali. Queste devono perciò essere determinate introducendo delle relazioni logiche. Nel caso della prima analogia, si dovrà conservare qualcosa di permanente nell’intuizione, rispetto a cui soltanto possono essere determinati i rapporti temporali tra le cose (di successione e coesistenza, ma anche, applicando la categoria di quantità, di durata). Questo qualcosa, «il sostrato di tutto ciò che è reale, ossia di tutto ciò che appartiene all’esistenza di una cosa» (A 182/B 225), è la sostanza fenomenica. Poiché la permanenza della sostanza viene introdotta come il presupposto della determinazione temporale dell’esistenza in ogni tempo si può aggiungere, relativamente alla sua quantità, che essa non cambia mai (e dunque nemmeno sorge o scompare nel nulla). Fin qui la prova85. È intanto utile tener fermo un aspetto fondamentale del rapporto tra determinazione pura e intuizione della sostanza materiale. Poiché la prima analogia lascia indeterminato il qualcosa di permanente, non si può parlare a livello trascendentale di una determinazione quantitativa della sostanza (quantitas), ma solo – come precisa Kant nella seconda edizione (B 224) – di permanenza del quantum di sostanza. Ciò vuol dire, tra l’altro, che non è ancora stabilito un criterio per distinguere tra di loro molteplici sostanze e resta aperta in teoria la possibilità che ve ne sia soltanto una (nel corso dell’argomentazione, in effetti, si parla di «sostanza» al singolare). L’ipotesi che si impone, alla luce del nostro lavoro preparatorio, è che esibizione del concetto di sostanza e posizione dell’esi85 Il problema preliminare di ogni analisi delle analogie è diventato quello di interpretare quale sia il vero obiettivo dell’argomentazione kantiana, talvolta anche a dispetto della formulazione dei rispettivi principi. Tra gli interventi più recenti si può vedere A. WARD, Kant’s First Analogy of Experience, «Kant-Studien» 92 (2001), pp. 387-406, che offre un’utile ricostruzione dell’argomento kantiano e sottolinea correttamente quale sia il vero e proprio obiettivo della prova: stabilire che ogni cambiamento nel fenomeno si riferisce a qualcosa di permanente; per cui nel fenomeno nulla sorge dal nulla o scompare nel nulla. Ward collega poi questo obiettivo con quello della seconda analogia (provare che ogni cambiamento ha una causa), riscontrandovi due passaggi di una critica alla trattazione humiana della causalità.

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stenza individuale coincidano nell’atto dell’intuizione empirica del corpo (nell’esempio kantiano: il corpo celeste). Ma qual è il contributo dell’intuizione empirica della materia nello spazio? Stando a quanto si legge nella Nota generale, essa offre «qualcosa di p e r m a n e n t e nell’intuizione» che corrisponde al concetto di sostanza. Sembrerebbe dunque che il difetto della semplice intuizione del tempo, da cui muove l’argomento, scompaia non appena ci si riferisca all’intuizione empirica della materia. Non è affatto evidente, però, in che cosa consista la permanenza nell’intuizione, e in effetti di essa si trovano due spiegazioni apparentemente inconciliabili. La prima è che la permanenza sia una determinazione dello stesso spazio (che poi, empiricamente, deve essere intuito insieme alla materia): « [...] poiché soltanto lo spazio è determinato in modo permanente» (B 291). Questa ipotesi è però evidentemente incompatibile con la posizione del problema trascendentale, che risulterebbe risolto di fatto con la semplice intuizione empirica; inoltre, se la si prende alla lettera, essa è in flagrante contraddizione con le premesse del criticismo in genere, poiché fa della sostanzialità un predicato dello spazio e dunque un concetto dell’Estetica, vanificando il contributo dell’Analitica. Occorrerà dunque interpretare diversamente. Una seconda ipotesi si può ricavare a partire dal già citato passo della seconda nota alla Confutazione dell’idealismo (B 278), dove si legge che la determinazione intuitiva corrispondente alla permanenza sarebbe l’«impenetrabilità». Questa corrispondenza dell’intuizione dell’impenetrabilità al concetto di sostanza richiede evidentemente di essere integrata, perché altrimenti l’intero statuto trascendentale del discorso verrebbe di nuovo vanificato. Ricordiamo che la Confutazione dell’idealismo ha fornito una prova dell’esistenza di «oggetti nello spazio» in quanto «qualcosa di permanente» (KrV B 275). Vi è dunque una convergenza con quanto viene provato nella prima analogia, dove però la questione è presa da un altro punto di vista, e si prescinde dalla questione della determinazione dell’esistenza del soggetto pensante. Se però la permanenza si trovasse immediatamente nell’intuizione empirica dell’impenetrabilità, se cioè si trattasse di un predicato permanente che viene dato nell’intuizione degli oggetti spaziali, l’intera prova 223

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trascendentale della sostanza verrebbe di nuovo vanificata da un singolo atto percettivo. Un’osservazione banale ci permette di escluderlo: come abbiamo ricordato trattando del rapporto tra fenomeno e oggetto empirico, la sostanza corporea dovrà essere appresa attraverso una successione di percezioni. Se dunque, piuttosto che isolare la proprietà dell’impenetrabilità (che in sé non contiene la permanenza), la consideriamo congiuntamente alla temporalità della sintesi, troviamo la via per un’interpretazione più adeguata. Anche l’impenetrabilità del corpo, infatti, si esperisce in una successione percettiva, in fenomeni di interazione meccanica come pressione e urto. Ma la durata dell’esistenza della materia impenetrabile è proprio il fenomeno che sta alla base della determinazione della sostanza corporea nella Meccanica dei Principi metafisici, dove la quantità della materia viene definita mediante il suo movimento rispetto ai fenomeni di interazione meccanica (MA 537ss.). Il correlato intuitivo della categoria di sostanza sarà dunque il corpo in quanto dotato di proprietà meccaniche, le quali, a loro volta, presuppongono l’impenetrabilità. Cerchiamo di articolare meglio nei suoi diversi momenti la corrispondenza tra categoria e intuizione, che questo riferimento meccanico rischia di confondere. L’intuizione del qualcosa di permanente come oggetto impenetrabile (il corpo) raccoglie in sé tre proprietà: indistruttibilità delle parti (impossibilità di annullamento dell’impenetrabilità in quanto riempimento dello spazio), unità delle parti in un intero (estensione determinata, o figura) e movimento. Ora, solo la prima corrisponde nell’intuizione alla sostanza: il senso del passo in esame, dunque, è che l’impenetrabilità «nella materia» – dunque: astraendola dalla materia completamente determinata – corrisponde a ciò che propriamente permane negli oggetti empirici. Ogni impenetrabilità, poi, dovrà essere attribuita in concreto a una materia estesa (la coppia di questi concetti verrà trattata esaurientemente nella Dinamica)86. Non pare affatto immediata, invece, l’aggiunta della determinazione della figura, e 86 «Estensione e impenetrabilità» definiscono il concetto di materia in KrV A 618/B 646. Il tema della composizione essenziale del concetto di materia, che qui stiamo toccando, è trattato nel § 6.1.

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dunque l’identificazione tra sostanza materiale e corpo, anche se Kant pare comunque assumerla, tanto che spesso li dà per sinonimi87. Lasciando da parte per ora da questo passaggio, resta comunque comprensibile la non corrispondenza tra permanenza e figura, in quanto la figura determinata, benché attribuibile in concreto a ogni sostanza materiale, è soggetta a cambiamenti (la materia è infatti infinitamente divisibile, e il suo stato di aggregazione variabile): in questo senso è inseparabile dall’intuizione empirica della materia (che si dà sempre entro volumi determinabili), ma non vi costituisce la proprietà permanente. Per quanto riguarda il movimento, infine, esso non è immediatamente associato all’intuizione della materia (la negazione della quiete assoluta e la necessità di una stima meccanica della massa dovranno essere infatti dimostrate). Il movimento, però, costruisce il correlato intuitivo della seconda analogia, e dunque risulta necessario per la determinazione intuitiva del cambiamento. La cosa non stupisce a livello intuitivo, dato che successione e permanenza si definiscono reciprocamente e devono associarsi agli stessi oggetti. Ma una circostanza fondamentale si pone ancora a livello trascendentale, proprio riguardo alla determinazione cinetica del corpo. Infatti per attribuire, in base alla sintesi di una serie di percezioni, un movimento (o la quiete) a un corpo determinato, ovvero per distinguere una successione oggettiva da una mera successione di rappresentazioni, deve essere stabilita una legalità delle percezioni. A partire dall’esame dell’intuizione in concreto troviamo così il problema della seconda analogia. Seconda analogia dell’esperienza. La connessione dei fenomeni secondo la relazione di causa ed effetto è provata in base all’ipotesi che si deve poter distinguere la successione soggettiva dell’apprensione dalla successione oggettiva dei fenomeni, e in tal senso riguarda la stessa possibilità di riferirsi – mediante l’apprensione successiva – a oggetti dell’esperienza. Tutto l’argomen87 Si

veda per es., ancora nel 1797, Metaphysik der Sitten, KgS VI, 259.

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to riguarda di nuovo l’impossibilità di determinare intuitivamente le relazioni temporali in base alla semplice successione delle percezioni, nella quale non è possibile intuire i cambiamenti oggettivi, e che a sua volta non può essere intuita. Ne consegue la necessità di porre tra i fenomeni la connessione logica di uno stato oggettivamente successivo a uno stato oggettivamente precedente, il che deve avvenire secondo una legge della connesione tra causa ed effetto88. È bene sottolineare subito che, analogamente al caso della sostanza, la causa e l’effetto vengono introdotti mediante la sola relazione logica di implicazione ipotetica, e restano altrimenti indeterminati89. In particolare, resta incomprensibile lo stesso fatto che si dia un mutamento90. Viene stabilito invece che l’esperienza del mutamento è possibile solo a condizione che si ponga una connessione causale. In base alla nostra ipotesi che tra principi trascendentali e intuizione determinata non occorrano ulteriori mediazioni si può affermare: il cambiamento, in quanto effetto di un’azione continua di una causalità, viene rappresentato in concreto con il necessario contributo di intuizioni esterne. Esso è però inesperibile senza presupporre anche una prova della necessaria legalità delle percezioni, poiché la stessa esperienza di un evento presuppone la posizione di una regola causale (per es. KrV A 195/B 241). In 88 Nella successiva esposizione della fisica kantiana raggiungeremo la conclusione che tutti i nessi causali nel mondo fisico (non solo «il maggior numero» di essi: KrV A 202-3/B 248) sono simultanei, e che dunque la realtà del cambiamento, altrimenti incomprensibile, dipende – dal punto di vista fisico – da una distribuzione disomogenea della densità e dalla dimostrazione di un’interazione dinamica universale di forze dipendenti dalla densità. Anche per questo motivo lasciamo a margine la difficoltà cui lo stesso Kant dedica più spazio, quella della simultaneità di causa ed effetto, che viene affrontata mediante la difficile distinzione tra ordine del tempo e fluire del tempo. A giudicare dagli esempi, comunque, la distinzione pare fondarsi sulla posizione di ipotesi controfattuali, del tipo: ‘se non si fosse dato lo stato A, allora non si sarebbe dato lo stato B’, dove B e A sono comunque stati simultanei. In questo senso A precede B nell’ordine del tempo. La questione va considerata alla luce di una interessante nota a piè di pagina sui concetti modali logici ed empirici, inserita nella Nota generale al sistema dei principi (KrV B 289-290). 89 L’unica eccezione è la continuità dell’azione, che presuppone la stessa permanenza della causa (KrV A 208/B 254; cf. A 205-206/B 250-251). 90 Cf. per es. KrV A 207/B 252; B 291.

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conclusione, la prova della necessaria connessione dei fenomeni secondo il principio di causalità procede senza bisogno di trarre nessuna proprietà dall’intuizione esterna e anzi insegna a introdurre una successione oggettiva nelle intuizioni. Queste però dovranno essere esterne, e riferirsi all’intuizione empirica di qualcosa in movimento, che presenterebbe immediatamente il qualcosa di permanente cui si riferisce il concetto di cambiamento. Si trova qui il problema analogo al caso precedente: è possibile che una intuizione esterna corrisponda al concetto del cambiamento? Anche in questo caso l’esposizione kantiana nella Nota generale suggerisce in primo luogo che sia la semplice intuizione dello spazio a contenere l’essenziale per l’esibizione del concetto. Si legge infatti: «questa intuizione è quella del movimento di un punto nello spazio». Come nel caso precedente, tuttavia, si deve pensare che si tratti di un riferimento ellittico alla materia nello spazio. Se infatti si trattasse del semplice movimento geometrico come «descrizione di uno spazio», senza considerare l’intuizione dell’oggetto mobile, si affermerebbe di nuovo la sufficienza della sintesi del molteplice puro per la prova della possibilità delle cose, che è invece precisamente la questione qui aperta91. Troviamo invece una possibile soluzione anticipando alcuni cenni sul concetto empirico di movimento, che è trattato nella Foronomia dei Principi metafisici. Il movimento è un cambiamento di relazioni rispetto a uno spazio dato. Lo spazio dato, però, è uno spazio identificato mediante percezioni, e cioè (in quanto «spazio materiale» o «mobile») è un sistema di riferimento stabilito mediante l’intuizione di altre parti di materia92. Il movimento, come con91 In KrV B 155 si legge proprio che: «Il movimento di un o g g e t t o nello spazio non rientra in una scienza pura, e quindi neppure nella geometria, poiché il fatto che qualcosa si muova non lo si può conoscere a priori, ma soltanto per esperienza. Il movimento, invece, inteso come d e s c r i z i o n e di uno spazio, è un atto puro della sintesi successiva del molteplice nell’intuizione esterna e in generale, mediante la facoltà produttiva dell’immaginazione, e rientra non solo nella geometria, ma nella stessa filosofia trascendentale». Per non restare nell’ambito puramente geometrico, dunque, si deve considerare questo movimento come lo schema del movimento empirico. 92 MA 481; 555. Per un esame di questi concetti si veda il capitolo sulla Foronomia (cap. 7).

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cetto empirico della scienza della natura, richiede dunque l’intuizione di una molteplicità di parti di materia e la rappresentazione del cambiamento delle reciproche relazioni spaziali. Questa rappresentazione può basarsi sulla circostanza che le relazioni spaziali, una volta che se ne possa fare esperienza mediante percezioni reali, sono già determinate a priori. Alla luce di questi presupposti, ora, è possibile raccogliere insieme il contributo dell’intuizione esterna per l’esibizione della realtà oggettiva della permanenza e del cambiamento. Abbiamo visto, commentando il caso della sostanza, che quando si legge: «lo spazio è permanentemente determinato, mentre il tempo, e con esso tutto ciò che si trova nel senso interno, scorre costantemente» (B 291), ciò non può significare che lo spazio sia in sé qualcosa di permanente (il che significherebbe una ipostatizzazione dello spazio, di cui nella Critica non c’è né prova, né notizia). Poiché invece la sostanza nell’intuizione sarebbe il corpo, si può intendere che lo spazio è permanentemente determinato nel senso che contiene in sé dei rapporti che non sono soggetti allo scorrimento del tempo – cioè che lo spazio è un ordine possibile, come tale permanentemente determinato, benché non permanente e anzi in sé non temporale (si tratta cioè dell’invarianza geometrica dello spazio rispetto alla variazione dei rapporti fisici). Attraverso l’intuizione empirica del movimento i rapporti geometrici divengono a loro volta oggetti d’intuizione (lo spazio diviene «empirico») – ciò che si collega benissimo con la nozione di «acquisizione originaria» che Kant stesso richiama nella prova della seconda analogia. Riassumendo: intuiamo corpi che si muovono reciprocamente, e possiamo stabilire questo cambiamento di relazioni grazie al fatto che lo spazio presenta già la possibilità di queste relazioni nell’intuizione pura. Dobbiamo dunque intendere il «movimento di un punto» come proprio del punto materiale (di cui il movimento puro funge da schema), il quale a sua volta è una schematizzazione della materia estesa in quanto mobile nello spazio. Ritorna dunque evidente il comune riferimento all’intuizione del movimento di un corpo per l’esibizione della relazioni di permanenza e cambiamento: il movimento rende intuibile un cambiamento di rapporti, soddisfacendo quanto previsto dalla seconda analogia, ma ciò comporta nello stes228

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so tempo l’esibizione della permanenza, poiché il soggetto del movimento, la sostanza corporea impenetrabile, si mantiene identico nei cambiamenti, in quanto in linea di principio indistruttibile. Il contributo dell’intuizione esterna, allora, sarà da vedersi nella semplice circostanza che solo attraverso la rappresentazione del movimento è possibile in genere dare una figura intuitiva a tutti questi concetti, rendendo possibile collegarli secondo coordinate quantitative e così anche stabilire delle leggi causali. La rappresentazione del movimento, però, richiede l’intuizione (empirica) di una relazione spaziale tra due punti materiali, cioè l’intuizione di parti di materia separate nello spazio. Il riferimento all’intuizione del movimento ci porge così, di nuovo, l’occasione di individuare un presupposto latente, che abbiamo assunto nella discussione precedente, e che introduce al terzo problema dinamico: si tratta della simultaneità dei cambiamenti. Trattando del movimento di un punto, infatti, abbiamo detto che si intuisce la successione di stati diversi rispetto a un intero permanente, ma questo intero, in quanto spazio empirico, è un ordine di intuizioni empiriche simultanee. È dunque evidente che l’intuizione della sostanza fenomenica richiede che sia possibile in genere la rappresentazione di un intero fenomenico nello spazio, e dunque presuppone la tesi della terza analogia. Terza analogia dell’esperienza. Anche nel caso della terza analogia, la prova della simultaneità tra le sostanze non si può basare sull’intuizione temporale. La prova, come negli altri casi, si basa dunque sulla semplice considerazione del molteplice nell’apprensione, e pone la relazione dell’influsso quale condizione dell’esperienza di una simultaneità. Il caso, nella seconda edizione, è riferito esplicitamente alla simultaneità di sostanze nello spazio: l’assenza del caso di una simultaneità interiore deriva probabilmente dall’avvenuto abbandono della sostanza interna (si daranno semmai stati interiori reciprocamente simultanei, ma la loro simultaneità, in quanto determinazione temporale interna, andrà riferita alla reciproca simultaneità di sostanze esteriori collegate a questi stati, tra cui lo stesso corpo umano). La simultaneità è comunque una relazione intrinsecamente mediata, cui non corrisponde alcu229

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na intuizione possibile. Non viene preso in considerazione il caso della compercezione spaziale – che Kant nella terza Critica esamina sotto il titolo di una «comprehensio aestetica» (§ 26, KgS V, 251ss.) – poiché si tratta di un caso empiricamente limitato che sarebbe insufficiente a stabilire una verità universale: non a caso l’esempio kantiano della simultaneità tra la Terra e la Luna oltrepassa in genere i confini della comprensione estetica. Si pone dunque l’esigenza di una determinazione logica della simultaneità, che viene ricavata dalla forma del giudizio disgiuntivo, e la cui definizione metafisica è l’influsso. Ci si domanda ora, passando al momento dell’esibizione, quale sia l’intuizione corrispondente alla categoria. In proposito la Nota generale fornisce di nuovo una risposta non immediatamente perspicua. In primo luogo, come nei casi precedenti, pare che sia la semplice forma dell’intuizione esterna a rendere comprensibile la possibilità della comunanza: si legge infatti che lo spazio «contiene già a priori in sé le relazioni formali esterne come condizioni della possibilità di quelle reali (nell’azione e nella reazione, quindi nella comunanza)». La semplice intuizione pura dello spazio, in quanto rende possibile le relazioni reali tra le sostanze fenomeniche, svolge una funzione trascendentale unica, come si conferma non appena si ricordi l’incomprensibilità delle relazioni fondate su proprietà interne delle monadi: proprio su questo punto si basa, nell’Anfibolia, il primato della dottrina dell’influsso reale sull’armonia prestabilita tra le monadi, che viene richiamata anche nella Nota generale93. Ancora una volta, però, questa risposta non è adeguata. Se infatti lo spazio bastasse di per sé a questo compito di esibizione, che bisogno ci sarebbe stato di richiamare il principio della possibilità dell’esperienza? E non si è detto, poi, che lo spazio come tale non è un oggetto di intuizione possibile (se non, in astratto, come in93 KrV A 274-275/B 330-331. Va sottolineata la continuità di tutta la problematica con la cosmologia precritica. Il punto di contatto risiede proprio nella nozione di «coordinazione» delle parti in un intero, di cui abbiamo visto la centralità negli anni ’70, che costituisce il tratto comune tra forma logica della disgiunzione e la connessione tra le cose (v. in part. KrV B 112).

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tuizione pura)? D’altronde resta ancora da considerare quale sia il ruolo della materia nello spazio, e ciò permette ancora una volta di ricomporre una interpretazione più soddisfacente. In questo caso l’intuizione della materia arreca un duplice contributo. In primo luogo essa rende percepibili e oggettivamente determinabili le relazioni spaziali. Nel fare questo, però, viene introdotta una determinazione che fin qui non era comparsa, quella della molteplicità delle sostanze. Kant stesso scrive che la possibilità della comunanza viene indagata a partire dalla tesi che «esitano molte sostanze», e in sede di conclusione ripete che possiamo renderci comprensibile la comunanza delle sostanze «se ce le rappresentiamo nello spazio». La cosa è del resto ovvia, poiché altrimenti il problema della simultaneità non si porrebbe nei termini in cui lo formula Kant. Eppure è importante, per comprendere il senso del discorso kantiano, sottolineare il concorso di intuizione pura, intuizione empirica e logica trascendentale che dà luogo all’acquisizione (originaria: cf. A 196/B 241) del concetto di influsso: la possibilità di una comunanza è data dalla comunione locale, ma in essa non si dà simultaneità senza introdurre la determinazione logica della comunanza; infine, però, tale relazione deve essere applicata in concreto ai corpi discreti intuiti nello spazio. Se ora raccogliamo gli elementi empirici dell’esibizione cui si riferiscono nel complesso le analogie dell’esperienza troviamo un risultato banale: si tratta dell’intuizione di una molteplicità di corpi separati e reciprocamente mobili. Quel che importa però non è tanto il contenuto della rappresentazione empirica, che in quanto tale non poteva riservare sorprese, quanto la giustificazione della sua validità oggettiva. A questo proposito è appena il caso di sottolineare ancora un volta che essa non è stata dedotta a priori, ma nemmeno può essere tratta senz’altro dalla percezione. Piuttosto, solo l’applicazione delle categorie all’intuizione empirica spaziale ha permesso, in base ai fenomeni, di stabilire le relazioni di permanenza, cambiamento e influsso. La stessa rappresentazione dei corpi, infine, fornisce il presupposto del criterio dell’individuazione della sostanza, che come abbiamo visto è la forza. Infatti, come viene affermato nella sezione sul principio di comunanza, i corpi esercitano un’azione costante 231

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sugli organi del soggetto stesso. Posta dunque la localizzazione del soggetto nello spazio, presupposta fin dall’Estetica e implicata dalla Confutazione dell’idealismo, l’azione che individua la sostanza corporea corrisponderebbe in primo luogo con l’affezione dei sensi. Principi metafisici della scienza della natura. Poiché lo studio dell’applicazione trascendentale delle categorie ha anticipato in più punti i concetti della fisica pura, in cui del resto è maturata la tesi kantiana sull’esibizione spaziale, dobbiamo ora estendere la nostra interpretazione ai Principi metafisici. In particolare, ci domandiamo se la dicotomia tra principi trascendentali ed esibizione empirica non venga scossa dal fatto che si dia una metafisica della natura corporea. Questo rischio pare scongiurato non appena ci si addentri un poco nel contenuto dell’opera. Fin dall’inizio, infatti, Kant sottolinea che il concetto di materia è empirico, e che mobilità e impenetrabilità ne costituiscono proprio le prime due note. Posto il concetto empirico di materia, la fisica pura consisterà nel tentativo di dimostrare a priori ulteriori proprietà fondamentali della materia. Tra queste proprietà fondamentali vi sono le forze fondamentali attrattiva e repulsiva e proprietà meccaniche come l’inerzia e l’azione reciproca. L’intero svolgimento della fisica pura consiste dunque in una inferenza a priori da alcune proprietà intuitivamente date ad altri attributi e leggi della materia; ma il concetto determinato della sostanza corporea, che viene assunto in dinamica come soggetto delle forze e in meccanica costituisce la massa determinata, verrebbe nuovamente introdotto come proprietà empirica. Il passo fondamentale a sostegno di una lettura di tal genere si trova nel corso del confronto tra impenetrabilità e attrazione, in quanto l’una è immediatamente data, l’altra può essere solo inferita, e si riferisce esplicitamente al passaggio dalla percezione esterna in genere alla cosa determinata: È dunque chiaro che la prima applicazione dei nostri concetti di g r a n d e z z a alla materia, mediante la quale ci diviene prima di tutto possibile trasformare le nostre percezioni esterne nel concetto

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empirico di una materia in quanto oggetto in generale, è fondata soltanto sulla proprietà per cui questa materia riempie uno spazio; questa proprietà, mediante il senso del tatto, ci fornisce la grandezza e la forma di un oggetto esteso e con ciò il concetto di un determinato oggetto nello spazio, che viene posto a fondamento di tutto quanto si può dire d’altro di questo oggetto94.

La percezione tattile viene investita in questo passo di una funzione insostituibile per l’esibizione del concetto di oggetto. Una volta mostrato che l’impenetrabilità è essenziale al concetto di materia, addirittura, si potrà dire che il tatto svolge una funzione trascendentale (il che, per inciso, rende evidente da un nuovo punto di vista – insieme a quelli offerti dai concetti di affezione, simultaneità, esistenza del soggetto nel tempo – che la localizzazione corporea del soggetto è un elemento fondamentale della filosofia della natura). Per ora ci basta riconoscere che questa tesi è coerente con l’ipotesi che stiamo esaminando. Lo stesso si può dire riguardo della fisica pura nel suo complesso, che a partire da questa intuizione fondamentale deduce a priori nuove proprietà della materia. La tesi fondamentale della fisica pura kantiana, che costituisce il fulcro argomentativo dell’intera opera, è infatti il dinamismo, cioè la risoluzione della solidità della materia nell’azione di forze fondamentali. Leggiamo l’enunciato del «principio generale della dinamica della natura materiale», che afferma appunto la tesi dinamistica: «tutto il reale degli oggetti dei sensi esterni, che non sia semplicemente una determinazione dello spazio (luogo, estensione e figura), deve essere considerato come una forza motrice» (MA 523). Il programma kantiano di riduzione dinamica, in base a questo testo, esclude l’estensione e la figura, che vengono considerate come determinazioni percepibili empiricamente e non riducibili all’azione di forze. La fisica pura dell’86, in altre parole, assume come un fatto percettivo che si possano intuire corpi discreti e localizzarli nello spazio95. Il risultato al Teorema 5 della Dinamica, MA 510. Sul concetto fisico di corpo si veda MA 525. Considerando l’attività dinamica della materia, si ottiene poi il concetto meccanico di corpo, che è la massa di figura determinata (MA 537). È il caso di notare subito che sia la posizione nello spazio del 94 Nota 95

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del dinamismo, più modestamente, sarebbe che «il cosiddetto solido o l’assoluta impenetrabilità vengono esclusi dalla scienza della natura, in quanto concetti vuoti, e vengono sostituiti con una forza repulsiva». Secondo questa lettura si può anche rendere perspicuo il rapporto storico della nuova metafisica della natura corporea con il compito di un’esposizione dei concetti metafisici che i fisici presuppongono nelle loro indagini, senza indagarne le fonti. Il riferimento fondamentale, ovviamente, è la fisica newtoniana dei Principia matematica, che riceverebbe a detta di molti studiosi una «fondazione». L’itinerario tematico, in questa nuova dinamica metafisica, è grosso modo lo stesso seguito negli anni ’50. Partendo dall’impenetrabilità del corpo, nel corso della Dinamica, Kant cerca di ricavare la forza repulsiva originaria come proprietà essenziale della materia e in base a questa prima forza, in seguito, anche una forza attrattiva originaria. Ne risulta una prova a priori della gravità come proprietà essenziale della materia, che in Newton notoriamente mancava96. Inoltre, sempre in base all’attività dinamica della materia, nella meccanica metafisica Kant introduce il concetto di massa e dimostra leggi fondamentali come l’inerzia e l’uguaglianza di azione e reazione. Insomma molti dei concetti assunti da Newton nella formulazione delle definizioni e delle leggi del moto vengono ricondotti all’attività sintetica dell’intelletto, e sono anticipate a priori alcune delle tesi fondamentali della fisica gravitazionale. Da questa nuova dottrina metafisica, tuttavia, resterebbe ora fuori la sostanza corporea, la cui realtà oggettiva sarebbe affidata all’esibizione empirica. Se poi si vuole tracciare il confine tra il dominio della fisica pura e quello della fisica empirica esso, come segnalato nel passo sopra citato, corrisponderà al passaggio dal quantum di materia (il reale, di cui si dimostrano in soggetto conoscente, sia la localizzazione a distanza dei corpi verranno considerate nell’Opus postumum come subordinate a nuovi presupposti trascendentali. Dovremo vedere in che misura ciò potrà essere coerente con l’ipotesi che stiamo seguendo. 96 Si noti che, con lo stesso passaggio, Kant ottiene a priori un altro presupposto della meccanica di Newton: l’identità tra massa inerziale (che si fonda sull’impenetrabilità) e massa gravitazionale.

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filosofia l’estensione e la variabilità intensiva) alla quantitas determinata di materia in senso estensivo. È appunto il passaggio reso possibile dall’intuizione empirica del corpo discreto nello spazio, che nello stesso tempo «esibisce» la categoria metafisica di sostanza e rende possibile la stima effettiva della massa e con ciò la vera e propria ricerca fisico-matematica. Si può concludere dunque che i Principi metafisici non modificano in nulla le conclusioni della prima Critica sul problema trascendentale dell’esibizione. La metafisica della natura corporea fornisce esempi in concreto alla filosofia trascendentale nel senso che si occupa delle intuizioni esterne e le sottopone alle categorie, ricavandone una applicazione e, mediante questa, una estensione della conoscenza sintetica a priori. Ma tutto ciò non toglie la distinzione fondamentale tra la ricettività dell’intuizione empirica e la spontaneità di una determinazione pura della natura. Critica della facoltà di giudizio. Ci domandiamo ora se la riapertura del problema trascendentale della natura, nella Critica della facoltà di giudizio, modifichi la questione dell’esibizione. Ricordiamo brevemente la nuova questione trascendentale. L’Analitica trascendentale ha introdotto una legalità della natura in genere, lasciando la determinazione particolare della legalità alla fisica empirica. Se però non si possono escogitare a priori le leggi specifiche della natura, deve essere possibile stabilire la «conformità a leggi» (Gesetzmässigkeit) della natura, senza la quale la stessa ricerca empirica risulterebbe impraticabile, e si darebbe la possibilità di un disordine tale da rendere l’esperienza impossibile: ecco perché, in luogo del problema di una omogeneità della natura che nella prima Critica viene riservato alla funzione regolativa della ragione, si tratta ora di un nuovo problema trascendentale, che la dottrina del giudizio determinante non ha preso in considerazione. Il nuovo principio è infatti un principio per la facoltà di giudizio nel suo uso riflettente, che risale dal particolare all’universale. In base a questi primissimi cenni si capisce che l’intera questione non dovrebbe modificare la dottrina dell’esibizione empirica e si può addirittura ipotizzare che la nuova indagine trascendentale non sarebbe possibile senza assumere la cosa determinata (il particolare) 235

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come dato intuitivo. Cerchiamo di verificarlo in entrambi i casi in cui si articola la trattazione del giudizio riflettente, ovvero quello del giudizio estetico e quello del giudizio teleologico. Nel primo caso, il riferimento alla figura dell’oggetto naturale, in quanto dato della riflessione, è essenziale all’intera deduzione dei giudizi estetici puri, ma questi costituiscono l’occasione per cogliere nella sua purezza quell’accordo tra intelletto e immaginazione che si esprime nel principio della conformità a scopi della natura. La particolarità del giudizio estetico, in quanto fondato su un principio trascendentale, consiste nel fatto che è proprio l’apprensione di un «oggetto dato nell’esperienza» a rendere possibile la nuova deduzione, così che «possiamo riguardare la bellezza naturale come esibizione del concetto della conformità a scopi formale (come semplicemente soggettiva)» (KU § VIII, 192). Si legga ora la posizione del problema nella Deduzione dei giudizi estetici puri (KU § 30, 279). L’esigenza di una validità universale per ciascun soggetto di un giudizio estetico, in quanto giudizio che deve appoggiarsi a un qualche principio a priori, richiede una deduzione (cioè una legittimazione della sua pretesa), che deve essere ancora aggiunta alla sua esposizione, e precisamente quando esso riguarda un compiacimento o un dispiacimento per la forma dell’oggetto. Tali sono i giudizi sul bello della natura. Infatti la conformità a scopi ha in questo caso il suo fondamento nell’oggetto e nella sua configurazione [Gestalt], sebbene essa non indichi il riferimento dell’oggetto ad altri oggetti secondo concetti (in vista di un giudizio conoscitivo), ma riguardi esclusivamente l’apprensione di tale forma [Form], in quanto questa si mostra conforme, nell’animo, e alla f a c o l t à dei concetti e a quella della loro esibizione (che è tutt’uno con la facoltà dell’apprensione).

Come si coglie anche a livello terminologico, qui il ragionamento si riferisce indistintamente alla figura (Gestalt) e alla forma (Form) in quanto contenuto universalizzabile della percezione. Proprio in questo passaggio si trova a mio avviso un aspetto problematico nell’argomentazione kantiana a sostegno del nuovo principio trascendentale, che determina una certa estrinsecità tra questo ampliamento logico-trascendentale della filosofia della natura 236

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kantiana e i problemi delle opere specificamente dedicate alla fisica. Per questo motivo si potrà lasciare da parte senza danno la discussione gnoseologica della terza Critica97. Abbiamo infatti accertato quel che interessa ai fini della presente discussione: la Gestalt dell’oggetto è offerta immediatamente nell’intuizione empirica, e proprio in quanto è un dato permette di esibire una conformità a leggi, sia pure indeterminata, che il mero schematismo del giudizio determinante non poteva introdurre (ciò che Kant chiama «schematismo libero»). Dunque anche la dottrina dello schematismo libero non modifica le tesi generali sulla dottrina dell’esibizione, che infatti, come abbiamo visto in precedenza, vengono ribadite e riassunte proprio nella Critica del giudizio estetico. Se si passa al caso del giudizio teleologico la verifica risulta ancora più agevole. Il concetto cardine della teleologia, l’organismo, è definito proprio come un particolare oggetto che si incontra nell’esperienza, ma che non si riesce a spiegare secondo le leggi della natura. La sua determinazione negativa è che si tratta di un oggetto la cui forma non è possibile secondo semplici leggi di natura (§ 64). In positivo, si tratta di un «corpo», le cui parti «si producano vicendevolmente l’un l’altra, nel loro insieme, sia secondo la loro forma, sia secondo il loro legame, producendo così per propria causalità un tutto» (§ 65, KgS V, 373). Anche gli organismi vengono ipoteticamente ricondotti da Kant a una «forza formatrice», mediante la quale la materia sarebbe capace di autoorganizzarsi e riprodursi, e il cui modello esemplare è costituito dalla teoria dell’«impulso formativo» di Blumenbach98. Questo concetto, che serve all’intelletto per pensare gli organismi, non è però in grado di spiegare la loro formazione. Esso è piuttosto un concetto-limite, che serve a distinguere il principio regolativo dell’indagine empirica dalle presunte spiegazioni dell’organismo mediante fondamenti fisici o metafisici, che risultano tutte vuote. Di questo aspetto della trattazione kantiana della teleologia conviene sottolineare qui due aspetti, che ne rimarcano la coerenza 97 La

trattazione di questa importantissima questione si trova nel § 2 dell’Appendi-

98 §§

65, 80, 81.

ce.

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con i risultati della filosofia naturale precedente. In primo luogo Kant, di fronte al complesso dei diversi «sistemi di spiegazione della natura in termini di cause finali» (il materialismo, lo spinozismo, l’ilozoismo e il teismo), sottolinea che la sola natura in concreto di cui possa darsi scienza è la «natura materiale» fondata su «leggi meccaniche». Viene con ciò ribadito il risultato delle opere precedenti, ma esso assume ora una ulteriore valenza negativa. L’impossibilità di spiegare meccanicamente o metafisicamente la finalità costituisce un’ennesima prova della contingenza del conoscere in genere, stavolta data addirittura con un oggetto naturale, l’organismo (e non, come nell’Antinomia della ragion pura, mediante l’applicazione cosmologica del concetto di incondizionato). Nel corso di questo esame si trova però una singola ipotesi che minaccia di rovesciare l’intera tesi generale sulla natura. Esiste infatti una concezione, che è compatibile con il concetto di forza formativa prescritto all’indagine empirica, e che d’altra parte si pone in opposizione rispetto all’intera filosofia della natura materiale: si tratta dell’ilozoismo, il quale, piuttosto che riferire la finalità a un fondamento trascendente (secondo l’ipotesi di cui Kant tenta un’indagine genetica nel celebre § 77), attribuisce la vita alla materia in quanto tale. Esso viene rigettato semplicemente perché questa proprietà «confligge con la sua [della materia] essenza»: la possibilità di una materia vivente costituisce un concetto contraddittorio, «perché l’assenza di vita, inertia, costituisce il suo carattere essenziale»99. A ben vedere, il risultato generale (l’identificazione di natura e natura materiale fondata su leggi meccaniche) e quello particolare (l’inerzia della materia) fanno capo a un medesima premessa, che è stata conquistata nei Principi metafisici: quella, cioè, secondo cui l’attività della materia, fondata nelle forze fondamentali della Dinamica, non comporta la posizione della sua vita, e rende possibile piuttosto la meccanica come scienza della natura materiale fondata sul principio di inerzia. Dobbiamo dunque riconoscere che la fisica pura dell’86 ha svolto un passaggio necessario per il compimento della filosofia della natura nella terza Critica: in 99 KU

§ 65, KgS V, 374; § 73, KgS V, 394.

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questo modo è sottolineata, come volevamo, la concatenazione logica del sistema. Opus postumum. Alla luce di questa interpretazione, che sottolinea la consistenza sistematica delle opere kantiane, si può infine dar conto dell’ultima testimonianza maggiore della filosofia della natura kantiana, che restò affidata alle carte dell’Opus postumum. La terza Critica ha stabilito un principio della determinabilità di una legalità specifica della natura «secondo forze motrici», ma non ha insegnato come procedere all’effettiva determinazione fisica della natura materiale. È noto, d’altra parte, che per Kant questa determinazione non può avvenire per mera raccolta di osservazioni, e che al contrario il procedimento dei grandi scienziati, celebrato nella Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, è stato quello di procedere all’indagine della natura impugnando strumenti concettuali. Questi concetti, però, sono le forze motrici (in quanto determinazioni della materia), e, poiché la scienza si può dare solo se si dà una completezza logica nella classificazione dei suoi concetti, occorrerà una classificazione completa delle forze. Alla realizzazione di questo compito si sarebbe rivolto il «sistema elementare delle forze motrici», la cui composizione venne intrapresa da Kant intorno al 1796: esso contiene appunto il tentativo di una «classificazione» logica delle forze motrici e la prefigurazione di uno «schematismo della facoltà di giudizio», che consiste nella determinazione dello spazio secondo le suddette forze in vista dell’esperienza100. Lo «iato» nel sistema di cui Kant parlò nel 1798 risiederebbe allora nel passaggio dalle proprietà generali della materia alla sistemazione dell’intero edificio concettuale della fisica, come del resto si ricava facilmente dal titolo di lavoro (Passaggio dai Principi metafisici della scienza della natura alla fisica). Un tentativo 100 Sul nesso sistematico tra principi regolativi della prima Critica (Appendice alla Dialettica trascendentale) e principio della conformità a leggi della terza Critica torneremo nel § 1 dell’Appendice. Sul nesso tra problematica logico-trascendentale del giudizio riflettente e Sistema elementare delle forze motrici si veda FRIEDMAN, Kant and the Exact Sciences, pp. 242-264.

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in tal senso si trova già nella Nota generale alla Dinamica del 1786, dove però Kant presenta una classificazione generale (e piuttosto eterogenea) di concetti della fisica empirica che non si possono ricavare a priori. Si tratterebbe insomma di una questione particolare pertinente la fisica empirica, che Kant pensava di trattare in modo più disteso, ma che non avrebbe rilievo per la consistenza interna della filosofia pura. In questo senso, lo schematismo della facoltà di giudizio riflettente sarebbe una mera appendice gnoseologica, di per sé di grande interesse disciplinare, ma priva di alcun rilievo trascendentale. La filosofia della natura, in altre parole, sarebbe stata compiuta, e a margine di essa (in particolare nei fogli indicati con ‘A-Z’ e ‘Beylagen’, del 1799-1800) rimarrebbe il problema di una più specifica caratterizzazione metodica e concettuale della fisica empirica.

C) Sviluppo della seconda ipotesi: esibizione e dinamica La lettura fin qui tratteggiata sembra l’unica in grado di conservare la distinzione tra determinazione pura dei fenomeni e intuizione empirica degli oggetti. In essa l’intuizione della cosa fisica svolge come si è visto il compito dell’esibizione dei concetti mediante esempi in concreto. Cominciamo ora, tuttavia, a delineare una lettura alternativa, che senza togliere questa distinzione fa luce su un passaggio ulteriore e permette di comprendere meglio le vicende della filosofia della natura successive alla Critica, oltre che la continuità tra queste e i problemi della cosmologia precritica. Rispetto alla precedente interpretazione, essa si distingue per il fatto di assegnare un rilievo trascendentale alla determinazione dinamica delle cose101. Non però a una compiuta determinazione a priori, che 101 Possiamo dunque chiamarla una lettura dinamica, e contrapporla a una lettura fondata sull’esibizione come semplice intuizione. È noto che Husserl considerò la cosa materiale come «filo conduttore» della costituzione fenomenologica (E. HUSSERL, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie (1913), I, §§ 150-152, in Husserliana III/1, Den Haag 1976, pp. 348-355). È il caso si segnalare qui che una separazione come quella della nostra prima ipotesi è stata sviluppata, proprio in riferimento alla fenomenologia husserliana, da uno dei principali studiosi della filosofia della natura kantiana, G. Buchdahl: questi distingue appunto un livello

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concederebbe un uso puro delle categorie in una «dinamica trascendentale» e dunque violerebbe il principio della possibilità dell’esperienza, ma a una determinabilità dinamica, senza la quale verrebbe meno la possibilità stessa della natura materiale. Si tratta in altre parole della prova dell’ipotesi dinamica – che Kant oppone a quella meccanica – e che costituisce l’obiettivo principale dei Principi metafisici. Nella nostra ipotesi, dunque, l’esibizione dei concetti della metafisica generale non può essere raggiunta semplicemente con l’intuizione empirica, ma richiede che un’ipotesi – quella del dinamismo – venga provata a priori. L’intuizione empirica, però, non può recare in proposito alcun contributo decisivo, e risulta anzi ingannevole. Il problema, come afferma Kant nella Prefazione ai Principi metafisici, è invece affrontato dalla fisica pura. Il fatto, poi, che la sua soluzione risulti manchevole innescherà l’intero movimento di pensiero degli scritti successivi di argomento fisico, come è evidente però soltanto alla luce delle riflessioni rimaste inedite, in particolare considerando i manoscritti degli anni 1796-1799. Ripercorriamo ora il cammino precedente per argomentare nei dettagli questa ricostruzione. Analogie dell’esperienza. Trattando delle Analogie dell’esperienza abbiamo concluso che l’esibizione dei rispettivi principi verrebbe resa possibile dall’intuizione di una molteplicità di corpi in movimento reciproco. Ma la possibilità che questi corpi immediatamente intuiti siano identificabili senz’altro con sostanze corporee, già messa in dubbio dalla distinzione tra fenomeno (intuitivamente dato) e oggetto (quale correlato della sintesi), viene scossa considerando lo stesso contenuto dell’intuizione empirica. Il corpo è infatti intuito come soggetto del movimento. Ma tanto il movimento, quanto l’identità della sostanza corporea che si muove, pretrascendentale della filosofia della natura, indipendente da qualsivoglia nozione fisica, da quello fisiologico, dotato di una funzione solo «esplicativa» e non «probativa» rispetto ai concetti della filosofia trascendentale (cf. in part. Kant and the Dynamics of Reason, pp. 1-165). Su questa interpretazione vanno tenute presenti le obiezioni di K. WESTPHAL, Buchdahl’s ‘Phaenomenological’ View of Kant: A Critique, «Kant-Studien» 89 (1998), pp. 335-352. Torneremo sull’interpretazione di Buchdahl trattando dello statuto della fisica pura (§ 5.3).

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suppongono per Kant delle condizioni fisiche che né la filosofia trascendentale né l’intuizione dell’impenetrabilità e del movimento possono stabilire. In primo luogo l’estensione e l’impenetrabilità, per quanto siano proprietà essenziali della materia, sono a loro volta degli effetti: in caso contrario la materia, attestata dall’intuizione empirica, sarebbe un essere necessario102. Questa causa può essere intesa in due modi: quale fondamento necessario, con il solo pensiero (è il caso esaminato da Kant nell’esame della prova cosmologica), oppure, per restare al campo dei fenomeni, come il loro sostrato dotato di forze motrici. Dunque la sostanza fenomenica non è immediatamente percepita, ma è inferita collegando alcune proprietà intuitive con la loro causa dinamica. Possiamo anticipare che questa inferenza, che verrà attuata nei teoremi della dinamica pura, si baserà sull’intuizione pura, e perciò sarà sottoposta al principio di relatività delle proprietà oggettive: per cui la determinazione di una sostanza comporterà quella di un intero sistema di relazioni dinamiche. Per ora basta aver rilevato il presupposto dinamico dell’intuizione dell’impenetrabilità. Un analogo risultato emerge dall’esame dell’intuizione del movimento. Il movimento percepito nel fenomeno non basta come tale a stabilire l’esperienza di un cambiamento, come Kant precisa in una pagina della seconda analogia che è utile commentare in dettaglio (KrV A 206-7/B 252): Come in generale qualcosa possa essere modificato [verändert]; come sia possibile che ad uno stato in un punto del tempo possa seguire uno stato opposto in un altro punto, non ne abbiamo a priori il minimo concetto. A tale scopo si richiede la conoscenza di forze effettive, la quale può esser data soltanto empiricamente, per esem102 KrV A 618/B 646: «Di fatto estensione e impenetrabilità (che insieme costituiscono il concetto di materia) formano il supremo principium empirico dell’unità dei fenomeni [...]. Poiché ogni determinazione che costituisce il reale della materia, e quindi anche l’impenetrabilità, è un effetto (azione) che deve avere la sua causa, e pertanto è sempre derivata, questo vuol dire che la materia non si confà all’idea di un essere necessario, inteso come principio di ogni unità derivata». Il passo è rivolto contro la concezione dei «filosofi antichi» sulla necessità della materia.

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pio la conoscenza delle forze motrici, o, che è lo stesso, la conoscenza di certi fenomeni successivi (in quanto movimenti), che indichino tali forze.

Nella nota a cui rimanda questo passo Kant precisa che non si sta riferendo a un cambiamento che la semplice intuizione empirica sia capace di esibire, ma a un cambiamento di stato che presuppone la legge di inerzia. Si noti bene: io non parlo del mutamento di certe relazioni in generale, bensì di un mutamento di stato. Pertanto, quando un corpo si muove uniformemente non muta affatto il suo stato (di movimento), ma lo muta allorché il suo movimento aumenta o diminuisce.

Che cosa significa, qui, che un movimento aumenti o diminuisca? La questione è di pertinenza della fisica pura, e viene affrontata laddove si tratta di stabilire un criterio per attribuire un movimento a una sostanza corporea, e così facendo distinguere il fenomeno (nel senso dell’apprensione) dall’esperienza oggettivamente valida. La posizione più chiara di questo problema si trova nella Nota alla prima Definizione della Fenomenologia, dove si tratta appunto della materia che, come mobile, «deve poter essere un oggetto dell’esperienza» (MA 554-555): Il movimento, come tutto ciò che viene rappresentato con i sensi, è dato solo come fenomeno. Perché la sua rappresentazione divenga esperienza, è necessario inoltre che si pensi qualcosa con l’intelletto: al modo in cui la rappresentazione inerisce al s o g g e t t o, si deve aggiungere la determinazione di un o g g e t t o ottenuto per mezzo di questa rappresentazione. Il mobile, dunque, diviene come tale un oggetto dell’esperienza quando un particolare oggetto (in questo caso una cosa materiale) viene pensato come d e t e r m i n a t o rispetto al p r e d i c a t o del movimento. Ma il movimento è cambiamento di relazioni nello spazio. Qui si hanno pertanto sempre due termini correlativi: in primo luogo, nel fenomeno, si può attribuire il cambiamento tanto all’uno quanto all’altro, e si può tanto dire che si muove l’uno, quanto che si muove l’altro, essendo le due cose indifferenti; in secondo luogo, nell’esperienza, si deve pensare che se ne muova uno ad esclusione dell’altro; in terzo luogo, devono esse-

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re rappresentati dalla ragione come entrambi simultaneamente in moto. Il fenomeno, non contenendo nient’altro che la relazione nel movimento (secondo il suo cambiamento), non contiene nessuna di queste determinazioni; se però il mobile deve essere pensato determinato in quanto tale, secondo il suo movimento, cioè in vista di un’esperienza possibile, è necessario indicare a quali condizioni l’oggetto (la materia) può essere determinato nell’uno o nell’altro modo con il predicato del movimento. Non si tratta, qui, della trasformazione dell’apparenza [Schein] in verità, ma di quella del fenomeno in esperienza.

Come si vede dall’inizio del passo, la determinazione oggettiva del movimento comporta nello stesso tempo quella della sostanza come mobile: le due questioni, come stiamo cominciando a vedere, si ricompongono in un’unica teoria dell’individuazione della sostanza. Se infatti torniamo, alla luce di questi passi, al «criterio empirico» per l’identificazione della sostanza individuale, ovvero per l’attribuzione di una serie di percezioni a un sostrato permanente, e cioè la connessione dei fenomeni secondo il concetto di forza, troviamo che solo in base a leggi universali delle forze sarà possibile distinguere quando si dia azione e quando solo un movimento relativo. La forza, del resto, lungi dall’essere un concetto empirico, è un predicabile (causalità di una sostanza) che come tale richiede di essere collegato alla sintesi a priori103. Quindi è vero – come prosegue il passo della seconda analogia sopra citato – che, «quale che sia [...] lo stato che viene modificato», si può determinare discorsivamente e a priori la forma di una successione causale secondo la legge di causalità, come condizione dell’esperienza del mutamento, ma è anche vero che, senza una specificazione dinamica della legge causale risulterebbe impossibile assegnare in individuo un fenomeno a una sostanza materiale, come suo «stato». Ma questa specificazione dinamica è un obiettivo della fisica pura, che dunque risulterebbe essenziale a perfezionare il riferimento oggettivo alla sostanza nell’intuizione empirica, e insomma a esibirla104. 103 Sulla 104 Come

forza come predicabile si vedano i passi citati nel § 4.1. ho segnalato in precedenza, si darebbe a questo punto il rischio di un er-

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Torniamo dunque alla Critica e domandiamoci in che misura gli obiettivi principali dell’ontologia trascendentale presupporrebbero anche questo riferimento alle condizioni dinamiche. Per quanto riguarda l’anticipazione del principio di inerzia, si potrebbe cercare di giustificarla salvando l’ordine del sistema. Il concetto di cambiamento non è a priori comprensibile, e la sua attestazione empirica comporta la considerazione della materia e dunque le sue proprietà fisiologiche, ma sembra possibile dedurre l’inerzia in base ai soli presupposti trascendentali: dal principio della relatività di ogni proprietà intuitiva, infatti, si ricava già l’assenza di ogni proprietà interna nel fenomeno, e in ciò risiede il fondamento della passività, o assenza di vita, della materia, che è il concetto kantiano dell’inerzia105. Un simile espediente esegetico, tuttavia, fa leva su uno dei punti deboli della fisica kantiana e cioè quel concetto di inerzia la cui prova presuppone il concetto di un moto inerziale, senza provarlo, per definire appunto quando si dia un cambiamento reale nel fenomeno di un movimento106. Ma il nodo della questione è un altro: qualsiasi scappatoia che impedisca di riconoscere la necessità di una fisica pura per il passaggio dalla logica all’intuizione della sostanza fenomenica fa perdere di vista la rilevanza cosmologica della questione, che spicca invece modo flagrante se solo si tiene conto dell’itinerario precritico della filosofia naturale kantiana. Bisogna riconoscere infatti che l’introduzione empirica di proprietà come l’inerzia e (mediatamente) della forza motrice in base alla semplice intuizione dei corpi in movimento, e dunque in mancanza della prova di una essenziale attività dinamirore nella determinazione delle sostanze e dunque la loro esistenza diverrebbe oggetto di un tenere per vero sempre più fondato, mai di una certezza assoluta. Il problema si modificherà, peraltro, nell’Opus postumum, alla luce della prova dell’esistenza della sostanza cosmica o «Weltstoff», di cui i corpi sarebbero delimitazioni interne. Torneremo su questo punto nel prossimo paragrafo e poi, più diffusamente, nei capp. 13-14. 105 MA 544: «L’inerzia della materia non è né significa altro che la sua m a n c a n z a d i v i t a, come materia in se stessa. Si chiama v i t a la facoltà mediante la quale una s o s t a n z a si determina ad agire secondo un p r i n c i p i o i n t e r n o, una s o s t a n z a f i n i t a si determina al cambiamento e una s o s t a n z a m a t e r i a l e si determina al movimento o alla quiete, in quanto cambiamenti del suo stato». 106 Cf. infra § 9.3.B.

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ca della materia, non basterebbe a raggiungere uno degli scopi fondamentali dell’Analitica, e cioè la sostituzione dei sistemi di spiegazione trascendente dell’influsso. Abbiamo visto, infatti, che l’assunzione della contingenza della sostanza corporea era compatibile, nel sistema della Nova dilucidatio, con una metafisica monadologica e con una versione di armonia prestabilita. Proprio perché le sostanze sono contingenti e metafisicamente indipendenti, in quel sistema metafisico, occorre una causa dei loro cambiamenti esterna e eterogenea rispetto ad esse. La cosa non stupisce, se si considera come diverse correnti del pensiero del tempo convergessero verso questo risultato – per poi magari ritrarvisi e fermarsi a una scepsi. Nelle metafisiche cartesiane inerzia e passività della materia si coniugavano regolarmente con un principio di attività soprasensibile: la negazione dell’attività della materia era il cavallo di battaglia dell’occasionalismo, ma anche Leibniz, per rivendicare l’attività della sostanza individuale, muoveva dalla medesima tesi della inconcepibilità di un influsso puramente meccanico tra i corpi, e dal punto di vista metafisico ascriveva la vera attività alle sostanze spirituali. Le cose non andavano tanto diversamente sul versante anglosassone: tanto il pensiero lockeano quanto quello newtoniano avevano posto, sia pure in modi diversi, la problematica di un «potere attivo» della materia, tenendosi ben lontani dagli esiti materialistici di alcuni autori francesi; ed è significativo che Berkeley avesse approfittato dell’aporia dei liberi pensatori e dei fisici per ascrivere nuovamente, in base allo stesso principio di inerzia, ogni attività della natura allo spirito107. Se poi, come era avvenuto nella sintesi di Maupertuis, i sistemi dell’ilozoismo, dell’occasionalismo e dell’armonia erano parimenti soggetti a una sospensione del giudizio, il principio dei cambiamenti fenomenici, come abbiamo visto, restava comunque una teleologia universale che era incomprensibile senza assumere un presupposto trascendente. Anche all’interno del concetto kantiano di natura, come abbiamo ricordato, la possibilità logica di un fondamento extrafenomenico dell’azione è ammessa, e la prova pratica della 107 BERKELEY, De motu. Sive de motus principio & natura et de causa communicationis motus, London 1721 (The Works, vol. IV), §§ 30-33.

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realtà oggettiva di un tale fondamento non ha cessato di tormentare gli interpreti del Kant teoretico. Possiamo dunque concludere: al fine di stabilire un’autonoma filosofia trascendentale della natura serve non solo una prova dell’esteriorità della causa – che in base all’eterogeneità tra causa ed resta esposta alla possibilità di una spiegazione trascendente – ma anche della fenomenicità di questa causa. In altre parole, la filosofia della natura del criticismo ha bisogno di una prova dell’influsso reale nel mondo fenomenico, in quanto condizione di possibilità della natura materiale. Questa prova, però, non viene raggiunta in base alla nostra precedente ipotesi di lettura. Quando la seconda analogia fa dipendere la connessione successiva degli stati di una sostanza dalla legalità degli stati questa legalità, insieme gli stati connessi secondo il nesso causale, può essere in teoria attribuita a una medesima sostanza. Se non viene stabilita l’autonoma attività dinamica di questa sostanza – che risulterà concepibile solo nella totalità dinamica delle relazioni mondane – resta dunque almeno pensabile che il nesso dei fenomeni possa dipendere dall’identità metafisica della monade (è il pensiero che si esprime in psicologia nel concetto di carattere intelligibile). Le tesi della prima e della seconda analogia, dunque, isolate dal loro sviluppo dinamico, non bastano a impedire fino in fondo il riprodursi dell’eterna giostra delle spiegazioni metafisiche. Il caso della terza analogia, da questo punto di vista, è particolarmente importante, perché Kant si sente pronto a dichiarare scongiurata ogni forma di armonia prestabilita soltanto alla luce della prova di una necessaria azione e reazione tra le sostanze corporee (B 293). Ora, come abbiamo già ricordato, la stessa formulazione del principio di comunanza fa riferimento alla rappresentazione delle sostanze corporee. Il passaggio da una comunanza in genere − che in teoria potrebbe ancora essere concepita in termini metafisici − alla determinazione fenomenica dell’influsso sembrerebbe dunque consistere senz’altro nel passaggio dalla regola trascendentale all’intuizione in concreto. Tuttavia bisogna riconoscere che, dal punto di vista del criticismo, l’intuizione delle sostanze corporee non fornisce alcun progresso in proposito. Lo spazio infatti, ha scritto Kant, fornisce la sola possibilità di un’azione 247

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reciproca, ma non basta a stabilirne la realtà effettiva. In questo senso Kant ha distinto il «mondo» come intero matematico dalla «natura» come «tutto dinamico» fondato su una «comunanza dinamica». Ma l’azione reciproca non si può intuire, così come non si può intuire nessuna forza, bensì solo i cambiamenti fenomenici che permettono di inferirla. Quel che si può intuire, secondo l’ipotesi che abbiamo seguito in precedenza, è una molteplicità di sostanze corporee. Questa intuizione dunque, senza una compiuta determinazione fisica (a livello fenomenico) della comunanza provata a livello trascendentale, non pare capace di sradicare l’armonia prestabilita opponendole una concezione contrapposta e compiuta. Lo stesso Leibniz − per citare solo un caso − aveva ammesso la percezione delle sostanze corporee, come fenomeni, e aveva considerato lo stesso influsso cosmico, in base alla negazione del vuoto, alla maniera di quello tra le parti di un fluido; ma tutto questo non comportava di per sé che le sostanze fossero realmente connesse, e anzi la tesi dell’influsso fisico veniva ritenuta incomprensibile. Questa circostanza illustra una caratteristica (di matrice cartesiana) del rapporto tra metafisica e fisica che era diffusissima nella filosofia di cui Kant voleva far la critica. Perciò, senza una determinazione a priori dell’influsso a livello fenomenico, e date solo la prova dell’influsso e l’intuizione dei corpi, l’influsso reciproco tra le sostanze corporee potrebbe pur sempre essere concepito in termini noumenici – come avveniva nel pensiero kantiano precritico. Si tratta ovviamente di un esito paradossale, incompatibile con il criticismo, che si presenta però se solo si interrompe la filosofia naturale kantiana al livello della critica, e si separano gli esempi in concreto dalla loro determinazione scientifica: mancherebbe allora una compiuta esibizione dell’influsso tra i corpi, in quanto conflitto dinamico reale a livello fenomenico, che nessuna intuizione può fornire108. Si dà dunque la necessità di un supplemento dinamico all’anfibolia, che perfezioni l’esclusione della causalità trascendente dall’azione dei corpi e fornisca un’esibizione della comunanza dinamica tra le sostanze fenomeniche. Il passag108 Per i riferimento al «tutto dinamico» (dynamisches Ganze) e alla «comunanza dinamica» v. rispettivamente: KrV A 418-9/B 446-7; KrV A 213/B 260.

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gio chiave, con cui Kant distingue la sua concezione del nesso tra le sostanze, sarà come è noto l’ammissione dell’opposizione reale (in quanto opposta a quella solo logica), che subordina la molteplicità dei corpi al loro influsso reciproco. Ma l’esibizione del conflitto tra le realtà è precisamente il compito della Dinamica del 1786, che dalla semplice qualità della materia (l’impenetrabilità) ricava l’interazione delle forze fondamentali. Critica della facoltà di giudizio. Questa esigenza di una specificazione dinamica dell’influsso fisico è ancora più evidente nella terza Critica, nella trattazione dei sistemi metafisici della conformità a scopi. Infatti, assunta la legalità necessaria della natura fenomenica, la contingenza del fenomeno può bastare, dal un punto di vista kantiano, a escludere il sistema del materialismo, e l’assenza di determinazioni interne nel fenomeno a confutare l’ilozoismo. Ma i sistemi metafisici della teleologia (spinozismo e teismo) restano in teoria ancora inconcussi, se non viene provata l’autonomia “dinamica” della natura materiale. Solo in base a questo presupposto, in quest’opera, può essere dato per scontato il concetto di una «natura materiale» basata sul concetto di «forze» e su «leggi meccaniche», che viene contrapposto, rispetto al caso del corpo organico, alle ipotesi finalistiche e a quella di una forza formativa, in quanto queste non adducono leggi essenziali alla natura e dunque non sono esplicative. Chiaramente, dunque, Kant ha presupposto anche per la sua critica del finalismo una nozione di influsso reale fondata sulla posizione di forze motrici. Del resto, proprio al momento di trarre un bilancio dell’intera trattazione della teleologia, indagando la genesi dell’idea di fine in base al confronto tra il nostro intelletto e l’idea di un intelletto archetipo, Kant afferma (KU § 77, 407): «Secondo la costituzione del nostro intelletto [...] un tutto reale [reales Ganze] della natura può essere considerato soltanto come effetto del concorso tra le forze motrici delle parti [der concurrirenden bewegenden Kräfte der Theile]». Anche da questo punto di vista, dunque, si trova che la rappresentazione kantiana della «natura materiale» presuppone dei principi dinamici della fisica, come il conflitto dinamico essenziale tra le sostanze corporee e il principio d’inerzia. Come è possibile, 249

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però, attribuire un’attività essenziale ai corpi senza con ciò negare l’inerzia, e dunque senza ricorrere ad alcun postulato trascendente? In assenza di una trattazione specifica, e in base al semplice riferimento all’intuizione esterna, l’obiettivo generale di una fondazione della possibilità della natura materiale, che era fin dall’inizio un punto fermo della filosofia della natura, non si può considerare concluso. Esso dipenderebbe dunque dalla realizzazione della fisica pura. Dobbiamo ora cercare una verifica di questa congettura, che si basa per ora su una lacuna delle opere trascendentali, in base a un riesame dei Principi metafisici. Principi metafisici della scienza della natura109. La prova dell’influsso (e opposizione) reale tra i corpi si trova nella Dinamica del 1786, dove viene ricavata a priori quale condizione della stessa realtà fisica dei corpi discreti. Qui Kant tenta di provare una legge dell’influsso fisico in base a un’indagine sulla possibilità della stessa intuizione empirica del corpo. Inoltre – ciò che conferma i dubbi avanzati fin qui – egli sostiene addirittura che questa ricerca si pone in contraddizione con il presupposto secondo cui il corpo o sostanza corporea sarebbe semplicemente un dato dell’intuizione. Infatti Kant conosceva bene un metodo fisico per rappresentare intuitivamente i corpi discreti e così facendo passare dalle leggi generali della natura alla loro applicazione fisica: si tratta del metodo di spiegazione meccanica (proprio dell’«atomismo» o della «filosofia corpuscolare») secondo cui si compone il mondo con corpi indistruttibili e (eventualmente) il vuoto110. Egli valuta questo me109 In questa sezione e nella successiva, per tratteggiare l’ipotesi di lettura generale, vengono anticipate le ricostruzioni dei Principi metafisici e dell’Opus postumum che verrano svolte nelle parti II e III. Nei casi dei passaggi più controversi i riferimenti ai rispettivi luoghi della trattazione successiva vengono dati in nota. 110 MA 533. Il fatto che Kant consideri insieme la filosofia cartesiana e l’atomismo era diffuso. Per esempio Formey, nell’articolo «Corpusculaire, philosophie» dell’Encyclopédie, considera Leucippo e Democrito come «precursori antichi» delle idee di Descartes (vol. IV, p. 269). In ogni caso per Kant il vuoto è spesso considerato come un vuoto relativo, e non assoluto, cioè tale da non produrre effetti apprezzabili (per esempio, per il moto dei pianeti). Per questo motivo, forse, il caso di Descartes sarebbe riconducibile «con lievi modifiche» a quello di Democrito.

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todo negativamente, dal punto di vista fisico, poiché lascia all’immaginazione l’arbitrio di fingere vuoti all’interno dei corpi per spiegare le diverse densità delle materie. Ad esso vengono assimilate le posizioni di coloro che, come Locke e Lambert, introducevano in filosofia il concetto del «solido» attraverso la semplice esperienza sensibile (tattile), considerando l’impenetrabilità – fatta questa posizione empirica – come una proprietà «assoluta», i cui effetti fossero logicamente necessari111. A tutte queste tesi di una solidità assoluta viene contrapposto il «metodo di spiegazione dinamico», che cerca di ricondurre la diversità specifica delle materie a una diversità di grado di forze motrici (MA 532-3). Il metodo di spiegazione dinamico, dunque, deve essere preferito perché esso è «molto più adatto alla filosofia sperimentale e ne favorisce i progressi, in quanto porta direttamente a scoprire le forze motrici proprie delle materie e le loro leggi, mentre pone un limite alla libertà di ammettere intervalli vuoti e corpuscoli fondamentali di forma determinata, nessuno dei quali si può trovare e determinare sperimentalmente» (MA 533). Ma la questione della densità ne nasconde una più generale, di rilievo metafisico, che riguarda la filosofia della natura nel suo complesso. Infatti, come suggerisce il riferimento a Descartes, il meccanicismo è anche il metodo in cui l’evidenza geometrica viene pagata al prezzo di una estrinsecità e dunque di una possibile trascendenza delle leggi di natura rispetto alla natura corporea. Così, il vantaggio scientifico del dinamismo, i cui concetti conducono intrinsecamente a leggi, viene valutato positivamente proprio dal punto di vita metafisico: «Così l’indagine metafisica, oltre che a mostrare il fondamento del concetto empirico di materia, serve al solo scopo di condurre la filosofia naturale, fin dove è possibile, alla ricerca di fondamenti dinamici di spiegazione, perché solo da questi si può sperare di ottenere leggi determinate e dunque un’au111 Cf. LAMBERT, Neues Organon, Alethiologie, §§ 19, 93-95 e la critica in MA 497498, rivolta a «Lambert e altri». Tutta la concezione meccanicistica discussa nell’opera kantiana si adatta perfettamente alle posizioni di Lambert, che ne era forse il referente più prossimo, considerato anche che i primi abbozzi dell’opera risalgono all’epoca del carteggio tra i due. Ma cf. § 8.2.A.

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tentica concatenazione razionale di spiegazioni» (MA 534). La ragione dell’adesione kantiana a un programma dinamistico risiede dunque in un duplice vantaggio, e nell’ordine logico l’indagine sul fondamento della materia in base al concetto di legge precede la questione fisica della densità, che è piuttosto il luogo teorico fisico su cui si gioca la contrapposizione dei metodi. La precedenza e separazione logica della questione metafisica generale rispetto a quella fisica risulta anche dal contenuto strettamente fisico del dinamismo kantiano. Da questo punto di vista, in effetti, la somiglianza tra dinamismo kantiano e dinamismo newtoniano, finanche con quello “essenzialistico” e speculativo che più ricorda il progetto di Kant, è solo di superficie, e peraltro basata piuttosto su uno sviluppo parallelo che su una diretta conoscenza112. Di esso Kant condivide soprattutto l’opposizione ai corpuscoli del tutto incomprimibili (mentre per es. un rifiuto del vuoto non ne era una caratteristica essenziale). Soprattutto, però, la filosofia dinamica kantiana del criticismo non permette di raggiungere una dimostrazione a priori della legge di gravitazione. Infatti, per quanto sostenga l’ipotesi dinamica di un grado originariamente diverso della densità, contrapponendola alla spiegazione secondo atomi e vuoto, Kant precisa ora (MA 534): Al di fuori di questa ipotesi nessuna legge della forza attrattiva o repulsiva può essere azzardata mediante congetture a priori, mentre tutto il resto, finanche l’attrazione universale, in quanto causa della gravità, deve essere ricavato insieme alle sue leggi a partire da dati dell’esperienza.

Se però la fisica gravitazionale non può essere ricavata a priori, è vero anche che la metafisica della natura (anche nel criticismo) non 112 A parte Cotes e Keill, che non produssero compiute teorie fisico-dinamiche, Kant non discute e sembra non aver conosciuto i più sistematici tentativi del dinamismo newtoniano settescentesco, per es. di John Freind, Gowin Knight, Edmund Law, Joseph Priestley, e soprattutto quello di Rudjer Boscovich, destinato a godere di qualche fortuna anche nel secolo successivo, che sviluppava una monadologia fisica molto affine alla sua. Confronterò le teorie dinamiche di Kant e Boscovich nei §§ 8.2. BC.

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può appoggiarsi sulla validità della fisica newtoniana. La tesi fondamentale di una necessaria precedenza del concetto di forza su quello di impenetrabilità, che determina l’opposizione a ogni concezione che riduca il «solido» a un primum gnoseologico, è dunque identica per contenuto a quelle di altri oppositori dell’atomismo, ma in quanto viene investita di un rilievo metafisico, e addirittura trascendentale, essa non può essere acquisita sul piano fisico empirico: la fisica pura deve insomma affermare la necessità di una fisica dinamistica, pur non potendo raggiungere una compiuta deduzione della legge delle forze, e deve lasciare alla fisica empirica il compito di stabilirla compiutamente. Questo compito a priori consiste nella tesi secondo cui la sostanza materiale può essere risolta fisicamente in un sistema di forze essenziali alla materia. Diversamente dalla monadologia fisica degli anni ’50, la filosofia della natura del criticismo deve giungere a questo risultato tenendo insieme la divisibilità infinita della materia e la negazione del vuoto con l’assenza di centri di forze. Il compito di ripensare la leibniziana «diffusione dell’antitipia» è così reso ancora più arduo, perché si tratta di stabilire la diffusione senza presupporne un centro d’origine. A dispetto delle difficoltà, è proprio questa la direzione presa dal dinamismo kantiano almeno a partire dalla fine degli anni ’60, quando la monadologia è stata già abbandonata e si pone dunque il problema di costruire i corpi dal continuo della materia. Lo attesta, più chiaramente delle ampie e articolate esposizioni degli anni ’80 e ’90, una riflessione risalente al periodo della Dissertazione: Si può ammettere che il movimento di un corpo sia solo una presenza successiva di una grande [Erdmann: gewisse; certa] attività dell’impenetrabilità nello spazio, in cui non è la sostanza a cambiare luogo, ma questo effetto dell’impenetrabilità si propaga successivamente [succediert] in diversi luoghi, come le onde d’aria nel caso del suono. Si può anche ammettere che nello spazio non vi siano sostanze, ma una maggiore o minore attività di una singola causa suprema nei diversi luoghi dello spazio. Da ciò risulterebbe che la materia sia infinitamente divisibile113. 113 Refl. 3986 (1769), KgS XVII, 376-377. Di una fase di dinamismo integrale parlava già Adickes, in riferimento alle Reflexionen databili intorno a questo periodo. Co-

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Come si può ricavare anche da questo passo, la caratteristica fondamentale del nuovo dinamismo sarà di considerare l’attività come una proprietà distribuita in modo omogeneo (ma in gradi diversi) in ogni parte dello spazio, senza localizzarla più originariamente nel singolo corpo o sostanza corporea. Da questa circostanza dipende la soluzione del paradosso precedentemente accennato, secondo cui nella dinamica fenomenistica si dovrebbe dare un influsso fisico e nello stesso tempo una materia passiva. L’attività della materia, come risulta dal principio di relatività delle proprietà, si definisce infatti soltanto dalla sua considerazione collettiva e congiunta. Per questa ragione la sostanza materiale possiede delle «forze fondamentali», definite in base al conflitto reale che ne deve determinare i confini, ma Kant, a differenza di trent’anni prima, non le chiama più «forze attive», riservando questo termine alle monadi leibniziane114: l’attività della materia, se pure la si vuole ancora chiamare così, è dunque ben distinta da una «spontaneità» metafisica. In questo modo Kant si sottrae a suo modo agli argomenti scettici sulla realtà della materia che erano stati ripresentati con vigore nei decenni precedenti in base alla critica del meccanicismo115. me vedremo, in seguito Kant, di fronte alle enormi difficoltà di realizzare tale compiuto dinamismo, tornerà a una concezione mista che fa uso del concetto di etere. 114 La «forza attiva» delle monadi «non consiste in altro che in rappresentazioni, mediante le quali esse sono propriamente attive solo in se stesse» (KrV A 274/B 330). La «forza fondamentale», invece, può essere soltanto inferita dalla relazione tra le sostanze corporee nello spazio, e si chiama così perché non è ulteriormente comprensibile. La stessa attività spontanea dell’intelletto e della volontà viene inferita dai rispettivi atti, che sono sempre astratti dal contesto dell’esperienza sensibile. 115 Il problema, infatti non era solo di Kant. Una volta negato l’atomismo, la fisica moderna era di fronte all’esigenza di una deduzione del corpo. Una notevole sintesi della questione si trova già in Bayle. Questi aveva rimarcato la necessità di attribuire lo statuto mentale delle qualità secondarie anche all’estensione (BAYLE, Dictionnaire historique et critique, «Pyrron», nota B, ed. cit. vol. XII, p. 102, dove si riferisce in proposito a un’obiezione di Foucher a Malebranche); nell’articolo «Zenon», d’altra parte, aveva ricordato le difficoltà delle tesi secondo cui l’estensione sarebbe composta di punti matematici, fisici, o parti divisibili all’infinito (nota G, ed. cit. vol. XV, pp. 4147. La questione è esaminata perché dall’inesistenza dell’estensione Zenone avrebbe ricavato la negazione del movimento). Si poneva dunque la possibilità di trovare nella più recente filosofia naturale nuove prove dell’irrealtà della materia. La cosa non

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La buona riuscita della dinamica pura risulterà dunque in una giustificazione dell’influsso reale e comporterà con ciò un’essenziale integrazione dei principi trascendentali riguardo alla determinazione oggettiva della sostanza e del movimento. In base all’inferenza di queste forze motrici originarie in senso newtoniano sarà possibile nella Fenomenologia la distinzione tra movimenti relativi e movimenti reali. Ma è qui, non nella Meccanica con la sua trattazione del concetto di inerzia come passività, che si trova il criterio di distinzione tra movimento rettilineo inerziale, privo di determinazioni dinamiche, e movimento accelerato, fondato sull’azione di una forza esteriore; distinzione che, a sua volta, rende possibile separare ciò che è cambiamento di stato da ciò che è puro fenomeno privo di valore oggettivo, e infine, dunque, il corpo vero e proprio da un sfuggì a Berkeley, sempre attentissimo a indicare le lacune metafisiche della fisica, che nella impossibilità di ricavare dalle idee la realtà dei corpi trova un’argomento a posteriori a favore della sua critica a priori della «sostanza corporea» o «materiale», nozione assurda e «vera radice dello scetticismo» (BERKELEY, Treatise, I, §§ 11, 17, 86; in The Works, vol. II, rispettiv. pp. 46, 47-48, 78). Si accorse bene del problema anche Formey, il quale, forse pensando anche a Berkeley, traeva nel suo articolo Philosophie corpusculaire (comparso nel 1754) un bilancio molto interessante dal punto di vista del problema kantiano che stiamo seguendo (Encyclopédie, vol. IV, p. 270): uno dei vantaggi della filosofia corpuscolare, scrive Formey, sarebbe «che essa prepara lo spirito a trovare più facilmente la prova dell’esistenza delle sostanze corporee, in quanto stabilisce una nozione distinta del corpo. Bisogna che colui che voglia provare che ci sia qualche cosa nel mondo oltre ai corpi, determini esattamente le proprietà dei corpi, altrimenti egli proverà soltanto che c’è qualche cosa oltre a un certo non so che, che egli non conosce e che chiama corpo. Coloro che rifiutano la filosofia corpuscolare compongono il mondo di due sostanze, di cui l’una è la materia privata di ogni forma, e di conseguenza incorporea; l’altra è la forma che essendo senza materia è anche immateriale. Così si confondono le idee di ciò che è materiale e immateriale a tal punto che non si può provare nulla riguardo alla loro natura». Il caso della infinita divisibilità della materia costituisce un altro momento specificamente antimeccanicistico della polemica di Berkeley (Treatise, §§ 123ss.), che stavolta non colpiva però tutti i newtoniani. In effetti le concezioni del dinamismo newtoniano procedevano verso la definizione della stessa estensione fisica come prodotto di un principio infinitesimale e lo stesso Kant ammetteva il «momento» come differenziale della causalità. Sulla deduzione dell’estensione fisica da un principio infinitestimale tornò H. COHEN, Das Prinzip der Infinitesimal-Methode und seine Geschichte, Berlin 1883, §§ 92-100 (19142 rist. in Werke, vol. 5). Oltre a Kant, i modelli storici richiamati da Cohen erano Boscovich e Fechner.

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semplice mutamento qualitativo nel fenomeno. Soltanto riferendosi alla fisica pura si comprende in che senso, trattando della regola necessaria dell’apprensione che rende possibile «la stessa esperienza di qualcosa che accade», Kant scrivesse che l’«oggetto è ciò che nel fenomeno contiene la condizione di questa regola necessaria dell’apprensione»116. Al di là di quanto possa stabilire l’anticipazione logico-trascendentale in termini puramente formali e discorsivi, la sostanza è infatti caratterizzata e individuata dalla propria attività dinamica, e dalle rispettive leggi fisiche; ma essa, ora, non «contiene» le condizioni della propria legalità in proprietà interne, bensì in quanto appartiene a un sistema di influssi. In conclusione: è vero – come scriveva Kant nella Nota generale al sistema di principi – che il mutamento è «l’intuizione corrispondente al concetto di causalità»; ma è anche vero che questa intuizione presuppone anche dei concetti dinamici fondamentali: in primo luogo le forze motrici, quali condizioni della realtà della materia come soggetto del movimento che riempie uno spazio; in secondo luogo l’inerzia del moto, che permette di distinguere l’intuizione della sostanza mobile dalla parvenza di una successione. Se però torniamo al metodo dinamico dei Principi metafisici, alla luce del significato che gli stiamo attribuendo, è facile vedere una prima difficoltà interpretativa: sembra esserci una contraddizione tra la tesi di una costruzione dinamica del concetto di corpo e quella di una origine empirica della rappresentazione del corpo. Per un verso, il concetto di «confine» tra i corpi viene derivato da quello di «conflitto dinamico», e dunque risolto nell’interazione delle forze117; per l’altro verso, come abbiamo visto, Kant sottoli116 KrV A 191/B 236 citato sopra. Il passo precedente è in KrV A 195/B 240. La questione del movimento è capace di includere anche i casi dei cambiamenti non locali o «interni» alla cosa, come la combustione (KrV A 185/B 228), la fermentazione (MA 482), la «soluzione chimica» (MA 530-532). In questi casi si tratta infatti – dal punto di vista kantiano – della modificazione della coesione delle sostanze e, in particolare nell’ultimo, di una «compenetrazione» di sostanze eterogenee: la questione della determinazione della sostanza vi è comunque presupposta. 117 MA 511, Dinamica, Definizione 6: «Il contatto in senso fisico consiste nell’immediata azione e reazione dell’i m p e n e t r a b i l i t à». Ma – dato che l’impenetrabilità è effetto delle forze repulsive – il contatto fisico è «azione reciproca delle forze repulsive sul confine comune di due materie » (Nota, MA 512).

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nea l’origine empirica (tattile) della nozione di corpo. Anche senza esaurire la questione della rappresentazione del corpo, che subirà diverse evoluzioni dopo l’86, si può affermare che nei Principi metafisici non si pone in proposito una contraddizione tra dinamica pura e esperienza. I nuovi principi metafisici infatti non forniscono una costruzione a priori della sostanza materiale, ma provano la possibilità della sua costruzione, che dovrà avvenire con l’ausilio di matematica ed esperienza: verrà cioè provata la necessità del conflitto dinamico tra due forze, e rimarrà alla fisica matematica il compito di trovare la legge di queste forze mediante la matematica e gli esperimenti. In altre parole il risultato della dinamica pura è la «possibilità della costruzione», cioè la costruibilità dinamica della sostanza, la sua riconducibilità a leggi delle forze motrici: in tal modo non viene tolta la distinzione tra costruzione matematica e intuizione empirica, tra schematismo puro e schematismo empirico, ma viene solo specificato il «criterio empirico» (dinamico) per la determinazione empirica della sostanza, che dovrà avvenire in fisica. Dunque è vero che il corpo (o sostanza corporea) deve essere considerato un elemento empirico, e comparire a margine della fisica pura come posizione assoluta intuitiva, ma ciò solo provvisoriamente. La fisica pura, infatti, ha il compito di provare che esso non può essere introdotto isolatamente mediante l’intuizione, anche se la sua determinazione relativa (secondo un sistema di forze motrici e leggi) dovrà avvenire nella fisica empirica. In termini tecnici ciò significa che l’esperienza della sostanza corporea non corrisponde alla sua percezione, che pure ne costituisce un presupposto essenziale, ma deve seguire la sua costruzione. Quest’ultima, però, non deve essere la costruzione puramente matematica, il che costituirebbe l’ingiustificata ipostatizzazione di una sintesi dell’immaginazione pura, bensì la costruzione matematicodinamica secondo leggi delle forze. Possiamo dunque assumere le seguenti conclusioni: la sostanza non si può costruire a priori, coincide con un dato dei sensi, ma non può consistere in un tale dato e deve essere costruita in fisica empirica. Pur mancando di questa costruzione, tuttavia, la fisica pura ha provato l’influsso fisico tra le sostanze, di cui la terza analogia ha posto l’esigenza imprescindibile e che nessuna intuizione 257

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poteva immediatamente esibire. Si capisce allora come mai Kant, nella Prefazione ai Principi metafisici, potesse ascrivere alla metafisica della natura corporea – dunque: non semplicemente all’intuizione spaziale, ma alla scienza pura che se ne può ricavare! – il «servizio» metafisico di chiarire le controversie sull’applicazione dei concetti puri, illustrata tutt’altro che a caso con l’esempio del «conflitto delle realtà» (MA 478): che è precisamente il punto, di rilevanza trascendentale, che decide della contesa tra criticismo e monadologia. Il rimando alla fisica empirica, peraltro, produce immediatamente l’esigenza di un nuovo schematismo dell’oggetto fisico, fondato sulla precedenza dell’«intero dinamico» sulla parte materiale, che solo negli anni ’90 verrà esplicitamente tematizzato come nuovo elemento gnoseologico, collegando le sorti della fisica pura a quelle del “passaggio” alla fisica. Queste anticipazioni sul contenuto della fisica pura mostrano già quanto complesso fosse il rapporto tra le ricerche kantiane di fisica pura e la fisica newtoniana. In base alla nostra precedente ipotesi il corpo viene posto come intuizione empirica, inserita nelle forme a priori spaziale temporale, e da esso vengono ricavate delle forze fondamentali della materia e l’inerzia. Così l’intuizione della molteplicità di sostanze corporee, che emerge più volte dagli esempi delle Analogie, precede la specificazione dinamica della fisica. Questo modo di leggere i testi si accordava bene con il riferimento della fisica pura alla fisica matematica di Newton, che Kant avrebbe inteso fondare riguardo ai suoi concetti metafisici. In base a una simile concezione, che in ogni caso comporta una drastica semplificazione di quella che poteva dirsi allora la fisica di Newton, è stata sostenuta la tesi secondo cui la fisica pura avrebbe costituito una «fondazione» della fisica newtoniana, tesi che, a sua volta, ha costituito la premessa di una liquidazione di quest’opera in base al superamento storico del suo referente scientifico. Al contrario, come si comincia a vedere già in base ai tratti generali dell’opera kantiana sui principi metafisici, l’originalità – e i massimi problemi – della filosofia naturale del criticismo derivano da una presa di distanza rispetto alla fisica dell’epoca, anche newtoniana, che era prevalentemente fondata su rappresentazioni atomistiche e meccanicistiche del corpo. La dinamica pura, per esem258

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pio, conclude la necessità di associare a ogni punto del continuo materiale un grado di densità e di abbandonare il centro di forza discreto tipico della monadologia e dell’atomismo: tesi che però Kant non trova esemplificata in nessuna teoria fisica contemporanea118. Da questa mancanza dipende certamente anche la costante attenzione kantiana per gli sviluppi e i concetti ancora più indistinti della Naturlehre, come per esempio mostrano i casi della scienza del calore, dell’elettricità, della chimica in genere: attenzione attestata dalle riflessioni e dagli scritti minori, che troverà una rilevanza filosofica nell’Opus postumum. Ma con quest’ultima considerazione siamo già entrati nel vivo della filosofia naturale kantiana successiva al 1786. Dopo il 1786. A questo punto si apre una vicenda di cui si ha qualche evidenza negli scritti editi, ma che resta in gran parte sommersa nel mare degli inediti. In tutti gli scritti di filosofia naturale successivi al 1786 resta infatti implicita la questione se il dinamismo dei Principi metafisici sia conseguente, e dunque necessiti solo di ulteriori ampliamenti, o se invece vada in qualche punto riformato. Troviamo dunque un problema esegetico analogo a quello posto riguardo all’analitica trascendentale: non ci sono esplicite autocritiche kantiane, ma si trovano testimonianze di una inequivocabile integrazione e revisione delle tesi precedenti. Ciò riguarda in particolare la stessa giustificazione a priori del dinamismo e la conseguente ipotesi della costruzione dinamica del corpo. Inoltre, dato che questo problema aveva già nell’86 un risvolto trascendentale con la questione dell’esibizione, non sorprende la curvatura trascendentale presa dalle stesse ricerche dedicate ancora al 118 Escludo qui il caso della fisica cartesiana, che presentebbe molti aspetti in comune con quella kantiana, a cominciare dal plenismo. In primo luogo perché essa non ammette «gravità specifiche» e momenti dinamici, e come abbiamo visto viene rigettata perciò dallo stesso Kant nel 1786; in secondo luogo perché l’ipotesi dei vortici era stata, se non proprio confutata, almeno gravemente pregiudicata da Newton nei Principia e dunque non può annoverarsi tra le ipotesi contemporanee che Kant prendeva in considerazione. In base alle accennate analogie si è parlato invece di un ritorno di Kant alla fisica cartesiana: M. MAMIANI, Kant e la scienza newtoniana, in F. ALESSIO-E. GARRONI et alii., Kant. Lezioni di aggiornamento, Bologna 1991, pp. 1-10.

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problema di stabilire le condizioni di possibilità di un mondo fisico come totalità dinamica. In questo itinerario distinguo due vie alternative, che Kant seguì dopo il 1786: la prima è circoscritta all’argomento fisico, e indirizzata a una riforma dell’argomento in base a cui l’influsso dinamico si potrebbe ricavare a priori a partire dall’intuizione empirica del corpo; la seconda invece apre un’alternativa indagine trascendentale sulla percezione esterna, che permetta una prova a priori dell’unità del mondo fisico senza collegarla strettamente con il compito fisico di una costruzione dinamica del corpo. Una prima distinzione tra queste due vie si ricava a partire da una questione che era rimasta in sospeso, quella della quantificazione delle sostanze. Nella prima via di ricerca, infatti, le sostanze saranno molte, come veniva presupposto nel testo della terza analogia, e verrà perseguito l’obiettivo di dedurne l’estensione dal conflitto tra forze motrici associate ai corpi. Nella seconda via di ricerca, la sostanza vera e propria sarà una, un «Weltstoff» entro cui i corpi discreti vengono assunti come concetti scientifici elementari, mentre la questione della derivazione dei corpi dall’influsso viene rimandata alla fisica empirica. In entrambi i casi il passaggio alla fisica empirica comporta il concorso di concetti e ipotesi non strettamente dinamistici. Questa circostanza, che si fonda sulla situazione scientifica del tempo, determina a mio avviso lo spostamento progressivo, nell’Opus postumum, dalla linea di ricerca basata sulla prova dell’influsso (che risulta fisicamente inconsistente) a quella fondata sull’indagine dei presupposti trascendentali della fisica empirica, in cui l’unità del mondo fisico è raggiunta senza prova dell’influsso. Concludo questa esposizione complessiva con un accenno a queste due linee di ricerca, che verrano approfondite nella terza parte. α) L’influsso fisico dimostrato in base all’intuizione pura

La prova della concezione dinamistica, nei Metaphysische Anfangsgründe, dipendeva dalla schematizzazione dell’impenetrabilità nell’intuizione pura e dunque da una dimostrazione puramente cinematica delle forze motrici. Diverse constatazioni, tuttavia, mo260

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strano che una tale concezione era problematica già nel testo dell’86119. In primo luogo, si può osservare che essa riproponeva in larga misura il contenuto argomentativo della Monadologia physica. In quest’ultima, però, Kant aveva avanzato una legge delle forze che doveva essere capace di determinare a priori l’estensione della particella. Questo compito era stato abbandonato nell’86, anche se la legge delle forze ricompariva come un «primo esempio» di un suo svolgimento. Ora se si ipotizza di ricavare la legge matematica delle forze dalla geometria dello spazio, dato che lo spazio è un’intuizione pura, questa legge o si può stabilire una volta per tutte, o mai. Nella Nota generale alla Dinamica, invece, Kant scrive che a priori è possibile «pensare» dei rapporti tra le forze fondamentali, mai però «ammetterne uno come effettivo», e che dunque una costruzione a priori della materia sarebbe impossibile (MA 524). Nella Nota 1 al Teorema 8 (dedicato alla propagazione infinita dell’attrazione) viene ripresentata la legge delle forze del ’56, declassata però al rango di ipotesi, il che fa pensare addirittura a un frettoloso compromesso tra due posizioni inconciliabili, inserito nel corso della rapida stesura dell’opera (MA 518-521). In ogni caso, restando aperta la questione della costruzione della materia, lo stesso dinamismo rischiava di tornare ipotetico. In effetti – seconda constatazione – Kant stesso, in mancanza della determinazione a priori della legge delle forze, si pronunciava ambiguamente sulla necessità o semplice possibilità del dinamismo120. Infine le incertezze kantiane sono confermate dal fatto che egli avanza anche un’ipotesi alternativa a quella di un dinamismo puro, consistente nell’introdurre un conflitto fondato sulla pressione meccanica dell’etere, e la menziona in tre casi all’interno dell’opera, in almeno due di questi proprio a illustrazione del conflitto 119 Per

un esame degli argomenti kantiani cf. infra § 8.2. nel capitolo sulle Anticipazioni della percezione (KrV A 173/B 215ss.), dove la questione viene per la prima volta introdotta, sia nella Nota generale alla Dinamica. Un esame dei luoghi in cui viene attestata questa incertezza si trova infra § 8.3.C. 120 Sia

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meccanico. È chiaro però che nella dinamica come parte della fisica pura non può esserci spazio per una tale ipotesi mista, fondata oltretutto sull’esistenza di un materiale ipotetico come l’etere, sulle cui proprietà fisici e chimici erano ampiamente discordi121. La determinazione del conflitto dinamico era dunque fin dal principio controversa. Non sorprende allora se una prima incrinatura delle certezze kantiane si manifestasse subito dopo la pubblicazione dei Principi metafisici, di fronte al diffuso rifiuto, presso i fisici, della sua deduzione della forza repulsiva originaria. A partire dallo stesso anno ’85, infatti, e poi ininterrottamente fino agli anni ’90, Kant è impegnato in una ricerca sul concetto fisico di etere, o calorico, di cui cerca di distinguere le diverse accezioni e di valutare le potenzialità esplicative, anche per quanto riguarda l’esibizione dell’influsso fisico122. 121 MA 518: qui si tratta proprio del conflitto originario che produce la densità, ma il riferimento è genericamente a «tutta la materia del mondo»; MA 534: qui si tratta della possibilità dell’etere come materia di densità quasi nulla, che si può ammettere per negare il vuoto; MA 563-564: qui la pressione dell’etere è addotta come causa della coesione. L’intreccio tra spiegazione della densità e spiegazione della coesione costituisce uno dei problemi più caratteristici della filosofia naturale kantiana. 122 Una critica alla tesi dell’esistenza di una forza repulsiva quale fondamento dell’impenetrabilità comparve dapprima in una recensione anonima dei Principi metafisici sulle «Göttingische Anzeigen von gelehrten Sachen», 191 (1786), di cui Kant annotò il contenuto (KgS XXI, 415). Secondo il recensore, dal semplice concetto di un movimento che viene annullato non si potrebbe ricavare una forza repulsiva essenziale alla materia. La stessa critica venne avanzata alcuni anni dopo, con i medesimi argomenti, dal fisico e matematico Johann Tobias Mayer (che potrebbe essere stato anche l’autore della recensione), nell’articolo Ob es nöthig sey, eine Zurückstoßende Kraft in der Natur anzunehmen, «Journal der Physik», VII, 2 (1792), pp. 208-226. Questo scritto viene citato e approvato in proposito nell’articolo «Zurückstoßen» di J.S.T. GEHLER, Physikalisches Wörterbuch oder Versuch einer Erklärung der vornehmsten Begriffe und Kunstwörter der Naturlehre mit kurzen Nachrichten von der Geschichte der Erfindungen und Beschreibungen der Werkzeuge begleitet in alphabetischer Ordnung, Leipzig 1787-1796 (rist. Stuttgart/Bad Cannstatt 1995), vol. IV, pp. 892ss., vol. V, 1033ss. Kant annoterà un passo anche dell’articolo di Gehler (KgS XIV, 499-501). TUSCHLING, Metaphysische und transzendentale Dynamik in Kants opus postumum, pp. 39-56, presenta e discute queste prime critiche, sostenendo che esse costituissero l’evento scatenante della revisione kantiana. Non solo esse toccavano dei punti di effettiva debolezza delle sue dimostrazioni, ma per lo più provenivano dall’ambiente di Göttingen, dove si trovava anche un personaggio stimato come Lichtenberg, dal quale Kant atte-

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L’inizio del lavoro a una nuova opera, il Passaggio dai Principi metafisici della scienza della natura alla fisica, segna l’inizio di un tentativo di rielaborazione metodologica della questione. Viene introdotta l’idea di un «sistema elementare delle forze motrici», articolato mediante una suddivisione che deve essere possibile a priori secondo il filo conduttore delle categorie. A questo sistema (o tavola) delle forze motrici viene collegato un nuovo schematismo, in cui la totalità delle relazioni dinamiche nello spazio precede la determinazione delle parti di materia. In questa nuova cornice teorica l’intuizione sensibile del corpo non gioca più un ruolo gnoseologico fondamentale per il passaggio alla fisica, in quanto il corpo comincia a comparire non come risultato del conflitto tra le forze fondamentali ma come semplice momento quantitativo nella determinazione schematica dell’oggetto fisico (v. cap. 12). Di fronte a questa linea di pensieri, è difficile stabilire in che misura Kant continui a ritenere possibile una costruzione dinamica del corpo in base all’influsso fisico. Quel che è certo, comunque, è che da un certo momento in poi (circa tra il 1798 e il 1799) un altro genere di argomenti compare e si sostituisce a quello avviato dalla questione del corpo, conducendo a un’esplicita svolta trascendentale della ricerca. β) L’influsso fisico come presupposto trascendentale

dell’intuizione empirica La possibilità di una determinazione a priori della materia, alternativa a quella fondata sull’intuizione pura, si pone a partire da un concetto dell’Estetica trascendentale che abbiamo lasciato in sospeso all’inizio del capitolo, quello di affezione. La sensibilità è stata definita all’inizio dell’Estetica come la «capacità di ricevere (recettività) rappresentazioni mediante il modo in cui siamo affetse invano una recensione positiva del suo libro. Le riflessioni sull’etere sorgevano comunque da molteplici questioni scientifiche, come attestano i diversi riferimenti nei testi del periodo critico: in particolare lo scritto Über die Volkane im Monde del 1785, il § 58 della Kritik der Urteilskraft (1790), lo scritto Über den Einfluß des Mondes auf die Witterung del 1794. I documenti della revisione della teoria del conflitto sono invece tutti manoscritti: vengono esaminati nel cap. 12.

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ti dagli oggetti» e di questo concetto di affezione, dato che esso viene definito mediante quello di oggetto, ci siamo riservati di cercare una giustificazione alla luce dell’Analitica. Il concetto di affezione, in quanto correlato di quello di funzione, è associato al problema della modalità contingente delle facoltà umane, sensitive e intellettive, e sembra come tale doversi includere tra i concetti elementari della filosofia, di cui il criticismo nega una possibile comprensione. Se però se ne vuole tentare una determinazione, dato che Kant insiste su una «impressione» dei sensi, e dunque sembra far uso di uno schema causale, si pongono due ipotesi generali: l’una è che la causa dell’affezione sia un oggetto inconoscibile, e dunque a rigore non un oggetto, ma un generico fondamento soprasensibile, di cui si potrebbe inferire l’azione senza ricondurla a una legge di natura (in analogia al caso della libertà come spontaneità pratica); l’altra è che si tratti invece di un oggetto fenomenico omogeneo agli organi dei sensi, il quale eserciti su questi ultimi un’azione causale vera e propria. La questione dell’origine della rappresentazione ci presenta un criterio adeguato per confrontare queste due ipotesi. All’interno del criticismo un nesso causale trascendente si può pensare, ma è escluso dalla riflessione trascendentale sulla materia (nell’Anfibolia): se si impiega il concetto di una causalità noumenica per spiegare l’affezione, allora l’origine della «materia» della sensazione – e dunque dell’intero contenuto della rappresentazione – viene posta in una materia puramente intelligibile. Ciò significa però trascurare il modo in cui il concetto di materia acquista un significato empirico. Ne risulta che, dal punto di vista trascendentale, la causa della rappresentazione come «modificazione dell’animo» non può essere posta né all’interno, né all’esterno dell’animo stesso. Kant stesso sembra alludere a una messa tra parentesi della questione all’inizio della Deduzione trascendentale (KrV A 98-99). Le nostre rappresentazioni, qualunque origine abbiano – siano esse prodotte dall’influsso di cose esterne oppure da cause interne −, che siano sorte a priori o empiricamente come fenomeni appartengono comunque, come modificazioni dell’animo, al senso interno.

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Se però la sospensione del giudizio su tale questione fosse l’ultima parola della filosofia ne conseguirebbe l’equivalenza delle tesi del realismo empirico e dell’idealismo, e dunque una conclusione evidentemente incompatibile con il criticismo nel suo complesso. Ma la filosofia kantiana non si ferma qui. La sospensione del giudizio, in realtà, viene affermata solo in riferimento al molteplice dell’apprensione, che è un momento astratto dell’atto conoscitivo. Se invece si considera la questione alla luce dell’intera Analitica ne risulta l’esigenza che la «ricettività delle impressioni» sia collegata a un processo di interazione fisica. La messa tra parentesi della questione non corrisponde dunque a una incertezza teorica, ma al fatto che Kant non potrebbe far uso in sede trascendentale di una definizione fisiologica dell’affezione. Fatta questa precisazione rileviamo almeno due luoghi, nell’Analitica, che implicano già a livello trascendentale una concezione dell’affezione come processo immanente al mondo sensibile, comportando l’esistenza della materia come condizione a priori dell’esperienza: si tratta del principio di comunanza e della confutazione dell’idealismo. Nel primo caso il riferimento a un’interazione delle sostanze con il corpo («l’occhio») del soggetto rientra tra le condizioni per stabilire la simultaneità tra le sostanze stesse (KrV A 213/B 260). Nel secondo caso la stessa determinazione temporale dell’esistenza del soggetto presuppone a priori l’esistenza della materia nello spazio. Nel complesso, ai fini della determinazione temporale oggettiva dei fenomeni, sia le rappresentazioni interne sia quelle esterne vengono collegate all’esistenza della materia nello spazio. Sembra dunque che «il reale (la materia) della sensazione», che all’inizio dell’Estetica viene posto tra gli elementi della rappresentazione per poi venire lasciato a margine con un atto di astrazione, corrisponda a una materia esistente nello spazio123. 123 Questa conclusione è in fondo una conseguenza dell’asimmetria tra le forme dell’intuizione. Nella Nota all’Anfibolia si legge (KrV A 278/B 334): «L’osservazione e l’analisi dei fenomeni penetrano nell’interno della natura e nessuno può stabilire fin dove si spingerà tale penetrazione col tempo. Ma ciò nonostante non saremo mai in grado di dare una risposta alle domande trascendentali che oltrepassano la natura, neppure se questa ci fosse del tutto svelata, perché non ci è dato neppure di osservare il nostro proprio animo con una intuizione diversa da quella del nostro senso interno».

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La prova dell’esistenza della materia nella logica trascendentale, tuttavia, resta lacunosa. Infatti, per un verso, essa non risolve la questione dell’origine della sensazione (che rimarrà insolubile), ma si limita a porre l’esistenza di una materia come condizione dell’esperienza. Per l’altro verso, più rilevante ai nostri fini, la materia così provata a livello trascendentale resta ancora indeterminata sul piano fisico, così come il modo in cui essa si connette con il corpo del soggetto. È evidente tuttavia che l’intera questione si poteva facilmente collegare con le ricerche di fisica pura condotte nello stesso periodo, attraverso la questione dell’esibizione. Diverse testimonianze manoscritte, in effetti, mostrano che Kant cominciò a riflettere, negli anni successivi all’87, sul collegamento teorico della confutazione dell’idealismo con l’esibizione delle categorie124. Questo collegamento, sia per la rapidità con cui Kant dovette lavorare alla seconda edizione della Critica125, sia perché si Nella seconda edizione Kant modifica l’ultima proposizione, che nella prima edizione comincia: «e non ci è dato..». La ragione della inconoscibilità del fondamento dell’affezione risiede dunque nella impossibilità di una conoscenza noumenica di sé: l’intuizione del senso interno contiene solo relazioni, e inoltre, come viene sottolineato a più riprese nella seconda edizione della Critica, una relazione reale può essere rappresentata sempre soltanto mediante la forma del senso esterno. Ma è solo in quest’ultima che si trova la materia come substantia phaenomenon (A 277/B 333ss.). 124 Indico alcuni tra i testi più interessanti: Refl. 5653-54, KgS XVIII, 305-313, successiva al 13 ottobre 1788; Refl. 5709, KgS XVIII, 332, fine anni ’80; Refl. 631117, KgS XVIII, 606-629, autunno 1790; n. 6323, KgS XVIII, 641-644, aprile-agosto 1793. Il collegamento di cui si parla è particolarmente evidente nella Refl. 6312, KgS XVIII, 612 e nella lettera a A.W. Rehberg del settembre 1790, KgS XI, 207-210. Per un’analisi approfondita di queste riflessioni rimando a P. GUYER, Kant and the Claims of Knowledge, Cambridge 1987, pp. 287-295, 297-329, che vi coglie gli sforzi di sostenere un realismo metafisico verso cui Kant inclinerebbe, ma che egli non sarebbe riuscito in precedenza a sostenere in modo convincente a causa dell’impegno nell’elaborazione del concetto di sintesi a priori. Cf. C. FABBRIZI, Mente e corpo in Kant, Roma 2008, pp. 153-162. La questione del senso attribuito da Kant all’esistenza degli oggetti nello spazio, al centro dell’attenzione di Guyer, è la stessa approfondita nel lavoro di WESTPHAL, Kant’s Transcendental Proof of Realism. Di “realismo”, in un senso prossimo a quello di questi interpreti, Kant parla nella Refl. 6315, KgS XVIII, 620. 125 Sui tempi stretti del lavoro kantiano insiste, a questo proposito, lo stesso GUYER, Kant and the Claims of Knowledge, p. 288. Si consideri la vastità e varietà tematica delle pubblicazioni kantiane degli anni 1786-1788: Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft e Mutmaßlicher Anfang der Menschengeschichte (1786); Kritik der

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trattava comunque di intervenire su un testo già concluso e su problemi svolti in sezioni distinte, resta quantomeno implicito nei testi pubblicati. In primo luogo Kant ritorna sulla confutazione dell’idealismo per precisare che la determinazione della propria esistenza richiede una «relazione esterna» con qualcosa che «deve essere rappresentato in modo differente da me stesso» (Refl. 5653, KgS XVIII, 309). Pone dunque la questione di specificare il contenuto rappresentativo della materia cui l’argomento rimanda. Non si tratta fin qui di aggiungere qualcosa di essenzialmente nuovo, ma semmai di riformulare qualcosa che Kant teme forse di non aver chiarito adeguatamente. Le riflessioni del 1790 contengono infatti ripetute riformulazioni della tesi, sostenuta nella prima edizione della Critica, secondo cui «l’espressione f u o r i d i n o i comporta un’ambiguità inevitabile, significando a volte qualcosa che esiste c o m e c o s a i n s e s t e s s a, distinta da noi, a volte ciò che rientra semplicemente nel f e n o m e n o esterno» (KrV A 373)126. La confutazione dell’idealismo, dunque, deve comportare che la spazialità della materia non sia già la pura forma rappresentativa di un oggetto inconoscibile, e magari dotato di esistenza indipendente come una sostanza cartesiana – il che porrebbe il rischio di scambiare la ricettività dei sensi con la passività ontologica rispetto a una sostanza inconoscibile – ma che sia piuttosto la forma dell’intuizione di un oggetto, la cui esperienza, per il suo aspetto materiale (la sensazione), presuppone che lo stesso soggetto sia fin dall’inizio inserito nella spazialità del mondo fisico127. In altre parole, la tesi di praktischen Vernunft, pubblicata all’inizio del 1788 ma conclusa già negli ultimi mesi del 1787. 126 Si tratta proprio di un passo contenuto nella trattazione dell’idealismo della Critica del quarto paralogismo della psicologia trascendentale, che Kant sostituisce nella seconda edizione con la Confutazione dell’idealismo. A proposito dei due sensi di esterno qui in discussione, Guyer parla di «esteriorità ontologica» e «fenomenologica» (op. cit., p. 281). 127 Refl. 5654, KgS XVIII, 313: «Poiché il tempo non può essere esteriormente percepito nelle cose, non essendo altro che una determinazione del senso interno, noi possiamo determinare noi stessi nel tempo soltanto in quanto stiamo in relazione a cose esterne e consideriamo noi stessi all’interno di questa relazione». Cf. Refl. 6314,

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una immanenza di tutte le rappresentazioni alla coscienza, che (alla maniera di Berkeley) lascerebbe campo libero a una metafisica delle cose in se stesse, viene corretta dall’affermazione che ogni coscienza empirica – anche quella di sé – presuppone la localizzazione del soggetto nello spazio fisico, e che dunque il soggetto puramente rappresentativo dell’«idealismo materiale» non è che un’astrazione. Il senso del termine «esterno», potenziale fonte di ambiguità, riceve dunque una specificazione, che corrisponde al passaggio dalla pura riflessione sul molteplice delle rappresentazioni al riconoscimento che questa riflessione presuppone un riferimento all’esistenza della materia – e dunque un’anticipazione trascendentale della realtà del mondo fisico128. Dapprima viene stabilita la dipendenza del soggetto da un oggetto esterno nel senso di ‘separato’: fin qui, è ancora possibile confondere il discorso con quello precritico sulla dipendenza delle sostanze. Considerando l’ipotesi di un interno rappresentativo metafisicamente indipendente, la questione della determinazione temporale dell’esistenza del soggetto è la chiave per affermare l’originaria dipendenza della rappresentazione da un oggetto «esterno» indipendente129. XVIII, 619: «Noi siamo per noi stessi prima di tutto oggetti del senso esterno, perché altrimenti non potremmo percepire il nostro luogo nel mondo e dunque percepire noi stessi in relazione con altre cose». 128 Si noti che proprio la questione del correlato oggettivo della rappresentazione era uno dei punti sottoposti alle obiezioni scettiche di Enesidemo-Schulze nel suo libro del 1792. In una lettera del 17 giugno 1794 J.S. Beck sottoponeva a Kant il progetto di un’opera che, esaminando l’operazione fondamentale della sintesi, avrebbe condotto il lettore a meglio capire la Critica e la vanità delle obiezioni di «Enesidemo». Kant, rispondendo il 1 luglio 1794, sottolineava che una rappresentazione senza riferimento a qualcosa d’altro è un sentimento, come tale non comunicabile (KgS XI, 508-511; XI, 514-515). Concludeva facendo tanti auguri a Beck per la nuova opera e dichiarando che il compito di occuparsi di questi «fili sottili delle nostre facoltà conoscitive» non faceva più per lui. In realtà – complici anche le nuove polemiche sul criticismo – le questioni della composizione e dell’esibizione sarebbero rimaste al centro dei suoi interessi fino all’Opus postumum, quando egli decise di intervenire con una nuova opera in cui tali questioni erano centrali (v. § 13.1). 129 Refl. 6312, KgS XVIII, 612: «La possibilità della determinazione temporale di quel che esiste presuppone la relazione delle rappresentazioni con qualcosa che si trova fuori di noi, e, in effetti, con qualcosa che non è a sua volta di nuovo rappresentazione interna, cioè forma del fenomeno, ma che è qualcosa in sé [Sache an sich]». Cf.

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Successivamente questa dipendenza viene qualificata in senso propriamente spaziale. Per determinare la nostra esistenza nel tempo dobbiamo avere «una percezione della relazione del nostro soggetto con altre cose e considerare lo spazio come una semplice forma di questa intuizione»; infatti, «l’intuizione di una cosa fuori di me presuppone la coscienza di una determinabilità del mio soggetto, nella quale io stesso non sono determinato, e che dunque non appartiene alla [mia] spontaneità, dato che l’oggetto determinante non si trova in me. E in effetti io non posso pensare che lo spazio sia in me. Perciò la possibilità di rappresentare cose spaziali nell’intuizione si fonda sulla coscienza di una determinazione mediante altre cose» [i corsivi sono miei]130. Insomma, come si legge in un altro foglio dello stesso periodo, «non avremmo alcun senso interno e non potremmo determinare la nostra esistenza nel tempo se non avessimo alcun senso esterno (reale) e se non ci rappresentassimo oggetti nello spazio come distinti da noi». Kant parla in proposito di «appercezione cosmologica»131. Fin qui il chiarimento sul significato della confutazione. Un problema aperto di queste riflessioni, che ne costituisce anche il nesso con il problema dell’esibizione, consiste nella proprietà, assegnata alla materia nello spazio, di fornire la rappresentazione di qualcosa che dura. Infatti questa proprietà, se deve essere stabilita a livello trascendentale, non può ricavarsi dalla trattazione della sostanza corporea in fisiologia pura. Per stabilire la permanenza nella rappresentazione spaziale Kant riparte dalle analisi della Critica. Ribadisce che «solo nello spazio poniamo ciò che dura; nel Refl. 6323, KgS XVIII, 643. Kant, dunque, riafferma con decisione la distinzione tra rappresentazione e oggetto indipendente ed esterno al soggetto (per es. Refl. 5654, KgS XVIII, 312 – oggetto indipendente – e Refl. 6314, KgS XVIII 620 – «oggetto esterno delle rappresentazioni»). La ragione apparente per cui tutto questo non ripropone il problema originario dell’accordo tra rappresentazioni e oggetti consiste nel fatto che la distinzione è fondata indirettamente sull’insufficienza della coscienza di sé e dunque non su un nesso causale, e si riferisce all’aspetto materiale degli oggetti e non alla loro forma. 130 Refl. 5653, KgS XVIII, 309-310. 131 Loses Blatt Leningrad I, recto, rr. 18-21, 25. Il foglio è pubblicato in R. BRANDTW. STARK, Neue Autographen und Dokumente zu Kants Leben, Schriften und Vorlesungen, Kant Forschung 1, Hamburg 1987, pp. 18-21.

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tempo c’è incessante cambiamento (Refl. 5653, XVIII, 307), cercando diversi argomenti per provare questa affermazione. Lo svolgimento più esteso di questi argomenti si trova nelle riflessioni dell’autunno 1790, in cui diviene esplicito il nesso tra la questione della confutazione dell’idealismo e quella della determinazione oggettiva delle relazioni temporali, propria delle Analogie dell’esperienza: entrambe vengono ottenute attraverso la posizione di un influsso dinamico della materia stessa sul soggetto132. Rimane aperta tuttavia − come rimaneva in ogni punto della Critica − la questione di giustificare la permanenza, che l’intuizione della materia non può come tale fornire. Tra i vari argomenti che si ripresentano c’è anche quello, di cui abbiamo sottolineato l’infondatezza, relativo a una presunta permanenza intrinseca allo spazio stesso. Rispetto a quanto emergeva nella Nota generale al sistema dei principi, e forse a chiarimento di quanto allora suonava stonato, viene ora in evidenza una importante distinzione tra spazio come rappresentazione dell’«immaginazione» e spazio come rappresentazione dei «sensi»133. Una tale distinzione tra spazio puro e spazio materiale era comparsa nei Principi metafisici, dove però lo «spazio materiale» era semplicemente uno «spazio relativo» definito 132 La datazione è stabilita dalla visita di Kiesewetter a Königsberg, nella cui occasione le riflessioni vennero redatte. Diversi argomenti si trovano nelle Refl. 6313, KgS XVIII, 616 e 6312, KgS XVIII, 612 (fondati su un nuovo esame della terza analogia e in generale della simultaneità) e nella Refl. 6314, KgS XVIII, 614 (fondata su un esame della rappresentazione di numero – qui associata alla possibilità di rappresentare lo spazio – che viene a sua volta associata alla determinazione dell’esistenza di sé nel tempo). Esami di questi argomenti in GUYER, Kant cit., pp. 297-305. Guyer (p. 308) sottolinea anche, molto opportunamente, come il nesso tra «mutamenti interiori» e collegamento con altre cose esterne all’anima fosse centrale già nella Nova dilucidatio: qui, come si è visto, il concetto che serviva a illustrare questo legame era la gravitazione. 133 Cf. Refl. 6313, KgS XVIII, 614: «Poiché l’immaginazione (e il suo prodotto) è essa stessa solo un oggetto del senso interno, la coscienza empirica (apprehensio) di questa condizione può contenere solo un successione. Ma quest’ultima non può a sua volta essere rappresentata altrimenti che mediante qualcosa che dura, con cui ciò che è successivo sia simultaneo. Questa cosa durevole, con cui ciò che è successivo è simultaneo, cioè lo spazio, non può a sua volta essere una rappresentazione della mera immaginazione ma deve essere una rappresentazione del senso, perché altrimenti ciò che dura non sarebbe affatto nella sensibilità» [i corsivi sono miei].

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mediante contrassegni percettivi come sistema di riferimento foronomico (MA 480ss.): di una sua permanenza non si faceva parola, anche se la si poteva ricavare mediatamente dalla permanenza delle sostanze corporee prese come termini di riferimento per la sua definizione. In queste riflessioni più tarde, dunque, mentre il metodo per stabilire la permanenza mediante l’intuizione della sostanza materiale è stato abbandonato, manca ancora un argomento per stabilire una permanenza dello spazio empirico. È significativo, dunque, che alcuni anni dopo (ca. 1798-1799) si trovi nei manoscritti dell’Opus postumum proprio una prova trascendentale dell’esistenza di una materia cosmica che contiene la determinazione della sua permanenza, in quanto «spazio ipostatizzato». Nella successione dei manoscritti, come abbiamo segnalato, la questione dinamica della sostanza materiale è stata messa in subordine rispetto all’elaborazione di un sistema elementare delle forze motrici; ma la nuova prova dell’esistenza della materia cosmica si presenta proprio come presupposto necessario della validità di quel sistema elementare e del rispettivo schematismo. Verso questa nuova sistemazione trascendentale Kant è stato portato gradualmente, tra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90, dalla ricerca su una nuova deduzione del corpo da un conflitto, in cui ha assunto una funzione fondamentale il concetto dell’etere. Il ritorno all’argomentazione trascendentale si è dunque imposto nel corso dello sviluppo della fisica pura e della sua esibizione. Infatti, fintanto che l’etere rimaneva un materiale ipotetico, la costruzione del corpo, e dunque anche l’esibizione in concreto delle categorie, restavano subordinate alle incerte sorti della fisica empirica. Kant tenta dunque – in particolare nei fogli ‘Übergang 1-14’ del 1799 – di stabilire delle «prove» a priori dell’esistenza di una «materia cosmica». Per farlo accantona la rappresentazione dell’influsso, e riparte dalla questione trascendentale dell’affezione. Si tratta dunque di un tentativo originale, ma ben inserito nei presupposti concettuali del criticismo. Kant aveva già considerato, nel capitolo sull’ideale della ragione, la possibilità di una realizzazione e di una ipostatizzazione dell’«insieme di ogni realtà». Tuttavia, escludendone gli esiti in ambito metafisico e teologico, e considerando che secondo il «progresso naturale della ragione» esso viene anche per271

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sonificato, non aveva considerato la possibilità dell’ipostatizzazione della sola materia della sensazione, considerata collettivamente, sul piano condizionato dei fenomeni. Questa possibilità viene riscoperta, negli anni ’90, per rispondere ai nuovi problemi su cui si concentrano le ricerche kantiane134. La riflessione trascendentale sul materiale cosmico, le cui conseguenze Kant continua a indagare almeno fino al 1800, costituisce l’ultimo tentativo organico kantiano in tema di filosofia naturale. In esso, attraverso la questione dell’esistenza della materia, fisica pura e filosofia trascendentale trovano infine una congiunzione tematica. Nelle prove del materiale originario, in effetti, le due vie della determinazione del conflitto dinamico e della ipostatizzazione dello spazio confluiscono: il nerbo dell’argomentazione è proprio la necessaria «determinabilità» a priori dello spazio fisico secondo rapporti dinamici, che comporterebbe tanto il collegamento delle percezioni con la materia fenomenica, e la stessa localizzazione reciproca del soggetto e dell’oggetto, quanto la possibilità di una dinamica pura in un continuo materiale dinamicamente qualificato. Di questo tentativo, tuttavia, metteremo in luce le intrinseche difficoltà, che probabilmente Kant avvertì, e che dunque non dovettero essere estranee al fatto che esso rimase un’elaborazione privata135.

3.5. Conclusioni: funzione trascendentale della fisica e relativizzazione della sostanza corporea Il fatto che Kant raggiungesse nell’Opus postumum la problematica dello spazio fisico ci permette già di trarre due conclusioni sul rapporto tra filosofia trascendentale e fisica. La rilevanza trascendentale della fisica si pone a partire dalle questioni dell’idealismo e della prova della permanenza della materia, poiché queste si pro134 Le tre determinazioni della rappresentazione dell’ente realissimo sono in KrV A 583/B 611, nota. Che l’“etere” della fine degli anni ’90 fosse un analogo fenomenico dell’ideale trascendentale è stato ben detto da FÖRSTER, Kant’s Final Synthesis, p. 91. Su questo concetto torneremo nel § 13.1. 135 Si veda infra § 13.2.

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lungano negli anni ’98-’99 in diverse questioni relative alla possibilità della fisica: come quella della localizzazione dell’oggetto nello spazio materiale o dell’esperienza della distanza e quella di una nuova prova dell’originaria attività della materia, alternativa alla prova della Dinamica fondata sulla rappresentazione discreta del corpo. D’altra parte le indagini trascendentali sulla materia costituiscono una essenziale integrazione della dottrina dello schematismo delle forze motrici, fondata sul fatto che la stessa rappresentazione della materia cosmica viene ora considerata di pertinenza di una anticipazione della percezione e fornisce il sostrato per la realizzazione delle forze anticipate a priori dall’intelletto. In conclusione la questione della possibilità della fisica e di un sistema del mondo, posta inizialmente come questione d’appendice del sistema della filosofia, si sovrappone infine al vecchio compito di elaborare compiutamente una cosmologia alternativa a quelle idealistiche di matrice leibniziana e wolffiana. Ma questo intreccio tra problematica trascendentale e fisica permette anche di vedere quanto sia improprio parlare di un autonomo interesse kantiano per la fondazione della fisica. Sia perché, come si vede, sono questioni trascendentali a spingere in definitiva verso la rielaborazione di concetti scientifici come l’etere della meccanica e della chimica. Sia perché questi riferimenti si rivolgono a un campo di ricerche ancora in fase congetturale, riguardo al quale non esistevano sintesi teoriche, paragonabili a quella newtoniana della meccanica, che avrebbe avuto senso “fondare”, e conducono infine a una profonda modificazione di status di questi stessi concetti, necessaria allo scopo di renderli operanti sul piano della filosofia pura. Su questa modificazione reciproca dei concetti metafisici e scientifici, che dovremo sviluppare di caso in caso, si può trarre per ora una rilevante conclusione, poco marcata a livello testuale, ma che si impone in base a tutta la ricostruzione precedente. Si tratta del necessario abbandono della nozione di una molteplicità di sostanze fenomeniche separate. Abbiamo visto che la questione dell’individuazione si restringe nel criticismo al caso della sostanza corporea. Ora, i fenomeni offrono senza dubbio la distinzione di sostanze discrete, e in favore di questa rappresentazione si pro273

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nuncia l’intera meccanica. Tuttavia le premesse gnoseologiche e dinamiche portavano Kant verso una inevitabile discordanza rispetto alla rappresentazione scientifica dominante. In primo luogo, l’abbandono della monadologia (fisica e non) e l’edificazione di una nuova teoria dinamica della materia sulla base dell’estetica trascendentale determinano fin dall’inizio la tendenza a un isomorfismo tra proprietà dello spazio e proprietà della materia. Ciò vale per l’infinita divisibilità e la continuità, che vengono argomentate nella Dinamica dell’86. Ma nella filosofia dinamica la materia dovrà possedere anche un’altra proprietà dello spazio, quella dell’essere una totalità collettiva, dunque un intero che precede la possibilità delle parti. Questa tesi, che si intravede già nell’impostazione cosmologica della Allgemeine Naturgeschichte, viene in evidenza con la difficoltà di definire sul piano filosofico i confini tra le sostanze corporee, e con il successivo impegno per sviluppare una nozione trascendentale del «materiale cosmico»: a questo punto diviene anche evidente che non si tratta, e non si poteva trattare per Kant, di questione strettamente fisica. La ricerca di una interazione universale della natura muoveva dall’esigenza metafisica di un’unità (e pienezza materiale) del mondo. Ma ciò che nella metafisica precritica, trattando di sostanze in genere, era impossibile – ovvero considerarle quali parti di un tutto, negandone l’individualità – diviene necessario per le sostanze fenomeniche, in base al principio di relatività di tutte le relazioni. Abbiamo visto che Kant raggiunse una tale concezione già alla fine degli anni ’60, senza però collegarla chiaramente con una nozione fisica, contrariamente a quanto era avvenuto con la concezione monadologica precedente, che aveva trovato nei corpi attivi di certa fisica newtoniana l’occasione per considerare la gravitazione come «fenomeno» dell’influsso noumenico. Lo strumento concettuale per definire la materia cosmica rimase per Kant d’origine metafisica, quella nozione di ente realissimo che però, se dotata di spiritualità portava alla distruzione della fisica, se priva di essa tendeva allo spinozismo136. Proprio mosso da una esigenza di “esibizione” fisica, 136 A questo punto si possono trarre le conclusioni di quella tendenza allo «spinozismo» che abbiamo più volte rilevato. Sul piano fisico, fin dalla Allgemeine Naturge-

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analoga a quella che aveva orientato la sua metafisica armonica negli anni ’50, e non già per una mera curiosità disciplinare, il Kant del criticismo avrebbe guardato con grande interesse alle nuove ricerche sul calore e le interazioni chimiche che, basandosi (in alcuni casi) sulla rappresentazione di fluidi capaci di soluzione, potevano suggerire la possibilità di un sostrato unitario della formazione e eventuale dissoluzione di tutti i corpi, presentando nel repertorio della fisica dell’epoca una possibile via alternativa a quella di una concezione meccanica o atomistica della materia. Ma proprio questa ricerca di un correlato fisico del principio filosofico contribuirà all’aporia della filosofia naturale kantiana. L’unicità del continuo materiale, infatti, non si accorderà mai con il dinamismo integrale che Kant riterrà sempre teoricamente irrinunciabile − e la cosa, a questo punto, dipende anche dalla situazione della fisica dell’epoca, in cui materia e forza restavano teoricamente distinte. Proprio questa incongruenza tra teoria filosofica e fisica può spingere – e ha spinto – interpreti troppo generosi a parlare di una analogia tra etere kantiano e campo della fisica ottocentesca137. Una tale analogia è superficiale e fuorviante: essa rischia infatti di schiacciare la questione kantiana sulla teoria fisica, cosa che Kant tentò precisamente di evitare fino all’ultimo e che determina la complessità e selettività del suo rapporto con le schichte, solo la qualità dinamica distingueva la materia cosmica kantiana dall’estensione cartesiana, rispetto alla quale Spinoza poté concludere opportunamente che il corpo è un modo finito, piuttosto che una sostanza concepibile isolatamente. Nella tarda fisica kantiana si ha un’analoga definizione del corpo in base alla delimitazione del continuo materiale, dove la materia ovviamente non è l’estensione in senso cartesiano, ma un continuo spaziale dinamicamente qualificato. Questa differenza nell’analisi della materia, come sappiamo, proviene storicamente dal contributo leibniziano. Tuttavia, tolto il piano della conoscibilità intelligibile, la posizione del fondamento di spazio e tempo è di nuovo più prossima a quella di Spinoza: il sostrato soprasensibile è pensato come singolare e il rapporto tra esso e la forma della sensibilità è indecifrabile. Tenendo conto del modo in cui alcuni interpreti svilupparono queste analogie in senso speculativo, e in vista della pubblicazione di una nuova opera, Kant sentirà l’esigenza di chiarire il rapporto tra criticismo e spinozismo in riflessioni private del 1800 (v. cap. 14). 137 W.C. WONG, Kant’s Conception of Ether as a Field in the Opus postumum, in Proceedings of the Eight International Kant Congress, Milwaukee 1995, II.1, pp. 405-411. Cf. infra § 8.2 C.

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fonti scientifiche. Del resto proprio questo intervallo logico e metodologico, che Kant tenne a conservare nonostante il «passaggio» alla fisica, ha a che fare col fatto che il dinamismo kantiano ebbe pessima accoglienza presso i fisici, mentre il concetto ottocentesco di campo affonda nelle ricerche di autori che, più vicini alla forma mentis newtoniana, furono più impegnati allo sviluppo matematico delle proprie teorie che alla loro fondazione filosofica. In effetti la questione filosofica del materiale cosmico, che orienta fin dall’inizio il modo in cui Kant seleziona e critica le fonti scientifiche, difficilmente si sarebbe risolta anche alla luce di una fisica successiva (come mostra il caso della ripresa del problema kantiano della materia in Cassirer), e di fatto diede luogo, nelle ultimissime riflessioni kantiane, non ad un passaggio di consegne ai fisici empirici, ma a un ritorno gnoseologico sulla teoria dello schematismo138. In conclusione, alla luce delle considerazioni precedenti, la seconda ipotesi di lettura mi pare giustificata, benché essa presenti gli esiti delle ricerche kantiane come aperti e frammentari. Essa infatti non comporta una vera e propria discontinuità tra sistema e 138 Il problema fisico di ricavare la materia dal campo, peraltro, non è stato risolto. Cassirer, nel suo tentativo di ripensare l’ideale del dinamismo kantiano alla luce della fisica nel suo sviluppo successivo, ritenne indispensabile a differenza di Kant la realizzazione fisico-teorica delle sue idee filosofiche e, proprio per questo, dovette esporre la sua teoria della conoscenza al problema della contingenza storica. È significativo che egli, in successive fasi del suo pensiero, considerasse la questione della «dissoluzione della materia» risolta da diverse teorie scientifiche: dapprima (negli anni ’10) l’energetica, poi invece (negli anni ’20) la teoria della relatività generale, o meglio la «teoria del campo» relativistica, infine (negli anni ’30) anche la meccanica quantistica. Il principale riferimento di Cassirer, a partire dagli anni ’20, era costituito dalle ricerche di Hermann Weyl. Questi aveva avanzato l’ipotesi di una teoria unitaria del campo, in cui si sarebbe dovuto mostrare che i corpi sono «nodi di energia» del campo, e a riguardo di questo «problema della materia» si era esplicitamente richiamato all’ideale kantiano dei Principi metafisici. Si veda H. WEYL, Raum Zeit Materie (Berlin 19181) 19214, tr. ing. Mineola N.Y. 1952, pp. 202-203). Tuttavia Weyl, come lo stesso Einstein, non portò a termine questa impresa scientifica, e in un passo della sua opera maggiore riconosceva che il problema della materia «è ancora avvolto nella più profonda oscurità» (ivi, p. 311). Su questo tema rimando a P. PECERE, La «dissoluzione» della materia in Cassirer, «Quaestio. Annuario di storia della metafisica», 7 (2007), pp. 457-488.

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riflessioni, ma piuttosto mette in risalto i nuovi sviluppi delle questioni poste con la prima sistemazione della filosofia trascendentale, cui Kant si dedicò per ancora vent’anni circa. Nella ricostruzione della filosofia naturale successiva al 1786 (parte III) verificherò la validità di questo filo conduttore: non si tratterà dunque di fare la storia di una aproblematica specificazione dei principi trascendentali, né di una successiva “fondazione” di diverse scienze alla luce dei principi della filosofia pura, bensì di seguire la problematica ancora aperta dell’unità della natura fenomenica, che domina fin dall’inizio gli interessi kantiani in filosofia naturale. L’auspicio è che una tale ricostruzione mostri in modo convincente l’unità problematica – se non strettamente sistematica – che caratterizza la filosofia della natura kantiana dai suoi esordi fino ai più tardi sviluppi.

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Capitolo 4 Legalità e fondamento: il significato esemplare della fisica newtoniana per la filosofia

4.1. Concetto di forza e limiti della conoscenza Nessun concetto come quello di forza è capace di esprimere la profonda unità metodologica che congiunge in Kant la fisica con la totalità della filosofia. Attraverso lo sviluppo del concetto di forza abbiamo trovato un punto di vista privilegiato per seguire il progressivo abbandono della metafisica precritica. Nel criticismo l’identità tra causa fisica e fondamento intelligibile, tipica della metafisica leibniziana, viene meno, ma è sostituita da una altrettanto importante analogia. Così la forza, che in primo luogo è un concetto empirico della fisica, diviene nello stesso tempo il concetto esemplare della comprensione filosofica in genere, in quanto è capace di esprimere tanto la funzione della conoscenza (cioè la sintesi del molteplice), quanto la sua intrinseca delimitazione1. Questo duplice valore del concetto di forza viene stabilito in occasione della definizione del concetto di «forza fondamentale», nei Principi metafisici2, e viene posto negli anni successivi come il caso 1 Lambert chiamava «trascendente» il concetto di forza, «in quanto rappresenta cose rassomiglianti nel mondo fisico e nel mondo intellettuale», ovvero, «forze conoscitive, forze di desiderio e forze motrici» (Neues Organon, Alethiologie, § 48, pp. 484485). Per Lambert, tuttavia, tutte e tre erano oggetto di conoscenza, le prime in base al tatto, le altre in base alla semplice coscienza (ivi, rispettivamente §§ 18, 25). 2 Nota generale alla Dinamica, MA 534: «La comprensione a priori di forze originarie secondo la loro possibilità è assolutamente al di fuori dell’orizzonte della nostra ragione e tutta la filosofia naturale consiste piuttosto nel ricondurre forze date, in ap-

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esemplare di ogni forza o facoltà, in quanto condizione di una proprietà dei fenomeni che non può essere ulteriormente analizzata. Una stessa situazione gnoseologica – complice anche l’identificazione semantica tra Kraft e Vermögen – riguarda ogni campo dell’esperienza e del pensiero, dalla fisica alle speculazioni sulla «forza vitale» degli organismi, dalla teoria delle facoltà conoscitive alla filosofia pratica, e può così essere riassunta: nell’indagare le cause dei fenomeni, sia di quelli del senso esterno che di quelli del senso interno, sia fisici che morali, la filosofia risale ai concetti di «forze e facoltà fondamentali», ma «ogni discernimento umano è finito, quando siamo giunti alle forze fondamentali, poiché la possibilità di esse non può esser compresa in nessun modo, ma non può neppure essere inventata o ammessa arbitrariamente»3. La ragione per cui la comprensione non può andare oltre è che una forza o facoltà fondamentale è definita unicamente «attraverso la relazione d’una causa ad un effetto», senza che sia possibile «fornire di essa altro concetto né trovarle altra denominazione che non siano quelli mutuati dall’effetto, e che si limitano ad esprimere, appunto, questa relazione»4. Il concetto di forza o facoltà fondamentale esprime dunque il nesso tra ogni sintesi empirica in genere − in quanto è sottoposta a una legalità − e le sue condizioni di possibilità, il cui fondamento logico-metafisico è inconoscibile. Questo chiarimento e questa generalizzazione del concetto di forza vennero rese opportune negli anni ’80 dal fatto che diversi seguaci di Kant, come Herder e Reinhold, trassero dal concetto di forza l’esigenza di una integrazione o di un superamento della filosofia trascendentale. Ma l’importanza dell’analogia tra dinamica e parenza diverse, a un numero minore di forze e facoltà, che servano alla spiegazione degli effetti delle precedenti; questa riduzione procede però solo fino alle forze fondamentali, oltre le quali la nostra ragione non sa andare». 3 Kritik der praktischen Vernunft, KgS V, 46-7. 4 Über den Gebrauch teleologischer Prinzipien in der Philosophie (1789), KgS VIII, 180. In nota, Kant si rivolge contro i sostenitori di una «forza fondamentale unica dell’anima», la «forza di rappresentarsi il mondo». Il riferimento è probabilmente all’interpretazione del criticismo sviluppata in questi anni da Reinhold, di cui proprio nel 1789 veniva pubblicato (a Jena) il Versuch einer neuer Theorie des menschlichen Vorstellungsvermögen.

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gnoseologia, come vedremo, affondava profondamente nel pensiero kantiano precedente, tanto che Kant decise di svilupparla ulteriormente, per caratterizzare lo spirito del criticismo, istituendo una analogia tra la propria filosofia e la fisica newtoniana. Vogliamo dunque capire il senso di queste analogie, e il rapporto tra esse e il nesso architettonico che già sussisteva nel criticismo tra filosofia trascendentale e fisica. A questo fine sarà opportuno in primo luogo distinguere meglio i tanti significati del concetto di forza, da quello fisico ai più traslati. In primo luogo la forza viene definita in fisica come la «causa di un movimento»5. Per stabilire l’esperienza di una forza, in particolare, occorrono per Kant due condizioni: rilevare un cambiamento nel movimento e stabilire una legge secondo cui questo cambiamento avviene. Nella Dinamica del 1786 Kant cerca di dimostrare che l’azione di due forze è essenziale all’esistenza stessa della materia, e afferma che si può conoscere la legge di questa azione, anche se il suo statuto gnoseologico rimane in certa misura poco chiaro. D’altra parte, pur possedendo la legge e il riferimento dell’effetto a una causa, non è possibile analizzare ulteriormente il nesso causale stesso e la conoscenza della forza resta limitata alla sintesi fenomenica e alla relazione con una causa. Se infatti una tale analisi fosse possibile, se cioè fosse possibile comprendere la possibilità di una forza fondamentale, si potrebbe invertire l’inferenza dagli effetti alla causa, e dedurre gli effetti dal concetto della causa6. Ma questo ideale leibniziano è stato destituito di valore 5 Si veda per es. MA 497. Questa definizione non matematica comporta diverse ambiguità, il cui peso dovremo rilevare al momento opportuno (in part. §§ 8.1 e § 13.2). 6 La cosa è evidente in tutta la teoria delle forze e, come stiamo per vedere, costituisce un’interpretazione del metodo analitico newtoniano. Il passo più chiaro in proposito si trova in Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft (1793), KgS VI, 88, nota: «Un espediente abituale di quanti fanno ricorso alle arti magiche per tratte in inganno la gente credula – o che vogliono rendere credula – consiste nel chiamare in causa l’ignoranza confessata dagli scienziati della natura. Infatti questi dicono di non conoscere la causa della gravità, della forza magnetica, ecc. Ma noi tuttavia ne conosciamo le leggi con precisione sufficiente entro limiti rigorosi, rispetto alle condizioni alle quali determinati effetti hanno logo; e ciò è sufficiente sia per un uso ra-

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metafisico; il suo analogo in Kant è la pura costruzione dei concetti matematici, che come abbiamo visto non riguarda l’esistente. Dunque si parla di forza fondamentale della materia nel senso che: 1) il «conflitto reale», che deve stare a fondamento dell’impenetrabilità, ne prova a priori la necessità essenziale alla materia; 2) possiamo conoscerne la legge; 3) non possiamo analizzarne il concetto per trovarvi il fondamento logico degli effetti, ma il concetto contiene solo la rappresentazione degli effetti e del loro nesso con una causa. La prima estensione analogica di questo concetto è la teoria delle facoltà (Kräfte o Vermögen) dell’animo umano. In questo caso si fanno risalire determinate azioni dell’animo, come la sintesi categoriale, a una particolare facoltà. A differenza del caso fisico nessun conflitto reale mostra l’essenzialità di queste facoltà per una sostanza spirituale, e del resto in psicologia non si dà nessuna sostanza cui riferire in genere le operazioni dell’animo. Tuttavia, si danno delle specifiche forme di legalità rispetto a cui si definiscono le rispettive facoltà fondamentali. Il primo caso è quello della facoltà ricettiva o sensibilità. Di una «legge della sensibilità», come abbiamo visto, Kant parla nella Dissertazione del 1770 per designare la forma originaria della sensibilità. Nella Critica, anche se ogni operazione sintetica viene ascritta all’intelletto, e dunque non si parla propriamente di leggi della sensibilità, l’analogia tra forza e facoltà rimane: come molte forze in natura, così resta per noi «insondabile» l’oggetto trascendentale e con esso il «fondamento» della sensibilità, cioè non possiamo addurre la ragione per cui possediamo questa e non altre forme dell’intuizione7. L’analogia viene poi estesa alle facoltà della zionale sicuro di queste forze, sia per spiegare i fenomeni secundum quid e regressivamente, mediante queste leggi, al fine di ordinare sotto di esse i fenomeni, benché non sia sufficiente simpliciter e progressivamente per comprendere [einsehen] le cause stesse delle forze che operano secondo queste leggi». Come vedremo l’opera sulla religione contiene nelle note a piè di pagina diverse importanti precisazioni sulla teoria delle forze: segno dell’importanza che Kant attribuiva a quest’ultima per l’intelligenza complessiva della filosofia. 7 L’analogia si trova in un passo della sezione sulla prova cosmologica dell’esistenza di Dio, KrV A 613-614/B 641-642, che abbiamo già citato a p. 138. Kant conclu-

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spontaneità, intelletto e ragione, che lasciano a loro volta pensare un «fondamento intelligibile» quale «causa trascendentale» delle rispettive operazioni8. Anche nel caso dell’intelletto, come viene sottolineato nella terza Critica, possediamo la rappresentazione della sua contingenza, e possiamo pensare altri intelletti (come quello archetipo), senza però poter conoscere le ragioni in base a cui di fatto conosciamo solo un genere di intelletto (KU § 76, 401404). Sul piano pratico, infine, la legalità delle facoltà si mostra nel carattere empirico e risulta omogenea a quella delle altre cause naturali. Tuttavia la coscienza dell’imperativo categorico, come è ben noto, è la ratio cognoscendi di una facoltà di causalità libera, il cui fondamento resta incomprensibile. Le leggi morali sono eterogenee ma altrettanto fondamentali rispetto alle leggi di natura: per questa ragione le azioni umane devono essere considerate da un doppio punto di vista9. Nel caso dell’agire considerato dal punto di vista morale, dunque, conosciamo la legge, ma non possiamo ottenere l’esibizione empirica di un nesso tra causa ed effetto10: il concetto di libertà pratica fornisce dunque l’esempio più nitido dell’analogia tra forze e facoltà all’interno del criticismo In generale le facoltà fondamentali dell’uomo si conoscono quando: 1) si conosce la legge della rispettiva operazione; 2) non se ne conosce il «fondamento», cioè la ragione per cui esse corrispondono a determinate forme e leggi. Rispetto al caso delle forze fondamentali fisiche, se si esclude la questione controversa di una determinazione a priori delle leggi di queste ultime, la distinzione risiederebbe nel fatto che l’azione fisica può essere esibita in concreto (mediante il conflitto reale), mentre quella dell’animo può essere esibita solo analogicamente (come nel caso dell’errore logico11 o dell’agire volontario). de: «per quanto la cosa sia data, noi non la comprendiamo», impiegando sempre il termine tecnico ‘einsehen’. 8 In questo caso il passo fondamentale è nella Spiegazione dell’idea cosmologica di una libertà in connessione con la necessità universale della natura, KrV A 545-547/B 573-575. Cf. Die Religion, KgS VI, 88-89, nota. 9 Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, KgS IV, 452. 10 Die Religion, KgS VI, 170, nota. Cf. KrV A 386-387. 11 Si veda per es. il passo sul giudizio erroneo come «inavvertito influsso della sen-

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Un secondo piano analogico è quello, di nuovo interno al dominio della conoscenza oggettiva, degli organismi: in questo caso incontriamo determinati oggetti esistenti, e possiamo osservare empiricamente la loro generazione e crescita, di cui dobbiamo pensare delle cause, che si possono chiamare «forze vitali»; tuttavia, contrariamente al caso delle facoltà dell’animo, non possiamo sperare di conoscere mai una legge di queste forze. D’altra parte, concedere la piena arbitrarietà delle ipotesi sulle «forze vitali» renderebbe possibile tornare alle speculazioni metafisiche, come avviene nel caso di Herder. È dunque opportuno far risalire gli organismi a delle «disposizioni» (Anlagen) originarie, tentando di studiarne lo sviluppo secondo regole empiriche, e limitando al massimo (cioè al fatto stesso della loro produzione) il campo dell’inconoscibile12. L’esempio ottimale di una tale teoria biologica viene individuato da Kant, nel 1789, nella teoria dell’«impulso formativo» (Bildungstrieb) del naturalista Blumenbach13. Dunque, nel caso della «forza vitale»: 1) ci rappresentiamo la causa (inconoscibile) di un oggetto esistente, ma 2) non ne conosciamo la legge: perciò risulta soggettivamente indispensabile l’impiego del concetto di fine. Un ultimo livello dell’analogia è costituito dal concetto di un fondamento incondizionato della totalità del mondo, che si può considerare sia dal punto di vista teoretico sia dal punto di vista pratico. Nel primo caso, al di là della relazione logica, non c’è nessuna coincidenza con il concetto di forza fondamentale, in quanto il mondo come totalità non è un oggetto dell’esperienza possibile, sibilità sull’intelletto», illustrato con lo schema del parallelogramma delle forze (KrV A 294-295/B 350-351). 12 Über den Gebrauch teleologischer Prinzipien, VIII, 178-179. 13 Kant cita nella Kritik der Urteilskraft (§ 81, V, 424) il libro di J.F. BLUMENBACH, Über den Bildungstrieb, Göttingen 1781, la cui teoria epigenetica della forza vitale viene giudicata ottima proprio perché sarebbe capace di delimitare i limiti della fisica togliendo però a quest’ultima il minimo indispensabile (cioè il solo principio formativo degli organismi) e assegnando il resto all’indagine secondo cause meccaniche. Cf. la lettera di Kant allo stesso Blumenbach del 5-8-1790, KGS XI 184. Del libro di Blumenbach si è trovata nella biblioteca kantiana la seconda edizione, Göttingen 1789 (WARDA, Immanuel Kants Bücher, p. 27). Nel saggio del 1789 Kant citava anche, dello stesso autore, lo Handbuch der Naturgeschichte, 1779 (VIII, 180 nota).

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e dunque non è possibile rappresentare né un suo nesso con un fondamento eterogeneo, né alcuna regola che colleghi questo fondamento con il suo presunto effetto. Dal punto di vista morale, tuttavia, non soltanto troviamo ragioni positive per pensare un tale fondamento e rappresentarcelo con l’ausilio di una analogia, ma questa analogia ha anche un importante risultato positivo. In questo caso il «fondamento» del sommo bene, pensato in analogia con la causalità volontaria dell’uomo, conduce a un antropomorfismo privo di alcun valore teoretico14; tuttavia la posizione della legge morale comporta come è noto, quale suo postulato, l’esistenza di Dio. La teoria del postulato morale di esistenza, a prescindere dalla sua solidità argomentativa, ci interessa qui perché in essa risiede un elemento di coincidenza con la filosofia naturale dell’Opus postumum, dove pure verrà posta l’esistenza di una materia cosmica quale postulato dell’agire di forze15. Che quest’ultima analogia sia possibile e incessantemente cercata dalla ragione, per quanto invano, è reso possibile dal fatto che il concetto di forza, oltre che avere una origine e una definizione fisico-empirica, è anche uno dei «predicabili» pensati dall’intelletto: la «causalità di una sostanza»16. Perciò sorge la tentazione di un suo uso «trascendentale» o «trascendente». Era questo il nodo della questione metafisica precritica, che si ripresenta nella Dialettica trascendentale proprio attraverso il «concetto trascendente» di causalità. Ma il concetto di una relazione asimmetrica come la forza invita a trascendere i confini del criticismo, oltre che dal punto di vista della ragione speculativa, anche in altri due luoghi del14 Il confronto più ampio tra determinazione del corpo e quella di un ente soprasensibile si trova nel § 88 della Critica della facoltà di giudizio, KU 482-483: mentre nel caso dalla forza motrice del corpo inferisco una determinazione di esso come oggetto, e finanche la sua legge, nel caso di una causa soprasensibile io posso inferire la sua esistenza, ma il suo concetto resta vuoto. Cf. KgS V, 46-47 15 Per il postulato di esistenza della legge morale si veda KrV A 633-634/B 661662. Il «postulato» di un Weltstoff si trova per es. in KgS XXII, 587; XXII, 19; XXII, 200 (cf. infra cap. 12). Questa qualificazione non appartiene comunque a tutti gli argomenti allestiti da Kant per provare a priori l’esistenza della materia cosmica. 16 KgS A 648/B 676. Cf. A 82/B 108 (definizione dei predicabili); A 20/B 35 (Estetica); A 204/B 249 (seconda analogia); Über eine Entdeckung, KgS VIII, 224, nota.

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la teoria delle facoltà, e cioè nei due casi speculari dell’affezione (come passione) e dell’azione libera. Con la rinuncia a una teoria puramente metafisica delle sostanze e dell’influsso l’uso trascendentale di questi concetti ha comunque perduto il suo valore oggettivo, e si tratta dunque di un vuoto e ingannevole impiego del predicabile forza. Kant lo sottolinea riferendosi a tutto il repertorio dei concetti metafisici leibniziani e wolffiani: dato che non conosciamo la possibilità della connessione dinamica, non possiamo inventare nuove forze, come intelletto intuente, sostanza localizzata inestesa, ecc.17. In genere l’uso dei predicabili per pensare un fondamento di spiegazione della possibilità del mondo è illegittimo18. La polemica contro l’ammissione empiricamente infondata di «nuove forze inventate», «spirituali», «invisibili», «occulte», cominciata con il caso Swedenborg, attraversa senza soluzione di continuità tutto l’itinerario del criticismo19. Ancora nell’Antropologia Kant non esita a inserire in una classificazione nosologica la «follia» di conoscere le forze soprasensibili della natura20. Come è evidente da questa ricognizione, molti aspetti dell’analogia tra conoscenza della forza fondamentale e speculazione sul fondamento inconoscibile erano stati già raggiunti nel pensiero precritico. Vogliamo però capire il significato specifico dell’analogia all’interno del criticismo. A tal fine, sarà opportuno ripercorrerne brevemente le prime occorrenze e le fonti che avrebbero potuto ispirarla, per poi apprezzarne lo sviluppo originale. A partire dalla sua prima espressione negli scritti kantiani il 17 La disciplina della ragion pura rispetto alle ipotesi, KrV A 770-771/B798-799. Nell’elenco si trova pure la forza di attrazione a distanza: si intende che non la si può «escogitare» a meno che non la si «incontri nell’esperienza»; in questo caso, la categoria può (anzi deve) servire a «capire» (verstehen) la connessione dinamica empirica. Negli altri casi, nessuna esperienza può attestare i rispettivi concetti. 18 KrV A 677/B 705ss. Cf. A 721-722/B 749-750. 19 Prolegomena, KgS IV, 317: contro l’ammissione di «nuove forze inventate», tipica dei giovani metafisici. Il riferimento è forse già a Herder, le cui «forze spirituali» o «forze invisibili» vengono attaccate nella recensione alle Ideen dell’anno successivo: KgS VIII, 52, 53-54. Cf. KgS VIII, 318. 20 Anthropologie in pragmatischer Hinsicht (1798), KgS VII, 215.

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concetto di una forza di cui si conosce la legge, ma non la causa, è prima di tutto un concetto fisico, associato a quello newtoniano della forza di gravità. A questo modello, come era consueto nel newtonianismo dell’epoca, si ricollega anche l’estensione del concetto di forza agli altri fenomeni della natura. Per esempio nello Einzig mögliche Beweisgrund il compito di ricercare cause semplici capaci di spiegare fenomeni diversi, finalizzato alla conservazione dell’unità e dell’autonomia della natura, viene presentato nei termini del metodo analitico newtoniano: si tratta di una «regola» della «corretta filosofia», che viene illustrata con l’esempio della gravitazione newtoniana21. Da questo punto di vista risulta promettente l’ipotesi dell’etere, in quanto si tratta di «un’unica ed identica materia attiva che si estende in tutto lo spazio», capace di spiegare fenomeni diversi come «il dilatarsi dei corpi per il calore, la luce, l’elettricità, i temporali, e fors’anche la forza magnetica» (KgS II, 113). Nel caso delle ipotesi biologiche sull’origine degli organismi, si contrappongono una teoria pienamente metafisica come il preformismo e la teoria dell’epigenesi: sebbene quest’ultima non possa mai spiegare tutti i fenomeni biologici in base a leggi meccaniche, la si deve preferire proprio per il suo maggiore legame con l’esperienza. Solo l’esperienza, infatti, può giustificare l’impiego dei concetti scientifici, anche in un caso come questo, nel quale anche l’ipotesi preferibile si fonda su fondamenti incomprensibili «proprio come la cosa stessa»22. La distinzione, posta fi21 KgS II, 113. Il passo ricalca nella sostanza quello sul metodo analitico dell’Ottica, che citeremo tra qualche pagina. Cf. le Regole del filosofare dei Principia, p. 550, regola prima: «Non si devono ammettere più cause delle cose naturali di quante siano tanto vere quanto sufficienti a spiegare i loro fenomeni»); p. 555, regola quarta: «Nella filosofia sperimentale, le proposizioni ricavate dai fenomeni per induzione dovrebbero essere considerate o esattamente vere o quasi vere, trascurando qualsiasi ipotesi contraria, finché nuovi fenomeni rendano tali proposizioni o più esatte o suscettibili di eccezioni». Le regole metodologiche prescritte da Kant alla fisicoteologia (II, 126-127) riprendono molte delle indicazioni newtoniane; come abbiamo visto, anzi, Kant sostiene un’autonomia della natura più rigorosa di quella di Newton. 22 KgS II, 115: «Ma se non teniamo conto di simili teorie – scrive infatti Kant – dobbiamo poi per questo lanciarne un’altra egualmente arbitraria, e cioè che tutti gli individui siano di origine soprannaturale, solo perché non si capisce il modo naturale della loro nascita? La possibilità di una forza vitale, insomma, non solo è incompren-

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no al ’70, tra un piano fisico-fenomenico e un piano metafisico, lascia però aperta la possibilità di collegare il concetto fisico di forza con un fondamento metafisico conoscibile. Tale compromesso tra la nozione newtoniana di forza, con le sue potenzialità esplicative, e quella leibniziana viene definitivamente reso impossibile a partire dalla distinzione tra «fondamento reale» e «fondamento logico», acquisita nello scritto sulle quantità negative. A questo punto Kant aderisce alla tesi di un fondamento inconoscibile della causalità23. L’adesione a questo orientamento trova la più convinta espressione nei Träume eines Geistersehers, cioè proprio lo scritto in cui Kant dà per la prima volta notizia di una «scienza dei limiti della ragione». Qui si trova il passaggio dalla coincidenza tra forza e fondamento metafisico alla loro analogia, che possiede già i tratti fondamentali di quella che si ritrova nel criticismo. Vengono infatti affermate nello stesso tempo l’inconoscibilità della «forza spirituale»24 e la legalità specifica della morale (ascritta per ora al sibile, come quella di una forza della meccanica, ma in tal caso nemmeno si congiunge con una effettiva spiegazione dei fenomeni. È l’unità della natura, allora, a consigliare l’ammissione di un’ipotesi che, considerata in sé, è un concetto arbitrario». Come sostenitori di teorie epigenetiche vengono citati qui C. Bonnet e Maupertuis. Kant ritorna sulla questione nei Träume eines Geistersehers (II, 330-331) dove discute, oltre a Maupertuis, anche le opinioni sui principi vitali di Boerhaave, Stahl e F. Hofmann. Anche qui il ricorso a principi immateriali, che sono «peraltro [...] rifugio della filosofia pigra», viene considerato inevitabile, purché lo si congiunga per quanto possibile con il metodo «più filosofico» delle spiegazioni meccaniche. 23 Nella Nota generale di questo scritto, ispirandosi a dottrine di Crusius, Kant discute la condizione sotto cui qualcosa può essere detto causa. Il concetto delle quantità negative ha fornito uno strumento per comprendere opposizioni reali come quelle dei moti, distinguendole dalle mere opposizioni logiche: tuttavia, non si riesce a comprendere l’opposizione reale come tale, e cioè, in generale, «in che modo, essendoci una cosa, possa esserne annullata un’altra». L’unica cosa che si può dire è che ciò «non avviene per mezzo del principio di non contraddizione». Kant conclude che «il rapporto tra un fondamento reale e una cosa che da esso venga posta od annullata non si può affatto esprimere mediante un giudizio, ma soltanto mediante un concetto. E pur essendo possibile ridurre questo concetto, per scomposizione [Auflösung], a concetti più semplici di fondamenti reali, alla fine tuttavia tutte le nostre conoscenze di questo rapporto terminano nei concetti semplici e non più risolubili [unauflösliche] di fondamenti reali, i cui rapporti con le conseguenze non possono più essere chiariti» (KgS II, 204). 24 Contro la possibilità di conoscere forze di sostanze spirituali, oltre che nei pas-

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«sentimento morale»), di cui non si possiede il fondamento25. La «legalità» specifica dell’intuizione sensibile, esposta nel 1770, non esclude ancora la possibilità di una conoscenza (non intuitiva) del soprasensibile. Il definitivo abbandono della conoscenza soprasensibile si ha con la posizione della legalità nella sintesi del molteplice empirico come condizione di possibilità dell’oggettività, nei materiali preparatori della Critica. A questo punto la connessione dinamica dei fenomeni diviene il solo metodo per la determinazione della sostanza. Riprendendo la questione a partire da questo punto troviamo nel criticismo una singolare insistenza sulla distinzione tra conoscenza della forza e conoscenza della sostanza. Kant si sforza di sottolineare che la forza definisce il rapporto tra la sostanza e i suoi effetti, e che dunque se conosciamo gli effetti di una sostanza, inferendone l’azione di una forza fondamentale, non per questo conseguiamo una conoscenza della sostanza. Per questa ragione egli si oppone all’idea di una «Grundkraft» dell’animo, che deve restare un semplice ideale di unificazione privo di alcuna realtà26. Queste distinzioni affondavano nell’abbandono di una metafisica della sostanza, la cui pretesa teoretica comportava l’esito del determinismo, e che come abbiamo visto Kant inizialmente ricalcò consesi dell’operetta esaminati nel § 2.3, Kant si pronuncia molto chiaramente nella lettera a Mendelssohn dell’8 aprile 1766, KgS X, 72, dove ritorna anche sul suo «tentativo di analogia tra l’effettivo influsso morale tra le nature spirituali con la gravitazione universale», sottolineando che non si tratta di un’ipotesi filosofica vera e propria. 25 Prendendo spunto ancora una volta dalla trattazione newtoniana del concetto di gravitazione, come abbiamo visto, Kant conclude che il sentimento morale andrebbe concepito senza escogitare un «mondo intelligibile» in cui rappresentare influssi reciproci fra le sostanze spirituali, ma come «un fenomeno di ciò che in noi avviene effettivamente, senza stabilirne le cause» (KgS II, 335). 26 Sull’idea (solo «regolativa») di una Grundkraft dell’animo umano si veda KrV A 649/B 677, A 682/B 710. Oltre alla tradizione “leibniziano-wolffiana”, Kant aveva presente in questi anni la trattazione di J.N. TETENS, Philosophische Versuche über die menschliche Natur und ihre Entwicklung, Leipzig 1777, vol. I, XI, pp. 730-766, che accoglieva e sviluppava sul piano empirico l’idea di una forza fondamentale. Nel complesso, dunque, la negazione di una forza fondamentale oppone Kant, negli anni del criticismo, sia a pensatori come Lambert e Tetens, che sviluppavano su questo punto le idee della psicologia empirica wolffiana, sia a metafisici più tradizionali come Eberhard, sia infine ai suoi stessi seguaci come Reinhold.

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guentemente. Su questo aspetto, tuttavia, Kant fu spinto a tornare nel 1788 per rigettare l’identificazione di spinozismo e criticismo posta da Jacobi nel celebre libro sulla dottrina di Spinoza del 1785. Il chiarimento compare in nota al passo su forze e facoltà fondamentali citato in precedenza del saggio Über den Gebrauch teleologischer Prinzipien (KgS VIII, 181): Per l’unità della sostanza molti hanno ritenuto di dover ammettere un’unica forza fondamentale, ed hanno persino pensato che per conoscerla fosse sufficiente raggruppare sotto un t i t o l o c o m u n e forze fondamentali che sono diverse; ad esempio, la forza fondamentale unica dell’anima sarebbe la facoltà di rappresentarsi il mondo; proprio come se dicessi: la forza fondamentale unica della materia è la forza motrice, perché repulsione e attrazione stanno entrambe sotto il concetto comune di movimento. Quel che si chiede però di sapere è se esse a loro volta possono essere d e r i v a t e [abgeleitet] da questo, il che è impossibile. Questo perché i concetti s u b o r d i n a t i non possono esser mai derivati, relativamente a ciò che hanno di differente, da quelli s u p e r i o r i; e per quanto riguarda l’unità della sostanza, che già nel suo concetto sembra implicare l’unità della forza fondamentale, quest’illusione poggia su un’errata definizione della f o r z a. Questa, infatti, non è ciò che contiene il fondamento della realtà degli accidenti (questa è la sostanza), ma è semplicemente il r a p p o r t o della sostanza con gli accidenti, n e l l a m i s u r a i n c u i essa contiene il fondamento della loro realtà [Wirklichkeit]. Ma si possono benissimo attribuire alla sostanza diversi rapporti (senza pregiudizio della sua unità).

Ricordiamo che, per quanto riguarda la sostanza fenomenica, la conoscenza della forza motrice coincide con una conoscenza dell’oggetto stesso, in quanto «condizione di possibilità» della forza stessa (KU § 88, KgS V, 483). Il ragionamento kantiano si riferisce dunque alla posizione ulteriore di un fondamento intelligibile. Se non si deve prendere questo intervento come una sottigliezza escogitata a fini polemici, ma come espressione autentica del pensiero kantiano, occorre domandarsi cosa significasse la distinzione tra il nesso di inerenza tra una sostanza inconoscibile e i suoi accidenti, e il nesso dinamico mediante cui essa diviene empiricamente conoscibile. Sappiamo infatti che Kant ha abbandonato ogni de289

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terminabilità positiva di una sostanza intelligibile. Un chiarimento su questo punto ci permetterà di approfondire ulteriormente la complessa e originale posizione assunta da Kant rispetto al concetto fisico di forza. In primo luogo, per valutare la tesi kantiana sul nesso dinamico, bisogna considerare le sue riflessioni nel contesto di un particolare dibattito sul concetto di causa: non si tratta della questione della validità del nesso tra causa ed effetto, come quella posta da Hume, ma di quella della inconoscibilità del fondamento ultimo della causa in una sostanza, che Kant ricava dalla definizione stessa della forza. Riguardo a questo tema si potrebbe credere dunque che Kant riprendesse a suo modo un topos empiristico, che era diffusissimo nel pensiero europeo dell’epoca27. In effetti la concezione di una sostanza inconoscibile ma distinta dai suoi effetti è molto prossima a quella posta da Locke nella sua celebre trattazione: proprio una tale assimilazione alla tesi lockeana, per esempio, costituirà il nocciolo della critica di Hegel all’“intellettualismo” del concetto kantiano di forza28. Si può mostrare, però, che le posizioni empiristiche non potevano raggiungere l’obiettivo filosofico di Kant. Nell’Essay on Human Understanding troviamo una discussione controversa e influente dell’idea di forza, che poi diverrà oggetto dell’attenzione di quasi tutti i filosofi naturali europei. Nel capitolo Of Power Locke discute il concetto di «poteri attivi» della materia, che devono essere ammessi accanto a quelli meramente passivi per cui la materia stessa riceve il movimento29. Locke, che pu27 Si veda l’ampia rassegna in TONELLI, Die Anfänge von Kants Kritik der Kausalbeziehungen und ihre Voraussetzungen im 18. Jahrhundert, «Kant-Studien», 57 (1966), pp. 417-456, che mostra come il tema dell’inconoscibilità delle cause fosse ben presente nelle tradizioni cartesiana, newtoniana e lockeana. 28 Una prima sistemazione di questa concezione, che Hegel sviluppa nei suoi primi scritti critici, si trova nel capitolo Kraft und Verstand, Erscheinung und übersinnliche Welt della Phänomenologie des Geistes (1807), in HEGEL, Gesammelte Werke, vol. 9, pp. 82-102. 29 J. LOCKE, An Essay concerning Human Understanding, London 1690 II, XXI, 12; ed. P.H. Nidditsch (basata su 17004), Oxford 1975, pp. 233-234. Locke sembra riferirsi ai concetti newtoniani di vis activa e vis inertiae.

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re altrove sostiene una concezione corpuscolare della materia30, afferma ora che l’idea di un’attività dei corpi ci è nota solo oscuramente considerando i movimenti, mentre deriva in realtà dalla percezione della volontà in noi31. In entrambi i casi, comunque, la conoscenza umana si limita a percepire delle idee semplici: «ogni volta che la mente cerca di guardare oltre quelle idee originarie che riceviamo dalla sensazione o dalla riflessione, e cerca di penetrare nelle loro cause e nel modo della loro produzione, troviamo che essa non giunge a scoprire altro se non la propria miopia»32. La stessa limitazione riguarda la conoscenza dei corpi e quella della mente: si conosce l’azione, ma non si può conoscere la sostanza. In questo senso i «poteri» dei corpi e quelli della mente, essendo entrambi conosciuti soltanto mediante i loro fenomeni, sono ugualmente incomprensibili33. Questa limitazione delle conoscenze, commenta Locke, non costituisce una mancanza significativa: l’uomo conosce quanto basta alla sua sopravvivenza e alla sua determinazione morale34. Il momento scettico della filosofia è mediato da considerazioni di tipo teleologico e morale, come accadrà anche nella coda dei Träume eines Geistersehers. 30 Nel corso dell’analisi dell’idea di sostanza, per esempio, Locke afferma a un certo punto che, se solo i sensi fossero più acuti, si potrebbero cogliere le «particelle minute dei corpi e la reale costituzione da cui dipendono le loro qualità sensibili», ottenendone così «idee del tutto diverse»: il microscopio, in altre parole, permette di accedere alla struttura delle cose (Ivi, II, XXIII, § 11, ed. cit. pp. 301-302). Il fatto che questa struttura sfugga, insomma, è questione di grado, non di principio. L’aspetto controverso risiede in ciò: nella sua gnoseologia empirista le idee vengono considerate simulacri delle modificazioni della materia; ma se queste ultime, considerate proprietà primarie, sono note soltanto mediante le loro attività, la percezione di questa attività non giustifica la considerazione delle qualità primarie, come estensione e impenetrabilità, quali modelli delle idee. Meccanicismo (ispirato da Descartes, ma soprattutto da Boyle) e fenomenismo, insomma, si sovrappongono in modo irrisolto. Il problema, del resto, riguardava altrettanto la fisica di Newton, che almeno però non scrisse un trattato sulla conoscenza umana. Sulla classificazione delle qualità dei corpi in primarie e secondarie si veda ivi, II, 8, § 23, ed. cit. pp. 140-141. 31 Ivi, II, XXI, §4, ed. cit. pp. 234-236; II, XXIII, § 23, p. 308. 32 Ivi, II, XXIII, § 28, pp. 311-312. 33 Ivi, II, XIII, § 19, p. 175: «Della sostanza non sappiamo in alcun modo che cosa sia, ma abbiamo solo un’idea confusa ed oscura di ciò che fa». Cf. II, XXIII, §§ 1ss. 34 Ivi, II, XXIII, § 12, p. 302.

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Leibniz aveva visto in queste tesi una contrapposizione ideale al proprio progetto di riabilitazione filosofica della sostanza. Commentando la trattazione lockiana del rapporto tra potere e sostanza, nei Nouveaux Essais, egli aveva denunciato l’astrattezza della sostanza isolata da Locke, cogliendo l’occasione per difendere programmaticamente la propria idea di sostanza: Distinguendo due cose nella sostanza: gli attributi o predicati, e il soggetto comune a questi predicati, non c’è da stupirsi se non si possa pensar nulla di particolare in questo soggetto. Non può essere altrimenti che così, dal momento che si sono tolti via tutti gli attributi che potevano essere pensati in qualche cosa di particolare. Domandare in questo p u r o s o g g e t t o i n g e n e r a l e qualcosa di più di ciò che è necessario a intendere che esso è la cosa stessa (per esempio, che capisce e vuole, e immagina e ragiona) è domandare l’impossibile, e contraddire alla supposizione che si è fatto con l’astrarre e il concepire separatamente il soggetto e le sue qualità o accidenti [...]. Perciò questa considerazione della sostanza, per sottile che possa sembrare, non è così sterile e vuota, come si crede. Ne procedono molteplici proposizioni fra le più importanti in filosofia, capaci anzi di dare a questa un aspetto nuovo35.

Leibniz sostiene dunque una distinzione solo nominale tra attributi e sostanza, in nome della concretezza fenomenologica che domina la sua metafisica. La stessa indistinzione reale tra sostanza e attributi, tuttavia, deve condurre per Kant al determinismo, perciò il Kant critico, formulando la tesi di un inevitabile spinozismo di ogni filosofia che non distingua la totalità dei predicati dalla sostanza esistente, assimilava ad essa anche quella leibniziana e in genere ogni «realismo trascendentale». Ma non per questo Kant poteva trovare nell’idea «oscura e confusa» di sostanza di Locke una verifica della propria concezione dell’incondizionato. La concezione critica del nesso dinamico proviene piuttosto da un’interpretazione non empiristica del concetto newtoniano di forza, le cui tesi avevano agito sulla genesi dello stesso Essay lockeano36. Il 35 LEIBNIZ, 36 Sullo

Nouveaux essais, II, XXIII, §2; A VI, 6, p. 218. «active power» si veda per es. NEWTON, Opticks, p. 397. Sul rapporto tra i

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pensiero di Locke poteva infatti essere sviluppato in modi diversi, alcuni dei quali ancora esposti alla possibilità di una speculazione ipotetica sul fondamento dell’azione fisica: lo stesso Locke aveva avanzato l’ipotesi di una miracolosa inerenza alla materia di proprietà come la gravità e lo stesso pensiero, che rendeva possibile anche un esito materialistico; ma queste possibilità, per Kant, dovevano cadere37. Un caso esemplare che Kant teneva certamente presente era il Discours sur les différentes figures des astres di Maupertuis, la prima opera a presentare sul continente un ponderato confronto tra fisica cartesiana e newtoniana, in cui la questione della gravitazione riceveva una influente sistemazione fenomenistica e scettica. Nel contesto del confronto tra newtonianesimo e cartesianesimo Maupertuis invoca Locke – ma un Locke depurato del dogmatismo meccanicistico latente nell’originale – a difesa del concetto che più di tutti, tra quelli della fisica newtoniana, destava scandalo presso i pensatori continentali. Dopo aver descritto l’idea meccanicista di comunicazione del movimento, si sofferma dunque sul fenomeno dell’attrazione tra i corpi, per poi commentare: Mi lusingo che nessuno mi fermerà qui, per dirmi che questa proprietà dei corpi di pesare gli uni verso gli altri sia meno concepibile di quella che ognuno vi riconosce [la comunicazione meccanica a contatto]. Il modo in cui le proprietà risiedono in un soggetto è sempre inconcepibile per noi. Il popolo non è affatto stupito quando vede un corpo in movimento comunicare questo movimento a degli altri corpi; l’abitudine che ha di vedere questo fenomeno gli impedisce di percepirvi l’aspetto meraviglioso: ma i filosofi non avranno motivo di credere che la forza impulsiva sia più concepibile dell’attrattiva. Che cos’è questa forza impulsiva? Come risiede nei corconcetti dei due autori si veda il classico articolo di P.M. HEIMANN-J.E. MC GUIRE, Newtonian Forces and Lockean Powers, in «Historical Studies in the Physical Sciences», 3 (1971), pp. 233-306. 37 Sull’ipotesi di una compatibilità tra le idee di materia e pensiero si veda LOCKE, Essay, IV, III, 6. Si noti che il rischio del materialismo e del socinianesimo era già uno dei punti fondamentali della critica di Leibniz a Locke. Su questo punto di veda N. JOLLEY, Leibniz and Locke: A Study of the New Essays on Human Understanding, Oxford 1984.

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pi? Chi avrebbe potuto indovinare che vi risiedesse, prima di aver visto i corpi che si urtano? Il risiedere delle altre proprietà nei corpi non è affatto più chiaro. Come vengono a unirsi l’impenetrabilità e le altre proprietà all’estensione? Per noi questi saranno sempre dei misteri38.

Maupertuis presenta questo come l’autentico pensiero di Newton: parlando dell’attrazione, Newton «ha avvertito spesso che egli ha impiegato questo termine per designare un fatto, non già una causa»39. Con questa affermazione Maupertuis prende posizione nel dibattito sulla originarietà dell’attrazione, che come abbiamo visto Kant conosceva bene, conferendo ad esso una curvatura originale. Egli concepisce le idee semplici del fenomenismo in un senso rigorosamente cartesiano: ne risulta che, mentre per Locke l’idea del potere può ancora riservare qualcosa di ignoto, essa è stata risolta per Maupertuis nei suoi elementi semplici, e perciò contiene tutto ciò che ci si può aspettare di sapere sulla natura dell’azione. Ma la diffusione dell’empirismo lockeano contribuì a mantenere aperta la questione, almeno fino ai tempi di Kant, come è particolarmente evidente nel caso di Voltaire, che pure dovette la sua “conversione” newtoniana al magistero dello stesso Maupertuis. Voltaire infatti, nella sua propaganda a favore del concetto di gravitazione, riprendeva apparentemente il ragionamento di Maupertuis, ma non deve sfuggire che egli, nelle Lettres philosophiques, riaprisse l’ipotesi che la gravitazione fosse una «qualità inerente alla materia»: non era, questa, un’apertura al materialismo?40 Abbiamo già ricordato la complessità del newtonianismo sette38 MAUPERTUIS, Discours sur les différentes figures des astres où l’on essaye d’expliquer les principaux phénomenes du ciel, Paris 17422 (1732), rist. in ID., Oeuvres, I, p. 98. Kant cita quest’opera in diversi luoghi delle sue opere degli anni ’50 e ’60 (cf. KgS I, 232, 254-5; II, 141). Del saggio di Maupertuis si trova una traduzione tedesca nella biblioteca di Kant: Versuch von der Bildung der Körper, Leipzig 1761 (WARDA, Immanuel Kants Bücher, p. 29). 39 MAUPERTUIS, Discours, p. 90. 40 Si legga il seguente passo delle Lettres philosophiques in cui Voltaire faceva replicare Newton ai cartesiani, critici del concetto di attrazione gravitazionale, e sostenitori della maggiore intelligibilità dell’«impulso»: «Anzitutto, voi non capite il termine “impulso” meglio di quello di “attrazione” [...] mi servo del termine “attrazione”

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centesco, di cui questo episodio costituisce un esempio. Essa dipendeva originariamente dalle oscillazioni dello stesso Newton sul fondamento della gravitazione: meccanico, o immateriale, o ancora quello «spirito sottilissimo», («elettrico ed elastico», secondo parole poi espunte dal testo pubblicato dello Scolio generale), che era qualcosa di intermedio tra i due. Le vicende redazionali degli interventi di Newton testimoniano del vero e proprio imbarazzo teorico in cui il grande filosofo si venne a trovare per spiegare al mondo, e a se stesso, il proprio concetto di gravitazione. Questa vaghezza sui fondamenti della gravità produsse, più che dei veri e propri partiti, soprattutto una grande varietà di soluzioni personali a proposito dell’attività della materia. In generale, tuttavia, sarà utile distinguere le seguenti posizioni, tutte ben note a Kant: meccanicista (Euler), secondo cui il fondamento della gravitazione è l’impulso meccanico, basato a sua volta sull’impenetrabilità essenziale ai corpi, come dati originari; empirista (Locke), secondo cui la natura della sostanza che sta a fondamento della materia è ignota, ma potrebbe rendersi più distinta con il progresso delle osservazioni – perciò essa potrebbe essere attiva, e finanche vivente; radicalmente fenomenista (come quella suggerita da Maupertuis nello scritto citato), in cui l’ignoranza sul fondamento è propriamente metafisica e insuperabile, e si danno allora varie ipotesi sulla sua natura, tra le quali è forse vano pretendere di decidersi; essenzialista, tipica di quei seguaci di Newton (come Clarke e Cotes) che attribuivano la gravitazione alla materia, salvo poi lasciar dipendere questa proprietà dall’arbitrio di Dio41. Infine, in base alle solo per designare un effetto da me scoperto in natura, effetto certo e indubitabile di un principio ignoto, qualità inerente alla materia di cui altri, più abili di me, scopriranno, se mai potranno, la causa» − VOLTAIRE, Lettres philosophiques (1734), n. XV; ed. G. Lanson, Paris 19243, vol. II, p. 27. Ancora più chiaramente si esprime negli Eléments de la philosophie de Newton (1738), II, IX, in Oeuvres complètes de Voltaire, Oxford 1968ss., vol. 15, pp. 344-345, dove viene citata proprio l’opera di Maupertuis. Le tesi di Maupertuis vennero riprese negli stessi anni anche da M.me du Châtelet: stavolta si produsse un compromesso tra idee newtoniane e leibniziane, a conferma della complessità dei casi noti a Kant negli anni della sua formazione (le Institutions physiques vengono citate da Kant nei Gedanken, § 45). 41 Una concezione della gravità come proprietà essenziale che come tale non è ulteriormente analizzabile, dove terminologia analitica cartesiana e newtoniana si tro-

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aperture empiristiche e essenzialistiche sulle proprietà non meccaniche della materia, si fecero avanti nel XVIII secolo i nuovi materialisti, dal più prudente Diderot ai vari e più radicali La Mettrie, d’Holbach, Helvetius. Cerchiamo di delineare la concezione kantiana del nesso dinamico su questo sfondo, in primo luogo distinguendola dal materialismo e dalla metafisica dogmatica. Kant fu sempre fermo nel rifiuto del materialismo, che gli apparve sempre come una specie di metafisica dogmatica inconseguente. Come è noto, egli aveva adottato inizialmente il punto di vista dei newtoniani inglesi, innestando sulle lacune della teoria newtoniana le proprie speculazioni sul fondamento noumenico dell’influsso42. Proprio in campo newtoniano aveva potuto trovare il primo esempio di una distinzione tra inerenza e nesso dinamico, che era stata avanzata Clarke per respingere l’accusa leibniziana di materialismo: questi aveva precisato che Newton non ammetteva un nesso di inerenza tra spazio e Dio, ma piuttosto di causalità; si poteva considerare anche la gravitazione tra le capacità che Dio aveva disposto con il suo arbitrio nella materia43. Ma sia newtoniani sia leibniziani concordavano sulla possibilità di determinare positivamente una causalità trascendente, e proprio questo rese possibile la rielaborazione kantiana di queste idee di parte newtoniana nella sua ricerca di una vano già fuse, è quella presentata nella Prefazione dell’editore alla seconda edizione dei Principia di Newton. R. Cotes scrive: «Si considererà forse la gravità una causa occulta e la si eliminerà dalla filosofia naturale per la ragione che la causa della gravità è qualcosa di occulto e non ancora provato? Stiano attenti coloro che lo credono, poiché credono in un’assurdità tale da poter rovesciare i fondamenti di tutta la filosofia. Perché le cause procedono naturalmente in una catena continua, dal composto al più semplice; quando si raggiunge la causa più semplice, non si sarà in grado di procedere oltre». NEWTON, Principia, Prefazione dell’editore alla seconda edizione, p. 27. Nello stesso testo si legge che Newton «dimostrò» la legge di gravitazione a partire dai fenomeni. 42 Che la gravitazione dipendesse dal «sostegno immediato di Dio» era presentata nella Nova dilucidatio come la tesi di «coloro che si proclamano seguaci di Newton» (KgS II, 415). 43 Si vedano, di Clarke, secondo scritto, § 12; quarto scritto, § 32; quinto scritto §§ 36-48 (restava peraltro il problema dello spazio come «proprietà», §§ 8-10, che comportava comunque la sua inerenza a una sostanza, come un’anima del mondo).

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cosmologia armonicistica. Nel criticismo, invece, la distinzione tra nesso di inerenza e nesso dinamico rimarca proprio il rigetto di ogni determinabilità metafisica della sostanza intelligibile, sia nel senso leibniziano sia in quello adombrato da Clarke. Veniamo invece alla posizione sostenuta da Kant negli anni del criticismo: in primo luogo, egli conservò un punto di vista essenzialistico sulla gravità, che nella Germania e in genere nell’Europa continentale, sotto la persistente influenza del meccanicismo, era ancora vivamente discusso44. Ma ormai la sua posizione non è più assimilabile a nessun’altra delle tesi precedenti e, nella nuova cornice teorica, presenta diversi caratteri originali, tutti derivanti dalla sua concezione dell’intuizione pura. a) In primo luogo, Kant sostiene di nuovo che la gravitazione sia un attributo del concetto di materia. Egli sostiene anche di aver sviluppato, con ciò, un presupposto implicito nella fisica di Newton, come mostrerebbe la proporzionalità tra forza di gravità e quantità di materia. Tuttavia, il modo in cui ricava la gravità dalla materia non si può estrapolare dal complesso apparato sistematico della fisica pura, con la sua rigorosa separazione metodologica di sensazione, intuizione pura e concetto, e in particolare dipende dall’esame dell’impenetrabilità nell’intuizione pura. Si tratta dunque di una attribuzione che avviene sinteticamente e a priori, per cui Kant afferma che la gravità appartiene al concetto di materia, pur non appartenendo alla sua essenza logica: in altre parole, si può pensare una materia non grave, ma, esaminando la possibilità dell’impenetrabilità, l’ipotesi risulta esclusa45. Tutto questo ragionamento, infine, è inserito nella cornice fenomenistica entro cui diviene possibile parlare di sintesi a priori: in tal senso Kant mantiene le distanze da ogni forma di materialismo. b) Kant conserva anche la tesi di una limitatezza intrinseca della conoscenza dinamica. Ma nel farlo, egli prende le distanze tanto da empiristi come Locke, quanto da fenomenisti radicali come Maupertuis. In primo luogo, infatti, l’incomprensibilità della forza 44 Cf.

infra § 8.1.B. Teorema 5, Nota (MA 509-510). Torneremo in dettaglio su questa tesi nel § 8.2. 45 Dinamica,

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fondamentale non deriva da una lacuna di grado, o comunque colmabile, nelle nostre conoscenze, quale era quella che, dal punto di vista di Locke, permetteva di congiungere il motivo scettico newtoniano con una metafisica meccanicista, e con una metafisica in genere. Se le cose stessero così la ragione sarebbe disarmata di fronte a una dimensione nascosta dei fenomeni che potrebbe possedere ogni sorta di aspetto, e incapace di prevenire l’illegittimo impiego di speculazioni come quelle su nuove forze prive di attestazione empirica (KrV A 222/B 269). Proprio per il fatto di avanzare ipotesi come quella della materia pensante l’empirismo di Locke, secondo i giudizio della Critica, «spalancò le porte all’esaltazione fantastica»46. Kant rifiuta anche la tesi di una perfetta analizzabilità dell’idea complessa di forza, e dunque di una limitazione gnoseologica dovuta alla semplice datità e irresolubilità dei contenuti sensibili (sostenuta per esempio da Maupertuis, ma anche da un empirista più rigoroso come Hume). Una simile posizione, infatti, non chiarisce adeguatamente il rapporto intrinseco tra ragione e esperienza che si esprime nella teoria delle forze fondamentali. Ogni posizione di oggettività dipende infatti dalle condizioni della sensibilità, ma è dunque anche sottoposta alla contingenza di queste ultime, che Kant ha ricavato dalla rinuncia ad una loro risoluzione logico-metafisica. Perciò, a differenza di quanto conclude una teoria delle idee posta su basi sensistiche, la contingenza della sensibilità impedisce di affermare che l’analisi dell’idea di forza si possa concludere esaminando semplicemente le sue componenti sensibili e logiche: piuttosto è l’intelletto umano a non poter «comprendere» la possibilità della forza, e perciò la deve considerare come «fondamentale» (se non si ponesse questo problema, infatti, scomparirebbe anche la questione di una comprensione ulteriore, e si darebbe la possibilità di una deduzione degli effetti dal concetto di 46 Locke non elaborò un criterio adeguato sull’origine dei concetti, perciò egli (KrV B 128) «spalancò decisamente le porte all’esaltazione fantastica [Schwärmerei], perché la ragione, una volta che si sente legittimata, non si lascia più limitare da generiche raccomandazioni alla moderatezza». Sulla inconseguenza di Locke, che si sarebbe spinto ben oltre i suoi principi empiristici, Kant ritorna in A 854/B 882.

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sostanza). Il criterio estetico della validità oggettiva dei concetti, diversamente che in Newton e nello stesso fenomenismo sensistico di Maupertuis, permette dunque nel criticismo l’esclusione a priori di ogni ipotesi metafisica insieme alla determinazione di una limitatezza della conoscenza. c) In terzo luogo, questa delimitazione del concetto dinamico pone immediatamente la possibilità di pensare un fondamento logico inconoscibile. Alla luce dello stesso criterio di possibilità delle ipotesi, tuttavia, questo si configura come il concetto problematico di un «fondamento soprasensibile» dei fenomeni, reso logicamente possibile semplicemente dalla contingenza delle forme dell’intuizione. L’inconoscibile diviene il soprasensibile, che dal punto di vita teoretico, resta del tutto indeterminato come oggetto e come tale non può essere considerato oggettivamente come sostanza47. Ritroviamo così la tesi kantiana sul nesso dinamico: la forza può esprimere proprietà necessarie nel fenomeno (le forze fondamentali attrattiva e repulsiva), grazie al fatto che si possono indagare sinteticamente nell’intuizione pura le condizioni del riempimento nello spazio; ma queste proprietà, proprio in quanto ricavate sinteticamente, sono eterogenee rispetto all’essenza logica della materia; questa stessa eterogeneità, infine, è propria in genere al nesso tra causa ed effetto, e, estesa alla considerazione complessiva del mondo sensibile nella sua intrinseca contingenza, permette di pensarne un fondamento senza contraddizione; a questo scopo, non ci resta che il concetto puro (ma empiricamente vuoto) di sostanza. Come si vede, dunque, la radicalità e l’originalità dell’Estetica trascendentale segna tutto lo sviluppo del pensiero kantiano e rende inopportuno parlare di una “ripresa” kantiana da questa o quella fonte: si tratta piuttosto di un complessivo ripensamento. A maggior ragione della metafisica precritica della gravitazione, anche la nozione di «forza fondamentale» degli anni ’80, in quanto definita 47 Questa accezione singolare del «soprasensibile» viene affermata senza ambiguità soltanto nella Kritik der Urteilskraft. È probabile che, scrivendo la prima Critica, Kant conservasse una più marcata impronta delle vedute monadologiche abbandonate nel corso del lavoro. Che «il soprasensibile» sia «per noi l’inconoscibile» si legge in Fortschritte der Metaphysik, KgS XX, 311.

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entro una complessa cornice teorica – e a prescindere dai vecchi e nuovi contesti polemici – costituisce un risultato fondamentalmente originale che non si può ridurre alla ripetizione di un’idea formulata al di fuori di quella cornice. Come si comincia a vedere da questo caso del fondamento della forza, l’interpretazione kantiana di Newton fu ispirata da diverse mediazioni ma dipese essenzialmente, nel criticismo, da premesse e problemi propri del pensiero kantiano, che risultano in genere in una lettura non empiristica dei concetti dinamici. Kant non può accogliere quell’elemento di pura speculazione che nel newtonianismo originario coesisteva con il metodo sperimentale: egli cerca dunque una sintesi metodologica in cui la metafisica divenga elemento della fisica, che oltrepassa le espressioni storiche del newtonianismo, trovando in queste semmai un modello analogico per lo sviluppo della gnoseologia. Questo vale tanto per il tentativo di considerare la legge di gravitazione come una legge necessaria della natura, quanto per la ricezione del tema del fondamento. Ma questa lettura della fisica newtoniana trova la sua massima espressione nelle vere e proprie analogie poste da Kant tra il metodo di questa fisica e la stessa filosofia, che dobbiamo ora esaminare.

4.2. Analogie tra fisica newtoniana e filosofia Un aspetto poco sottolineato del costante riferimento di Kant alla fisica newtoniana consiste nel fatto che, pur conoscendo e facendo uso delle opere di tanti seguaci e fisici più o meno fedeli all’originale, egli ritenesse opportuno sempre ritornare ai testi di Newton. Questa circostanza, che avremo modo di verificare sul piano fisico studiando i Principi metafisici, è particolarmente evidente se si considera il significato metodologico che Kant fin dall’inizio ascrive alla fisica newtoniana. Abbiamo visto (pp. 172-173) che Newton viene considerato da Kant tra i pochi veri e propri innovatori della scienza ed è considerato altrettanto «filosofo» che fisico. Più ancora che nell’adesione alla fisica newtoniana, che a metà del XVIII secolo non costituiva di per sé un fatto eccezionale, in questa idealizzazione di un Newton filosofo puro si deve riconoscere 300

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l’aspetto più originale dell’interpretazione kantiana. L’assimilazione filosofica della fisica newtoniana comporta infatti una ricaduta sullo stesso metodo della metafisica, finanche al di là della filosofia della natura, e il metodo di Newton viene impiegato da Kant, in almeno tre occasioni, come un analogo di quello della filosofia. Queste tre analogie, funzionali in genere a fornire intuitività e dignità alle nuove idee kantiane in metafisica, sorgono in contesti e occasioni molto diversi, e dunque converrà tenerle distinte ed esaminarne le diverse implicazioni. La prima compare nella Untersuchung über die Deutlichkeit e consiste in un paragone tra metodo analitico newtoniano e il nuovo metodo della metafisica. Kant scrive che «il vero metodo metafisico è in fondo uguale a quello introdotto da N e w t o n nelle scienze naturali». Quest’ultimo viene così descritto (KgS II, 286): Con esperienze sicure, e nel caso anche con l’ausilio della geometria, si devono ricercare le regole secondo le quali si svolgono certi fenomeni della natura. Ed anche se non se ne comprende il fondamento primo nei corpi, è però certo che la loro attività si svolge secondo questa legge, e i complessi accadimenti della natura si spiegano quando si mostra distintamente in che modo essi siano contenuti in queste regole ben note.

Il passo si riferisce all’esposizione del proprio metodo che Newton forniva in due luoghi celeberrimi. Il primo è il penultimo capoverso dei Principia mathematica: Fin qui ho spiegato i fenomeni celesti e quelli del nostro mare mediante la forza di gravità, ma non ho ancora assegnato una causa alla gravità. Certamente, questa forza sorge da qualche causa che penetra fino ai centri del sole e dei pianeti senza alcuna diminuzione del suo potere di azione, e che agisce non in proporzione alla quantità delle superfici delle particelle su cui agisce (come fanno le cause meccaniche) ma in proporzione alla quantità di materia solida, e la cui azione si estende ovunque a distanze immense, diminuendo sempre come i quadrati delle distanze [...]. Non sono stato ancora in grado di dedurre dai fenomeni la ragione di queste proprietà della gravità, e io non fingo ipotesi. Perché qualsiasi cosa non sia dedotta dai fenomeni si deve chiamare un’ipotesi; e le ipotesi, siano esse

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metafisiche o fisiche, o basate su qualità occulte, o meccaniche, non hanno posto nella filosofia sperimentale. In questa filosofia sperimentale, le proposizioni sono dedotte dai fenomeni e vengono rese generali per induzione. L’impenetrabilità, la mobilità, e l’impeto dei corpi, e le leggi del movimento e la legge di gravità sono state trovate con questo metodo. Ed è sufficiente che la gravità esista veramente e agisca secondo la legge che abbiamo esposto e che basti a spiegare tutti i movimenti dei corpi celesti e del nostro mare48.

Il secondo è tratto dalla Query 31 dell’Ottica. Dopo aver argomentato che la materia consiste di «particelle solide, massive, dure, impenetrabili, mobili» create da Dio, Newton scrive: Mi pare inoltre che queste particelle non hanno solo la vis inertiae, accompagnata da quelle leggi passive del movimento che risultano naturalmente da quella forza, ma anche che siano mosse da certi principi attivi, come quello della gravità, e quello che causa la fermentazione, e la coesione dei corpi. Io considero questi principi non come qualità occulte, che si supponga risultino dalle forme specifiche delle cose, ma come leggi generali della natura, mediante cui le cose stesse sono formate; la loro verità ci appare mediante i fenomeni, sebbene le loro cause non siano ancora scoperte. Perché questi fenomeni sono qualità manifeste, e solo le loro cause sono occulte. E gli Aristotelici diedero il nome di qualità occulte non a qualità manifeste, ma solo a quelle qualità che essi ritenevano giacere nascoste nei corpi, ed essere le cause sconosciute degli effetti manifesti: tali sarebbero le cause della gravità, e delle attrazioni magnetica ed elettrica, e delle fermentazioni, qualora noi dovessimo supporre che queste forze o azioni sorgano da qualità a noi sconosciute, e incapaci di essere scoperte e rese manifeste. Tali qualità occulte arrestano il miglioramento della filosofia naturale, e perciò negli ultimi anni sono state rigettate. Dirci che ogni specie di cose è dotata di una specifica qualità occulta per cui agisce e produce effetti manifesti, è dirci niente: ma derivare due o tre principi generali del movimento dai fenomeni, e successivamente dirci come le proprietà e le azioni di tutte le cose corporee conseguono da quei principi manifesti, sarebbe un grande passo 48 Principia,

pp. 764-765.

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avanti nella filosofia, sebbene le cause di quei principi non fossero ancora scoperte49.

L’analogia istituita da Kant con il metodo metafisico è la seguente: Mediante una sicura esperienza interna, cioè mediante una coscienza immediata ed evidente, bisogna ricercare quelle note che sicuramente si trovano nel concetto di una qualche costituzione generale, e quand’anche non si conosca l’essenza intera dell’oggetto, pure ci si potrà servire con sicurezza di quelle note per derivare molte proprietà che appartengono alla cosa.

Negli esempi addotti da Kant, tra cui si trova anche quello del passaggio dall’impenetrabilità alla forza, non viene assegnato un ruolo fondamentale alla geometria, né viene distinta l’origine empirica delle conoscenze da quella pura. Quel che Kant rimprovera ai metafisici dell’epoca è solo di cominciare dai concetti più astratti: bisognerebbe piuttosto muovere da quelli più specifici (per esempio, dal corpo), per ricavare successivamente le determinazioni contenute in essi, anche a costo di non possedere delle conoscenze complete (per esempio, una definizione di sostanza). La lezione del metodo newtoniano è ripresa qui soprattutto nella sostituzione di un sapere dimostrativo fondato su assiomi con un sapere, fondato sul metodo analitico, che risalga da un problema alle condizioni più prossime della sua soluzione: il modo in cui questo rigore viene ottenuto in fisica, al di là di un generico riferimento all’esperienza, non incide sulla natura dei giudizi metafisici. Il primo esempio kantiano è il seguente: il corpo è composto di parti semplici; ma lo spazio è infinitamente divisibile e dunque non si compone di parti semplici; dunque le parti semplici dei corpi o “sostanze” (qualunque cosa siano) devono occupare uno spazio; ma occupare uno spazio (qualunque cosa sia lo spazio) significa opporre resistenza alla penetrazione di qualcos’altro; si ricava così il concetto di una forza ecc. In questi passaggi, per come vengono qui 49 Opticks,

p. 401.

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concepiti, non si fa altro che esplicitare l’essenza logica dei concetti. Il Kant critico li chiamerebbe giudizi analitici: «Il punto principale che mi preme è questo: che in metafisica si deve in ogni caso procedere analiticamente, ché suo compito è appunto quello di sciogliere [auflösen] le conoscenze confuse»50. Nell’istituzione della sua analogia il termine ‘analitico’ poteva costituire per Kant addirittura la fonte di un equivoco. Newton aveva definito «analitico» il metodo descritto nel precedente passo dell’Opticks, basando questa definizione, a sua volta, su un’analogia con il metodo analitico in matematica: Così come in matematica, anche in filosofia naturale l’indagine delle cose difficili mediante il metodo dell’analisi dovrebbe precedere il metodo di composizione. Questa analisi consiste nel fare esperimenti e osservazioni, e nel trarre da esse conclusioni generali per induzione, e non ammettere obiezioni contro le conclusioni, tranne quelle che sono ricavate da esperimenti, o da altre verità certe51.

Queste parole newtoniane riecheggiano vistosamente nel commento kantiano ai suoi esempi di analisi concettuali: ai metafisici wolffiani Kant rimprovera precisamente di procedere «per composizione» – muovendo da concetti come possibilità, esistenza e causalità – e di farlo per la smania di imitare il metodo assiomatico della matematica. La fisica, allora, serve come modello scientifico alternativo alla matematica assiomatico-deduttiva, prediletta da Wolff, per invocare le ragioni dell’esperienza e del «buon senso». Ma l’esperienza è ancora quella «interna»52. 50 Ivi,

p. 233. Opticks, p. 404. Per il metodo analitico matematico cui qui si riferisce, Newton teneva presente certamente il modello antico dell’analisi come metodo di riduzione dei problemi a conoscenze note (metodo da egli conosciuto direttamente, per es. in base alla lettura delle Collectiones di Pappo). Sulla questione del rapporto tra metodo analitico e sintetico nella matematica newtoniana si veda N. GUICCIARDINI, Analysis and synthesis in Newtons’s mathematical work, in COHEN-SMITH (eds.), The Cambridge Companion to Newton, pp. 308-328. Sul metodo analitico si veda C. CELLUCCI, Le ragioni della logica, Roma/Bari 1998, pp. 270-308. 52 Untersuchung, KgS II, 289-290. La polivocità del termine «analisi» nel pensiero tedesco del ’700 viene esaminata nelle sue molte sfaccettature da H.-J. ENGFER, Phi51 NEWTON,

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Il paragone con il metodo newtoniano è dunque fondato su una concezione cartesiana dell’evidenza. Di fatto Kant riprendeva quasi alla lettera la concezione avanzata da Crusius53. È anche possibile che Kant costruisse la sua analogia pensando al milieu intellettuale dei giudici dell’Accademia e proponesse implicitamente una conciliazione cartesiana tra elementi newtoniani e wolffiani (lo scritto ebbe poi una menzione favorevole). In ogni caso la debolezza del paragone dovette farglisi chiara ben presto: nello scritto sulle quantità negative, composto l’anno successivo (1763), egli mette in rilievo la distinzione tra fondamento reale e fondamento logico, che lo rende infondato, e in seguito non lo riprende più come tale. D’altra parte, se si considera l’importanza che la costruzione geometrica possedeva per la stessa monadologia kantiana, le cui tesi compaiono nello scritto a titolo di esempio, bisogna riconoscere che l’inquadramento metodico kantiano non rende piena giustizia all’originalità delle sue idee54. Di questo paragone con il metodo analitico newtoniano si troverà infatti un analogo molti anni dopo, nei Principi metafisici, in cui però alla concezione analitica cartesiana si sostituirà una successione di momento empirico (l’intuizione della materia), momento di analisi concettuale (l’isolamento delle note essenziali del concetto di materia) e momento geometrilosophie als Analysis. Studien zur Entwicklung philosophischer Analysiskonzeptionen unter dem Einfluß mathematischer Methodenmodelle im 17. und frühen 18. Jahrhundert, Stuttgart/Bad Cannstadt 1982. Sull’argomento si veda anche FALKENBURG, Kants Kosmologie, pp. 61-98. Lo slittamento kantiano tra analisi dell’esperienza e analisi dei concetti meritebbe maggiore attenzione. Già Leibniz, riferendosi all’applicazione fisica dell’analisi di Pappo e pensando certamente anche ai Principia di Newton, aveva colto la radicale differenza tra l’analisi geometrica o comunque quel ragionamento analitico che può essere convertito in dimostrazione sintetica, e l’analisi empiricamente fondata dell’astronomia e della fisica, che è esposta alla fallacia secondo cui «il vero può esser ricavato dal falso» (LEIBNIZ, Nouveaux essais, IV, XVII, § 6; A VI, 6, p. 484). 53 Secondo questi la conoscenza intuitiva si fonda su una «sensazione interna del tutto schietta [aufrichtigen] e distinta» (CRUSIUS, Weg zur Gewißheit, § 185, p. 350. Cf. Entwurf, § 16). 54 Del resto un metodo analitico puramente logico-metafisico era diffuso nella filosofia dell’epoca: lo si trova, per esempio, proprio nello scritto di Mendelssohn premiato allo stesso concorso (M. MENDELSSOHN, Abhandlung über die Evidenz in metaphysischen Wissenschaften, Berlin 1764, pp. 20-32; ID., Gesammelte Schriften, Stuttgart/Bad Cannstatt 1972ss., vol. II, pp. 285-297).

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co (l’indagine sulla possibilità della costruzione nell’intuizione pura basata sull’intuizione pura del movimento). Nella nuova sistemazione metodica, più efficace a descrivere il procedimento adottato da Kant fin dagli anni ’50 per dimostrare le forze fondamentali, il nesso soltanto analogico con il metodo newtoniano è ancora più evidente. Qui l’intuizione pura del movimento, posto il concetto empirico di materia, permette di ricavare a priori delle nuove proprietà della materia, così come la descrizione geometrica dei movimenti, poste le osservazioni empiriche, permette in Newton di ricavare la legge di gravità. Naturalmente, in questa analogia viene soppressa la differenza tra valore ipotetico delle leggi newtoniane e certezza apodittica di quelle kantiane. Del metodo newtoniano originale resta piuttosto la caratteristica gnoseologica negativa espressa già negli scritti precritici: la scepsi sulla distinzione dei concetti fondamentali ricavati dai fenomeni, “traduzione” kantiana della tesi newtoniana dell’arbitrarietà di ogni ipotesi sul modo d’agire di una forza come la gravitazione – una caratteristica che, come abbiamo visto, comincia a comparire proprio nelle opere kantiane degli anni ’63 e ’66. Di nuovo, tuttavia, occorre sottolineare che Newton parlava di cause «non ancora» trovate, mentre per Kant, come abbiamo visto, le cause dinamiche sono in linea di principio inattingibili tanto empiricamente quanto razionalmente. Di fatto, comunque, Kant non propose mai l’analogia tra metodo newtoniano e metodo della fisica pura, preferendo concentrarsi, nel periodo del criticismo, sul problema della certezza apodittica posto dall’analogia tra fisica e filosofia teoretica. Il problema della certezza apodittica viene affrontato nella seconda analogia di cui dobbiamo occuparci, che si legge in una nota alla Prefazione ai Principi metafisici. Stavolta viene istituito un paragone tra la filosofia trascendentale e il sistema della gravitazione. L’occasione che portò alla stesura di questa nota fu la recensione appena pubblicata di Johann Schultz alle Institutiones Logicae et metaphysicae di Johann Ulrich, cui Kant reagì piccato. Il punto dolente era costituito dal fatto che il recensore, un seguace di Kant, riconosce a Ulrich – dapprima un sostenitore, poi un critico di Kant – di aver dubitato fondatamente della completezza del sistema della Critica, in particolare della lacunosità della De306

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duzione trascendentale, giungendo fino a concedere la possibilità che quest’ultima presupponga l’armonia prestabilita! Lo scandalo provocò in Kant la seguente risposta tempestiva e fuori contesto: Nel replicare a queste obiezioni mi rivolgo soltanto sul loro punto principale, cioè che s e n z a u n a d e d u z i o n e d e l t u t t o c h i a r a e s o d d i s f a c e n t e d e l l e c a t e g o r i e il sistema della Critica della ragion pura vacillerebbe nei suoi fondamenti. Al contrario io sostengo che per chi sottoscriva (come fa anche il recensore) le mie tesi sulla sensibilità di ogni nostra intuizione e sulla sufficienza della tavola delle categorie, come determinazioni della nostra coscienza tratte dalle funzioni logiche dei giudizi in generale, il sistema della Critica deve comportare una certezza apodittica, poiché è basato sulla proposizione c h e o g n i u s o s p e c u l a tivo della nostra ragione non può mai spingersi o l t r e g l i o g g e t t i d e l l ’ e s p e r i e n z a p o s s i b i l e. Infatti, se si può dimostrare: che le categorie, delle quali la ragione deve servirsi in ogni sua conoscenza, non possono essere impiegate altrimenti che in riferimento a oggetti dell’esperienza (rendendo possibile in questa la sola forma del pensiero), allora la risposta alla domanda su come queste rendano possibile l’esperienza, è sì abbastanza importante allo scopo di c o m p l e t a r e, laddove possibile, questa deduzione, ma in riferimento allo scopo principale del sistema, cioè la determinazione dei limiti della ragione pura, non è affatto n e c e s s a r i a, ma soltanto m e r i t o r i a. Da questo punto di vista, infatti, la deduzione è già condotta s u f f i c i e n t e m e n t e a v a n t i se mostra che le categorie del pensiero non sono altro che semplici forme del giudizio, in quanto vengono applicate a intuizioni (che per noi sono sempre sensibili) e soltanto così acquisiscono oggetti e divengono conoscenze; perché questo già basta a fondare con piena sicurezza tutto il sistema della Critica vera e propria. Allo stesso modo è saldamente fondato il sistema della gravitazione universale di Newton, anche se esso si porta dietro la difficoltà di non saper spiegare come sia possibile l’attrazione a distanza; ma l e d i f f i c o l t à n o n c o s t i t u i s c o n o d u b b i55. 55 MA 474. La recensione di Schultz a J.A.H. ULRICH, Institutiones logicae et metaphysicae, Jena 1785 era stata pubblicata anonima nella “Allgemeine Literatur Zeitung”, Vol. IV, Jena 1785, pp. 297-299. Il testo della recensione è ristampato in K. POLLOK, MA Kommentar, pp. 511-515. Il recensore Schultz, prendendo spunto da Ulrich, aveva sollevato dubbi sulla forza dimostrativa della deduzione delle categorie, osser-

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Sostenendo la necessità della sua deduzione, e difendendola dalle alternative altrettanto inadeguate dell’armonia prestabilita e della «necessità soggettiva» humiana, Kant conclude (MA 476): nessun sistema al mondo può ricavare questa necessità altrimenti che dai principi fondamentali della possibilità del p e n s i e r o s t e s s o, mediante i quali soltanto diviene possibile la conoscenza degli oggetti di cui ci è dato il fenomeno (cioè l’esperienza), e posto che non possa mai venire spiegato adeguatamente come l’esperienza venga resa da essi prima di tutto possibile, resta pure incontestabilmente certo che essa è possibile soltanto mediante questi concetti, e viceversa, che questi concetti non possono avere alcun significato e uso se non in riferimento a oggetti dell’esperienza.

Come si vede l’analogia con la fisica di Newton è di nuovo molto remota; questa volta, inoltre, essa risulta addirittura fuorviante. Il rimando dalla “sufficienza” della Deduzione trascendentale alla modestia epistemologica di Newton, introdotta nello Scolio generale dalle parole «satis est..», sembra indicare un ridimensionamento dell’obiettivo della Critica, che in realtà non ha luogo. Quella che viene qui annunciata e che si troverà nella nuova Deduzione dell’anno successivo è piuttosto una nuova strategia espositiva (fondata sulla teoria del giudizio), in cui è ben scandita una separazione tra la trattazione «essenziale» della validità empirica delle categorie («che» esse si riferiscono a oggetti empirici) e quella del «modo in cui» («come») esse si riferiscono alle intuizioni sensibili, che rimanda alla dottrina dello schematismo e all’Analitica dei Principi. Questa separazione, dunque, non comporta in alcun modo che la prova della validità oggettiva delle categorie sia sufficiente alla filosofia trascendentale (vi si trova «l’inizio di una deduzione»), anzi, la prima parte dell’argomentazione raggiunge solo la subordinazione di intuizioni sensibili in genere alle categorie, non ancora la pievando che le presunte dimostrazioni kantiane sulla validità oggettiva dei principi dell’intelletto si avvolgevano in un circolo vizioso, presupponendo ciò che avrebbero dovuto provare. Schultz accennava dunque alla possibilità che le categorie andassero riferite alle cose in se stesse, menzionando la possibilità di giustificare questo riferimento mediante l’armonia prestabilita. Su questo episodio e la reazione di Kant v. BEISER, The Fate of Reason, pp. 203-208.

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na prova della validità oggettiva: questa ha bisogno di spiegare il «come» del riferimento all’intuizione e – secondo la tesi della Critica – è ben capace di farlo56. Kant chiarì questi punti alcuni anni dopo, replicando a un’ulteriore manifestazione di perplessità di Reinhold e nel farlo rinunciò all’analogia con la fisica della gravitazione, che non poteva evidentemente giovare a un chiarimento57. 56 Cf. KrV § 20, B 144-145, in cui Kant introduce il passaggio dalla deduzione del «che» all’illustrazione del «come» categorie si riferiscono ad oggetti mediante le forme pure dell’intuizione. H.J. DE VLEESCHAUWER ha sostenuto che, nel testo dell’86, sarebbe annunciato il progetto di una una nuova deduzione che rinuncerebbe ad un aspetto di quella dell’81 (L’évolution de la pensée kantienne, Paris 1939, pp. 104-5, 110); viceversa, come Kant scrive esplicitamente (MA 476 nota, KrV B XXXVIII), il contenuto delle due deduzioni non cambia. La distinzione tra i due momenti della deduzione e la presenza di entrambi anche nella deduzione di B sono sostenute – contro De Vleeschauwer – da H.J. PATON, Kant’s Metaphysics of Experience, London 1936, I, pp. 499 e 526ss. e pp. 501-2: «L’argomento si divide in due parti separate, la prima delle quali tratta delle categorie pure [...], la seconda delle categorie schematizzate». Cf. L. SCARAVELLI, Lezioni sulla Critica della ragion pura, in ID., Scritti kantiani, Firenze 1968, pp. 289-90; MATHIEU, L’opus postumum di Kant, pp. 36-43. Piuttosto, rimane un’ambiguità sul concetto del «come», che nella prima edizione della Deduzione viene riferito alla comprensione del fondamento del pensiero stesso, e distinto quale momento «soggettivo» della deduzione da quello «oggettivo» che assicura la validità oggettiva delle categorie (KrV A XVI-XVII), mentre nelle lettere che riguardano la nota dell’86 pare riferirsi alla sintesi figurata, il cui contenuto viene stabilito nei §§ 24-26 di B e che viene compiutamente illustrata nel capitolo sullo schematismo e nell’Analitica dei principi. Se però per momento «soggettivo» della deduzione si intende una indagine sul fondamento intelligibile della sintesi, allora di nuovo non si può affermare che vi sia discontinuità tra le due edizioni della Critica perché la prima indagine era esclusa anche nel 1781. 57 I dubbi sulla coerenza della replica kantiana rispetto alle tesi esposte nella Critica furono espressi da Reinhold, autore in questi anni delle Briefe über die Kantische Philosophie, che uscirono sulla rivista da lui diretta «Teutscher Merkur» (1786-87). In una lettera del 12 ottobre 1787 Reinhold scriveva a Kant (KgS X, 500): «Nella nota al testo della prefazione ai Principi metafisici della scienza della natura viene mostrato molto distintamente che il fondamento principale del Vostro sistema resterebbe saldo anche senza una “compiuta deduzione delle categorie” - Al contrario, nella C. d. r. p., tanto nella prima che nella seconda edizione, nel secondo capitolo dell’Analitica trascendentale, prima sezione, viene affermata e mostrata l’inevitabile necessità di quella deduzione». Kant rispose nel saggio Über den Gebrauch teleologischer Prinzipien, comparso sullo stesso «Teutscher Merkur». Qui chiarisce che con la parte «sufficiente» a fondare la tesi fondamentale del criticismo (secondo cui, servendosi delle sole categorie, senza riferimento all’esperienza, non è possibile nessuna conoscenza) egli

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La differenza tra i due casi appare poi ancora più flagrante se si considera che, in base alle leggi trascendentali, nella fisica pura Kant riterrà di poter «dimostrare» a priori le leggi della meccanica, che Newton – come tutti i filosofi naturali – non osò provare e preferì «postularle, senza cercarne le fonti a priori» (MA 472). È questa forse la ragione per cui Kant, nei Principi metafisici, non ripropone (come nel ’62) un’analogia metodica tra fisica newtoniana e fisica pura, che come abbiamo visto avrebbe potuto essere agevolmente stabilita. La certezza apodittica della Critica, in altre parole, non segue il modello della fisica sperimentale, ma viceversa rende possibile elevare una parte di quest’ultima allo statuto di verità necessaria. Per chiarire questo punto dobbiamo considerare l’ultima, più interessante analogia, comparsa nel 1787, che pone stavolta una precisa corrispondenza tra elementi della fisica newtoniana e elementi della filosofia trascendentale. Essa compare in una nota alla Prefazione alla seconda edizione della Critica. In precedenza Kant ha paragonato le tesi dell’Estetica e dell’Analitica all’ipotesi di Copernico sui fenomeni celesti, e la Dialettica a un «esperimento della ragion pura», il cui risultato è la conferma della distinzione tra fenomeni e noumeni. La nota sviluppa così il paragone (KrV B XXII): ha inteso riferirsi alla stessa «esposizione» delle categorie in quanto «semplici funzioni logiche applicate agli oggetti in generale». Questo intento “negativo” si distinguerebbe da quello “positivo” di mostrare «la validità oggettiva di tali concetti a priori in rapporto all’empirico»: a questo scopo, precisa ora Kant, la deduzione trascendentale resta «assolutamente necessaria» (KgS VIII,184). Il primo intento sarebbe stato dunque realizzato nella sezione dedicata a quella che Kant, nella seconda edizione della Critica, aveva chiamato “deduzione metafisica” (B 159), che si può far corrispondere al testo di KrV A 64-83. Il resto, cioè la «spiegazione del modo in cui questi concetti si possono riferire ad oggetti che essi non traggono da alcuna esperienza», rimaneva compito della deduzione trascendentale (KrV A 85/B 117, corsivo mio). Tuttavia il chiarimento è ancora inadeguato, perché le tre condizioni “sufficienti” del criticismo, elencate nella nota ai Principi metafisici, contengono più della semplice deduzione metafisica, riferendosi alle tesi dell’Estetica trascendentale ma anche al possesso di principi sintetici a priori, tesi quest’ultima che viene dimostrata solo dall’intera Analitica trascendentale. Per un bilancio sulle discussioni relative a questa nota si veda POLLOK, MA Kommentar, pp. 137ss.

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In questa maniera le leggi centrali del movimento dei corpi celesti procurarono una certezza assoluta a ciò che C o p e r n i c o all’inizio aveva assunto solo come ipotesi, e provarono al tempo stesso la forza invisibile (quella dell’attrazione n e w t o n i a n a) che tiene unito il tutto del mondo [unsichtbare den Weltbau verbindende Kraft], la quale sarebbe rimasta per sempre nascosta se Copernico non avesse osato cercare – in un modo contrario ai sensi e tuttavia vero – i movimenti osservati non negli oggetti del cielo, bensì nel loro spettatore. In questa Prefazione io presento come un’ipotesi anche la trasformazione del modo di pensare esposta nella Critica, analoga a quell’ipotesi, al solo fine di evidenziare i primi tentativi di una tale trasformazione, che sono sempre ipotetici – sebbene poi, nel corso della trattazione stessa essa verrà provata non più ipoteticamente, ma apoditticamente, in base alla natura delle nostre rappresentazioni di spazio e tempo e ai concetti elementi dell’intelletto.

Come ha mostrato magistralmente Hans Blumenberg, il testo kantiano della Prefazione contiene un complesso intreccio di piani analogici, che collegano filosofia e scienze della natura in modi diversi e non sempre ben distinti58. L’intero paragone consiste nella presentazione della filosofia trascendentale come una ipotesi, che può essere verificata con un esperimento, e acquisire infine piena certezza. Ma il modello delle scienze della natura viene sviluppato almeno secondo tre distinti piani. In primo luogo Kant presenta l’ipotesi della filosofia trascendentale come un «tentativo», paragonandolo «con i primi pensieri» (mit den ersten Gedanken) di Copernico, cioè con l’ipotesi della rotazione della Terra59. Come 58 Si

veda il capitolo Was ist an Kants Wendung das Kopernikanische? in H. BLUGenesis der kopernikanischen Welt, Frankfurt a.M. 1975, pp. 691-713. Sull’argomento si vedano anche S. MORRIS ENGEL, Kant’s Copernican Analogy: a Re-examination, in «Kant-Studien» 54 (1963), pp. 243-251; J.W. OLIVIER, Kant’s Copernican Analogy: an Examination of a Re-examination, in «Kant-Studien» 55 (1964), pp. 505511. 59 Si rilegga il passo in cui compare l’analogia copernicana, in cui ritorna continuamente l’espressione del «tentativo» (B XVI-XVII, corsivi miei): «Dovevo finire per pensare che gli esempi della matematica e della scienza della natura, che sono diventate quel che sono mediante una rivoluzione attuatasi in un colpo, fossero sufficientemente rilevanti da indurci a riflettere sul punto essenziale del modo di pensare risultato così vantaggioso per loro e tentare almeno di imitarle in ciò [hierin wenigstens zum MENBERG,

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Copernico considerò «in un modo controintuitivo, ma tuttavia vero» che i moti celesti potessero dipendere dal movimento dello spettatore, così la filosofia trascendentale comincia con l’ipotesi che la nostra rappresentazione delle cose non dipende da come le cose sono, ma che viceversa queste ci appaiono secondo le condizioni (sia intuitive che logiche) della nostra conoscenza. L’esempio degli scienziati come Galilei e Newton introduce il secondo piano analogico: esso rappresenta il passaggio dalla mera escogitazione di una ipotesi (che Copernico ebbe il merito di «osare») alla comprensione del metodo per una sua dimostrazione. In questo senso il paragone dell’«esperimento della ragione» non è riferito a Copernico, che infatti non compare nemmeno nell’elenco dei grandi innovatori del metodo scientifico. È piuttosto Bacon ad Versuche nachzuahmen] per quanto lo permetta l’analogia che sussiste tra loro, considerate come conoscenze razionali, e la metafisica. Finora si riteneva che ogni nostra conoscenza dovesse regolarsi sugli oggetti; ma tutti i tentativi [Versuche], condotti a partire da questo presupposto, di stabilire, tramite concetti, qualcosa a priori sugli oggetti, in modo da estendere la nostra conoscenza, sono andati a vuoto. Per una volta, allora, si tenti [man Versuche] di vedere se non possiamo forse adempiere meglio ai compiti della metafisica, ammettendo che siano gli oggetti a doversi regolare sulla nostra conoscenza: il che meglio si accorderebbe con l’auspicata possibilità di una conoscenza a priori degli oggetti, che stabilisca qualcosa su questi ultimi prima che essi ci vengano dati. Le cose stanno qui come nei primi pensieri di Copernico, il quale, poiché la spiegazione dei movimenti celesti non procedeva ammettendo che tutto quanto l’ordine delle stelle girasse attorno allo spettatore, tentò [versuchte] di vedere se non potesse andar meglio facendo ruotare lo spettatore e far stare ferme le stelle. Ebbene, nella metafisica si può tentare [versuchen] qualcosa di simile riguardo all’intuizione degli oggetti» (più sotto l’analogia viene estesa al momento logico della conoscenza). Come sottolinea Blumenberg (op. cit., p. 703) i «primi pensieri» di Copernico consistono a rigore nella tesi della relatività dei moti celesti rispetto al movimento dello spettatore, e dunque Kant non si riferirebbe affatto, come hanno ritenuto molti commentatori, alla teoria eliocentrica del compiuto sistema copernicano, che da quei primi pensieri non può essere ricavato. In effetti la rotazione della Terra era il primo dei tre moti che Copernico attribuì alla Terra (gli altri sono rivoluzione e movimento conico annuale dell’asse), e peraltro anche il meno “rivoluzionario” in senso cosmologico, poiché esso non comportava ancora che la Terra non fosse il centro del mondo – per esempio lo aveva ipotizzato nel XIV secolo un aristotelico come Nicola Oresme, giustificando la quiete relativa tra gli oggetti sulla superifice della Terra in base alla teoria dell’impetus. Cf. T.S. KUHN, The Copernican Revolution, Cambridge Mass. 1957, pp. 114-122, 152-159.

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aver proposto l’idea del nuovo metodo, che solo una piena e immediata «rivoluzione del modo di pensare» poteva pienamente realizzare, conducendo la filosofia naturale sulla «via maestra della scienza»60. Come protagonisti di questa rivoluzione vengono invocati Galilei, Torricelli e Stahl61. Il suo risultato viene riassunto nella tesi secondo cui «la ragione comprende solo ciò che essa stessa produce secondo il suo progetto». Rispetto all’ipotesi copernicana il passaggio ulteriore è dato dalla precedenza di leggi necessarie: la ragione deve «avanzare con i principi dei suoi giudizi, secondo leggi stabili, e deve costringere la nautra a rispondere alle sue domande» (B XIII). Il passaggio dall’ipotesi all’esperimento che la verifica, e che corrisponde al raggiungimento della scientificità, non è comunque ben scandito nel testo. In ogni caso l’immagine dell’esperimento è sviluppata in due successive note a piè di pagina in cui Kant sembra distinguere tra il «tentativo» ipotetico e il vero e proprio Experiment condotto secondo il metodo di «riduzione» (Reduktion) dei chimici, in base al quale si dimostra che la distinzione del metafisico tra fenomeni e cose in sé stesse «è quella vera» (B XII, nota). Anche senza bisogno di pensare alla sovrapposizione di due redazioni62, si deve riconoscere che Kant parla di Versuch in due sensi: dapprima riferendosi alle tesi dell’Estetica e dell’Analitica, impiegando sia l’analogia copernicana, che quella più generale delle scienze esatte; poi riferendosi alla totalità della Critica, compresa la Dialettica, in cui la tesi da verificare è la «separazione» tra fenomeni e cose in sé (riassunta nel terzo libro dell’Analitica), e la sua conferma consiste nel fatto che solo questa di60 B XII: «Per quanto riguarda la scienza della natura, il cammino per giungere alla via maestra della scienza è stato molto più lento: è passato solo un secolo e mezzo, all’incirca, da quando la proposta dell’ingegnoso Bacone di Verulamio ha suscitato in parte, e in parte ha accelerato – dato che era già sulle sue tracce – questa scoperta, la quale, proprio come l’altra, può essere spiegata solo con una repentina rivoluzione del modo di pensare». 61 B XII-XIII. 62 Secondo Blumenberg le note a piè di pagina sarebbero un’aggiunta posteriore. Si noti che, in effetti, tra le note alla Prefazione dell’87 c’è anche la sostituzione di un passo della Confutazione dell’idealismo (B XXXIX) che attesta una redazione successiva al resto dell’opera. Ciò non prova, però, che le note a piè di pagina siano successive al testo principale della stessa Prefazione.

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stinzione toglie la contraddizione dal concetto dell’incondizionato63. Per questo processo complessivo, nelle due note, Kant impiega l’immagine della separazione e composizione in chimica, perché in questo caso vuole sottolineare una particolare prestazione del metodo, quella appunto di separare tra di loro gli «elementi» (dove il paragone si fa forte dell’omonimia tra elementi gnoseologici e elementi chimici). L’analogia tra i principi filosofici kantiani e la teoria della gravitazione compare finalmente in una terza nota, successiva alle precedenti. Il capoverso che la precede conclude proprio l’esposizione dell’esperimento della ragione teoretica, introducendo il piano ulteriore dei principi pratici che è rimasto da parte (B XXIXXII): Ora che è stato interdetto alla ragione speculativa qualsiasi avanzamento nel campo del soprasensibile, resta ancora da vedere [versuchen] se nella conoscenza pratica non si trovino forse dei dati per determinare quel concetto razionale trascendente dell’incondizionato, e per giungere in tal modo, secondo il desiderio della metafisica, al di là del confine d’ogni esperienza possibile, per mezzo della nostra conoscenza a priori, che è possibile però solo dal punto di vista pratico. Con un tale procedimento la ragione speculativa ci ha pur sempre procurato almeno lo spazio per un’estensione di questo genere, sebbene abbia dovuto lasciarlo vuoto, e noi siamo dunque autorizzati, anzi siamo addirittura esortati dalla ragione a riempirlo, se ci è possibile con i dati pratici di essa.

Nella nota citata in precedenza – apposta al termine di queste parole – viene introdotto dunque il terzo livello della complessa analogia orchestrata da Kant tra filosofia e scienze della natura, che non si mantiene sul campo della filosofia teoretica, ma istituisce un rapporto tra questa e la filosofia pratica. Quest’ultimo passaggio può apparire sorprendente solo se si dimentica che trattasi di analogia. Esso è confermato comunque dal fatto che Kant – memore certamente delle precritiche speculazioni sull’unità del mondo intelligibile – usa la stessa espressione verbindende Kraft per 63 B

XX-XXI.

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indicare tanto la funzione unificante della gravitazione newtoniana sul piano fisico, quanto quello dell’idea di Dio sul piano morale64. Che sia questo il significato dell’analogia con la teoria della gravitazione, e che esso non comporti alcuna interpretazione speculativa della teoria newtoniana, è confermato da una nota dell’opera sulla religione, in cui Kant paragona l’inconoscibilità del fondamento della libertà con quella della causa della gravità (KgS VI, 138, nota): Così [come quella della libertà] la c a u s a della gravità universale di ogni materia del mondo ci è oscura al punto da poter dire che non potrà mai essere conosciuta da noi, perché già il suo concetto presuppone una forza motrice primitiva, incondizionatamente inerente alla materia. Tuttavia la gravità non è un mistero, perché può essere resa nota a tutti, essendo la sua legge sufficientemente conosciuta. Quando N e w t o n ce la rappresenta come onnipresenza di Dio nel mondo dei fenomeni (omnipraesentia phaenomenon), non intende darci una conoscenza (perché l’esistenza di Dio nello spazio è contraddittoria), ma una sublime analogia, in cui si propone soltanto l’unione degli esseri incorporei in un tutto, basata su una causa incorporea.

Infine, l’analogia ritorna in un appunto dell’Opus postumum, in cui il passaggio paradossale dalla terminologia teoretica a quella pratica è reso ancora più esplicito: 64 KrV A 814-815/B 842-843 (il corsivo è mio): «Ora questa teologia morale ha un particolare vantaggio rispetto a quella speculativa, e cioè che essa conduce inevitabilmente al concetto di un essere originario u n i c o, p e r f e t t i s s i m o e r a z i o n a l e, quale la teologia speculativa non poteva nemmeno i n d i c a r c i sulla base di fondamenti oggettivi, e di cui ancora meno poteva convincerci. Infatti, non troviamo né nella teologia trascendentale né in quella naturale – per quanto anche in essa ci possa guidare la ragione – un qualche motivo significativo per ammettere un unico essere da anteporre a tutte le cause naturali, né abbiamo un motivo sufficiente per considerare tali cause come dipendenti totalmente da quell’essere. Al contrario, se dal punto di vista dell’unità morale, intesa come una legge necessaria del mondo, noi riflettiamo su quale sia la sola causa che possa fornire l’effetto adeguato a quella legge, e possa quindi conferirle una forza che risulti vincolante per noi [für uns verbindende Kraft], vedremo che dev’esserci un’unica volontà suprema che comprenda in sé tutte queste leggi».

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L’attrazione newtoniana attraverso lo spazio vuoto e la libertà dell’uomo sono concetti reciprocamente analoghi, sono imperativi categorici, idee65.

A complicare le cose, nel passo in esame Kant intreccia quest’ultimo piano analogico con quello della terminologia sperimentale, ritornando sull’immagine dell’ipotesi copernicana e presentando la legge di gravitazione come la sua verifica. Recuperando anche quest’ultimo aspetto, nel contesto della più ampia analogia tra filosofia trascendentale e scienze della natura, l’analogia kantiana di questa nota può essere così schematizzata: 1) come Copernico formulò un’ipotesi per studiare i movimenti (“soggettività” del moto dei corpi celesti), così l’idealismo trascendentale si può considerare (a fini espositivi) come una ipotesi per edificare una scienza a partire dai fenomeni. Ma sia la prima che la seconda ipotesi possono acquisire certezza apodittica. 2) Sul piano fisico, in base alla metodologia introdotta da scienziati come Bacon e Galilei, ciò è avvenuto con le «leggi centrali del moto» di Newton, che provano la verità del sistema copernicano (si deve intendere l’intero sistema dei Principia, dalle leggi del moto alla prova della legge di gravità nel libro III); sul piano filosofico, ciò avviene mediante l’insieme delle tesi della Critica, dall’Estetica alla Dialettica. 3) Infine, però, il principio dimostrativo comporta in entrambi i casi la posizione di un soprasensibile. Nel caso della fisica di Newton, la forza di gravità, che spiega i fenomeni, non è in sé percepibile ed è dunque vano tentare di comprenderne la possibilità; nel caso della filosofia di Kant, i principi dell’Estetica e dell’Analitica, che rendono possibile l’esperienza, comportano un intrinseco riferimento della legalità della natura fenomenica al pensiero dell’incondizionato (come conferma la Dialettica). Se nel primo caso si tratta della incomprensibilità di una forza fondamentale all’interno della filosofia naturale, nel secondo si tratta invece della incomprensibilità di un incondizionato per la ragione teoretica, la 65 Opus postumum, KgS XXI, 35 (si tratta di un brano del Konvolut I, scritto dunque nel 1800).

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cui realtà viene attestata sul piano pratico mediante il «fatto della ragione» della legge morale. Se si considera ora nel complesso l’intera serie delle analogie tra gnoseologia e fisica newtoniana sembra opportuno parlare, come abbiamo ipotizzato, di una specifica, per quanto originale, ispirazione newtoniana. Se infatti la tesi di una inconoscibilità del fondamento nel nesso causale, in diverse versioni, era un topos diffusissimo nel pensiero dei secoli XVII e XVIII, la dipendenza del concetto di forza dalla dimostrazione di una legalità universale (su cui Kant insiste già nel ’62 e ancora nell’87) e la tesi secondo cui la posizione di questa legalità comporterebbe immediatamente il riferimento a un principio soprasensibile inconoscibile, cui si può assimilare anche il problema della libertà (tesi accennata nei Träume eines Geistersehers – con la prima ipotesi di un mondo intelligibile morale – e ben evidente negli anni ’87 e seguenti) sono concezioni che Kant sviluppa direttamente in base a una libera interpretazione di Newton. Ma si deve fare un’ultima osservazione. L’efficacia dell’intero paragone dell’87 dipende dall’assunzione che la forza di gravità, e con essa la teoria newtoniana, siano dotate di una validità universale. Probabilmente, dunque, Kant fu incoraggiato a scegliere la sua ipotesi dal fatto che, nel 1786, aveva creduto di fornire una prova dell’attrazione universale originaria, che dal punto di vista fisico coincideva con la forza di gravità di Newton. Ma la verifica della fisica newtoniana, nell’opera dell’86, coincideva a sua volta con la specificazione del sistema dei principi trascendentali e con la loro esibizione in concreto. Questa circostanza sistematica, ovviamente, era successiva all’assunzione kantiana della validità della fisica di Newton, che non era mai venuta meno dopo gli anni ’50. Si ha così una singolare complicazione nel rapporto tra questa fisica e la filosofia del criticismo: lo stesso sistema di principi filosofici, che Kant pone in analogia con la fisica della gravitazione, e che storicamente è stato sviluppato dopo di essa, contiene un fondamento della scientificità di quest’ultima. Il luogo in cui queste due relazioni di analogia e subordinazione logica si sovrappongono è la fisica pura dei Principi metafisici, che si mostra anche in 317

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ciò come il vero e proprio fulcro della filosofia naturale del criticismo. Non stupisce, di nuovo, che Kant decida di non complicare ulteriormente la situazione presentando anche la più ristretta (ma più prossima) analogia metodica tra fisica e dinamica pura. In ogni caso la nuova scienza, per realizzare tanto la specificazione dei principi trascendentali quanto la dimostrazione dei principi fisici newtoniani, doveva disporre di un metodo specifico, in cui è lecito vedere la rielaborazione critica dell’idea di una metafisica cum geometria iuncta del Kant precritico. Giunti a questo punto possiamo dunque abbandonare l’orizzonte più ampio della filosofia trascendentale e passare alla questione particolare: come è possibile, per Kant, una fisica pura?

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Parte seconda La metafisica della natura corporea nei Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft «Die ganze Gedankenwelt gehört nicht zum Raum, sie hat aber ein Simulacrum des Raumes, welches sich vom physischen Raume leicht unterscheidet, vielleicht noch eine nähere als nur eine metaphorische Ähnlichkeit mir derselben hat. Die theologische Schwierigkeiten die besonders seit L e i b n i z e n s und C l a r k e n s Zeiten die Lehre vom Raum mit Dornen angefüllt haben, haben mich bisher in Ansehung dieser Sache noch nicht irre gemacht. Der ganze Erfolg bey mir ist, daß ich verschiedenes lieber unbestimmt lasse, was nicht klar gemacht warden kann. Übrigens woltte ich in der Ontologie nicht nach den folgenden Theilen der Metaphysik hinschielen. Ich lasse es ganz wohl geschehen, wenn man Zeit und Raum als bloße Bilder und Erscheinungen ansieht. Denn ausser daß beständiger Schein für uns Wahrheit ist, wobey das zum Grunde liegende entweder gar nie oder nur künftig entdeckt wird; so ist es in der Ontologie nützlich, auch die vom Schein geborgte Begriffe vorzunehmen, w e i l i h r e T h e o r i e z u l e t z t d o c h w i e der bey den Phaenomenis angewandt werd e n m u ß. Denn so fängt auch der Astronome beym Phaenomeno an, leitet die Theorie des Weltbaues daraus her, und wendet sie in seinen Ephemeriden wieder aud die Phaenomena und derer Vorherverkündigung. In der Metaphysik wo die Schwierigkeit vom Schein so viel Wesens macht, wird die Methode des Astronomen wohl die sicherste seyn. Der Metaphysiker kann alles als Schein annehmen, den leeren vom reellen absondern, aus dem reellen auf das Wahre schliessen. Und fährt er damit gut, so wird er wegen der Principien wenige Widersprüche und überhaupt Beyfall finden. Nur scheint es, daß hiezu Zeit und Geduld nöthing sey». [Lambert a Kant, 13 ottobre 1770 (KgS X, 108-109)]

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Capitolo 5 Principi metafisici e scienza della natura

5.1. Il metodo della nuova metafisica e la possibilità della fisica matematica Nell’Architettonica del 1781, come abbiamo visto, l’idea di una fisiologia razionale ha posto due questioni rimaste aperte. La nuova scienza deve, in primo luogo, intrattenere un rapporto con la filosofia trascendentale, un rapporto di discendenza sistematica ancora tutto da chiarire; nello stesso tempo, si deve collegare alla fisica matematica e alla fisica empirica, che stavolta dovranno trarre da essa alcuni principi. Solo il chiarimento di questi rapporti con le altre parti della scienza della natura, che Kant intraprende al momento di mettere mano ai Principi metafisici, permetterà di definire adeguatamente la fisionomia della nuova disciplina. Gli stessi rapporti sistematici, nel corso del lavoro alla nuova opera, servono a Kant per definire meglio gli scopi della nuova metafisica, che nella schematica esposizione dell’Architettonica rimangono ancora inespliciti. Una prima menzione di questi scopi si trova in una lettera a Christian Schütz del settembre 1785, dove Kant attribuisce alla nuova opera precisamente la doppia finalità di fornire gli esempi in concreto per la metafisica generale e nello stesso tempo di giustificare alcuni concetti e principi adottati dai matematici1. 1 Lettera a Ch.G. Schütz del 13 settembre 1785, KgS X, 406-407. Kant presenta qui la nuova opera come funzionale ad alleggerire l’esposizione del sistema di metafi-

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Questi scopi pongono un problema, non la sua soluzione. In che modo la nuova metafisica si distingue dalle altre discipline che ne segnano i confini e quale compito svolge rispetto ad esse dovrà essere chiarito non da una differenza di oggetto, come è divenuto chiaro, ma da un diverso metodo nella giustificazione dei propri principi. Solo esponendo questo metodo, anzi, si potrà legittimare l’estensione a priori della conoscenza fondata su un concetto empirico. Di questo aspetto problematico della fisica pura, come abbiamo visto, Kant si era accorto nella Critica, ma il problema di definire positivamente il metodo di questa nuova estensione a priori della conoscenza era rimasto in sospeso. In particolare, benché la nuova disciplina dovesse avere il compito di indagare i concetti fondamentali della fisica matematica, essa doveva rimanere «separata» dalla matematica. Questo rendeva difficile capire quale fosse il metodo della fisica pura, e come esso potesse essere collegato a quello della matematica. Infatti un procedimento puramente logico della metafisica era stato escluso con sempre più convinzione nel corso degli anni ’60, cioè proprio quando Kant elaborava la prima idea di «principi metafisici della scienza della natura». Nel criticismo, in cui l’impossibilità di una conoscenza puramente logicometafisica è esclusa ancor più rigorosamente, il problema non poteva che aggravarsi: era dunque urgente un chiarimento. Il problema dell’origine e della legittimazione dei principi metafisici viene affrontato nella Prefazione ai Principi metafisici della scienza della natura: un testo contratto, fitto di oscurità e di passaggi repentini, che vale però la pena di esaminare in dettaglio, perché contiene la sola dettagliata esposizione del metodo della fisiologia razionale che si trovi in tutto il corpus kantiano. Per svolgere questo compito Kant sente il bisogno in primo luogo di estendere lo sfondo architettonico del discorso all’intero sistema della sica, che qui viene definito «metafisica della natura». Di fatto, come si è detto, quel sistema non verrà mai realizzato. Per comodità espositiva, il termine «metafisica della natura» verrà impiegato qui come sinonimo di «metafisica della natura corporea»; nell’Architettonica kantiana, come si è visto, la «metafisica della natura» include quest’ultima e l’ontologia.

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scienza della natura. Distinguendone le diverse parti, infatti, si può risalire dalle dottrine empiriche alla metafisica della natura come loro necessaria condizione; nello stesso tempo, il riferimento ai metodi delle diverse discipline empiriche, e alla possibilità di una loro trattazione matematica, permette di definire con precisione il compito che la metafisica della natura corporea deve svolgere rispetto alle altre parti della conoscenza naturale, in quanto queste adottano alcune premesse che non possono essere giustificate al loro interno. Leggendo la Prefazione si trova dunque occasione di capire meglio che cosa siano per Kant queste altre scienze, di cui egli tornerà ad occuparsi occasionalmente nel corso dell’opera. Dopo aver riepilogato i concetti di natura materialiter e formaliter spectata, Kant comincia a discutere il concetto di scienza della natura a partire dal genere sommo di una «dottrina della natura» (Naturlehre) (MA 467). Una dottrina, in generale, non è che un insieme di conoscenze. Se si tratta di un sistema, cioè di un «intero della conoscenza ordinato secondo principi», la dottrina della natura si dice «scienza» (ibidem). Secondo questa definizione, dunque, resterebbero fuori dal concetto di scienza solo aggregati di conoscenze, eventualmente accomunati dal fatto di riferirsi a uno stesso oggetto (o genere di oggetti), ma privi di un collegamento reciproco secondo principi. Questi principi, prosegue Kant, possono essere o «principi della congiunzione empirica o di quella razionale delle conoscenze in un intero» e perciò la scienza della natura, a prescindere dal suo oggetto, potrà rispettivamente dirsi scienza della natura «storica» o «razionale». A commento di questa prima classificazione Kant dichiara a sorpresa che quanto appena detto non è adeguato, e che la scienza storica della natura, pur essendo sistematica, non può dirsi «propriamente» scienza. Questa precisazione discende dallo stesso concetto di natura, il quale, designando «una derivazione del molteplice che appartiene all’esistenza delle cose da un principio interno», richiede che una dottrina, per meritare il titolo di scienza della natura, fornisca una conoscenza razionale della connessione del molteplice naturale. Di conseguenza, conclude Kant, è meglio distinguere la dottrina della natura in «dottrina storica della natura, 323

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che non contiene altro che fatti delle cose naturali ordinati sistematicamente» e scienza della natura. Il concetto di natura – qui inteso sia nel suo significato estensivo sia in quello intensivo – fornisce un criterio di scientificità superiore a quello della semplice sistematicità, che nell’Architettonica veniva dato per sufficiente. Per comprendere le ragioni di questo passaggio è utile chiarire con qualche esempio il concetto di «dottrina storica della natura». Essa si suddivide in «descrizione della natura, come sistema classificatorio di essa secondo somiglianze, e storia della natura, come rappresentazione sistematica della stessa secondo tempi e luoghi»2. Riguardo alla Naturbeschreibung Kant ha in mente in primo luogo quel sapere puramente tassonomico di cui sono un esempio le opere di Linnée. Gli oggetti vi sono ordinati secondo un principio di somiglianza morfologica, la quale non costituisce un requisito sufficiente a fare di questo ordinamento una conoscenza, e anzi può condurre in errore. È il caso del concetto di razza, che Kant discute in diversi scritti di questi anni sostenendo l’insufficienza di distinzioni biologiche e antropologiche basate su semplici criteri di affinità morfologica e distinguendo a tal fine il concetto di una specie biologica da quello di una specie morfologica3. Per quanto riguarda la Naturgeschichte, Kant ha in mente opere come l’Histoire naturélle di Buffon, a proposito delle quali vale un’obiezione analoga. L’ordinamento dei fatti secondo tempi e luoghi, infatti, come tale non determina altro che un collegamento estrinseco tra i fatti stessi, senza procedere ancora a una loro connessione secondo un principio vero e proprio. Che un evento abbia 2 Su Naturbeschreibung e Naturgeschichte si veda Von den verschiedenen Racen der Menschen (1777), KgS II, 434n; Über den Gebrauch teleologischer Prinzipien, KgS VIII, 160ss.; 3 Kant distingue fra una specie logica («classe», o «specie artificiale»), distinta «secondo somiglianze» (e dunque propriamente morfologica), e specie biologica («ceppo», o «specie naturale»), distinta «secondo affinità riguardo alla riproduzione»: la prima può servire sì a classificare, ma non a conoscere le proprietà di un organismo, che devono essere ricavate dallo studio dell’ereditarietà e dell’evoluzione. Per questa sistemazione delle dottrine biologiche del tempo si vedano in particolare i due scritti: Von den verschiedenen Racen der Menschen, KgS II, 427-443, in part. pp. 429, 434n; Bestimmung des Begriffs einer Menschenrace (1785), KgS VIII, 89-106, in part. p. 100n.

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avuto luogo successivamente a un altro, e che sia accaduto in questo o quel luogo, non dice ancora nulla sul modo in cui le sue determinazioni si ricollegano tra loro e a quelle degli altri fenomeni. È questo il senso della distinzione qui accennata tra «ordinare» e «collegare» sistematicamente4. Se il mero ordinamento può risultare addirittura ingannevole, non è detto però che ogni collegamento introduca una certezza di pari grado. Il collegamento sistematico di una «scienza razionale», prosegue Kant, costituisce sempre una «connessione secondo fondamenti e conseguenze»; se questi fondamenti o principi sono a loro volta empirici, come avviene nella chimica, e le leggi, da cui i dati fatti vengono spiegati razionalmente, non sono che «leggi d’esperienza» (Erfahrungsgesetze) e «ad esse non si accompagna la coscienza della loro necessità (non sono apoditticamente certe)» (MA 468), ne consegue che «a rigore» non si tratta nemmeno in questo caso di scienza «in senso proprio»5. Cosa Kant intenda si può illustrare anche in tal caso attraverso il suo esempio, quello della chimica; cioè – è appena il caso di ricordarlo – di una chimica che al tempo non possedeva ancora uno statuto universalmente riconosciuto (Kant stesso avrebbe riconosciuto la superiorità della chimica di Lavoisier su quella di Stahl solo nel corso degli anni ’90) ma che, in generale, si basava su conoscenze pura4 In effetti, la definizione kantiana di Naturgeschichte come mera raccolta sistematica di dati resta in parte problematica: qualora infatti non sussistano testimonianze dirette, come solitamente accade nella storia della natura, la stessa classificazione cronologica degli eventi (per es. in geologia) richiede spesso una loro connessione causale, basata su altre ipotesi. La stessa «storia generale della natura» kantiana, contenuta nella Allgemeine Naturgeschichte, procedeva in questo modo, adottando l’ipotesi newtoniana di due forze fondamentali della materia. Kant, del resto, stabilisce nella stessa logica trascendentale che la determinazione oggettiva di una successione tra fenomeni presuppone un nesso causale. 5 È appena il caso di notare che una simile definizione di scienza era consueta nella tradizione wolffiana (cf. WOLFF, Vernünfftige Gedanken § 361) e prima ancora cartesiana. La precisazione kantiana può costituire un richiamo alla Gründlichkeit di questa tradizione scientifica rispetto alla confusione epistemologica della fisica dell’epoca, dovuta alla compresenza di dottrine metafisiche e dottrine filosofiche e fisiche di varia origine. Un’analoga distinzione tra dottrina razionale e scienza in senso proprio si trova impiegata, per distinguere rispettivamente grammatica e logica, nella Logik Busolt, KgS XXIV, 609.

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mente sperimentali ed era ben lontana dal venire collegata con la fisica matematica, come sarebbe avvenuto nel secolo successivo6. La chimica, dunque, collega sperimentalmente determinati fenomeni, introducendo tra essi una connessione non puramente morfologica, bensì fondata sulla loro azione reciproca. Questo collegamento, tuttavia, non è conoscibile a priori e come tale non comporta alcuna necessità. Perciò, sebbene la chimica si presenti come scienza razionale, essa deve essere considerata piuttosto come un’«arte sperimentale» (cioè come una dottrina – non una scienza – razionale della natura). La restrizione del concetto di scienza è determinata dunque dal concetto di necessità, che Kant non ha finora incluso esplicitamente nella definizione di natura. Esso proviene comunque dal concetto stesso di legge, che egli, nel capoverso successivo, dichiara essere anch’esso essenziale al concetto di natura e dunque di scienza della natura (MA 468-9): Una dottrina razionale della natura merita il nome di scienza della natura soltanto qualora le leggi naturali, che vi stanno a fondamento, siano conosciute a priori e non siano semplici leggi d’esperienza. Una conoscenza naturale del primo tipo si chiama pura; quella del secondo tipo si chiama conoscenza razionale applicata. Poiché il termine natura comporta già il concetto di leggi, ma questo comporta a sua volta il concetto della n e c e s s i t à di tutte le determinazioni che appartengono all’esistenza di una cosa, si vede facilmente perché la scienza della natura debba ricavare la legittimità di questa denominazione solo da una parte pura, che contenga cioè i principi a priori di tutte le altre spiegazioni naturali, e solo grazie a questa parte pura sia una vera e propria scienza.

Il ragionamento contenuto in questo passo contiene almeno due problemi di rilievo. Per prima cosa, Kant vi introduce un concetto di natura ancora più determinato di quello fin qui adottato. Esso sorge dalla combinazione del concetto di natura in genere, cioè di conformità a leggi, con il concetto di natura formaliter spectata. Il risultato è che il collegamento delle determinazioni della natura in6

Della chimica dell’epoca, e la ricezione kantiana, si tratterà nel § 5.2.

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dividuale viene qualificato ora come «necessario». Il problema di questa specificazione «distributiva» del concetto di una legalità della natura – già implicito nella Critica – risiede però nel concetto di legge che vi sta alla base. Infatti, che la legge, a differenza della mera regola, esprima un collegamento necessario può anche considerarsi questione puramente verbale. Ma che la natura in genere sia intrinsecamente dotata di un collegamento secondo leggi è una conseguenza della necessaria legalità dell’esperienza in generale, secondo quanto è stato argomentato nella Critica. Perciò, l’attribuzione di una legalità al collegamento della natura individuale non rappresenta qui un semplice richiamo alla filosofia trascendentale, ma esprime piuttosto l’esigenza di superare la rilevata asimmetria tra natura in genere e molteplice particolare dei fenomeni. Si tratta di un’esigenza, appunto, non di un giudizio analitico, come questo passo può far credere: tanto che essa costituirà una delle questioni fondamentali della terza Critica. Rilevando questo sottinteso del ragionamento kantiano ci si rende almeno conto che egli qui sta già tentando di superare quell’aporia e di istituire una scienza della natura «propriamente detta», cioè fondata su certezza apodittica, non invocando nuovamente un principio della possibilità dell’esperienza, ma cercando di far discendere dalla filosofia la razionalità di tutta la natura, prescindendo da qualsiasi presupposto teologico7. Questo conduce al secondo problema, quello di una parte pura della scienza della natura. In che senso parte pura? In essa, scrive Kant, la scienza della natura deve «fondare la certezza apodittica che la ragione vi cer7 Si può osservare incidentalmente che questo problema della scienza della natura era assente in Leibniz (come pure in Descartes), essendo la razionalità della natura, tanto in generale quanto in particolare, garantita a priori mediante argomenti teleologici e dunque, in ultima analisi, nella teologia razionale. In effetti tutta la problematica kantiana della metafisica della natura – come parallelamente quella della morale – discende in ultima analisi dalla sua critica alla teologia razionale, che svolgeva un ruolo integrante nelle teorie scientifiche della maggior parte dei pensatori moderni precedenti. J. VUILLEMIN, Physique et métaphysique kantiennes, Paris 1955, p. 358, ha scritto in proposito che la metafisica della natura kantiana è «la prima teoria della conoscenza senza Dio». Sul tema si veda anche A. FUNKENSTEIN, Theology and the Scientific Imagination from the Middle Ages to the Seventeenth Century, Princeton 1986.

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ca» (MA 469). Ma se le cose stanno così, essa sembrerebbe essere distinta da un’altra parte della scienza della natura, cui fornirebbe una certezza apodittica. D’altra parte, se è distinta, come è possibile che si colleghi a quest’altra parte − che per definizione dovrà essere «empirica» e dunque «del tutto disomogenea» rispetto a quella − introducendo al suo interno una necessità? Kant sfiora questi problemi nel seguito del testo, in un capoverso al termine del quale chiarisce che la parte pura in questione corrisponde alla conoscenza razionale di cui si trattava nella Critica, e cioè a metafisica e matematica. Proprio in quanto disomogenea – scrive Kant – la parte pura della scienza della natura dovrà essere esposta «separatamente dall’altra, senza alcuna commistione con essa». Si tratta addirittura di un «dovere, dal punto di vista del metodo», perché solo così facendo si potrà «determinare con esattezza quel che la ragione può far da sé e dove la sua facoltà comincia ad avere necessariamente bisogno del contributo di principi empirici» (ibidem). Questo passo permette di estendere a ogni disciplina teoretica il criterio di distinzione della Critica tra le diverse parti della metafisica della natura: rispetto alle diverse parti della scienza della natura si possono dunque svolgere considerazioni analoghe a quelle fatte nell’Architettonica sulla distinzione tra le parti della filosofia in genere. Le parti della scienza pura della natura corrispondono semplicemente all’isolamento di conoscenze ricavate da diverse fonti; ma queste conoscenze, come risulta dallo stesso fatto che separandole si stia disarticolando una scienza della natura, nel loro concreto utilizzo devono essere combinate, non solo tra di loro, ma anche con conoscenze di origine matematica e empirica. Questo non pregiudica la possibilità di una loro esposizione separata, la quale però è giustificata dal solo fatto che esse, in quanto ricavate da fonti pure, possono essere provate a priori e separatamente. Nella Critica, ora, è stato mostrato come sia possibile provare a priori le conoscenze della filosofia trascendentale, ed è stata provata nello stesso tempo la loro validità empirica; è stata provata anche la possibilità della dimostrazione a priori delle conoscenze matematiche, in quanto fondata sulla costruzione dei concetti matematici nell’intuizione pura. Non resta ora che mostrare la possibi328

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lità di provare a priori i nuovi principi metafisici della fisica. Giunto però a dedicarsi a questo compito, avendo fin qui ricongiunto minuziosamente l’architettonica della scienza della natura con quella della metafisica, Kant a sorpresa, in due capoversi, ne rivoluziona completamente l’impianto. La scienza della natura propriamente detta, scrive, presuppone prima di tutto una metafisica della natura (piuttosto che la matematica) perché le leggi si riferiscono a un concetto, quello di esistenza, che «non si lascia costruire, perché l’esistenza [Dasein] non può essere rappresentata a priori in nessuna intuizione» (MA 469). Sulla base di questo richiamo, che si riferisce in particolare ai principi «dinamici» della Critica e ai nuovi principi metafisici, Kant ripropone dunque l’articolazione della metafisica della natura contenuta nella Critica. Essa deve contenere (MA 469-470): sempre e soltanto principi che non siano empirici (appunto per questo porta il nome di metafisica), tuttavia essa può trattare o delle leggi che rendono possibile il concetto di una natura in generale, senza riferimento ad alcun oggetto determinato dell’esperienza e dunque indifferentemente rispetto alla natura di questa o di quella cosa del mondo sensibile: si tratta allora della parte t r a s c e n d e n t a l e della metafisica della natura; o p p u r e essa si occupa della specifica natura di questa o quell’altra specie di cose, delle quali sia dato un concetto empirico, ma in modo tale che, oltre a quanto è contenuto in questo concetto, non venga impiegato per la sua conoscenza nessun altro principio empirico (per es., essa pone a fondamento il concetto empirico di una materia, o di un essere pensante, e indaga l’estensione della conoscenza di questi oggetti che la ragione è in grado di ottenere a priori): una tale scienza, dunque, deve dirsi pur sempre metafisica della natura, di quella corporea e di quella pensante, ma si tratta di una scienza metafisica della natura non generale, ma particolare (fisica e psicologia), nella quale i principi trascendentali vengono applicati ai due generi di oggetti dei nostri sensi.

Al termine di questo riepilogo, Kant aggiunge qualcosa che nella Critica non era stato detto esplicitamente: i principi metafisici costituiscono un’applicazione di quelli trascendentali. Subito dopo questa affermazione, che occorrerà in seguito cercare di chiarire e 329

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discutere, si trova una proposizione che introduce una limitazione cruciale al concetto di una metafisica della natura particolare (MA 470). Io affermo però che in ogni dottrina particolare della natura si può trovare solo tanta scienza p r o p r i a m e n t e d e t t a, quant’è la m a t e m a t i c a che vi si trova.

Quest’affermazione, che apparentemente contiene una generica professione di metodologia galileiana (ed è spesso citata isolatamente in tal senso), possiede in realtà un senso molto più specifico. In primo luogo, occorre sottolineare che qui Kant, riferendosi a «ogni dottrina particolare della natura», intende raccogliere nel suo giudizio tanto le diverse dottrine empiriche della natura (come la chimica, sul cui esempio ritornerà nel capoverso successivo) quanto la metafisica particolare della natura, il cui concetto è stato appena introdotto. In effetti, Kant prosegue il suo ragionamento riferendosi alla parte pura della scienza della natura. Infatti, secondo quel che si è mostrato, la scienza propriamente detta, soprattutto quella della natura, richiede una parte pura che stia a fondamento di quella empirica e che si basi sulla conoscenza a priori degli oggetti naturali. Ora, conoscere qualcosa a priori significa conoscerlo in base alla sua semplice possibilità. Ma la possibilità di determinati oggetti naturali non può essere conosciuta in base al loro semplice concetto; in base a questo, infatti, può senz’altro essere conosciuta la possibilità del pensiero (che esso non si contraddica), ma non dell’oggetto, in quanto oggetto fisico che possa esser dato al di fuori del pensiero (in quanto esistente). Perciò, per conoscere la possibilità di particolari oggetti naturali e dunque per conoscere questi a priori, si richiede ancora che venga data a priori l’i n t u i z i o n e corrispondente al concetto, cioè che il concetto venga costruito. Ma la conoscenza razionale mediante costruzione dei concetti è conoscenza matematica. Dunque una filosofia pura della natura in generale, tale, cioè, che indaghi soltanto quel che costituisce il concetto di una natura in generale, è possibile anche senza la matematica, mentre una dottrina pura della natura riferita a d e t e r m i n a t i oggetti naturali (dottrina dei corpi e dottrina dell’anima) è possibile soltanto mediante la matematica.

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Il risultato è chiarissimo: una metafisica della natura particolare non è possibile come scienza autonoma. Essa, a differenza della filosofia trascendentale, deve essere possibile solo mediante la matematica. Ma che cosa significa mediante la matematica? Ricostruiamo il ragionamento kantiano. In primo luogo, vi si trova l’equivalenza tra conoscere a priori e conoscere secondo la possibilità, su cui è opportuno qualche chiarimento. In generale, mentre la conoscenza a posteriori è storica e si riferisce direttamente alla realtà dei propri oggetti, formandosene concetti empirici, la conoscenza a priori astrae dalla realtà dei propri oggetti e si occupa piuttosto di concetti, di cui cerca di provare a priori la validità oggettiva: si occupa in questo senso della loro possibilità, pur senza poterla comprendere analiticamente, come avverrebbe in una metafisica deduttiva. Nella Critica, Kant individua due modi in cui questo è possibile: il primo, quello proprio della filosofia trascendentale, si basa sul principio della possibilità dell’esperienza e rende possibili prove discorsive di un numero finito di principi – ricavati dalle funzioni logiche dei giudizi – che si riferiscono a oggetti dell’esperienza in generale. Il secondo, proprio della matematica, consiste nella costruzione di concetti, prodotti arbitrariamente, nell’intuizione pura e consiste nella dimostrazione – basata su una certezza intuitiva – di un numero potenzialmente infinito di principi che a rigore si riferiscono a semplici forme di oggetti possibili e come tali non possiedono validità oggettiva, ma che mediatamente, grazie al fatto che la stessa forma dell’intuizione cui si riferiscono è forma dell’intuizione dei fenomeni, sono validi anch’essi di oggetti dei sensi in generale (KrV A 223-4/B 271-2). Coerentemente con queste premesse, dunque, Kant osserva ora che «la possibilità di particolari cose della natura non può essere conosciuta in base al loro semplice concetto», dove per possibilità deve essere intesa non «la possibilità del pensiero» ma la possibilità reale, cioè la realtà oggettiva del concetto. Quest’ultimo è infatti empirico, e la sua realtà può essere provata mediante la sola percezione: come avviene in tutte le dottrine empiriche della natura (e in opposizione alla speculazione leibniziana sui possibili). Tuttavia, questa la fondamentale novità, Kant afferma ora che esiste anche un modo di «conoscere a priori la possibilità di particolari cose della natura». Si 331

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tratta semplicemente di applicare ad esse lo stesso procedimento tipico della matematica: se ne deve costruire il concetto, cioè dare a priori l’intuizione ad esso corrispondente e dunque produrla mediante la sintesi dell’immaginazione pura sviluppata secondo regole. Quest’ultima possibilità di costruire un concetto empirico non era mai stata discussa nella Critica, sebbene fosse implicita nell’idea di una fisica matematica che vi veniva talvolta menzionata. La matematizzazione dei fenomeni era garantita in genere dai primi due principi trascendentali, e Kant accennava già, in proposito, alla possibilità di costruire i fenomeni corrispondenti. Ma a giudicare dagli esempi kantiani questa matematizzazione corrispondeva essenzialmente a una misurabilità di proprietà sensibili: l’intensità della luce del Sole, per esempio, si poteva considerare equivalente a 200.000 volte quella della Luna. L’anticipazione della percezione, in questo caso, consisteva nel provare la possibilità di questa quantificazione, la costruzione consisteva nel passaggio da una semplice percezione a una sintesi quantitativa, fondata su un’unità di misura convenzionale (come il «quanto di illuminazione») e realizzabile a priori nell’intuizione pura8. Kant si riferisce ora alla costruzione non della generica quantità di un fenomeno in generale, in quanto sottoposto alle forme dell’intuizione, ma di un oggetto fenomenico esistente e dotato di particolari proprietà empiriche. Quando parla di costruzione del concetto di un simile fenomeno, tuttavia, egli non si sta ancora riferendo a un compito della metafisica della natura particolare – che in tal caso non sarebbe più metafisica ma matematica – ma pensa piuttosto alla fisica matematica, che pure non ha ancora nominato. Quale sarà allora il compito della nuova metafisica? La questione viene affrontata definitivamente in un passo successivo, dopo due capoversi dedicati alla discussione degli esempi di chimica e psicologia empirica. Esso contiene final8 Cf. KrV A 170/B 212 (l’esempio della luminosità del Sole si trova però in A 179/B 221). Sulla determinazione dell’unità di misura si può trarre un interessante approfondimento nel § 26 della terza Critica (KU 251ss.) dove si tratta della «comprensione estetica». Questa indica infatti una grandezza relativa alla soggettiva capacità di percepire, quale può essere l’estensione del campo visivo, su cui si fonda la “deduzione” del concetto di sublime; ma può essere anche quella di un braccio o regolo che venga posto alla base di un sistema metrico.

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mente la chiave di lettura dell’opera, quel fondamento di legittimità della nuova metafisica che mancava alle definizioni precedenti (MA 472): Affinché però divenga possibile l’applicazione della matematica alla dottrina dei corpi, che solo grazie a quest’applicazione può divenire scienza, si devono premettere principi della c o s t r u z i o n e dei concetti che appartengono alla possibilità della materia in generale; deve cioè essere posta a fondamento una compiuta scomposizione del concetto di una materia in generale, il che costituisce un compito della filosofia pura, per il quale essa non si serve di nessuna esperienza particolare, ma soltanto di ciò che si trova isolando questo concetto (che pure in sé è empirico) in riferimento alle intuizioni pure nello spazio e nel tempo (secondo leggi che dipendono già essenzialmente dal concetto di natura in generale), e che dunque costituisce una vera e propria m e t a f i s i c a d e l l a n a t u r a c o r p o r e a.

È opportuno liberare il ragionamento kantiano dalla sua forma contratta e a tratti oscura. In precedenza, Kant aveva sostenuto che una fisica pura, a prescindere dalla sua parte trascendentale, presuppone la costruzione del suo oggetto, ma che la costruzione dell’oggetto è possibile solo in matematica. In effetti la matematica, mentre è in grado di costruire a priori il suo oggetto, non può costruire a priori l’oggetto fisico; perché vi possa essere una fisica matematica – o, come Kant la chiama altrove, «matematica applicata» (MA 487) – si deve giustificare la possibilità di costruzioni matematiche che permettano di rappresentare (e definire) a priori le proprietà degli oggetti fisici, così come fa la fisica matematica, in cui attraverso costruzioni matematiche dei fenomeni si ricavano le leggi del movimento. Dato che l’intuizione della materia è empirica questa possibilità si deve giustificare indirettamente, mediante un’indagine sulla possibilità di rappresentare con la matematica le proprietà fondamentali della materia (raccolte e collegate secondo un criterio a priori), che costituiscono il concetto di «materia in generale»: essa risulta dunque nella formulazione di principi della «possibilità della c o s t r u z i o n e dei concetti che appartengono alla rappresentazione della materia in generale». 333

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I concetti empirici che appartengono alla rappresentazione della materia in generale vengono presentati esplicitamente più avanti: «il movimento, il riempimento dello spazio, l’inerzia, e così via» (MA 472)9. Già da questi esempi, si vede come l’analisi del concetto di materia posta alla base della nuova opera sia diversa rispetto a quella della Critica, in cui la materia veniva risolta nei soli predicati di «estensione» e «impenetrabilità» (KrV A 618/B 646). Adesso Kant, tenendo a mente le ricerche realizzate nella nuova opera, assume l’analisi delle proprietà della materia tipica dei fisici matematici, che a quei predicati ne aggiungevano altri come mobilità e inerzia. Le proprietà della materia fornite da questa analisi, infatti, non sono altro che quei «concetti comuni» di cui i fisici matematici si sono sempre serviti «senza indagarne le fonti a priori». Tra essi non si trova la forza, e la presenza dell’inerzia non basta ancora a stabilire la presa di distanza rispetto alla dinamica leibniziana e wolffiana. Quel che Kant non dice, per ora, è che in base a quei concetti egli ricaverà nell’opera una subordinazione delle proprietà meccaniche a quelle dinamiche: la validità di un dinamismo newtoniano sarà infatti un risultato, che con la semplice definizione di materia non è ancora acquisito10. 9 I tre concetti corrispondono rispettivamente alle categorie di quantità, qualità e relazione, e dunque alle prime tre sezioni dell’opera secondo lo schema che Kant sta per introdurre. L’«e così via» dell’elenco si può riferire al quarto titolo categoriale, la modalità, cui però nella quarta sezione dell’opera − la Fenomenologia − non corrisponde l’esame di nuove proprietà della materia, bensì un riesame della trattazione del movimento sviluppata attraverso le precedenti sezioni. Considerando che il discorso si sta qui riferendo alle lacune della teoria fisica prima ancora che alla struttura della nuova opera, l’espressione si potrebbe altrimenti riferire a concetti come forza e massa, che verranno ricavati in base all’esame dei tre qui elencati e dunque, per Kant, non rientrano in senso stretto nella essenza logica della materia ma, come si vedrà, sono ricavati sinteticamente quali «attributi». 10 Buchdahl ha sostenuto che questo riferimento a concetti della scienza del tempo costituirebbe il punto d’innesto della contingenza storica nel discorso kantiano, il cui valore esemplare si potrebbe ripensare sostituendo a questi i concetti propri della fisica successiva (BUCHDAHL, Kant’s ‘Special Metaphysics’ and the Metaphysical Foundations of Natural Science, in R.E. BUTTS (ed.), Kant’s Philosophy of Natural Science, Dordrecht 1986, pp. 127-161, rist. in ID., Kant and the Dynamics of Reason, pp. 288314). In ogni caso, si tratta di un innesto mediato da autonome considerazioni critiche: seguendo il filo conduttore delle categorie Kant introdurrà un ordine in un repertorio

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Il procedimento della metafisica della natura sarà dunque il seguente. Essa comincerà con l’isolare i concetti essenziali mediante una «scomposizione del concetto di materia». Le diverse proprietà così ottenute – come: mobilità e riempimento dello spazio – andranno poi riferite alle intuizioni pure di spazio e tempo. Questo «riferimento» a spazio e tempo, come si vedrà nel corso dell’opera, consisterà in un riferimento a costruzioni possibili nell’intuizione pura delle diverse proprietà della materia in quanto mobile. In generale, come Kant specifica nel seguito della Prefazione, si tratterà di riportare le proprietà della materia alla «determinazione fondamentale» del movimento (MA 476). Il movimento, infatti, è un concetto che si può rappresentare a priori mediante una sintesi di spazio e tempo, pur presupponendo la rappresentazione empirica di qualcosa che si muove. Grazie a questa possibilità i «teoremi» contenuti nell’opera dimostreranno la possibilità di rappresentare determinate proprietà della materia mediante costruzioni di movimenti nell’intuizione pura, e anzi la necessità di farlo, ottenendo così delle proposizioni a priori relative a queste proprietà (per es.: ‘il movimento rettilineo è un movimento relativo’, o ‘il riempimento dello spazio presuppone l’azione di una forza repulsiva originaria’). In questo modo, partendo da concetti empirici rappresentabili si inferiranno, come loro condizioni, concetti quali causa, azione e forza, che in sé sono irrapresentabili11. Tutto questo procedimento non fornirà però i dettagli matematici di queste costruzioni, che devono essere realizzate in fisica matematica, per esempio, nel caso dell’inferenza dei concetti dinamici, secondo il metodo newtoniano del confronto fra costruzioni matematiche posdiseguale di definizioni e proprietà, ricavandone l’«essenza logica» della materia. Tratteremo della questione nel § 6.1. 11 MA 486-487: «Per la costruzione dei concetti si richiede che la condizione della loro rappresentazione non sia tratta dall’esperienza, dunque che non presupponga determinate forze la cui esistenza si possa ricavare dalla sola esperienza, oppure, in generale, che la condizione della costruzione non sia essa stessa un concetto che non si può dare nell’intuizione, come per es. quelli di causa ed effetto, azione e resistenza ecc.» La scienza pura del movimento nell’esempio che qui Kant sta trattando, è dunque possibile se si considera quest’ultimo come puro quantum, astraendo dalle sue proprietà dinamiche.

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sibili e osservazioni sperimentali. Solo mediante questa indagine preliminare, tuttavia, i fisici potranno rendere «il concetto del loro specifico oggetto, la materia, adeguato a priori per l’applicazione all’esperienza esterna» (MA 472). Da definizioni puramente empiriche, infatti, concetti come quello di impenetrabilità, rappresentati mediante costruzioni del movimento, diverranno rappresentabili come relativi a una totalità di fenomeni collegati nello spazio secondo leggi (in ciò, infatti, risiede il significato normativo dell’«esperienza esterna»). Ecco perché le costruzioni matematiche, oltre che possibili, sono anche necessarie per una scienza della natura. Il compito della metafisica della natura, per poter essere realizzato completamente, dovrà realizzarsi seguendo il filo conduttore delle categorie – o come Kant dice altrimenti, dei principi trascendentali – con cui andranno «confrontate» tutte le proprietà della materia in quanto mobile12. Questo perché «lo schema per la completezza di ogni sistema metafisico [...] è la tavola della categorie» e solo seguendo questo schema la metafisica potrà raggiungere la completezza che le è propria (MA 473-4). Lo schema delle diverse categorie servirà a raccogliere le proprietà della materia in generale secondo un criterio a priori e dunque completo che ne 12 È stata molto discussa l’affermazione di Kant secondo cui i Principi metafisici conterrebbero un’«applicazione dei principi trascendentali» (MA 470; cf. la citata lettera a Ch.G. Schütz del 13 settembre 1785). L’accettazione acritica di questa affermazione ha favorito l’immagine di quest’opera come semplice corollario della Critica, o addirittura come contaminazione dei più generali principi della Critica con contenuti contingenti tratti dalla fisica del tempo. In realtà, come risulta dal resto della Prefazione (MA 474ss.) e dalle indicazioni kantiane nelle quattro sezioni dell’opera (MA 495, 523, 551, 558) i principi metafisici sono piuttosto una nuova applicazione delle categorie, parallela a quella dei principi trascendentali (che a loro volta sono un’applicazione delle categorie), con cui dunque essi vengono «confrontati», ma relativa non più all’oggetto dei sensi in generale, bensì all’oggetto del senso esterno. D’altra parte, a giudicare dalla quantità di esempi fisici contenuti nell’Analitica dei principi, si può ipotizzare che i principi metafisici – il cui contenuto è quasi sempre ripreso dalle opere o dalle annotazioni ‘precritiche’– costituissero in alcuni casi il modello da cui risalire ai principi trascendentali, analogamente a come questi ultimi, secondo la celebre tesi di Hermann Cohen, avrebbero influenzato la composizione della tavola delle categorie, essendo a loro volta ricavati da una riflessione sui principi della fisica newtoniana.

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esaurisca la determinazione13. La metafisica della natura corporea consisterà dunque in una «scienza pura del movimento» articolata in quattro sezioni, corrispondenti alle categorie di quantità, qualità, relazione e modalità. La prima sezione (Foronomia) contiene l’esame della rappresentazione pura del movimento e della possibilità di un suo studio quantitativo, secondo un procedimento che sarà fondamentale per la dimostrazione dei teoremi successivi. La seconda (Dinamica) si occuperà della qualità della materia, secondo cui essa riempie lo spazio. La terza (Meccanica) tratterà delle relazioni fra le parti della materia che si mettono reciprocamente in movimento. La quarta (Fenomenologia) tratterà del movimento secondo la «modalità» dell’esperienza, cioè come fenomeno che può essere considerato apparente, reale o necessario (MA 477). Alla luce della presente ricostruzione, risulta in generale chiaro il senso dei «principi metafisici» kantiani, in quanto giudizi sintetici a priori basati su un concetto empirico, e dunque non puri. Kant fonda la possibilità di tali giudizi sulla successione di un passaggio analitico e di uno sintetico, ovvero, rispettivamente, l’analisi del concetto empirico di materia e l’indagine sulla possibilità della costruzione a priori dei suoi predicati14. 13 L’importanza della tavola delle categorie dipende dalla completezza della logica formale, da cui essa è ricavata. Su questo punto cruciale torneremo nel § 6.1. 14 Sulla grande importanza che Kant attribuisce all’analisi dei concetti in filosofia cf. KrV A 5/B 9. Nella cornice della prima Critica, però, mentre i principi trascendentali costituiscono la parte sintetica della metafisica generale, l’analisi dei concetti metafisici corrisponde al mero perfezionamento di essa secondo la forma di un sistema. Ora l’analisi diviene un momento dell’esposizione dei principi metafisici che devono rendere possibile la fisica: essa deve precedere il momento sintetico, perché deve fornire ad esso il filo conduttore, analogamente a quanto faceva la tavola dei giudizi nella logica trascendentale (dove, tuttavia, Kant non considerava questo punto di partenza come analisi del concetto storico di una scienza). Un accenno alla compresenza di momento analitico e momento sintetico nel metodo della metafisica si trova già nel § 4 dei Prolegomena, dove Kant scrive che «i giudizi p r o p r i a m e n t e m e t a f i s i c i sono tutti sintetici: si devono distinguere i giudizi a p p a r t e n e n t i a l l a m e t a f i s i c a da quelli propriamente m e t a f i s i c i. Dei primi, moltissimi sono analitici, ma costituiscono soltanto i mezzi per i giudizi metafisici: solo questi ultimi formano il completo fine della scienza, e sono sempre sintetici» (KgS IV 273). Cf. Über eine Entdeckung, KgS VIII, 226ss. Sulla questione dell’analisi J. PROUST, Analyse et dé-

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Questa concezione costituisce un’originale rielaborazione di un’epistemologia della fisica già diffusa all’epoca. Per esempio, uno statuto misto della conoscenza fisica era stato già riconosciuto da Leibniz: ma si trattava pur sempre di una conoscenza resa imperfetta dallo statuto della sensibilità15. La tesi di una necessaria combinazione di dati della sensibilità e operazioni dell’intelletto, posta la distinzione irriducibile tra le due facoltà, era stata avanzata da Lambert sul piano della metodologia generale, per esempio nella Prefazione al Neues Organon, dove questi distingueva un momento empirico e uno razionale della conoscenza, associandoli rispettivamente all’analisi delle percezioni di Locke e alla logica di Wolff; l’apprezzamento reciproco tra Lambert e Kant, come ricordiamo, risale proprio alla fine degli anni ’60, periodo cui risale anche la prima concezione dei “principi metafisici”. A quest’epoca, come abbiamo visto esaminando gli scritti precritici, Kant era già in possesso di prime versioni delle dottrine destinate a ricomparire nella nuova opera, e forse anche di una prima stesura16. Ma nella elaborazione definitiva della fisica pura del 1786 si pone una questione prima inconcepibile, che investe l’intera filosofia della natura: se infatti sono possibili giudizi sintetici a priori basati su concetti empirici, non viene così smentita la distinzione fondamentale della Critica tra conoscenze a priori e empiriche? Al confinition chez Kant, «Kant-Studien» 66 (1975), 3-34. Sul «metodo analitico» di Kant in metafisica si trova un utile riepilogo in FALKENBURG, Kants Kosmologie, pp. 61-98. 15 Anche secondo Leibniz, infatti, la dinamica svolge una costruzione matematica di un concetto, la vis viva, che viene tratto dall’esperienza, e nel fare questo si basa su un «principio metafisico» (quello secondo cui «l’effetto totale è sempre uguale all’intera causa»). In quanto fondata su queste premesse miste, la fisica – a differenza della logica e della matematica – fornisce conoscenze necessarie ma contingenti, fondate sul principio di ragione. Cf. M. GUEROULT, Leibniz. Dynamique et métaphysique, in part. pp. 26-27 e 159-160. In questa prospettiva storica, il problema della fisica pura kantiana sorge dall’assenza, nella filosofia critica, di un principio metafisico di ragione, come quello leibniziano, dotato di validità autonoma e indipendente dall’esperienza. Leibniz parla di verità «miste», dedotte dai teoremi e dalle osservazioni tra loro combinati, a proposito delle proposizioni astronomiche, per esempio nei Nouveaux essais, IV, XI, § 13; A VI, 6, p. 446. 16 Una stesura dei Principi metafisici all’epoca del primo annuncio di un’opera così intitolata, cioè la metà degli anni ’60, viene ipotizzata da Höfler (KgS IV, 636-637), ma non è documentata.

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trario − come confermerà nel dettaglio l’esame della nuova opera − si può affermare: piuttosto che contraddire l’impostazione della filosofia trascendentale, il procedimento della metafisica della natura particolare mette in luce una complessità del rapporto fra momento a priori e momento empirico della conoscenza che era latente già nella Critica e che non a caso viene messa in evidenza proprio nella Introduzione alla seconda edizione del 1787. Qui, dopo aver affermato che «ogni nostra conoscenza comincia con l’esperienza», Kant precisa che non tutte le conoscenze a priori sono pure, riferendosi proprio al caso di uno dei principi trascendentali, quello secondo cui «ogni cambiamento ha la sua causa», il quale «è una proposizione a priori, ma non è pura, perché il cambiamento è un concetto che può essere ricavato soltanto dall’esperienza» (KrV B 3). Il concetto di giudizi sintetici a priori non puri va riferito dunque anche ad alcuni dei principi trascendentali e viene discusso dallo stesso Kant in replica ad un critico che già al tempo aveva riscontrato un’incongruenza nella prima edizione della Critica a proposito del concetto di cambiamento17. Di essi si può dire, in generale, che uno dei due concetti che vi vengono connessi è empirico, l’altro puro, ma che la connessione tra essi, realizzata con il giudizio, possiede una giustificazione a priori: la differenza di questa giustificazione è precisamente ciò che distingue i principi trascendentali da quelli metafisici, in quanto gli uni la traggono dal principio discorsivo della possibilità dell’esperienza, gli altri dalla rappresentazione intuitiva del movimento come esibizione schematica dei concetti empirici18. 17 Kant aveva indicato «ogni cambiamento ha una causa» prima come esempio di proposizione cui è mescolato qualcosa di empirico, poi come proposizione pura a priori. La recensione che metteva in evidenza questa incongruenza comparve anonima sulla «Neue Leipziger Gelehrten Zeitung», 94 (1787), pp. 1489-1492. Kant replicò nello scritto Über den Gebrauch teleologischer Prinzipien, KgS VIII, 183-184, riformulando il secondo esempio come «ogni contingente ha una causa». Il chiarimento dunque aggirava la questione epistemologica che si ripropone per i Principi metafisici. 18 In KrV B 17 Kant menziona proprio due dei principi metafisici – la legge della conservazione della sostanza corporea e la legge di azione e reazione – come proposizioni di cui è chiara «l’origine a priori» e la sinteticità. Secondo la presente interpretazione, l’origine della proposizione va qui distinta dall’origine dei concetti in essa

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In particolare, è interessante notare fin da subito che l’esempio kantiano qui citato si riferisce a uno dei principi dinamici, cioè ad uno di quei principi trascendentali che, come i principi metafisici, presuppongono il concetto di esistenza. Discutendo la questione si tratta dunque non solo di esaminare come la conoscenza a priori possa sopportare il riferimento a un concetto empirico, ma anche in che modo ciò avvenga diversamente nel caso dei principi trascendentali e in quello dei principi metafisici19. Nel primo caso la corrispondenza tra posizione di esistenza e dato percettivo ci si è rivelata legittima, ma bisognosa di una integrazione (§ 3.4). Concetti come cambiamento, movimento e impenetrabilità non possono essere anticipati o dedotti a priori. Il problema di giustificare la presenza di questi concetti – aggirata sul piano della filosofia trascendentale − è stata dunque rimandata alla dinamica pura. In questo caso, tuttavia, il problema della contingenza sembra porsi identicamente, e con più gravità, in quanto non differibile. Non sono infatti movimento e impenetrabilità concetti da inventariare tra le qualità dell’esperienza che non appartengono alla possibilità generale ma al contenuto «propriamente empirico» della sensazione? Come giustificarne allora la presenza nella fisica pura? Kant non pose mai il problema esplicitamente, ma ne fu ben consapevole e tentò diverse strade per risolverlo. Nei Principi metafisici, come vedremo meglio, egli muoverà da un esame della proprietà fondamentale dell’impenetrabilità, che corrisponde precisamente alla specificazione spaziale dell’esistenza, ed è nello stesso tempo causa della repulsione e della stessa percezione sensibile, e dunque fondamento dell’intera connessione intramondana dei corpi. A partire da essa Kant riterrà, aiutato dal filo conduttore categoriale, di poter ricavare dalle infinite proprietà della materia quelle che ne costituiscono l’essenza logica, cioè i requisiti necessari dell’esicontenuti, mentre la questione consiste nel carattere – a priori o a posteriori – dell’atto sintetico che attesta la loro congiunzione. 19 Sui «giudizi sintetici a priori non puri» si veda K. CRAMER, Nicht-reine synthetische Urteile a priori, Heidelberg 1986. Un rapporto tra principi a priori e fisica empirica, come abbiamo visto, si riaprirà ancora sia nella Kritik der Urteilskraft che nell’Opus postumum. Rimando rispettivamente all’Appendice e alla parte III del presente libro.

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stenza fisica. La determinazione del rapporto tra elementi empirici e puri della fisica dipende dunque da un’articolazione interna del concetto kantiano di esperienza che Kant non porta spesso alla chiarezza di una distinzione terminologica20. Per ora si può concludere, tuttavia, che Kant non dubita della possibilità di una conoscenza metafisica a priori fondata su concetti empirici, e che anzi la ritiene analoga a quella che nella tradizione scolastica si attribuiva normalmente alla fisica matematica. Questa analogia si può ricavare da una Nachschrift di metafisica relativa all’anno 1782-1783. Nella trattazione della conoscenza «a priori secundum quid», propria della fisica, Kant afferma che in questa scienza, posti i principi empirici (per es. la legge della caduta, e le condizioni iniziali di un moto), si possono ricavare a priori e necessariamente delle conseguenze (le posizioni del corpo al variare del tempo). Vi è una differenza essenziale tra questa conoscenza e quella che Kant intende includere nella nuova metafisica: mentre infatti i fisici matematici (si pensi a Galilei) introducono nell’esperienza una necessità valida solo ipoteticamente, le definizioni e le prove della fisica pura, in quanto ricavate interamente nell’intuizione pura, devono essere dotate di una validità apodittica (sia pure a livello solo fenomenico)21. In che modo, però, questo esempio può 20 Una distinzione di diversi sensi del termine kantiano ‘esperienza’ viene posta, in base a un’imponente analisi delle fonti, nel già ricordato studio di HOLZEY, Kants Erfahrungsbegriff. Vengono qui stabilite una differenza e una stratificazione tra la determinazione collettiva e normativa dell’esperienza e diverse determinazioni particolari, come l’esperienza in quanto atto percettivo (nel senso del «fare esperienza») e l’esperienza nel senso di esperimento. 21 L’analogia si trova nella Metaphysik Mrongovius, in un passo dedicato alla conoscenza a priori empiricamente fondata: «Qualcosa può essere [conosciuto] simpliciter a priori e a priori secundum quid – a priori secundum quid quando conosco qualcosa mediante la ragione, ma da principi empirici, per es., se lancio una pietra orizzontalmente – di modo che non cada verticalmente – si può determinare la curva a priori, ma secondo le leggi della gravità, che noi conosciamo a posteriori» (KgS XXIX, 750. Cf. Reflexion 3519, KgS XVII, 33 e BAUMGARTEN, Metaphysica, § 28). È interessante che Kant, per illustrare il concetto generale di una conoscenza a priori, impieghi un esempio tratto dalla fisica newtoniana. In senso stretto, vi si allude alla possibilità, mediante la costruzione matematica del movimento, di ottenere a priori una conoscenza – la traiettoria del grave – ricavata però in base a un principio empirico. Ora, sebbene l’esempio risulti in generale efficace, esso contiene un certo grado di approssima-

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valere per comprendere la possibilità della fisica pura? Poche pagine dopo, a margine dell’introduzione del concetto di questa scienza, Kant riprende la questione della sua legittimità ricalcando il passo dell’Architettonica che si è citato in precedenza. Posto che corpo e anima sono concetti empirici, Kant si domanda: Dunque, come posso includere qui [nella fisiologia razionale] la fisica razionale e la psicologia razionale? Osserviamo che un oggetto può essere dato mediante l’esperienza solo se lo consideriamo secondo principi che sono a priori. Per es., il concetto di un essere pensante o corporeo è dato mediante l’esperienza. Ma se io non traggo i principia delle proprietà dall’esperienza, allora l’oggetto è dato ma non i principia, e perciò può appartenere alla metafisica22.

Sul significato generale della metafisica della natura dei Principi metafisici, quale emerge dalla definizione del suo metodo, si può dunque concludere: la metafisica della natura non può essere una scienza, ma deve fornire principi per una scienza. Non fornirà una costruzione del concetto di materia – come vorranno molti interpreti anche recenti23 – ma principi della possibilità di una tale zione: il caso in questione, per Kant, andrebbe infatti esaminato più approfonditamente. In particolare, egli escluderà che la legge di gravità sia una conoscenza del tutto empirica (e addirittura ipotizza in questo stesso periodo, nei Prolegomena, che la si possa ricavare del tutto a priori). Ma non è strano trovare un certo grado di approssimazione in un esempio che serve in generale a definire la possibilità di un certo genere di conoscenza. 22 KgS XXIX, 756. In che senso una tale conoscenza a priori sarà a priori secundum quid? Essa, per usare le parole del manuale di Baumgarten, dovrebbe fornire «un principio [Grund] che possiede a sua volta un principio». Tuttavia, precisa Kant, non è il principio che deve essere ricavato empiricamente, ma solo il concetto cui esso si riferisce: è proprio nel non aver colto questo che risiede l’errore tipico dell’adozione, da parte di fisici matematici, di (presunti) principi fisici di origine puramente empirica. La possibilità di una conoscenza metafisica empiricamente fondata, dunque, viene pensata da Kant in analogia con il procedimento dei fisici, ma rispetto a quest’ultimo viene modificata riguardo al punto della necessità apodittica, che abbiamo segnalato. Resta il problema di come si possa stabilire la definizione del concetto empirico di materia, che affronteremo nel § 6.1. 23 Tra gli interpreti moderni l’indistinzione tra «costruzione» e «principi della co-

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costruzione, che deve essere matematica e trovare conferma nell’esperienza: così come avviene, per esempio, nei Principia di Newton.

5.2. Non una “fondazione della fisica newtoniana”: fisica pura e scienze empiriche I Principi metafisici sono disseminati di riferimenti e di vere e proprie citazioni dai Principia mathematica di Newton, che certamente Kant teneva sulla sua scrivania durante la stesura dell’opera. È notevole che Kant, il quale raramente si serviva di citazioni dirette da opere altrui, prendesse in mano proprio i Principia di Newton, e non uno dei tanti e più recenti compendi o trattati di filosofia naturale, che pure conosceva e che erano spesso le principali fonti delle sue conoscenze in materia. L’opera di Newton costituisce agli occhi di Kant il modello esemplare del trattato di fisica matematica: possiede il difetto di dare per scontati determinati concetti fondamentali di cui si deve occupare la metafisica della natura, ma anche per questo rappresenta pur sempre il modello della fisica con cui confrontarsi. La metafisica della natura intende affiancarsi a questa fisica, e emendarne un aspetto metodologico, ma non certo sostituirvisi, perché – come Kant ripete più volte – è del tutto al di fuori delle possibilità di una fisica a priori il contribuire al progresso delle vere e proprie conoscenze fisiche: la fisica, infatti, progredisce da sé con profitto, «mediante l’osservazione, l’esperimento e l’applicazione della matematica ai fenomeni esterni» (MA 477). Simili affermazioni, insieme ai limiti che Kant attribuisce ai teoremi della fisica pura, mostrano l’abisso che separa la filosofia della natura di Kant da quelle dell’istruzione» è molto diffusa, anche sulla base di un passo della Prefazione, il cui testo è lacunoso, in cui compare l’espressione «costruzione metafisica», che non ricompare più, né viene mai giustificata. Per una discussione di questi interpreti e una possibile correzione del passo si veda l’Appendice a questo capitolo (§ 5.3). Un chiaro riconoscimento della distinzione kantiana si trova in B. FALKENBURG, Kants Kosmologie, p. 289, ma, per esempio, già nel libro di C. LUPORINI, Spazio e materia in Kant, Firenze 1961, pp. 335ss.

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dealismo tedesco successivo, che pure si richiameranno proprio ai Principi metafisici kantiani come a una fondamentale fonte di ispirazione. La differenza viene segnata proprio da un rapporto radicalmente opposto con la fisica newtoniana: per Kant, essa racchiude pur sempre il metodo esemplare della fisica e procede da sé con profitto; e benché le manchi, dal punto di vista filosofico, una trattazione adeguata dei propri concetti fondamentali, questa trattazione, sebbene «metafisica», non coincide con una penetrazione dell’essenza delle cose, condotta secondo i metodi e gli obiettivi della metafisica. Tutto il contrario nella Naturphilosophie di autori come Schelling, o Hegel, per i quali la scienza newtoniana è portatrice di un approccio sostanzialmente estrinseco alla natura, che va sostituito con una indagine filosofica di ispirazione del tutto diversa, che dai fenomeni ricavi l’esigenza di risalire a concetti metafisici come l’anima o la libertà spirituale, e infine al principio assoluto da cui dedurre le nature particolari. Nonostante i richiami a Kant, viene meno qui completamente la kantiana separazione di principio fra le diverse parti della fisica e della metafisica, come pure il legame diretto e privilegiato con la fisica newtoniana. Il segno più evidente della diversità di vedute, che si associa ad una incomprensione della stessa prospettiva kantiana, sta proprio nel passaggio dalla indagine sulla possibilità della costruzione del concetto di materia – costruzione che per Kant dovrà essere matematica, come nei Principia di Newton – alla vera e propria costruzione a priori della materia, che da Schelling24 e He24 Schelling si richiama al dinamismo kantiano come fonte di ispirazione per la «costruzione dinamica della materia» che egli considera «il solo compito della scienza della natura» e si propone di perfezionare procedendo «assolutamente a priori» in base a «principi in se stessi certi». Kant avrebbe infatti peccato di empirismo, presupponendo la rappresentazione della materia alla sua costruzione. Si veda per es. F.W.J. SCHELLING, Allgemeine Deduktion des dynamischen Prozesses oder der Categorien der Physik, in «Zeitschrift für spekulative Physik», I, 1-2 (Jena/Leipzig 1800), §§ 1, 30-31; in ID., Werke, vol. 8, Stuttgart 2004, pp. 297 (compito della scienza della natura), 318-320 (critica alla costruzione kantiana, che presuppone la rappresentazione della materia per esibire le forze). Cf. nello stesso fascicolo della rivista, Miscellen, A, in Werke, vol. 8 cit., p. 413 (per la dichiarazione di metodo). Ma gli scritti di «fisica speculativa» di Schelling, dalle Ideen del 1797 alla «Zeitschrift» del 1800, conferiscono una importanza esemplare anche e soprattutto alle opere del fisico svizzero

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gel25 viene presentata come la questione fondamentale dei Principi metafisici di Kant. Nonostante il rapporto privilegiato di Kant con Newton e il newtonianismo, di cui abbiamo studiato il radicamento in ambito gnoGeorges-Louis Le Sage e della sua scuola. Questi ipotizzava un fondamento atomistico della gravitazione, ma veniva lodato da Schelling soprattutto per la «speculative Tendenz» (ivi, p. 411). È un altro esempio dello slancio interpretativo con cui Schelling rielaborava le più diverse teorie di filosofia naturale, su cui è da vedere R. LAUTH, Die Genese von Schelling Konzeption einer rein aprioristischen spekulativen Physik und Metaphysik aus der Auseinandersetzung mit Le Sages spekulativer Mechanik, «KantStudien» 75 (1984), pp. 75-93. Cf. S. POGGI, Il genio e l’unità della natura. La scienza della Germania romantica (1790-1830), Bologna 2000, pp. 224-226 e 258-269. 25 Prima del ripensamento gnoseologico della Fenomenologia, l’opposizione di Hegel all’estrinsecità del dinamismo newtoniano (in contrapposizione all’impostazione metafisica di Kepler) è documentato già nella dissertazione De orbitis planetarum del 1801. Al termine della stagione della Naturphilosophie idealistica fu lo stesso Hegel a riconoscere che i Principi metafisici, in particolare la Dinamica, avevano risvegliato l’interesse per una filosofia della natura che non si fermasse alle determinazioni empiriche della materia presupposte dalla fisica: «È noto che Kant c o s t r u ì l a m a t e r i a i n b a s e a l l a f o r z a r e p u l s i v a e a t t r a t t i v a, o per lo meno, secondo ch’egli si esprime, stabilì gli elementi metafisici di questa costruzione [...] Questa esposizione metafisica di un oggetto, che non solo di per se stesso, ma anche nelle sue determinazioni, sembrava unicamente appartenere all’ e s p e r i e n z a, è notevole sotto un doppio aspetto: da una parte perché, quale tentativo del concetto essa dette se non altro la spinta alla moderna filosofia della natura (alla filosofia cioè che non pone a fondamento della scienza la natura come data sensibilmente alla percezione, ma ne conosce invece le determinazioni partendo dal concetto assoluto), d’altra parte poi perché spesso non si è fatto che rimanere a quella costruzione kantiana, ritenendola quale un cominciamento filosofico ed una base della fisica». Hegel, d’altra parte, riprendeva la critica di Schelling secondo cui Kant avrebbe di fatto proceduto analiticamente: «Il procedimento di Kant nella deduzione della materia da queste forze, procedimento che vien da lui chiamato c o s t r u z i o n e, non merita a meglio considerarlo questo nome [...] è cioè nella sua sostanza a n a l i t i c o, non costruttivo. Kant p r e s u p p o n e l a r a p p r e s e n t a z i o n e d e l l a m a t e r i a, e poi si domanda quali forze occorrano per ottenere le sue presupposte determinazioni». Hegel dunque non vede che per Kant l’analisi della rappresentazione empirica doveva essere integrata da una indagine sulla possibilità della costruzione nell’intuizione pura. Questo procedimento, come ogni costruzione kantiana, gli sarebbe comunque parso altrettanto estrinseco. Wissenschaft der Logik, Berlin 18322, I, III. C. c., Nota, ora in G.W.F. HEGEL, Gesammelte Werke, vol. 21, p. 167 e ss. Cf. Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, Heidelberg 18303, §§ 231 e 246 (sulla costruzione), 262 (sulla teoria della materia dei Principi metafisici). Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, III, in HEGEL, Werke, vol. 20, Frankfurt a.M. 1972; 19963, pp. 363-364.

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seologico, occorre però chiarire che genere di conoscenza Kant avesse del metodo scientifico newtoniano e in che misura ne conservasse lo spirito. Non c’è dubbio, come abbiamo visto, che Kant non padroneggi fino in fondo i dettagli matematici della fisica di Newton e che, di conseguenza, ne possegga una visione sbiadita, se non distorta. D’altra parte Newton viene celebrato come il massimo filosofo naturale, al punto che Kant cerca di ricalcarne alcune idee in tutta la filosofia. Ma appunto questo passaggio dalla fisica matematica alla sua interpretazione filosofica non resta senza conseguenze. Dai Principi metafisici all’Opus postumum Newton viene tanto celebrato, quanto criticato, in quanto non avrebbe ricavato tutte le necessarie conseguenze delle sue idee: il Newton migliore, insomma, è un Newton emendato. Il caso più esemplare di questa situazione lo fornisce la trattazione del concetto di attrazione. In primo luogo, con esplicita correzione di Newton, l’attrazione viene giudicata essenziale alla materia, e ricavata da un conflitto con una forza repulsiva originaria. Del tutto estrinseco rispetto al modo di procedere di Newton è poi il tentativo kantiano di dimostrare a priori la legge matematica della propagazione delle forze, presentato nella Monadologia physica e ripreso nella Dinamica. Nel caso della forza attrattiva, per esempio, Kant considera la forza come una qualità che a partire dal centro del corpo si propaga distribuendosi su superfici sferiche; intuitivamente, dunque, l’intensità della forza dovrà decrescere in proporzione diretta alla crescita delle superfici. Ma siccome la superficie della sfera è proporzionale al quadrato del raggio, si comprende a priori la proporzionalità inversa tra forza di gravità e quadrato del raggio, espressa nella legge di gravitazione newtoniana. Questa congettura kantiana sostituisce un ragionamento puramente a priori basato su considerazioni geometriche alla combinazione di proposizioni matematiche e osservazioni mirate a selezionare tra esse quelle valide per i fenomeni, che costituisce il vero e proprio procedimento di Newton per dimostrare la legge dell’inverso del quadrato26. 26 Per metodo di Newton intendo qui il procedimento con cui viene giustificata la validità fisica delle proposizioni matematiche dei Principia. Si vedano in proposito I.B. COHEN, The Newtonian Revolution, Cambridge 1980 e la sintesi in ID., A Guide to New-

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Nonostante tutto, però, si deve sottolineare che Kant ebbe consapevolezza del vero e proprio metodo sperimentale di Newton, e non ritenne che vi fosse contraddizione tra esso e la sua integrazione in filosofia pura27. La cosa non doveva sembrargli troppo rivoluzionaria: una tendenza aprioristica era già presente in certo newtonianismo inglese, cui Kant si ispirava per la sua ipotesi sulla legge dell’inverso del quadrato, ed il fatto che egli nell’86 la mettesse in secondo piano riducendone lo statuto a «ipotesi preliminare» è testimonianza di una rinnovata prudenza empirica. In generale, la fisica pura kantiana non mira a dedurre le proposizioni della fisica matematica in base a considerazioni a priori, ma a individuare alcune premesse metafisiche che stanno a fondamento di esse, essendo implicite nella loro formulazione, e che in alcuni casi vengono erroneamente trascurate o addirittura negate all’interno di un’epistemologia empirista. Questa continuità con lo spirito newtoniano si esprime in una distinzione tra principi filosofici e ipotesi slegate da questi principi, le quali, come diceva Newton, sono infondate finzioni. La distinzione si ricava proprio dal passo in cui Kant rivolge il suo appello ai filosofi della natura, per affermare la necessità di una parte pura della fisica (MA 472): Tutti i filosofi della natura che nelle loro ricerche hanno voluto procedere in modo matematico, si sono perciò sempre serviti e dovuti servire (sebbene inconsapevolmente) di principi metafisici, anche se nello stesso tempo protestavano solennemente contro ogni preteton’s Principia, pp. 60-64, 148-155, 274-280, R.S. WESTFALL, Force in Newton’s Physics. The Science of Dynamics in the Seventeenth Century, London/New York 1971, pp. 503-512, G.E. SMITH, The Methodology of the Principia, in I.B. COHEN-G.E. SMITH (ed.), The Cambridge Companion to Newton, pp. 138-174, W. HARPER, Newton’s Argument for Universal Gravitation, ivi, pp. 174-201. Cf. anche KOYRÉ, Newtonian Studies, London 1965, pp. 25-52. 27 Già nella Allgemeine Naturgeschichte Kant mostra di conoscere (almeno approssimativamente) il modo con cui Newton ricava la legge dell’inverso del quadrato del raggio, combinando la sua legge della forza centripeta con la terza legge di Kepler (KgS I, 244). Per queste relazioni matematiche si veda COHEN, A Guide to Newton’s Principia, p. 67. Cf. KgS I, 244-245, dove Kant ricorda anche il modo in cui Newton giunge a identificare la forza di caduta dei pianeti con il peso dei corpi sulla loro superficie.

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sa della metafisica sulla loro scienza. Senza dubbio intendevano sotto questo nome la follia di escogitare arbitrariamente possibilità e giocare con concetti che forse non si lasciano nemmeno rappresentare nell’intuizione, senza avere della loro realtà oggettiva nessun’altra attestazione oltre al fatto che essi non stanno in contraddizione con se stessi. Ogni vera metafisica è tratta dall’essenza della facoltà di pensare stessa, e non è affatto inventata solo per il fatto di non essere tratta dall’esperienza, ma contiene le pure operazioni del pensiero, cioè concetti e principi a priori, i quali per primi connettono secondo leggi il molteplice delle r a p p r e s e n t a z i o n i e m p i r i c h e, in modo che esso possa divenire c o n o s c e n z a e m p i r i c a, cioè esperienza. Così, i suddetti fisici matematici non hanno potuto affatto fare a meno di principi metafisici, e fra questi nemmeno di quelli che rendono adeguato a priori il concetto del loro specifico oggetto, la materia, per essere applicato all’esperienza esterna: come il concetto del movimento, del riempimento dello spazio, dell’inerzia, e così via. A ragione essi ritennero non conforme alla certezza apodittica che volevano dare alle proprie leggi di natura il far valere a tal proposito principi solamente empirici, perciò si limitarono a postularli, senza però cercarne le fonti a priori.

In questo passo Kant sviluppa la sua idea di una gnoseologia implicita alle moderne scienze fisico-matematiche, che celebrerà anche nelle celebri pagine della nuova Prefazione alla Critica. Se però in quel testo l’esempio servirà di paragone per introdurre il concetto della sintesi trascendentale, ora esso viene rivolto direttamente ai fisici matematici, rimproverati di non procedere conseguentemente con il loro metodo. Non si tratta in questo caso di negare l’origine strettamente empirica del concetto di materia, per esempio di proprietà come movimento, riempimento dello spazio, inerzia, ma di «rendere adeguato» questo concetto all’esperienza. A questo scopo, sostiene Kant, i fisici hanno dovuto necessariamente presupporre dei principi metafisici. Dato il contesto, si deve intendere che i principi trascendentali, condizioni della stessa misurabilità dei fenomeni, siano qui dati per scontati e che Kant si riferisca a principi come le leggi del moto – che comportano nella fisica newtoniana anche lo spazio assoluto – e l’esistenza di corpi infinitamente duri. Soltanto in base a tali principi, infatti, è possibile passare dalla percezione allo studio matematico dell’oggetti348

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vità fisica. Ma i fisici, pur riconoscendo che questi principi non possono essere empirici, non ne sanno giustificare la presenza nella loro scienza razionale a priori. L’intero discorso, come conferma il contenuto dell’opera che viene qui introdotta, deve essere riferito soprattutto ai fisici newtoniani, in primo luogo allo stesso Newton, di cui erano note le aperture metafisiche: l’opera conterrà infatti un compiuto esame sui presupposti generali della meccanica, dallo spazio assoluto alle leggi del moto28. Ma il discorso resta valido anche per fisici matematici successivi, come Euler, secondo il quale la validità delle leggi del moto era attestata dal successo della spiegazione dei fenomeni, e la nozione di spazio assoluto ne era un postulato29. Compito della metafisica della natura corporea, dunque, sarà di mostrare come principi a priori si possano e si debbano applicare alla materia in quanto soggetto del movimento, come condizioni di possibilità della conoscenza scientifica e in particolare fisico-matematica. In questa prospettiva, al termine della Prefazione ai Principi metafisici, Kant – auspicando l’intervento di «una mano più abile» della sua – si spinge fino a sostenere l’opportunità di un inserimento della nuova metafisica della natura corporea nei manuali di scienza della natura basati sulla matematica, poiché l’una «non può fare a meno» dell’altra (MA 478). Lo stesso titolo della nuova opera richiama volutamente quello dei Principi matematici della filosofia naturale di Newton, di cui vuole costituire un complemento. 28 Newton afferma più volte che tutti i concetti e le leggi generali della meccanica sono ricavati dall’esperienza e estesi per induzione alla totalità dei fenomeni: cf. Principia, Scholium generale, p. 764. Su questo tema si veda l’interessante articolo di R. DI SALLE, The ‘Essential Properties’ of Matter, Space and Time, in P. BRICKER-R.I.G. HUGHES (ed.), Philosophical Perspectives on Newtonian Science, Cambridge Mass. 1990, pp. 203-209. 29 In particolare le considerazioni critiche di Kant potrebbero riferirsi bene al seguente passo di EULER, Réflexions sur l’espace et le tems, § 1 (EOO s. III, 2, p. 376): «I principi della meccanica sono già fissati così saldamente, che avrebbe torto chi dubitasse ancora della loro verità. Se anche non si fosse capaci di dimostrarli in base ai principi generali della metafisica, il mirabile accordo di tutte le conclusioni che si traggono da questi principi mediante il calcolo con tutti i moti dei corpi sia solidi che fluidi esistenti sulla terra, e perfino riguardo ai moti dei corpi celesti, sarebbe sufficiente a mettere fuor di dubbio la loro verità».

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Traendo spunto da queste pagine, e dalla fitta trama di riferimenti impliciti ed espliciti alle opere di Newton, è stato affermato quasi sempre che i Principi metafisici di Kant costituirebbero un tentativo di dare una «fondazione» della fisica di Newton. Benché Kant non usi mai questa espressione, questa convinzione attraversa tutta la ricezione dell’opera e in genere della filosofia naturale kantiana. Fino ai primi anni del XIX secolo – fatto molto significativo – essa viene sottolineata principalmente dai lettori “filosofi”, poiché forse non doveva apparire tanto pertinente ai fisici dell’epoca: la si trova per esempio in Schelling, Hegel, Fries30. Ma ancora all’apice della stagione della Kant-Philologie e con la pubblicazione della Akademie-Ausgabe delle opere di Kant il luogo comune secondo cui questi avrebbe «canonizzato» Newton (così come Euclide) risulta dominante, accompagnandosi talvolta all’idea di un ritorno a Leibniz31. A partire dai primi anni del XX secolo, 30 Abbiamo detto dei distinguo antinewtoniani di Schelling e Hegel lettori dei Principi metafisici, che tentano appunto di andare con Kant oltre Kant, lasciando da parte le cautele “intellettualistiche” che questi condivide con Newton. Da ultimo, e stavolta con favore, Fries riferisce senz’altro il dinamismo kantiano alla fisica di Newton. In una tarda sintesi, per esempio, Fries scrive che i Principi metafisici sarebbero «la completa fondazione [Begründung] filosofica della fisica di Newton, e la liberazione di quest’ultima dai pregiudizi dell’atomistica» − J.F. FRIES, Die Geschichte der Philosophie. Dargestellt nach den Fortschritten ihrer Entwickelung, Halle 1837-1840, I (1837), § 150, p. 550. 31 È significativo che le critiche al sistema kantiano mosse da scienziati e filosofi di orientamento scientifico (come Frege, Russell, Einstein) si affermarono finanche nella rivista «Kant-Studien». L’annata 1924 rappresenta un caso esemplare. E. ADICKES, Kant als Naturwissenschaftler, «Kant-Studien» 29 (1924), presenta un essenziale resoconto sulla ricezione della seconda metà del XIX secolo (pp. 70-71), e afferma la sua tesi della Geistesanlage poco scientifica e generalizzante di Kant, incline a «costruzioni e speculazioni a priori» che fluttuano ad «altezze aeree», perdendo attrito con il «terreno dei fatti» (p. 96). Nel testo particolarmente duro di H. SCHOLZ, Das Vermächtnis der Kantischen Lehre vom Raum und von der Zeit, pp. 21-69, si sostiene che Kant avrebbe «canonizzato» Euclide e Newton e perciò – come sostenuto da Russell e altri – la sua filosofia crollerebbe di fronte alla nuova logica matematica e alla nuova fisica. Scholz conclude avanzando la tesi del ritorno a Leibniz (p. 69): «Forse dobbiamo tornare fino a Leibniz, per trovare il modello che ci serva da emulare. Leibniz era il genio, forse il solo genio ad essere originale tanto in matematica quanto in filosofia, ed aveva anche tutt’altra competenza nella fisica del suo tempo rispetto a Kant. Forse è questo il modo in cui noi oggi dobbiamo “procedere con Kant oltre Kant”. Se

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comunque, parlare di «fondazione della fisica newtoniana» rimane consueto e, anche se il termine possiede un significato evidentemente legato alle vicende dell’epistemologia assiomatica, nemmeno gli interpreti più attenti a difendere l’originalità storica, l’autonomia e la produttività dell’epistemologia kantiana vi si sottraggono32. È dunque difficile, ma nondimeno necessario, abbandonare definitivamente questo equivoco storiografico. Al di là dei tanti nessi, che abbiamo rilevato, tra la filosofia naturale di Kant e la fisica di Newton bisogna affermare sia che Kant non poteva pensare a una fondazione di essa, sia che egli non si riferiva esclusivamente ad essa. In verità, prima di tutto occorre chiedersi: che cos’è ‘la fisica di Newton’? Al tempo di Kant, la trasformazione della fisica dei Principia mathematica nella «meccanica classica», che nel secolo XIX costituirà un sapere canonizzato negli stessi insegnamenti universitari, era ben lontana dall’essere realizzata. Anche se scienziati come Euler lavoravano in questa direzione, le dottrine dei fisici di orientamento newtoniano differivano talvolta profondamente l’una dall’altra. È dunque opportuno un chiarimento preliminare sul rapporto fra il concetto kantiano di fisica e le dottrine scientifiche sul cui sfondo esso viene sviluppato. Solo approfondendo il concetto di

Kant rinascesse oggi, egli non sarebbe certamente kantiano». Nel terzo fascicolo compare l’articolo di H. REICHENBACH, Die Bewegungslehre bei Newton, Leibniz und Huygens, pp. 417- 438, il quale, alla luce della fisica relativistica, sostiene un primato della dottrina dello spazio di Leibniz rispetto a quella di Kant (in part. pp. 425-6 nota). Il caso di Reichenbach è esemplare di tutta la prospettiva del nuovo empirismo che si andava sviluppando in questi anni. Già in Relativität und Erkenntnis a priori (Berlin 1920) Reichenbach avanzava la tesi secondo cui la teoria della conoscenza deve essere sviluppata con il metodo dell’«analisi della scienza» e adottando questa prospettiva anche in sede storica dava per scontato che anche Kant avesse condotto una «giustificazione [Rechtfertigung] filosofica» della «scienza empirica esatta» di Galilei e Newton (p. 41. Rist. in REICHENBACH, Gesammelte Werke, vol. III). Nella teoria della «giustificazione» epistemologica messa in atto in quest’opera, infatti, si presuppone che le diverse teorie fisiche siano riconducibili a un certo numero di assiomi: il che poteva forse essere vero per la teoria della relatività einsteiniana (lo stesso Reichenbach pubblicò proprio nel 1924 una Axiomatik der relativistischen Raum-Zeit-Lehre), ma di certo era molto più problematico per la fisica di Newton considerata nella sua forma originaria.

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questa fisica, e il suo rapporto con le dottrine newtoniane, ci si potrà poi domandare in che senso Kant potesse intendere “fondarla”. Per prima cosa Kant accoglieva una distinzione, attestata nella letteratura scientifica del tempo, tra due discipline chiamate rispettivamente «fisica» (Naturlehre; philosophia naturalis; physica) e «matematica applicata»: pur trattando entrambe dei fenomeni naturali, la seconda in generale astrae dalla determinazione delle cause, che è invece oggetto della prima33. Questa distinzione di ori-

32 Per esempio Cassirer, pur difendendo lo spirito della filosofia kantiana, sostiene che nei Principi metafisici Kant avrebbe avuto l’ambizione di realizzare una «fondazione [Begründung] filosofica dei presupposti della scienza della natura newtoniana», ma che in effetti avrebbe presentato nient’altro che una «trascrizione [Umschreibung] filosofica di questi stessi presupposti» (CASSIRER, Zur Einsteinschen Relativitätstheorie. Erkenntnistheoretische Betrachtungen, Berlin 1921, in CGW 10, p. 52). Un simile presupposto è conservato ancora di recente dai maggiori studiosi americani del rapporto Kant-Newton, come Buchdahl e Friedman. Si veda per esempio, di quest’ultimo, The Metaphysical Foundations of Newtonian Science, in R.E. BUTTS (ed.), Kant’s Philosophy of Physical Science, Dordrecht 1986, pp. 25-60, e ID., Kant and the Exact Sciences, p. 136. 33 Una distinzione del genere, come è noto, si trova anche in Newton, dove i principia mathematica non forniscono alla philosophia naturalis la determinazione di cause, ma solo leggi che descrivono i fenomeni. Il silenzio newtoniano sulla natura e sulla ammissibilità dei metodi con cui determinare tali cause lasciava aperta una questione interpretativa su cui si esercitano tutti i filosofi e fisici del ’700. La distinzione, in Germania, riceveva un’interpretazione radicalmente diversa a seconda dell’orientamento dell’autore. Per es. J.P. EBERHARD, Erste Gründe der Naturlehre, (Erfurt/Leipzig 17531) Halle 17673, Einl. § 3, p. 3-4, distingue tra la matematica applicata, che si occupa delle forze fisiche «semplicemente secondo la loro grandezza», e fisica vera e propria, anche si occupa delle loro cause e dei fenomeni che determinano. Viceversa, un autore di orientamento newtoniano come J.P. ERXLEBEN, Anfangsgründe der Naturlehre, Göttingen (17721) 17874, § 3, pp. 2-3 sostiene che la fisica – «Naturlehre (philosophia naturalis; physica)» – sarebbe essenzialmente indisgiungibile dalla matematica, perché «senza considerare la grandezza delle forze, nessuno può giudicare o parlare adeguatamente di esse». Sebbene però Eberhard insista sulla necessità di non mescolare le due discipline, mentre Erxleben dichiara il contrario, la matematica è di fatto quasi assente nei libri di entrambi. Sulla fisica dei manuali si veda la dettagliata rassegna storica di G. LIND, Physik im Lehrbuch (1750-1859), Berlin 1992 (sulla definizione di fisica pp. 2ss., su quella di matematica applicata pp. 25ss). Lind data intorno al 1820 la scomparsa di fatto, dalle università, della distinzione tra fisica (largamente non matematica) e matematica applicata, in favore di una fisica teorica e sperimentale in cui la matematica non si limita a esprimere le misure ma diviene il lin-

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gine antica, ben presente nei massimi scienziati moderni come Copernico e lo stesso Newton, rifletteva ormai una radicata divisione del lavoro scientifico, che dipendeva dal diverso grado di matematizzazione della fisica. Essa aveva quasi una sanzione istituzionale, in Germania, all’interno dell’insegnamento accademico: in questa cornice, la fisica costituiva una dottrina più semplice e più generale, ed era una materia della facoltà filosofica, mentre la matematica applicata, che con essa pure aveva molto in comune, era considerata una disciplina di carattere altamente specialistico e, come tale, era più raramente oggetto di corsi universitari34. Kant, impiegando le categorie di fisica e matematica applicata, si riferiva prima di tutto ai manuali corrispondenti che egli adottò per le sue lezioni universitarie. Un chiarimento sulla sua concezione della fisica deve dunque cominciare con la considerazione di questi immediati termini di riferimento delle sue riflessioni35. guaggio dominante del discorso scientifico, realizzando dunque una conciliazione tra didattica e situazione scientifica effettiva. 34 Erano invece frequenti corsi di matematica elementare, soprattutto finalizzati alla trasmissione della forma mentis metodologica. L’impostazione della didattica corripondeva dunque alla valutazione dello stesso Wolff, il quale scriveva di essersi avvicinato agli studi matematici «per il solo metodo, al fine di innalzare anche le altre discipline a qualche grado di certezza» (Ratio praelectionum, WGW II, 36 , sec. I, cap. 1, § 9, pp. 6-7). 35 Il primo manuale impiegato da Kant fu quello di J.P. EBERHARD, Erste Gründe der Naturlehre (1753, 17592, 17673), il manuale più diffuso nella Prussia dell’epoca, di impianto wolffiano e molto sbilanciato sull’illustrazione di esperimenti, adottato diverse volte a partire dal 1756/57. Intorno agli anni della prima Critica la scelta cadde prevalentemente su ERXLEBEN, Anfangsgründe der Naturlehre: si tratta di un testo di orientamento cautamente newtoniano, opera di un allievo del matematico Kästner, in cui viene sostenuta (pur senza grande coerenza nei fatti) la necessità di trattare la fisica matematicamente (ivi § 3), in sottesa polemica con l’orientamento wolffiano, che consisteva nel distinguere – come faceva Eberhard (Erste Gründe, Einl. § 2) – la fisica come scienza delle cause naturali (fondata sulla metafisica wolffiana della sostanza), dalla matematica applicata, che di queste non si occuperebbe. Kant lo adottò negli anni 1776, 1779, 1781, 1783. Per il corso dell’anno 1785 la scelta cadde su W.J.G. KARSTEN, Einleitung zur gemeinnützlichen Kenntnis der Natur, Halle 1783 (rist. in KgS XXIX, 171-590), un testo più divulgativo, che Kant scelse probabilmente per la ricchezza dei riferimenti alla nuova chimica. Per il corso del 1787/88, Kant usò la terza edizione di Erxleben (Göttingen 1784) con le aggiunte di Lichtenberg. Tra i manoscritti di allievi relativi a lezioni di fisica sono da tenere presenti soprattutto le due Nach-

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La fisica, nei manuali del tempo, costituiva una disciplina generale, enciclopedica e piuttosto rapsodica, che studiava i fenomeni della natura in base a «osservazioni e esperimenti»36. Sugli scopi della fisica tra i manuali c’era un discreto consenso, espressione della cultura illuministica tedesca, in cui la secolarizzazione del mondo non comportava la rottura con la religione e anzi si conciliava con un ottimismo metafisico di origine leibniziana: la conoscenza della natura è in primo luogo piacevole e utile, poiché insegna a comprendere i molteplici effetti che i corpi hanno sull’uomo e il modo in cui, impiegando queste conoscenze, si può rendere la vita più comoda. Essa aiuta, inoltre, a liberarsi da molte superstizioni. Contemplando la perfezione della natura, infine, viene raggiunto anche quello che per alcuni autori resta il primo scopo della fisica, cioè «onorare Dio»37. Per la realizzazione di questi obiettivi non c’era bisogno di una disciplina altamente specializzata, ed era anzi opportuna un’esposizione popolare in grado di catturare la curiosità, eventualmente a scapito del rigore scientifico. La tipica esposizione procedeva da una definizione delle proprietà generali della materia, non priva di sconfinamenti nella metafisica. Trattava successivamente dei concetti generali della meccanica e delle leggi del moto (in genere senza dettagli matematici), per poi passare ad argomenti disparati come gli stati di aggregazione della materia, dai minerali ai gas, le reazioni chimiche e i più vari fenomeni della vita, spingendosi talvolta fino a riferire brevemente alcuni risultati della geologia o dell’astronomia38. Si trattava dunque di una materia che raccoglieva il materiale disparato dei fenomeni naturali (intesi poco tecnicamenschriften note come Berliner Physik (KgS XXIX, 73-92), presumibilmente relativa a lezioni del semestre estivo 1776 (cf. KgS XIV, 287 e XXIX, 667ss.) e Danziger Physik (XXIX, 93-169), relativa al semestre estivo 1785. Approfondite informazioni sulle lezioni di fisica e sui compendi adottati da Kant si trovano in G. LEHMANN, Einleitung, in KgS XXIX I.1, Berlin 1980, pp. 650-671. 36 Cf. ERXLEBEN, Anfangsgründe, § 4; EBERHARD, Erste Gründe, Einl. § 8. 37 Si veda EBERHARD, Erste Gründe, § 12, p. 12. Un approccio lievemente più laico ha ERXLEBEN, Anfangsgründe, §§ 1-2, che non menziona la finalità teologica. 38 Un caso esemplare di questo complesso di temi è il testo di WOLFF, Vernünftige Gedanken von den Würkungen der Natur, Halle 1723 (rist. WGW I. 6).

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te e talvolta, in senso newtoniano, come Naturbegebenheiten) allo scopo di presentarlo allo studente – per il quale si trattava quasi sempre di una materia secondaria – talvolta riferendo in dettaglio osservazioni ed esperimenti, talvolta richiamandosi semplicemente a risultati scientifici dati per acquisiti. Presso i diversi autori sussistevano differenze anche radicali di orientamento: si avevano, così, compendi che in diverse misure e combinazioni contenevano richiami alla metafisica di Wolff, alla fisica di Newton e dei newtoniani inglesi e olandesi, alla chimica e ad altre discipline dotate ancora di uno status puramente ipotetico-sperimentale. A seconda dell’originale orientamento e della preparazione dell’autore cambiava anche l’approccio espositivo: così, l’apparato di esperimenti poteva essere ridotto al minimo – a meri resoconti generici o esperimenti mentali – o dominare l’insegnamento di un autentico ricercatore; la matematizzazione, a sua volta, si riduceva talvolta a qualche segno o formula aritmetica, per lo più si estendeva al resoconto di qualche misurazione, raramente conteneva qualche cenno al calcolo infinitesimale, che era ormai il linguaggio essenziale della meccanica39. Anche nel caso di manuali di esplicito orientamento newtoniano, come quello di Erxleben adottato da Kant, l’uso della matematica era ridotto al caso della misura e non impiegato – come nell’autentica fisica newtoniana – per ricavare le proprietà delle forze: i Principia di Newton erano considerati un libro di matematica applicata, non di fisica. La distinzione di genere tra conoscenza delle cause e conoscenza matematica, tipica del39 Una caratteristica diffusa dell’insegnamento era il tentativo di rendere stimolante e leggera una disciplina che non godeva in generale di un grande interesse, sia a causa della debolezza della formazione scientifica nelle scuole, sia perché gli studenti della facoltà filosofica erano in genere destinati a un futuro di giuristi, medici, o sacerdoti. È significativo, in proposito, che diversi docenti considerassero l’inclusione degli esperimenti come un espediente per riscuotere l’attenzione di studenti spesso distratti o addirittura addormentati. Il curriculum studiorum del tipico docente, infatti, era sviluppato all’interno di un sistema universitario in cui la fisica cominciava appena ad essere introdotta, l’insegnamento fisico-matematico era nettamente marginale e la destinazione naturale degli studi – per l’aspirante docente – era la facoltà di teologia. Un esame di abilitazione, in Germania, fu introdotto solo nel 1810. Sull’insegnamento della fisica nelle università dell’epoca v. LIND, Physik im Lehrbuch, pp. 112.

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la tradizione wolffiana, portava – fin nella stessa organizzazione universitaria – a considerare la fisica come una disciplina non matematica e, come tale, filosofica40. La conoscenza kantiana della fisica, a giudicare dagli scritti scientifici giovanili e dalle riflessioni manoscritte, non dovette superare di molto il livello dei manuali adottati per le sue lezioni. Ma non sarebbe esatto identificare senz’altro con il contenuto di questi testi la fisica empirica cui si fa riferimento nei suoi scritti. La ragione di ciò risiede ancora una volta nel fatto che Kant, almeno nel periodo critico, definisce le scienze secondo il consueto criterio dell’origine delle conoscenze, prescindendo (almeno in linea di principio) dall’effettiva situazione storica di esse. La fisica dei manuali non soltanto era una disciplina altamente eterogenea e diseguale, ma soprattutto non conteneva mai semplicemente un repertorio di osservazioni empiriche: le definizioni delle proprietà della materia, le leggi del moto e la presenza sia pure marginale della matematica, per esempio, contenevano agli occhi di Kant elementi che non potevano essere considerati frutto di semplici esperienze, e rendevano urgente una giustificazione filosofica. Alla luce di ciò si può concludere che Kant avesse in mente con la “fisica empirica” un aggregato residuale di conoscenze escluse da altri settori più scientifici della conoscenza, e dunque l’idea di una scienza corrispondente a un momento della conoscenza fisica – le osservazioni e gli esperimenti – che, così come i principi puri, non doveva essere assente in nessuna forma concreta di «dottrina della natura», dalla meccanica pura alla mineralogia, anche se, nei casi meno matematizzati, alcune dottrine si potevano esporre separatamente come strettamente empiriche. Una questione interessante a questo proposito è posta proprio dalla «applicazione della matematica». In un passo della Prefazione ai Principi metafisici, Kant si riferisce incidentalmente alla fisica come a quella conoscenza la quale, a prescindere dalla presenza di una compiuta metafisica che le stia a fondamento, procede mediante «l’osservazione, l’esperimento e l’applicazione della 40 Si veda la distinzione tra conoscenza storica, filosofica e matematica in WOLFF, Philosophia rationalis sive logica, Discursus praeliminaris § 17, in WGW II, 1, p. 8.

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matematica ai fenomeni esterni» (MA 477). Che cosa si intende qui per applicazione della matematica? Alla luce dei manuali di Naturlehre si dovrebbe concludere che l’applicazione della matematica corrisponda semplicemente alla misura. Alla luce dei Principi metafisici, tuttavia, si può affermare con sicurezza che Kant non aveva in mente una concezione così riduttiva della matematizzazione, e che per quella applicazione possa intendersi qualcosa di più articolato: come si è detto Kant ha di mira soprattutto la possibilità della costruzione matematica delle proprietà fisiche, in quanto questa richiede principi filosofici. Ma la particolare situazione della matematizzazione nei manuali di Naturlehre permette un’osservazione di rilievo sulla stessa concezione kantiana dell’applicazione della matematica. Se infatti si considera l’ampio repertorio di conoscenze fisiche che, alla luce della suddetta concezione riduttiva, si potevano in un certo senso dire trattate mediante «applicazione della matematica», si possono leggere come riferiti anche ad esse i kantiani principi trascendentali «della matematica dei fenomeni». Ciò permette di capire una delle ragioni per cui Kant poteva considerare i «principi matematici» della Critica come universalmente validi per ogni fenomeno, e non già riferiti (magari surrettiziamente) alla sola fisica matematica nel senso galileiano o newtoniano del termine. Ma veniamo alla matematizzazione filosoficamente più rilevante, che era tipica proprio dei testi di «matematica applicata». La concezione dell’applicazione della matematica era qui diversa da quella della fisica, ma anche da quella tipica di Newton. In manuali come quelli, molto diffusi all’epoca (e impiegati da Kant), di Wolff41 e di Kästner42, la matematica comprende discipline come 41 WOLFF, Anfangsgründe aller mathematischen Wissenschaften, Halle 1750. Kant ne possedeva una copia, che impiegò per i suoi corsi di matematica elementare (WARDA, Immanuel Kants Bücher, p. 40). 42 A.G. KÄSTNER, Anfangsgründe der angewandten Mathematik, Göttingen 1759, opera posseduta da Kant (WARDA, Immanuel Kants Bücher, p. 39). Kästner era il maestro di Erxleben e, parallelamente a Euler, criticò il concetto newtoniano di vis inertiae, secondo argomenti poi giunti a Kant. Nel suo manuale accoglie il metodo «filosofico» wolffiano di procedere secondo definizioni, assiomi e teoremi, ma polemizza con Wolff sostenendo che i principi non si possono ricavare a priori. La sua opera è

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aritmetica, trigonometria, algebra e include anche il calcolo infinitesimale. Le opere in questione si presentano in effetti come opere di matematica, e l’applicazione consiste soprattutto nell’impiego dei calcoli per la progettazione di macchine di ogni genere. Il maggior punto di contatto con la fisica è ovviamente costituito dalla meccanica. Quest’ultima, però, secondo una tendenza che attraverso Euler e Laplace giungerà fino alla meccanica razionale del XIX secolo, non approfondisce le proprietà essenziali dei corpi e, dopo aver sbrigato in breve definizioni e leggi del moto, si concentra sullo studio del movimento43. Kant pensa certamente anche a questa disciplina quando, nei Principi metafisici, critica la disattenzione degli scienziati della natura intorno ai principi della loro scienza e quando auspica un collegamento della metafisica della natura corporea ai trattati «matematici»; ed è solo pensando ad essa che si capisce come mai egli, già nella Critica, parli in proposito dei «matematici» (piuttosto che dei fisici matematici)44. Non è necessario pensare, d’altra parte, che si riferisca unicamente ad essa, o comunque ai trattati a lui noti che ne costituiscono l’esempio. Anche in questo caso, diversi indizi lasciano pensare che Kant podunque una ennesima espressione del dibattito su fondamenti e metodi delle scienze esatte cui si richiamano i Principi metafisici kantiani. 43 Sulla costituzione della meccanica razionale si veda H. PULTE, Order of Nature and Orders of Science, in W. LEFÈVRE (ed.), Between Leibniz, Newton and Kant, Dordrecht 2001, pp. 61-85, che definisce un ideale di «euclidismo meccanico», inteso come ricerca di un sistema deduttivo della fisica che rispecchi l’ordine della natura (per es. in Newton), individuandone il declino nella meccanica del primo ’800, in cui i metodi matematici avrebbero favorito l’abbandono dell’impianto deduttivo e il proliferare di teorie fisiche alternative e compatibili. 44 Anche l’ordinamento more geometrico che Kant dichiara di aver adottato nella nuova opera dipende dalla «matematica applicata» dei manuali. Non solo nel senso che Kant desiderava suggerire anche a livello strutturale la sua idea di un auspicabile accostamento tra metafisica e fisica matematica, ma anche nel senso che una stessa artificiosità accomuna l’espediente kantiano e l’organizzazione dei trattati stessi. Così, mentre in Wolff l’ordinamento more geometrico corrispondeva effettivamente (almeno nelle intenzioni) a una struttura logico-deduttiva, Kästner, adottando uno stesso criterio espositivo, procedeva in maniera consapevolmente induttiva: mentre le definizioni di Wolff si radicano nella metafisica, quelle di Kästner sono ricavate da esperimenti. Il significato delle definizioni e di altri titoli analoghi nei Principi metafisici verrà discusso di caso in caso.

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tesse avere differenti idee dell’applicazione della matematica, a prescindere dall’effettivo contenuto dei libri in cui si trovava esposta la «matematica applicata». Il fatto che egli non dia mai prova di padroneggiare il calcolo infinitesimale suscita il sospetto che la sua lettura delle opere matematiche di Wolff e Kästner non potesse essere molto approfondita. Ciò non gli avrebbe impedito, d’altra parte, di leggere più nel dettaglio i Principia di Newton, da lui frequentemente citati, i quali come è noto erano scritti con un linguaggio geometrico che evitava (per quanto possibile) di adottare il formalismo del calcolo45. Ma il riferimento diretto a Newton comporta un altro aspetto problematico dell’applicazione della matematica. Pur avendo abbandonato le speculazioni geometriche giovanili sulla legge di attrazione, come abbiamo visto, Kant conserva nei Principi metafisici una funzione dimostrativa della matematica pura per la fisica. Ma quale poteva essere l’estensione delle costruzioni matematiche della fisica a cui si riferiva la nuova metafisica? Di nuovo la questione deve la sua complessità all’incompiutezza della filosofia naturale di Newton. Questa non presentava nel suo complesso un modello metodologicamente univoco e scientificamente compiuto di «matematica applicata», e il problema dell’estensione di questa disciplina restò immutato, al di là delle sistemazioni accademiche manualistiche più modeste, nei testi che presentarono le migliori esposizioni della disciplina sul continente46: per questa ragione, 45 Sul rapporto fra Kant e il calcolo delle flussioni di Newton si veda A. MORETTO, Infinità e filosofia trascendentale. La riflessione sulla grandezza infinita in Kant, «Verifiche», 25, 2-3 (1996), pp. 139-206. Sulla diffusione e lo sviluppo del calcolo nella fisica newtoniana si veda N. GUICCIARDINI, Reading the Principia. The Debate on Newton’s Matematical Methods for Natural Philosophy from 1687 to 1736, Cambridge 1999. 46 Mi riferisco ai testi dei newtoniani olandesi Wilhelm Jacob ’sGravesande e Pieter van Musschenbroeck, che furono modelli fondamentali anche per il newtonianismo tedesco. Si vedano per es. ’sGRAVESANDE, Physices elementa mathematica, experimentis confirmata sive introductio ad philosophiam newtonianam, Leiden 1720-21 e MUSSCHENBROECK, Elementa physica conscripta in usus academicos, Leiden 1734. Kant possedeva una copia dell’edizione tedesca di quest’ultima opera: Grundlehren der Naturwissenschaft, Leipzig 1747, che contiene una traduzione della seconda ediz. latina con aggiunte dell’autore (WARDA, Immanuel Kants Bücher, p. 35).

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forse, Kant poté prescrivere dall’esterno un indirizzo teorico alla fisica senza credere con ciò di porsi in opposizione ad essa. Licenziando la sua massima opera lo stesso Newton aveva riconosciuto fin dal titolo che l’impiego della matematica per stabilire i principi della filosofia naturale era tutt’altro che scontato. La fisica in Inghilterra era prima di tutto, infatti, la «Experimental Philosophy» praticata da scienziati come Boyle e Hooke, che in nome dell’autorità di Francis Bacon avevano impresso un indirizzo decisamente sperimentale alla stessa Royal Society. Solo gradualmente Newton era giunto alla conclusione che l’impiego della matematica, per esempio in ottica, non fosse solo un utile strumento, ma permettesse di «pensare in astratto» i fenomeni della natura e raggiungere in tal modo conoscenze saldamente fondate, liberando nello stesso tempo lo scienziato dalla difficoltà di dover ammettere ipotesi incontrollabili47. A compimento di questo itinerario, nei Principia, Newton aveva sostenuto la validità oggettiva della stessa rappresentazione matematica dei fenomeni fisici basandosi sull’equivalenza tra le forme geometriche postulate dalla geometria e quelle tracciate con riga e compasso nella «meccanica pratica», e aveva considerato perciò la geometria come una parte della meccanica stessa48. Nonostante questo, Newton non riteneva che la tratta47 Abbiamo ricordato l’esitazione sulla teoria della gravitazione, che Newton decise di pubblicare solo dopo aver provato matematicamente la sua applicabilità ai corpi estesi, cercando fino alla fine una qualche spiegazione fisica (o metafisica) dell’azione delle forze «dedotta» dai fenomeni. Ma anche l’ottica costituì un campo di ricerca fondamentale per lo sviluppo della sua metodologia. Dopo che Hooke gli fece notare l’inconsistenza di un legame fra le sue dottrine ottiche e la sua ipotesi corpuscolare sulla luce, egli riconobbe di poter fare a meno di ipotesi fisiche: «Se avessi inteso avanzare una tale ipotesi avrei dovuto spiegarla in qualche luogo. Ma io sapevo che le proprietà che ho dichiarato della luce erano in qualche misura suscettibili di essere spiegate non soltanto con quella, ma con molte ipotesi meccaniche. E perciò scelsi di abbandonarle tutte, e di parlare della luce in termini generali, considerandola astrattamente come qualcosa o altro che si propaga dai corpi luminosi in ogni direzione lungo linee rette ,senza determinare che cosa sia questa cosa» (lettera a H. Oldenburg dell’11 giugno 1672, in The Correspondence of Isaac Newton, Cambridge 1959-1977, vol. I, n. 67, p.174). ‘Considerare in astratto’ equivale qui a ‘descrivere matematicamente’. Newton tratta del colore secondo il solo grado di rifrangibilità (principio che viene generalizzato nel grado kantiano), il che non toglie che resti ignota la causa della luce. 48 Vedi Principia, Prefazione dell’autore al lettore, p. 15: «La descrizione di linee

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zione matematica dei Principia risolvesse completamente questioni fisiche come quella della forza di gravità e riconosceva dunque la necessità di una distinzione tra matematica applicata e fisica, sostanzialmente identica a quella che si trova anche nella filosofia naturale tedesca della prima metà del XVIII secolo, in una cornice soprattutto leibniziana e wolffiana. Ma oltre che restare a margine della meccanica dei Principia, i limiti della matematizzazione dominavano nell’Ottica. In particolare, le Queries poste in appendice a quest’opera contengono l’enunciazione di problemi e di ipotesi relative a fenomeni come le reazioni chimiche, l’elettricità, la natura della luce e in generale alla struttura miscroscopica della materia. Con questa suddivisione testuale la situazione esemplare della fisica di Newton assume una rappresentazione spazializzata, che esprime la dicotomia tra un sapere, quello dei Principia, già ampiamente matematizzato, e un repertorio di questioni e ipotesi relative ai fenomeni più disparati, la cui trattazione non è ancora sottoposta alla matematica. La frattura interna all’opera di Newton resta nel XVIII secolo tipica di tutto il sapere fisico, determinando una sempre più marcata divisione del lavoro tra gli stessi scienziati49. Così, per un verso, i fisici rette e circoli, che costituisce la fondazione della geometria, è di pertinenza delle meccanica. La geometria non insegna come descrivere queste linee e questi circoli, ma postula tale descrizione [...] La geometria, dunque, è fondata sulla pratica meccanica e non è altro che una parte della meccanica universale che riduce l’arte di misurare a proporzioni esatte e dimostrazioni». Kant sembra aver tenuto conto delle dottrine newtoniane dei postulati, della costruzione e della descrizione geometrica, non solo per la sua concezione della matematica ma anche per la formazione di concetti filosofici. Un rapporto analogico tra postulati geometrici e postulati trascendentali si può evincere da KrV A 234/B 287. Una rielaborazione di dottrine newtoniane si può considerare la distinzione tra costruzione geometrica o «schematica» e costruzione «tecnica», esposta nello scritto contro Eberhard, Über eine Entdeckung, KgS VIII, 191-192 n. Kant chiama la prima «schematica» in modo da sottolineare che la costruzione geometrica, lungi dall’essere limitata a un postulato meccanico come in Newton, viene considerata nella Critica come un’operazione di sintesi pura, cioè la «descrizione dello spazio» attuata dall’immaginazione pura (cf. KrV B 155 nota). 49 Su questo aspetto della fisica post-newtoniana si vedano il classico articolo di KUHN, Mathematical versus Experimental Traditions in the Development of Physical Science, in The Essential Tension, Chicago 1977, pp. 31-65 e gli utili profili generali di E. BELLONE in P. ROSSI (a cura di), Storia della scienza moderna e contemporanea, vol.

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matematici si dedicano a riscrivere e ampliare la meccanica newtoniana nel linguaggio in cui essa già originariamente era stata concepita, ma non scritta, cioè il calcolo infinitesimale: il che pone un quantità di problemi tecnici e possibilità applicative tali da assorbirne gran parte dell’impegno scientifico50. La definizione e la discussione dei concetti fondamentali della scienza, come spazio, tempo, moto assoluto, corpo, sono fornite in maniera sempre più sbrigativa e dogmatica. D’altra parte fuoriescono del tutto dai trattati di meccanica questioni come quella delle forze microscopiche e della struttura della materia, del calore, della luce (anche se si tratta di questioni ben presenti a tutti i fisici, che in alcuni casi intraprendono già i primi passi per un ampliamento della matematizzazione). Parallelamente, prosegue lo sviluppo delle discipline relative ai fenomeni rimasti fuori dalla sintesi fisico-matematica newtoniana, come quelli elettrici, magnetici, chimici, fisiologici. Per quanto riguarda la chimica, come è noto, essa è dominata in Germania dalla figura di Stahl, fino alla diffusione della nuova chimica di Lavoisier, che lo stesso Kant accoglierà con decisione negli anni del criticismo51. La novità I. 2, capp. XV e XVII, in particolare pp. 485-486 e M. MAMIANI, Storia della scienza moderna, Roma/Bari 1998, pp. 308-318. 50 Con problemi tecnici non si intende ovviamente dire: di secondaria importanza. La formalizzazione della meccanica razionale, frutto delle ricerche avviate da fisici come Euler, è alla base del linguaggio e della forma mentis della fisica matematica del secolo XIX, e ancora di quella odierna. L’importanza dell’opera di Euler e l’attualità del punto di vista che essa ha contribuito a produrre presso i matematici successivi è espressa con un efficace paradosso dal matematico Enrico Giusti: «Se il libro della natura è scritto in caratteri matematici, il suo autore è Eulero» (E. GIUSTI, Analisi matematica 1, Torino 1997, p. 121). Il punto di vista in questione è quello – dominante presso i fisici di oggi – secondo cui lo stesso successo descrittivo di teorie matematiche ne giustificherebbe a sufficienza la scientificità; prospettiva che, come corollario, richiede che ogni contributo sensato alla conoscenza della natura debba avvenire all’interno della fisica matematica e del suo linguaggio. Questa tendenza a eliminare ogni discussione di carattere extramatematico dalla scienza, originariamente fondato nell’assiomatica formalistica di ispirazione hilbertiana, ha dato luogo alla nascita di epistemologie di impostazione logico-formale concepite come interne alla scienza stessa e al suo linguaggio, cui si contrappongono oggi, nella filosofia della scienza, discussioni filosofiche di carattere discorsivo (si veda il profilo di M. DORATO, Filosofia della fisica, in N. VASSALLO (a cura di), Filosofie delle scienze, Torino 2003, pp. 99-102). 51 La chimica dell’epoca, in Germania, era dominata dalla teoria flogistica adotta-

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metodologica più rilevante, che la chimica di Lavoisier traeva dalla filosofia newtoniana, era la considerazione del peso, quale proprietà presente universalmente nella materia, e dunque l’esercizio sistematico della pesatura dei reagenti. L’opportunità di una spiegazione fisica dei fenomeni microscopici, sottolineata già da Boyle e ripresa nel nuovo contesto dinamico anche in chimica newtoniana, costituisce per il momento un ideale che non contribuisce al progresso scientifico52. In riferimento a questa situazione si devono leggere i giudizi kantiani sulla chimica contenuti nella Prefazione ai Principi metafisici. All’epoca di Kant la chimica tedesca era una disciplina empirica in cui le proprietà osservate venivano ricondotte solitamente a diversi «principi» (da cui l’espressione «chimica dei principi» con cui comunemente la si designa), come la terra, l’aria e il flogisto (l’elemento infiammabile). Nella Critica, quando scrive che gli elementi della chimica devono considerarsi puramente ideali, Kant si riferisce esplicitamente alle dottrine chimiche stahliane53.

ta da Stahl, ma proprio in questi anni cominciavano ad affermarsi nuove dottrine sperimentali – come quella sulla natura composta dell’aria –, la ricerca di un diverso sistema degli elementi e la metodologia quantitativa nello studio delle reazioni chimiche. Una testimonianza eloquente e documentata di questa situazione aperta è offerta dal monumentale Physikalisches Wörterbuch di Gehler, che fin dalla pubblicazione del primo volume costituì una fonte di primaria importanza per le conoscenze scientifiche di Kant. Sulla chimica del tempo sono molto utili i profili di F. ABBRI, La chimica del ’700, Torino 1978 e J. HEILBRON, Elements of Early Modern Physics, Berkeley 1982. 52 Sulla chimica attrazionista di ispirazione newtoniana si veda A. THACKRAY, Atoms and Powers. An Essay on Newtonian Matter Theory and the Development of Chemistry, Cambridge Mass. 1970. 53 KrV A 646/B 674: terra, acqua e aria, intesi come principi chimici, vengono considerati «idee della ragione» mai rinvenibili empiricamente nella loro purezza. Cf. KrV A 652/B 680, dove viene discussa, sempre dal punto di vista dell’uso regolativo della ragione, la tendenza a cercare «principi» sempre più semplici: qui i «principi», assimilati agli enti da non moltiplicare della celebre massima scolastica, sono esemplificati dalle sostanze (Stoffe) della chimica. Sul rapporto di Kant con la chimica del tempo si vedano: M. CARRIER, Kants Theorie der Materie und ihre Wirkung auf die Zeitgenössige Chemie, «Kant-Studien» 81 (1990), pp. 170-220; ID., Kant’s Conception of Matter and his Theory of Chemistry, in WATKINS (ed.), Kant and the Sciences, pp. 205230; FRIEDMAN, Kant and the Exact Sciences, pp. 264-290. L’adesione di Kant alla chimica di Lavoisier si evince da un passo della Metaphysik der Sitten del 1797: «il chi-

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E lo stesso Stahl, nella Prefazione alla seconda edizione, riceve l’onore di essere accostato a Galilei e Torricelli come modello di scienziato che ha compreso come la natura deve essere interrogata (KrV B XII-XIII). Ma le affermazioni dei Principi metafisici non sembrano potersi riferire immediatamente alla chimica di Stahl (MA 470-471): Fintanto dunque che anche per le azioni chimiche che le materie esercitano le une sulle altre non si trovi nessun concetto che si lasci costruire, cioè non si lasci addurre nessuna legge dell’avvicinamento o allontanamento delle parti, secondo cui – magari in proporzione alle loro densità o ad altre simili proprietà – si lascino rendere intuitivi e rappresentare a priori nello spazio i loro movimenti insieme alle loro conseguenze (un’esigenza che difficilmente verrà mai soddisfatta), la chimica non potrà divenire nient’altro che un’arte sistematica, o dottrina sperimentale, mai una vera e propria scienza; i suoi princìpi, infatti, sono soltanto empirici e non permettono nessuna esibizione a priori nell’intuizione, e di conseguenza, essendo inadeguati all’applicazione della matematica, non rendono affatto comprensibili secondo la loro possibilità i princìpi dei fenomeni chimici.

Stahl sostenne in effetti la possibilità di ammettere un fondamento corpuscolare nelle dottrine chimiche, dichiarandolo tuttavia del tutto inservibile da un punto di vista scientifico54. Nella Critica, in effetti, Kant ha auspicato una trascrizione meccanica dei concetti chimici, ma in base al passo appena citato è evidente che egli la considera ancora un desideratum55. Tuttavia, anche quando mico dice: c’è una sola chimica (quella secondo Lavoisier)» (KgS VI, 207; cf. Anthropologie, VII, 326, dove Lavoisier è accostato a Archimede e Newton come grande innovatore del metodo). Ma essa potrebbe essere avvenuta già nel corso del decennio precedente. Discuterò nel cap. 12 l’importanza della chimica negli anni successivi al 1786. 54 Si veda G.E. STAHL, Einleitung zur Grundmixtion derer Unterirdischen mineralischen und metallischen Cörper, Leipzig 1720, pp. 50-51. 55 A 646/B 674: «[...]si riconduce ogni tipo di materia alla terra (intesa come semplice peso), ai sali e ai corpi combustibili (intesi come forze), infine all’acqua e all’aria, intese come veicoli (per così dire come le macchine mediante le quali operano gli elementi precedenti), per spiegare secondo l’idea di un meccanismo gli effetti chimi-

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Kant si accosterà alla nuova chimica di Lavoisier non incontrerà una situazione del tutto diversa, a dispetto della diversa analisi degli elementi. Il progetto di una chimica come “meccanica del microscopico” si trovava ancora allo stadio in cui Kant l’aveva conosciuto in un testo da egli molto usato, gli Elementa chemiae (1732) di Boerhaave56. Piuttosto che pensare, dunque, a un’oscillazione di Kant tra due orientamenti chimici antitetici57, si deve ritenere che egli, tenendo presente una situazione generalmente aporetica intorno al fondamento microscopico della chimica, avanzasse le sue osservazioni a prescindere da riferimenti precisi, in base all’esigenza sistematica discussa a proposito del concetto di scienza della natura. L’auspicio della matematizzazione della chimica, che oltretutto, nel dinamismo kantiano, risulta diverso da quello dell’atomismo meccanico a cui è associato in Newton e Boerhaave, si basa dunque sulla concezione della conoscenza matematica che Kant sviluppa a livello filosofico nella teoria della sintesi pura. Il caso della chimica riflette dunque ancora una volta la caratteristica generale della metafisica della natura corporea di Kant, cioè la sua ambizione di fornire principi per una scienza matematica di tutta la natura, a prescindere dai risultati scientifici raggiunti dalle scienze del suo tempo. Per raggiungere lo status di scienza una qualsiasi dottrina particolare della natura deve contenere costruzioni matematiche: dunque dovrà farlo anche la chimica. Che Newton, a suo tempo, avesse ipotizzato la possibilità di una chimica meccanicamente fondata costituisce, dal punto di vista kantiano, sicuramente un fatto noto e importante, ma non una circostanza determinante per la maturazione della sua idea di una chimica scientifica. Lo stesso principio dirige la grande attenzione prestata da Kant, negli anni ’80 e ’90, alla teoria dell’etere e del calorico. L’idea di una trattazione unificata di diverse questioni scientifiche medianci delle materie fra loro. Infatti, sebbene in realtà non ci si esprime così, tuttavia è assai facile scoprire un tale influsso della ragione sulle classificazioni dei fisici». 56 Cf. per esempio KgS II, 330, 377. 57 La tesi secondo cui Kant nella Critica si riferirebbe a una chimica, nei Principi metafisici all’altra, è sostenuta da CARRIER, Kant’s Conception of Matter.

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te il concetto di un unico mezzo elastico diffuso in tutto lo spazio − anch’essa presente già in Boerhaave, in Euler, in genere tra i cartesiani − è nota a Kant fin dagli esordi; e certamente la pronta accoglienza della chimica di Lavoisier e di altre novità teoriche che sembravano emergere dalle ricerche contemporanee sul calorico, negli anni ’90, testimoniano per un verso la consueta attenzione kantiana per il progresso delle scienze sperimentali. Se però si considera il contenuto delle riflessioni kantiane sul concetto fondamentale di tutte queste ricerche, cioè il calorico, si trova che esse sono guidate dall’interesse di ristabilire una rappresentazione del conflitto reale che deve stare a fondamento della materia, e la cui versione puramente dinamica non risulta più esauriente. Dapprima considerato come ipotesi, concepito quale mezzo meccanico continuo e diffuso universalmente che sta a fondamento di fenomeni come il calore, la luce e l’elasticità, il calorico diviene nell’Opus postumum l’oggetto di una nuova trattazione trascendentale e viene dunque estratto dal campo dei concetti ipotetici della chimica e considerato come condizione di possibilità della fisica nella sua integrità (cioè della Naturlehre in quanto sistema delle conoscenze fisiche e chimiche). Come nel caso della teoria delle forze, dunque, Kant seleziona e considera le ipotesi scientifiche dal punto di vista dei suoi problemi filosofici e cosmologici, giungendo infine a individuare nella posizione dei concetti fondamentali della scienza il dominio di una «parte pura» della fisica. In conclusione, si può dire che Kant si occupi dei fondamenti della ‘fisica di Newton’ in molti sensi, a seconda delle diverse questioni che si ponevano in riferimento alla filosofia newtoniana, e che in parte abbiamo già esaminato: la definizione di spazio e tempo in meccanica razionale; la determinazione dei corpi in quanto sostanze impenetrabili (massa inerziale) e della loro pesantezza (massa gravitazionale); la connessione in genere dei fenomeni secondo leggi matematiche delle forze motrici, e la giustificazione, in particolare, delle leges motus dei Principia mathematica; la delimitazione della conoscenza delle cause dei fenomeni e la posizione di concetti come vita e libertà pratica in filosofia naturale; le ipotesi sulle forze di coesione, sugli elementi, sugli stati di aggregazione, e in genere la ricerca delle leggi di una chimica matema366

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tica; la definizione e la funzione dell’etere quale possibile fondamento di spiegazione di fenomeni diversi, sia “meccanici” sia “chimici”, come la densità, la luce, il calore. Riguardo a questa molteplicità di questioni si può affermare, in generale, che Kant si oppone, da filosofo, alla tendenza verso la separazione disciplinare tipica della scienza del suo tempo e cerca di riunire la molteplicità delle dottrine fisiche e chimiche sotto un’organizzazione gerarchica basata su principi filosofici; che nel fare questo non si riferisce ai soli risultati conseguiti da Newton in persona; ma, soprattutto, che egli non si limita in genere a dare una “fondazione” della Naturlehre contemporanea, che ne conservi i contenuti senza modificarli, bensì trae dai propri principi filosofici delle conclusioni talora molto nette e controverse riguardo a questioni ancora dibattute tra gli scienziati sperimentali. Per esempio sostiene la necessità di una rappresentazione dinamica della materia, facente capo alla rappresentazione di un continuum fisico mosso in ogni punto dall’azione di forze, opponendosi alla rappresentazione corpuscolare della materia tipica del meccanicismo, e nel farlo contraddice il punto di vista della gran parte dei fisici del tempo, i quali tipicamente ponevano alla base della scienza la rappresentazione di corpi per definizione impenetrabili e da questa proprietà ricavavano la forza58. Analogamente, il tentativo di specificare la teoria dinamica della materia attraverso i concetti di coesione e densità procede senza soluzione di continuità nel territorio della chimica, prendendo implicitamente posizione a favore di una chimica puramente dinamistica, in cui i diversi elementi precedono e formano i corpi, piuttosto che essere originariamente articolati e aggregati secondo rappresentazioni corpuscolari59. È dunque inadeguato parlare di una “fondazione della fisica newtoniana”, così 58 Un interessante resoconto di tutta questa discussione, da un punto di vista atomistico e antikantiano, si trova nel libretto di J.C. SCHWAB, Prüfung der kantischen Begriffe von der Undurchdringlichkeit, der Anziehung und der Zurückstößung der Körper, Leipzig 1807. 59 Per esempio, in tutto l’Opus postumum, Kant intende con ‘bewegende Kraft’ sia le forze motrici della meccanica e sia i principi chimici responsabili di fenomeni come la coesione e gli stati di aggregazione, pur non possedendo ancora una rappresentazione intuitiva e una teoria matematica in proposito (si veda il cap. 14).

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come far succedere a questa una successiva “fondazione della chimica di Lavoisier”, e così via. Alla luce di questi chiarimenti si è cominciato a vedere come Kant, a dispetto dei suoi genuini interessi empirici, procedesse per certi versi addirittura in opposizione alla tendenza della scienze dell’epoca, in base a un’autonomia della filosofia pura che si farà sempre più esplicita a livello metodico nei manoscritti degli anni ’90. Considerando infatti l’itinerario dell’Opus postumum bisogna riconoscere che, riguardo al progetto di «stabilire quel che ragione può fare a priori e da dove essa comincia ad aver bisogno di principi empirici», viene mutando dopo l’86 la stessa linea di dermarcazione della conoscenza a priori. Così, mentre nella prima Critica si parla di una fisica «vera e propria», fondata su principi empirici, contrapponendola alla fisica razionale e ancora nell’87 viene affermato il concetto di «leggi empiriche»60, che a rigore costituisce per Kant una contraddizione in termini, verso la fine degli anni ’90 egli si accorge che lo stesso concetto di una fisica semplicemente empirica è divenuto tra le sue mani problematico. Ma se questo era l’orientamento che muoveva fin dagli anni ’80 la ricerca kantiana sulla filosofia naturale non sorprende che la sua proposta di unificazione tra parte pura e parte empirica della fisica fosse destinato a cadere nel vuoto, e che in generale la comparsa dei Principi metafisici passasse quasi inosservata61. Le ragioni di questa sfortuna stanno proprio nel tentativo di gettare un ponte tra due discipline che quasi tutti già all’epoca erano concordi nel

60

KrV B 21, cf. A 847/B 875 (fisica empirica); KrV A 128, B 165 (leggi empiri-

che). Sulla prima ricezione dell’opera presso i fisici abbiamo già rimandato a TUSCHMetaphysische und transzendentale Dynamik, che contiene alcuni documenti in appendice, tra cui i già discussi interventi liquidatori di Mayer e Gehler sulla forza repulsiva, e quelli più favorevoli di F. Baader e F. Gren (v. cap. 3 nota 122). Per alcune valutazioni positive presso i fisici del tempo si veda S. POGGI, Motivi leibniziani e newtoniani nella prima ricezione del kantismo, in «Rivista di Filosofia», 70 (1979), pp. 4576. Per altre testimonianze sulla prima ricezione, compresa quella degli allievi e seguaci di Kant, si veda il breve ma dettagliato resoconto di Pollok nella Einleitung all’edizione da lui curata dei Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft, Hamburg 1997, pp. XIX-XXIX. 61

LING,

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mantenere rigidamente distinte e che difficilmente erano padroneggiate simultaneamente con una conoscenza diretta e non superficiale, come era il caso di Kant. Così i fisici, che all’epoca erano concentrati soprattutto su un approfondimento matematico della meccanica, o su problemi aperti della fisica empirica come lo studio dei fenomeni chimici o di quelli elettrici, si mostrarono disinteressati alle questioni di principio sollevate da Kant, criticando (o approvando) semmai questa o quella sua tesi in base ad argomenti empirici e travisando così del tutto il significato specifico dell’opera, che alle loro indagini empiriche non intendeva portare nessun contributo. D’altra parte, anche i più fedeli allievi e seguaci di Kant lamentavano l’oscurità dell’opera, la cui complessità derivava probabilmente per loro dal complesso intreccio tra la filosofia trascendentale – che per molti era già sufficientemente oscura – e i numerosi concetti fisici, che Kant dava qui per scontati62. Si può considerare come un ulteriore risultato di questa situazione il fatto che proprio Schelling, tra i più entusiasti nell’attribuire all’opera di Kant un grande rilievo per la fisica, ne alterò del tutto il senso, interpretandola alla luce di quegli stessi motivi metafisici di ispirazione leibniziana che in essa venivano esplicitamente criticati. Al contrario, come abbiamo mostrato a sufficienza, i Principi metafisici sono l’opera in cui Kant dispiega il massimo sforzo per conciliare la filosofia pura con la forma mentis della scienza newtoniana − pur senza “fondarla”.

62 Si veda la lettera dell’8 giugno 1795 di Kiesewetter (KgS XII, 23ss.): «È un fenomeno che mi colpisce molto che [...] finora soltanto in pochi si sono occupati dei Principi metafisici della scienza della natura. Non so se non si comprende il valore infinito di questo libro, o se lo si trova troppo difficile [...] Tra tutti i Vostri scritti è quello che mi ha dato maggior fatica, e penso sempre con grande riconoscenza al fatto di dovere la piena comprensione di esso al Vostro insegnamento orale». Non tutti avevano questa fortuna. Il berlinese D. Jenisch, per esempio, scriveva già il 14 maggio 1787 (KgS X, 486): «I Vostri Principi della scienza della natura, questa pietra di paragone [Probierstein] del vostro sistema filosofico, sono finora ancora poco letti, e quelli che li leggono li trovano senza eccezione più difficili della stessa Critica, escluso il capitolo della Deduzione».

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5.3. Appendice. Elementi puri ed elementi empirici nei Principi metafisici: necessità di una nuova posizione del problema Il metodo della nuova metafisica, quale emerge dalla Prefazione ai Principi metafisici, si fonda dunque su due momenti: l’analisi del concetto empirico di materia e l’indagine sulla possibilità di rappresentare a priori nell’intuizione pura i concetti risultanti da quell’analisi, resa possibile dal fatto che questi ultimi (come quello di impenetrabilità) verranno riportati a quello di movimento. La nuova metafisica della natura non fornisce una costruzione del concetto di materia, ma principi della possibilità di una tale costruzione, che deve essere matematica e fondata sull’esperimento. Mediante l’esame delle quattro sezioni dell’opera si potrà ottenere una verifica di questa interpretazione generale. Restando per ora alla formulazione generale del metodo dei Principi metafisici è il momento di riconoscere che essa pone numerosi problemi, i quali tuttavia non sono stati finora esaminati in base a una comprensione adeguata del significato generale dell’opera, col risultato di spingere talvolta a forzare la lettera del testo e a interpretare in diverso modo il ragionamento kantiano. Una della ragioni di queste difficoltà esegetiche risiede certamente nel fatto che Kant non si è dedicato più, dopo il 1786, a chiarire lo sfondo metodologico dell’opera, ma si è concentrato piuttosto su alcune questioni particolari che in essa restavano irrisolte, peraltro quasi sempre in sede epistolare o nelle proprie riflessioni manoscritte. L’incomprensione del metodo dei Principi metafisici, comunque, anche a causa delle prime fuorvianti interpretazioni e della separazione culturale fra fisica e filosofia accentuatasi proprio a partire dall’epoca di Kant, è durata fino ad anni recenti, e solo a partire dalla metà del XX secolo si può dire cominciato un processo di comprensione del significato autentico dell’opera, che apre la strada verso una adeguata valutazione del suo rilievo nel contesto delle opere kantiane, ma anche a un giudizio sul suo interesse esemplare alla luce delle vicende filosofiche e scientifiche successive63. 63 Un documento significativo dell’incomprensione e svalutazione dell’opera nell’epistemologia di fine ’800 è la breve recensione di W. OSTWALD, Betrachtungen zu Kant’s “Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft», pubblicata nel primo numero della rivista «Annalen der Naturphilosophie», a cura di W. Ostwald, Leipzig

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Per presentare brevemente le due questioni fondamentali che verranno discusse approfonditamente si può prendere spunto da un passo della Critica della facoltà di giudizio in cui Kant, retrospettivamente, richiama e ribadisce la distinzione fra principi metafisici e principi trascendentali (KU § V, 181): Un principio trascendentale è quel principio con il quale è rappresentata la condizione universale a priori sotto di cui, soltanto, le cose possono diventare oggetti della nostra conoscenza in genere. Un principio si chiama invece metafisico, se esso rappresenta la condizione a priori sotto di cui, soltanto possono essere ulteriormente determinati a priori oggetti il cui concetto deve essere dato empiricamente [il corsivo è mio].

I principi metafisici determinano ulteriormente a priori il concetto 1902. Gli studi di Adickes, pur gettando le basi di una documentata valutazione delle conoscenze fisiche di Kant, hanno contribuito alla diffusione di un generale giudizio di arretratezza e infruttuosità scientifica su quest’opera. Tipico della rivalutazione neokantiana della filosofia naturale di Kant, d’altra parte, era la valorizzazione quasi esclusiva delle vedute della Critica, di cui i Principi metafisici non avrebbero costituito che uno sviluppo poco originale e difettoso. Questa prospettiva, per esempio, caratterizza la migliore monografia ottocentesca sul tema, A. STADLER, Kants Theorie der Materie, Leipzig 1883. Rispetto a questa prospettiva non fa eccezione un grande interprete come Cassirer, che pure attribuisce un gran rilevo al rapporto tra Kant e la fisica newtoniana − o forse proprio per il fatto di esagerare e semplificare l’importanza di questo rapporto. Per esempio, nella monografia sull’insieme dell’opera kantiana Cassirer dedica ai Principi metafisici una pagina scarsa, riducendo l’opera ad uno «svolgimento concreto» del capitolo sulle Analogie dell’esperienza, che avverrebbe attraverso la posizione delle leggi del moto di Newton quali «espressioni [Ausprägungen] determinate» dei principi di relazione. In base a questa visione riduttiva, essa non offrirebbe nuovi spunti di vivo interesse rispetto alla Critica, neanche per quanto riguarda il rapporto con la fisica di Newton (Kants Leben und Lehre, Berlin 1918, in CGW 8, p. 214). Analoghi giudizi hanno incoraggiato molti studiosi successivi a trascurare un approfondimento dell’opera, nonostante i notevoli tentativi rivolti ad altre opere kantiane, molti dei quali particolarmente attenti ai legami tra Kant e le scienze. Dopo Adickes, lo studio più interessante sull’opera è quello di VUILLEMIN, Physique et métaphysique kantiennes, ingiustamente trascurato dalla gran parte degli studiosi successivi. All’origine dell’ampio dibattito più recente sta il libro di P. PLAASS, Kants Theorie der Naturwissenschaft. Eine Untersuchung zur Vorrede von Kants Metaphysischen Anfangsgründe der Naturwissenschaft, Göttingen 1965, che ha sollevato con grande chiarezza la questione della legittimità dei principi metafisici in quanto principi a priori.

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empirico di un oggetto dato: i due problemi si concentrano tutti in queste parole. In primo luogo, il concetto posto alla base dei principi metafisici, se deve essere determinato ulteriormente, è già un concetto determinato: è il concetto empirico di materia. Ora, se questa determinazione ulteriore potesse avvenire a prescindere dal contenuto empirico del concetto – come avviene nella filosofia trascendentale, in cui si astrae del tutto da ogni determinazione particolare del fenomeno – la presenza di quest’ultimo non porrebbe alcuna difficoltà (cadrebbe però ogni differenza tra le due parti della metafisica della natura); viceversa, la determinazione ulteriore comporta un riferimento intrinseco a questo contenuto empirico. Anticipiamo un paio di esempi. Nella Foronomia Kant pone alla base la semplice rappresentazione della materia in quanto mobile, e, esaminando la pura rappresentazione del movimento, conclude che ogni movimento rettilineo deve essere pensato come relativo («Grundsatz» della Foronomia); in base a questa premessa, poi, dimostra in che modo è possibile rappresentare una composizione dei movimenti, enunciando così un principio della costruzione dei movimenti fisici in quanto dotati di quantità (velocità). In questo esempio il predicato empirico presupposto dalla metafisica è la mobilità, e tutta l’indagine successiva mantiene un riferimento costante ad esso: nessun passaggio di essa sarebbe possibile se non si mantenesse tale riferimento. Un altro esempio: nella Meccanica viene posto alla base il concetto della materia in quanto inerte, cioè «priva di vita» e dunque di attività. Rappresentando l’inerzia nell’intuizione spazio-temporale, il principio generale di causalità può dunque essere specificato e conduce al principio secondo cui ogni cambiamento fisico possiede una causa esterna. Anche in questo caso, senza riferimento ad un concetto empirico di inerzia non potrebbe concludersi la ricerca di un’estensione a priori della conoscenza (che stabilisce essere esterna la causa di ogni evento fisico) e non potrebbe essere fornito così un principio per la costruzione della causalità fisica (la quale dovrà ricorrere all’azione di una forza agente dall’esterno, applicandola alla materia in quanto dotata di una quantità). Il problema, per cominciare a approfondirlo rispetto al modo in cui Kant stesso lo ha presentato, si può dunque formulare in generale così: come è possibile una fisica pura le cui dimostrazioni facciano riferimento a un concetto empirico, ma che non perda con que-

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sto riferimento nessuno dei suoi tratti distintivi, come lo statuto a priori delle sue conoscenze e la sua completezza? E come va intesa, dunque, l’analisi del concetto di materia che Kant pone alla base della sua opera? Il secondo problema è associato all’estensione a priori delle conoscenze, che sarebbe scopo dei principi metafisici procurare, e risiede anch’esso nella presenza di un concetto empirico. Si è osservato, infatti, che la possibilità di questa estensione sta nel «riferimento» alle intuizioni pure di spazio e tempo, corrispondente all’impiego della rappresentazione del movimento. Tuttavia, se si confronta quanto scrive Kant in proposito, ci si imbatte numerose volte nell’affermazione secondo cui il concetto di movimento è a sua volta «empirico»64. La situazione è resa ancor più grave (e intricata) dal fatto che il movimento non è soltanto una delle proprietà elencate da Kant come facenti parte del concetto empirico di materia, ma addirittura «la determinazione fondamentale» del concetto di materia. Sorge allora una questione analoga alla precedente: come è possibile una fisica pura le cui dimostrazioni si appoggino in tutto e per tutto al concetto di movimento, se Kant lo dice empirico? Di fronte a queste cruces interpretative, in generale, l’atteggiamento degli interpreti più recenti è stato duplice: si è cercato o di indebolire le pretese della metafisica della natura, presentandola come un’indagine sulla semplice possibilità di rappresentare a priori certi concetti, come quello di forza, considerati quali ipotesi la cui validità oggettiva poggerebbe su una semplice induzione, oppure, al contrario, di rafforzare queste pretese, eliminando la componente empirica interna alla metodologia proposta da Kant e rileggendo le sue dichiarazioni come relative a una metafisica anch’essa, come quella generale, dotata di un contenuto del tutto puro, benché riferita all’esperienza. Prima di passare a un esame delle questioni è opportuno mostrare come entrambi questi indirizzi ermeneutici debbano risultare in generale inadeguati. Il sostenitore principale del primo genere di interpretazione è stato

64 Si veda per esempio KrV A 81/ B 107, dove Kant giudica l’inadeguatezza dell’elenco aristotelico delle categorie proprio in base al fatto che tra i concetti ivi inclusi ce n’è anche «uno empirico», e cioè il movimento. Kant spiega la ragione dell’empiricità del movimento in KrV A 41/ B 58, che verrà discusso tra breve.

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Gerd Buchdahl65. Considerando nel complesso gli scritti kantiani di Buchdahl si riscontra agevolmente l’inadeguatezza della sua prospettiva per la metafisica speciale di Kant: Buchdahl dichiara infatti con grande chiarezza di ispirarsi, per la sua impostazione, ad autori come Lakatos e Popper. Ma è appunto applicando schemi ricavati dall’epistemologia di costoro che egli fraintende fin dall’inizio il significato dei Principi metafisici. In generale Buchdahl individua nella filosofia teoretica kantiana tre funzioni distinte, la probativa, l’esplicativa e la sistemica66. La prima corrisponde alla giustificazione delle proposizioni scientifiche, la seconda alla comprensione del loro «nucleo metafisico» («Metaphysical hardcore», un concetto ripreso dall’epistemologia dei “programmi di ricerca” di Lakatos), la terza al collegamento e all’organizzazione delle conoscenze. Il compito dei principi metafisici corrisponderebbe alla seconda di tali funzioni, quella esplicativa. In base a questa impostazione, come è evidente, le difficoltà poste dallo statuto dei concetti della metafisica risulteranno per Buchdahl poco rilevanti, essendo associate a pretese probative o sistemiche che l’impresa di Kant non avrebbe. Ora, una simile griglia concettuale potrà forse avere un interesse di per sé, ma, come si comprende già a questo punto della ricerca, rende impossibile una comprensione dell’obiettivo che Kant si propone nei Principi metafisici. Infatti, come si è visto, la «metafisica speciale» di Kant contiene elementi appartenenti a tutte e tre le categorie epistemologiche di Buchdahl. In primo luogo, la sistematicità non è per es65 BUCHDAHL, Kant and the Dynamics of Reason, in part. i capp. 1, 10-13. Si richiamano a Buchdahl condividendo le sue tesi generali, tra gli altri: G. BRITTAN, Kant’s Theory of Science, Princeton 1978; P.M. HARMAN, Metaphysics and Natural Philosophy. The Problem of Substance in Classical Physics, Brighton Sussex 1982; Philip KITCHER, Kant’s Philosophy of Science, in A.W. WOOD (ed.), Self and Nature in Kant’s Philosophy, Ithaca 1984, pp. 185-215. R.E. BUTTS, The Methodological Structure of Kant’s Metaphysics of Science, in ID. (ed.), Kant’s Philosophy of Physical Science, pp. 163-199; H. DUNCAN, Contructions and their Discovery, in Proceedings of the Sixth International Kant Congress, vol. II/2, Washington 1985, pp. 83-95 (che considera il dinamismo kantiano come la costruzione non della materia, ma di un modello analogico nel senso dell’epistemologia di M. Hesse). Tesi analoghe a quelle di Buchdahl si trovano in TUSCHLING, Metaphysische und transzendentale Dynamik. 66 Questo schema viene presentato da Buchdahl come metodo generale per l’analisi delle teorie scientifiche. La sua applicazione al caso della filosofia kantiana si trova in Kant and the Dynamics of Reason, pp. 288-314, e, in sintesi, pp. 17-38.

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sa un possibile scopo integrativo, ma un requisito essenziale. È proprio questo requisito, per esempio, a sollevare uno degli aspetti del problema legato al concetto empirico di materia, quello cioè della completezza delle proprietà che esso pone alla base della nuova disciplina. Per quanto riguarda la funzione probativa, abbiamo visto che la nuova opera intende formulare dei principi metafisici, e anzi intende dimostrarli: per esempio, contiene l’importante affermazione secondo cui la materia è possibile solo in quanto dotata di due forze fondamentali, l’una repulsiva, l’altra attrattiva (Dinamica, teoremi 1 e 5). In questo caso particolare, Kant mostra come la rappresentazione empirica dell’impenetrabilità presupponga la rappresentazione di queste due forze, il che richiede la dimostrazione (a priori) di due giudizi sintetici. Secondo l’avviso di Buchdahl, Kant non farebbe altro che «illustrare» o «rendere intelligibili» i concetti in questione; mentre egli intende collegarli al concetto di materia in generale e, per la precisione, mostrarne il collegamento necessario con esso. Ma allora neanche la funzione di «esplicazione» nel senso di Buchdahl rende conto dell’impresa kantiana67. Questa funzione fa riferimento al concetto kantiano della Erklärung, che può essere tradotta ‘definizione’ ma anche ‘esplicazione’, interpretandolo come il chiarimento puramente semantico di un concetto appartenente al repertorio di un linguaggio (o paradigma) scientifico, che nel caso kantiano sarebbe quello newtoniano. Al contrario (lasciando da parte qui la questione del rapporto con Newton), le definizioni kantiane non costituiscono che il punto di partenza dell’indagine filosofica, la quale consiste nel tentativo di rappresentare nell’intuizione pura le proprietà definite, traducendo il contenuto inizialmente solo empirico dei loro concetti in determinazioni spazio-temporali. Così facendo, poi, Kant giunge a individuare sinteticamente ulteriori proprietà, associate alle precedenti, che non era possibile cogliere dalla loro semplice definizione. In generale, dunque, il compito «esplicativo» della metafisica non è disgiungibile da una dimensione, per così dire, sintattica, che consiste nello stesso tempo in un chiari67 La funzione assolta dall’esplicazione viene formulata da Buchdahl in termini non perfettamente coerenti con quelli kantiani, laddove, per esempio, egli scrive che la Dinamica kantiana intende semplicemente mostrare la «possibilità reale» del concetto di forza, considerando però questa operazione come il chiarimento preliminare di un’ipotesi da confermare empiricamente. Ovviamente, da un punto di vista kantiano, il principio della dinamica metafisica non può avere statuto ipotetico.

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mento (esplicazione) e in una estensione (probativa) dei concetti in esame, che deve avvenire secondo un filo conduttore sistematico e grazie a questo costituire una «compiuta metafisica della natura». La prospettiva interpretativa di Buchdahl ha tuttavia delle ragioni per forzare e infine trasformare radicalmente la definizione kantiana di metafisica. Come si vedrà esaminando le quattro sezioni dell’opera, la sua strategia permette infatti di aggirare alcuni problemi particolarmente acuti posti dal testo, come quello del valore probativo del dinamismo, che in alcuni passi Kant sembra contraddire apertamente, riducendolo allo statuto di fruttuosa ipotesi. Inoltre, Buchdahl cerca di fornire un’immagine della metafisica kantiana che non entri in aperto conflitto con le proprie concezioni epistemologiche di fondo e anzi che sembri confermarle. La critica epistemologica di Buchdahl si può collocare nell’ambito di una filosofia della scienza erede del neopositivismo e cautamente critica rispetto ad esso. Negando il valore probativo della metafisica kantiana (cioè che essa pretenda di provare a priori proposizioni di filosofia naturale), Buchdahl ne attenua il contrasto rispetto alle diverse versioni di teoria della conoscenza che fanno da sfondo alla sua impostazione, le quali sono accomunate dal fatto di negare ogni possibilità di una conoscenza fisica indipendente da esperimenti. D’altra parte, sottolineando che la funzione esplicativa della metafisica kantiana rappresenterebbe un momento costitutivo di ogni teoria scientifica, egli invita a riconsiderarne l’interesse a dispetto delle apparenze (a dispetto cioè del fatto che trattasi di «metafisica»), incoraggiandone uno studio privo di pregiudizi, che si concluda riconoscendo a Kant una lucidità intellettuale, relativa ai concetti scientifici, maggiore rispetto a quella delle sue stesse fonti, come Newton. Così ragionando, per inciso, Buchdahl ripropone un ragionamento tipico di un certo approccio neokantiano (egli stesso parla di «neotrascendentale») la cui spinta propulsiva non si è ancora esaurita68. Il difetto 68 La storiografia della scienza di Buchdahl si colloca in continuità con le diverse ricerche che – come quelle di E.A. Burtt e T. Kuhn – insistono sull’importanza della metafisica nello sviluppo delle teorie scientifiche (si veda Metaphysics and the Philosophy of Science, Cambridge 1967). La peculiarità dell’esame di Buchdahl risiede nell’analisi delle teorie alla luce della riduzione fenomenologica husserliana. Una intenzione analoga a quella di Buchdahl si trova in un testo del 2001 di Michael Friedman, che muove parallelamente da una riforma del neopositivismo e propone una analisi delle teorie scientifiche che permetta di correggere il relativismo epistemologico di

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generale di una simile interpretazione risiede però, ovviamente, nel fatto che gli aspetti principali del pensiero di Kant finiscono con il costituirvi un ingrediente inessenziale. Solo esaminando l’autentico tentativo kantiano di realizzare una metafisica della natura si potranno valutarne gli esiti e dunque, anche nel caso estremo in cui questi siano in ultima analisi fallimentari, trarne qualche insegnamento teorico. L’interpretazione di Peter Plaass69 − che costituisce il miglior esempio della seconda ipotesi interpretativa − ha avuto il merito di mettere per la prima volta in piena luce il problema del significato generale dei Principi metafisici. Il tentativo di comprendere nei suoi dettagli il metodo della nuova metafisica, tuttavia, ha condotto l’autore a sostenere l’esigenza di una massiccia revisione di alcune delle affermazioni kantiane della Prefazione. Secondo Plaass, infatti, né il concetto di materia in generale, né il concetto di movimento, considerati dal punto di vista kantiano, possono essere considerati empirici. La linea argomenKuhn. Friedman propone il concetto di un «a priori relativizzato», secondo cui un sistema di premesse non empiriche starebbe alla base dei diversi paradigmi scientifici (un’idea ripresa dall’analisi della scienza di Reichenbach) e la successione di questi ultimi, in cui il successivo include e amplia le deduzioni del precedente, formerebbe una serie che tende verso l’ideale regolativo di una teoria vera, secondo l’analisi del progresso scientifico di Cassirer (FRIEDMAN, Dynamics of Reason, Stanford 2001, in part. pp. 44-46, 46-68). Come si vede il richiamo a Kant proviene dall’esigenza di ricongiungere teorie scientifiche e filosofia, e dunque dalla sua posizione storica, ma avviene mediante interpretazioni piuttosto libere, mediate da orientamenti filosofici come il neokantismo e il neopositivismo logico, che svolsero un ruolo fondamentale per la costituzione dell’odierna “filosofia della scienza” (Il dibattito in proposito è molto ampio. Tra gli studi italiani si vedano almeno F. BARONE, Il trascendentalismo kantiano e l’epistemologia, in «Filosofia», 23 (1972), pp. 225-238; S. MARCUCCI, Neopositivismo, filosofia trascendentale e metafisica, in ID., Studi kantiani, III, pp. 35-59. Si veda poi, sempre di Friedman, Reconsidering Logical Positivism, Cambridge 1999, in part. pp. 59-70, 152-162). La frattura tra scienza e filosofia, all’epoca di Kant, era comunque già avvenuta. Leibniz, commentando la situazione scientifica dell’epoca, sosteneva già l’opportunità di una collaborazione tra «arte di sperimentare» (dominante il pensiero di personaggi come Bacon e Boyle) e «arte di servirsi delle esperienze» (egli si riferiva a analoghe considerazioni di Descartes e Spinoza). LEIBNIZ, Nouveaux essais, IV, XII, § 13 ; A VI, 6, pp. 454-455. Kant, considerato in paragone a Euler, Gauss e Laplace, va considerato senza dubbio come un esponente del secondo gruppo; la sua, cioè, è una riflessione sulla scienza che solo in parte condivide e penetra le conoscenze scientifiche dell’epoca, senza potere e volere produrre in esse un avanzamento. 69 Kants Theorie der Naturwissenschaft. Le citazioni successive si riferiscono alle pagine di questa edizione.

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tativa di Plaass è piuttosto intricata e attraversa numerose difficoltà, ma vale la pena di ricostruirla perché pone effettivamente in luce le questioni generali che emergono dal testo kantiano, cercando di risolverle con risultati che sono ancora oggi oggetto di un ampio consenso presso gli studiosi70. L’obiettivo dei Principi metafisici, scrive Plaass (pp. 19-22), sarebbe di fornire esempi che conferiscano «concretezza» alle tesi della Critica sulla possibilità di conoscere gli oggetti dei sensi secondo le categorie e che dunque costituiscano – per usare le parole dello stesso Kant – una «conferma della correttezza della critica» (KrV B XLIII). Per attuare questo compito «indispensabile» la nuova opera non può procedere attraverso una mera applicazione sillogistica dei principi trascendentali agli oggetti dei sensi esterni (pp. 73-75)71. Per mostrare come i principi trascendentali siano applicati alla materia si tratta infatti di comprendere, prima di tutto, «come la materia possa essere un’intuizione» (dotata perciò di quantità estensiva e intensiva), o, per fare l’esempio della categoria di sostanza, «che cosa sia la sostanza nella materia» (queste ultime sono parole di Kant: MA 541). In generale, tenendo presente le leggi trascendentali dell’esperienza, la nuova opera dovrà svolgere da capo un’applicazione delle categorie, non però al fenomeno in generale, bensì all’oggetto del senso esterno. Alla base di questo compito, però, non può essere posta la semplice analisi del concetto empirico della materia, come alcune affermazioni kantiane farebbero pensare. Gli argomenti avanzati da Plaass a sostegno di questa tesi sono due. In primo luogo i Principi metafisici si devono occupare di concetti, astraendo da ciò che si può ricavare dal contenuto della percezione; dunque la nuova indagine deve riguarda70 Si richiamano a Plaass, cercando eventualmente di modificare alcuni particolari della sua interpretazione: L. SCHÄFER, Kants Metaphysik der Natur, Berlin 1966; GLOY, Die kantische Theorie der Naturwissenschaften; C. PARSONS, Remarks on Pure Natural Science, in A.W. WOOD (ed.), Self and Nature, pp. 216-227; M. WASHBURN, The Second Edition of the Critique; CRAMER, Nicht-reine synthetische Urteile a priori; T.S. HOFFMANN, Der Begriff der Bewegung bei Kant, in «Zeitschrift für philosophische Forschung» 45 (1991), pp. 38-59. Di recente si richiamano ancora alle tesi di Plaass: POLLOK, MA Kommentar e FRIEDMAN, Matter and Motion in the Metaphysical Foundations and the First Critique cit. [in WATKINS (ed.), Kant and the Sciences]. 71 L’esempio di Plaass è il seguente (p. 73): «Tutti gli oggetti dell’esperienza sono quantità estensive; ora, la materia è un oggetto dell’esperienza; dunque la materia è una quantità estensiva».

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re nuovamente concetti puri. Plaass ne trova conferma nel caso del concetto di sostanza (che però non è tra i concetti empirici citati da Kant all’inizio dell’opera): Riguardo alla sostanza, infatti (come naturalmente anche riguardo agli altri predicati trascendentali) si deve notare che la sostanza non viene affatto percepita: «noi la aggiungiamo soltanto nel pensiero» (Reflexion 5358). Così, nel concetto empirico di materia non è contenuto ancora nulla che possa essere determinato come sostanza, ma piuttosto la “sostanza” è qualcosa «che può essere pensata di esso... a priori» (MA 475)72.

Il compito della nuova parte della metafisica consisterà nel provare a priori e con certezza apodittica la realtà oggettiva di questi concetti: in caso contrario, essa non potrebbe che contenere prove empiriche e dunque prive della certezza apodittica che deve convenirle. Per esempio, se la mobilità della materia deve essere considerata un concetto empirico, scrive Plaass (p. 84), le proposizioni dimostrate a priori a partire da questa proprietà non potranno dirsi valide di ogni oggetto dei sensi esterni. Da un punto di vista puramente empirico, infatti, si potrebbe pensare alla possibilità di una «materia immobile», che limiterebbe la validità universale di cui devono essere dotate le proposizioni di una metafisica73. In generale, «non può essere affatto provato me72 Kants Theorie, p. 76. Il corsivo è di Plaass, le indicazioni tra parentesi sono state modificate. La Reflexion citata si trova in KgS XVIII, 160. Questo è uno dei passi che Plaass cita effettuando cesure non innocenti. In originale esso suona così: «Sotto le quattro classi delle categorie (quella della g r a n d e z z a, della q u a l i t à, della r e l a z i o n e e infine della m o d a l i t à), devono dunque poter essere ricondotte anche le determinazioni del concetto universale di una materia in generale, e con ciò anche tutto quel che di essa può essere pensato a priori, rappresentato nella costruzione matematica, o dato nell’esperienza come suo oggetto determinato». Kant scrive cioè che il filo conduttore delle categorie servirà a raccogliere ogni determinazione che la materia può ricevere, secondo tutti e tre i mezzi della conoscenza, e cioè concetti a priori, costruzioni nell’intuizione pura e intuizioni empiriche. (Plaass cita il passo nuovamente a p. 276, effettuando ancora una volta una cesura dopo le parole ‘tutto ciò che se ne può pensare a priori’). 73 La questione della possibilità di una materia immobile viene avanzata anche da C. WALKER, The Status of Kant’s Theory of Matter, in Proceedings of the Third International Kant Congress, Dordrecht 1972, pp. 591-595. Rispetto a Plaass, Walker trae le conseguenze dell’empiricità del concetto di materia in modo più radicale, cioè humiano. Si tratta di una conseguenza necessaria, in assenza di un principio che per-

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diante l’esperienza che una caratteristica è sempre combinata con il concetto di materia» (p. 92). La soluzione avanzata da Plaass per uscire da queste difficoltà è ingegnosa: si tratterebbe di distinguere tra il contenuto del concetto di materia e la sua realtà oggettiva, in quanto il primo sarebbe ricavabile a priori, la seconda accertata empiricamente (p. 89). Quel che deve essere tratto dall’esperienza come base non è il concetto di materia rispetto al suo contenuto. Che questo sia un concetto empirico significa soltanto che la sua realtà oggettiva non può essere accertata a priori. Poiché non si può sapere a priori che questo concetto può essere collegato al suo oggetto, ci si deve far insegnare empiricamente che c’è effettivamente un oggetto di questo genere per poter inferire dall’attualità il fatto della sua possibilità reale. Perciò non c’è bisogno dell’assistenza dei principi dell’esperienza per provare la verità delle proposizioni della fisica pura, ma piuttosto per garantire in generale la possibilità della loro verità (o falsità) [...] cioè per assicurarsi che si abbia a che fare in generale con una conoscenza.

A questo punto l’indagine di Plaass si trova di fronte a due compiti. Il primo, notevolmente più arduo, consiste nel mostrare come il concetto di materia, che Kant chiama empirico, possa essere ricavato a priori. Il secondo compito consiste nello spiegare come sia possibile, nella metafisica della natura corporea, dimostrare a priori la realtà oggettiva di un concetto puro. Per realizzare il primo compito Plaass afferma che la nuova opera dovrà basarsi su un nuovo procedimento, che Kant finora non aveva mai teorizzato, e che introduce invece in questa opera: la «costruzione metafisica» (pp. 74-78). Il passo in cui questo nuovo concetto verrebbe annunciato è il seguente (MA 473): Um deswillen habe ich für nötig gehalten, von dem reinen Teile der Naturwissenschaft (physica generalis), wo metaphysische und mathematische Konstruktionen durch einander zu laufen pflegen, die erstere, und mit ihnen zugleich die Prinzipien der Konstruktion dieser Begriffe, also der Möglichkeit einer mathematischen Naturlehre selbst, in einem System darszustellen. metta di conferire universalità alla determinazione della materia come mobile, che Kant pone alla base della fisica pura.

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Una traduzione di questo testo, che andrà messo in discussione, suonerebbe così: «Ho perciò ritenuto necessario prelevare dalla parte pura della scienza della natura (physica generalis), in cui di solito costruzioni metafisiche e matematiche si confondono le une con le altre, le costruzioni metafisiche, e con esse i principi della costruzione di questi concetti, cioè della stessa possibilità di una scienza matematica della natura». Che cosa sarebbe la «costruzione metafisica»? È significativo che le pagine dedicate da Plaass all’argomento siano quasi del tutto prive di riferimenti al testo (un difetto altrimenti assente dalla sua indagine). Plaass definisce la costruzione metafisica per analogia con la costruzione matematica: quest’ultima è «la produzione di un’intuizione pura che sia in accordo con il concetto, il che significa: qualcosa viene esibito a priori in accordo con ciò che si trova nel contenuto del concetto, esibito in quella che è data come condizione dell’intuizione degli oggetti [cioè, nello spazio e nel tempo puri]». La costruzione metafisica costituirà a sua volta un’esibizione a priori del «contenuto di un concetto», ma dovrà avvenire in accordo con le condizioni del pensiero, cioè con il sistema dei concetti puri dell’intelletto. Nella costruzione metafisica, dunque, «la pura, indeterminata (“mera”) forma del pensiero dell’esistenza in generale viene determinata come rappresentazione discorsiva, sulla base del contenuto del concetto dato, secondo le condizioni soggettive del pensiero» (p. 74). In un passo successivo, Plaass cerca di chiarire meglio in che modo questo procedimento raccoglierebbe i diversi elementi (empirici e puri) della metafisica della natura (p. 92): Dobbiamo dunque risalire al concetto del tutto primitivo della materia come oggetto dei sensi esterni e cercare a partire da esso di ottenere la sua determinazione fondamentale, il movimento, per mostrare dunque, precisamente attraverso una costruzione metafisica, in che modo le sue restanti caratteristiche abbiano origine da essa.

I due momenti metodologici precedentemente isolati vengono dunque assimilati nell’unico processo di costruzione metafisica. L’analisi del concetto empirico, come tale, non potrebbe fornire una base adeguata alla metafisica, poiché fornisce concetti – come quello di impenetrabilità – che non sarebbero contenuti come tali nella semplice percezione e che, inoltre, non potrebbero essere dotati dell’universalità e – nel loro insieme – della completezza richiesta dalla metafisica. Per-

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ciò, a commento del passo «Dunque deve essere posta a fondamento una compiuta scomposizione del concetto di materia...», Plaass non esita a sostenere che si tratterà in tal caso non della consueta scomposizione analitica, in cui Kant fa risiedere esplicitamente uno dei compiti della metafisica, ma di una «scomposizione sintetica», concetto che egli stesso non esita a definire «paradossale» (p. 77). Quella che Kant qui chiama analisi corrisponderebbe di fatto a una determinazione a priori del contenuto del concetto di materia, per la quale Plaass ritiene necessaria la mediazione del concetto di movimento. Solo attraverso la rappresentazione del movimento, infatti, sarà possibile, applicando ad essa le diverse categorie, ottenere di volta in volta una specificazione diversa del concetto originariamente astratto e indeterminato di oggetto del senso esterno: così «movimento, riempimento dello spazio, inerzia ecc.» saranno determinazioni della materia ottenute a priori, applicando le categorie alla rappresentazione del movimento. Perché ciò sia possibile, però, è necessario mostrare che il concetto di movimento è a sua volta un concetto puro: altrimenti, decadrebbe nuovamente l’universalità di un simile procedimento. Il tentativo di dimostrare che il concetto di movimento è un concetto puro costituisce una parte molto interessante dell’indagine di Plaass. Egli sottolinea in proposito un’effettiva oscillazione nei testi kantiani. Kant scrive più spesso che il movimento è un concetto empirico, ma in alcuni casi lo considera come un composto di rappresentazioni pure. Il carattere empirico del movimento consiste precisamente nel fatto che esso, pur unificando spazio e tempo, presuppone «la percezione di qualcosa di mobile», che il puro spazio non contiene e che solo l’esperienza può fornire (KrV A 41/ B 58). La soluzione che Plaass propone per risolvere queste ambiguità è ancora una volta quella di distinguere tra contenuto del concetto e sua realtà oggettiva. Il concetto di movimento, rispetto al suo contenuto, è un concetto puro; in particolare, come Kant scrive esplicitamente nel manoscritto dei Fortschritte der Metaphysik, esso non è che un «predicabile», cioè un composto di categorie e modi puri della sensibilità (oltre a spazio e tempo, si tratterebbe – pare – di considerarvi contenuta la categoria di sostanza, che serve a identificare il soggetto del movimento74). Plaass propone addirittura una «deduzione metafisica del 74

Il passo dei Fortschritte der Metaphysik si trova in KgS XX, 285. In questo sen-

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concetto di movimento» (pp. 98-99), nella quale viene dimostrato non solo che il concetto di movimento è ricavabile a priori, ma anche che esso deve costituire, come scrive Kant, la determinazione fondamentale della materia e come tale deve essere il concetto cui vengono ricondotte tutte le altre proprietà della materia. La deduzione metafisica di Plaass, che esamineremo tra breve, si basa sull’affermazione kantiana secondo cui il movimento «unifica» spazio e tempo (KrV A 41/B 58) e ne ricava che un oggetto dei sensi esterni, in quanto sottoposto sia alla forma del tempo che a quella dello spazio, dovrà essere anche mobile. Per quanto riguarda la realtà oggettiva del concetto puro di movimento, essa sarebbe attestata dall’intuizione empirica di un oggetto mobile. In questo senso andrebbero intese le frequenti affermazioni kantiane relative al fatto che si tratterebbe di un concetto empirico. Questo passaggio non pregiudicherebbe però l’universalità delle proposizioni kantiane, perché, come sostiene Plaass, «il fatto che un concetto abbia realtà oggettiva può essere provato interamente mediante un singolo esempio» (p. 89). Una critica delle tesi di Plaass può prendere le mosse dalla constatazione che il passo che egli sta leggendo, quando introduce il concetto di «costruzione metafisica», è corrotto. Nel testo dell’edizione originale, mantenuto dall’Accademia, il genitivo «dieser Begriffe» non si riferisce a nulla. Un modo di risolvere la questione è ipotizzare una lacuna e aggiungere «Begriffe» (o «Prinzipien») dopo «metaphysische», col risultato di eliminare proprio l’espressione ‘metaphysische Konstruktion’75. Il passo suonerebbe allora così: Ho perciò ritenuto necessario prelevare i concetti metafisici dalla parte pura della scienza della natura (physica generalis), dove di solito si confondono con le costruzioni matematiche, ed esporre con essi i princiso, Plaass (p. 297) distingue il «predicabile» movimento dal concetto di «movimento» come «descrizione di uno spazio» di cui Kant parla nella Deduzione trascendentale (KrV B 155): quest’ultimo, che Kant stesso attribuisce alla geometria e «addirittura alla filosofia trascendentale», non costituirebbe un movimento vero e proprio, perché non si riferirebbe all’esistenza successiva di un mobile. 75 Questo emendamento è suggerito già in H. HOPPE, Kants Theorie der Physik, Frankfurt a.M. 1969, p. 54. Friedman, in una nota alla sua nuova traduzione dell’opera, segnala la difficoltà del passo, pur mantenendo il testo dell’Accademia (KANT, Theoretical Philosophy After 1781, Cambridge 2002, p. 485).

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pi della costruzione di questi concetti, cioè della stessa possibilità di una scienza matematica della natura.

Ma l’opportunità di tale espunzione non si limita a simili argomentazioni strettamente filologiche. Se il concetto introdotto da Plaass non si trova menzionato in nessun altro luogo dell’intero corpus kantiano non è certamente un caso, ma dipende dal fatto che esso è del tutto estraneo al pensiero di Kant. Una «costruzione metafisica» negherebbe alla lettera e sopprimerebbe di fatto la distinzione tra conoscenza (metafisica) per concetti e conoscenza (matematica) per costruzione dei concetti che Kant sostiene almeno a partire dal 1762 e che non ritratterà mai: la stessa distinzione, poi, che sta alla base di tutte le relazioni architettoniche secondo le quali Kant colloca i Principi metafisici all’interno del sistema delle scienze della natura, distinguendo i diversi momenti (puro, empirico e matematico) del metodo esercitato nella nuova opera. Ma conviene esaminare la questione attentamente, valutando separatamente i diversi momenti che per Plaass costituiscono il concetto di costruzione metafisica. In primo luogo, l’assimilazione dell’analisi del concetto empirico di materia a un procedimento di determinazione a priori della rappresentazione del movimento, dunque alla produzione di predicabili, costituisce almeno un tentativo di rendere conto di ambiguità presenti nel testo kantiano, il quale parla apertamente di «scomposizione del concetto empirico», ma chiama in almeno due casi «concetti metafisici» le proprietà risultanti da questa scomposizione76. Inoltre, attraverso la sua distinzione tra contenuto e realtà oggettiva di un concetto puro, Plaass riesce a evitare il difetto di incompletezza costitutiva che ogni analisi di un concetto empirico deve possedere. Tuttavia, i risultati delle sue ricerche contrastano in diversi punti con alcuni aspetti fondamentali della dottrina che Kant andrà esponendo nei Principi metafisici. In generale, considerare i «concetti metafisici» di cui Kant si occupa come dotati di un contenuto ricavabile del tutto a priori rende incomprensibile la verifica empirica della loro realtà oggettiva. Come scrive Plaass (pp. 86-87):

76 Plaass (p. 76) assimila l’uso kantiano dell’aggettivo «metafisico» a quello presente nella Critica in espressioni come «deduzione metafisica», relative cioè all’analisi del contenuto di un concetto (o intuizione) puro.

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Per gli originali concetti puri dell’intelletto sia l’origine che il fondamento della realtà oggettiva risiedono nell’intelletto, e analogamente per i concetti ricavati dall’esperienza sia l’origine che il fondamento della realtà oggettiva risiedono nell’esperienza. Per i concetti puri derivati dell’intelletto e della sensibilità, tuttavia, l’origine può effettivamente risiedere nella ragion pura mentre la giustificazione del loro uso può provenire dall’esperienza.

Si prenda però l’esempio del concetto di impenetrabilità e si conceda che il suo contenuto sia ricavabile del tutto a priori: lo si dovrebbe considerare come applicazione allo spazio e al tempo delle categorie di qualità (corrispondente alla percezione), ma anche quantità (perché la richiede una percezione nello spazio), sostanza (perché identico e persistente deve considerarsi il corpo impenetrabile), causalità (perché l’impenetrabilità si deve fondare sull’azione di una forza), e ovviamente esistenza (trattandosi di una proprietà associata per definizione a un qualcosa di esistente nello spazio). Ma una volta determinato in tal modo il concetto, in che cosa consisterà una sua verifica empirica? Si tratterebbe di ritrovare nell’esperienza tutte quelle proprietà che sono già state anticipate a priori, e di ritrovarle non già mediatamente – come nel caso delle categorie – bensì per così dire in flagrante nella percezione. Ma ciò è impossibile: infatti, o l’impenetrabilità, come qualità della percezione esterna, è un concetto puro, ma allora si deve trattare di un concetto la cui validità non può essere garantita in modo soltanto empirico, bisognoso di una nuova deduzione trascendentale (altrimenti, nella Critica, Kant avrebbe potuto considerare le stesse categorie come già sempre verificate empiricamente, facendo a meno della deduzione), oppure deve essere possibile una sua verifica empirica, ma allora la sua stessa origine deve esserlo. Se infatti si considera l’impenetrabilità come un composto di concetti puri, la loro verifica empirica dovrebbe consistere nel ritrovare congiunti questi concetti nell’esperienza; ma l’esperienza come tale non può provare per definizione il collegamento di concetti puri – come quelli di causa ed effetto – se non secondo una prospettiva humiana del tutto inaccettabile da un punto di vista kantiano; piuttosto, questi concetti devono essere applicati all’esperienza aggiungendo ad essa delle determinazioni che non vi si trovano se la si considera come semplice aggregato di percezioni. Percezione e concetto puro (anche composto), insomma, sono per definizione elementi eterogenei, e immaginare che la prima mostri in atto

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come tali dei concetti puri significa pretendere una congruenza che significherebbe assimilare l’uno dei due all’altro, con risultati alternativamente idealistici (nel senso dell’idealismo materiale criticato da Kant) o empiristici (nel senso dell’empirismo dagli esiti necessariamente scettici), che ridurrebbero in entrambi i casi il processo di prova a una tautologia77. Al contrario, mantenendo la dicotomia kantiana tra prova/origine logico-trascendentale dei concetti puri e prova/origine empirica di concetti empirici, si può pensare benissimo che una metafisica provi a priori, mediante costruzioni nell’intuizione, delle proposizioni sintetiche relative a concetti, per esempio empirici, le quali non potrebbero essere dotate di necessità se ricavate empiricamente, e che dall’esperienza traggono soltanto i concetti contenuti nelle proprie premesse78. In questo senso, sarebbe confermata l’affermazione kantiana secondo cui i Principi metafisici consistono solo di conoscenze che possono essere ottenute interamente a priori (cf. p. 88), laddove però per conoscenza si intenda il collegamento di un giudizio, e non il concetto che vi viene determinato. Una verifica in tal senso, relativa al concetto di forza, permette di mostrare anche come la prospettiva di Plaass non si accordi con il modo in cui Kant effettivamente procede attraverso le quattro sezioni dell’opera, in quanto considera ricavabili attraverso la sua costruzione 77 Plaass adduce a sostegno di queste tesi due passi, tutti degli anni ’90, cioè di un’epoca in cui il rapporto tra a priori e a posteriori è in fase di ripensamento. In uno di questi, tratto dall’Opus postumum (KgS XXI, 324), si legge che la materia è «oggetto della percezione possibile (la definizione per cui è il mobile nello spazio è una conseguenza di questa)». Non è certo che questo passo stabilisca una deducibilità a priori del movimento; d’altra parte, che la mobilità dipenda dall’impenetrabilità è vero già nei Principi metafisici, in un senso che andrà discusso (§§ 6.1; 7.1). Ritorneremo su questo passo nel § 13.2. Più persuasivo pare il passo dei Fortschritte der Metaphysik (KgS XX, 285) in cui Kant scrive che la metafisica della natura particolare svolge un’applicazione dei principi trascendentali «a un doppio tipo di percezioni [...] senza prendere altro di empirico come base eccetto il fatto che ci siano due tali oggetti». Esso non ha necessariamente il senso inteso da Plaass: “che ci siano due tali oggetti” non esclude che si traggano dall’esperienza, con essi, anche le loro determinazioni empiriche, raccogliendole secondo il filo conduttore delle categorie. 78 Nella Metaphysik Mrongovius il movimento, di nuovo nell’ambito di un esame delle categorie aristoteliche, viene detto «puramente empirico» (KgS XXIX, 803). Sorge il sospetto che, in concreto, Kant non considerasse tutti i predicabili come concetti sufficientemente definiti a priori: il caso del concetto di forza, come stiamo per vedere, conferma questa ipotesi.

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metafisica delle proposizioni che Kant ritiene bisognose di dimostrazione. Sappiamo che anche la forza viene inserita da Kant tra i predicabili. Tuttavia, considerando la forza come un predicabile non si rende conto del modo in cui Kant, nella Dinamica, ricava a priori il concetto di forza dal concetto empirico di riempimento dello spazio: dalla costruzione del riempimento nell’intuizione pura risulta infatti la necessità di presupporre il concetto di una forza fondamentale, che peraltro – come abbiamo visto (§ 4.1) − non è identico a quello della forza come predicabile. Così, in prima approssimazione si può dire: che la materia riempia uno spazio – insieme al concetto stesso di questa impenetrabilità – costituisce un presupposto empirico dell’indagine; che invece questa impenetrabilità, considerata secondo la categoria di qualità, come grado, possa essere collegata a priori al concetto di una forza, costituisce un risultato della conoscenza a priori. Analogamente, che la materia si muova, insieme al concetto di movimento, deve essere ricavato dall’esperienza; affermare poi che il concetto di movimento, considerato come pura quantità, nella sua costruzione si riveli intrinsecamente relativo, e che così risulti possibile la sua costruzione e composizione nell’intuizione pura, senza ammettere alcun altro presupposto empirico, equivale ad affermare proposizioni a priori. Sembra, in conclusione, che arrestandosi all’indagine della Prefazione Plaass sviluppi l’idea di una parte pura della scienza della natura diversa da quella che Kant ha effettivamente in mente79. La trattazione del concetto di movimento ha il merito di sottolineare come una molteplicità di sensi siano raccolti nel termine kantiano corrispondente. Tuttavia, il modo in cui Plaass determina il rapporto tra questi diversi concetti risulta ancora una volta estraneo al testo kantiano. Un breve esame di questo argomento mette nuovamente in luce le difficoltà della prospettiva di Plaass. In primo luogo, la deduzione non è conseguente: che un fenomeno debba essere sottoposto in generale alle forme di spazio e tempo non equivale al fatto che esso sia mobile. In base alla premessa di Plaass, infatti, si può benissimo pensare 79 Si vedano per esempio le pagine 99-102, dove attribuisce un valore costitutivo alle leggi della meccanica per distinguere tra movimento come semplice fenomeno e movimento di un oggetto: tutte osservazioni di grande interesse, illustrate in modo convincente con esempi tratti dalla fisica (disciplina da cui viene l’autore, che era un allievo di von Weizsäcker), che fanno rimpiangere l’assenza nella sua opera di un’analisi che andasse oltre le generalità della Prefazione.

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un oggetto immobile nello spazio e persistente nel tempo. Ma questa insufficienza della “deduzione metafisica” conferisce un significato diverso alla stessa attestazione empirica di un oggetto mobile. Se infatti il concetto di movimento di cui Kant tratta nei Principi metafisici non è ricavabile a priori, la percezione di una materia in quanto mobile dovrà essere posta a fondamento non solo della sua realtà oggettiva ma anche del suo contenuto. Del resto, il tentativo di Plaass risulta difficilmente accordabile con il modo in cui Kant conduce i primi passaggi della metafisica della natura. Si propone dapprima di mostrare che un oggetto del senso esterno deve essere per definizione mobile, per poi affermare che la realtà oggettiva di questa determinazione di movimento andrà verificata empiricamente. L’esperienza dovrà dunque attestare non solo che un oggetto dei sensi esterni in generale esista, ma anche che sia mobile. Ma come potrebbe essere altimenti, se questa determinazione fosse propria di esso già a priori? La prova di cui parla Plaass, in effetti, non può essere che empirica, e deve corrispondere – secondo una lettura fedele al testo – al fatto che la metafisica della natura corporea prende dall’esperienza «il concetto determinato di un oggetto del senso esterno», dunque il concetto di un oggetto in quanto esistente e empiricamente determinato. In generale, dunque, la distinzione tra contenuto e realtà oggettiva di un concetto non sembra in grado di risolvere la questione del riferimento all’empirico propria dei Principi metafisici. Proprio il riferimento alla percezione, per esempio, permetterà a Kant nella Foronomia di distinguere tra movimento come pura descrizione matematica e movimento vero e proprio, oltre che, nella Fenomenologia, di distinguere movimento reale e movimento puramente relativo. Il riferimento alla percezione, dunque, se certamente non può determinare l’intero contenuto del concetto di movimento, pure introduce alcune determinazioni particolari all’interno di questo contenuto. Che poi, in generale, il movimento debba essere, secondo le parole di Kant, una «determinazione fondamentale di un oggetto del senso esterno», è questione ulteriore che suscita effettivamente l’esigenza di una giustificazione a priori. Si tratta di un problema aperto, a livello testuale, che come si vedrà può forse risolversi mediante una “deduzione”, la quale però, come suggerisce il passo corrispondente di Kant, dovrà essere semmai relativa alla possibilità dell’esperienza della materia in generale, e dunque essere una deduzione trascendentale: ma una tale ipotesi po-

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trà trovare evidenza solo alla luce dell’Opus postumum, e dunque va tenuta separata dall’interpretazione del metodo dei Principi metafisici. Un ultimo difetto dell’interpretazione di Plaass risiede in una insufficiente determinazione del ruolo svolto dal concetto di movimento nella nuova metafisica. Il movimento, infatti, viene coinvolto da Plaass nella semplice determinazione del contenuto del concetto di materia. In tal modo, viene trascurato del tutto il fatto che, mediante questo concetto, Kant intende collegare la rappresentazione del concetto di materia alla sua costruzione matematica, mostrando «la possibilità di una scienza matematica della natura». Il movimento, infatti, costituisce un quantum, e la sua rappresentazione a priori, nelle diverse sezioni dei Principi metafisici, dovrà mostrare la possibilità di costruire le diverse proprietà della materia, costruzione che potrà avvenire in matematica sostituendo al generico quantum le rappresentazioni di rapporti quantitativi determinati. Questo passaggio, annunciato da Kant in modo inequivocabile e ampiamente confermato nel testo – che contiene anche un esempio di costruzione vera e propria come prolungamento ideale dei principi metafisici della Dinamica – non viene fuori in maniera adeguata nel testo di Plaass, nemmeno quando egli procede a un sommario delle quattro sezioni dell’opera (pp. 102-107). Prima di mostrare in dettaglio come sia possibile risolvere in modo diverso e più aderente al testo i problemi sollevati da Plaass, si può cercare di rintracciare anche nel suo caso i presupposti teorici dell’interpretazione. L’elemento fondamentale dell’interpretazione di Plaass è quella distinzione tra contenuto e realtà oggettiva di un concetto che egli afferma di ricavare dalla semantica di Frege. Ancora più radicata nel pensiero di Frege, piuttosto che in quello di Kant, è la tesi secondo cui il ricorso all’esperienza non servirebbe «a stabilire la verità delle proposizioni della fisica pura, ma piuttosto a garantire la possibilità della loro verità (o falsità) in generale» (p. 89). Secondo questa tesi, cioè, tutta la metafisica della natura procederebbe completamente a priori, come la logica matematica in Frege, e il riferimento all’esperienza, in questo caso la prova della realtà oggettiva dei predicabili metafisici, non farebbe che donare realtà oggettiva alle connessioni stabilite del tutto a priori dalla metafisica80. 80 Il compito dell’esperienza sarebbe cioè di fornire un argomento al concetto come funzione, stabilendo una quantificazione della forma ∃x: f(x), senza che tale appli-

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Le cose, per Kant, stanno in maniera del tutto diversa. È vero che Kant impiega la nozione di “contenuto di un concetto”, con cui indica la sua “essenza logica”. Ma nella filosofia trascendentale la verità dei principi dell’intelletto è stabilita fin dall’inizio dal loro riferirsi a condizioni di possibilità dell’esperienza, e il riferimento alla possibilità dell’esperienza (come «medio») rientra nelle loro prove, in ciò essenzialmente diverse da dimostrazioni matematiche. Nella fisiologia razionale, come si vedrà, il riferimento alla percezione costituisce un presupposto fondamentale tanto delle «definizioni», quanto, mediatamente, delle dimostrazioni di quelle proposizioni che Kant presenterà come «teoremi». Al contrario del concetto secondo Frege (designato astrattamente come funzione non satura), i concetti posti alla base della fisica pura kantiana contengono infatti un contenuto empirico che gioca un ruolo essenziale nella stessa indagine a priori sulla possibilità di costruirli (da ciò risulta, peraltro, la stessa distinzione tra ontologia e fisica pura). La concatenazione delle diverse proposizioni, dunque, non potrà essere affatto concepita come un procedimento privo di elementi empirici, alla maniera della logica formale. Per esempio, il teorema della composizione dei movimenti, in Foronomia, sarà dimostrabile solo presupponendo l’originaria relatività del movimento rettilineo, ma questa viene argomentata, nel precedente ‘Grundsatz’, sulla base di concetti empirici come quello di corpo e spazio materiale; e ancora, nella Dinamica, è solo in base al fatto empirico dell’impenetrabilità che Kant può cercare di provare a priori l’esigenza di una forza repulsiva originaria che deve stare alla base del riempimento dello spazio. In conclusione, l’interpretazione di Plaass cerca di preservare tre caratteristiche della metafisica della natura kantiana senza le quali essa sembra effettivamente perdere la sua fisionomia: la probatività a priori delle proposizioni, la loro validità universale e la loro completezza. Attraverso la distinzione tra contenuto dei concetti e loro verificazione, Plaass recupera una caratteristica fondamentale di epistemologie – di ispirazione fregeana – come quella di Russell e quella di Carnap, integrando il concetto di una parte pura della scienza della natucazione (ad un oggetto o Bedeutung) modifichi nulla del contenuto del concetto stesso (il Sinn). Per i concetti fregeani in questione si vedano Funktion und Begriff (1891) e Über Sinn und Bedeutung (1892), ristampati entrambi in G. FREGE, Funktion, Begriff, Bedeutung, Göttingen 1994, pp. 17-65.

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ra nella cornice di una «teoria della conoscenza» secondo cui sarebbe possibile conoscere a priori solo relazioni logiche tra concetti, mentre ogni prova della validità di una conoscenza sarebbe dipendente da una verificazione empirica. Ma l’artificiosità e l’inadeguatezza delle tesi di Plaass affondano proprio in questa introduzione di elementi tratti dalla logica e dall’epistemologia successive, che determina l’oscuramento di aspetti della dottrina kantiana incompatibili con esse. La questione non possiede comunque un interesse puramente storico-filologico: l’epistemologia sottesa all’interpretazione di Plaass soffre infatti di un conflitto teorico tra un concetto di esistenza come secco riscontro empirico-percettivo – mutuata da Frege – e un’interpretazione dei principi metafisici come costitutivi, in quanto condizioni di possibilità dell’esperienza di determinate proprietà della materia, a cominciare dalla stessa individuazione di un soggetto materiale nella pura rappresentazione del movimento. Ma questo conflitto, come abbiamo visto nel capitolo 3, possiede le sue radici già in alcuni aspetti del pensiero di Kant: per esempio, nella compresenza del concetto di percezione come «unico carattere dell’esistenza» (KrV A 225/B 273) e la funzione costitutiva effettivamente svolta dai principi dinamici e metafisici per la stessa distinzione tra parvenza e oggetto, e in particolare dell’oggetto materiale, nel continuum dello spazio e nel tempo; e ancora nella stessa nozione logica di “contenuto di un concetto”, che si ricollega a una “materia della possibilità”, cioè all’insieme di proprietà possibili che costituiscono l’essenza stessa, come tali non riducibili a mere forme logiche, la cui origine – esclusa la loro deduzione metafisico-teologica nella tradizione wolffiana – resta per il criticismo un problema. Se una simile interpretazione è stata fino ad oggi spesso accolta o comunque tenuta in alta considerazione si deve dunque al fatto che essa cerca di aggirare, con un approccio legato ai testi e insieme elegante, le notevoli difficoltà tecniche e le oscurità dei testi e del pensiero kantiano, che si cercheranno ora di dirimere.

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Capitolo 6 Materia e movimento: gli elementi della fisica pura

I problemi più generali della fisica pura di Kant si radicano nella sua metafisica, in particolare nel passaggio dalla possibilità all’esistenza scandito dai principi dinamici e dai principi metafisici. Lo stesso Wolff si dibatteva in un problema analogo, quando, discutendo il passaggio dal possibile – il possibile logico protagonista assoluto della sua ontologia – all’esistente, riconosceva che il complementum possibilitatis, che dovrebbe esprimerlo in formula, lungi dall’essere definibile chiaramente di per sé va mostrato in atto nelle diverse discipline metafisiche − teologia, cosmologia, psicologia – e poi empiriche1. Su questo sfondo abbiamo delineato il problema architettonico kantiano della specificazione dei principi ontologici e del passaggio dal possibile all’esistente. Il problema di una mediazione tra l’istanza della semplice posizione empirica e quella della determinazione legale, che nella filosofia trascendentale poteva essere tenuto a margine in base all’indipendenza delle prove dal contenuto dell’intuizione, si pone invece nella fisica pura con le stesse definizioni di materia e movimento e dunque investe il nuovo sistema dei principi a priori. Un esame della questione si può articolare assecondando i due momenti metodologici, analitico e sintetico, in cui si articola la fisica pura. Rispetto al momento analitico il problema si pone con la fuggevole menzione di una analisi del concetto di materia e riguarda 1

WOLFF, Philosophia prima sive ontologia, § 174.

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l’origine empirica delle sue proprietà essenziali e la possibilità che la loro presenza venga, per così dire, logicamente metabolizzata e non intacchi lo statuto a priori della metafisica (§ 6.1). A una tale soluzione Kant allude certamente quando introduce la funzione ordinatrice delle categorie e parla di determinazioni «essenziali» della materia. Il secondo problema riguarda l’origine e lo statuto del concetto di movimento, che è il concetto fondamentale della nuova sintesi a priori. Una prima lettura della Prefazione permette di rilevare la presenza di due concetti di movimento, l’uno, puramente fisico-matematico, mediante il quale si può realizzare il suddetto momento sintetico, l’altro, che converrà infine definire trascendentale, introdotto da Kant per spiegare l’origine del movimento dall’affezione dei sensi e per giustificare l’estensione universale della proprietà del movimento rispetto all’esperienza della materia in generale. Si tratterà allora di risolvere due ardue questioni (rispettivamente §§ 6.2-6.3): come il concetto fisico-matematico possa non dirsi meramente empirico – il che, secondo la Critica, dovrebbe dirsi di ogni contenuto della percezione – e come possa essere da Kant collegato con il successivo, per stabilire un fondamento unitario della fisica pura.

6.1. Il problema del concetto empirico di materia Il concetto di materia di cui Kant si occupa nei Principi metafisici non è che uno dei diversi concetti che, a differenti livelli di astrazione, egli designa con il termine ‘materia’. In primo luogo, egli intende con materia il «determinabile», in quanto opposto in generale alla forma quale «sua determinazione»: si tratta del concetto della riflessione che, come tale, può di volta in volta assumere diversi contenuti, a seconda che si consideri l’oggetto come puro pensiero o rispetto al nostro modo di conoscerlo. Astraendo dalle condizioni della sensibilità, si parla dunque di una «materia logica», che in metafisica viene ipostatizzata nel concetto dell’intelletto divino2. In riferimento all’intuizione empirica, ma astraendo 2 Si tratta di un concetto che Kant attribuisce ai «logici». Ma l’uso teoretico del concetto riflessivo di materia conduce, al di là dei confini della pura logica, a una me-

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stavolta da tutte le condizioni formali dell’esperienza (estetiche e logiche), si ottiene la materia come l’oggetto o «il reale» della sensazione, ciò che nel fenomeno non si risolve nella forma: si tratta, come si vedrà, dell’elemento empirico fondamentale distinto nell’Estetica e posto alla base della definizione di materia nei Principi metafisici3. Ma in quest’opera la materia designa, in un terzo significato, anche l’oggetto determinato del senso esterno come esso risulta in fisica pura, in quanto dotato di proprietà ulteriori rispetto a quelle date percettivamente: Kant parla in proposito di «materia in generale»4. Materia è infine detto – in accordo con il lessico scientifico dell’epoca – anche ogni particolare elemento o sostanza (Materie o Stoff) di cui si occupano la fisica e la chimica: per es. la «materia magnetica» o la «materia luminosa». Si tratta dunque di una molteplicità di materie particolari. Riguardo al concetto di materia di cui si occupano i Principi metafisici occorre chiarire subito che in nessun luogo delle sue opere Kant lascia intendere che si possa trattare di un concetto puro. È utile richiamare le tre proprietà della fisica pura per cui Plaass – come si è visto (§ 5.3) – ha ritenuto necessario affermare che invece lo sia, violando in maniera tanto netta la lettera dei testi: probatività a priori, validità universale e completezza delle nuove conoscenze. La prima questione è legata alla sua interpretazione generale dei Principi metafisici, e può decadere con essa. Raccogliendo in un’utafisica di tipo leibniziano (A 266/B 322). Kant cerca di neutralizzare questo uso trascendentale attribuendone la genesi al mero uso regolativo della ragione (Cf. A 573/B 601ss.). In un passo della Critica (KrV A 143/B 182), tuttavia, pare far coincidere materia della sensazione e materia logica, parlando di una «materia trascendentale di tutti gli oggetti, come cose in sé», che nello stesso tempo corrisponderebbe alla sensazione. Questo concetto non va preso però per un elemento valido della conoscenza, bensì come il luogo teorico dell’illusione trascendentale, la quale, complice la passività della sensazione, spinge a ipostatizzare il concetto riflessivo di materia, identificandola con la cosa in sé. 3 Si veda per esempio A 20/B 34, B 207, A 167/B 209, A 723/B 751, MA 481. Il concetto kantiano risulta da una applicazione dei concetti riflessivi al fenomeno: in questo, cioè, si hanno una forma e una materia entrambe sensibili. 4 Nel corso dell’opera, poi, Kant usa talvolta il termine ‘materia’ come sinonimo di ‘corpo’, in quanto in meccanica il corpo è il correlato intuitivo del concetto di materia in generale.

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nica «costruzione metafisica» l’analisi del concetto di materia e il riferimento alla rappresentazione del movimento, Plaass considera i predicati del concetto di materia come prodotti di un’applicazione delle categorie alla rappresentazione del movimento. Ma in questo processo non c’è spazio per alcun contributo di proprietà ricavate dall’analisi di un concetto empirico. Se invece si ammette che l’analisi del concetto di materia è logicamente distinta dal riferimento delle proprietà così ricavate al concetto di movimento − riferimento da cui devono risultare le proposizioni a priori della nuova metafisica −, si deve riconoscere che il concetto empirico non pone di per sé un problema di principio. Come si è accennato, già nella Critica viene sostenuta la possibilità di ricavare giudizi sintetici a priori basandosi su concetti empirici (come quello di cambiamento) o comunque fondati su un momento empirico (come quello di esistenza). Nulla impedisce dunque di pensare che, ponendo alla base un concetto propriamente empirico come quello di impenetrabilità, Kant possa pretendere di ricavarne, ancora una volta mediante l’intuizione pura, proposizioni sintetiche a priori: ed è anzi esattamente questo che avviene nei Principi metafisici, per esempio con la proposizione (da Kant non presentata come analitica, ma dimostrata mediante intuizione pura) secondo cui il semplice riempimento dello spazio presuppone l’azione di una forza repulsiva fondamentale. Le difficoltà poste a una scienza pura della natura dal concetto di materia in quanto empirico rimangono perciò due: la validità universale delle proprietà in esso contenute e la loro completezza. Il primo di questi due problemi viene risolto da Plaass mediante la sua «costruzione» del concetto di movimento: le determinazioni a priori del concetto di materia si riferiscono infatti tutte al movimento; ma il movimento è una determinazione fondamentale di un oggetto del senso esterno, dotata dunque di una validità universale; così, assumerebbero mediatamente validità universale anche tutte le altre proprietà della materia. La questione va effettivamente collegata allo statuto del concetto di movimento, e sarà dunque discussa tra breve insieme ad esso5. 5 Anche l’altra caratteristica essenziale della metafisica, la necessità, verrà discussa a proposito del concetto che la produce, cioè il movimento.

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La questione della completezza della metafisica sembra rendere effettivamente impraticabile l’assunzione di un concetto empirico a fondamento della nuova metafisica. Un concetto empirico, infatti, come Kant ripete più volte, possiede determinazioni potenzialmente infinite e non può essere rigorosamente definito. Mediante l’astrazione, esso può possedere solo un’universalità e una completezza artificiali6. Il problema, in questo caso, è allora di giustificare la determinazione di un concetto di «materia in generale», ottenuto isolando tali e tante proprietà e astraendo dalle altre allo scopo di basarvi la metafisica della natura corporea. Un criterio per una simile argomentazione, che voglia procedere in accordo con Kant, non può essere che quello consueto dell’origine e della connessione reciproca delle conoscenze. Questo compito richiede di ritornare alla questione del contenuto del concetto di materia, per comprendere quale sarebbe l’analisi che Kant pone a fondamento della sua indagine. Effettivamente l’analisi del concetto di materia di cui Kant parla, nei Principi metafisici, viene data sempre per già avvenuta. Kant accenna in un caso al suo risultato (i concetti di movimento, riempimento dello spazio, inerzia) ma lo fa in maniera imprecisa (dando l’impressione che l’elenco delle proprietà potrebbe proseguire indefinitamente) e senza dire nulla di come l’analisi – per così dire, prima dell’apertura del sipario – sarebbe pervenuta a essi. La questione investe in generale il rapporto fra logica e conoscenza: quando Kant parla di «essenza logica» di un concetto si riferisce a un repertorio fisso e concluso di note che costituiscono il concetto stesso; ma, nel caso degli oggetti naturali, come si può giungere a questa chiusura? Solitamente Kant risolve la questione affidandosi al repertorio di note che la parola porta con sé e che rispecchiano l’essenza logica. Nel caso della materia in generale, 6 Mediante l’«astrazione» un concetto riceve «la sola forma dell’universalità». Un concetto empirico, tuttavia, è indefinitamente specificabile, a causa della infinita varietà posseduta in linea di principio dall’intuizione empirica: per cui non si può mai dire di aver raggiunto una «specie infima». Si veda KANT, Logik, § 3 (Nota 1), § 6 (Nota 3), § 11; KgS IX, 92, 95, 97. Sulla insicurezza delle «definizioni analitiche» si veda § 104, KgS IX, 142.

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tuttavia, questo criterio linguistico pare troppo poco rigoroso: si tratta chiaramente di un concetto fattizio, che contiene in nuce la struttura quadripartita dell’intera fisica pura e che Kant ottiene mediante una particolare selezione tra le note che di volta in volta, in definizioni non sempre uniformi, attribuisce all’essenza logica di materia. Resta dunque da stabilire come mai il concetto in questione debba limitarsi a quelle determinate note. Una questione analoga è già stata affrontata al livello dell’ontologia: la tavola delle categorie, infatti, altro non è che la determinazione pura e completa dell’«oggetto in generale» (KrV B 128). Ora, il fatto che questa determinazione sia completa, per Kant, deriva dalla completezza della tavola delle funzioni logiche dei giudizi in base a cui categorie vengono definite. L’Analitica dei principi, poi, mostra come le diverse categorie possano per la prima volta riferite a un oggetto dei sensi e anzi, nelle sue prove, come debbano essere attribuite ad esso in quanto deve essere un oggetto di esperienza possibile (ivi)7. Nel caso della fisica pura si potrà ragionare in modo analogo, anche se ci si trova di fronte al compito 7 L’analogia potrebbe spingersi oltre, se si ipotizza una verifica o addirittura una dipendenza genetica della tavola categoriale delle successive prove trascendentali. Si può infatti sostenere che gli stessi concetti puri, che devono costituire la definizione dell’oggetto in generale, non possono essere definiti in modo tale da ottenere la certezza apodittica di non aver trascurato qualche loro aspetto se prima non si consideri la loro applicazione agli oggetti; in altre parole, soltanto mostrando adeguatamente questa applicazione si coglierebbero aspetti di questi concetti che una mera analisi potrebbe far trascurare (cf. KrV A 728-9/B 756-7). La definizione delle categorie verrebbe così riferita a un filo conduttore ulteriore rispetto a quello delle funzioni logiche, e in questa prospettiva le determinazioni dell’oggetto in generale potrebbero considerarsi il risultato di tutta la Logica trascendentale, non soltanto della deduzione metafisica − come se l’Analitica dei principi fosse la verifica di quella tavola, o addirittura la sua segreta fonte. Si tratta di un’ipotesi nel complesso inadeguata, che però presentiamo per la sua analogia con il modo in cui, stavolta a ragione, ci pare che proceda la costituzione del concetto kantiano di materia. Uno dei luoghi in cui Kant si pronuncia su questo tema è Prolegomena, § 4, KgS IV, 273 (cors. mio): «Quando prima si sono raccolti, secondo certi principi, i concetti a priori che costituiscono la materia della metafisica e i suoi strumenti di costruzione, allora l’analisi di questi concetti è di grande valore». Qui, nell’ipotesi suddetta, i principi sarebbero quelli trascendentali; più verosimilmente, sono la completezza della tavola delle funzioni logiche e il loro necessario esercizio nella sintesi pura.

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di delimitare un concetto empirico. Il concetto di materia come oggetto del senso esterno è una specificazione prossima del concetto di oggetto in generale. Ci si può dunque aspettare che sia legittima una sua determinazione sistematica, guidata dal filo conduttore categoriale e giustificata da prove che stabiliscano nuovi principi a priori. Il concetto di materia in generale, dunque, dovrà essere costituito da tutte le note (e solo esse) che possono essere rappresentate a priori e che, secondo il concetto di natura, si possono collegare a priori alle altre. Nel caso in questione, tuttavia, la corrispondenza tra determinazioni categoriali e proprietà fisiche non è ovvia: nel caso dell’ontologia, il contenuto del concetto era completamente determinato dalle funzioni logiche; in quello della fisica pura, invece, si tratta di trovare una corrispondenza tra proprietà empiriche e categorie. Per risolvere questo problema, e introdurre un ordine categoriale nella molteplicità delle proprietà più generali della materia, svolgerà un ruolo dirimente il criterio della connessione delle conoscenze. In altre parole, la stessa possibilità di formulare determinati principi di fisica pura fornirà un criterio per confermare, retrospettivamente, l’elenco di proprietà che appartengono al concetto di materia in generale: la costituzione della scienza contribuirà a stabilire la definizione che la apre. È lo stesso Kant a segnalare che una via d’uscita dalle suddette difficoltà debba essere fornita dal filo conduttore delle categorie. Il passo in cui lo fa è un po’ ellittico, e rischia di far sfuggire tutti i passaggi8. Egli scrive (MA 475): Sotto le quattro classi delle categorie (quella della grandezza, della qualità, della relazione e infine della modalità), devono dunque poter essere raccolte anche le determinazioni del concetto universale di una materia in generale, e con ciò anche tutto ciò che di essa può essere pensato, rappresentato nella costruzione matematica, o dato nell’esperienza come oggetto determinato. Qui non c’è più niente da fare, da scoprire o da aggiungere.

Il riferimento a tutte e tre i diversi modi di conoscenza – per con8 Evitando la questione Plaass, come si è visto, preferisce citarlo in maniera tronca.

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cetti, per intuizione pura e per intuizione empirica – deve essere preso alla lettera: Kant pensa effettivamente, nell’analizzare il concetto di materia, oltre che ovviamente al repertorio delle proprietà empiriche, tanto al filo conduttore delle categorie, quanto alla possibilità della costruzione matematica di quelle proprietà stesse. In tal senso, non solo l’analisi kantiana non procede alla rinfusa – essendo invece guidata da un filo conduttore logico – ma essa ha già in vista la possibilità di ricollegare le proprietà della materia all’intuizione pura. Questa possibilità, del resto, è precisamente la novità teorica fondamentale, rispetto all’impianto del 1781, che ha permesso a Kant di risolvere i dubbi sulla possibilità di una fisiologia razionale. Per cui è legittimo ipotizzare che, proprio scrivendo l’opera, Kant si chiarisse le idee sulle sue premesse, come la definizione di materia, e sul suo metodo: entrambe cose che vengono presentate soltanto nel testo quasi certamente scritto per ultimo, e cioè la Prefazione. Sulla base di queste constatazioni, invertendo l’ordine sintetico dell’esposizione kantiana, si può cercare di ricostruire analiticamente cosa possa essere avvenuto dietro il sipario. Cominciamo considerando la semplice ipotesi secondo cui Kant avrebbe cercato una proprietà corrispondente a ogni categoria (come se fosse garantito a priori che ce ne debba essere una sola9). Kant considera successivamente le categorie e si domanda quali proprietà della materia corrispondono a esse. Il repertorio storicofenomenologico a sua disposizione reca traccia delle discussioni aperte, che invano le definizioni dei manuali lasciano in ombra. In quello di Eberhard, per esempio, vengono considerate proprietà essenziali della materia: estensione, impenetrabilità, divisibilità, mobilità, forza. È sostanzialmente l’elenco dato da Wolff10. Colpi9 Che ce ne debba essere almeno una è garantito dagli stessi principi trascendentali, essendo la materia pur sempre un fenomeno. 10 EBERHARD, Erste Gründe der Naturlehre, § 1, p. 15: I corpi sono «1) estesi, 2) impenetrabili; 3) divisibili; 4) mobili; 5) dotati di forza». WOLFF, Vernünftige Gedanken von Gott, § 606, considera proprietà generali della materia riempimento dello spazio, estensione, figura, scomponibilità, grandezza determinata. La mobilità, peraltro, viene aggiunta da Wolff nei suoi Vernünftige Gedanken von den Würkungen der Natur, § 8, mentre la forza è introdotta già a livello ontologico, con l’ambivalenza di cui abbiamo già detto.

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sce l’assenza dell’inerzia, che sia Newton sia Leibniz avevano considerato essenziali. La mancanza dell’inerzia, insieme alla vaghezza della “forza”, è forse traccia della tensione tra tradizione newtoniana e leibniziana, che il wolffismo tenta di allentare. In certa misura, infatti, queste tradizioni convergevano nel rigetto della res extensa cartesiana. Tuttavia, naturalmente, Leibniz poneva a fondamento sia dell’impenetrabilità che dell’inerzia una forza primitiva, definita in sede metafisica; e anche Wolff lo seguiva, con il consueto connubio di riserbo metafisico e apertura alle determinazioni empiriche; Newton, come abbiamo visto, forse traeva la sua polemica contro l’estensione cartesiana e in genere le sue idee metafisiche da More, ma in ogni caso scriveva da fisico, e come tale si limitava a porre l’impenetrabilità e la massa (inerziale) dei corpi come proprietà primitive11. Negli scritti di questi anni Kant considera l’essenza logica della materia come composta di «estensione» e «impenetrabilità», dando per scontata la mobilità; ma già da tempo usa aggiungere a questo elenco l’inerzia12. L’ammissione dell’inerzia come «assenza 11 Una definizione della materia che si può evincere da NEWTON, Principia, Regulae philosophandi, regola III, p. 554, che attribuisce ai corpi estensione, durezza, impenetrabilità, mobilità e forza di inerzia, negando che siano essenziali proprietà capaci di grado, come la gravità. Anche Leibniz, per diverse ragioni, aveva affermato che la definizione cartesiana va integrata includendo l’impenetrabilità e una forza d’inerzia (Nouveaux essais, II, XXI, § 1; A VI, 6, p. 170; cf. GP II, 171). Ma al di là di questo accordo superficiale, resta il dissenso di fondo. L’impenetrabilità e l’inerzia, private del tutto di ogni connotazione dinamica, verranno poi riprese da Euler e resteranno caratteristiche della meccanica razionale successiva. 12 Si vedano per es. KrV A 618/B 646 e lettera a Reinhold del 12 maggio 1789, KgS XI, 36. L’inerzia è inclusa, per es., in un passo della Logik Blomberg, KgS XXIV, 116 (databile tra la seconda metà degli anni ’60 e il 1770) in cui l’essenza logica di materia viene fatta consistere in estensione, impenetrabilità e inerzia «come assenza di vita, così che essa non è in grado di cambiare di luogo o di muoversi da sola senza l’assistenza di un’altra forza estranea». L’essenza logica di materia, così, non ha un contenuto stabile nel pensiero kantiano, benché egli stesso presenti l’essenza logica in genere come un contenuto costante e accessibile a tutti, senza di cui l’oggetto non sarebbe nemmeno concepibile. Di fatto la definizione kantiana coincide con quella stabilita da Euler, che include nell’«essenza» dei corpi estensione, mobilità, inerzia (Standhaftigkeit) e impenetrabilità. L’esposizione più approfondita è in EULER, Anleitung zur Naturlehre, EOO III, 1, 19, 22-52 (l’opera fu però pubblicata postuma nel 1862).

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di vita», ripresa da Euler13, e l’indagine su una forza fondamentale, negli scritti degli anni ’50 e ’60, costituiscono elementi di originalità teorica, la cui compresenza dovrà essere giustificata nella nuova fisica pura. In particolare l’ammissione delle forze fondamentali, tra cui è inclusa l’attrazione a distanza, costituisce una presa di distanza dalla dinamica leibniziana, ma anche da Newton14. Come si vede, dunque, presentare una semplice definizione comportava un riesame e delle scelte che si giustificano solo dal punto di vista della totalità della nuova scienza; tuttavia, dato che la completezza della definizione è pur sempre necessaria alla scientificità della nuova dottrina, si pone l’esigenza di un criterio per mettere ordine in questo aggregato di proprietà. Quello adottato da Kant è duplice. Egli cerca in primo luogo di isolare le proprietà senza le quali la materia non si potrebbe affatto concepire, e dunque – essendo la materia l’oggetto dei sensi in generale – percepire con la sensazione: da esse deve essere costituito il contenuto di un concetto, quello di «materia in generale» («Materie überhaupt»), che è chiaramente prodotto per analogia con quello di «esperienza in generale», in cui si considerano appunto quelle sole proprietà dell’esperienza senza le quali questa sarebbe impossibile. In questo primo passaggio la lezione leibniziana, secondo cui l’impenetrabilità va considerata altrettanto essenziale dell’estensione, costituisce il probabile punto di partenza metafisico della riflessione kantiana, mentre è la definizione dei principi trascendentali «costitutivi» a determinare le ragioni sistematiche del 13 Cf. EULER, Mechanica sive motus scientia analytice exposita, I, Petropoli 1736, §§ 56-74, (EOO, s. II, 1, pp. 27-32). Kant riprende la concezione di Euler già nel Neuer Lehrbegriff der Bewegung und Ruhe (1758) e poi ancora nei Principi metafisici (Meccanica, Teorema 3), ma egli contesta l’analisi della materia di Euler, negando che impenetrabilità e inerzia siano proprietà originarie, irriducibili a altri concetti. Si veda cap. 8 nota 41; § 9.3.B. 14 Tra esse vi è anche l’attrazione a distanza, il cui fenomeno è il peso. Egli adotta così una tesi “essenzialista” sulla gravità, che va oltre coloro che – come Leibniz e Wolff − consideravano il peso come un fenomeno degli urti, e insomma negavano, sul piano fisico, che vi fosse una massa gravitazionale, ammettendo la sola massa inerziale; ma anche contro la tesi di Newton, che non ne faceva una proprietà essenziale, limitandone il significato alla matematica

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primato di due proprietà, l’una estensiva, l’altra intensiva. Con ciò si ha la definizione kantiana precedente ai Principi metafisici, quella della materia come estensione impenetrabile, che però non esaurisce la tavola categoriale. In secondo luogo, tra le proprietà essenziali della materia, Kant cercherà di considerare prima di tutto quelle che è possibile costruire a priori secondo leggi necessarie, considerando le altre come derivate. Mediante tale gerarchizzazione delle proprietà della materia Kant cercherà di definire un campo di proprietà che appartenga al concetto di una «materia in generale» e che, sia dal punto di vista categoriale che da quello deduttivo, giustifichi l’astrazione da tutte le altre infinite proprietà che appartengono alla natura della materia. Alla luce di questi due criteri si può ricostruire la formazione del concetto di materia in maniera relativamente semplice. Prendiamo spunto da un passo dei Prolegomena, in cui Kant (poco prima della redazione dei Principi metafisici) presenta uno dei suoi elenchi delle proprietà della materia, introducendo una importante precisazione tra parentesi. Nella metafisica della natura corporea, scrive, si trova «molto che non è del tutto puro e indipendente da fonti sperimentali come il concetto di m o t o, di i m p e n e t r a b i l i t à (sul quale si fonda il concetto empirico di materia), di i n e r z i a ecc.» (Prol. § 15, KgS IV, 295). Perché l’impenetrabilità viene identificata qui con «ciò su cui si fonda il concetto empirico della materia»? In effetti l’esperienza primaria della materia deve avvenire mediante una sensazione e nessun’altra proprietà della materia potrà essere considerata a prescindere dalla sensazione, se non astraendo esplicitamente da essa. La sensazione fisica (cioè relativa al «senso esterno»), alla luce della Critica, si può considerare come dotata di una quantità intensiva ed estensiva (non è possibile infatti, in concreto, che una sensazione esterna corrisponda a un punto geometrico). Ma la sensazione, secondo Kant, si fonda sull’azione di un oggetto esterno sui sensi del soggetto, che però, secondo quanto si legge nella Dinamica, si deve far risalire all’impenetrabilità. In base a questa tesi, che andrà approfondita, Kant cercherà di ricavare dall’impressione, e dunque dall’impenetrabilità, la stessa «determinazione fondamentale» del 402

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movimento15. Anticipando quanto verrà mostrato in seguito, si può affermare anzi che l’esame di tutte le altre proprietà considerate nei Principi metafisici rispetto all’intuizione pura (mobilità, forza attrattiva e repulsiva, estensione, densità, sostanzialità, inerzia, comunicazione del movimento) presupporrà la proprietà secondo cui la materia riempie uno spazio. L’impenetrabilità si può in tal senso considerare come la proprietà fondamentale della materia in generale, cioè come la proprietà che precede le altre da un punto di vista dell’origine delle conoscenze, e cui esse, presupponendola, vengono aggiunte successivamente secondo il filo conduttore categoriale (o, come la forza, in quanto semplicemente ricavate da essa mediante l’intuizione pura). Facendo ricorso al secondo dei nostri criteri – quello della connessione legale − è possibile comprendere ora come dovesse avvenire la discriminazione tra proprietà primitive e proprietà secondarie del concetto di materia in generale. L’esempio della prima categoria permette di comprendere bene la situazione. Già Stadler e Adickes lamentavano il fatto che Kant avesse dedicato la sua prima sezione a una trattazione del semplice concetto di movimento rettilineo, trascurando il fatto – da essi dato per ovvio – che la proprietà della materia corrispondente alla categoria della quantità dovesse essere l’estensione16. Tuttavia, come abbiamo visto, Kant 15 Nel § 6.3 si mostrerà come la precedenza “fenomenologica” dell’impenetrabilità non sia tuttavia sufficiente per giustificare a priori l’altra premessa fondamentale dell’opera, quella del movimento come proprietà fondamentale della materia. 16 A. STADLER, Kants Theorie der Materie, p. 18: l’autore sostiene che la Dinamica – «ai fini della valorizzazione sistematica» – avrebbe dovuto precedere la Foronomia. ADICKES, Kant als Naturforscher, I, p. 272, prese alla lettera questa veduta e invertì l’ordine della sua esposizione di queste due sezioni. Cf. POLLOK, MA Kommentar, p. 183. Da un punto di vista storico è interessante osservare che proprio verso la fine dell’800 gran parte dei fisici – da Maxwell a Hertz – assumevano, sia pure con una rappresentazione estranea alla vera e propria prassi scientifica, una visione corpuscolare della materia (P. Duhem parlava in proposito dei «nuovi cartesiani»). In Germania, l’atomismo corpuscolare venne recepito anche da studiosi kantiani, riletto e sistemato – con qualche forzatura – secondo un’ottica trascendentale (si veda per esempio il tentativo molto artificioso di K. LASSWITZ, Atomistik und Kritizismus, Braunschweig 1878; le difficoltà con l’atomismo attraversano poi tutto il neokantismo, e si notano ancora, da ultimo, in Determinismus und Indeterminismus di Cassirer, del 1938). L’ovvietà attribui-

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aveva diverse ragioni per non inserire l’estensione in questo luogo, e ricordandole risulta più chiaro il modo in cui egli dovette procedere per selezionare le proprietà corrispondenti ai diversi titoli categoriali. L’estensione è una proprietà che si presta bene alla costruibilità nell’intuizione pura, tanto che Descartes, nella sua fisica matematica, l’avrebbe scambiata per la materia stessa (MA 5323). Questa circostanza sembrerebbe offrire la migliore occasione per giustificare a priori quella matematizzazione che Kant sta cercando. Tuttavia, ragiona Kant, costruendo la materia in modo puramente geometrico il fisico meccanicista è portato a dare eccessivo spazio alla fantasia (MA 524). Di fronte a problemi che gli si pongono immediatamente, come quello di spiegare le diverse densità della materia, questi si sentirà infatti libero di rappresentarsi una mescolanza di pieno e vuoto tale da giustificare il fenomeno in questione. Ma – è questo il punto decisivo – un tale modo di procedere non introduce una connessione interna ai fenomeni della natura, cioè non può far capo a una legge, ma si riduce al postulato di un’ipotesi ad hoc da cui non si può ricavare altro: il dinamismo, da questo punto di vista, si mostrerà più adatto alla «filosofia sperimentale», benché resti il compito di dimostrare come la materia possa essere costruita matematicamente, cosa che nel meccanicismo è data per scontata. Ma mostrare questa possibilità è precisamente il compito che si assume la fisica pura. Prima ancora di questo difetto metodologico, che neutralizza il vantaggio della immediata costruibilità dell’estensione, si pone però un problema più radicale. L’estensione della materia, infatti, non sembra poter essere considerata una proprietà autonoma. Se deve appartenere alla natura, e non essere semplicemente un ente geometrico, ogni materia estesa deve essere collegata fisicamente con le altre. In particolare, occupare uno spazio deve signita da Adickes al primato ontologico dell’estensione si riferisce a questo contesto (benché lo stesso Adickes inclinasse verso una metafisica monadologica). Ma esso, a sua volta, si radica nella costituzione della meccanica razionale ad opera di autori come Euler, che consideravano l’impenetrabilità o durezza una proprietà inanalizzabile dei corpi, costruendo su essa una meccanica destinata nel secolo successivo a eclissare per potenza matematica l’impronta del dinamismo settecentesco.

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ficare occuparlo in alternativa a un’altra materia, con cui la prima deve essere in un rapporto dinamico: due corpi che possano essere sovrapposti, o attraversarsi, e magari mostrarsi congruenti, non sono infatti corpi, ma puri volumi matematici. Con quest’ultima tesi l’estensione si mostra essere proprietà subordinata a quella secondo cui la materia riempie lo spazio (che Kant chiama appunto «impenetrabilità»). Interviene a questo punto l’applicazione dei principi ontologici: in quanto corrispondente alla categoria di qualità, l’impenetrabilità (che come tale è una proprietà empirica) viene considerata nella fisica pura come «riempimento dello spazio», cioè come una quantità intensiva dotata di un grado17. Posta l’originarietà della impenetrabilità, qualificata logicamente come riempimento dello spazio, si può presentare schematicamente il successivo sviluppo del concetto di materia, che prefigura a sua volta quello della scienza in cui la definizione verrà realizzata. La rappresentazione dell’impenetrabilità mostrerà che questa proprietà presuppone quella di una forza repulsiva originaria; ma quest’ultima richiederà, sempre per preservare la possibilità dell’impenetrabilità, una seconda forza originaria di verso op17 La distinzione tra «impenetrabilità» e «riempimento dello spazio» non viene esplicitamente discussa da Kant. La si interpreta considerando che il primo termine, nel passo citato dei Prolegomena, viene associato al concetto propriamente empirico di materia, mentre il secondo figura nell’elenco delle proprietà della materia in generale e nella definizione che apre la Dinamica. La prima si può dunque considerare il momento empirico, il dato della sensazione, la seconda l’elaborazione logica di questo dato secondo la categoria di qualità e, più precisamente, secondo il principio del grado con cui il principio della Dinamica – come scrive Kant – si deve «confrontare». Mediante lo schema del grado, la temporalità viene applicata allo studio della impenetrabilità. Ma, dato che si tratta di una parte del continuo materiale, la variazione temporale del grado di una parte della materia va considerata in relazione con quella delle altre materie. Si giunge così alla conclusione adottata da Kant: rappresentare il riempimento come conflitto di movimenti opposti. Il chiarimento non è inutile: dal punto di vista della categoria di causalità, infatti, la percezione dell’impenetrabilità si potrà far corrispondere non più alla resistenza rispetto alla compressione, ma a quella rispetto allo spostamento, che Kant, in accordo con i fisici, attribuirà all’inerzia. Questa distinzione di due diversi aspetti logici di una medesima percezione, resa possibile dalla distinta applicazione delle categorie di qualità e causalità, avrà una notevole importanza non solo per l’esposizione, ma anche per il ripensamento kantiano dell’inerzia in quanto proprietà non dinamica.

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posto, una forza attrattiva. Presupponendo l’azione di queste due forze si potrà in seguito mostrare la possibilità di costruire nell’intuizione l’azione reciproca delle sostanze, e la loro azione congiunta dovrà servire a ricavare a priori la costruibilità delle diverse densità della materia. Ma il concetto di queste forze, a sua volta, sarà ricavabile solo mediante la rappresentazione pura di una composizione del movimento. Si comprende dunque come mai Kant abbia voluto trattare prima di tutto, nella Foronomia, del concetto di movimento astraendo dal concetto di estensione e considerando la materia come un punto (MA 482); e come mai il secondo luogo categoriale sia occupato dal riempimento dello spazio, non dalla forza: quest’ultima proprietà viene infatti ricavata dalla rappresentazione della precedente, costituendo una condizione della sua costruzione nello spazio e nel tempo. D’altra parte, altre qualità della materia, come gli stati di aggregazione o la luminosità, dipendono da concetti che, pur essendo matematizzabili in quanto percezioni, non si possono – secondo il Kant dei Principi metafisici – ricavare a priori dalla semplice rappresentazione di un oggetto dei sensi esterni. A questi concetti appartiene quello di un corpo discreto, introdotto nella Nota generale alla Dinamica: esso fa da cerniera tra la Dinamica e la Meccanica, e, come vedremo, costituirà un punto tormentato delle successive riflessioni kantiane. In base all’attività dinamica del corpo, nella terza sezione, Kant passa a studiare le relazioni tra parti di materia: ricava così la possibilità di stimare la massa, l’inerzia, e la possibilità di costruire la comunicazione del movimento. Un bilancio sui concetti principali della trattazione precedente – il movimento e il pieno – è tracciato nell’ultima sezione secondo i concetti modali. Così procedendo, seguendo il filo conduttore delle categorie e affidandosi alla completezza della tavola di queste ultime, Kant poté ritenere priva di approssimazione la sua analisi del concetto di materia. Il nostro punto di vista sulla costituzione delle proprietà essenziali della materia è confermato da una circostanza apparentemente paradossale: attraverso tutti i passaggi della nuova sintesi pura Kant non è riuscito a dedurre a priori il concetto di un corpo esteso entro confini determinati, lasciando la questione di dominio di una fisica ipotetica (per es. con l’ipotesi di una forza particolare di 406

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coesione che non appartiene alle proprietà necessarie della materia in generale ma si ricava da stati contingenti di essa). Per questo motivo, essendo basata in parte su ipotesi empiriche, una proprietà come l’estensione determinata del corpo (la figura), pur essendo immediatamente rappresentabile a priori e appartenendo in maniera apparentemente evidente al concetto di materia (anche secondo la tradizione filosofica che Kant tiene presente), e certamente alla percezione di essa (poiché ogni percezione si riferisce a un’estensione determinata), risulta essere esclusa dall’ambito della metafisica della natura corporea. Primo segno di quella incongruenza tra il concetto di materia della fisica pura, continuo e dinamico, e quello particolare della meccanica (discreto)18. Alla luce di quanto detto fin qui, si può concludere che questo concetto contiene proprietà di origine almeno in parte empirica, ma che, in quanto concetto di materia in generale sviluppato secondo le categorie, non possiede l’apertura indeterminata di un concetto empirico, ma si presenta come complesso di proprietà collegate secondo principi, come vuole una scienza razionale. Un giudizio sulla appropriatezza del concetto kantiano, comunque, potrà essere formulato soltanto alla luce dell’esame di come egli effettivamente argomenti la discendenza reciproca delle proprietà della materia, e dunque l’intera definizione è subordinata alla riuscita di un sistema deduttivo che come vedremo incontrerà notevoli problemi. Ma è chiaro almeno che, ponendo alla base delle sue indagini il 18 La ragione per cui la forza di coesione, che pure viene considerata da Kant condizione di possibilità della percezione di un corpo (o di un fluido), non viene ammessa a priori come le altre forze fondamentali si basa forse sul fatto che essa non si ricava dal semplice concetto di materia, ma appunto come condizione di stati particolari della materia. È in atto qui un’altra distinzione astrattiva, secondo cui materia in generale è quella che in genere riempie lo spazio, mentre la materia dotata di uno stato di aggregazione appartiene a una trattazione priva delle caratteristiche proprie della metafisica (come la completezza e la validità universale). Questa situazione non è comunque priva di problematicità, per es. comporta la possibilità di ammettere l’ipotesi dell’etere, e dunque di tornare a una fisica sostanzialmente meccanicistica. La questione verrà dunque riaperta nell’Opus postumum, dove anche il presupposto (qui empirico) di una forza di coesione verrà considerato intessuto di aspetti semplicemente empirici e nuove anticipazioni a priori (v. §§ 8.3, 10.2 − sulle ipotesi allestite nei Principi metafisici − e cap. 12).

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concetto empirico di impenetrabilità, Kant non prende affatto in considerazione l’idea – sostenuta da Plaass – di una «produzione» a priori del concetto di materia mediante la combinazione di predicabili. Nessuna combinazione di categorie e modi puri della sensibilità potrà fornire a priori il contenuto del concetto di impenetrabilità, che Kant ricava da un’analisi della sensazione esterna e cioè da quanto di propriamente empirico si trova nell’esperienza. (Viceversa, come si vedrà in seguito, neanche il contenuto di concetti come quelli di movimento e forza – che pure Kant considera predicabili – potrà essere ricavato, nei Principi metafisici, semplicemente da concetti empirici). Una conferma della correttezza della presente interpretazione si può ricavare in base a un passo della Critica della facoltà di giudizio, in cui Kant, pur riferendosi un diverso esempio, svolge una considerazione generale che ben si applica al suo procedimento nei Principi metafisici (KU § III, 177 nota). Per i concetti che sono usati come principi empirici, se si ha motivo di supporre che essi hanno un’affinità a priori con la pura facoltà di conoscere, è di qualche utilità, a causa di questa relazione, tentare una definizione [Definition] trascendentale, vale a dire mediante categorie pure, in quanto già queste sole indicano sufficientemente la differenza del concetto di cui si tratta da altri concetti. Si segue in ciò l’esempio del matematico, che lascia indeterminati i dati empirici del suo problema e raccoglie sotto il concetto dell’aritmetica pura solo il loro rapporto nella loro sintesi pura, così che la soluzione si generalizza.

In questo passo Kant si riferisce alle definizioni trascendentali (impiegate nella seconda Critica) di facoltà dell’animo umano, come quella di desiderare, che astraggono dalle condizioni empiriche effettive dell’esercizio di queste facoltà. Nonostante il diverso contesto problematico, sembra legittimo estrapolare la riflessione metodologica in esso contenuta per applicarla al caso in questione. Lo stesso Kant, del resto, sviluppa il suo ragionamento per analogia con un altro campo del sapere, quello della matematica, che è addirittura più prossimo a quello di cui ci stiamo occupando di quanto non lo sia la filosofia pratica. Ricaviamo dunque la se408

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guente tesi: se ci si occupa di concetti che sono usati come principi empirici – come avviene solitamente con le proprietà generali della materia studiate dalla fisica – è legittimo, nel caso in cui questi abbiano una qualche affinità con la facoltà di conoscere a priori, cioè siano in parte considerabili secondo categorie e dunque concepibili a priori, darne una definizione trascendentale mediante categorie pure; ovvero, è legittimo ridurne il contenuto empirico a un contenuto puro, che non esaurisce il contenuto empirico stesso, ma esprime a priori alcune determinazioni generali in esso contenute, sufficienti a differenziarne il concetto rispetto ad altri. Così, si potrà considerare il concetto di movimento come predicabile, anche se esso contiene dei presupposti empirici ulteriori, e si potrà considerare magari ogni altra proprietà della materia in generale come composizione di predicabili, senza però esaurirne le determinazioni. È significativo che in questo passo Kant si riferisca al procedimento «del matematico, che lascia indeterminati i dati empirici del suo problema». L’astrazione rispetto ai dettagli empirici dei concetti, di cui si tratta qui, è la stessa che ha luogo con il concetto di movimento, nel suo passaggio dalla percezione alla considerazione puramente quantitativa. In generale, dunque, il passo citato sembra confermare che Kant concepisca la possibilità di ottenere definizioni (in questo caso, trascendentali) di concetti propriamente empirici servendosi del solo ausilio di concetti puri, in analogia con quanto fa il matematico: sarà dunque senz’altro possibile che egli concepisca la possibilità di ottenere definizioni di proprietà empiriche della materia mediante l’ausilio di puri concetti, ai fini di una loro costruzione nell’intuizione pura; sembra anzi che debba essere proprio questa, ai suoi occhi, la versione corretta di quanto fanno gli stessi fisici matematici («sebbene senza rendersene conto»)19. 19 Cf. MA 481, dove Kant parla in un senso analogo della definizione di materia che si può ottenere considerandone il concetto «non mediante un predicato che le appartenga in quanto è un oggetto, ma solo mediante il rapporto con la facoltà conoscitiva, in cui soltanto mi può esser data la rappresentazione», e cioè come «oggetto dei sensi esterni»; definizione che egli qualifica stavolta come «metafisica», e che verrà ripresa e sviluppata in particolare nei fogli dell’Opus postumum che torneranno sulla domanda: «che cos’è la fisica?» (fogli ‘A-Z’, v. capp. 13.2-14).

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È stato mostrato, dunque, che Kant considera proprietà essenziali della materia quelle che si collegano alla possibilità dell’esperienza della materia stessa (cioè della sua percezione nello spazio) e come poi le articoli secondo il filo conduttore categoriale in vista della possibilità di una costruzione in base alla rappresentazione del movimento: il risultato di questa articolazione sono le quattro definizioni di materia poste a capo delle diverse parti dell’opera. In questo modo, la questione della completezza delle proprietà ricavate dall’analisi del concetto di materia è stata liberata dall’obiezione relativa all’origine empirica di queste proprietà. Il giudizio di una tale completezza, almeno per restare all’interno del punto di vista kantiano, si riduce dunque a quello della completezza della stessa tavola delle categorie, che qui non affrontiamo20. Dato però che le diverse sezioni dell’opera, come hanno rilevato diversi interpreti, presuppongono al loro interno l’applicazione simultanea di altre categorie, si porrebbe in teoria la questione se Kant abbia esplorato tutte le possibili combinazioni categoriali. Giunti a questo punto, tuttavia, si riconosce che il problema di una completezza formale della fisica pura è artificioso. Piuttosto, come emerge dalla presente interpretazione, l’intera impresa della fisica pura è sottoposta alla contingenza storica del concetto di materia che Kant si formò tentando di organizzare le conoscenze scientifiche dell’epoca, analogamente a come l’intera filosofia della natura è sottoposta alla contingenza storica che caratterizza – nelle forme che abbiamo esaminato − la definizione dei concetti di spazio e tempo. Eliminare l’obiezione posta dall’origine empirica del concetto di materia è dunque utile soprattutto per prevenire interpretazioni eccessivamente aprioristiche della metodologia kantiana in fisica. Ma sarebbe futile, insistendo sul criterio della completezza, cercare di sottrarre le condizioni di possibilità degli oggetti poste da Kant a ogni contingenza storica. Sarà invece utile mostrare come l’origine empirica del concetto di materia si ricolleghi con l’altro momento fondamentale della fi20 Per un bilancio sulle discussioni più recenti si vedano M. WOLFF, Die Vollständigkeit der kantischen Urteilstafel, Frankfurt. a.M. 1995. Sulla logica come modello di completezza v. KrV A XIV.

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losofia pura della natura, quello della sintesi a priori. Attraverso il concetto di sensazione esterna, infatti, vengono presupposti tre elementi dell’affezione nello spazio: il corpo del soggetto, quello dell’oggetto, e lo spazio interposto. Per giustificare il presupposto di questi termini, nei Principi metafisici, Kant adotta una soluzione tipica delle filosofie corpuscolari: la percezione della materia dipenderebbe dalla stessa determinazione fondamentale, il movimento, che rende possibile la nuova sintesi pura. La nostra indagine deve dunque volgersi a questo concetto.

6.2. Concetti del movimento Nei Principi metafisici Kant parla di movimento in tre sensi, nessuno dei quali corrisponde al concetto del movimento come predicabile. All’inizio della Foronomia viene definito «il movimento di una cosa» come «il cambiamento di relazione dei suoi r a p p o r t i e s t e r n i rispetto a uno spazio dato» (MA 482). Il riferimento necessario a uno spazio «dato» segnala che questa definizione riguarda il movimento in quanto oggetto dell’esperienza e non il concetto (o predicabile) puro del movimento. La possibilità di far esperienza del movimento presuppone che siano date la rappresentazione della materia come mobile e, nello stesso tempo, lo spazio «dato» (o spazio «materiale»), in modo che possa essere considerato il cambiamento dei rapporti spaziali tra questi due correlati: «Perché si faccia esperienza del movimento di un corpo è necessario che non solo il corpo, ma anche lo spazio in cui si muove, siano oggetti dell’esperienza esterna, ovvero siano materiali» (MA 487)21. Il movimento come oggetto di esperienza possibile viene rappresentato dunque come cambiamento di relazione tra due termini di relazione empirici, un corpo e uno spazio di riferimento individuato da contrassegni percettivi. Questo concetto di movimen21 Come questo spazio possa essere percepito verrà spiegato da Kant nel corso della Foronomia. Si tratterà in generale di percepire dei contrassegni che permettano di riconoscerne il movimento: lo spazio materiale non è dunque altro che un sistema di riferimento empirico del movimento, per esempio la sponda di un fiume rispetto a cui si consideri il movimento di una barca.

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to, ora, possiede indubbiamente un contenuto empirico, e perciò esso non poteva rientrare tra gli elementi dell’Estetica22; ma, come risulterà leggendo la Foronomia e la Fenomenologia, esso non corrisponde a un mero aggregato di percezioni, perché non può essere isolato in concreto dagli altri elementi (puri) della rappresentazione del movimento. Perciò è possibile una sua determinazione scientifica, che presuppone elementi estetici e logici puri, ma che né l’Estetica né la Logica potevano in sé fornire. Per esempio, il tentativo di considerarlo come oggetto dell’esperienza conduce a rilevarne una caratteristica unica: il movimento trattato nella Foronomia è intrinsecamente relativo («ogni movimento che sia oggetto dell’esperienza è soltanto relativo»: MA 481). Infatti, a seconda del diverso spazio che si voglia prendere come sistema di riferimento (per utilizzare l’espressione dell’odierno linguaggio fisico), il movimento andrà incontro a modificazioni potenzialmente «infinite» (si potrà cioè considerare di volta in volta come movimento o come quiete a seconda degli infiniti spazi di riferimento individuabili mediante le percezioni). Kant potrà giungere a questo risultato grazie al fatto che la rappresentazione del movimento, essendo basata su pure relazioni spaziali, permette di rappresentare in almeno due modi alternativi uno stesso cambiamento di relazione: «ogni movimento, in quanto oggetto di un’esperienza possibile, può essere considerato arbitrariamente come movimento del corpo in uno spazio immobile o come quiete del corpo e, al contrario, movimento dello spazio nella direzione opposta e con velocità uguale» (ibidem). Il concetto foronomico del movimento come oggetto dell’esperienza, dunque, è empirico nel senso che richiede necessariamente che siano poste alla sua base almeno due percezioni determinate (corrispondenti a due luoghi dello spazio); d’altra parte, una volta presupposte queste percezioni, il puro cambiamento di relazioni spaziali tra i due termini può essere rappresentato del tutto a priori nell’intuizione. Ed è precisamente grazie a questa possibilità che Kant può realizzare il compito principale 22 Nel § 7 (KrV A 41/B 58) Kant sottolinea che il movimento presuppone l’esperienza del mobile come «dato empirico» e perciò non può rientrare tra gli elementi della filosofia trascendentale.

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della Foronomia, cioè mostrare la possibilità di costruire (e comporre tra di loro) i movimenti in modo puramente matematico. In quest’ultimo procedimento entra in gioco un diverso concetto di movimento, corrispondente alla sintesi pura del molteplice omogeneo ad opera dell’immaginazione. La Foronomia, scrive in proposito Kant, «tratta del movimento come puro quantum» (MA 477). In esso si astrae dunque da ogni altra proprietà della materia oltre alla mobilità, per cui si può considerare la materia – che in quanto oggetto dell’esperienza deve darsi mediante una percezione estesa – come un punto (MA 480). Una volta attuata questa astrazione, il movimento può essere rappresentato del tutto a priori come la pura «descrizione di uno spazio» (MA 489): Nella Foronomia, poiché non conosco la materia mediante nessun’altra proprietà che la sua mobilità, per cui la devo considerare come un punto, posso considerare il movimento soltanto come d e s c r i z i o n e d i u n o s p a z i o [...]. La Foronomia è dunque la dottrina pura della quantità (mathesis) dei movimenti.

Di questo movimento come descrizione di uno spazio Kant parlerà nuovamente nella seconda edizione della Critica, dove, certamente stimolato dal lavoro ai Principi metafisici, egli coglie l’occasione per illustrarne meglio il concetto. Esso consiste in una «operazione del soggetto», non in una «determinazione dell’oggetto» (KrV B 155 nota): Il movimento di un o g g e t t o nello spazio non rientra in una scienza pura, e quindi neppure nella geometria, poiché il fatto che qualcosa si muova non lo si può conoscere a priori, ma soltanto per esperienza. Il movimento, invece, inteso come d e s c r i z i o n e di uno spazio, è un atto puro della sintesi successiva del molteplice nell’intuizione esterna e in generale, mediante la facoltà produttiva dell’immaginazione, e rientra non solo nella geometria, ma nella stessa filosofia trascendentale.

Come risulta chiaro da questo passo, il concetto viene designato solo impropriamente con il termine ‘movimento’. Si tratta effettivamente di una «sintesi del molteplice dello spazio» ad opera 413

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dell’immaginazione trascendentale, che, in quanto si fa «astrazione da questo molteplice, tenendo presente soltanto l’operazione in virtù della quale determiniamo il senso interno secondo la forma» (ibidem), appartiene propriamente alla filosofia trascendentale (serve infatti, qui, a mostrare come nessuna «intuizione determinata» del molteplice del senso interno si possa ottenere senza l’ausilio di una sintesi dell’immaginazione – KrV B 154). In un senso particolare, poi, lo stesso concetto appartiene alla geometria, dove corrisponde alla descrizione di linee (di cui la filosofia trascendentale ha indagato la possibilità). Ma proprio questo significato geometrico della «descrizione di uno spazio» permette di comprendere la profonda differenza tra questo movimento puro e il movimento propriamente detto. Nel caso della descrizione geometrica di una linea, infatti, nulla caratterizza il continuo dei punti tracciati come una traiettoria percorsa successivamente da un mobile. Anche considerando solo il limite della linea, che viene continuamente oltrepassato con l’atto di descrizione (e che nel movimento corrisponderebbe alla posizione attuale del mobile), nulla permette di distinguere la successione delle posizioni del mobile da una successione di punti differenti della linea su cui successivamente si concentri l’attenzione: in termini matematici, nell’espressione parametrica della curva non è possibile considerare il parametro t come istante temporale. Il motivo per cui queste distinzioni sono impossibili a livello di immaginazione pura è in primo luogo l’assenza di un riferimento a qualcosa di esistente. Ma nemmeno questa condizione è sufficiente a fare della descrizione dello spazio la rappresentazione di un movimento. Considerando il punto come relativo a qualcosa di esistente si deve ottenere, in particolare, quella successione di stati in cui consiste secondo Kant la rappresentazione della propria esistenza nel senso interno; si ottiene cioè esattamente quel genere di rappresentazione che, secondo la Prefazione ai Principi metafisici, può considerarsi parte di una metafisica della natura pensante. Per ottenere il concetto di movimento, occorre inoltre considerare il cambiamento di relazione del qualcosa di esistente non come interno alla semplice successione (che rappresenta l’intuizione formale del puro tempo), ma come cambiamento di relazioni spaziali: il che richiede appunto la per414

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cezione di un mobile esteso e di uno spazio materiale23. D’altra parte, partendo da questi dati, si può astrarre successivamente dall’estensione del mobile (e in generale dal contenuto delle percezioni), considerandolo come un punto. In questo modo si può impiegare la pura descrizione dello spazio per esaminare nell’intuizione pura le caratteristiche del movimento, scoprendo per esempio l’intrinseca relatività del movimento rettilineo (si può parlare allora, come abbiamo fatto in precedenza, di uno “schematismo” del concetto di movimento). Ma ciò deve avvenire con la consapevolezza (mostrata da Kant nella Foronomia) che si è compiuta un’astrazione e che il concetto in esame è in realtà quello del movimento. Senza questa premessa risulterebbe inconcepibile la stessa distinzione tra movimento del corpo e movimento opposto dello spazio materiale, la quale consiste nel considerare ora l’uno, ora l’altro termine di relazione come soggetti di movimento: due casi che, da un punto di vista puramente intuitivo-formale, sono indiscernibili. Ma proprio questa distinzione empirica degli indiscernibili, che nell’intuizione pura viene resa latente dall’astrazione, è condizione di quella «congruenza» dei movimenti distinti nell’intuizione pura, in cui Kant fa consistere il principio della composizione dei movimenti24. L’astrazione di cui si è detto non viene effettuata quando si tratta del movimento come oggetto dell’esperienza. In questo caso, come si vedrà meglio, il riferimento alla percezione è essenziale, e senza di esso non si ha a che fare con il movimento in senso proprio. In effetti è proprio questo il discrimine – interno alla Foronomia – tra i due concetti di movimento25. Senza considerare il mo23 Cf. Reflexion 4648, KgS XVII, 624-5: il movimento non appartiene alla «pura forma sensibile», «presuppone ancora qualcosa di mobile, cioè di materiale rispetto al luogo», qualcosa di «empirico». La giustificazione di questo passaggio dalla percezione alla localizzazione dell’oggetto distante giocherà un ruolo fondamentale nell’Opus postumum. 24 Sulla «congruenza», che produce nell’intuizione pura l’«evidenza» della mathesis pura del movimento, si veda MA 493. 25 Kant allude a questa articolazione interna della Foronomia nel seguente passo: «La Foronomia, considerata non come dottrina pura del movimento, ma solo come dottrina pura della quantità del movimento, in cui la materia viene pensata secondo la sola proprietà della mobilità, non contiene dunque niente di più che questo singolo teo-

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bile e lo spazio come oggetti di percezione, non è possibile fare esperienza del movimento; d’altra parte, senza la rappresentazione (descrizione) a priori del movimento come puro cambiamento di relazioni non si può dimostrare la possibilità di costruirne la composizione a priori in termini puramente quantitativi. Ma questa descrizione e composizione del movimento puro si dovrà sempre pensare riferita a un movimento in quanto oggetto dell’esperienza, o non potrà essere considerata dotata di realtà oggettiva26. La differenza tra i due concetti viene confermata dal modo in cui Kant introduce il terzo concetto di movimento, subordinato ai due precedenti e tipico della trattazione della Meccanica (MA 488): Nella Foronomia dunque, in cui tratto solo del movimento di un corpo rispetto allo spazio (sulla quiete o sul movimento del quale il corpo non ha alcun influsso), è in sé del tutto indeterminato e arbitrario se e in che misura io voglia attribuire al corpo o allo spazio la velocità del movimento dato; in seguito, nella Meccanica, poiché si dovrà trattare dell’azione effettiva di un corpo che si muove sugli altri corpi presenti nello spazio del suo movimento, la cosa non sarà più così indifferente.

Nella Meccanica si tratterà della comunicazione dei movimenti, ma questa, per esempio nell’urto, comporterà la suddivisione del movimento nel fenomeno in proporzione alla quantità di materia dei corpi. Si avrà cioè una distribuzione matematica, sempre basata su un principio di relatività, del movimento tra i due corpi, dove per movimento si intenderà non più una pura quantità foronomica ma il prodotto di velocità e massa, cioè la «quantità di moto» (mv). Presupposto di questa differente suddivisione del movimento, però, è la rappresentazione della materia in quanto dotata di una forza motrice27; rema della composizione del movimento» (MA 495; il corsivo è mio). L’associazione tra dottrina della quantità e «descrizione pura» della filosofia trascendentale è resa possibile dal fatto che Kant intende qui il movimento come «quantum», generato sinteticamente, e non già come «quantità» discreta, sottoposta a una unità di misura. 26 La situazione è analoga a quella del rapporto tra lo schema della categoria di casualità e la sua applicazione nei principi dell’intelletto, che presuppone l’esistenza. 27 «Infine, per quanto riguarda la composizione in un corpo di due movimenti, le cui direzioni racchiudano un angolo, anch’essa non si può pensare rispetto a uno stes-

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ma questa è stata precedentemente introdotta, nella Dinamica, proprio a partire da un esame del concetto di impenetrabilità. È dunque proprio la percezione del corpo, che nella Foronomia Kant dapprima segnala per poi farne esplicitamente astrazione, a costituire il discrimine tra movimento come puro quantum e movimento in senso meccanico. Il concetto di movimento come oggetto dell’esperienza non è che un concetto intermedio tra i due, che presuppone la percezione di un corpo ma non ne considera ancora i presupposti dinamici (cioè l’azione di una forza fondamentale), per poter trattare isolatamente del semplice studio quantitativo (ma oggettivamente valido) della composizione dei movimenti28. Da quanto mostrato fin qui si può già evincere l’inadeguatezza di un’interpretazione che cerchi di considerare il movimento della fisica pura come predicabile. Si cerca di mostrare che il movimento è un concetto puro perché esso deve essere una componente fondamentale di tutte le determinazioni a priori del concetto di mateso spazio se non ammettendo che uno dei due movimenti sia il prodotto di una f o r z a e s t e r n a agente con continuità (per es. un mezzo di locomozione che trasporti il corpo), mentre l’altro sia tale da conservarsi immutato, e in generale si devono porre a fondamento il concetto delle forze motrici e la produzione di un terzo movimento come risultato della congiunzione di due f o r z e; questo però corrisponde alla realizzazione m e c c a n i c a di ciò che un concetto contiene, ma non alla sua c o s t r u z i o n e m a t e m a t i c a, la quale deve rendere intuitivo solo che cosa sia l’oggetto (come quantum), non come esso possa venire p r o d o t t o mediante determinati strumenti e forze» (MA 494). 28 La presenza dei due concetti di movimento nella Foronomia è stata di recente messa in evidenza con molta chiarezza da M. FRIEDMAN, Matter and Motion, il quale riconosce anche che deve sussistere un rapporto tra i due concetti, anzi che deve esservi «un passaggio» (p. 54) dall’uno all’altro, ma non chiarisce di che cosa debba trattarsi. Capire il modo in cui questo passaggio avviene è di grande importanza per comprendere il significato del concetto empirico di movimento presente nei Principi metafisici, che ha dato luogo a molti equivoci interpretativi. Per es. F. KAULBACH, Das Prinzip der Bewegung in der Philosophie Kants, «Kant-Studien» 54, (1963), pp. 3-16, trascura i dettagli (cioè i differenti gradi di astrazione e le loro ragioni trascendentali) della distinzione kantiana tra i due concetti di movimento, e considera il concetto della sintesi trascendentale come condizione di quello fisico (il che in un certo senso è vero), dotandolo però di una valenza metafisica, come versione trascendentale della dynamis aristotelica. Si tratta di un’analogia che invita a trascurare il significato profondamente diverso dell’attività trascendentale dell’intelletto in Kant rispetto all’attività dinamica della monade leibniziana.

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ria che sono oggetto della «costruzione metafisica». Così facendo, tuttavia, pur riconoscendo la differenza tra movimento come puro quantum e movimento in quanto determinazione della materia, non si può rendere conto del significato del movimento della Foronomia, il quale presuppone un riferimento all’intuizione empirica della materia e proprio da questo trae le propria specificità. Considerando il movimento come uno speciale concetto che, astraendo dai suoi elementi empirici, può essere rappresentato e studiato nell’intuizione pura, si comprende facilmente come mai di esso possa darsi una mathesis pura e come dunque su esso si possa edificare l’intera fisica matematica. Il tentativo di identificarlo con un predicabile, ricavabile dalla composizione di categorie e modi puri della sensibilità, si basa sulla sostituzione del riferimento alla percezione con l’applicazione di una categoria, quella di sostanza; ma la categoria di sostanza che viene qui impiegata non corrisponde a quella di sostanza materiale, bensì costituisce un concetto più generale, che Kant tratta nella Critica in quanto è un concetto puro e in quanto se ne può provare la validità per fenomeni in generale. La sostanzialità del mobile, quale viene presupposta nella rappresentazione del movimento, cioè il suo restare identico nel tempo, è piuttosto sostanzialità di un oggetto che si muove nello spazio. E quest’ultima, secondo la trattazione dei Principi metafisici, presuppone la capacità di comunicare un movimento e, dunque, l’impenetrabilità, il cui fondamento è senza dubbio empirico. Ovviamente, una volta ribadita la necessità di questa componente empirica, si deve concedere che la semplice percezione, come puro fenomeno, non potrebbe bastare da sola a costituire la rappresentazione del mobile. Per distinguere il punto materiale nella pura forma dell’intuizione occorre una percezione, ma per considerare identico lo stesso punto materiale che si muove, occorre anche il concetto di sostanza materiale29. Se ora raccogliamo le diverse indicazioni sparse di Kant possiamo concludere: il concetto di movimento della fisica pura possiede un momento empirico (che 29 Kant lo riconosce nella Reflexion 4652 (KgS XVII, 626) dove scrive che il movimento contiene «un concetto intellettuale» e perciò non appartiene all’Estetica trascendentale.

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lo esclude dall’Estetica trascendentale), un momento intuitivo puro, che ne rende possibile la descrizione schematica nell’immaginazione pura, e un momento categoriale, che ne anticipa i presupposti dinamici e meccanici. Gli ultimi due elementi, astraendo da quello empirico, ne rendono possibile la scienza quantitativa pura. Questo carattere composito, che realizza la prospettiva metodologica enunciata da Kant nella Prefazione, viene di volta in volta reso inapparente dall’astrazione che, per mantenere l’ordine architettonico del discorso, ora esclude talune determinazioni empiriche (come l’impenetrabilità nel suo darsi come estensione fisica), ora alcune di quelle categoriali, senza poter mai, tuttavia, eliminare la forma intuitiva del movimento, radicata nella sintesi pura dell’immaginazione, che rende possibile prima di tutto una scienza del movimento. Dallo schematismo della rappresentazione pura, come abbiamo visto, discende una delle caratteristiche fondamentali della filosofia naturale, e cioè l’intrinseca relatività della rappresentazione pura del movimento. Mettendo alla prova questa tesi nel corso dell’effettivo svolgimento della fisica pura incontreremo alcune importanti questioni che ne derivano: in che senso il movimento accelerato è una relazione? È forse relativo? E la forza motrice, se si propaga da una sostanza materiale, come può essere considerata una pura relazione? In base a difficoltà come queste, nei Principi metafisici, la dottrina pura del movimento e la dinamica ad essa associata entreranno in gravi difficoltà, mentre la sostanza materiale stessa, dal punto di vista quantitativo (come massa), risulterà indisgiungibile dal sistema delle relazioni meccaniche, senza poter essere dedotta a priori come qualità estesa. Ma un problema preliminare a tutti questi si pone, fin dal principio dell’opera, con il collegamento tra movimento e affezione dei sensi, che introduce una originaria rottura della simmetria del puro movimento, ponendo una relazione causale quale condizione dell’esperienza stessa del movimento.

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6.3. Movimento, affezione e influsso fisico: un problema irrisolto dei Principi metafisici Tra le ragioni per cui alcuni interpreti hanno considerato il movimento un concetto puro ce n’è anche un’altra, che solleva un problema fondamentale per tutta l’interpretazione dei Principi metafisici. Se il movimento fosse un concetto empirico – si ragiona − non si potrebbe considerarlo dotato di una validità oggettiva universale. Non si potrebbe cioè considerarlo in generale, come fa Kant nella Prefazione, la determinazione fondamentale di un oggetto dei sensi esterni. In questo modo, però, nemmeno tutte le altre proprietà della materia, considerate come proprietà della materia in quanto mobile, potrebbero essere considerate dotate di validità universale. Il passo in cui la questione si pone, tanto discusso quanto breve e isolato nel discorso kantiano, è il seguente (MA 476): La determinazione fondamentale di un qualcosa che debba essere oggetto dei sensi esterni doveva essere il movimento: perché i sensi possono essere impressionati [affiziert] solo mediante il movimento30. 30 Gli stessi concetti vengono ribaditi più diffusamente nelle Nachschriften di fisica e in alcune Reflexionen. Si veda per esempio Berliner Physik, KgS XXIX, 75: «Poiché noi non possiamo conoscere tutti i mutamenti nel mondo e nei corpi stessi altrimenti che mediante il movimento dei nostri organi; ne risulta che tutto in fisica si deve ridurre al movimento. Ogni mutamento che avviene a un oggetto del senso esterno, in quanto fenomeno esterno, avviene mediante movimento [...]. La proprietà fondamentale della sostanza corporea è la forza motrice. Il movimento è l’unica condizione mediante cui qualcosa può divenire oggetto del senso esterno. Solo mediante il movimento qualcosa tocca i nostri sensi. In breve la forza motrice è il primo principio della possibilità dei fenomeni esterni». Cf. Refl. n. 35, KgS XIV, 111; n. 42, KgS XIV, 182ss. (discussa tra breve); Danziger Physik, KgS XXIX, 139. Secondo Lehmann (KgS XXIX, 667) le parole della Berliner Physik sono una parafrasi di un compendio che Kant avrebbe potuto impiegare a lezione: J.G.H. FEDER, Grundriß der Philosophischen Wissenschaften nebst der nötigen Geschichte zum Gebrauch seiner Zuhörer, Coburg 1767. Qui si legge: «Nessun cambiamento del mondo dei corpi avviene senza movimento: e i movimenti ci portano la sensazione» (II, 4, § 3). Che il movimento fosse la proprietà fondamentale cui vanno ricondotti tutti i fenomeni fisici e che esso fosse una condizione dell’impressione sensoriale erano comunque tesi quasi scontate nella fisica e in generale nel pensiero dell’epoca (per un elenco di altre fonti cf. POLLOK, MA

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Questa proposizione non fornisce una nuova determinazione del concetto di movimento. Essa costituisce la giustificazione del fatto che tutte le proprietà della materia, in quanto oggetto dei sensi esterni, potranno essere ricondotte nei Principi metafisici alla rappresentazione del movimento (e dunque, mediatamente, rese trattabili all’interno della fisica matematica). Si tratta dunque della proposizione che, ancora una volta dietro il sipario, permette a Kant di esordire in tutte e quattro le sezioni dell’opera con le parole: «La materia è il mobile nello spazio», per poi riferire al predicato del movimento tutte le sue altre proprietà31. La questione posta dalla proposizione kantiana è appunto quella della mobilità della materia, in quanto deve costituire una proprietà fondamentale. Anche se la mobilità della materia e il concetto fisiologico di impressione sono dati per scontati nella filosofia naturale del tempo, Kommentar, p. 152). Il primo problema filosofico che queste definizioni lasciavano irrisolto consisteva ovviamente in come concepire il rapporto tra impressione intesa meccanicisticamente come urto tra corpi e l’insorgenza della rappresentazione nell’anima. Ma si tratta di un probema che, come abbiamo visto, riguarda piuttosto la filosofia trascendentale. In questo capitolo si tratterà invece di vedere come Kant cerchi di riconsiderare lo statuto del concetto di affezione sensibile, in quanto ciò non può avvenire accogliendo senz’altro un concetto fisiologico-empirico di impressione, se non con il totale tradimento dell’idea di una fisica pura. 31 Questo secondo passaggio corrisponde a quello segnalato da Kant quando scrive che «alla rappresentazione del movimento andranno riportate tutte le altre proprietà della materia» (MA 476-7). La Foronomia, che si occuperà del movimento come puro quantum, si apre con la semplice definizione «La m a t e r i a è il m o b i l e nello spazio» – senza ulteriori qualificazioni – passando poi a trattare del concetto di spazio che vi è contenuto e dunque del movimento stesso (la qualificazione ulteriore sarebbe forse: ‘in quanto, come semplice mobile, è dotata di una quantità’, che però non aggiungerebbe nulla al concetto del mobile). La Dinamica inizia così: «La m a t e r i a è il m o b i l e, in quanto r i e m p i e u n o s p a z i o» (MA 496). La Meccanica: «La materia è il mobile, che in quanto tale possiede una forza motrice» (MA 536). La Fenomenologia: «La materia è il mobile, in quanto può essere un oggetto dell’esperienza» (MA 554: già da questa proposizione si capisce che i contenuti della Fenomenologia sono impliciti in tutte le sezioni precedenti). L’asimmetria tra la definizione foronomica e quelle successive nasce precisamente dal fatto che il movimento è una determinazione fondamentale della materia e che dunque considerare la materia come mobile, pur corrispondendo alla specifica applicazione della categoria di quantità − che viene studiata separatamente e dunque matematicamente − non aggiunge determinazioni al suo concetto, come invece accade nelle sezioni successive.

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rispetto alla fisica pura che Kant cerca di stabilire è indispensabile una legittimazione a priori. ‘La materia è il mobile’ deve essere una proposizione identica (ogni oggetto del senso esterno deve essere mobile e ogni cosa mobile deve essere materia), altrimenti il riferimento delle successive proprietà a quella del movimento non sarebbe logicamente corretto; ma l’identità tra materia e mobile, dunque la coestensività dei concetti, non può essere provata empiricamente. Inoltre, che la materia sia in generale mobile costituisce il presupposto di quel collegamento reciproco e necessario delle sue proprietà essenziali, in cui abbiamo visto risiedere la possibilità di una loro analisi libera dal sospetto di incompletezza. Una semplice verificazione empirica della mobilità della materia non sarebbe compatibile con il ruolo assunto dal concetto di movimento nell’impresa kantiana. Ma è proprio quest’ultima la questione da risolvere. La materialità del mobile, cioè il fatto che la stessa esperienza del movimento presupponga che ciò che si muove sia un oggetto dei sensi – materia – viene provato implicitamente all’inizio della Foronomia. Il fatto che il concetto stesso di movimento non sia possibile senza percezioni empiriche nello spazio non prova però la conversa, cioè che percezioni empiriche di un oggetto nello spazio comportino come tali la determinazione del movimento. La questione non viene dunque risolta nella Foronomia, e siamo già in grado di dire perché. La Foronomia ha lo scopo di realizzare una dottrina pura della quantità dei movimenti per mostrare la possibilità di una loro composizione a priori nell’intuizione. Fin dalle prime pagine di questa sezione viene esplicitamente assunta la rappresentazione della percezione empirica di un corpo, richiesta dal concetto di movimento. Sembra dunque, anche alla luce della nostra precedente analisi della “fenomenologia latente” del concetto di materia in generale, che l’opera avrebbe potuto piuttosto aprirsi – a dispetto della rigida scansione della tavola delle categorie – con la trattazione del concetto di impenetrabilità, dunque con la Dinamica. Se ciò non accade è perché, come abbiamo detto, nell’ordine espositivo more geometrico adottato da Kant la trattazione della composizione dei movimenti deve precedere quella della Dinamica, il cui primo teorema si richiamerà esplicitamente ad essa (MA 497). Nonostante questa circostanza l’ipotesi di un le422

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game della tesi generale secondo cui la materia è (fondamentalmente) il mobile nello spazio con la rappresentazione dell’impenetrabilità sembra confermata dal secondo periodo kantiano: «perché i sensi possono essere impressionati soltanto mediante il movimento». Il passaggio dal concetto di materia a quello di movimento è mediato dal concetto di affezione dei sensi. Per tentare di capire in dettaglio come sia possibile questa mediazione occorre addentrarsi in alcune pagine della Dinamica. L’impenetrabilità, scrive Kant nella Dinamica, è una rappresentazione primaria della materia perché è un presupposto della stessa percezione dei corpi. Kant ne discute argomentando il primato soggettivo che viene attribuito alla forza repulsiva, fondamento dell’impenetrabilità, rispetto a quella attrattiva (MA 509). Perché l’impenetrabilità viene data immediatamente con il concetto di materia, mentre l’attrazione non viene pensata nel concetto, ma vi si aggiunge mediante ragionamenti? Non si risolve adeguatamente questa difficoltà, dicendo che i nostri sensi non ci lasciano percepire questa attrazione con la stessa immediatezza della repulsione e della resistenza proprie dell’impenetrabilità. Infatti, se anche avessimo la facoltà di farlo, si vede subito che il nostro intelletto sceglierebbe comunque il riempimento dello spazio per designare la sostanza nello spazio (cioè la materia), così come si pone in questo r i e m p i m e n t o – o, come si dice altrimenti, s o l i d i t à – la caratteristica della materia in quanto cosa distinta dallo spazio.

La ragione per cui l’intelletto stesso dovrebbe ammettere questa precedenza della impenetrabilità risiede nel fatto che la percezione dell’attrazione si riferisce sempre a una direzione, quella che conduce al centro del corpo che attrae. «In questo modo, però» – prosegue Kant – «noi non otteniamo affatto il concetto di un qualche oggetto nello spazio, perché non possono cadere sotto i nostri sensi né la forma, né la grandezza, né il luogo in cui un tale oggetto si troverebbe». Solo l’impenetrabilità, al contrario, rivela «una materia di volume e forma determinati». Ma quest’ultima è, secondo Kant, una condizione fondamentale perché la materia (cioè, in questo caso, il corpo) venga pensata. La conclusione è tratta in un passo che abbiamo già esaminato (MA 510): 423

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È dunque chiaro che la prima applicazione dei nostri concetti di g r a n d e z z a alla materia, mediante la quale ci diviene prima di tutto possibile trasformare le nostre percezioni esterne nel concetto empirico di una materia in quanto oggetto in generale, è fondata soltanto sulla proprietà per cui questa materia riempie uno spazio; questa proprietà, mediante il senso del tatto, ci fornisce la grandezza e la forma di un oggetto esteso e con ciò il concetto di un determinato oggetto nello spazio, che viene posto a fondamento di tutto quanto si può dire d’altro di questo oggetto.

In questo passo Kant afferma che la percezione della materia corrisponde a una realtà estesa – il che, in effetti, presuppone tutto il complesso di argomenti contro il fenomenismo idealistico, che vengono dati per scontati – e che l’estensione fisica presuppone l’impenetrabilità – stavolta contro la concezione cartesiana. In altre parole, la stessa applicazione della categoria di quantità al continuo percettivo, mediante cui un oggetto dei sensi esterni viene per la prima volta considerato come unità, non può avvenire se non a condizione che la materia riempia lo spazio. Ma, se si considera che la materia qui in esame dovrebbe corrispondere all’oggetto dei sensi esterni in generale, il ragionamento kantiano suggerisce che una percezione spaziale la quale non contenesse una materia che riempie lo spazio sarebbe addirittura impossibile. Può stupire, tuttavia, che in questo discorso – relativo all’applicazione della categoria di quantità – faccia la sua comparsa il senso del tatto. Ci si trova di fronte al dilemma, consueto in tutti i casi in cui Kant farà esempi fisici, se il concetto in questione costituisca la condizione o soltanto un esempio in concreto della condizione cui si riferisce il ragionamento32. Il seguito del passo sembra sciogliere ogni dubbio, affermando che «la sostanza», ovvero «ciò che riempie lo spazio», «manifesta la sua esistenza soltanto tramite il senso grazie al quale percepiamo la sua impenetrabilità, vale a dire il tatto, dunque solo per mezzo del contatto» (il corsivo è mio). Senza il tatto, dunque, non si potrebbe percepire l’impenetrabilità, ma la percezione tat32 Questa suddivisione fra principi metafisici ed esempi empirici viene teorizzata esplicitamente nella Prefazione alla Metaphysik der Sitten del 1796, KgS VI, 205.

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tile implica per definizione il contatto, dunque il contatto è condizione della percezione di un qualcosa di impenetrabile. Tuttavia, nell’ultimo passaggio del suo ragionamento, Kant passa apparentemente dal contatto come condizione della percezione al contatto come relazione meccanica tra i corpi: [...] l’inizio del contatto (quando una materia si avvicina all’altra) si chiama urto e la sua persistenza si chiama spinta: sembra allora che ogni azione immediata di una materia su di un’altra non possa essere altro che spinta o urto, le sole due azioni che noi possiamo percepire con immediatezza.

Trascurando per il momento di interrogare quest’ultimo passaggio si può ipotizzare, sulla base della pagina appena letta, che il nesso tra impressione e movimento risieda in ciò: che gli oggetti del senso esterno, per poter esser dati nell’esperienza del tatto o di altri sensi, eserciterebbero un’azione sui sensi stessi (o meglio, a rigore, su quello che Kant chiama il loro «organo», cioè il loro mezzo fisiologico). Per esercitare questa azione l’oggetto del senso esterno deve però essere considerato impenetrabile e dunque − dato che il contatto è considerato come un equilibrio dinamico tra le forze fondamentali (Dinamica, Definizione 6, MA 511) – l’oggetto dovrà esercitare una forza motrice; ma esercitare una forza motrice – come verrà appunto mostrato nella Dinamica – significa essere mobile. Quest’ultima premessa, come vedremo meglio, non è affatto immediata e Kant potrà ritenerla fondata solo chiamando in causa l’intero sistema delle leggi del moto (in particolare, la legge di azione e reazione). In questo caso, però, il collegamento gnoseologico con l’affezione apparirà come una deviazione non necessaria. Concedendo che le cose stiano così, la sibillina affermazione delle prime pagine dei Principi metafisici sembrerebbe tuttavia potersi spiegare e liberare da ogni accidentalità alla luce delle stesse tesi dell’opera: ogni parte di materia, infatti, risulterà necessariamente mobile. Tuttavia la questione non si può considerare affatto risolta, e occorre prendere sul serio le lamentele, sollevate più volte, secondo cui qui Kant porrebbe alla base della sua metafisica un argomen425

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to semplicemente empirico33. Infatti – prima ancora di introdurre il nesso tra forza e mobilità – si è fatto riferimento qui all’impressione dei sensi esterni, cioè a un processo fisiologico che non sembra affatto potersi considerare come presupposto di una disciplina a priori. È bene sottolinearlo: diverse sono l’affezione in generale come ricettività, qualora – come avviene nella Critica – si astragga dalle sue condizioni empiriche e se ne consideri solo la distinzione tra forma e materia (in senso riflessivo), e l’impressione empirica da cui si ricavi la condizione di un movimento (o l’azione di una forza), la quale presuppone almeno due termini di riferimento materiali determinati, uno come fonte della sollecitazione, l’altro come organo della sua ricezione e luogo dell’impressione stessa, considerata come processo meccanico-fisiologico. Kant, ricavando il movimento dall’impressione, si riferirebbe necessariamente a quest’ultima. Ma qual è, esattamente, il problema posto da questo concetto di impressione? Tornando al passo citato in precedenza, la questione si può porre nei termini seguenti: come è possibile che la percezione comporti un contatto, identico a quello tra i corpi? Si vede facilmente che la questione coincide con la seguente: come è possibile distinguere una percezione in generale da una percezione dei sensi esterni? Kant sembra dare per scontata, all’inizio dei Principi metafisici e altrove, la distinzione tra oggetti dei sensi interni ed esterni, fondandola apparentemente sulla diversità formale dell’intuizione. Il fatto che l’oggetto dei sensi esterni sia per definizione esteso – in quanto oggetto nello spazio – basta certamente a 33 Hoppe, per esempio, considera la proposizione kantiana un residuo empiristico (Kants Theorie der Physik, p. 83). Rispetto a questa obiezione di un “empirismo”, intanto, bisogna ricordare che anche i massimi sostenitori di un meccanicismo d’impostazione geometrica – come Hobbes, Descartes e Spinoza – ammettono il nesso tra i corpi esterni e quello dell’uomo come un dato di fatto. Alla base di questi tentativi di aggirare la proposizione kantiana c’è in generale una interpretazione fisiologico-meccanicistica della «Affektion», che è certamente estranea all’orizzonte di necessità e validità universale che deve caratterizzare la metafisica kantiana. I sostenitori della necessità di considerare ogni concetto ricorrente nella metafisica della natura corporea come un concetto puro (come P. Plaass, K. Gloy e K. Cramer, le cui opere abbiamo citato in precedenza) sostituiscono la proposizione kantiana con le proprie «deduzioni» a priori del concetto di movimento.

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distinguerlo dall’oggetto dei sensi interni (cioè, lo stesso Io come fenomeno disteso nel tempo); non spiega ancora, però, come mai la sua percezione avvenga a sua volta nello spazio e cioè ad opera di sensi esterni e con la mediazione di una serie di processi fisici. Per affermare ciò occorre non solo che l’oggetto venga specificato, rispetto all’oggetto in generale della Critica, ma che lo stesso soggetto lo sia, e possa essere considerato tale da incontrare l’oggetto nello spazio. Una volta ammesso ciò, si potrà considerare il contatto tra i corpi come concettualmente identico a quello tra corpi e soggetto. Il soggetto senziente, secondo il ragionamento kantiano, deve dunque essere considerato come corpo – e abbiamo visto (§ 3.4) come in questa direzione si preciserà il pensiero kantiano negli anni successivi, elaborando la Confutazione dell’idealismo. Kant certamente non considera il soggetto trascendentale come tale dotato di corpo. D’altra parte, egli non mette mai in dubbio (nel criticismo) che il soggetto sia associato a un corpo. Quel che resta oscuro, nel contesto dell’opera che stiamo studiando, è in che modo vada pensata questa associazione. La questione si iscrive, come tutta la filosofia naturale kantiana, nella cornice della discussione metafisica sull’influsso tra le sostanze. Abbiamo visto che, conservando validi i termini della questione per lo stesso criticismo, si può dire che Kant ammette la determinabilità oggettiva di un influsso reale a livello fenomenico, ma non di un influsso anima-corpo − nella percezione come nel movimento volontario − per la semplice ragione che il soggetto del pensiero e della volontà non viene considerato più come una sostanza. Il rapporto tra rappresentazioni e mutamenti corporei viene considerato invece incomprensibile – non diversamente da quanto accadeva nel pensiero wolffiano – e rimane un postulato cui nulla aggiunge in termini teoretici l’idea di un sostrato intelligibile, fondamento sia dei fenomeni psicologici che di quelli fisici. Abbiamo visto d’altra parte che proprio l’elisione di questa problematica metafisica porta a stabilire, nel criticismo, che l’interazione corporea sia il caso unico di esibizione dell’influsso e dell’unità cosmologica in genere. Ci si può dunque domandare, posto il nesso in sé incomprensibile tra impressione e percezione e accantonata dunque la tradizionale questione metafisica, se il processo dell’affezione dei sensi, da cui Kant cer427

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ca di far discendere il movimento come determinazione fondamentale della materia, si possa ricondurre a rappresentazioni pure. Il caso è analogo a quello del modo in cui il concetto di movimento viene trattato nella Foronomia. Qui, che il movimento sia oggetto dell’esperienza presuppone la rappresentazione di alcuni termini di riferimento percettivi, come dati; ma, una volta definito il movimento in base a tali presupposti contingenti (come sempre deve essere riferendosi all’esperienza), quale cambiamento di relazioni spaziali, lo stesso movimento può poi essere rappresentato a priori e la sua intrinseca relatività provata in modo necessario. Così, presupponendo la percezione empirica del mobile effettuata da un soggetto localizzato (e poi astraendo da essa), nella Prefazione Kant cercherebbe di provare a priori la mobilità di tutta la materia. La questione allora questa: è possibile rappresentare il presupposto empirico della percezione, l’impressione, riconducendola a determinazioni a priori, in modo da catturarne una determinazione essenziale? Ed è possibile farlo senza concedere la validità di una particolare teoria fisica? Nella cornice dei Principi metafisici un simile tentativo dovrà avvolgersi in difficoltà insuperabili. Per vederlo, data la mancanza di altre indicazioni nel testo, esaminiamo ora una serie di tentativi congetturali, ricavati in base a brevi cenni negli scritti kantiani di questi anni: il primo metafisico, ispirato alla cosmologia wolffiana; il secondo dinamico, coerente con molte tesi della Dinamica kantiana; l’ultimo empirico-meccanico. Per cominciare è utile esaminare un ragionamento, ricavato dalla metafisica di Baumgarten, che permetterebbe di fornire una deduzione a priori della mobilità della materia in maniera puramente analitica. Si conceda dunque che non solo l’oggetto, ma anche il soggetto percipiente, in base a condizioni teoreticamente indeterminate (e, per Kant, destinate a restar tali), siano localizzabili nello spazio. Nella cosmologia di Baumgarten entrambi i termini del processo conoscitivo sono monadi nello spazio; ma anche nella metafisica della natura corporea kantiana sarebbe pienamente coerente ammettere, quali presupposti empirici, i due termini della relazione percettiva (essendo questa basata proprio sulla percezione di oggetti dei sensi), se solo si riuscisse a procedere «senza impie428

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gare altri principi empirici» a una deduzione della mobilità e dell’affezione. La stessa materia, in effetti, viene considerata come un corpo, anche se all’interno della metafisica non viene dedotto il concetto di un corpo di determinata estensione (che viene fondato su ipotesi ausiliarie come la forza di coesione); in modo analogo, si potrebbe ammettere (empiricamente) che i sensi percepiscono senza determinare a priori come questo avvenga, il che richiederebbe principi empirici ulteriori. Ora, un modo per sviluppare questi concetti ulteriormente a priori, e per la precisione analiticamente, si può così ricavare dalla Metaphysica di Baumgarten: qui si legge che «nessuna mutazione accade nel mondo composto senza movimento» (§ 415). Ma sembra che la percezione, essendo una «passione», debba presupporre una «mutazione nel mondo» (§§ 124125) e precisamente un’«azione» corrispondente (§ 214), che dovrà dunque essere un movimento. La stessa possibilità di percepire qualcosa nel mondo (un oggetto dei sensi esterni) presupporrebbe dunque il movimento come sua determinazione. Considerando che il movimento è anche in Kant condizione di ogni mutamento – ovviamente in un senso trascendentale – si può ipotizzare che, mutatis mutandis, una simile deduzione possa essere valida anche nel criticismo, considerando anche che nelle Nachschriften di lezioni Kant riprende l’affermazione secondo cui il movimento comporta una modificazione nei corpi. La chiave dell’argomentazione consisterebbe proprio nella permanenza, nel mondo fisico kantiano, di una dottrina tipica della monadologia, secondo cui ogni mutamento nel mondo produce un mutamento in ogni altra sostanza di esso: dove quel che cambia è che tutti i rapporti fenomenici si devono ridurre a rapporti intuitivi, e non logici. Venuto meno l’influsso metafisico, dunque, Kant riproporrebbe lo schema puro di un influsso fisico-meccanico. Ma cosa è cambiato, inoltre, nel criticismo? Sono cambiati, radicalmente, i concetti di azione e passione. Nel mondo meccanicistico della cosmologia wolffiana, nella cui cornice girano le deduzioni di Baumgarten, tutte le proprietà degli enti composti si risolvono nella posizione delle loro parti e nella loro posizione reciproca. In questo orizzonte, l’attività dinamica delle sostanze rimane sul piano metafisico, e di conseguenza il piano fisico torna quello 429

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del meccanicismo cartesiano: in questo senso lo stesso mutamento locale costituisce un’azione reciproca delle sostanze. Tale azione reciproca, precisa Baumgarten, costituisce però un «influsso ideale», nel quale cioè il cambiamento che una sostanza riceve (apparentemente) a causa di un’altra è in realtà simultaneo a un’azione della sostanza stessa, mentre quest’ultima – dal punto di vista metafisico – ha in sé il fondamento dei propri cambiamenti. Nel caso in cui il cambiamento (apparentemente) subìto, la «passione», non sia simultaneo all’azione, e dunque sia effettivamente causato dall’azione di un’altra sostanza, l’influsso si dice «reale»34. Commentando queste dottrine dal punto di vista della possibilità dell’esperienza Kant osserva che l’influsso costituito dal puro cambiamento di relazioni costituisce un «influsso ideale», incapace di rendere conto dell’appartenenza delle sostanze a uno stesso mondo. L’unico influsso capace di rendere conto di questa unità del mondo (facendo del «mondo» una «natura», in termini kantiani) è l’influsso reale, che tuttavia Kant concepisce in termini fisici come un’interazione simultanea. Kant, nella Critica, richiama tale questione metafisica in un passo molto chiaro: L’unità dell’universo, in cui devono trovar connessione tutti i fenomeni, è evidentemente una semplice conseguenza del principio, tacitamente assunto, della comunanza di tutte le sostanze che sono simultanee; se infatti fossero isolate, non darebbero luogo, come parti, a un tutto; e se la connessione loro propria (azione reciproca del molteplice) non risultasse necessaria già per la simultaneità, non sarebbe possibile dalla simultaneità, che è un rapporto meramente ideale, ricavare quella connessione, che è invece un rapporto reale. Tuttavia, al debito luogo, abbiamo chiarito come la comunanza costituisca effettivamente il fondamento della possibilità di una cono34 BAUMGARTEN, Metaphysica, § 212. Questo influsso «reale» non va ovviamente confuso con quello «fisico» tra anima e corpo: Kant ammette la validità del primo concetto ma non del secondo. La tesi secondo cui il mutamento locale costituirebbe già un influsso dipende dalla localizzazione wolffiana della sostanza. Come abbiamo visto essa viene esposta a lezione da Kant, per es. nella Metaphysik Mrongovius (KgS XXIX, 865ss.; v. cap. 2 nota 63). Dal testo sembra che Kant aderisca alla tesi, ma bisogna pensare che egli si limiti ad esporre una concezione dell’influsso ideale, che ritiene insufficiente a spiegare il nesso dinamico.

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scenza empirica della coesistenza, e come pertanto si possa legittimamente concludere solo dalla coesistenza alla comunanza, assumendo quest’ultima come condizione35.

«Al debito luogo», cioè nella prova della terza analogia, Kant ha precisato che l’influsso reale consiste nella causalità reciproca delle sostanze: «Tutte le sostanze, in quanto percepibili nello spazio come simultanee, si trovano fra loro in un’azione reciproca universale» (B 256). Dalla semplice definizione di percezione, dunque, non si riesce a ricavare la determinazione di movimento, se non mediante l’aggiunta della rappresentazione di una forza che agisca tra oggetto e sensi36. Il cambiamento di posizione analiticamente racchiuso nel concetto di movimento, dunque, non può contenere il concetto di un’influsso reale, di una vera e propria azione esercitata dal corpo sul soggetto percipiente. Attraverso questo esempio si è chiarito dunque che il concetto che deve collegare materia (dunque, mediatamente, impenetrabilità) e impressione dei sensi deve essere quello di una azione37. In una Nachschrift di metafisica di questi anni si legge in effetti che «noi non conosceremmo le cose se non le conoscessimo mediante un’azione». Ma azione, per Kant, significa effetto: la relazione tra corpo e impressione sarà dunque, proprio come quella tra corpo e spinta impressa, una reKrV A 219/B 266. Cf. A 213/ B 260. Un’analoga insufficienza possiede la ricostruzione di SCHÄFER, Kants Metaphysik der Natur, pp. 27-28, secondo il quale il carattere trascendentale e non empirico dell’affezione consisterebbe nel suo costituire un’«apertura dell’apprensione» originaria, in quanto precondizione della stessa percezione empirica. Il luogo d’innesto di questo concetto heideggeriano è piuttosto l’ontologia. La fisica pura ha già a che fare con un oggetto determinato, e si pone qui la questione del rapporto tra affezione «fisiologica» e movimento, indissolubilmente legata alla problematica dell’influsso. Schäfer, d’altra parte, riconosce giustamente che la questione ha due livelli, l’uno fisiologico puro, l’altro metafisico (propriamente: trascendentale), ma considera il concetto di affezione dei Principi metafisici alla luce del secondo. Del fondamento metafisico abbiamo trattato nella prima parte. Non ritengo che tra il semplice pensiero di questo fondamento – puramente logico – e la determinazione fisiologica dell’affezione vi sia luogo nel criticismo per un’affezione nel senso della metafisica precedente. Una simile tesi, sostenuta ancora da alcuni interpreti, era avanzata da ADICKES, Kants Lehre von der doppelten Affektion unseres Ich als Schlüssel zu seiner Erkenntnistheorie, Tübingen 1929. 37 Metaphysik Mrongovius, KgS XXIX, 933. 35 36

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lazione di causalità. Il concetto che esprime la causalità di una sostanza è quello di forza (KrV A 204/B 249), e, specificamente, la causalità di una sostanza fisica deve esser fatta risalire a una forza motrice. Sulla natura di questa forza si può subito aggiungere un’osservazione: abbiamo detto che, nell’ipotesi fisica ammessa nella metafisica di Baumgarten, l’interazione sarebbe quella meccanica. Si darebbe dunque il presupposto di un riempimento continuo di tutto lo spazio. Viceversa, dal punto di vista della fisica pura, l’azione universale tra tutte le parti della materia è quella attrattiva. Ma come abbiamo visto, nei Principi metafisici, Kant esclude che questa possa fornire il fondamento gnoseologico della percezione esterna. L’azione che Kant presuppone, dunque, dovrà essere 1) l’azione di una forza, e in particolare 2) di una forza repulsiva, di cui manca ancora una giustificazione a priori. Tornando al caso dell’influsso tra sostanze corporee e sensi del soggetto fenomenico, si danno a questo punto due casi: o la forza repulsiva in questione è un concetto irriducibilmente empirico, e allora la metafisica, fondandosi sull’esperienza dell’azione di una forza, non ha un saldo fondamento a priori; oppure si può ricavare a priori un concetto determinato di forza da cui far discendere il movimento come determinazione originaria della materia. Questa seconda ipotesi si impone subito all’attenzione: la forza non è forse una delle proprietà della materia studiate dalla metafisica? Abbiamo già ipotizzato, prima di porre la questione del corpo del soggetto, che il concetto di forza potrebbe indicare una via per risolvere il problema in discussione. «La forza» scrive Kant nella Dinamica, è «la causa di un movimento». Coerentemente con l’impianto dei Principi metafisici si potrebbe dunque argomentare così: dall’impenetrabilità (sia del corpo-proprio, sia di quello esterno), che è la proprietà mediante cui primariamente la materia si manifesta ai sensi, si risale alla forza (repulsiva) come sua condizione di possibilità (Dinamica, Teorema 1); ma la forza è causa di un movimento: così, come essa reagisce all’avvicinamento di altri corpi, così essa agisce sui sensi, il che – a prescindere dal modo in cui questo avverrebbe in concreto – deve avvenire mediante un movimento. 432

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Una prima obiezione a questo modo di ragionare consiste nella semplice osservazione che la forza repulsiva originaria, nel primo teorema della Dinamica, viene ricavata in base alla composizione dei movimenti e dunque, prima di determinare un movimento, sembrerebbe presupporne il concetto. Si potrebbe però replicare facilmente che, come avviene anche in altri luoghi dell’opera (e altrove nella filosofia trascendentale) tra forza e movimento vi sia un rapporto duplice, per cui il movimento sarebbe la ratio cognoscendi della forza, e quest’ultima la ratio essendi del movimento stesso. Una simile via d’uscita non sarebbe priva di plausibilità, e determinerebbe una modifica nella struttura logica dell’opera. L’impenetrabilità non sarebbe più una proprietà primaria se non da un punto di vista soggettivo; da essa, mediante il movimento, si ricaverebbe la forza quale suo fondamento. A questo punto, si potrebbe procedere a ritroso, e dalla forza ricavare sia l’impenetrabilità che il movimento. Non si tratterebbe di un circolo vizioso, e anzi – con un po’ di buona volontà... – si imiterebbe il metodo analitico di Newton: un concetto ricavato, mediante l’applicazione della matematica, dall’esame di una proprietà del fenomeno – l’impenetrabilità – potrebbe successivamente permettere di spiegare non solo il fenomeno in questione ma anche un fenomeno ulteriore, e cioè l’impressione dei sensi e con essa il movimento come determinazione fondamentale della materia. Ma, come risultato di tutto questo – in aperto contrasto con le parole di Kant – la determinazione fondamentale della materia non sarebbe più il movimento, bensì la forza stessa!38 Un simile esito, poi, a volerlo considerare possibile, conterrebbe altri problemi, nella cornice dei Principi metafisici. Per prima cosa, se la forza dovesse costituire la proprietà fondamentale della materia in generale, tutte le altre proprietà di questa dovrebbero essere subordinate ad essa e contenerla intensivamente. Ma proprio la mobilità della materia, che pure può essere prodotta mediante una forza, non presuppone necessariamente il concetto di forza, e anzi nella Forono38 Si tratta di una via effettivamente battuta da Kant, almeno a livello congetturale. Si veda per es. la Reflexion 40, KgS XIV, 119: «Il principio di tutti i fenomeni secondo la materia è la forza ([causa della] produzione del movimento)».

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mia si tratta esclusivamente del movimento uniforme. La forza repulsiva non può essere dunque una proprietà fondamentale come il movimento. Questa obiezione ne richiama una più generale: nei Principi metafisici Kant riconduce tutte le proprietà della materia a quella di movimento e precisamente grazie a questo passaggio – la cui legittimazione stiamo indagando – può ricollegare tutte queste proprietà alla matematica, mostrando «la possibilità della [loro] costruzione». Abbiamo visto però che la forza, sebbene associata a ogni mutamento fisico, è un concetto che non si può costruire ma deve sempre essere riferita a un movimento per essere oggettivamente valido. Facendo della forza la proprietà fondamentale della materia, dunque, Kant perderebbe proprio il filo conduttore che gli permette di realizzare i suoi principi metafisici, e si incamminerebbe su una via differente. Ma esiste un’obiezione ancora più generale: ricavare il movimento come azione di una forza sugli organi dei sensi non servirebbe a realizzare il risultato che stiamo cercando, ma lo aggirerebbe mediante un equivoco. Se infatti il movimento deve essere la determinazione fondamentale della materia, si desidera che il movimento ricavato dal concetto di impressione sensibile sia un movimento della materia. Pensando all’azione di una forza, invece, si potrebbe pensare a un’azione che metta in movimento gli organi del senso e produca l’impressione, senza che la materia si muova affatto. Un’azione che comportasse il movimento della materia sarebbe un’azione meccanica, cioè l’urto di una massa in movimento. Come stiamo per vedere, in almeno un caso Kant, parlando di impressione, sembra pensare precisamente a un’azione di tal genere. Tuttavia, ciò non potrebbe certamente costituire una deduzione a priori quale quella che stiamo cercando. L’azione meccanica presuppone la massa, che a sua volta presuppone tanto il movimento quanto la forza motrice; ammettere a questo livello la rappresentazione di un urto, a prescindere dalle ulteriori difficoltà che porrebbe la spiegazione del passaggio dalla materia in movimento nello spazio all’azione sui sensi, costituirebbe dunque un vero e proprio circolo vizioso39. 39

Di recente FALKENSTEIN, Kant’s Intuitionism, pp. 130-134, 332-333, avanza una

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Consideriamo dunque il caso in cui la forza in questione sia un concetto propriamente fisico, e cerchiamo di vedere quali potrebbero essere le sue caratteristiche dal punto di vista kantiano. In questa ipotesi si potrebbe astrarre dalla localizzazione del soggetto e dalla modalità fisiologica della percezione (la prima non è senz’altro empirica, e andrà meglio spiegata; la seconda potrebbe non essere pertinente ai i fini del presente problema). Resterebbe invece da determinare la modalità fisica di trasmissione dell’azione, che deve rendere possibile l’affezione e contenere analiticamente il movimento. Una delle Reflexionen kantiane, la quale conferma la centralità del concetto di forza che si sta qui indagando, suggerisce di interpretare il fondamento dell’affezione esterna come azione meccanica di una forza motrice: L’oggetto può essere conosciuto solo mediante forze che si riferiscono al movimento (come causa o ostacolo), e precisamente [in quanto] esso (l’oggetto) è il soggetto dei principi originari del movimento40.

Le parole «come causa o ostacolo» vanno riferite all’oggetto: il senso del passo, dunque, è che l’oggetto fisico, producendo o ostacolando un movimento, si manifesta quale soggetto di forze, che sono i principi originari del movimento. In questo senso, l’origine del movimento risiederebbe nella pura azione di una forza. Tuttavia, questa lettura del passo nasconde diversi problemi. In primo luogo, che la materia sia ostacolo del movimento può essere inteso come un riferimento alla percezione tattile; ma che essa sia causa di lettura dinamica dell’affezione, rimandando dall’Estetica alle forze fondamentali dei Principi metafisici. Ma questa ipotesi non tiene conto del fatto che nessuna delle due forze fondamentali è adeguata a spiegare il concetto di affezione in modo dinamico puro: la forza attrattiva, come dice Kant stesso, perché essa non permette in sé di individuare un oggetto e, poiché si inferisce indirettamente, non può spiegare il sorgere della percezione; la forza repulsiva perché non agisce a distanza, ma a contatto. Kant la introduce come condizione della stessa impenetrabilità, ma, posto il suo equilibrio con la forza attrattiva originaria (che determina il confine tra i corpi), la sua azione viene studiata nella Meccanica. Dunque l’affezione finisce col coincidere con un’azione meccanica (pressione o urto). 40 Reflexion 42, KgS XIV, 183.

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un movimento negli organi dei sensi deve essere spiegato introducendo ipotesi ausiliarie. Kant, infatti, si deve riferire a una causalità a distanza o a contatto. Ma una vera e propria causalità a distanza (senza ulteriori ipotesi, cioè nel vuoto), per Kant, è possibile solo in un caso, quello della forza attrattiva, che in sé non è in grado di produrre alcuna percezione. Sembra dunque che, quando Kant collega l’azione della sostanza fisica all’impressione, stia pensando a un movimento impresso originariamente da una forza e poi trasmesso attraverso un mezzo materiale, cioè a una vibrazione. Questa ipotesi è confermata da diversi luoghi kantiani, e troverà molti punti di sostegno nella fisica dell’epoca. Tuttavia non bisogna confondere lo sviluppo particolare delle ipotesi fisiche con la questione filosofica generale. Il problema che si pone è allora quello di giustificare un movimento cosmico originario della materia. Si tratta di un problema che, nonostante la diversità del contesto, si trova già nella Allgemeine Naturgeschichte: qui, l’azione della forze attrattive e repulsive della materia, esercitata attraverso un originario aggregato di materia eterogenea, produce un movimento continuo che è responsabile, nel tempo, della formazione dei corpi celesti. Presupponendo l’esistenza della materia (che qui dipende dall’esistenza di Dio), e con l’ipotesi ausiliaria di una distribuzione originariamente eterogenea della sua densità, Kant intende qui liberare la fisica newtoniana dalla finzione di un’originaria azione divina, memento a margine del rischio di una rinuncia della scienza alla scientificità, per stabilire una fondazione della meccanica secondo un disegno cosmogonico analogo a quello cartesiano («Datemi una materia e ve ne farò un mondo»41). Così il movimento originario viene ricavato dalle forze fondamentali, ma queste, che nella Allgemeine Naturgeschichte sono introdotte come 41 Allgemeine Naturgeschichte, KgS I, 230. L’attribuzione newtoniana dell’origine del movimento a una causa sovrannaturale viene criticata più avanti nella stessa opera, KgS I, 262-264. Solo presupponendo la «varietà originaria dei generi degli elementi» Kant poteva ottenere la rottura della quiete originaria, «che nel caso di un’omogeneità universale degli elementi dispersi, regnerebbe indisturbata». Si tratta dunque di passare da un postulato metafisico a uno fisico: soluzione particolarmente appropriata nella cornice del criticismo, dove infatti verrà sostanzialmente conservata.

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ipotesi fisiche, nella Monadologia physica vengono ricavate quali condizioni della stessa presenza delle monadi nello spazio. Dal momento in cui le tesi fisiche degli anni ’50 vengono riforgiate nel criticismo, tuttavia, questa successione logica viene impedita. Le forze fondamentali, se sono essenziali, lo sono perché da esse dipende la stessa impenetrabilità dei corpi. Il confine tra i corpi equivale alla superficie del loro equilibrio dinamico. Esaurita questa funzione del conflitto, al di fuori del volume del corpo, rimane soltanto l’azione della forza attrattiva che continua a propagarsi nello spazio. Tutto questo rende possibile giustificare una origine del movimento fin tanto che la distribuzione della materia viene presupposta; se però, come avviene nella fisica pura, l’attività dinamica della materia deve essere dedotta in base alla sola premessa della sua mobilità e della sua impenetrabilità, se dunque, come fa Kant, viene abbandonata l’ipotesi fisico-cosmologica in favore di una ricostruzione razionale degli elementi della fisica, allora la proprietà fondamentale del movimento ritorna a capo dell’edificio dimostrativo, e allora, se si assume un movimento originario, si rischia di ritornare al campo delle ipotesi trascendenti. In effetti il passo della citata Reflexion si trova all’interno di una serie di fogli (datati intorno alla metà degli anni ’70) in cui Kant discute a lungo il concetto di un «primo inizio del movimento», ipotizzandone la sede in un principio immateriale, ma ritenendolo estrinseco rispetto al concetto di natura e dunque problematico42. Nella Critica, come sappiamo, il movimento viene lasciato a margine come concetto empirico. Ma nei Principi metafisici, dopo la sua introduzione mediante il concetto di affezione, non lo si può più ricavare dalla Dinamica. Il Teorema 1 pone un movimento esterno, per ricavarne la rappresentazione del conflitto, senza specificarne l’origine. La semplice ambientazione matematica del teorema kantiano, con il suo movimento rettilineo che proviene da un luogo in42 Si vedano le Reflexionen n. 40, KgS XIV, 119ss.; n. 41, XIV, 170 («il primo inizio del movimento, mediante la mera idea di materia, è impossibile»). Con simili appunti, in effetti, Kant non sta escogitando nulla di nuovo, bensì non fa che ribattere sul tasto del problema dell’influsso fisico (anima-corpo), nei termini in cui esso era fermo all’interno del wolffismo e delle sue polemiche.

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definito, non serve ad eliminare la questione: essa segnala piuttosto che ci troviamo di fronte a un problema metafisico sempre presente a margine delle situazioni studiate dalla meccanica puramente matematica, neutralizzato o nascosto sotto l’espressione: “condizioni iniziali”. Non c’è dubbio, infine, che la filosofia trascendentale nel suo complesso, con il concetto di fenomeno, contenga il concetto problematico di una causalità noumenica; ma, all’interno della metafisica della natura corporea, un simile concetto è del tutto fuori luogo: ammettendolo, si porrebbe un principio immateriale a fondamento della materia, in modo tale però da snaturare del tutto il contenuto (e le tensioni originali) della metafisica kantiana. L’ipotesi di un movimento originario cosmico sembra così arenata a metà strada tra una metafisica non più valida e una fisica non dimostrativa. Esiste però un’altra ipotesi da prendere in considerazione, prima di decretare questo verdetto. La grande quantità di ipotesi ausiliarie e i numerosi problemi posti del rapporto tra forza e movimento originario della materia hanno suggerito che, piuttosto che una causalità originaria, come quella delle forze originarie, alla base di ogni percezione empirica si ponga direttamente una materia originariamente mossa di un movimento vibratorio. Ma c’è un genere di azione fisica che sembra possedere i requisiti per risolvere il problema dell’impressione sensoriale: si tratta della luce43. In effetti la luce è l’esempio di azione fisica cui Kant si riferisce nella discussione della terza analogia dell’esperienza, introducendo 43 Nello scritto Über den Einfluß des Mondes auf die Witterung (1792) Kant chiarirà, in contesto astronomico, che conosciamo solo due generi di influssi della Luna sulla Terra, la gravitazione e la luce: «Conosciamo solo due facoltà, mediante cui essa [la Luna] può avere a così gran distanza un influsso sulla nostra Terra: la luce, che essa riflette come corpo illuminato dal Sole, e la sua forza attrattiva, che − in quanto causa della gravità − essa ha in comune con tutta la materia. Di entrambe noi possiamo addurre sufficientemente tanto le leggi quanto anche, attraverso i loro effetti, il grado della loro attività, per spiegare i mutamenti che ne conseguono in base a esse, in quanto cause; ma escogitare nuove forze nascoste rispetto a determinati fenomeni, che non stanno ancora con quelli già noti in una connessione sufficientemente attestata dall’esperienza, è un azzardo che una sana scienza della natura non accoglie con leggerezza» (KgS VIII, 317-318).

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proprio la questione del rapporto di simultaneità fra soggetto e oggetto (KrV A 213/B 260). Nella nostra lingua il termine comunanza ha due significati: può voler dire, cioè, sia communio sia commercium. Qui ci serviamo del termine nel secondo significato, come una comunanza dinamica, della senza la quale neanche la comunanza locale (communio spatii) potrebbe mai esser conosciuta empiricamente. Nelle nostre esperienze è facile notare che solo gli influssi continui in tutte le posizioni [Stellen] dello spazio possono condurre il nostro senso da un oggetto all’altro, e che la luce che gioca fra il nostro occhio e i corpi celesti può produrre una comunanza mediata fra noi ed essi e provare la simultaneità di questi ultimi con il fatto che non possiamo cambiar luogo empiricamente (cioè percepire questo mutamento) senza che la materia ci renda possibile ovunque la percezione del nostro luogo, e per il fatto che questa solo mediante il suo influsso reciproco può mostrare la sua simultaneità, e con ciò la coesistenza degli oggetti, fino ai più lontani (sebbene solo mediatamente).

Tenendo presente la nostra questione dell’affezione constatiamo intanto che Kant sta presupponendo la localizzazione del soggetto nel corpo e la sua partecipazione a un sistema di influssi. La reciprocità viene qui dapprima riferita al rapporto del soggetto con le sostanze («una comunanza mediata tra noi e tali corpi»), poi a quello delle sostanze tra di loro (la coesistenza degli oggetti manifestata solo «mediatamente»). Kant allude al fatto che la prima reciprocità permetterebbe di ricavare la seconda («[...] provando così la simultaneità di questi corpi»). La mediazione della luce rispetto alla simultaneità delle sostanze si può infatti intendere nel modo seguente: se due corpi sono simultanei al soggetto, come stabilirebbe l’interazione luminosa, essi devono essere anche simultanei tra di loro. Ma il concetto di una «comunanza mediata», presente in entrambe le relazioni, viene specificato attraverso una localizzazione della luce. Kant dunque assume che la luce sia un fenomeno che si propaga nello spazio. È possibile risalire, da questa ipotesi sulla luce, a un movimento originario della materia? Un’ipotesi del genere diviene plausibile se si considera il modo in cui Kant concepisce la propagazio439

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ne della luce dal punto di vista fisico. Nelle riflessioni fisiche la cui datazione viene posta da Adickes tra seconda metà degli anni ’70 e gli anni ’80, oltre che nei Principi metafisici, Kant mostra di concepire la luce secondo la teoria ondulatoria di Euler, quale fenomeno della vibrazione di un mezzo diffuso in tutto lo spazio, l’etere44. Il suo legame con l’impressione dei sensi risiede dunque nella rappresentazione di una vibrazione dell’etere che mette in movimento mediatamente l’organo della vista. Così, senza presupposti dinamici, dal semplice concetto della luce, si può risalire a un movimento originario della materia45. Un vantaggio di questa ipotesi, che ha tre presupposti (il soggetto senziente, la materia nello spazio, la luce come fenomeno ondulatorio), è la sua maggiore generalità rispetto a un’ipotesi puramente meccanica. Rappresentare una spinta dell’oggetto sul corpo del soggetto, come nel caso del tatto, presuppone infatti una forza originaria e immateriale; muovendo invece dal semplice concetto, empiricamente fondato (sebbene non in maniera necessaria), del44 KgS XIV, 66, 234, 288ss., 349ss., 406, e MA 520. Cf. ADICKES, Kant als Naturforscher, II, pp. 143-148, 155-159 (e le note alle pagine citate di KgS XIV). Euler aveva sostenuto una teoria «ondulatoria» della luce secondo cui «la luce non è altro che un’agitazione o scuotimento delle parti causata dalle particelle dell’etere» (Lettres a une Princesse d’Allemagne, lett. XIX-XX, EOO s. III, 11, pp. 44-49). Kant teneva presente probabilmente il manuale di ERXLEBEN, Anfangsgründe der Naturlehre, che espone e accoglie la teoria di Euler ai §§ 307ss., opponendola sia alla teoria dell’emanazione di raggi (attribuita a Newton), sia alla teoria corpuscolare (attribuita a Descartes). 45 Veramente la questione è più complicata. Infatti, un movimento universale si potrebbe ricavare anche dalla teoria corpuscolare newtoniana. Contro di essa, come è noto, Euler aveva avanzato proprio l’opinione secondo cui l’emissione di particelle di luce da parte di tutti i corpi luminosi renderebbe lo spazio pieno di corpuscoli velocissimi, e ciò impedirebbe il libero movimento dei corpi celesti (Lettres, lett. XVIII, EOO s. III, 11, pp. 42-44). Euler obiettava dunque alla concezione di Newton il fatto di riempire tutto lo spazio di moti velocissimi di particelle e di trascurare gli effetti dei probabili urti tra queste ultime, nonché degli urti tra queste e i corpi macroscopici. Veniva così sottovalutata la piccolezza delle particelle, e la grandezza dei vuoti interni ai corpi, che pure Newton aveva sottolineato. Nel suo tentativo di ricomporre le diverse teorie fisiche dell’epoca intorno a un singolo concetto di etere, negli anni ’90, Kant tornerà a ipotizzare che la luce corrisponda a un movimento di traslazione dello stesso etere, senza però tornare a una rappresentazione corpuscolare.

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la luce come fenomeno ondulatorio, l’etere come mezzo può essere ammesso come postulato (l’origine prima della vibrazione, da un punto di vista meccanico, rimane indeterminata). Inoltre l’ipotesi luminosa sembra capace di includere la precedente. Il concetto di impenetrabilità, infatti, può essere facilmente collegato con la luce, come condizione dell’intuizione empirica a distanza, il che renderebbe tutta l’ipotesi più generale di quella fondata sul tatto e compatibile con l’impianto dei Principi metafisici. Kant avebbe potuto ragionare in proposito come Euler, da cui egli trae la teoria della luce. Secondo Euler, se non vi fosse impenetrabilità, la luce non si rifletterebbe sulla superficie dei corpi; perciò questa proprietà è essenziale tanto al tatto quanto alla vista: «un corpo privo di impenetrabilità, se fosse possibile, non sarebbe capace di colpire i nostri sensi e di metterci a conoscenza della sua esistenza»46. Dunque, mentre la causalità direttamente meccanica (azione sugli organi dei sensi) non è attestata in generale per la percezione, ma solo per quella tattile, la mediazione della luminosità permetterebbe di rendere conto di quella stessa impenetrabilità che, a contatto, si manifesta in modo diretto. Dobbiamo però riconoscere che l’intera ipotesi introduce un presupposto che la filosofia naturale non è capace di giustificare a priori: la vibrazione della luce presuppone un mezzo, che per Kant – e per tutti i fisici dell’epoca – si chiama etere, o fuoco; ma si tratta di un materiale ipotetico. La fondazione del concetto di un mo46 EULER, Recherches sur l’origine des forces, in Mémoires de l’académie des sciences de Berlin, VI (1750), Berlin 1752, § 15, pp. 419-47 (EOO s. II, 5, p. 114). FRIEDMAN, Kant and Newton: Why Gravity is Essential to Matter, in BRICKER-HUGHES (eds.), Philosophical Perspectives on Newtonian Science, pp. 185-202, avanza l’interessante tesi secondo cui il primato gnoseologico della luce si fonderebbe sul riferimento della metafisica kantiana alla fisica di Newton: Kant alluderebbe, nella Critica, a una funzione gnoseologica della luce in quanto la rappresentazione del sistema del mondo newtoniano richiede la percezione dei pianeti per stabilirne la massa (nel terzo libro dei Principia). Nessun luogo attesta che Kant avesse effettivamente ragionato così, e comunque questa ipotesi non risolve la questione che si sta seguendo. Si tratta di capire, piuttosto, come Kant interpreti da un punto di vista filosofico il ruolo svolto dalla luce nella rappresentazione del mondo fisico; questione che nemmeno la più minuziosa conoscenza del testo newtoniano poteva di per sé risolvere, e che del resto non si pone per la sola fisica newtoniana.

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vimento originario della materia, mediante il concetto di impressione, nella luce come condizione della percezione e nello stesso tempo fenomeno ondulatorio, presuppone dunque un concetto la cui attestazione deve avvenire empiricamente. Come può avvenire, però, questa attestazione empirica? Nel periodo che stiamo considerando l’etere è introdotto sempre come condizione di possibilità di fenomeni, in particolare la luce e lo stato di aggregazione dei corpi: nel primo caso, esso fornisce il mezzo della vibrazione, nel secondo caso, con le sue vibrazioni e la sua distribuzione diseguale nello spazio, determina la formazione di strutture fisiche. Ma Kant non dispone di alcun argomento per stabilire a priori l’esistenza di questo mezzo ondulatorio o agente meccanico (di cui, per esempio, un atomista potrebbe fare a meno). Nel testo della terza analogia, tuttavia, si trova una considerazione che, nel corso successivo del pensiero kantiano, si troverà associata all’etere e che suggerisce una possibile determinazione trascendentale riguardo al concetto del vuoto. Se lo spazio che separa le sostanze fisiche fosse vuoto, scrive Kant, non si potrebbe fare esperienza della loro simultaneità; c’è bisogno che esso sia pieno, e che attraverso esso sia possibile un’esperienza percettiva continua, che permetta di passare da una sostanza all’altra; altrimenti, non sarebbe possibile nemmeno la prova che la simultaneità delle sostanze presuppone un’azione reciproca47. La terza analogia comporterebbe dunque il presupposto materiale di uno spazio pieno. L’assenza di prove empiriche dell’esistenza dell’etere, d’altra parte, può suggerire che Kant possegga già delle ragioni trascendentali per ammettere una materia che riempia tutto lo spazio, quale veicolo degli influssi che stanno a fondamento delle percezioni e dunque soggetto di un movimento originario; questa materia, però, limitandosi a individuare questa proprietà generale, non corrisponderebbe tout court all’etere della fisica con tutte le sue ipotetiche proprietà. Così, considerando l’affezione come caso particolare della questione del rapporto fisico tra forza materia e movimento, si giunge all’ipotesi che il movimento, piuttosto che essere 47

KrV A 212/B 258-259. Torneremo su questo ragionamento nel § 10.2.

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ricavabile dall’affezione, o dall’impenetrabilità, o dalla forza, o dalla luce, o da un principio immateriale, possa essere una condizione trascendentale dell’esperienza associata all’esistenza di una materia cosmica fisicamente indeterminata. Tuttavia, manca un argomento ben sviluppato che permetta di trarre questa conclusione, ed esso non si può ricavare dagli scarni cenni della Critica e dei Principi metafisici. Piuttosto, se si segue il filo conduttore categoriale della categoria di azione reciproca, si deve concludere che Kant, concentrato sulla fondazione dei concetti meccanici, lasciasse a margine questo nuovo presupposto trascendentale accennato nel 1781 (analogamente a quanto accadeva con il «presupposto trascendentale» della facoltà di giudizio, accennato nella Appendice alla Dialettica trascendentale, il cui fondamento verrà indagato solo nella terza Critica). Se infatti si segue l’ordine categoriale si trova che, alla categoria di comunanza, nella fisica pura corrisponde la trattazione della legge di azione e reazione. Quest’ultima, proprio allo scopo di essere sottratta ai presupposti del meccanicismo (che ne negava la validità per il caso dell’attrazione), e per evitare di ricorrere alle stesse leggi del moto che Kant intende dimostrare, viene collegata alla stessa procedura di misura della quantità di movimento nei fenomeni meccanici. Ma lo studio della comunicazione del movimento, nella Meccanica pura, avviene attraverso la considerazione di due corpi in uno spazio vuoto. La problematica di un continuo materiale pieno, che viene posta nella Nota generale alla Dinamica per contestare il valore assoluto della rappresentazione meccanicistica-atomistica del mondo, resta dunque fuori dalla parte dimostrativa della fisica pura. Ora, è notevole che proprio l’etere compaia, in un passo della Nota generale alla Fenomenologia, e dunque sotto il titolo categoriale della necessità, come materiale mosso dall’attrazione universale e responsabile di una azione meccanica sui corpi48. Manca però proprio il collegamento argomentativo tra confutazione del vuoto e prova del movimento originario, che abbiamo congetturalmente collegato all’affezione. Si rende dunque necessaria una nuo48 MA 563-564. Anche su questo passo torneremo discutendo la questione del rapporto tra negazione del vuoto e ipotesi dell’etere (v. § 10.2 e cap. 12).

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va esemplificazione dello schema della comunanza, che metta in evidenza la funzione trascendentale di una materia originariamente in movimento49. È proprio questa la via che il pensiero kantiano intraprenderà, ma ciò non avverrà in un’opera compiuta e affidata alle stampe, bensì nel corso delle riflessioni dell’Opus postumum. Tutte le speculazioni fatte finora sul concetto di impressione sensibile sono state guidate, in effetti, dalla consapevolezza dell’evoluzione successiva del pensiero di Kant: dei problemi che esso prenderà in considerazione e dei requisiti che saranno considerati necessari per risolverli. Relativamente al concetto di impressione sensibile, si è considerata la questione della localizzazione del soggetto nello spazio, che lo renderebbe oggetto di un’azione esercitata dalla materia: ma questa (a partire dal 1799) sarà oggetto di una serie di riflessioni kantiane, dedicate all’«autoposizione» del soggetto nello spazio. Indagando il concetto di impressione dei sensi, abbiamo poi ipotizzato che il concetto fondamentale della fisica e di tutte le proprietà della materia possa essere quello di forza. Ma è precisamente quanto Kant farà nel Sistema elementare delle forze motrici. In effetti il Sistema elementare delle forze, a partire dal 1796, non tiene conto del solo concetto di movimento per la sua articolazione delle proprietà fondamentali della materia, e consiste piuttosto in un sistema delle anticipazioni della percezione a livello fisico, che non afferma ancora la realtà delle forze. In esso dunque il nesso deduttivo tra movimento e forza, che faceva difetto nei precedenti tentativi kantiani, viene del tutto meno e l’ambizione deduttiva a priori della filosofia della natura trova un nuovo punto di partenza in una diversa analisi del concetto di materia. Di questa materia, ritornando al contesto cosmologico, Kant cercherà di provare l’originaria mobilità e infine la stessa esistenza, per conferire realtà oggettiva al sistema delle forze. Ancora, abbiamo ipotizzato dapprima che l’affezione comporti 49 KrV A 144/B 183-184: «Lo schema della comunanza (azione reciproca) o della reciproca causalità delle sostanze rispetto ai loro accidenti è la contemporaneità delle determinazioni dell’una rispetto a quelle dell’altra, in base a una regola universale».

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un’azione meccanica sugli organi dei sensi, poi che essa consista più propriamente in un’impressione luminosa, che pure Kant, nel corso delle sue riflessioni sulla fisica, associa talvolta a un fondamento meccanico, e per la quale in generale, negli anni ’80, egli individua un sostrato nel concetto di etere. Ora, proprio l’etere, come veicolo sia delle forze meccaniche sia della luminosità, costituirà il concetto fondamentale delle riflessioni dell’Opus postumum. Tuttavia, coerentemente con lo statuto di una proprietà come il movimento originario, il concetto di etere verrà mutando di dignità, entrando nel dominio della filosofia trascendentale quale nuova condizione dell’esperienza. Il fulcro degli argomenti kantiani per stabilire delle prove dell’esistenza dell’etere, nei fogli ‘Übergang 1-14’ (1799), sarà proprio la tesi secondo cui il movimento originario e onnipresente dell’etere è condizione di possibilità delle percezioni esterne50. A questo punto, però, la questione della comunanza si è separata da quella della simultaneità, e dunque la funzione che la luce è chiamata ad assolvere viene considerata astraendo dai suoi dettagli fisici (abbandonando così la strada che nel giro di poco più di un secolo condurrà al problema fisico della simultaneità in Einstein)51. La funzione trascendentale dell’etere, Cf. per es. KgS XXII, 189. Si veda § 13.1.B. Kant sapeva bene che la velocità della luce è finita (la scoperta di Rømer è citata numerose volte nei suoi scritti: per es. KgS I, 392), ma non aveva considerato il problema della simultaneità dal punto di vista fisico-matematico. Così, se egli ammette un’azione mediata della luce e ne trae una negazione del vuoto, non lo fa in base a argomenti fisici – per esempio, come osserverà Maxwell, perché essa violerebbe la conservazione dell’energia (v. M.B. HESSE, Forces and Fields, London 1961, pp. 206-212). Anzi, Kant violerebbe questa legge con la sua attrazione a distanza. Ma la sua dipendenza dalla meccanica del tempo lascia traccia anche nella trattazione della comunicazione del movimento, tutta fondata sulla rappresentazione geometrica. Per stabilire un movimento necessario, alla luce della fisica successiva, Kant avrebbe forse potuto attribuire minore peso alla grandezza mv e cercare una legge di conservazione dell’energia, considerando nello stesso tempo la luce come condizione dell’esperienza di simultaneità; il concetto di energia di un campo avrebbe forse fornito un esempio adeguato dell’azione reciproca kantiana, estesa a tutti i punti del continuo spaziale. Si noti però che Kant privilegia la quantità mv proprio in virtù della sua rappresentabilità intuitiva, che il concetto di energia imporrà di abbandonare. È appena il caso di osservare che tutti questi nodi problematici, il nesso tra luce e simultaneità, l’esistenza dell’etere e l’azione a distanza, riceveranno un profondo ripensamento concettuale nel50 51

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inoltre, non riguarda più la determinazione temporale, ma piuttosto quella spaziale – di cui conosciamo il rilievo nella cosmologia metafisica da cui muoveva Kant. È l’esperienza della distanza la chiave di volta delle nuove prove dell’esistenza dell’etere. La trasmissione di un movimento in ogni punto dello spazio diviene dunque una condizione dell’esperienza della distanza e, assumendo così uno statuto trascendentale, sarebbe capace di fornire quella negazione del vuoto la cui esigenza era affermata già nella Critica. Alla luce delle analisi precedenti si può dunque concludere: il concetto kantiano di affezione, nella fisica pura dei Principi metafisici, non può essere interpretato altrimenti che mediante presupposti fisico-meccanici, come confermano le diverse indicazioni nel materiale manoscritto. Questa situazione è però incompatibile con l’esigenza di validità universale e di completezza tipica dei Principi metafisici, perché costituisce – per utilizzare la terminologia kantiana – una “deduzione empirica” del giudizio secondo cui il movimento è la determinazione fondamentale della materia. È interessante dunque riscontrare come, riprendendo la questione, Kant tenterà nell’Opus postumum di sostituire i presupposti fisiologici con presupposti trascendentali. Esaminando il contenuto di queste tarde riflessioni, per stabilire se e in che misura esse estendano o addirittura contraddicano l’impostazione originaria del criticismo, si dovrà dunque tener presente che esse rispondono a una questione che, nella filosofia naturale degli anni ’80, era rimasta aperta.

la fisica relativistica. Ben diversi, ovviamente, saranno i riferimenti fisici che Kant terrà presenti per la sua rielaborazione trascendentale del concetto di etere nell’Opus postumum.

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Capitolo 7 La Foronomia: spazio e movimento

7.1. Movimento spazio quiete: dalla percezione alla costruzione La Foronomia si occupa della pura rappresentazione del movimento, astraendo da ogni altra proprietà della materia, e tratta solo di quel che in esso si può considerare come grandezza, cioè velocità e direzione (MA 480)1. Il compito di questa scienza consiste semplicemente nel «determinare a priori la costruzione dei movimenti in generale, in quanto grandezze [...] sia secondo la loro velocità che secondo la loro direzione, e dunque anche secondo la loro composizione» (MA 487). In altre parole, deve essere qui indagato il presupposto, sintetico e a priori, delle operazioni di somma e sottrazione del movimento, considerato come quantità orientata. Il movimento come puro quantum dovrà tuttavia essere pur sempre considerato come movimento della materia, altrimenti – come abbiamo visto nel § 6.2 − non si tratterà del movimento vero e pro1 Il termine ‘foronomia’ – prima di comparire come titolo di un’opera di J. HERMANN, Phoronomia, sive de viribus et motibus corporum solidorum et fluidorum libri duo, Amsterdam 1716, di cui Kant possedeva una copia (WARDA, Immanuel Kants Bücher, p. 34) – veniva impiegato già da Leibniz in riferimento al movimento considerato solo geometricamente, per esempio nella Theoria motus abstracti (pubblicata in GM VI, p. 71. Kant potrebbe averlo tratto da LAMBERT, Anlage zur Architectonic, I (rist. Philosophische Schriften, vol. III), § 68, p. 53, dove viene definita «foronomia» la «teoria del movimento locale, considerato in se stesso», in quanto distinta – in maniera analoga a quella kantiana – da «dinamica» e «meccanica».

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prio come oggetto dell’esperienza2. Perciò, prima di considerarlo in maniera puramente quantitativa, Kant ne definisce e esamina il concetto tenendo conto dei suoi presupposti percettivi. Ecco perché la prima definizione non si riferisce ancora al concetto di movimento, ma alla materia come mobile e allo spazio (MA 480). Definizione 1. La m a t e r i a è il m o b i l e nello spazio. Lo spazio che a sua volta è mobile si chiama spazio materiale, o anche s p a z i o r e l a t i v o; quello in cui si deve pensare in definitiva ogni movimento (che a sua volta, dunque, è assolutamente immobile) si chiama spazio puro, o anche s p a z i o a s s o l u t o.

Perché una doppia definizione? La risposta si può dare considerando la vera e propria definizione del movimento (MA 482): Definizione 2. Il movimento di una cosa è il cambiamento dei suoi r a p p o r t i e s t e r n i rispetto a uno spazio dato.

Il movimento è un cambiamento di rapporti esterni tra una cosa, in questo caso un oggetto dei sensi esterni, e uno spazio dato; la Definizione 1, dunque, non fa altro che introdurre i due termini di riferimento – il mobile e lo spazio materiale – che devono stare alla base di ogni esperienza del movimento. Si tratterà, in particolare, di due tipi diversi di percezioni, come diverso sarà il procedimento astrattivo mediante cui esse verranno considerate nella rappresentazione puramente quantitativa del movimento. Le due note poste da Kant a commento della Definizione 1 contengono i necessari chiarimenti dedicati rispettivamente ai concetti di mobile e di spazio, alla loro componente empirica e alla possibilità di considerarli astrattamente mediante l’intuizione pura. Il mobile di cui si fa esperienza mediante la percezione è originariamente un corpo esteso: solo astraendo da questa estensione lo si può considerare come un punto materiale, e rappresentarne il 2 Questo presupposto modale del concetto di movimento verrà in seguito reso esplicito più volte. Lo si può considerare una versione trascendentale del principio metafisico leibniziano secondo cui «se il movimento [...] è qualcosa di reale, esso deve avere un soggetto» (LEIBNIZ, lettera a Ch. Huygens del 12/22 giugno 1694; GM II, p. 184).

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movimento nell’intuizione pura3. Perciò si può affermare che il concetto di movimento della Foronomia presuppone (mediatamente) quello di impenetrabilità4. Ma l’astrazione rispetto all’estensione, finalizzata a isolare il problema della composizione dei movimenti, lascia ancora un’altra traccia. Solo considerando un corpo esteso, infatti, è possibile contemplare un particolare tipo di movimento che la rappresentazione della materia come punto non permette di esibire: il movimento rotatorio. Questa precisazione permette a Kant di chiarire il significato della definizione di movimento come cambiamento dei rapporti esterni rispetto a quella «comune», adeguata ai soli punti materiali, di cambiamento di luogo5. Questa definizione era effettivamente comune presso i fisici 3 «Poiché nella Foronomia non si deve parlare d’altro che del movimento, al soggetto di quest’ultimo, cioè alla materia, non si deve assegnare altra proprietà che la m o b i l i t à. Nel corso della Foronomia, dunque, la materia stessa si può considerare equivalente a un punto e vi si astrae da ogni proprietà interna del mobile, anche dalla sua grandezza [...]. Se tuttavia qui, di tanto in tanto, si userà l’espressione ‘corpo’, ciò accadrà soltanto per anticipare in qualche modo l’applicazione dei principi della Foronomia ai successivi e più determinati concetti della materia, in modo da rendere la trattazione meno astratta e più comprensibile» (MA 480). Cf. Definizione 2, Nota 1: «Già nella precedente definizione ho posto a fondamento del concetto di materia il concetto di movimento. In quel caso, poiché volevo determinare questo concetto indipendentemente dal concetto di estensione [...] potevo dunque considerare la materia come un punto» (MA 482). La determinazione del punto corrispondente alla percezione del corpo avverrà in base a presupposti dinamici. 4 La stessa conclusione si può ricavare anche dalla già discussa Nota 2 alla Confutazione dell’idealismo (B 277-278), dove l’impenetrabilità è posta come condizione dell’esperienza dello stesso cambiamento interno. 5 Così, nella Nota 1 alla Definizione 2, Kant scrive: «Già nella precedente definizione ho posto a fondamento del concetto di materia il concetto di movimento. In quel caso, poiché volevo determinare questo concetto indipendentemente da quello di estensione e potevo dunque considerare la materia come un punto, potevo concedere che ci si servisse della comune definizione del m o v i m e n t o come c a m b i a m e n t o d i l u o g o. Ora, se il concetto di una materia deve essere definito in un modo generale, adeguato anche ai corpi in movimento, questa definizione non è più sufficiente. Infatti, il luogo di ciascun corpo è un punto. Quando si vuole determinare la distanza della Luna dalla Terra, si vuole sapere la distanza dei loro rispettivi luoghi, e a tal scopo non si misura da un qualsiasi punto della superficie o dell’interno della Terra a un qualsiasi punto della Luna, ma si prende la linea più breve dal centro dell’una al centro dell’altra, di modo che è un solo punto a costituire il luogo di ciascuno di questi corpi. Ora, un corpo si può muovere senza cambiare il proprio luogo, come fa la Terra

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dell’epoca. Essa risultava associata, prima ancora che alla rappresentazione di un punto mobile, alla definizione di un luogo rispetto a cui il movimento (foss’anche di un corpo esteso) potesse essere considerato assoluto6. Secondo Newton, per esempio, «il movimento assoluto è il cambiamento di posizione di un corpo da uno luogo assoluto a un altro7; il movimento relativo è un cambiamento di posizione da un luogo relativo a un altro». Euler riporta accanto a questa anche la definizione di movimento accolta da Kant: «il movimento relativo è cambiamento di luogo rispetto a uno spazio assunto arbitrariamente»8. Kant, tenendo probabilmente presente il sistema delle definizioni di Euler, riconduce la prima alla seconda, e in tal modo fa sì che il moto considerato in se stesso, indipendentemente da concetti dinamici, non possa essere che relativo. Il presupposto di uno spazio di riferimento arbitrario – e non unico come quello assoluto – diviene così non uno dei modi di considerare il movimento, ma una sua condizione necessaria. Questo spazio è infatti assunto arbitrariamente, ma per essere anche solo assunto – contrariamente alle tesi di Newton − deve essere percepito. A proposito di questo secondo presupposto percettivo del movimento (lo “spazio materiale”) Kant (Nota 2) spiega prima di tutto come sia possibile che uno spazio sia oggetto di percezione. Nella Critica, infatti, lo spazio viene considerato come forma pura dell’intuizione e come tale contrapposto alla materia. Forma e materia vengono considerate come concetti della riflessione che, applicati all’intuizione esterna, corrispondono l’uno allo spazio come ruotando intorno al suo asse. Ma anche in questo caso cambia il suo rapporto con lo spazio esterno; in 24 ore, per es., la Terra rivolge le sue diverse facce alla Luna, dal che poi deriva anche ogni sorta di mutevoli effetti sulla sua superficie. Soltanto di un p u n t o mobile, cioè fisico, si può dire che il suo movimento è sempre cambiamento di luogo» (MA 482). 6 Sulla definizione di movimento «comune» presso i fisici dell’epoca v. POLLOK, MA Kommentar, p. 184. Cf. Danziger Physik, KgS XXIX, 139-140. 7 Principia, p. 47. Kant sembra talvolta ricalcare la definizione newtoniana, ma solo quando non si tratta di questioni fisiche (per es. in KrV B 48, B 67, B 291). 8 EULER, Mechanica sive motus scientia, I, § 9. Def. 3 (EOO s. II, 1, pp. 14-15). Kant possedeva una copia anche di quest’opera: WARDA, Immanuel Kants Bücher, p. 34.

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forma dell’intuizione – definito nell’Estetica trascendentale – l’altro a «ciò che nell’intuizione esterna è oggetto della sensazione, cioè l’elemento propriamente empirico dell’intuizione sensibile ed esterna» (MA 481). Ora, trattandosi del concetto di movimento, lo stesso spazio viene considerato in maniera diversa (e subordinata alla precedente), cioè come termine di riferimento di un rapporto tra percezioni; si tratta allora di uno spazio empirico: In ogni esperienza si deve avere la sensazione di qualcosa, e questo è il reale dell’intuizione sensibile; di conseguenza anche lo spazio in cui dobbiamo fare esperienza dei movimenti deve poter essere oggetto di sensazione, cioè contraddistinto dalla possibilità di essere oggetto di sensazione, e questo spazio, in quanto complesso di tutti gli oggetti dell’esperienza ed esso stesso oggetto empirico, si chiama s p a z i o e m p i r i c o (ibidem)9.

Ad illustrazione di questo concetto, si può pensare a un complesso di percezioni che vengano prese come contrassegni di uno spazio di riferimento: nell’esempio antico, di cui si serve anche Kant (MA 487), spazio empirico sarebbe la riva di un fiume rispetto a cui si consideri una barca come mobile; ma anche la barca stessa potrebbe essere considerata spazio empirico, per esempio rispetto al movimento di un tavolo che si trovi su di essa. Si capisce dunque come mai Kant possa aggiungere che «questo [lo spazio empirico], tuttavia, in quanto materiale, è esso stesso mobile» (dove per ‘mobile’ si deve intendere ‘possibilmente in movimento’, non già ‘effettivamente in movimento’10). Adottando un linguaggio 9 Cf. MA 487: «Perché si faccia esperienza del movimento di un corpo è necessario che non solo il corpo, ma anche lo spazio in cui si muove siano oggetti dell’esperienza esterna, ovvero siano materiali». I concetti di spazio relativo e assoluto si trovano, in un senso prossimo a quello kantiano, nel compendio di EBERHARD, Erste Gründe der Naturlehre, § 5, p. 18. L’autore afferma che lo spazio si può rappresentare in due modi: senza considerarvi corpi, «come ente a sé», così «come accade nella matematica», oppure «in quanto si considerano alcune parti corporeee, che lo determinano», e si ha allora lo «spazio relativo». Lo spazio assoluto, rispetto a quest’ultimo, non è che un «abstractum», come il tempo e altri concetti geometrici. 10 Cf. per es. MA 488: tutto quel che ci è dato in un’esperienza «è materiale, e dunque anche mobile, e forse (poiché nello spazio non conosciamo alcun limite esterno al-

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proprio della fisica successiva, si può dire che lo spazio materiale o empirico definisce un sistema di riferimento all’interno dello spazio puro in cui in generale devono essere rappresentati i fenomeni11. Per la precisione – considerando che Kant si riferisce allo spazio euclideo – esso dovrà essere contrassegnato da almeno quattro punti contenuti nella percezione, corrispondenti a punti di un astratto spazio geometrico, tre dei quali complanari ma non allineati12. Questa precisazione permette di capire in che senso la rappresentazione dello spazio come forma dell’intuizione – propria della geometria – costituisca necessariamente un presupposto della rappresentazione dello spazio materiale: per poter associare diverse percezioni a uno spazio materiale, infatti, le proprietà geometriche dello spazio devono essere presupposte nel molteplice percettivo13. Diversa da questa, tuttavia, è la ragione per cui lo spazio materiale presuppone la rappresentazione di uno spazio assoluto. «Uno spazio mobile – prosegue Kant (MA 481) – se il suo movimento deve poter essere percepito, presuppone un altro spazio materiale più esteso in cui potersi muovere, ma questo a sua volta ne presuppone un altro, e così via all’infinito». Questo regresso all’infinito nella rappresentazione del movimento suscita però la rappresentaziol’esperienza possibile) si trova effettivamente in moto, senza che noi possiamo percepire questo moto» (corsivo mio). 11 Di fatto, Kant ha in mente un sistema di riferimento inerziale; ma tale nozione comporta un riferimento ai concetti di moto accelerato e di inerzia, che vengo introdotti solo nella Meccanica. 12 Si tratterà cioè di individuare, mediante contrassegni percettivi, tre vettori linearmente indipendenti. 13 Questa precisazione è utile per rimarcare la distinzione tra i diversi concetti di spazio, ma non costituisce, in questa fase del pensiero kantiano – una ragione della precedenza dello spazio puro rispetto ai fenomeni, che viene sostenuta nell’Estetica trascendentale a prescindere da qualsiasi concetto empirico determinato. Nell’Opus postumum Kant impiegherà rispettivamente i termini di spatium cogitabile e spatium dabile, che forse indicano la medesima distinzione tra spazio puro e spazio materiale, lasciando intendere la possibilità di una determinazione a priori dello spazio fisico (v. cap. 14). In base a queste distinzioni egli indagherà le condizioni sotto cui è possibile associare una percezione a un luogo determinato dello spazio fisico, cioè determinare una distanza, traendone una delle sue prove trascendentali dell’esistenza di una materia cosmica (v. § 13.1.B).

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ne di uno spazio immobile, in cui pensare tutti gli altri come mobili: sorge così il concetto foronomico di uno spazio assoluto. Ogni movimento che possa essere oggetto dell’esperienza, però (come emerge dalla sua stessa definizione), implica la rappresentazione di due termini, il corpo e lo spazio empirico, che si possono considerare alternativamente come mobili. Anticipando uno dei risultati fondamentali della Foronomia, dunque, Kant può scrivere già che «ogni movimento, che sia oggetto dell’esperienza, è solo relativo». La possibilità di considerare ogni spazio di riferimento come mobile rispetto a uno spazio più esteso, in quanto sottoposta alla stessa condizione di possibilità dell’esperienza del movimento, cioè la percezione, non può giustificare affatto la realtà di uno spazio assoluto. In conclusione, lo spazio assoluto «in sé non è nulla, tanto meno un oggetto, ma significa soltanto ogni ulteriore spazio relativo che io posso sempre pensare al di fuori di quello dato» (ibidem). Lo spazio assoluto, dunque, possedendo questa necessità soggettiva e insieme mancando di oggettività, è un’idea della ragione (MA 482)14. Come le idee della ragione discusse nella Critica, infatti, esso sorge dal concetto del termine incondizionato di una serie di condizionati. Analogamente, l’illusione della sua realtà sorge dallo scambio tra una relazione puramente concettuale, quella di inclusione, e la relazione fenomenica mediante cui in generale uno spazio deve ottenere oggettività, cioè la sua percepibilità, che però coincide immediatamente con la possibilità di considerarlo a sua volta mobile. La genesi di questo scambio viene ricostruita da Kant con grande finezza (MA 481-482): Dato che questo spazio più esteso, sebbene pur sempre materiale, io lo considero solo nel pensiero e non mi è noto nulla della materia cui esso corrisponde, così facendo io astraggo da essa, per cui tale spazio viene rappresentato come uno spazio puro, non empirico, assoluto, con il quale io posso confrontare ogni spazio empirico rappresentandomelo mobile al suo interno, e che si considera dunque 14 Kant lo afferma con maggiore chiarezza nella Fenomenologia, MA 559: lo spazio assoluto «non può essere un oggetto dell’esperienza: lo spazio senza materia, infatti, non è un oggetto della percezione; tuttavia, si tratta di un concetto necessario della ragione, per cui non è nient’altro che un’ i d e a».

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sempre immobile. Farne una cosa reale, significa confondere l’u n i v e r s a l i t à l o g i c a di uno spazio qualsiasi, con cui posso confrontare ogni spazio empirico in quanto racchiuso al suo interno, con una u n i v e r s a l i t à f i s i c a dell’estensione vera e propria, e così fraintendere la ragione nella sua idea.

Questa trattazione critica del concetto (o meglio dell’idea) di spazio assoluto contiene un riferimento puntuale (ma inesplicito) alle discussioni sullo spazio assoluto di matrice newtoniana. Il principio secondo cui ogni spazio dotato di realtà fisica, se deve essere oggetto dell’esperienza, deve essere anche percepibile, costituisce una risposta alle affermazioni di Newton nelle Definizioni dei Principia matematica. Newton, pur riconoscendo che ai fini della percezione ogni spazio si deve considerare relativo, afferma d’altra parte che deve esistere uno spazio assoluto, a prescindere dalla nostra incapacità di percepirlo. La concezione dello spazio di riferimento, impropriamente detto assoluto, coesiste dunque con una metafisica dello spazio assoluto vero e proprio: Lo spazio assoluto, che per sua natura non si riferisce a nulla di esterno, rimane sempre omogeneo e immobile. Lo spazio relativo è ogni misura o dimensione mobile di questo spazio assoluto; questa misura o dimensione è determinata dai nostri sensi dalla situazione dello spazio rispetto ai corpi e si usa comunemente come spazio immobile, come nel caso dello spazio sotto la terra o nell’aria o nel cielo, dove la dimensione è determinata dalla situazione dello spazio rispetto alla terra15.

Anche per Newton, dunque, non si può fare esperienza diretta dello spazio assoluto, in quanto smisurato e impossibile a percepirsi; ma questa circostanza non ne mette in dubbio l’esistenza, e costituisce piuttosto uno dei tanti casi in cui la conoscenza sensibile mostra la sua inadeguatezza. Questa affermazione viene sostenuta mediante alcune prove – di carattere meccanico – che Kant discuterà nella Fenomenologia, giudicandole inconsistenti16. 15 16

Principia, Scolio alle definizioni, II, p. 46. Per es. l’esperimento del secchio pieno d’acqua posto in rotazione, con cui New-

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Conformemente alla suddivisione del suo discorso, Kant si limita qui a stabilire l’impossibilità di ammettere uno spazio assoluto in base alla semplice rappresentazione del movimento come oggetto di esperienza possibile. Alle considerazioni della Foronomia, poi, si riferiranno gli argomenti con cui egli cercherà di confutare le presunte prove meccaniche. La comprensione delle definizioni fonoromiche di spazio e movimento, come si vede, richiede già un riferimento alla costruzione del movimento composto, di cui Kant si occuperà nel seguito del testo. Questa circostanza – prima di proseguire nell’esame della Foronomia – permette di svolgere un’osservazione generale sulle «definizioni» che si troveranno in tutta l’opera17. Esse intanto non hanno carattere omogeneo, ma rispondono a un criterio retorico dell’esposizione (l’“imitazione” del modo d’esposizione matematico di cui Kant parla nella Prefazione) che non garantisce ad esse ton cerca di dimostrare l’esistenza di un moto assoluto concedendo che, da un punto di vista fenomenico (cinematico), lo scorrimento reciproco delle pareti del secchio e dell’acqua in esso contenuta può essere considerato relativo, come voleva Descartes (ivi, pp. 51-52). Anche Euler, che come si è visto distingueva in maniera altrettanto categorica i due concetti di spazio, sosteneva la necessità di uno spazio assoluto in base a considerazioni meccaniche (cf. cap. 5, nota 29). 17 La traduzione di Erklärung con “definizione” richiede una breve giustificazione. Nella Critica, infatti, Kant scrive (A 727/B 755ss.) che in filosofia non si possono dare vere e proprie definizioni, in quanto nulla garantisce che l’analisi di un concetto sia perfettamente compiuta e «adeguata all’oggetto», come invece accade in matematica grazie alla costruzione dei concetti, la quale dà la libertà di escogitare definizioni che «non possono mai sbagliare». Perciò in filosofia sarebbe meglio parlare di «esposizione» o «esplicazione» dei concetti e comunque una definizione dovrebbe «chiudere l’opera, piuttosto che cominciarla», perché l’analisi comincia da concetti confusi e cerca di renderli distinti. Per il caso della fisica pura, si è cercato di capire in che modo Kant affronti il problema di definire il concetto della materia in generale (§ 6.1). In diversi luoghi dei Principi metafisici, comunque, Kant identifica Erklärung e Definition (MA 482, 536, 539). Piuttosto che mettere in dubbio la sua stessa distinzione (antiwolffiana) tra i metodi della filosofia e della matematica, che resta un saldo cardine della fisica pura, questo uso esprime piuttosto il proposito kantiano di imitare il metodo matematico, che nella terminologia dell’epoca era strutturato appunto in «definizioni, assiomi e dimostrazioni» (KrV A 726/B 754). Per la terminologia del metodo matematico tenuta presente da Kant si veda per es. WOLFF, Anfangsgründe aller mathematischen Wissenschaften, dove si trova l’equivalenza tra Erklärung e definitio (Von der mathematischen Lehrart, § 2; WGW I, 12, p. 5).

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un preciso statuto scientifico. In particolare, pare che i concetti in esse definiti si chiariscano mediante il successivo esame, sia per quanto riguarda la loro possibilità formale, corrispondente alla loro esibizione nell’intuizione pura, sia per quanto riguarda i presupposti materiali (percettivi) di questa esibizione. Così, in alcuni casi, le definizioni fornite da Kant risulteranno addirittura irrealizzabili (come qui quella di spazio assoluto o, in Dinamica, quella di corpo assolutamente impenetrabile), cioè prive di un correlato oggettivo. In questi casi, esse dovranno essere a rigore considerate come definizioni soltanto «nominali»18, mentre le definizioni «reali» potranno essere seguite, come in matematica, da una costruzione del concetto. Anche in matematica alcune definizioni non risultano costruibili (come quella di triangolo con due lati); ma nel caso della metafisica della natura corporea l’impossibilità non dipenderà dalle semplici condizioni formali dell’esperienza, bensì dall’impossibilità di ricondurre un concetto alla rappresentazione del movimento. La funzione costitutiva attribuita da Kant alla costruzione dei concetti foronomici è evidente anche dalla trattazione della quiete. Nella Definizione 3 la quiete è definita come «presenza persistente (praesentia perdurabilis) nel medesimo luogo» (MA 485). Kant contrappone la propria definizione a quella della quiete come assenza di movimento, la quale condurrebbe a esiti paradossali: ad ogni istante dato, infatti, un mobile potrà essere considerato in quiete, come avviene esemplarmente nel caso dell’inversione del movimento lungo una stessa direzione; così facendo, però, si potrà considerare in quiete un mobile che si muova uniformemente (ivi). Per illustrare la propria definizione, che eliminerebbe questo paradosso “zenoniano”, Kant considera il caso, propriamente meccanico, di un moto uniformemente decelerato, come quello di un corpo lanciato dalla terra in direzione verticale. Nel punto in cui il corpo è in quiete si considera che esso abbia perduto tutta la propria velocità per effetto della gravità (qui presupposta exempli gratia) e non abbia ancora acquistato una velocità in verso opposto. 18

Questa nozione è presente per es. in KrV A 242 e B 300.

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Presupponendo tuttavia la continuità del movimento, si deve considerare il corpo accelerato uniformemente, in modo tale che il grado della sua velocità, nell’istante dell’equilibrio, sia «minore di ogni altro assegnabile» (v → 0), per cui, se il corpo non fosse soggetto ad un’accelerazione nel verso opposto, percorrerebbe in un tempo arbitrariamente grande uno spazio «minore di ogni spazio assegnabile», e dunque non muterebbe mai di luogo. In altre parole, Kant definisce la quiete (e dunque anche il moto uniforme) come caso limite del movimento accelerato, in cui la velocità ha una grandezza evanescente. Se ciò conferma come il principio di continuità – e dunque i concetti del calcolo infinitesimale – siano radicati fin nella sua ontologia, non si può dire che l’argomentazione kantiana sia soddisfacente. Pare che la velocità infinitesima (il «momento di velocità») sia orientata nel verso del movimento che viene annullato – dunque, nel caso del grave al termine della salita, verso l’alto – ma di questo risultato non viene data piena giustificazione. Quel che appare rilevante, in questa definizione kantiana, è piuttosto la costruibilità di un tale concetto di quiete, tutta orientata verso il modello della composizione meccanica dei movimenti. Assegnando al corpo in quiete una velocità infinitamente piccola, Kant non intende ristabilire la dottrina leibniziana del conatus – secondo cui ogni corpo è sempre dotato di una tendenza al movimento – ma pensa piuttosto, in un tutt’altro orizzonte di pensiero, alla possibilità di rappresentare la quiete in una composizione dei movimenti, secondo il procedimento illustrato nel seguito della Foronomia; ma ciò richiede che essa non sia considerata totale assenza di movimento, perché la composizione dei movimenti richiederà una costruzione, e questa la rappresentazione dei movimenti da comporre in quanto dotati di direzione e verso: cosa che un movimento dotato di velocità = 0 non permetterebbe. Così la quiete, che nella dinamica leibniziana corrisponde a uno stato della sostanza perpetuamente attiva, viene ricondotta da Kant all’operazione di esibizione schematica dei movimenti e dunque all’attività del soggetto. È naturale domandarsi se questa soluzione non rimandi i problemi filosofici della quiete, piuttosto che risolverli. Essa, tuttavia, va considerata un segno eloquente del modo in cui, nella fisica pura, i concetti vengono ri457

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condotti all’attività sintetica che ne rende possibile la rappresentazione matematica19.

7.2. Principio di relatività e composizione dei movimenti Con la sua analisi del concetto di spazio, come si è visto, Kant anticipa già il contenuto del «Principio» in cui viene affermata la intrinseca relatività del movimento, e che costituirà una premessa del teorema foronomico (MA 487): Ogni movimento, in quanto oggetto di un’esperienza possibile, può essere considerato arbitrariamente come movimento del corpo in uno spazio immobile o come quiete del corpo e, al contrario, movimento dello spazio nella direzione opposta con velocità uguale.

La «prova» di questo «Grundsatz» chiama in causa due nozioni differenti di esperienza, che nel discorso kantiano sfumano l’una nell’altra, ma la cui distinzione verrà posta nella Fenomenologia20. Muovendo dal «fare esperienza» di un movimento, e dunque dalla percezione ancora irriflessa del cambiamento di relazioni spaziali, Kant considera come, «rispetto ad ogni esperienza e ad ogni sua conseguenza», dunque secondo un criterio di oggettività, la relatività del movimento in questione (quello rettilineo) risulti irriducibile. Il richiamo, infine, all’idea di spazio assoluto, conferma che il territorio della conoscenza rispetto a cui viene emesso il verdetto della ragione è «ogni esperienza possibile», ovvero l’esperienza possibile della Critica. In questa prospettiva, esaminando questa proposizione unica della fisica pura (la sola a chiamarsi «Grundsatz»), la si può considerare come un principio dell’esperienza possibile del movimento rettilineo21. 19 La tesi leibniziana secondo cui la quiete andrebbe considerata come una “velocità infinitamente piccola” si trova per es. in Lettre de M.L. sur un principe general (pubblicata nel 1687), GP III, 52-53. 20 MA 554-555. In questo passo (che abbiamo letto alle pp. 243-244) Kant distingue tra fenomeno e esperienza, ricalcando la distinzione logico-trascendentale dei Prolegomena tra giudizi percettivi e giudizi d’esperienza. 21 Questa proposizione svolgerà un ruolo fondamentale per la dimostrazione del

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L’intrinseca relatività dello spazio materiale esclude già di per sé la possibilità di un movimento assoluto: «Perciò un moto assoluto, cioè riferito a uno spazio non materiale, non può essere affatto un oggetto d’esperienza e dunque per noi non è nulla (quand’anche si voglia concedere che lo spazio assoluto sia in sé qualcosa)» (ivi). Si tratta ora di mostrare come il movimento, in quanto relativo, possa essere costruito in due modi alternativi. L’argomentazione si articola in tre passaggi: in primo luogo Kant mostra come, astraendo da uno spazio ulteriore che lo contenga, uno spazio empirico possa essere considerato immobile rispetto a un corpo che si muova al suo interno (per es. una sfera che rotola su un tavolo nella stiva di una nave). Se si considera, però, uno spazio più esteso che contenga il precedente, questo si può considerare a sua volta mobile (come la nave stessa rispetto alla riva del fiume). Ma considerando che – secondo lo stesso ragionamento – nessuno spazio esterno potrà considerarsi a sua volta immobile, questa rappresentazione può essere presa per oggettiva: infatti, «io esprimo gli stessi concetti se dico che un corpo si muove, rispetto a questo spazio dato, in tale direzione e con tale velocità, o se penso che sia in quiete e attribuisco tutto questo allo spazio, ma nella direzione opposta. Ogni concetto, infatti, la cui differenza rispetto a un altro non si possa mostrare con nessun esempio, è del tutto identico a quest’ultimo, e ne differisce soltanto rispetto al collegamento che scegliamo di porvi nell’intelletto» (MA 488). Teorema della Foronomia, e mediatamente è essenziale per la dimostrazione del Teorema 1 della Dinamica. Si è tradotto con ‘principio’ per richiamare i principi dell’Analitica trascendentale (cf. KrV A 148/B 188). Al di là della traduzione, il fatto che la proposizione si chiami Grundsatz significa che essa non è fondata a sua volta su un’altra conoscenza e perciò non è suscettibile di una dimostrazione vera e propria, ma semmai di una «prova [Beweis] in base alle fonti soggettive della possibilità di una conoscenza dell’oggetto in generale» (KrV B 188). Essa dunque «presuppone il proprio fondamento dimostrativo, cioè l’esperienza» (KrV A 737/B 765). Sull’argomento si veda VUILLEMIN, Physique et métaphysique kantiennes, p. 38. POLLOK, MA Kommentar, p. 202, sostiene che la terminologia kantiana qui non sarebbe esatta, e che la proposizione dovrebbe dirsi piuttosto un teorema. Che Kant lo chiami principio, tuttavia, è segno del fatto che il suo pensiero procede nella direzione di una indagine sulla possibilità dell’esperienza non più limitata all’“esperienza in generale” della Critica, ma rivolta a concetti empirici e in alcuni casi a concetti della fisica.

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Si può osservare che il riferimento allo spazio materiale più esteso serve a stabilire il carattere intrinseco della relatività dei movimenti; una volta stabilito questo principio, tuttavia, la rappresentazione alternativa dei movimenti può avvenire isolando i due termini del movimento da ogni ulteriore contesto percettivo. Ma questi stessi due termini sono stati ridotti a punti nello spazio metrico, perciò la relazione del movimento può essere rappresentata nel complesso – senza nulla perdere a livello concettuale – come una relazione nell’intuizione pura. Nel principio di relatività dei movimenti, insomma, vengono già poste le basi per considerare il movimento a prescindere da qualsiasi presupposto empirico. Non resta che considerare in esso la velocità – determinazione di cui Kant qui può fare a meno – per ottenere il concetto di movimento come puro quantum di cui si tratterà nel teorema della composizione dei movimenti22. La Definizione 4 afferma che «c o s t r u i r e il concetto di un m o v i m e n t o c o m p o s t o significa rappresentare a priori nell’intuizione un movimento, in quanto risulta dalla riunione in un solo mobile di due o più movimenti dati» (MA 486). Questa costruzione del movimento viene contrapposta da Kant a quella diffusa presso i fisici del tempo e nota ancora oggi come parallelogramma delle forze. Questa infatti consiste in una composizione di forze che viene rappresentata in maniera geometrica23. Secondo Kant, tuttavia, 22 La presente ricostruzione del procedimento astrattivo mediante cui, nella Foronomia, viene introdotto il movimento come puro quantum, si contrappone alle tesi di coloro i quali sostengono che l’intera sezione non sarebbe altro che una dottrina pura del movimento (per es., ancora di recente, POLLOK, MA Kommentar, pp. 219-220). In base a queste tesi la prima sezione dell’opera viene considerata come pura premessa matematica piuttosto che come indagine sulla possibilità di applicare la matematica alla rappresentazione della materia in quanto mobile. La nostra ipotesi di lettura è confermata dalla Fenomenologia, in cui il contenuto del Grundsatz foronomico viene essenzialmente ripreso e ridiscusso, nell’ambito però di una trattazione che si riferisce esplicitamente al movimento del mobile, in quanto quest’ultimo può essere, come mobile (dunque rispetto al suo movimento), un oggetto dell’esperienza (MA 554). 23 Ovviamente la costruzione geometrica di un parallelogramma delle forze non è affatto una novità assoluta della meccanica newtoniana, ma essa assume un senso nuovo con il mutare della definizione di forza, ed è la sua versione newtoniana che Kant trova nei manuali e tiene in generale presente. Per la rappresentazione newtoniana del parallelogramma delle forze v. Principia, Corollario I alle Leggi del moto, p. 56. Per la

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questa rappresentazione non può costituire una costruzione, perché la costruzione «richiede che la condizione della sua esibizione non sia tratta dall’esperienza, dunque che non presupponga determinate forze la cui esistenza si possa ricavare dalla sola esperienza»24. Questo passaggio ha un’importanza decisiva, e non a caso Kant ne ribadisce il contenuto più volte, nel corso dell’opera. Nella Prefazione, per esempio, Kant dichiara che, tra i problemi di filosofia naturale che la nuova opera aiuterà a risolvere, c’è quello «della possibilità di un conflitto tra le realtà» (MA 478). Quale sarebbe il problema in questione? Che in generale due realtà possano intrattenere un rapporto di opposizione reale – contrapposto alla opposizione puramente logica – è una tesi che Kant aveva sostenuto già nel saggio sulle quantità negative del 1763, dove veniva mostrata la possibilità di applicare una composizione aritmetica a ogni genere di casi, tra cui quelli delle forze motrici. Nella cornice della nuova metafisica, tuttavia, il discorso riceve una trattazione più attenta alla distinzione di genere degli elementi teorici. Che infatti due forze possano essere composte presuppone che esse siano dotate di quantità. Ma, mentre la realtà effettiva di una forza deve essere ricavata empiricamente, la composizione delle pure quantità può essere esaminata del tutto a priori e successivamente applicata al caso delle forze. Questa precedenza della trattazione del movimento su quella delle forze ha dunque, in primo luogo, delle ragioni legate all’origine delle conoscenze e alla concatenazione di esse all’interno della metafisica: «le regole della connessione dei movimenti mediante cause fisiche, cioè mediante le forze, non si possono esporre rigorosamente senza aver posto a fondamento in modo puramente matematico i principi della loro composizione in generale» (MA 487). In seguito Kant aggiungerà, con ulteriori argomenti, che l’insufficienza della composizione fondata su cause fisiche non dipende in generale dal fatto che la costruzione su essa fondata abbia dei precisione, la composizione viene rappresentata geometricamente nel senso che i segmenti geometrici del parallelogramma si considerano proporzionali all’intensità delle forze. 24 Nota alla Definizione 4, MA 486-7.

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presupposti empirici, ma che essa non realizza affatto una costruzione. Per capire meglio in che cosa consista l’inadeguatezza del comune procedimento dei fisici, occorre prima illustrare in che cosa consista per Kant la composizione dei movimenti. La Definizione 5 afferma che «la c o m p o s i z i o n e d e l m o v i m e n t o è la rappresentazione del movimento di un punto come identico a due o più movimenti dello stesso punto congiunti in uno solo» (MA 489). La composizione dunque corrisponde alla costruzione (Definizione 4), e in particolare, come Kant precisa nella Nota 1 al successivo teorema, a una «costruzione geometrica» del movimento, la quale comporti che due movimenti, in seguito alla loro composizione, siano identici (einerlei) al movimento risultante; in altre parole, viene richiesta «la completa similitudine e uguaglianza, in quanto può venire riconosciuta nella sola intuizione»: cioè «la congruenza»25. Per rappresentare la congruenza di due movimenti, ora, si dovrà rappresentare intuitivamente il movimento composto come sovrapposizione dei due componenti, in quanto avvengono simultaneamente. Una simile operazione – posta la distinzione dei movimenti congruenti (che come abbiamo visto presuppone il contributo delle percezioni eterogenee) – è resa possibile da quanto ha stabilito il principio di relatività: si potrà cioè considerare il primo movimento come proprio del mobile e il secondo come movimento dello spazio nella direzione opposta. La composizione di due movimenti in uno stesso punto – afferma il Teorema 1 – si deve pensare «solo in modo tale che uno dei due venga rappresentato nello spazio assoluto, mentre, invece dell’altro movimento, viene rappresentato, come ad esso equivalente, un movimento dello spazio relativo che abbia la stessa velocità ma direzione opposta» (MA 490)26. Solo l’«evidenza» intuitiva della composizione foronomica, secondo Kant, può fornire un 25 MA 493. I concetti di similitudine (Ähnlichkeit) e uguaglianza (Gleichheit) sono ripresi dalla tradizione leibniziano-wolffiana: la similitudine significa identità qualitativa, l’uguaglianza identità quantitativa. La congruenza raccoglie entrambe le relazioni. Cf. BAUMGARTEN, Metaphysica, § 70. 26 Quello che qui viene chiamato «spazio assoluto» va ovviamente inteso come quello spazio che di volta in volta si considera assoluto, cioè lo spazio di riferimento rispetto a cui si considera il movimento, il quale, a sua volta, può essere considerato relativo.

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procedimento di composizione privo di presupposti empirici, il quale anzi fornisce la condizione di possibilità in base a cui saranno considerate le stesse composizioni delle forze motrici27. Dopo aver esaminato i tre casi del teorema (v. fig. 3), Kant ritorna sulle ragioni per cui la composizione meccanica dei movimenti, adottata comunemente dai fisici matematici, non potrebbe fornire una vera e propria costruzione e dunque presupporrebbe la composizione foronomica. Il problema, come si è accennato, non risiede semplicemente nel fatto che essa presupponga dei concetti empirici. In tutta la fisica moderna, newtoniana e non, le forze sono ricavate dalla rappresentazione dei movimenti (a prescindere dalla diversa definizione matematica della forza, su cui il pensiero di Kant, come si vedrà, non è privo di oscillazioni). Così, la composizione dei movimenti si può considerare come composizione della forza motrice e della velocità iniziale del corpo. Per quale motivo, dunque, nemmeno in fisica, dove il concetto empirico di forza non solleva alcun problema, questa rappresentazione di una composizione puramente matematica di forze si può considerare fondata? Kant osserva (Nota 2 al Teorema) che, alla base di una simile composizione, c’è la somma (algebrica) di due velocità28. Egli, facendo l’esempio di due velocità uguali, distingue allora due casi generali, ai quali possono ricondursi tutti gli altri (mediante l’analisi delle componenti) e che corrispondono alle diverse relazioni in cui possono trovarsi le direzioni delle velocità stesse: quella in cui le due velocità si aggiungono e quella in cui sottraggono29. Relati27 Sulla certezza che la geometria fornisce alla fisica razionale si veda già Dissertatio, § 15 C, KgS II, 403: «La geometria [...] è modello di evidenza per le altre scienze, ed è pure lo strumento di esse, poiché, considerando la geometria le relazioni dello spazio, il cui concetto contiene in sé la forma stessa di ogni intuizione sensoriale, nulla di ciò che viene percepito dal senso esterno può essere chiaro e trasparente se non mediante appunto quella medesima intuizione della cui considerazione si occupa questa scienza». 28 Qui, implicitamente, anche la composizione di velocità e accelerazioni viene ridotta a questo caso generale. La ragione, che Kant non adduce esplicitamente ma che si può estrapolare dai suoi testi, è che a livello infinitesimale la stessa accelerazione aggiunge una velocità (dv) alla velocità iniziale. Che Kant adotti questo punto di vista verrà confermato da diversi luoghi della Dinamica e della Meccanica. 29 Kant mette insomma in discussione quella che oggi si chiama la somma vetto-

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vamente al primo caso, non è immediatamente evidente – dal punto di vista geometrico – che due velocità si lascino congiungere come due spazi, e che una velocità maggiore sia composta di velocità minori (come avviene nel caso analogo di uno spazio). L’evidenza manca perché le parti della velocità non sono «esterne le une alle altre», in quanto la velocità è una grandezza intensiva. Si deve dunque ricorrere a una costruzione «attraverso una composizione indiretta di due movimenti». Ma la composizione meccanica delle velocità non la realizza: infatti, per rappresentare l’addizione di due velocità lungo una stessa direzione in base a presupposti meccanici, deve venire presupposto che il corpo soggetto alla forza, mentre gli viene impressa una seconda velocità, si mantenga in movimento libero con la prima: «ma questa è una legge naturale delle forze motrici» (MA 494). La legge in questione è la legge d’inerzia (con ‘movimento libero’, nel lessico scientifico del tempo, si indicava appunto il movimento di un corpo non soggetto ad alcuna forza, cioè puramente inerziale). Dunque, sia che si consideri l’azione congiunta di due forze, sia che si consideri l’azione di una forza su un corpo in movimento, la composizione meccanica non coincide con la costruzione di un movimento in quanto identico a due movimenti congiunti in uno solo, bensì, presupponendo la possibilità di una composizione delle velocità, si riferisce piuttosto alla produzione di velocità in un corpo. La composizione dei movimenti, però, «deve solo rendere intuitivo che cosa sia l’oggetto (coriale delle velocità, sostenendo che essa non si risolve senz’altro in una semplice somma algebrica delle componenti rispetto a un asse arbitrario (come avverrebbe – lo suggerisce lo stesso Kant con il caso dei segmenti – per la somma algebrica di un vettore privo di significato fisico). Abbiamo ricordato che, nei Principia di Newton e in generale nella meccanica dei secc. XVII-XVIII, le velocità venivano rappresentate come segmenti, la cui lunghezza si intendeva proporzionale alla loro intensità. Va notato che tale rappresentazione si prestava a equivoci – la cui ombra non manca di investire alcuni luoghi degli stessi Principia newtoniani, per non parlare di Kant – poiché nel moto uniforme (e negli istanti dello stesso moto accelerato, per quanto riguarda la componente infinitesima del movimento) velocità e spazi percorsi sono proporzionali, e dunque il segmento può indicare sia l’una sia l’altro. Secondo WESTFALL, Force in Newton’s Physics, p. 153, il primo a impiegare senza ambiguità la rappresentazione delle velocità come segmenti, sarebbe stato Huygens.

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me quantum), non come esso possa venire prodotto mediante determinati strumenti e forze» (ibidem). Solo in merito al caso della sottrazione delle velocità, tuttavia, Kant chiarisce per la prima volta la ragione per cui la sua trattazione intuitiva deve precedere quella meccanica. In uno stesso spazio non è possibile rappresentare due movimenti uguali ed opposti di un corpo. Questa impossibilità, nel caso dell’azione congiunta di due velocità uguali, equivale all’impossibilità della costruzione della composizione di due movimenti opposti. Viceversa, procedendo senz’altro alla somma algebrica, come si fa in meccanica, si ottiene in questo caso la quiete del corpo. Quel che Kant vuole sostenere, in generale, è che la rappresentazione meccanica di una velocità non giustifica il procedimento aritmetico corrispondente e che in tal caso la composizione dei movimenti si può «senz’altro pensare», ma non «costruire». Solo la costruzione geometrica, mediante la distribuzione delle velocità tra i due correlati del movimento (corpo e spazio materiale), fornirebbe la giustificazione di quella somma algebrica con certezza intuitiva, e lo farebbe senza associare alla simultaneità dei due movimenti alcun presupposto dinamico, tantomeno una legge della meccanica come quella d’inerzia. In questo procedimento di costruzione, i movimenti non sono più, evidentemente, movimenti fisici, ma rappresentazioni pure. Proprio nella Nota alla Definizione 5, infatti, Kant introduce il concetto di movimento qui impiegato, identificandolo con il movimento come «descrizione di uno spazio». Mediante l’impiego di questo concetto di movimento come puro quantum, Kant può dire ora che «la F o r o n o m i a è dunque la dottrina pura della quantità (mathesis) dei movimenti» (MA 489) e ne può ricondurre il contenuto sotto la categoria della quantità: «Il concetto determinato di una grandezza è il concetto della produzione della rappresentazione di un oggetto mediante la composizione dell’omogeneo. Ma dato che niente è omogeneo al movimento se non il movimento stesso, la F o r o n o m i a è una dottrina della composizione dei movimenti di uno stesso punto secondo la loro direzione e velocità» (ibidem). Per chiarire in che senso la Foronomia sia una dottrina matematica è importante precisare il significato del quantum che ne costituisce l’oggetto, distinguendolo dalla quantità determinata, che 465

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è fondamentale per fisica matematica vera e propria. Il termine ‘quantum’ è impiegato da Kant per designare la coscienza di un molteplice omogeneo nell’intuizione, indipendente dalla stima della grandezza delle parti. La quantità (in senso matematico) è invece il risultato della determinazione intellettuale di unità di grandezza e della stima della grandezza di un intero mediante la sintesi di un molteplice di parti. Il quantum è continuo, e oltre al movimento ne sono esempi lo spazio e il tempo puri; la quantitas è discreta e viene introdotta con il numero. La geometria, in quanto si riferisce al quantum spaziale, è dunque primariamente una scienza comprensiva dei suoi fondamenti intuitivi e solo successivamente può risolversi in una geometria algebrica. Parallelamente andranno le cose per la fisica, dove il quantum di materia e di effetto di una forza vanno considerati prima della loro determinazione quantitativa. L’introduzione della quantità determinata e di eventuali regole per costruire le grandezze in maniera puramente simbolica caratterizza invece scienze matematiche come l’aritmetica e l’algebra, di cui si potranno e dovranno avvalere anche la geometria e la fisica. La foronomia, da questo punto di vista, asseconda una precedenza logica iscritta nelle stesse condizioni estetiche dell’intuizione. Il movimento trattato nella Foronomia, dunque, è un quantum, a cui potrà essere assegnata una quantità determinata. Ma questa determinazione, che qui non ha rilievo, sarà invece fondamentale in fisica matematica, anche nel caso in cui le quantità in gioco restino indeterminate e se ne trattino soltanto i rapporti per ottenere «soluzioni generalizzate» (cf. KU 177, cit. a p. 408). D’altra parte le quantità algebriche impiegate nei trattati di meccanica razionale per indicare le grandezze fisiche presuppongono il quantum come condizione della loro validità oggettiva30. 30 Su quantum e quantitas cf. KrV A 163/B 204ss., A 717/B 745, la lettera a Johann Schultz del 25 novembre 1788 (KgS X, 556) e le Refl. 5582 (KgS XVIII, 239) e 5846 (KgS XVIII, 368). Un altro aspetto della distinzione tra quantum e quantitas, fondamentale per la filosofia della matematica kantiana e mediatamente per la fisica pura, è la considerazione secondo cui la quantitas non conterrebbe più quel riferimento al tempo, contenuto invece nel quantum, su cui pure si fonda la sua possibilità. Su ciò si baserebbe la “scomparsa” dello schematismo temporale dalla «costruzione simbolica» dell’algebra, che astrae completamente dalla costituzione dell’oggetto, rispetto alla

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Esaminiamo in dettaglio le proprietà di questo concetto foronomico di movimento, velocità e direzione. A proposito della velocità, Kant precisa che la descrizione di uno spazio che la rappresenta è differente da quella geometrica, perché in essa non viene considerato soltanto lo spazio, ma anche il «tempo, dunque la velocità, in cui un punto descrive lo spazio»31. In un altro passo si legge poi che «in ogni movimento direzione e velocità sono i due momenti della trattazione, se si astrae da ogni altra proprietà del mobile» (corsivo mio). L’inciso conferma che la distinzione fra descrizione geometrica di uno spazio e movimento come puro quantum si fonda in ultima analisi sulla rappresentazione di un qualcosa che si muove. Senza presupporre la percezione del mobile la descrizione geometrica non si può distinguere dal movimento vero e proprio; una volta presupposto il mobile, lo scorrere del tempo può assumere il significato di una velocità posseduta da esso. Ma dobbiamo aggiungere che questi due elementi non bastano ancora a stabilire il concetto di movimento proprio della meccanica. Solo l’esistenza persistente del mobile permette di intendere che qualcosa possegga una velocità32. Il soggetto del movimento sarà la sostanza materiale, che possiede una forza motrice originaria e permane identica nel tempo. La dimensione temporale della fisica pura, fondamentale per la stessa individuazione della sostanza, si potrà mostrare pienamente solo quando saranno stati trattati entrambi i presupposti, quantitativo e qualitativo, della rappresentazione del mobile: cioè appunto nella «costruzione ostensiva o geometrica» che ne fonda la possibilità. Sempre per la stessa ragione, la geometria possiede assiomi, ricavandoli dall’intuizione pura, mentre si dimostrano proposizioni geometriche certe, che non sono assiomi perché non si fondano soltanto su un riferimento all’intuizione pura. Su quantum e quantitas si veda l’ineccepibile esposizione di FRIEDMAN, Kant and the Exact Sciences, pp. 106-108. 31 Per VUILLEMIN, Physique et métaphysique kantiennes, pp. 71-83, la stessa considerazione del tempo e dunque della velocità, in quanto si tratta di una quantità intensiva, distingue il movimento dalla semplice descrizione geometrica. 32 PLAASS, Kants Theorie der Naturwissenschaften, pp. 97-98, 100 sottolinea che soltanto la considerazione del mobile come esistente permette di distinguere anche tra velocità e accelerazione, che dal punto di vista puramente matematico non sono che due derivate successive dello spazio rispetto al tempo, in quanto la prima si conserva per l’inerzia del corpo e la seconda comporta l’azione di una forza.

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sezione intitolata Meccanica. La Foronomia può soltanto porre le basi per la costruzione del concetto di sostanza corporea. Analogamente, essa deve tener fuori la rappresentazione del moto accelerato, che pure viene inevitabilmente menzionata. La rappresentazione di un moto accelerato, come abbiamo visto, presuppone infatti la legge d’inerzia, perché la crescita della velocità presuppone che il corpo mantenga la velocità precedente (v2 = v1+∆v); ma la legge d’inerzia, in quanto legge della meccanica, presuppone a sua volta la rappresentazione di una sostanza materiale. Il rilevo della trattazione foronomica si potrà apprezzare allora solo quando, giungendo alla deduzione di proprietà come forza, sostanza e inerzia, Kant mostrerà il vantaggio di presupporre la pur scarna dottrina pura della composizione dei movimenti uniformi. Per quanto riguarda la direzione, ogni descrizione di uno spazio, anche solo geometrica, deve individuarne una. La Foronomia, però, «si occupa del solo movimento rettilineo»33. Kant cerca di argomentare questa tesi in base a considerazioni puramente geometriche. La direzione rettilinea renderebbe un movimento «identico in ogni sua parte», e conferirebbe ad esso lo statuto di concetto elementare rispetto a quello di un moto curvilineo (MA 488). In realtà, il cambiamento di direzione, se si considera la pura descrizione geometrica, determina solo differenze matematiche (la derivata della velocità è diversa da zero), che non impediscono la definizione foronomica dei movimenti curvilinei e rotatorii. L’affermazione secondo cui il cambiamento di direzione deve essere giustificato mediante una forza motrice presuppone dunque – sebbene implicitamente – la successiva dimostrazione delle legge d’inerzia34. 33 MA 495. Dal punto di vista dell’attuale terminologia cinematica, è utile sottolineare che il concetto di direzione racchiude per Kant anche la specificazione di un verso, per cui, quando parla di movimenti «in direzione opposta» si riferisce a movimenti lungo la stessa direzione e di verso opposto (Cf. EBERHARD, Erste Gründe der Naturlehre, § 44). Il movimento circolare, d’altra parte, possiede per Kant un «verso» (oggi si direbbe un orientamento), di cui Kant discute nella Nota 3 alla Definizione 2 (MA 483-484), con riferimento alla distinzione degli incongruenti (il concetto era stato ripreso, a sostegno delle tesi dell’Estetica, nei Prolegomena, § 13, KgS IV, 285ss.) 34 Naturalmente tutta l’impostazione della scienza kantiana sarebbe impensabile senza tenere conto dello sviluppo della fisica moderna, in cui il movimento circolare

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Tutte queste anticipazioni non costituiscono una difficoltà. La Foronomia pone le basi della rappresentazione pura del movimento e dello studio della sua composizione in base alla rappresentazione geometrica di congruenza, riportandole all’operazione trascendentale di sintesi del quantum. Solo in base a queste premesse di evidenza, secondo Kant, saranno possibili la Dinamica e la Meccanica, sia pure che empiriche.

7.3. Spazio puro e spazio assoluto: passaggio dalla geometria alla scienza del movimento La riflessione sul dato empirico (in questo caso il movimento) secondo le forme pure dell’intuizione fornisce un primo esempio concreto del procedimento che Kant aveva in mente quando introduceva il suo concetto di metafisica della natura corporea come scienza che indaga l’estensione a priori della conoscenza in quanto la si può ricavare in base a presupposti empirici determinati. Nel caso del movimento la schematizzazione geometrica, fondata sull’operazione di descrizione pura e sul concetto di congruenza, permette di passare dal movimento come cambiamento di luogo rispetto a un sistema di riferimento soggettivamente fissato nella percezione al movimento essenzialmente relativo dell’intuizione pura35. La relatività intrinseca stabilita con questo passaggio introduce il primo passo verso un’essenziale specificazione di quanto restava ancora non del tutto chiaro nell’ontologia della Critica, e cioè la relatività intrinseca dei concetti metafisici: un processo che smette di essere considerato come naturale (come avveniva ancora in Galilei). Bisogna tener fermo, tuttavia, che Kant prescinde da questo sviluppo storico per la sua giustificazione della precedenza del movimento rettilineo all’interno dei Principi metafisici, basata sulla sola semplicità matematica. 35 In base a quanto visto fin qui si potrà capire la conclusione di Kant, nella Nota 1 alla Definizione 1: «Per concludere osservo ancora una cosa: che, proprio perché la mobilità di un oggetto nello spazio non può essere riconosciuta senza l’insegnamento dell’esperienza, io non l’ho potuta includere nella Critica della ragion pura fra i concetti puri dell’intelletto, e che questo concetto, essendo empirico, può trovare posto soltanto in una scienza della natura in quanto metafisica applicata, la quale si occupa di un concetto empiricamente dato, benché secondo principi a priori» (MA 482).

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verrà sviluppandosi in particolare con il concetto di sostanza materiale introdotto con la Dinamica e con la Meccanica. Ma un esempio analogo e speculare è fornito dalla trattazione dei concetti di spazio. Domandandosi quale rapporto sussista fra i due spazi – puro e materiale – di cui si tratta nella Foronomia e lo spazio come forma pura dell’intuizione (e, considerato sinteticamente dall’intelletto, come intuizione formale36) della Critica, si ottiene un’illustrazione ulteriore della funzione svolta dal riferimento empirico per la stessa definizione concettuale del movimento e dunque un’ulteriore verifica di come mai il concetto di movimento presupponga una rappresentazione empirica (un punto, come si è visto, vivacemente discusso ancora dagli interpreti più recenti). Il movimento di un punto rappresentato nello spazio puro mediante l’immaginazione produttiva non è un vero e proprio movimento, ma la «descrizione di uno spazio». Questa può divenire rappresentazione di un movimento soltanto nel caso in cui la percezione permetta di distinguere tra un punto geometrico e il mobile che lo attraversa. In uno spazio puramente geometrico, infatti, sarebbe impossibile rappresentare un punto che si muove attraverso altri punti, in quanto il punto geometrico è definito dalla sola posizione: in luogo della rappresentazione di un movimento, dunque, si avrebbe la considerazione successiva di differenti punti geometrici. L’identificazione del mobile in quanto distinto dai diversi punti geometrici da esso attraversati richiede dunque la sua percezione, che poi, secondo le analisi della Dinamica, equivale alla sua proprietà di riempire lo spazio: «Il nostro intelletto sceglierebbe [...] il riempimento dello spazio per designare la sostanza nello spazio (cioè la materia), così come si pone in questo r i e m p i m e n t o – o, come si dice altrimenti, s o l i d i t à – la caratteristica della materia in quanto cosa distinta dallo spazio» (MA 509, cors. mio). Una volta individuato il mobile, bisogna fissare un riferimento percettivo per lo stesso punto dell’originario spazio geometrico rispetto a cui avviene il movimento, così che i due termini della relazione divengono entrambi dati empirici. Avviene così quello che è stato definito effica36 37

Cf. KrV B 137n.; B 160-161n. VUILLEMIN, Physique et métaphysique kantiennes, pp. 60ss.

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cemente uno «sdoppiamento dello spazio», innescato dall’intuizione empirica37. L’intuizione empirica introduce dunque la rappresentazione dello spazio materiale, che deve essere percepito e che si può considerare in movimento relativo rispetto al corpo. Nella costruzione del movimento, poi, sarà sempre possibile pensare uno spazio puro, che rimane come termine di riferimento possibile per il movimento dello stesso spazio relativo. Esso si definisce però solo in virtù di questa funzione di riferimento, mentre come oggetto potrebbe considerarsi nuovamente relativo, in quanto contenuto all’interno di uno spazio maggiore. Perciò si rivela essere un’idea puramente razionale, priva di validità oggettiva, e come tale non corrisponde più allo spazio puro della Critica38. Solo introducendo questa identificazione percettiva del mobile, e il conseguente, necessario sdoppiamento dello spazio, è possibile intendere le descrizioni nell’intuizione pura come movimenti: il che rende possibile la scienza pura del movimento di cui Kant vuole fornire i principi e che costituisce un presupposto della meccanica razionale. Il caso dello sdoppiamento dello spazio, dunque, fornisce un altro esempio – speculare a quello del movimento − di come Kant ricavi conoscenze a priori fondandosi su presupposti empirici: se nel caso del movimento veniva sancita l’intrinseca relatività del movimento, ora viene stabilita l’intrinseca relatività di ogni spazio fisico. In entrambi i casi, la rappresentazione del movimento nell’intuizione pura, mentre mostra la possibilità delle particolari costruzioni matematiche dei movimenti fisici, completa l’esplicazione dei concetti di spazio e movimento, determinando una modifica rispetto ai concetti corrispondenti che si trovavano nella filosofia trascendentale (o che vi verrano collocati, a posteriori, nella seconda edizione della Critica). 38 Un’approfondita analisi della necessità di un tale raddoppiamento dello spazio per la stessa rappresentazione del movimento viene sviluppata da CRAMER, Nicht-reine synthetische Urteile, pp. 89ss. Cramer riprende (o ritrova indipendentemente) l’idea fondamentale avanzata da Vuillemin (v. nota precedente) e cerca anche di sostenere la necessità del kantiano sdoppiamento dello spazio rispetto ai tentativi di fondazione della geometria che si servono, per stabilire il concetto di congruenza, del movimento di solidi geometrici nello spazio puro (vengono discussi Helmholtz, Riemann e Hilbert).

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Capitolo 8 La Dinamica

8.1. Dinamica e forza: premesse storiche del dinamismo kantiano La dinamica metafisica è quella parte della fisica pura che si occupa della materia in quanto riempie uno spazio: riconduce questa proprietà all’azione di forze originarie della materia e affronta successivamente il problema della distribuzione spaziale (continua o discreta) della materia stessa. Con questi problemi il pensiero kantiano si confronta fin dalle primissime prove giovanili, ereditando dalla filosofia leibniziana la questione del concetto metafisico della forza. Uno studio della Dinamica del 1786, dunque, deve tenere presente una doppia prospettiva: per un verso, allo scopo di comprendere premesse e originalità della dinamica pura kantiana, è opportuno considerare i rapporti tra metafisica e dinamica iscritti nell’orizzonte filosofico dell’epoca e il modo in cui il Kant precritico li recepisce; d’altra parte, resta da valutare il modo in cui Kant ripensa e riconnette sistematicamente pensieri sviluppati nei decenni precedenti per realizzare la Dinamica vera e propria, e dotarla di una compiuta base teorica. Questa sezione contiene uno sviluppo del primo di questi temi, di cui abbiamo già approfondito alcuni aspetti generali nei capitoli 2-4. Seguirà un’esposizione critica della Dinamica del 1786 (§§ 8.2-8.3).

A) Dynamica: fisica leibniziana e ricezione kantiana Per risalire alle premesse storiche dell’idea di dinamica si può partire dalla definizione con cui comincia la Dinamica del 1786. La 472

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materia viene qui considerata come ciò che «riempie uno spazio» (Definizione 1). Riempire uno spazio, afferma Kant, significa «opporre resistenza a ogni mobile che tenda con il suo movimento a penetrare in un determinato spazio» (MA 496). Dunque la materia – come Kant cercherà di dimostrare nel Teorema 1 – non riempie uno spazio mediante la propria esistenza, ma mediante una forza motrice originaria. Questo presupposto dinamico distingue il vero e proprio riempimento dello spazio dalla semplice estensione in senso geometrico, quale l’aveva definita Descartes, o dall’impenetrabilità intrinseca attribuita ai corpi da molti fisici del tempo, come Euler. Il discorso kantiano si rivolge dunque, prima di tutto, contro concetti di materia che negano la necessità di introdurre una forza per spiegare la resistenza alla penetrazione di altri corpi. L’opposizione a Descartes è enunciata esplicitamente, laddove Kant afferma che il semplice concetto di estensione non permette di spiegare l’effetto determinato dalla presenza di un corpo nello spazio, sia esso una repulsione, un’attrazione, o la semplice occupazione geometrica, la quale per definizione non designa che uno spazio senza materia: «‘riempire uno spazio’ – conclude Kant – è una determinazione più specifica del concetto di ‘occupare uno spazio’» (MA 197). Ma questa tesi antimeccanicista, insieme al concetto di una forza repulsiva originaria mediante cui un corpo si oppone alla penetrazione, affonda ben più profondamente nel passato del pensiero kantiano. Quando sostiene la tesi anticartesiana dell’insufficienza dell’estensione Kant è consapevole di richiamarsi – come la maggioranza dei metafisici tedeschi dell’epoca – alla dinamica di Leibniz. Lo stesso termine ‘dinamica’ era stato introdotto da Leibniz, che poneva proprio all’inizio del suo Specimen dynamicum (1695) il concetto di una forza primitiva, sostenendo che dagli stessi concetti della fisica meccanicista si potesse ricavare l’esigenza di un passaggio a principi metafisici1. La dinamica di Leibniz costituisce 1 Lo Specimen Dynamicum pro admirandis naturae legibus circa corporum vires et mutuas actiones detegendis, et ad suas causas revocandis, pubblicato negli «Acta eruditorum» dell’aprile 1695, è la fonte principale attraverso cui i contemporanei conobbero la dinamica matura di Leibniz. Di questo scritto, che contiene un’esposizione par-

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per molti aspetti il modello originario di quella kantiana. Il rapporto di Kant con essa è tuttavia mediato e al di là di alcune generali affinità la dinamica kantiana mantiene ben poco delle argomentazioni e dello spirito di quella leibniziana. Si è visto che è in primo luogo la dinamica di scuola wolffiana ad aver modificato l’originale leibniziano. Ma il dinamismo kantiano, in particolare, si sviluppa attraverso un dialogo altrettanto serrato con quello di scuola newtoniana. Il fondatore del «metodo di spiegazione dinamico», secondo quanto viene affermato in una lezione di fisica degli anni ’80, è Newton2. Il modo in cui Newton, mediante la matematica, ricava la validità oggettiva del concetto di forza costituisce agli occhi di Kant l’esempio di un procedimento che non si espone all’arbitrio ipotetico di una dinamica metafisica dogmatica. Forse questo giudizio è condizionato dal fatto che l’opera matematica leibniziana di argomento dinamico era all’epoca in gran parte inedita, mentre si conoscevano gli scritti sui fondamenti metafisici di tale scienza3. La fisica newtoniana, in ogni caso, costituisce il filziale e provvisoria, esiste una seconda parte che non venne pubblicata (Le citazioni di questo capitolo rimandano a GM VI, 234-254. Tengo presente anche l’edizione a cura di H.G. Dosch-G.W. Most-E. Rudolph, Specimen dynamicum, Hamburg 1982: testo latino con varianti e traduzione tedesca di entrambe le parti). Pochi mesi prima Leibniz aveva pubblicato, sulla stessa rivista, lo scritto De primae philosophiae emendatione, et de notione substantiae, in cui viene introdotta la nozione di sostanza che sta a fondamento della dinamica. Sulla dinamica leibniziana si vedano almeno: CASSIRER, Leibniz’ System, pp. 254-314; GUEROULT, Leibniz. Dynamique et métaphysique, Paris 1967 (1a ediz.: Dynamique et métaphysique leibniziennes, Paris 1934); WESTFALL, Force in Newton’s Physics, pp. 283-322; D. GARBER, Leibniz. Physics and Philosophy, in JOLLEY (ed.), The Cambridge Companion to Leibniz, pp. 270-352. Nell’impiegare il termine ‘dinamica’ Kant ricalcava di nuovo la terminologia di Lambert nella Anlage zur Architectonic, I, § 68, p. 53, dove essa viene definita come la «dottrina delle forze che intervengono nel movimento», che si occupa in particolare dei corpi in quanto la loro struttura «viene modificata mediante l’esercizio delle forze». Si tratta comunque di un’analogia solo terminologica: proprio Lambert viene criticato da Kant per il fatto di presupporre la solidità dei corpi come una proprietà fondamentale e non riconducibile all’azione di forze. 2 Danziger Physik, KgS XXIX, 106. 3 Il maggiore scritto dedicato da Leibniz all’esposizione della fisica è la Dynamica de potentia et legibus naturae corporeae, scritto durante un viaggio in Italia nel 168990 e rimasto inedito. Il testo fu pubblicato soltanto nelle Mathematische Schriften (GM VI, 281-514).

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tro mediante cui Kant recupera gli stessi concetti di una dinamica di origine leibniziana, giungendo alla definizione del concetto di forza della sua Dinamica. Kant, comunque, conosceva di prima mano lo Specimen dynamicum, di cui conviene riassumere gli aspetti generali4. Si tratta di uno scritto piuttosto breve, che contiene la presentazione delle idee fondamentali di una nuova disciplina, piuttosto che la sua vera e propria esposizione. Il testo si apre con una definizione dei due tipi di forza che si devono considerare inerenti alle sostanze: una vis activa e una vis passiva. Entrambe queste forze si possono considerare come forza «primitiva» e come forza «derivata». La forza primitiva corrisponde alle proprietà intrinseche della sostanza, la forza derivata corrisponde alla manifestazione fenomenica della precedente, la cui limitazione si esprime nel conflitto tra i corpi, e agendo «variamente», cioè per gradi, possiede un’espressione matematica corrispondente. La forza attiva primitiva è la forma sostanziale (che Leibniz identifica con l’entelechia aristotelica e con l’anima), la legge individuale della sostanza che stabilisce l’intera e infinita serie dei suoi stati. Benché sia necessario ammetterla, in quanto fondamento dell’attività originaria di ogni materia, Leibniz riconosce che tale nozione non basta alla conoscenza delle cause particolari dei fenomeni. La forza attiva derivata, che ne costituisce la manifestazione, si esprime fisicamente con la forza morta – corrispondente alla mera sollecitazione al moto e mai a un movimento vero e proprio – e con la forza viva, generata da «infinite impressioni continuate della forza morta», cioè dall’integrale delle sollecitazioni. La forza passiva primitiva (che Leibniz identifica con la materia prima aristotelica) dipende dalla distinzione essenziale tra le monadi e corrisponde alla resistenza di un corpo alla penetrazione, di conseguenza è il fondamento della «ripugnanza al moto» (l’inerzia) per cui un corpo viene spinto soltanto con una fra4 Gedanken § 1, KgS I, 17. In questo paragrafo Kant si riferisce direttamente alla proposizione dello Specimen che afferma la necessità di ammettere nei corpi qualcosa di ulteriore all’estensione e in generale parafrasa tutta la pagina leibniziana. Cf. Specimen, GM VI, 235 – da cui Kant approssimativamente cita – e 236, da cui trae il confronto tra entelechia aristotelica e leibniziana.

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zione della forza che gli viene impressa da un altro corpo. La forza passiva derivata esprime la misura di questa resistenza, e corrisponde a un concetto fisico-matematico di massa5. L’introduzione di questi concetti viene presentata da Leibniz come un tentativo di recuperare dottrine aristoteliche per esprimere i fondamenti metafisici di una filosofia meccanicista, rendendo quelle antiche idee finalmente adeguate a una trattazione scientifica. Per giustificare questo programma, il resto dello scritto si concentra su un riepilogo dell’argomento mediante cui Leibniz riteneva di aver confutato la stima cartesiana della forza (mv), sostituendola con la propria (mv2), corrispondente alla forza viva6. Dimostrare la 5 GM VI, pp. 236-237. Sul concetto leibniziano di massa si veda M. JAMMER, Concepts of Mass in Classical and Modern Physics (Cambridge Mass. 19611), Mineola N.Y. 19972 , pp. 76-80. Si vedrà come Kant rielabori radicalmente questi concetti, di cui pure il sistema dei suoi concetti dinamici mantiene la traccia. Volutamente non affronto la questione (non priva di difficoltà) delle espressioni matematiche corrispondenti ai concetti leibniziani: la dinamica leibniziana viene recepita da Kant nel linguaggio quasi del tutto privo di formule in cui sono scritte le opere con cui viene diffusa la dinamica leibniziana, e Kant affronta da capo la questione dello iato tra definizione metafisica e costruzione matematica dei concetti corrispondenti. In generale si può dire che le sole forze dotate di espressione matematica sono quelle derivate, in quanto l’espressione matematica, presupponendo spazio e tempo, appartiene al mondo dei fenomeni. La forza morta corrisponde per Leibniz all’«impeto» (mv), ma propriamente deve essere espressa nei termini di un impulso infinitamente piccolo («sollecitazione»: mdv/dt) il cui integrale è l’impeto. La forza viva, la cui espressione è mv2, viene considerata da Leibniz l’integrale (sullo spazio) della forza morta. Sulla derivazione dell’ espressione mv2 si veda GUEROULT, Leibniz. Dynamique et métaphysique, pp. 37ss., 112): quest’ultima, per Leibniz è l’unica grandezza corrispondente a un moto reale. Come è noto, mv era la stima cartesiana della forza (tout court): dietro la sistemazione matematica leibniziana si nasconde la celebre disputa sulle due stime della forza, che all’epoca dei kantiani Principi metafisici era ormai scemata. 6 Leibniz lo aveva esposto per la prima volta nella Brevis demonstratio erroris memorabilis Cartesii et aliorum circa legem naturalem, pubblicata sugli «Acta eruditorum» del marzo 1686 (GM VI, 117-119). Il contenuto dello scritto viene riprodotto nel Discours de métaphysique, § XVIII (GP IV, 442-444). L’argomento leibniziano si trova esposto ed esaminato in tutti i libri citati in precedenza. Si fa qui a meno di presentarlo, data l’irrilevanza della disputa in questione per il Kant degli anni ’80, dichiarata apertamente nei Principi metafisici (MA 539). Tra i numerosi riepiloghi della querelle sulle forze vive è particolarmente utile nel presente contesto quello di P. GRILLENZONI, Kant e la scienza, vol. I (1747-1755), Milano 1998, pp. 68ss., che presta particolare attenzione alle fonti kantiane giovanili.

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correttezza della nuova stima della forza, infatti, costituisce per Leibniz una verifica dell’esigenza di ammettere il suo concetto di vis viva. La stessa espressione matematica della vis viva sarebbe espressione del fatto che la forza non è una grandezza puramente geometrica. Su questo punto Leibniz si rivolge contro la fisica di Descartes, il quale, considerando il volume equivalente alla quantità di materia, aveva sostenuto che la definizione della forza come mv fosse legittimata geometricamente. La presenza del quadrato nella formula leibniziana segnala che nei mutamenti del mondo si conserva qualcosa di irriducibile alla pura forma geometrica, qualcosa di assoluto («forza viva assoluta») rispetto all’intrinseca relatività di ogni movimento: la rappresentazione geometrica della materia, tipica del meccanicismo, ha bisogno perciò di essere perfezionata7. Attraverso un percorso parallelo, che comincia molto presto nell’evoluzione del pensiero leibniziano e si definisce nel concetto di forza passiva, la pura estensione della materia cartesiana viene criticata attraverso il concetto di una resistenza dinamica. La dinamica kantiana dei Principi metafisici si ricollegherà piuttosto a questo concetto che alle speculazioni sulla vis viva assoluta. L’analisi matematica, d’altra parte, mostrando come il movimento di un corpo possa essere ricondotto a «conati» infinitesimali, riflette per Leibniz la verità metafisica di un’attività originaria e continua della sostanza. Il concetto logico-metafisico di sostanza, dunque, si trova in accordo tanto con l’esperienza (che sta alla base della stima della forza), quanto con la nuova matematica. Da entrambi questi punti di vista il movimento dei corpi si presenta come un fenomeno fondato in una realtà extrageometrica, la cui manifestazione mostra un collegamento tra lo stato presente di un corpo e quelli precedenti e successivi, espresso dalla quantità della forza viva e dal conato al movimento. In questa legalità fenomenica Leibniz ritrova lo stesso collegamento del molteplice successivo secondo un principio unitario che ha luogo nella coscienza delle anime: non è difficile riconoscere in un pensiero come questo un iniziale punto di 7 Questo punto è giustamente messo in rilievo da GUEROULT, Leibniz, pp. 46-49, 1567, che mostra come questo elemento «sopra-geometrico» condizioni l’interpretazione delle formule matematiche astratte.

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riferimento per l’itinerario di pensiero che porterà Kant – lasciando cadere il significato metafisico assegnato da Leibniz alla matematica degli infinitesimi – all’idea della sintesi trascendentale. Questi brevi cenni, comunque, forniscono già un esempio del modo in cui, nella dinamica di Leibniz, si intrecciano considerazioni di carattere metafisico, matematico ed empirico. Rispetto al pensiero critico kantiano, in cui si assiste a uno sforzo di discriminare i momenti eterogenei delle conoscenze e di costruire un’architettonica che ne stabilisca la gerarchia, nei diversi testi di Leibniz si ha piuttosto l’impressione che diversi campi del sapere formino una rete di corrispondenze, da cui emergono sempre nuove conferme di una data ipotesi metafisica, che non viene dunque sottoposta a un sistematico processo di legittimazione a priori come quello kantiano, dominato dal tentativo di isolare a margine le considerazioni empiriche. Così, logica e metafisica, geometria e analisi, persino la biologia, conducono indipendentemente a determinare e confermare il concetto leibniziano di sostanza. Questo gioco di specchi non deve tuttavia far pensare a un orientamento puramente dogmatico; al contrario, proprio l’apertura disciplinare delle ricerche corrisponde in Leibniz a una continua ricerca di conferme delle tesi metafisiche, attraverso la quale si assiste a mutamenti anche bruschi, spesso determinati proprio dall’esito di indagini di tipo fisico-matematico: è proprio questo il caso della dinamica e del concetto di sostanza del «nuovo sistema» leibniziano. Perciò è probabile che la confutazione della stima di Descartes rivestisse per Leibniz un’importanza enorme proprio perché essa sembra confermare indipendentemente dottrine metafisiche sostenute mediante altri ordini di argomentazione. La stima della forza costituisce un esempio del metodo generale seguito da Leibniz in fisica: il ragionamento procede in modo essenzialmente matematico ma – richiamandosi in questo caso all’analisi della caduta libera di Galilei – presuppone dati di fatto come le misure sperimentali. La fisica è perciò una scienza fondata su ragioni di fatto8. Nonostante questa radicale contingenza, che 8 Secondo Leibniz, infatti, la dinamica svolge una costruzione matematica di un concetto, la vis viva, che viene tratto dall’esperienza, e nel fare questo si basa su un

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peraltro distingue la fisica dalla pura geometria, la metafisica svolge un compito fondamentale: essa stabilisce le leggi che, unite alla considerazione fisico-matematica dell’estensione (cioè alle proprietà espresse dalle forze derivate), permettono di formulare i principi generali della meccanica. Per esempio la legge secondo cui nell’effetto non è contenuta né più né meno potenza che nella causa, «non derivando dalla nozione di massa, necessariamente si ricava da qualcos’altro insito nei corpi, ossia dalla forza stessa, che conserva sempre la medesima quantità». Analogamente Leibniz ritiene che le principali leggi della meccanica (legge di continuità dei mutamenti, legge di azione e reazione, legge di conservazione della forza) siano ricavabili in base a una combinazione di principi metafisici, radicati nel concetto di sostanza, e nozioni ricavate dall’esperienza9. La dinamica leibniziana, scienza a priori mista a esperienza, contiene già in nuce i problemi metodologici che Kant porrà in rilievo nella sua fisica pura, sostituendo allo slancio centrifugo del pensiero leibniziano la rigorosa cautela propria di un’epoca di maggiore sospetto nei confronti della metafisica. Ma i fenomeni leibniziani non sono che manifestazioni della sostanza, e la matematica, a sua volta, non fa che rispecchiare e descrivere la struttura della sostanza, senza la quale le equazioni della fisica rimarrebbero formule vuote. Nella rete argomentativa della dinamica, dunque, il concetto di sostanza costituisce il filo conduttore per interpretare i concetti matematici e, mediatamente, quelli fisici. Lo spazio e il tempo non sono niente di reale, bensì ordini della relazione tra le sostanze, per cui tutti i concetti subordinati a essi, come «principio metafisico», secondo cui «l’effetto totale è sempre uguale all’intera causa» (cf. Discours de métaphysique, § XVII, GP IV 442; Specimen dynamicum, GM VI, 241). In quanto fondata su queste premesse miste, la fisica – a differenza della logica e della matematica – fornisce conoscenze necessarie ma contingenti, fondate sul principio di ragione. Cf. GUEROULT, Leibniz. Dynamique et métaphysique, pp. 26-27, 159-160. In questa prospettiva storica, il problema della fisica pura kantiana sorgerà dall’assenza, nella filosofia critica, di un principio metafisico di ragione, come quello leibniziano, dotato di validità autonoma e indipendente dall’esperienza. Nei suoi scritti dinamici inediti, a dire il vero, Leibniz tenta di giustificare la sua stima della forza anche secondo un ragionamento puramente matematico. Un’analisi di questo tentativo, di cui Kant non seppe nulla, è qui superflua. Cf. ancora GUEROULT, Leibniz, pp. 110-154. 9 Specimen dynamicum, GM VI, 241.

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l’estensione e il movimento, appartengono alla sfera dei semplici «fenomeni ben fondati». La realtà alla base dei fenomeni, priva di determinazioni geometriche e fondamento dello spazio, è sempre la sostanza, attestata dinamicamente dall’attività ininterrotta della forza morta e dalla stima non geometrica della forza viva. Tuttavia, che movimento e forza siano proprietà di una sostanza semplice considerabile separamente – in contrasto con quanto richiede il concetto newtoniano di azione a distanza – e che in generale quest’ultima contenga il fondamento non fenomenico di tutte le sue manifestazioni, sono presupposti che Leibniz non sente il bisogno di indagare come tali, considerandoli corollari dei concetti logico-metafisici di sostanza e relazione: proprio in questo passaggio abbiamo rilevato il luogo di rottura tra criticismo e monadologia. Kant, fin dal suo primo scritto, recepisce la dinamica di Leibniz secondo una curvatura wolffiana e in generale attraverso mediazioni che non solo modificano in parte le tesi di Leibniz, ma soprattutto ne oscurano talvolta la genesi argomentativa. Questa sistemazione postuma della dinamica leibniziana, tuttavia, era forse inevitabile, per ragioni analoghe a quelle che hanno pregiudicato la diffusione della metafisica dello spazio. Il fatto che la maggior parte degli scritti di argomento dinamico rimanessero inediti, come nel caso di altre dottrine leibniziane, incoraggiava coloro che ne apprezzavano le tesi a elaborare congetture e integrazioni. Questa situazione, all’epoca della formazione di Kant, si complica con la diffusione della fisica newtoniana e con le dispute che ruotano intorno all’Accademia delle Scienze di Berlino durante la presidenza di Maupertuis. Negli anni delle principali opere precritiche di argomento dinamico (1747-56) il sincretismo dottrinale tra metafisica wolffiana e fisica di orientamento newtoniano ha raggiunto una complessità tale da impedire spesso di individuare fonti determinate e da rendere talvolta impercettibili, a livello concettuale, i più sottili slittamenti dottrinali. L’atteggiamento kantiano di conciliazione tra dinamica wolffiana e fisica newtoniana, in questa cornice storica, non è dunque inconsueto10. 10

Per esempio, già nei Gedanken (§§ 12, 51) Kant cita con favore la tesi del mate-

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Fin dagli scritti degli anni ’55-56, come abbiamo visto, il dinamismo kantiano appare orientato verso sviluppi radicalmente divergenti rispetto al modello leibniziano. La comunicazione tra le sostanze fisiche è stabilita da un influsso fisico associato all’azione della gravità newtoniana, mentre rimane a margine la questione delle sostanze spirituali e del fondamento comune di anime e corpi, per la quale l’armonia prestabilita non viene considerata più una soluzione accettabile. Le tesi della Monadologia physica vengono richiamate nelle opere kantiane degli anni ’60, ma il contatto con la dinamica leibniziana è oramai quasi nominale. Le riflessioni fisiche kantiane degli anni ’60 e ’70 privilegiano Newton e una scienza, come quella dell’epoca, sempre più newtoniana. Quando Kant, in questo periodo, riflette sull’ideale di un dinamismo integrale, lo fa sviluppando concetti non più leibniziani11. Il confronto con Leibniz avviene soprattutto in tema di metafisica, intorno ai concetti di sostanza e spazio. È dunque il ripensamento sistematico del pensiero leibniziano, piuttosto che un confronto diretto condotto sugli scritti di dinamica, a determinare la persistenza, nella dinamica kantiana, delle tracce del modello originario. Mutato, con la Critica, lo sfondo metafisico generale, del sistema dei concetti dinamici leibniziani si riconoscono i luoghi problemamatico G.E. HAMBERGER, autore degli Elementa physices methodo mathematica in usum auditorii conscripta, Jena 1727, secondo cui si darebbe una forza repulsiva originaria orientata in tutte le direzioni. In base a un tale concetto di forza sarebbe possibile spiegare l’origine del movimento dalla quiete, prendendo le distanze qui da Leibniz, il quale, seguito da Wolff, associa la forza viva al movimento effettivo. Questa essenziale revisione della dottrina leibniziana, con la sua ricerca di un passaggio non metafisico tra potenza e movimento attuale, si può considerare una delle fonti da cui Kant avrebbe potuto trarre ispirazione per sviluppare il concetto di forza repulsiva originaria. Ma un concetto di forza repulsiva era ipotizzato già da Newton, e lo stesso Hamberger, come matematico, accolse cautamente l’attrazione newtoniana (Elementa, § 44). A prescindere dall’individuazione di fonti dirette, dunque, si tratta piuttosto di capire come, orientandosi in questo orizzonte teorico, Kant intendesse di volta in volta i suoi concetti. 11 Abbiamo già ricordato che ADICKES, Kant als Naturfoscher, individua in alcuni testi degli anni ’60 un tentativo di «dinamismo integrale», caratterizzato dal tentativo di dedurre la materia della forze senza il concorso di concetti meccanici altrimenti consueto nelle Reflexionen kantiane (e incentrato sul concetto di etere). Si pensi per es. alla Refl. 3986, KgS XVII, 376-377, citata a p. 253.

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tici (come la connessione tra dinamica e categoria di qualità) e alcuni enunciati (come quello di una forza originaria), il cui senso diviene però diverso. Talvolta le distinzioni sono sottili, e retrospettivamente pare talvolta di cogliere in Leibniz idee non tanto diverse, benché enunciate in un linguaggio metafisico più disinvolto. Gli esempi sono molteplici, e in parte li abbiamo già incontrati. Si è accennato a come Kant sembri rielaborare nella nozione del soggetto trascendentale l’attività originaria della sostanza leibniziana, mentre l’anima rimane un pensiero privo di oggettività associato alla rappresentazione dell’io. Sul piano fisico, la forza sarà anche per Kant la sola causa dei movimenti fisici e la realtà che collega il puro movimento matematico alla sostanza. Scrive in proposito Leibniz: «Se il movimento [...] è qualcosa di reale deve avere un soggetto»12. Se il giovane Kant riprende in pieno questa dottrina13, essa viene riletta nella filosofia critica nei termini della possibilità dell’esperienza: la realtà è quella della percezione, e la sostanza può definirsi solo all’interno del mondo fenomenico. Ciò avverrà, di nuovo, lungo una via affine a quella tracciata da Leibniz, cioè considerando la legge che determina la successione degli stati nel fenomeno. Ma la determinazione di questa legge coinvolgerà la totalità dei corpi, secondo il modello della legge di gravitazione newtoniana. Ne risulterà infine che l’azione non si può più attribuire a una singola sostanza, ma si costruisce come «comune» a più corpi: esito inconcepibile sul piano metafisico leibniziano14. La definizione delle due forze fondamentali originarie e il colle12

Si tratta della già citata lettera a Ch. Huygens del 12/22 giugno 1694, GM II, p.

184. 13 Gedanken, § 3, dove Kant critica addirittura Leibniz per aver dedotto la forza dal movimento attuale, dunque dal fenomeno: insomma per il troppo empirismo. Si osservi in proposito che, sempre in quest’opera (§ XIII), i dati empirici vengono presentati come l’elemento in favore dei leibniziani dei rispetto ai cartesiani. Quando Kant, nei Principi metafisici, coglie nella percezione e nell’impenetrabilità le condizioni di possibilità del movimento, sullo sfondo del suo pensiero non ci sarà solo l’empirismo, ma anche Leibniz. 14 Ci si riferisce non soltanto alla trattazione della sostanza contenuta nei teoremi 1-2 della Meccanica (MA 537-543), che è basata sulla definizione di quest’ultima attraverso la sua quantità di movimento, ma in genere al complesso delle interazioni dinamiche che stabiliscono le posizioni del corpo nella successione temporale stessa.

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gamento di queste con concetti e leggi della meccanica danno luogo a un analogo slittamento di luoghi teorici leibniziani. In generale, Leibniz aveva definito la forza derivata come quella forza esercitata in diversi gradi «derivando, come per limitazione di quella primitiva, dal conflitto dei corpi tra loro»15. Su questo riferimento al fenomeno del conflitto tra i corpi – problematicamente connesso in Leibniz con l’autonomia metafisica della forza primitiva – si innesta tutto il dinamismo kantiano, che considera in esso la sola via d’accesso ai concetti dinamici16. Di conseguenza, la funzione della forza viva primitiva – il cui analogo in Kant è la vis activa della Monadologia physica – è destinata a svanire insieme al concetto di sostanza immateriale e nella fisica pura viene sostituita da quella della forza passiva primitiva, ricondotta anch’essa però al piano del conflitto fisico: la sostanza non è infatti mobile di per sé, ma esercita una forza in quanto è impenetrabile. Per bilanciare questa forza, Kant introduce una seconda forza fondamentale, quella attrattiva; in questo modo cercherà di spiegare il movimento di tutte le sostanze senza postulare principi immaterali, ma basandosi su una interazione tra le sostanze corporee stabilita come condizione di possibilità della loro stessa esperienza. Nello stesso tempo, Kant cerca così di giustificare all’interno della Dinamica la duplicità originaria della forza, che in Leibniz rimane problematicamente legata ai concetti aristotelici di forma e materia. In base alle due forze fondamentali, poi, verranno ricavate nella Meccanica la massa e le leggi della comunicazione del movimento. L’inerzia, che in Leibniz dipende dalla forza passiva, diviene invece un concetto non dinamico, corollario della passività meccanica della materia, cioè appunto la sua incapacità a determinare se stessa al movimento. Infine, l’origine del movimento e la massa divengono concetti indissolubilmente legati alla rappresentazione di un influsso reciproco, in cui le sostanze non sono più in alcun senso indipendenti dalle loro relazioni, ma si risolvono in esSpecimen, GM VI, 236. Sulla dottrina del conflitto delle realtà – o opposizione reale – e sul suo nesso con la metafisica della scienza del movimento si veda il confronto tra la posizione di Kant e quella di Leibniz istituito in GUEROULT, Leibniz, pp. 19ss. 15 16

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se. L’ironia di questa vicenda consiste, allora, nel fatto che l’itinerario della fisica pura condurrà Kant, nell’Opus postumum, a perfezionare il dissolvimento della stessa idea di una sostanza individuale separata, che aveva costituito il principio ispiratore della scienza chiamata dinamica.

B) Le definizioni della forza: dalla dinamica leibniziana al dinamismo newtoniano Il concetto di forza costituisce un esempio della stratificazione di influenze attraversata dal pensiero kantiano e del tentativo, realizzato nei Principi metafisici, di svolgere una sintesi originale e coerente di questo pulviscolo dottrinale, alla luce della Critica. Definire la forza, all’epoca di Kant, poteva significare enunciare il contenuto di un concetto, associato al principio di causalità, o esprimere una formula matematica. Raramente era chiara la distinzione tra queste due opzioni, e, al di là degli scienziati di primo piano, si giocava tra i termini di questa alternativa la confusione del linguaggio scientifico dell’epoca. Quando Wolff definisce la forza in generale «fonte (Quelle) del cambiamento» e la forza motrice dei corpi come «sforzo continuo di muovere», sta pensando ancora al concetto leibniziano di una causa immateriale e interna alla sostanza17. Quando un matematico come Kästner scrive che la forza è ciò che «si sforza di modificare la condizione di un corpo», o «che tende a produrre o impedire i movimenti», sta affinando i termini wolffiani per far posto alla fisica newtoniana e alla forza come modificazione dello stato inerziale18. Un tentativo del genere è anche quello svolto da Kant nel saggio sulle quantità negative, dove egli critica proprio la confusione di Grund e Ursache – ritrovandola in Crusius – per distinguere il fondamento logico di un giudizio dalla causa fisica di un cambiamento19. WOLFF, Vernünftige Gedanken von Gott, § 115; 624; WGW I, 2, pp. 60; 383. KÄSTNER, Anfangsgründe der angewandten Mathematik, IV p., I sez., pp. 15-16 e II p., I sez., p. 1. Cf. la definizione di EBERHARD, Erste Gründe der Naturlehre, § 40, p. 47: la forza è «ragion sufficiente di un mutamento». 19 Versuch, KgS II, 202-204 (la traduzione italiana, rendendo sia Grund sia Ursache con «causa» rende il discorso incomprensibile). La stessa distinzione viene riesposta con molta chiarezza in Über eine Entdeckung, KgS VIII, 226ss. 17 18

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Ma nei casi dei divulgatori, dei conoscitori di fisica dalla matematica meno solida, di molti metafisici wolffiani e per certi versi dello stesso Kant è difficile stabilire con certezza se e quando con simili definizioni si intenda una particolare espressione matematica, e in che misura si desideri evitare o meno implicazioni metafisiche. L’imbarazzo in proposito è reso in maniera efficace nella voce «Forza» del Physikalisches Wörterbuch di Gehler, che distingue una definizione generale da molteplici definizioni matematiche, esordendo così: «Forza [Kraft], vis, force. Un nome generale di tutto ciò che si sforza [strebt] di produrre o impedire un movimento»20. Fintanto che non viene definitivamente chiarito che il movimento rettilineo uniforme non richiede di essere conservato e dunque prodotto a ogni istante, ovvero, fintanto che la dinamica aristotelica non viene del tutto eliminata dal concetto di inerzia, la nozione di ‘produrre un movimento’ non può essere definita senza rischio di equivoco mediante una semplice definizione matematica della forza. Ma la definizione metafisica di scuola wolffiana, storicamente legata all’eredità di Leibniz, possiede al massimo grado questa ambiguità concettuale: il linguaggio metafisico, dal punto di vista della traduzione fisico-matematica, appare plastico se non addirittura neutro. Un esame delle definizioni adottate da Kant rivela una stessa situazione di fondo: e si vedrà che la Dinamica, che pure contiene un tentativo compiuto di mettere ordine tra le diverse definizioni di forza, non esce indenne dalle suddette ambiguità. La prima definizione di forza che compare all’interno del criticismo ne include il concetto tra i predicabili della metafisica, cioè tra i concetti ottenuti mediante la composizione delle categorie: forza è «causalità di una sostanza» (cf. pp. 284-285). Questa definizione, che Kant ricava dalla tradizione leibniziano-wolffiana, sta alla base di tutte le altre e non viene mai messa in discussione come tale. Tuttavia, come nel caso di altri predicabili, la validità generale della definizione metafisica non determina ancora il contenuto specifico che i concetti in essa inclusi devono assumere alla prova dell’esperienza. Così, la definizione metafisica non determina di per sé il genere di causalità esercitata dalla forza, né spiega 20

GEHLER, Physikalisches Wörterbuch, vol II. (1789), art. «Kraft», p. 796.

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come vada intesa la sostanza che vi starebbe a fondamento; infine, non dice nulla sul rapporto che lega la forza alla sostanza stessa. Proprio nella specificazione di questi momenti si consumerà il divario tra forza leibniziano-wolffiana e forza kantiana. La permanenza di questa definizione nel pensiero kantiano, tuttavia, testimonia una certa continuità con la dinamica leibniziana. Anche Leibniz, come si è visto, adotta una definizione metafisica di forza precedente la sua definizione matematica e la sua verifica empirica; né la determinazione a posteriori della forza esaurisce, per Leibniz, il contenuto puramente metafisico del concetto originario. Analogamente Wolff, irrigidendo questo atteggiamento leibniziano con una distinzione architettonica, definisce la forza in ontologia, e non considera le conferme e specificazioni a posteriori del concetto, presentate nella cosmologia e nella fisica, come determinazioni costitutive ed essenziali del concetto. Il semplice concetto di un’attività permette di riconoscere nell’esperienza la stessa forza che l’ontologia assegna alla sostanza. La via a priori e quella a posteriori sono concepite come modi alternativi di esposizione del sapere, non già come strategie per legittimare conoscenze radicalmente eterogenee. Kant, nonostante il suo diverso modo di vedere, considera la definizione metafisica dotata di una sua utilità, sia per la successiva applicazione, sia per la problematica del soprasensibile. Questo atteggiamento, che testimonia del valore assegnato da Kant al repertorio concettuale della metafisica wolffiana, comporta che un identico problema debba porsi tanto nella dinamica kantiana quanto in quella leibniziana. Si tratta infatti si verificare, al di là della semplice asseverazione riscontrabile nei testi, se la compresenza di una definizione logicometafisica con una sua specificazione matematico-empirica possa giustificarsi effettivamente attraverso un rapporto di applicazione, o se piuttosto la realizzazione del concetto di forza mediante il riferimento all’esperienza possibile, alla matematica, all’esperimento, non dia come risultato un concetto sostitutivo rispetto a quello precedente, come se questo non fosse il significato di una definizione nominale. Già in Leibniz il concetto aristotelico-scolastico di forza viene 486

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essenzialmente rielaborato, e non costituisce che un punto di partenza, di cui alcuni tratti vengono mantenuti accanto a determinazioni del tutto assenti nel contesto dottrinale originario (Leibniz è peraltro consapevole di attuare un’interpretazione libera, sostenendo però che il suo sarebbe in certa misura un tentativo di sviluppare pensieri già impliciti nella filosofia aristotelica). Rimane il dubbio, dal punto di vista dell’interprete, se la rielaborazione leibniziana non giunga a risultati che non è più ovvio associare alla definizione originaria: per esempio la sua stima della forza, dal punto di vista della meccanica razionale successiva (che vi individua una prefigurazione del concetto fisico-matematico di lavoro), non appare senz’altro associabile alla conservazione di un assoluto e tantomeno all’attività di una sostanza inestesa. In Kant, analogamente, la trasvalutazione della gravità newtoniana da ipotesi fisica a modello di una metafisica dell’influsso fisico dà occasione alla definizione metafisica di forza di mostrare la propria plasticità. Kant può mantenerne la lettera, accordandola con una dinamica nuova; ma nel processo di legittimazione del concetto il nesso tra forza e sostanza enunciato a priori nella definizione stessa rimane teoricamente inerte. Bisognerà giudicare in che misura la definizione ottenuta mediante la semplice composizione di categorie non risulti ridotta allora a una vuota forma logica. Per quanto riguarda la definizione matematica di forza esiste all’epoca di Kant ancora il disaccordo ereditato dalla scienza del XVII secolo. Questo nasce in primo luogo dal rilevo differente assegnato ai diversi fenomeni meccanici quali modelli esemplari per la definizione matematica. Il modello dell’urto incoraggiava i cartesiani a stimare la forza proporzionale a mv. Lo stesso modello “impulsionale” portava altri fisici, e talvolta lo stesso Newton, a definirla piuttosto proporzionale a ∆mv, cioè al cambiamento del moto considerato in termini discreti piuttosto che – come l’impulso della successiva sistemazione della meccanica – quale integrale di un cambiamento continuo (∫Fdt, dove F=ma). Il fenomeno della caduta dei gravi, d’altra parte, aveva portato Leibniz a stimare la forza in proporzione all’effetto (cioè allo spazio percorso dal corpo che vince una resistenza), ponendola proporzionale a mv2. La stessa legge della caduta dei gravi, parallelamente, ispirava la definizione di una forza accelera487

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trice (f∝dv), che nella meccanica newtoniana diverrà la definizione dominante. In essa verrà del tutto eliminata l’associazione tra forza e quantità di movimento − la galileiana «forza della percossa» analoga all’impulso cartesiano − e dunque la possibile sovrapposizione tra forza e moto uniforme21. L’alternativa tra le diverse definizioni corrispondeva implicitamente a una presa di posizione rispetto al concetto di materia. La definizione cartesiana, puramente geometrica, è considerata dai leibniziani metafisicamente inadeguata, perché incapace di rendere conto dell’attività del movimento e della resistenza dinamica della materia. La definizione leibniziana, a sua volta, concepisce la forza come una quantità associata all’attività di una sostanza, dove però ogni moto, anche quello uniforme, è considerato – aristotelicamente – espressione di un’attività. La definizione newtoniana – che definisce la forza proporzionale al cambiamento di velocità impressa – implica invece la rappresentazione di una causalità esterna al mobile. La scepsi metafisica tipica della fisica newtoniana, tuttavia, impedisce in definitiva di fare chiarezza sull’origine di questa azione. Le ipotesi, messe al bando, proliferano negli scholia. Ma queste difficoltà nel rapporto tra matematica e metafisica, che mettono in difficoltà i grandi fondatori della fisica moderna, divengono ancora meno controllabili in mano agli espositori e ai divulgatori del XVIII secolo. Anche in questo caso, in Germania, è sintomatico l’atteggiamento del dizionario di Gehler, che – dopo aver dichiarato inconoscibile la «natura della forza» – non scarta nessuna ipotesi matematica: la forza è stimata cartesianamente come mv, ma ad essa si affiancano la «forza acceleratrice» (f∝dv) e la «forza motrice» (f∝mdv)22. La distinzione tra le diverse voci di un dizionario non basta a spiegare l’imbarazzo teorico qui latente. 21 Sulle diverse definizioni di forza nella meccanica del XVII secolo, e sul loro significato fisico, l’opera fondamentale è WESTFALL, Force in Newton’s Physics, che si concentra sul lungo itinerario lungo cui Newton si confronta, senza risolverle pienamente, con le ambiguità concettuali della definizione di forza, rilevando e commentando le quattro alternative matematiche dominanti: f∝mv; f∝∆mv; f∝dv; f∝mdv/dt. Il bilancio sul rapporto di Newton con queste quattro misure si trova qui alle pp. 490-491. 22 GEHLER, Physikalisches Wörterbuch, II, «Kraft», pp. 796-807. L’autore, dopo aver apparentemente accolto la stima cartesiana, dapprima liquida la disputa sulle forze vi-

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Lo stesso imbarazzo si ritrova nelle riflessioni manoscritte kantiane dedicate alla forza23 e non viene superato nei Principi metafisici, dove Kant accoglie e impiega – sebbene implicitamente – la stima cartesiana della forza, pur ben consapevole dell’alternativa leibniziana, e accanto a questa adotta ora una definizione metafisica di stampo wolffiano, ora una definizione di ispirazione newtoniana, senza però accompagnarne l’uso con una formula matematica. In questa polisemia del concetto cardine del dinamismo, e nell’inconsuetudine all’uso di formule che aggrava il rischio di ambiguità nel suo impiego, Adickes individuava il caso esemplare dell’approssimazione con cui Kant maneggiava i concetti scientifici. Al di là dei limiti del Kant scienziato, la diversità delle definizioni da egli adottate, che nei Principi metafisici non viene messa in discussione, rende difficile comprendere alcuni ragionamenti della Dinamica e suscita talvolta il sospetto di una loro scorrettezza24. È opportuno dunque entrare nel dettaglio dei tentativi di definizione kantiani. Bisogna riconoscere che, di fronte alle alternative offerte dalla matematica dell’epoca, Kant non mostra mai di prendere una posizione netta. La rarità di formule matematiche spesso non permette di capire, nei suoi scritti, quale sia la definizione matematica sottintesa (o se ve ne sia una). Nella misura in cui si riesce a tradurre il linguaggio kantiano in formule, si riscontra però (con un certo stupore) che la stima dominante della forza motrice è ancora quella cartesiana: la forza motrice viene considerata proporzionale alla massa e alla velocità25. ve come «mera discussione verbale» (p. 806), infine si dichiara cautamente scettico sull’opportunità di parlare di forza per i corpi che comunicano il movimento con l’urto, e dunque dichiara la fisica ricavabile da forza motrice e inerzia (p. 807): Descartes pare sostituito in extremis con Newton. 23 Si veda per es. KgS XIV, 154ss. 24 La distinzione tra le diverse definizioni di forza, per esempio, si rivelerà fondamentale per apprezzare le difficoltà nella prova del Teorema 1 della Dinamica (§ 8.2 B). 25 MA 539-540: « [...] la materia non ha altra grandezza che quella consistente nell’insieme del molteplice delle sue parti reciprocamente esterne, e di conseguenza, data una certa velocità, non possede alcun grado di forza motrice che non dipenda da questo insieme». Cf. Reflexion 31, KgS XIV, 154.

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Questa circostanza, che avrà importanza in più luoghi del nostro esame, non è di per sé incompatibile con una definizione newtoniana, se solo si considera la velocità come una grandezza istantanea. Una definizione di ispirazione newtoniana, comunque, è la sola ad essere scandita esplicitamente nel testo dei Principi metafisici: la forza è «causa di un movimento» (MA 497). Nonostante, presa alla lettera, questa definizione suoni ambigua quanto quella wolffiana, è Kant stesso a precisarla, in seguito, chiarendo che si tratta di forza motrice come causa di un cambiamento nel movimento26. Il modo in cui, mediante questa definizione, viene provata nella Dinamica la necessità di una forza repulsiva originaria della materia deve condurre nelle intenzioni di Kant a un dinamismo privo di postulati metafisici nel senso leibniziano del termine. Si tratta in effetti di una definizione che, pur modellata su quella della metafisica wolffiana, sembra piuttosto influenzata dalla definizione newtoniana della vis impressa: «la forza impressa», scrive Newton nei Principia mathematica, «è l’azione esercitata su un corpo per cambiare il suo stato di quiete o movimento rettilineo uniforme»27. Ma anche a proposito dell’analogia con la forza newtoniana occorre, prima di passare a un esame del testo, svolgere dei chiarimenti preliminari. Anche in Newton, infatti, sebbene in maniera meno lampante, sussiste uno iato tra metafisica e fisica, che determina una frattura interna al concetto di forza. Le oscillazioni di Kant, su questo punto, sembrano atteggiamenti coerenti di un commentatore di Newton28. Newton, infatti, pone all’inizio dei Principia mathematica ben cinque definizioni di forza: la prima (appena 26 Ibidem: «La resistenza al movimento è la causa della diminuzione del movimento o della sua trasformazione in quiete». Cf. MA 557 per il caso opposto della produzione del movimento. 27 Principia, Definizione IV, p. 41. 28 Le diverse definizioni newtoniane sono le stesse riprese poi da Gehler – che però le associa come si è visto a diversi concetti di forza − e che Kant, nel suo discorso, pare talvolta non distinguere. Dunque, piuttosto che ignorare la precisione del linguaggio matematico – come sostiene Adickes – Kant sta forse semplicemente presupponendo questo complesso teorico, che già pochi decenni dopo sarebbe apparso pieno di definizioni inutili.

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citata), quella di vis impressa, sembra essere la più generale ed esprimere la mera infrazione dell’inerzia. Essa tuttavia, deve essere di volta in volta specificata, in modo tale da essere applicata allo studio matematico dei fenomeni. Si ha così, in primo luogo, la definizione di forza centripeta (Definizione 5): «La forza centripeta è la forza mediante cui i corpi sono attirati da ogni lato, sono costretti o in qualsiasi modo tendono verso un punto come verso un centro» (ibidem). Viene introdotto con ciò il concetto dominante nella dinamica newtoniana, quello del centro di propagazione della forza, che si ritroverà nella Dinamica metafisica kantiana. Ma lo studio matematico dei movimenti richiede che vengano definite altre tre quantità: 1) quantità assoluta della forza centripeta (Definizione 6), definita come «la misura di questa forza che è maggiore o minore in proporzione all’efficacia della causa che la diffonde da un centro attraverso le regioni circostanti». 2) quantità accelerativa della forza centripeta (Definizione 7), definita come «la misura di questa forza che è proporzionale alla velocità che genera in un dato tempo» [fa∝dv/dt]. 3) quantità motrice della forza centripeta (Definizione 8), definita come «la misura di questa forza che è proporzionale al movimento che genera in un dato tempo» [fm∝dmv/dt].

Queste ultime due rappresentano l’una la componente puramente foronomica, l’altra la componente dinamica della forza che si esprime nella seconda legge del moto. La distinzione tra queste diverse misure e la definizione generale di forza, che anche Newton dunque distingue dalla sua traduzione matematica, dipende dalla struttura argomentativa dei Principia: nello studio dei moti fisici si dovrà cominciare dalle accelerazioni e solo mediatamente si otterrà un metodo per stimare le masse. Questo scarto metodologico trova un’analogia nella fisica pura kantiana, dove la forza della Dinamica è inizialmente un concetto puramente foronomico, da cui deve essere ricavata poi la quantità di materia della Meccanica. Rimane però, tra la definizione generale e le misure impiegate dal fisico, la definizione di quantità assoluta della forza, che contiene un esplicito riferimento alla causa. 491

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La quantità assoluta della forza si riferisce precisamente alla causa della forza localizzata nel centro della sfera di propagazione. Essa, tuttavia, resta per Newton una definizione problematica, nella misura in cui evoca rappresentazioni che la fisica puramente matematica non può giustificare. La definizione puramente matematica, infatti, attraverso lo studio dei fenomeni viene ad assumere nei Principia un significato fisico con la gravità, in quanto forza attrattiva esercitata a distanza tra i corpi; ma Newton, rimandando ai margini della fisica una spiegazione della sua proporzionalità alla quantità di materia, astrae del tutto da una spiegazione del modo d’agire della gravità e del significato extramatematico del centro di forza29. Al di là del fatto che questa distinzione è proprio il risultato dell’originale metodo scientifico newtoniano, resta significativo che Newton ritenga necessario spiegare ulteriormente l’azione della forza: un problema per la cui risoluzione egli auspica ulteriori ricerche sperimentali30, ma che è associato fin dall’inizio anche a un pensiero autenticamente metafisico, di cui – come abbiamo visto – si trova traccia nei Principia attraverso la discussione sull’onnipresenza di Dio. Questa situazione di iato tra metafisica e fisica matematica, con cui Kant cerca di fare i conti, lascia il segno presso i fisici newtoniani del XVIII secolo. Anche Euler, che pure radicalizza l’impostazione matematica di Newton (canonizzando, fra l’altro, la formula F=ma), condivide un concetto non puramente matematico di forza. Egli però – in ciò probabile obiettivo delle critiche kantiane – lo considera un dato empirico: la forza si fonda sull’impenetrabilità della materia, considerata a sua volta come una proprietà assoluta e incondizionata31. La stessa gravità, dunque, viene attribuita da Euler all’azione di un etere meccanico. Ma le ricerche su una descrizione matematica dell’azione di questo etere occupano in genere un ruolo secondario nella meccanica dell’epoca, e si comincia a costituire un’impoPrincipia, Definizione VIII, pp. 45-46; Lib. I, sez. XI, pp. 266-267. Ivi, Lib. I, sez. XI, Scolio, p. 298; Scolio generale, pp. 764-765. 31 Si veda in particolare EULER, Recherches sur l’origine des forces, in part. §§ 1121 (EOO s. II, 5, pp. 112-117) ; Lettres, lett. LXXVII (EOO s. III, 11, pp. 166-168). 29 30

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stazione “pragmatica” destinata a consolidarsi presso i fisici matematici successivi. Secondo D’Alembert, per es., la sola cosa che si conosce in meccanica è il movimento, e a partire da esso, come effetto, ci si formano mediante la matematica delle nozioni distinte di forza; ogni altra spiegazione resta estrinseca rispetto alla teoria, poiché in effetti non ci sono altri elementi per conoscere le cause. In base a analoghe considerazioni si diffonde, soprattutto in Francia, la tesi secondo cui il luogo precedentemente occupato dalla spiegazione metafisica può essere occupato da ipotesi meccaniche, ma anche anche restare vuoto, all’insegna di un momento di pensiero più o meno consapevolmente scettico32. Si può considerare come un’altra ricaduta della frattura interna alla fisica di Newton il fatto che molti suoi allievi e seguaci assunsero fin dall’inizio un orientamento radicalmente dinamistico. Newton aveva sostenuto la necessità che un mezzo, materiale o immateriale, stesse a fondamento dell’azione a distanza della gravità, e fosse distinto dai corpi immersi in esso, creati da Dio33. Fisici newtoniani come Roger Cotes, John Keill e Gowin Knight sostennero in diverse versioni l’ipotesi che la stessa materia possedesse essenzialmente due forze, una attrattiva (corrispondente alla gra32 Cf. J.-B. D’ALEMBERT, Essai sur les Éléments de Philosophie, Amsterdam 1759; cito dall’ediz. a cura di C. Kintzler, Paris 1986 (sulla base di 17734 ), pp. 133-137, cf. p. 30 (sulle definizioni in genere). Si veda in proposito CASSIRER, Das Erkenntnisproblem, vol. II, in CGW 3, pp. 354-360. Un’efficace ricostruzione storica di questa situazione, a un secolo di distanza, si trova nei libri di Mach e Duhem, che condividevano in modi diversi la distinzione tra teoria fisica e ipotesi esplicative, in part. meccaniche. Si vedano E. MACH, Die Mechanik in ihrer Entwicklung historisch-kritisch dargestellt (18831), Leipzig 19339, rist. Darmstadt 1963, pp. 457-471 (Die Ökonomie der Wissenschaft) e 472-482 (Beziehungen der Mechanik zur Physik); P. DUHEM, La théorie physique. Son objet – sa structure (1906; 19142), rist. Paris 1981, in part. pp. 3-29, 99154 (sui modelli meccanici). 33 La tesi della necessità di un mezzo immateriale è espressa per la prima volta, a proposito dell’azione a distanza, nella celebre lettera a R. Bentley del 25-2-1692, pubblicata per la prima volta nel 1756, ora in Isaac Newton’s Papers & Letters on Natural Philosophy, a cura di I.B. Cohen, Cambridge Mass. 1978, p. 302: «È inconcepibile che la materia bruta e inanimata, senza la mediazione di qualcosa d’altro che non sia materiale, possa operare e produrre effetti su altra materia senza mutuo contatto». Le particelle assolutamente dure create da Dio sono presentate nel celebre passo della Query 31, Opticks, p. 400. Per le prime discussioni sui “poteri” della materia v. pp. 292-297.

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vità), l’altra repulsiva34. Simili tesi, che sviluppano ipotesi avanzate dallo stesso Newton, non venivano sostenute soltanto per porre un’ontologia o metafisica alla base della fisica newtoniana, ma anche sullo sfondo di un programma di unificazione scientifica di fisica e chimica, che richiedeva secondo gli autori in questione la rappresentazione di un’attività della materia sottesa alla sua stessa rappresentazione meccanica. Queste idee dunque si diffondono anche nel continente, giungendo fino ai manuali di fisica adottati da Kant. In Germania, dove è ancora più radicato il meccanicismo, il concetto stesso di gravità è ancora molto discusso: accolto in diversi modi attraverso gli influenti testi dei newtoniani olandesi, rifiutato autorevolmente da Euler, serpeggiante, come abbiamo visto, nel dibattito metafisico sull’influsso35. In campo wolffiano, nella 34 La concezione di due forze originarie della materia, una attrattiva e una repulsiva, era stata ipotizzata già da Newton (per es. Principia, Prefazione dell’autore, p. 16). Sul dinamismo newtoniano del XVII sec. si vedano M. JAMMER, Concepts of Force. A Study in the Foundations of Dynamics, New York 1957, pp. 147-187, 200-211; THACKRAY, Atoms and Powers. Cf. M. CARRIER, Kants Theorie der Materie und ihre Wirkung auf die Zeitgenössige Chemie, in part. pp. 175ss. Sulla persistenza del dinamismo nella fisica del XIX secolo si veda per es.: L.P. WILLIAMS, ‘Naturphilosophie’ and Scientific Method, in Foundations of Scientific Method: the Nineteenth Century, ed. by R.N. GIERER.S. WESTFALL, Bloomington 1973, pp. 3-22; HARMAN, Metaphysics and Natural Philosophy. In particolare sul’opera di Kant come termine di collegamento tra questo dinamismo e la filosofia tedesca successiva si vedano per es. W. BONSIEPEN, Die Begründung einer Naturphilosophie bei Kant, Schelling, Fries und Hegel, Hamburg 1996 (utile per l’ampia bibliografia); P.M. HEIMANN, Helmholtz and Kant: the Metaphysical Foundations of Über die Erhaltung der Kraft, in «Studies in History and Philosophy of Science», 5 (1974), 205-238. Una diversa stagione dinamistica si ebbe con le ricerche sulle teorie del campo post-relativistiche. Per un resoconto dell’epoca sulle fonti settecentesche del dinamismo si veda M. SCHLICK, Naturphilosophie, in Lehrbuch der Philosophie. Die Philosophie in ihren Einzelgebieten, hrsg. M. Dessoir, Berlin 1925, II, pp. 410-412. Molte intuizioni interessanti si trovano nella sintesi di H. WEYL, Philosophy of Mathematics and Natural Science, Princeton 1949, pp. 168-180 (ediz. rivista e ampliata di Philosophie der Mathematik und der Naturwissenschaften, München 1927). 35 Il dibattito tra «impulsionisti» e «attrazionisti» è ripercorso in EULER, Lettres, lett. LIV, LVIII (EOO s. III, 11, pp. 120-122, 147-149). Euler scrive che Newton avrebbe inclinato decisamente in favore dell’attrazione essenziale e che «oggigiorno tutti gli inglesi sono ferventi attrazionisti». Nelle lettere immediatamente successive presenta la sua critica all’attrazione essenziale come «qualità occulta» e la tesi dell’origine delle forze nell’impenetrabilità. Tra i fisici newtoniani continentali che accolgono la legge di Newton è diffusa in genere un’oscillazione tra spiegazioni meccanicistiche (soste-

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prima metà del secolo, è presente una diversa dinamica metafisica, in cui si danno forze originarie, ma la gravità è rifiutata con severità secondo l’impostazione leibniziana36. Analoga, su questo punto, è la posizione di Crusius37. I segni di un dibattito ancora aperto sull’attrazione originaria – in cui interviene Kant – si trovano sullo stesso manuale di Erxleben, che nella terza edizione (1784) contiene una pungente sconfessione delle tesi attrazioniste dell’autore, scritta dal curatore Lichtenberg38. Alla fine del secolo nute da Leibniz e Wolff, riprese da Euler, riproposte con grande successo alla fine del secolo da Le Sage) e l’ammissione di forze originarie agenti a distanza in base all’onnipotenza divina (si veda in proposito LIND, Physik im Lehrbuch, pp. 158-161): così ’sGravesande, nei Physices elementa, considera l’azione a distanza un effetto, le cui cause – forze meccaniche – sono sconosciute; Musschenbroeck le considera cause, il cui contenuto è determinato però solo «mediante i loro effetti», riprendendo quello che ormai è un luogo comune: la tesi della pari incomprensibilità di un fondamento ulteriore dello stesso impulso (Grundlehren der Naturwissenschaft, p. 249). Ma lascia poi libero corso all’ipotesi su un’origine divina delle forze (ivi, p. 247). 36 Per es. HAMBERGER, Elementa physices, § 44, nega che la gravità sia una causa, considerandola mera descrizione dei fenomeni, ma non si pronuncia sulla questione del suo fondamento, rimandandola alla metafisica. 37 Nonostante solidarizzasse con i newtoniani per la polemica contro Wolff, Crusius polemizza contro chi neghi la classica distinzione tra matematica applicata e fisica (o filosofia naturale): «Si portano i concetti solo immaginati della matematica nella filosofia, e li si pone come cose reali. Si confondono le forze metafisiche, che sono concetti generali, con le forze fondamentali delle cause fisiche, che si devono trattare nella filosofia». Nominando direttamente i seguaci di Newton, egli afferma poi l’impossibilità dell’attrazione in senso fisico, in base alla premessa (di impostazione leibniziana) secondo cui una forza deve trovare il proprio fondamento nel soggetto agente: infatti l’attrazione è modificata dall’avvicinamento degli altri corpi e comporta che l’azione avvenga là dove il soggetto non si trova. CRUSIUS, Anleitung über natürliche Begebenheiten: Vorrede [s.n.]; § 183, pp. 387-390. Cf. § 40. 38 Si veda lunga nota di Lichtenberg con la critica della tesi, accolta da Erxleben, secondo cui l’attrazione sarebbe una forza fondamentale (in ERXLEBEN, Anfangsgründe, § 113 e Nota, pp. 80-83). Si vedano anche le annotazioni di Lichtenberg alla sua copia della 4ª ediz. (1787), ora in G.Ch. LICHTENBERG, Gesammelte Schriften, I, Göttingen 2005, pp. 122-129. Lichtenberg riprende un luogo comune tra i critici di inizio secolo e ironizza sull’attrazione originaria chiamandola Sehnsucht. Nelle note private sottolinea la sua adesione a favore di una spiegazione meccanicistica, difendendo finanche la schweremachende Materie di Wolff, e citando con trasporto il Lucrèce Newtonien di Le Sage (comparso nel 1782). Secondo W. STARK, Nachforschungen zu Briefen und Handschriften Immanuel Kants, Berlin 1993, p. 328, Kant avrebbe posseduto anche l’edizione rivista da Lichtenberg, contrariamente a quanto sostenuto da WARDA, Im-

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il dinamismo integrale è sempre meno diffuso tra i fisici, e in opposizione alla tesi dell’attrazione originaria campeggia e domina soprattutto un rinnovato punto di vista atomistico39. Dal contesto appena tratteggiato è possibile spiegarsi in primo luogo come mai nello stesso sviluppo delle conoscenze empiriche Kant potesse trovare un incoraggiamento a mantenere una definizione non matematica di forza. Egli era particolarmente interessato alle ricerche scientifiche di chimica e di biologia. Negli anni ’80, dunque, molti suoi scritti si occupano di un concetto generalizzato di forza non tanto, o non solo, a causa di una impostazione metafisica, ma piuttosto per rendere conto dell’uso scientifico di questo concetto in settori diversi come fisica, biologia e psicologia, cioè precisamente in quelle dottrine della natura in cui la matematica non viene impiegata e forse non lo sarà mai. Il dinamismo kantiano, tuttavia, non potrà essere assimilato al dinamismo integrale dei newtoniani britannici, di cui pure Kant conosce e apprezza precocemente le idee. In primo luogo, Kant cerca di provare la necessità di ammettere due forze fondamentali «mediante la matematica» con un suo procedimento originale, cioè ricavando le forze da una proprietà empirica della materia, l’impenetrabilità, che viene ricondotta a un conflitto dinamico rappresentabile in base all’intuizione pura. D’altra parte le forze fondamentali kantiane non sono ancora concetti della fisica matematica, bensì costituiscono concetti generali che vanno specificati empiricamente: la forza attrattiva originaria non è identica alla gravità, ma ne costituisce il «fondamento»; perciò non si può ricavare a priori manuel Kants Bücher, p. 34. In ogni caso l’intervento di Lichtenberg si presta ad essere collegato con le stroncature della Dinamica kantiana che provennero dall’ambiente di Göttingen (v. cap. 3, nota 122). 39 Esemplare di un punto di vista destinato a divenire dominante in fisica il giudizio di J.C. SCHWAB, Prüfung der kantischen Begriffe von der Undurchdringlichkeit, der Anziehung und der Zurückstoßung der Körper, pp. 32-33. Secondo Schwab, l’autentica fisica newtoniana sarebbe stata quella atomistica, e interpreti fedeli di essa i fisici come Laplace, Le Sage e in Germania – almeno per quanto riguarda la gravitazione – Leibniz, Bernoulli, Euler, Bilfinger. Il dinamismo sostenuto da fisici come Cotes, Keill e Maupertuis, prima di quello kantiano, avrebbe costituito invece un tradimento dello spirito newtoniano.

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una legge della gravità. Un discorso analogo, ma maggiormente problematico, si pone per la spiegazione dinamica di fenomeni come la coesione e la rigidità dei corpi. Da queste premesse, che andranno esaminate a fondo, derivano due aspetti fondamentali della natura dinamica pura kantiana: il primo è una sua certa aporeticità rispetto alla fisica, ovvero la difficoltà, nella cornice dei Principi metafisici, di provare che la stessa fisica presuppone in concreto un dinamismo quale quello la cui necessità viene argomentata metafisicamente; il secondo, legato al precedente, è la compresenza, nelle considerazioni fisiche kantiane, di rappresentazioni meccaniche (come l’etere) accanto a concetti dinamici. Quest’ultima caratteristica costituisce un problema della dinamica kantiana del 1786, analogo ma diverso rispetto a quello che doveva affrontare anche la dinamica di Leibniz, che lo risolveva ponendo i concetti dinamici sul piano metafisico, e conservando la rappresentazione meccanica del mondo fisico (la compresenza di forze e etere era poi in genere diffusa nella fisica newtoniana, dove però non si poneva il problema di giustificare un piano dinamico-metafisico distinto da quello meccanico)40. Questo problema rimarrà invece aperto per Kant e tormenterà le ricerche kantiane fino all’Opus postumum, senza venire mai pienamente superato. La Dinamica costituisce l’ultimo e più articolato tentativo kantiano, affidato alla stampa, di conciliare in una cornice rigorosa tutte le diverse questioni associate al concetto di forza che abbiamo fin qui passato in rassegna, oltre che quelle che si ponevano specificamente nell’ambito del suo sistema. L’aspetto più originale e degno di attenzione di questa ampia sezione – che di per sé occupa circa metà del libro − consiste nel tentativo di attribuire un ruolo preciso ai diversi momenti – puramente logico, matematico ed empirico-percettivo – che nelle teorie fisiche del tempo sono compresenti nelle più diverse e talvolta sfuggenti miscele, e la cui legittimazione viene spesso elusa mediante espedienti retorici come 40 L’importanza dell’etere nella fisica leibniziana è particolarmente evidente nel Tentamen de motuum coelestium causis (1689), in GM VI, pp. 144-192. Qui Leibniz tenta di elaborare una teoria dei moti planetari alternativa alla teoria newtoniana e fondata, come quella cartesiana, sull’azione trascinante dell’etere.

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il rimando a ulteriori ricerche o l’invocazione dei limiti della conoscenza umana. Ne risulta un dinamismo metafisico che pretende di essere distinto da ogni ipotesi fisica, pur fondandosi in parte sull’esperienza, e che sintetizza in modo originale motivi newtoniani e leibniziani. Data l’importanza di questa teoria nell’economia della fisica pura, e dunque di tutta la filosofia della natura, non stupisce che Kant ritornasse in seguito su alcuni concetti e su alcuni passaggi che – come stiamo per mostrare, e come in alcuni casi Kant stesso riconobbe – vanno incontro a difficoltà intrinseche. Le aporie di questo dinamismo, infatti, lo sospinsero, già all’interno dello stesso testo del 1786, a ricorrere al sostegno di ipotesi fisiche ausiliarie, e dovettero apparire particolarmente gravi dal momento in cui egli si dovette preoccupare di reagire alle molte critiche rivolte a questa sezione dell’opera dai suoi recensori. Infine le stesse aporie ebbero certo a che fare con il tentativo di rielaborazione filosofica del dinamismo nell’Opus postumum, i cui concetti elementari sono gli stessi che Kant lascia a margine della parte dimostrativa del testo, nella Nota generale alla Dinamica.

8.2. Le forze fondamentali della materia e il concetto di sostanza fisica A) La forza repulsiva originaria e la materia del meccanicismo «La materia non riempie uno spazio mediante la sua sola e s i s t e n z a, ma mediante una p a r t i c o l a r e f o r z a m o t r i c e», afferma il Teorema 1 della Dinamica. È significativo che l’enunciato contenga, oltre all’affermazione della sua tesi, la negazione di quella contraria. Kant è consapevole, infatti, che la sua pretesa, sebbene non del tutto originale, va contro l’opinione comune della maggioranza dei fisici e filosofi del tempo. Nella Nota 1, la dimostrazione viene rivolta contro «Lambert e altri», sostenitori della «solidità» come proprietà originaria della materia. In effetti il riferimento si adatta bene a numerossimi altri autori, da Locke ai «matematici» cui Kant si rivolge dopo qualche riga41. 41 LAMBERT esprime questo pensiero già nel Neues Organon, Alethiologie, §§ 19, 93-

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La prima obiezione posta da Kant è che l’impenetrabilità non potrebbe essere considerata una proprietà contenuta analiticamente nel concetto stesso di un corpo: «secondo la loro concezione, la presenza di qualcosa di reale nello spazio dovrebbe comportare questa resistenza già per il suo concetto, cioè secondo il principio di contraddizione, facendo sì che nient’altro possa trovarsi nello stesso tempo nello spazio in cui questa cosa è presente» (MA 497-8). Con questa tesi Kant scioglie la rigidità analitica che caratterizzava le sue passate definizioni di materia, solitamente articolate nei due predicati di estensione e impenetrabilità. Ne risulterà la subordinazione dell’estensione stessa alla qualità per cui la materia occupa lo spazio. Ma per valutare il significato dell’obiezione kantiana e le sue pretese di universalità è utile accennare più approfonditamente alla situazione scientifica che essa presuppone e critica. Ipotizziamo di concedere ciò che Kant intende confutare. Il concetto stesso di materia basti a spiegare l’impenetrabilità. Se un corpo occupa un determinato spazio, esso per definizione si opporrà alla penetrazione di un altro corpo, secondo gradi e modalità che andranno studiati sperimentalmente: il concetto di estensione fisica conterrà già la specifica proprietà dell’impenetrabilità, senza bisogno che un ragionamento sintetico intervenga a garantirgliela. Lo spazio sarà dunque riempito da questi corpi impenetrabili, che il fisico può immaginare variamente mobili, in atto di scontrarsi o muoversi liberamente, per ricavare mediante la matematica tutto il contenuto della sua scienza. Siamo di fronte al mondo della fisica 94 e lo articola in diversi «principi» dei solidi materiali nella Anlage zur Architektonik, I, § 88. Egli concepisce la solidità come un concetto semplice ottenuto mediante i sensi (il tatto), e trae da esso, mediante il principio di contraddizione, principi come quelli secondo cui «ogni solido esclude ogni altro dal luogo in cui è» e lo fa mediante una «densità assoluta» (ivi, p. 68). Per quanto riguarda gli «altri» sostenitori della solidità originaria cui si riferisce Kant, si può pensare in generale ai fisici meccanicisti come Descartes (Cf. Nota generale alla Dinamica, MA 533). Tra questi va compreso anche LOCKE, Essay, II. 4, che in proposito è citato con favore dallo stesso Lambert in una lettera a Kant del 3 febbraio 1766 (KgS X, 66). Oltre che a Locke, il quale mutua il concetto dalla fisica di Boyle e lo ritrova poi anche in Newton, l’obiezione si applica ai numerosi fisici newtoniani del tempo, come Euler, che sostenevano il carattere irriducibile dell’impenetrabilità dei corpi. Più dettagliati riferimenti alle fonti del tempo in POLLOK, MA Kommentar, pp. 227ss.

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meccanicista: quello di Descartes, privo di vuoto, in cui la proprietà geometrica dell’estensione è la qualità fondamentale di una materia articolata in corpuscoli discreti, o quello dell’atomismo, in cui il vuoto è occupato da particelle perfettamente dure. Ma la caratteristica criticata da Kant è propria anche dell’atomismo di Newton, in cui però le particelle esercitano l’una sull’altra delle forze a distanza, oltre che, a maggior ragione, del concetto di materia di Euler, assiduo sostenitore del carattere primitivo dell’impenetrabilità42. Ogni rappresentazione meccanicistica costituisce agli occhi di Kant uno stesso errore: la concezione cartesiana annulla la materia in un grado zero, riducendola a un ente geometrico cui è vano attribuire proprietà dinamiche e meccaniche; quella atomistica eleva all’infinito questo stesso grado, postulando una forza di resistenza incomparabile con ogni altra e capace dunque di produrre una velocità infinita, violando i confini dell’esperienza possibile. È agevole ritrovare l’origine di questa critica nell’ontologia: al grado 0 della res extensa cartesiana corrisponde, all’altro estremo della scala qualitativa, il grado infinito dell’«impenetrabilità assoluta» dell’atomismo fisico43. La forza repulsiva intro42 Bisogna ricordare però, a dispetto dei tratti comuni, che correva un abisso tra l’atomismo dei newtoniani, che era tenuto al di fuori della fisica matematica, e l’idea di materia «chiara e distinta» che i cartesiani introducevano in metafisica. In proposito Cotes, proprio all’inizio della Prefazione alla seconda edizione dei Principia matematica, scriveva parole che a Kant non dovettero sfuggire. Dopo aver riconosciuto i meriti dei cartesiani rispetto agli scolastici, aggiungeva: «Quando si prendono la libertà di porre a piacere figure e grandezze sconosciute delle parti, e posizioni e moti dubbii; di immaginare certi fluidi occulti che scorrono liberissimamente attraverso i pori dei corpi, dotati di una sottigliezza che tutto può, e mossi da movimenti occulti, allora cadono nei sogni, in quanto hanno trascurata la reale costituzione delle cose: la quale, certamente, invano si cerca di raggiungere muovendo da congetture fallaci, quando può essere investigata mediante osservazioni le più accurate. Coloro che ricavano dalle ipotesi il fondamento delle proprie speculazioni, anche se, poi, procedono rigidamente secondo leggi meccaniche, raccontano, forse, una storia elegante e bella, ma sempre una storia» (Principia, p. 20). L’obiezione secondo cui i cartesiani fingerebbero ipotesi è peraltro avanzata in diversi luoghi dallo stesso Newton. 43 L’impossibilità del concetto del corpo assolutamente duro, dal punto di vista meccanico, viene argomentata nella Nota generale alla Meccanica, MA 552. Sul nesso con il principio del grado cf. KrV A 169/B 211ss. e MA 523 (Corollario generale alla Dinamica), dove viene istituito il parallelismo con le categorie della Critica.

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dotta nel Teorema 1, al contrario, conferisce alla materia un’elasticità originaria dotata di un grado finito, diverso da zero. In questo passaggio Kant sembra ricalcare le orme di Leibniz, che fin dagli scritti giovanili si opponeva alla nozione cartesiana della materia, sostenendo la necessità di ammettere una forza alla base dell’estensione. Riprendendo il filo del confronto con Leibniz, invece, si può cogliere un aspetto ancora più generale dell’opposizione kantiana al meccanicismo. La forza repulsiva di Leibniz (vis passiva), come quella kantiana, è condizione dell’impenetrabilità e dell’estensione, che ne sono una manifestazione. Essa, tuttavia, va considerata una proprietà contenuta nel concetto stesso dei corpi, che il fenomeno della loro interazione reciproca non fa che manifestare e, per così dire, confermare, senza esserne un momento costitutivo: la differenza è sottile, e da un punto di vista fisico svanisce, ma diviene esplicita dal punto di vista metafisico, poiché Leibniz nega a priori la stessa possibilità dell’influsso reale tra i corpi. È quest’ultimo il difetto che può unire, agli occhi di Kant, la forza leibniziana alla «solidità» di un Lambert e della fisica atomistica, dando luogo a un’identica obiezione che le investe tutte: esse designano una proprietà dei corpi nota a prescindere dalla loro influenza reciproca. Il fatto che la si consideri come un’esistenza fisica o metafisica non muta i termini della questione: la metafisica leibnizana commette l’errore di considerare le cose come unità metafisiche, abolendo a priori il loro necessario conflitto reciproco e perdendo di vista, così, la possibilità di stabilire l’unità stessa del mondo44. Ma lo stesso difetto deve riguardare l’atomismo. Il concetto di solidità, fondando l’impenetrabilità sulla sola esistenza, nega che la presenza della materia nello spazio implichi un’«opposizione reale», quel «conflitto fra le realtà» che Kant menziona come uno dei concetti cruciali della nuova metafisica45. 44 Su questo piano puramente metafisico della questione rimando alle considerazioni sviluppate nel cap. 3. Nel riprendere la questione a proposito della Dinamica tengo presente D. WARREN, Kant’s Dynamics, in WATKINS (ed.), Kant and the Sciences, pp. 93-116, in part. p. 101. 45 MA 478. Cf. KrV A 264-265/B 320-321: «Quando la realtà viene rappresentata soltnato tramite l’intelletto puro (realitas noumenon), non si può pensare nessuna opposizione fra le realtà, cioè un rapporto tale che esse, congiunte nel soggetto, annullino re-

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Il contatto tra i corpi si riduce dunque a un contatto geometrico tra volumi, privo di interazione dinamica, e l’impenetrabilità, concepita in tal modo come «impenetrabilità assoluta» e non graduale, diviene una proprietà interna della materia: come tale, per Kant, la proprietà essenziale della materia, la vera e propria «materialità», viene ridotta paradossalmente ad una «qualità occulta» (MA 500, 518). L’abolizione del conflitto delle realtà, la considerazione cioè della qualità fenomenica in quanto isolata, deve condurre necessariamente all’abolizione della relazione tra le sostanze nello spazio e dunque al primato ontologico di un interno inattingibile46. L’atteggiamento apparentemente neutrale di una trattazione puramente matematica, di cui si facevano forti alcuni newtoniani, non può evitare in linea di principio di incorrere nello stesso difetto. Il matematico, scrive Kant, «può benissimo cominciare la sua costruzione del concetto da un dato qualsiasi, senza impegnarsi a definire a sua volta questo dato; ma non per questo è autorizzato a definirlo come qualcosa che non possa essere suscettibile di una cociprocamente le loro conseguenze e si abbia: 3 – 3 = 0. Per contro, le cose reali nel fenomeno (realitas phaenomenon) possono essere in opposizione tra loro, e, congiunte nel medesimo soggetto, possono annientare, del tutto o in parte, l’una la conseguenza dell’altra, come due forze motrici che nella stessa linea retta tirino o spingano un punto in direzioni contrarie, o come pure un piacere che controbilanci un dolore». 46 Si ritrova qui, all’interno della fisica pura, il nesso metafisico tra conflitto delle realtà e azione reciproca delle sostanze che Kant eredita dalla scuola wolffiana. Benché i due concetti appartengano a titoli categoriali diversi, già nell’Analitica dei principi si riscontra in proposito una singolare sovrapposizione concettuale. Si osservi in proposito che Kant designa fin dal principio l’impenetrabilità come una proprietà «che si riferisce come causa ad un effetto» (MA 496). Parallelamente nella Critica, dopo l’esposizione del concetto di quantità intensiva, si legge: «Se si considera questa realtà come causa (o della sensazione o di un’altra realtà nel fenomeno, per esempio di un mutamento), allora il grado della realtà, in quanto causa, si chiama momento − ad esempio il momento della gravità −, e questo perché il grado designa soltanto la quantità, e l’apprensione della quantità non è successiva, bensì istantanea. Ma di ciò tratto solo di passaggio, perché non è ancora venuto il momento di esaminare la causalità» (KrV A 168-9/B 210, il corsivo è mio). Il presupposto dell’«esistenza» della materia, nell’enunciato del Teorema 1, denota la compresenza, nella questione fisico-pura, dell’ulteriore determinazione categoriale. Nella Meccanica, tuttavia, si chiarirà che Kant, trattando del momento qualitativo della materia, non giunge ancora a stabilirne propriamente l’esistenza, che richiede la considerazione della persistenza successiva della quantità di materia.

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struzione matematica, impedendo così che nella scienza della natura si risalga a principi primi» (MA 498). La rappresentazione meccanica del mondo fisico, se viene considerata non già come un modello utile ma provvisorio, bensì come una descrizione adeguata della realtà, finisce con l’inibire il progresso della stessa scienza che ha contribuito a creare. Kant, quando più avanti riprenderà la questione generale dell’opposizione tra meccanicismo e dinamismo, ascriverà il primo modo di spiegazione a Democrito e Descartes. Come emerge da questo passo, in realtà, egli ha in mente anche (o piuttosto) i primi passaggi di tutti i trattati di meccanica, compresi quelli newtoniani, in cui l’impenetrabilità dei corpi viene assunta per definizione alla base della scienza e dove l’immagine di una particella mobile nello spazio compare libera e incondizionata fin dall’inizio del discorso. La sua critica al meccanicismo, dunque, investe proprio quei fisici matematici che, come Euler e Laplace, saranno responsabili del progresso successivo della meccanica razionale, mentre tutto il suo discorso si svolge all’ombra della figura incerta di Newton47. Il dinamismo kantiano del 1786 mira a fornire il «fondamento» alle forze attrattive e repulsive ammesse dall’autore dei Principia mathematica, cercando nello stesso tempo, a differenza di Newton, di ricavare da forze originarie i corpi stessi, per iscrivere la meccanica in un coerente sfondo metafisico-dinamico.

B) La forza repulsiva originaria: esame della dimostrazione (Teorema 1) La dimostrazione kantiana del Teorema 1 è il luogo migliore per cogliere in atto l’ispirazione metodologica non solo della Dinamica, ma degli interi Principi metafisici. È utile riportarne il testo isolando i diversi passaggi dell’argomentazione (MA 496): 1) «La penetrazione in uno spazio è un movimento (che, nell’istante iniziale, si chiama sforzo di penetrazione»; 47 Tra i numerosi casi che Kant potrebbe aver avuto direttamente presenti si veda per es. MUSSCHENBROECK, Grundlehren der Naturwissenschaft, p. 21.

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2) «La resistenza al movimento è la causa della diminuzione del movimento o la sua trasformazione in quiete»; 3) «Ora, non c’è nient’altro che possa venire applicato a un movimento, in modo da diminuirlo o eliminarlo del tutto, se non un altro movimento dello stesso mobile nella direzione opposta (Teorema della Foronomia)»; 4) «Perciò la resistenza che una materia oppone, nello spazio che riempie, alla penetrazione di ogni altra materia è causa di un movimento di quest’ultima in direzione opposta»; 5) «Ma la causa di un movimento si chiama forza motrice»; 6) «Dunque la materia riempie il proprio spazio mediante una forza motrice e non mediante la sua sola esistenza».

Le premesse dell’argomentazione dotate di validità a priori sono tre (1, 3, 5): l’impenetrabilità si manifesta con l’annullamento o la diminuzione di un movimento in uno spazio determinato (1); ma la modificazione di un movimento si deve rappresentare mediante la sua composizione con un altro movimento (3 − teorema della Foronomia); questo non può accadere, però, se non si ammette una resistenza (2 − definizione che rimanda alla premessa 5), cioè una forza che determini in questo caso il movimento opposto: una forza repulsiva (5). C’è poi, come previsto, una premessa empirica, accennata laddove Kant scrive (4) che la materia oppone una resistenza alla penetrazione, e senza la quale la definizione di resistenza (2) non avrebbe alcun significato: l’esame a priori del riempimento dello spazio presuppone l’attestazione empirica dell’impenetrabilità. La possibilità di una composizione pura dei movimenti libera da qualsiasi presupposto meccanico, dimostrata nella Foronomia, viene ora richiamata per contribuire alla realizzazione di un ambizioso risultato filosofico: ricavare i concetti fondamentali della dinamica dalla sola combinazione dell’intuizione pura foronomica, delle categorie e del correlato fisico-empirico della qualità, l’impenetrabilità della materia. Dando qui per scontata la validità del teorema foronomico, resta quindi da esaminare il modo in cui Kant lo rende applicabile al caso dell’impenetrabilità, ottenendo la possibilità di ricondurre l’impenetrabilità a una costruzione matematica. Ciò avviene mediante due definizioni: la rappresentazione 504

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della opposizione di quantità – e con essa il richiamo al teorema della composizione dei movimenti – viene infatti preparata dalla definizione della penetrazione come movimento (1) e dalla definizione della forza come causa di un movimento opposto (5). Bisogna allora capire meglio che genere di quantità determinino il conflitto tra i movimenti contrari e dunque affrontare la difficoltà di tradurre i concetti kantiani in espressioni matematiche. Ma questo tentativo porta a scoprire un problema della dimostrazione. «La penetrazione in uno spazio è un movimento», che la resistenza annulla mediante l’applicazione un movimento opposto: ma che cosa vuol dire, qui, movimento? Kant ha bisogno di considerare questo movimento come quello che compare nel teorema foronomico: il movimento, dunque, dovrà essere il concetto puramente foronomico del movimento in quanto dotato di velocità e direzione (MA 480). L’immagine della penetrazione della materia non deve ingannare. Pur prendendo le mosse dal concetto empirico della resistenza, Kant procede anche in questo caso in modo coerente con l’impianto della metafisica della natura, senza presupporre altro che la resistenza da costruire. Non si deve pensare, dunque, al sopravvenire di un corpo vero e proprio, che dovrebbe essere dotato di massa: un concetto che a questo punto non ha ancora ricevuto la sua iniziazione metafisica. Kant, in altre parole, si occupa della rappresentazione puramente foronomica di una velocità a cui la resistenza, per conservare l’impenetrabilità che viene premessa come elemento empirico, deve opporre una velocità uguale e contraria. La velocità iniziale, cioè il «movimento» che stiamo esaminando, rappresenta il fenomeno del sopravvenire di un corpo, che mette alla prova la possibilità dell’impenetrabilità nel sistema dei corpi considerato come un tutto. Si tratta, possiamo dire, di uno schema matematico della penetrazione tra due corpi. Per valutare il ruolo di questo movimento-velocità è utile considerare i passaggi immediatamente successivi della Dinamica: ne risulta chiaro che Kant pensa a una modificazione graduale e non improvvisa del movimento, tipica dei fenomeni elastici. Lo segnala già lo stesso riferimento a uno «sforzo (Bestrebung) di penetrazione», che indica precisamente l’agire di un «momento dell’acce505

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lerazione» (dv/dt). Le premesse in base a cui Kant ricava la continuità dell’azione repulsiva originaria, tuttavia, non sono perciò una riproduzione dell’accadere empirico: l’elasticità vuole essere un risultato, piuttosto che una premessa. In generale Kant giunge ad essa mediante le stesse premesse che guidavano l’analisi, a priori ma empicamente fondata, che Leibniz faceva degli urti: il fenomeno della resistenza e la legge di continuità. Il carattere necessariamente graduale e continuo di ogni cambiamento, prima di venire trattato con la lex continui della Meccanica, è anticipato a livello trascendentale48. Applicando la legge di continuità alla proprietà dell’impenetrabilità si passa dalla rappresentazione discreta di un’estensione puramente geometrica alla rappresentazione di un cambiamento graduale del movimento: con questo passaggio, il corpo esteso viene concepito come manifestazione di una forza espansiva originaria della materia49. Il volume occupato dalla materia, dunque, viene considerato come un’unità riempita intensivamente, che non ha bisogno di spazi vuoti per essere considerata 48 KrV A 169/B 211-A 176/B 218. La continuità di ogni mutamento, dunque anche della repulsione elastica, va tenuta distinta da quella meccanica, che Kant considera fondata sulla legge d’inerzia. La legge meccanica di continuità afferma: «in nessun corpo gli stati di quiete o di movimento – in questo caso, la velocità o la direzione – vengono modificati, mediante l’urto, in un istante, ma solo in un tempo determinato, attraverso una serie infinita di stati intermedi, la cui differenza reciproca è minore di quella tra il primo e l’ultimo. Un corpo in movimento che urti contro una materia, dunque, viene riportato in quiete dalla resistenza di quest’ultima non all’istante, ma mediante un rallentamento continuo; un corpo che era in quiete, d’altra parte, viene messo in movimento solo mediante un’accelerazione continua, e secondo la stessa regola si modifica il grado della sua velocità; allo stesso modo, la direzione del suo movimento non può essere modificata in un’altra, che formi un angolo con la precedente, se non attraverso tutte le possibili direzioni intermedie, cioè mediante un movimento curvilineo (la stessa legge, per una ragione analoga, si può estendere al cambiamento di stato di un corpo per attrazione). Questa lex continui si fonda sulla legge dell’inerzia della materia» (MA 552-553). 49 SCHWAB, Prüfung, pp. 10-13, sostenne che, nel discorso kantiano, verrebbe considerata universale una proprietà, come l’elasticità, che non appartiene a tutte le sostanze materiali, e che verrebbero confuse tra di loro resistenza meccanica e repulsione. Kant sta cercando piuttosto di ricavare, muovendo dal presupposto di una materia estesa e impenetrabile, l’elasticità originaria come condizione tanto del riempimento dello spazio quanto del fenomeno dell’elasticità; la stessa proprietà, poi, è condizione della resistenza meccanica trattata nella sezione successiva dei Principi metafisici.

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comprimibile, ma che oppone alla compressione una resistenza che varia in modo inversamente proporzionale al volume. La quantità di materia è considerata equivalente a una «quantità di forza espansiva». Il discorso sulla materia compressa si riferisce nello stesso tempo a una forza la cui azione è definita su uno spazio che viene ridotto: la materia, dal punto di vista dinamico, coincide con il grado di questa forza, che appartiene alla sua essenza50. Piuttosto che agli urti, insomma, i fenomeni più prossimi alla situazione descritta schematicamente sono quelli di compressione (questi sono alla base della legge di Boyle, che infatti egli cerca in seguito di giustificare a priori)51. Fenomeni che, inequivocabilmente, corrispondono alla rappresentazione cinematica di un moto accelerato. Del resto, il conflitto tra le realtà di cui si sta qui cercando l’esibizione fisica è un conflitto tra «forze motrici». Il problema è allora questo: può una velocità schematizzare la compressione esercitata da un corpo esterno? E, simmetricamente, può una velocità rappresentare l’azione di resistenza ad una simile compressione, che Kant assimila subito dopo alla proprietà dell’elasticità? Nell’esaminare queste domande, occorre ricordare che la velocità, da un punto di vista foronomico, è uguale a s/t: si tratta cioè di una velocità uniforme, perché la Foronomia astrae dal 50 MA 501. Nello stesso luogo Kant scrive che «più una forza espansiva viene costretta in uno spazio minore, più intensamente reagisce» (cors. mio). Altrove parla di una proporzionalità tra compressione della materia e intensità della forza, distinguendo materia e forza. Il punto rilevante è che la forza è essenziale alla materia. Di «quantità di materia» (o massa) in senso estensivo Kant tratterà solo nella Meccanica, basandosi sulle sue proprietà dinamiche. 51 I teoremi successivi sviluppano questo concetto della forza repulsiva esaminando le condizioni della sua azione nello spazio. In base a semplici considerazioni sulla rappresentazione di una forza repulsiva esercitata da ogni punto dello spazio pieno, Kant procede a dimostrare che tale forza deve possedere un grado finito (Teorema 2) e ne conclude l’impossibilità della penetrazione completa di una materia, come quella che risulterebbe comprimendo l’aria in un pistone fino ad annullarne l’estensione (Teorema 3). Crescendo la forza con il volume (FV=k) l’azzeramento del volume corrisponderebbe a un grado infinito di forza, che però produrrebbe con la sua repulsione velocità infinite, che non sono oggetto di esperienza possibile. Questi riferimenti di Kant a esperimenti fisici, conformemente al principio metodologico dell’opera, non rientrano mai nelle dimostrazioni e hanno soltanto uno scopo illustrativo.

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concetto di una forza motrice e altrettanto deve fare la Dinamica, a maggior ragione, nel momento in cui questa forza sta cercando di dedurla. Supponiamo che la risposta alle nostre domande sia positiva. Kant starebbe adottando un procedimento puramente foronomico − in modo non molto diverso da quanto faceva Leibniz nella sua giovanile Theoria motus abstracti (e ancora nella prima parte della matura Dynamica de potentia): non si avrà, secondo l’uso più comune nella meccanica del tempo, un «movimento» come mv, ma semplicemente come v. Il «cambiamento del movimento» dv, espressione matematica del concetto di resistenza, indica l’azione di una forza, e si può ipotizzare che la sua quantità sia assimilabile alla quantità di forza acceleratrice newtoniana, in cui si fa astrazione dalla massa (F∝dv). Una simile traduzione matematica della situazione descritta da Kant richiede però altri chiarimenti: si riferisce a un mutamento di velocità considerato come semplice risultato, senza esaminare la modalità del suo divenire. Si potrebbe così pensare all’annullamento istantaneo della velocità tipico di un urto perfettamente anelastico, o alla repulsione immediata tipica di un urto perfettamente elastico. Ma è tutta l’immagine degli urti a risultare fuorviante, e Kant dice esplicitamente che, nella Dinamica, non si può rappresentare un corpo che ne sollecita un altro mediante il proprio movimento (sebbene, alla luce della meccanica, si sia tentati di scorgere un urto all’origine del conflitto dinamico)52. Kant esamina piuttosto il graduale smorzamento della velocità di un corpo che cerchi di comprimerne un altro penetrando nel suo volume, senza perciò muoverlo dalla sua posizione: quel che in fisica matematica verrebbe effettuato da un vincolo, viene reso possibile in metafisica dalla distinzione categoriale tra qualità e relazione. La composizione foronomica dei movimenti permetterebbe appunto di fornire una versione di questo contrasto di movi52 Quest’ultimo, piuttosto, sarà oggetto della Meccanica. Anche in questo caso, dunque, la distinzione serve allo scopo di una rigorosa concatenazione sistematica delle conoscenze: il concetto di forza repulsiva servirà per introdurre i concetti meccanici come quello di comunicazione del movimento (cf. MA 536-537). Perciò in Dinamica si deve evitare con la massima attenzione ogni riferimento a quest’ultimo.

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menti che si accordi con il principio di continuità e con il fenomeno dell’elasticità di cui Kant sta cercando di introdurre il fondamento. La graduale diminuzione della velocità che deve essere annullata ad opera della velocità resistente si può far coincidere dunque con un mutamento continuo della velocità. La forza, in accordo con la formulazione differenziale del concetto newtoniano, si potrà dunque considerare proporzionale alla variazione infinitesimale di velocità: F∝dv. Ma il più evidente problema di questa ricostruzione è precisamente che la composizione foronomica di velocità non permette di rappresentare un’accelerazione. Basti considerare l’applicazione di due velocità uguali ed opposte a un corpo (in modo da conservare l’equilibrio che qui corrisponde all’estensione della materia resistente). Nella composizione foronomica la prima velocità viene considerata simultanea a una velocità uguale ed opposta dello spazio relativo in cui il corpo resistente si trova in quiete53. Il risultato della costruzione sarà dunque che, nel punto geometrico in cui si considera cominciata l’opposizione (il punto di contatto su cui Kant tornerà in seguito, e che qui resta indeterminato), il punto materiale dotato della velocità iniziale non avanza più, ma è attraversato dai due movimenti uguali ed opposti che gradualmente si annullano. Kant, invece, vorrebbe ottenere il fenomeno di una decelerazione graduale del corpo esterno: ma solo un’accelerazione opposta, non già una velocità opposta, può realizzarlo. Una possibilità per uscire dalla difficoltà, o almeno per ottenere una migliore comprensione dell’argomento kantiano, si può escogitare pensando alla matematica che Kant può avere qui in mente. La composizione foronomica dei movimenti è stata elaborata in contrasto con la composizione puramente meccanica del parallelogramma delle forze, che poneva un’ingiustificata commistione di concetti foronomici e dinamici. È legittimo pensare che qui Kant, come diviene esplicito nel seguito della Dinamica, tenga presente le costruzioni dei Principia mathematica newtoniani, le quali contengono quella stessa compresenza di concetti, talora am53

MA 490 (Teorema 1 della Foronomia).

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bigua, in cui egli sta cercando di introdurre un ordine rigoroso. Ma proprio nel modello che sta criticando Kant poteva trovare la rappresentazione della velocità come elemento di un moto accelerato. Fin dal primo teorema dei Principia, dedicato al moto curvilineo di un punto materiale, Newton considera le componenti tangenziale e centripeta della traiettoria come altrettanti «movimenti», che passando al limite produrranno la figura di una curva (fig. 4). Ora, considerando costanti gli intervalli di tempo, i segmenti che nella figura rappresentano questi movimenti possono essere considerati sia come spazi sia come velocità54. Kant poteva trovare qui un esempio – tutt’altro che isolato nella fisica del tempo – di un moto accelerato i cui momenti infinitesimi siano pensati come composizioni di velocità. Lo scambio terminologico tra velocità e accelerazione, del resto, è evidente in molti luoghi dei suoi scritti, proprio riguardo all’esempio dell’accelerazione centripeta newtoniana55. Questa probabile compromissione con la matematica dell’epoca, comunque, non decide le sorti della dimostrazione kantiana, ma le associa semmai a quelle di una fisica in cui la rappresentazione geometrica dei moti, con la sua potenza intuitiva ma anche con tutte le sue possibili limitatezze e ambiguità, è ancora il linguaggio matematico dominante. Che si ammetta o meno una sua giustificazione storica, la composizione delle velocità, quale nucleo argomentativo del teorema in discussione, soffre comunque di un più es54 Principia, Lib. I, Prop. II, Teor. II, pp. 92-93. Una fine analisi di questo teorema, e in generale dei diagrammi newtoniani, si trova in WESTFALL, Force in Newton’s Physics, in part. pp. 476-480. Cf. anche I.B. COHEN, A Guide to Newton’s Principia, pp. 317-323. 55 Si veda in part. MA 541, dove si legge che, per l’attrazione gravitazionale, «il corpo che esercita un’attrazione imprime anche a se stesso una velocità di movimento proprio (mediante la resistenza del corpo attratto) e questa velocità, in circostanze esterne uguali, è proporzionale appunto all’insieme delle sue parti». Nella Berliner Physik, KgS XXIX, 80-81, si legge, a proposito della caduta libera, che «tutti i corpi cadono con uguali velocità, se si astrae dalla resistenza dell’aria». Nella Danziger Physik, del 1785, KgS XXIX 142: «La gravità significa la velocità cui un corpo cade; è la stessa presso tutti [i corpi]». Cf. MA 540 (dove l’esempio è quello statico della bilancia). Sulla questione si veda M. CARRIER, Kant’s Mechanical Determination of Matter in the Metaphysical Foundations of Natural Science, in WATKINS (ed.), Kant and the Sciences, pp. 117-135, in particolare pp. 123-125.

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senziale difetto, che il lettore della Foronomia non mancherà di riconoscere. Il movimento rettilineo e uniforme è intrinsecamente relativo. Il fenomeno di cui si occupa il teorema della Dinamica è invece quello di un moto accelerato, che nell’orizzonte della fisica in cui ci si trova non si può considerare relativo, come invece richiede il teorema della Foronomia che è stato chiamato in causa56. In concreto, secondo l’impostazione kantiana si può rovesciare la rappresentazione dell’irrompere della materia esterna su una materia che oppone una resistenza e considerare la materia resistente come mossa in verso opposto all’altra. Nella Meccanica Kant scriverà al contrario che la materia della Dinamica si può considerare in quiete: è probabile che egli associasse al concetto empirico dell’impenetrabilità, che sta a fondamento della Dinamica, la rappresentazione di un corpo che resiste a una compressione senza essere spostato dal suo baricentro. Tuttavia la necessaria relatività degli urti, che pure Kant intende riservare alla Meccanica, dovrebbe potersi applicare dal momento in cui una materia esterna viene considerata in movimento verso un’altra, la cui resistenza viene schematizzata a sua volta come «movimento». A richiederla, dunque, è proprio la descrizione kantiana della compressione come conflitto di velocità, che gli serve ad applicare il teorema foronomico57. 56 Così facendo si andrebbe incontro a ben note difficoltà fisiche: se si considera in quiete una materia accelerata, e si sceglie come sistema di riferimento un sistema non inerziale, vi si incontreranno in linea di principio materie che si muovono da sole, per azione di inspiegabili forze apparenti, con conseguente violazione del principio d’inerzia. 57 Già ADICKES, Kant als Naturforscher, I, p. 188, osservava che la composizione dei movimenti di cui tratta il teorema foronomico non sarebbe capace di render conto dell’annullamento di movimento di cui si tratta nel presente teorema dinamico. Sulla difficoltà posta dalla differenza tra il moto rettilineo uniforme e il moto accelerato insiste CARRIER, Kants Theorie der Materie, p. 181. Cf. POLLOK, MA Kommentar, p. 380. Kant aveva sfiorato questo problema, senza dar segno di accorgersene, nella Reflexion 33, KgS XIV, 110, dove accosta reciprocità della forza e reciprocità dei movimenti. Infine, osserviamo che le prime critiche negative della Dinamica, come lo scritto di T. Mayer (citato nel cap. 3, nota 122), denunciavano in genere il passaggio da una teoria del movimento a una della forza. È possibile dunque che vi si cogliesse già la difficoltà che qui è stata messa in evidenza, e che Kant, di conseguenza, ne potesse essere consapevole negli anni successivi. Di fatto, come vedremo, egli tenterà a lungo fino agli anni ’90 di riformare la teoria dell’influsso tra le forze fondamentali (cap. 12).

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Del resto, anche se Kant tratterà degli urti (o meglio del loro principio metafisico, la comunicazione del movimento) nella Meccanica, cioè nella sezione dell’opera corrispondente alle categorie di relazione, egli fin dalle prime righe della Dinamica mostra di considerare la resistenza opposta dall’impenetrabilità come un «effetto»: a dispetto della rigidità di una suddivisione categoriale, insomma, è già presente una relazione tra oggetti esistenti. La ragione di ciò, come si è visto, risiede nel fatto che la qualità della materia di riempire uno spazio, a differenza della determinazione trascendentale del grado, deve essere considerata nel sistema di una totalità fisica, la natura materiale, e dunque richiede immediatamente la rappresentazione di un’azione reciproca. In altre parole, mentre il «grado» come principio trascendentale si costituisce solo nell’applicazione di una forma logica alla sintesi del molteplice, che avviene secondo la semplice forma di un giudizio, la qualità del «riempimento dello spazio», in quanto principio metafisico, deve costituirsi come relazione «reale» nel complesso della realtà fisica in quanto «totalità dinamica», di cui la terza analogia dell’esperienza mostrava l’esigenza trascendentale. Ma la schematizzazione di questa relazione come velocità contraria non può conferirle il significato dinamico che essa deve possedere per corrispondere a queste relazioni «reali». Tutto il tentativo kantiano di fondare una dinamica su una scienza, quale la Foronomia, che costruisce i movimenti geometricamente, sembra destinata fin dall’inizio al fallimento. Non a caso Leibniz riconosceva che una fisica fondata sulla «pura geometria» era incapace di rendere il comportamento concreto dei fenomeni, sostituendola con una dinamica in cui la massa dei corpi, proprietà non deducibile geometricamente, veniva introdotta come posizione metafisica originaria58. Pur avendo colto fin dalla sua prima opera questo aspetto della dinamica leibniziana, contrapponendola a quella puramente matematica dei cartesiani, al momento di dar forma alla sua dinamica metafisica Kant basa la dimostrazione sull’intuizione pura, incorrendo nell’a58 Il riferimento è alle due parti della fisica giovanile leibniziana, l’Hypothesis physica nova, entrambe del 1671 (GM VI, 17-80). Leibniz ne ricorda l’insufficienza nello Specimen dynamicum, GM VI, 240-241.

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poria di una cinematica puramente geometrica incapace di spezzare la simmetria delle relazioni spazio-temporali. Questa difficoltà è prodotta (e occultata) dall’identificazione non solo della penetrazione – come si legge nel Teorema 1 – ma anche della stessa repulsione con un «movimento». Si costituisce così – giocando sull’ambivalenza del concetto di movimento – la coppia di puri movimenti opposti in cui Kant ritrova le condizioni del teorema foronomico59. Il problema appena rilevato non costituisce dunque un mero inconveniente tecnico, nella dimostrazione kantiana, ma esprime una difficoltà iscritta profondamente nell’impostazione della sua metafisica. Si ipotizzi, per contrasto, una correzione della premessa che provoca il difetto: l’ipotesi più semplice per accordare la continuità del cambiamento di velocità con la presenza della composizione foronomica consisterebbe nel considerare lo stesso moto accelerato in modo puramente cinematico, e da esso ricavare la forza, riscontrando come anche in questo caso esso possa essere considerato in linea di principio relativo. In altre parole, si potrebbe pensare a un’estensione del teorema foronomico stesso. Come già nella Foronomia, in cui la percezione concreta del movimento viene ricondotta per astrazione alla descrizione puramente quantitativa, così nella Dinamica il fenomeno dell’impenetrabilità potrebbe essere schematizzato come decelerazione e accelerazione di un punto materiale. Qualcosa di simile accadeva nella dinamica di Rudjer Boscovich, che presenta singolari analogie con quella kantiana60. Come la monadologia fisica di Kant, anche questa si pro59 «La repulsione è un movimento» (Nota 1 al Teorema 4, MA 505). «La penetrazione in uno spazio è un movimento (che nell’istante iniziale si chiama sforzo di penetrazione)» (Teorema 1, MA 497). 60 R. BOSCOVICH, Philosophiae naturalis theoria redacta ad unicam legem virium in natura existentium, Wien 1758; 2ª ediz. ampliata e rivista: Theoria philosophiae naturalis, Venezia 1763 (cito da questa edizione). Della dinamica di Boscovich si trovano brevi esposizioni critiche nella Introduzione all’edizione inglese della Theoria (trad. di 17632), Chicago-London 1922, e in JAMMER, Concepts of Force, pp. 170-178. Per una trattazione più approfondita si veda ora H. ULLMAIER, Puncta, particulae et phaenomena, Hannover/Laatzen 2005. È argomento discusso, tra gli interpreti, se Kant conoscesse l’opera di Boscovich. Lo esclude ADICKES Kant als Naturforscher, I, p. 137, no-

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poneva di collegare la metafisica leibniziana con le forze di Newton, e muoveva precisamente da un’analisi dell’urto secondo la legge di continuità61. La rappresentazione secondo cui l’urto avrebbe inizio con il contatto dei corpi conduce secondo Boscovich a delle assurdità, perché la diminuzione graduale della velocità, conforme alla legge di continuità, determinerebbe, in un istante successivo all’urto stesso, il reciproco attraversamento dei corpi62. Premessa della teoria di Boscovich, dunque, è la rappresentazione di «punti materiali» che esercitano reciprocamente delle accelerazioni e perciò si respingono senza mai entrare in contatto matematico. Boscovich introduce una distinzione identica a quella posta da Kant tra un «contatto matematico» – come il «limite comune a due spazi» proprio delle figure geometriche – e un «contatto in senso fisico» che «consiste nell’immediata azione e reazione dell’ i m p e n e t r a b i l i t à»63. Anche i movimenti, nella teoria di Boscovich, obbediscono a una legge molto simile a quella prefigurata da Kant nel seguito della Dinamica. Ogni punto, secondo questa legge, esercita su ogni altro un’accelerazione che dipende dalla distanza, e che – dopo un breve intervallo corrispondente ai fenomeni chimici e alla coesione – cambia di verso a una determinata distanza dal punto stesso. Entro questo intervallo viene esercitata una repulsione, al di fuori di esso un’attrazione (fig. 5)64. ta, lo dà per certo TONELLI, Elementi metodologici e metafisici, p. 191. Non vi sono prove dirette di una conoscenza kantiana, che avrebbe però potuto leggere la recensione di Mendelssohn alla Theoria, comparsa nel 1759 (MENDELSSOHN, Briefe, die neueste Literatur betreffend, Berlin 1759, nn. 42-56; in ID., Gesammelte Schriften, vol. 4, 1, pp. 537ss.). Sulla fortuna di Boscovich si veda ULLMAIER, op. cit., pp. 104-129. 61 Boscovich si era proposto esplicitamente (Ivi, § 2) di unificare e emendare il dinamismo di Leibniz e quello di Newton, considerando l’estensione dei corpi come risultato del conflitto fra due forze fondamentali. 62 Ivi, §17. Per i dettagli matematici di questa affermazione di Boscovich si veda, oltre ai testi cit. alla nota precedente, R. TORRETTI, The Philosophy of Physics, Cambridge 1999, pp. 80-81. 63 MA 511-512, Definizione 6. BOSCOVICH, Theoria philosophiae naturalis, §§ 17-19, sostiene, analogamente a Kant, che la legge leibniziana di continuità richiede la negazione del contatto geometrico, che sta alla base della rappresentazione degli urti tra corpi assolutamente duri. 64 Ivi, §§ 10-15. Con questa legge, Boscovich ritiene di aver risolto i problemi di-

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Il confronto è istruttivo. La dinamica di Boscovich, a differenza di quella kantiana, non ammette due forze, bensì una sola; ma soprattutto, la forza di cui parla Boscovich non è che una nozione cinematica: coincide con l’accelerazione impressa. Quella di Boscovich è dunque una dinamica di punti geometrici senza massa: «la materia è composta di punti perfettamente indivisibili, inestesi, discreti»65. Boscovich segue così un itinerario teorico libero da molte delle difficoltà che affliggono la dinamica kantiana, tra cui quella di ricavare la forza dalla semplice composizione di moti uniformi. È però altrettanto chiaro che, così facendo, Boscovich sta cercando di ricalcare matematicamente la manifestazione empirica di quelle proprietà della materia, come l’elasticità, che intende descrivere. In altre parole la sua è una teoria del tutto “fenomenologica” (nel senso che possiede questo termine nell’odierno linguaggio fisico), che identifica i punti geometrici a monadi dotate di forza senza porsi il problema di giustificare questa assunzione66. A namici posti da Newton nella Query 31 dell’Ottica. Qui Newton (pp. 388-389) aveva scritto che la coesione tra i corpi potrebbe basarsi su «una qualche forza» con cui le particelle di attrarrebbero reciprocamente, «che nel contatto immediato è estremamente forte, a piccole distanze effettua le operazioni chimiche [...], e non si estende molto al di là delle particelle con alcun effetto sensibile». Più avanti (p. 401), Newton aveva posto la questione dell’esistenza di «principi attivi», responsabili di fenomeni come la gravità, l’elettricità, il magnetismo, la coesione e la fermentazione, affermando che essi non vanno trattati come qualità occulte e devono dunque essere introdotti induttivamente. BOSCOVICH, Theoria philosophiae naturalis, § 4, si vanta di aver realizzato il programma newtoniano, riconducendo ad una sola legge gravità, coesione e fenomeni chimici: il fenomeno della coesione corrisponde all’equilibrio dinamico reciproco tra diversi punti materiali ammassati, che costituiscono il fenomeno di un corpo; le curve del grafico corrispondono ai fenomeni di legame chimico «a piccole distanze». Viene così realizzata l’idea newtoniana, ma in modo speculativo: al di là dell’assunzione ipotetica della monade fisica, manca una corrispondenza induttivamente fondata tra distanze intermonadiche e fenomeni chimici. Sulla curva di Boscovich v. ULLMAIER, Puncta particulae et phaenomena, pp. 53-103, che sviluppa un interessante confronto con le teorie fisiche successive. 65 BOSCOVICH, Theoria philosophiae naturalis, § 164. 66 Con l’ammissione dei «punti materiali», dunque di centri di forza distribuiti nello spazio in maniera discreta, Boscovich si proponeva di eliminare la tesi della continuità della materia, propria della dinamica leibniziana, che avrebbe condotto a paradossi di tipo zenoniano (Ivi, § 3). Sarà interessante confrontare questa veduta con le

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prescindere da questo momento metafisico, una tale teoria sarebbe in generale legittima, da un punto di vista fisico-matematico “newtoniano”, almeno come modello provvisorio di fenomeni ancora poco conosciuti. Al contrario, la rigorosa gerarchia dei principi che sovrintende alla dinamica metafisica kantiana impedisce un simile compromesso tra descrizione fenomenica e matematica. Per quanto riguarda la natura della materia Kant pretende di porre alla base della sua dimostrazione il solo concetto empirico di impenetrabilità, per dimostrare poi (teoremi 2-3), con l’aiuto della sola Foronomia, che da essa risulta un’«elasticità originaria» della materia dotata di un grado. A questo scopo la Dinamica non può presupporre altro che la resistenza alla compressione, e il passaggio alla matematica deve avvenire soltanto mediante la rappresentazione di un movimento uniforme: un moto accelerato presupporrebbe già la forza che si deve introdurre. Ipotesi ausiliarie come quelle accennate, fondandosi su un’evidente empiricità surrettizia, renderebbero del tutto vano il tentativo in questione. Di fronte al difetto argomentativo sollevato dal nesso tra Dinamica e Foronomia, non resta che un’alternativa: cercare di aggirare il problema, non prendendo alla lettera questo passaggio, e considerare l’argomentazione kantiana in termini che ne eludano i dettagli. L’argomento kantiano − si potrebbe dire − si appella a una semplice evidenza empirica: l’impenetrabilità comporta una resistenza, una modificazione del movimento di un corpo che cerca di penetrare in un altro. Ma questa modificazione, ricondotta per così dire a uno schema, è rappresentabile come annullamento di quantità nell’intuizione pura. A prescindere dai dettagli matematici, si può concludere che questo annullamento, in quanto cambiamento, richiede una causa, che sarà in generale una forza. Una tale via d’uscita sacrifica comunque l’essenziale dell’argomentazione kantiana. Senza i “dettagli matematici”, che poi corrispondono al passaggio che congiunge la pura dottrina quantitativa del movimento alla dinamica, dell’argomento kantiano resta un procedimento analitico fondato su una presunta evidenza. Si tratterebdifficoltà cui andrà incontro il tentativo kantiano di provare la divisibilità infinita della materia (§ 8.2 C).

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be, è interessante osservarlo, esattamente di ciò che avviene nella dinamica kantiana precritica. Nella Monadologia physica (1756) e ancora nella Untersuchung über die Deutlichkeit (1764), come abbiamo visto, la forza repulsiva viene presentata come un predicato contenuto nel concetto di impenetrabilità. Un tale argomento era presente tra i metafisici di scuola wolffiana: esso però, dal punto di vista della filosofia critica, costituisce un esempio di quella metafisica puramente analitica che Kant non ha mai realizzato. Un simile procedimento analitico, in fondo pregiudiziale quanto il postulare proprietà tipico dei matematici, è stato superato con l’approfondimento dell’opposizione reale (già nel ’63) e ad esso, nella nuova opera, Kant intende sostituire una metafisica dotata di un momento sintetico, introdotto proprio dal passaggio alla matematica, che intende produrre quell’evidenza solo presunta nel procedimento analitico e così facendo distinguere le proprie tesi dinamistiche da quelle altrimenti consuete nell’aetas wolffiana67. Nell’ambito della nuova opera il rigore metafisico e quello matematico sono altrettanto importanti e preparano il passaggio dalla metafisica alla meccanica dei fisici. Allora: senza conflitto non c’è forza, ma senza omogeneità dimensionale non si può parlare di alcun conflitto. Il carattere irriducibilmente difettoso di questo teorema, che come si vedrà gioca un ruolo fondamentale per tutta la fisica pura kantiana, richiede ancora un commento. Con esso – se l’esame fin qui svolto è corretto – salta la coerenza interna del discorso scientifico kantiano, la quale costituiva proprio il carattere originale dell’opera dell’86; non per questo viene meno l’interesse di quest’ultima. Le alternative a questo dinamismo inadeguatamente fondato, nel contesto storico dell’epoca, si diramano per esclusione dagli stessi passaggi della trattazione kantiana: la rappresentazione newtoniana delle particelle assolutamente dure, la dinamica metafisica di Leibniz, la “monadologia fisica” di Boscovich. Si tratta di teorie di cui la Dinamica kantiana ha mostrato in diverso mo67 Si vedano, per es., WOLFF, Vernünftige Gedanken von den Würkungen der Natur (WGW I, 6), pp. 22ss.; BAUMGARTEN, Metaphysica, § 398, commentato da Kant nella Reflexion 31, KgS XIV, 108-9.

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do le difficoltà e i presupposti puramente ipotetici. La rigorosa distinzione degli elementi della conoscenza, che sta a fondamento della dinamica kantiana, fornisce dunque un ottimo punto di vista per una valutazione di una teoria alternativa. Una sua revisione critica, al di là dei difetti del teorema con cui si apre l’esposizione dell’86, verrà comunque avviata dallo stesso Kant, che rielaborando nuovamente dottrine scientifiche dell’epoca giungerà nell’Opus postumum a una nuova filosofia della materia, che non si incarica di dedurre il confine tra i corpi, pur non considerandolo una proprietà originaria.

C) La parte e il punto: concetto dinamico di sostanza e continuità della materia (Teorema 4) L’esame del concetto di «sostanza materiale» porta in piena luce la radicale differenza della dinamica dei Principi metafisici rispetto a quella leibniziana, ma anche a quella della kantiana monadologia fisica, che pure ne anticipava gran parte dei ragionamenti. La sostanza materiale, scrive Kant (Definizione 5, MA 502-3), è «ciò che nello spazio è mobile di per sé», e poiché lo spazio non è di per sé nulla di esistente questa sostanza designa il soggetto ultimo dell’esistenza. Questa affermazione dell’identità tra mobile e sostanza va compresa bene: come specifica l’enunciato, la sostanza materiale è mobile «di per sé, separatamente [abgesondert] da ogni altra cosa che esiste al suo esterno». Kant, che ne sia consapevole o meno, ricalca così le parole con cui Newton, e altrove egli stesso, designa un moto assoluto. Addirittura, sembrebbe alludere a un movimento autonomo, che rimanderebbe la dinamica kantiana verso le origini antiche della metafisica della sostanza, all’affermazione platonica, scientemente ripristinata nella dinamica di Leibniz, secondo cui la materia semovente testimonia l’esistenza di una sostanza animata. Sappiamo però che le cose non possono stare così. La confusione è prodotta ancora una volta dal termine ambiguo ‘movimento’, che come abbiamo visto designa a seconda dei casi velocità, accelerazione e azione meccanica e, nel caso della resistenza dinamica, coincide con la rappresentazione che se ne fa 518

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Kant come dell’impressione di una velocità opposta. La sostanza insomma, secondo la sua definizione, non si muove nello spazio (cosa che peraltro accade, fuori di definizione), ma piuttosto muove. Il difetto della definizione di sostanza, però, non si riduce a un’espressione infelice: sussiste una vera e propria ambiguità concettuale, forse incoraggiata da una tendenza a ripensare la forza secondo la definizione cartesiana, che spinge Kant a identificare forza e movimento. Intendendo il movimento nel suo senso meccanico – come mv – si riconosce alla base dell’equivoco un’equazione classica della meccanica pre-newtoniana. Comunque, per coerenza con tutta la metafisica kantiana, e con la stessa distinzione kantiana tra dinamica e meccanica, bisogna ammettere che l’accento va posto sulla capacità motrice della sostanza, piuttosto che sul suo stesso movimento. Resta allora da chiarire il significato di questa sostanza materiale, che un metafisico wolffiano, sulla base della sua capacità di agire, identificherebbe con una sostanza metafisica inestesa. Questo compito viene svolto dal Teorema 4 della Dinamica. Il teorema afferma l’infinita divisibilità fisica della materia: «La materia è divisibile all’infinito e ciascuna delle parti risultanti è a sua volta materia» (MA 503). Poiché lo spazio è divisibile all’infinito, il problema si riduce a quello di provare che «in ogni parte dello spazio c’è sostanza materiale, cioè che si trovano parti di per sé mobili», che si possano dunque dividere fisicamente dalle altre (MA 504). Ora, ogni parte dello spazio occupato dalla materia – scrive Kant – deve esercitare una forza repulsiva. Se così non fosse, questa parte verrebbe completamente penetrata dall’espansione delle parti adiacenti. Ma, esercitando una forza motrice, ogni parte dello spazio è di per sé mobile e dunque si deve considerare una sostanza (fig. 6). Un problema di questa dimostrazione sembra porsi laddove Kant afferma che «in uno spazio pieno non ci può essere alcun punto che non eserciti in ogni direzione una forza repulsiva, così come la subisce». Il difetto si può cogliere osservando l’argomentazione per assurdo che Kant, nella Nota 1, oppone a chi ammettesse la corrispondenza tra punti d’origine delle forze e monadi, e sorge di nuovo dalla già segnalata sovrapposizione (o confusione) 519

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kantiana tra forza e movimento. Una situazione in cui due forze si opponessero, producendo un equilibrio, sarebbe ineccepibile, da un punto di vista matematico, lasciando indeterminato il significato fisico del punto da cui la forza si propaga (il punto di applicazione del vettore). Quello che dice Kant, invece, è che, nello spazio incluso tra i due punti di applicazione della forza, debbano esserci sempre punti di repulsione: in caso contrario, infatti, i due punti in questione si avvicinerebbero «senza ostacolo e di conseguenza A e a si incontrerebbero nel punto c» (ivi). L’affermazione è comprensibile soltanto alla luce del fatto che Kant, considerando la rappresentazione puntiforme della materia, starebbe equivocando tra forza e movimento: i due punti che esercitano una forza, se questa forza non fosse contrastata, si muoverebbero nella direzione corrispondente! Oltretutto, la situazione descritta non sembra corrispondere all’intenzione del discorso. Ci si aspetterebbe che a e A fossero i centri di due presunte monadi, e che c fosse il punto di contatto delle rispettive sfere d’azione; ma nel caso descritto da Kant, anche in base alla sua concezione equivoca della forza, non sembra esserci ragione del fatto che a si muova verso c (contenuto all’interno della sfera), essendo a il punto «in cui viene esercitata la resistenza che impedisce ad una monade esterna di penetrare nello spazio occupato dalla sfera» (ivi). Del resto, se la forza viene esercitata in a, non c’è ragione del fatto che A debba esercitare un’azione anche all’interno della sfera. La difficoltà appena evidenziata dipende dalla rappresentazione puntiforme della materia, che viene però assunta a scopo critico. Sembra che Kant discuta del punto interno alla sfera per confutare la tesi secondo cui il volume della materia sarebbe occupato solo in modo virtuale. Il teorema, infatti, impone di abbandonare la concezione che, individuando punti d’azione privilegiati nel continuo dello spazio, riconduca dalla materia a quella monade metafisica e puntiforme che il pensiero critico non può più adottare. Nella Nota 1, per chiarire il suo obiettivo critico, Kant si concentra appunto sulla posizione del «monadista» (MA 504): Se un m o n a d i s t a volesse ammettere che la materia sia costituita da punti fisici, ognuno dei quali (in quanto punto) non abbia parti

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mobili, ma riempia uno spazio per la sola azione di una forza repulsiva, egli potrebbe affermare che con la suddivisione dello spazio viene diviso lo spazio stesso, ma non la sostanza che vi agisce, e dunque che viene divisa la sfera d’azione di quest’ultima, ma non lo stesso soggetto mobile e attivo. Egli, pertanto, comporrebbe la materia di parti fisicamente indivisibili e tuttavia farebbe loro occupare uno spazio in m a n i e r a d i n a m i c a.

Chi è il destinatario delle critiche kantiane? La prima risposta da dare è: Kant stesso. Nella Monadologia physica, infatti, aveva sostenuto precisamente la posizione che sta ora descrivendo: la materia sarebbe costituita da sostanze inestese, localizzate in un punto, la cui estensione coinciderebbe con la sfera d’azione delle loro forze repulsive. Un altro caso che potrebbe esporsi alle critiche kantiane, maturato per altre vie sulla scia leibniziana, è ancora una volta la dinamica di Boscovich. L’obiettivo critico sono in genere le sostanze puntiformi assunte quali centri di propagazione della forza (MA 521, corsivo mio): Nel caso [...] di una presunta monadologia fisica, ci dovrebbero essere spazi reali riempiti da un punto in maniera dinamica, cioè per repulsione; i punti infatti esisterebbero come tali prima di ogni possibile produzione della materia.

Il risultato del ragionamento kantiano è invece una rappresentazione della materia come un continuo (MA 505), che in seguito viene opposta esplicitamente a quella corpuscolare comunemente adottata dai fisici matematici e che Kant ritiene basata su una certezza apodittica. Per comprendere l’ambizione rivoluzionaria della conclusione kantiana occorre porre l’accento, nell’enunciato del teorema, sulla parola ‘parte’. Ogni parte dello spazio si deve considerare sostanza: non già ogni punto. Il punto, scrive Kant nella Critica, non è una parte dello spazio, ma solo un limite nella rappresentazione dello spazio (KrV A 438/B 466). Il punto matematico non è un oggetto di esperienza possibile. Dunque, se la sostanza deve corrispondere a una parte dello spazio, ed essere percepibile, deve essere una sostanza estesa. Non deve trattarsi però ancora, per soddisfare que521

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ste condizioni, di una sostanza dotata di un’estensione determinata, come sarebbe un atomo. In altre parole, a livello metafisico, la materia è un continuo indifferenziato: il problema di come in esso sorga la disomogeneità, e come si formino al suo interno gli aggregati di particelle o i corpi macroscopici, resta per ora in sospeso. Si può ricordare che tutto il discorso kantiano non colpisce direttamente il modello originario della dinamica kantiana, cioè la monadologia di Leibniz, posto che si attribuisca ad essa la tesi secondo cui le monadi a rigore non occupano lo spazio. Il confronto con Leibniz, di cui abbiamo già ripercorso la storia e i problemi, viene ora richiamato a commento del teorema (Nota 2, MA 506508). È vero – scrive Kant – che se la materia si considera come una cosa in se stessa, come farebbe Leibniz, le sue parti devono costituire un insieme determinato. Ma è una contraddizione pensare una quantità infinita come compiuta. Di conseguenza, la divisibilità infinita della materia costringe il filosofo a considerare quest’ultima soltanto come un fenomeno, una forma soggettiva della rappresentazione di oggetti in sé ignoti. D’altra parte, aggiunge Kant, la monadologia di Leibniz, che ammette delle componenti semplici della realtà, è una teoria «in sé corretta», se solo si considera il mondo come un puro oggetto dell’intelletto, senza riferirsi all’esperienza possibile (MA 507): il che però, per Kant, vuol dire senza conoscere. Che cosa avviene, invece, se si fa precedere il tutto della materia percepibile alla singolarità autoconchiusa della monade immateriale, che viene sempre presupposta a margine dello studio leibniziano dei fenomeni? La materia riempie uno spazio, il che, in base al dato primitivo della sensazione, costituisce una qualità metafisicamente necessaria. Ma il riempimento di uno spazio corrisponde all’esercizio di una resistenza, di una forza motrice. Il primum argomentativo e ontologico è insomma l’effetto dell’azione reciproca delle sostanze, cioè quella resistenza per cui la materia viene detta «per sé mobile»: da essa si risale all’attività dinamica della materia e dunque alla sua sostanzialità, che in questo effetto esaurisce il suo contenuto. Risalire da qui a una sostanza diversamente qualificata è del tutto ingiustificato. Rimane l’influsso fisico, scompare l’orizzonte metafisico, o meglio quest’ultimo si esprime come condizione del fenomeno, il cui contenuto non 522

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oltrepassa le condizioni del fenomeno stesso. Kant rifiuta la monadologia, di qualsiasi tipo, perché ha imboccato la strada di un relazionismo fenomenico in cui non ha più senso ammettere un interno che non sia la semplice espressione riflessa dell’esterno. Da questo punto di vista gnoseologico si capisce come mai la sostanza materiale, in quanto mobile di per sé, esista «separatamente» (abgesondert), ma non «indipendentemente» da ogni altra68. Un malinteso in proposito può sorgere dal riferimento kantiano alla categoria di sostanza, che «designa il soggetto ultimo dell’esistenza». La sostanza si distinguerebbe dalla forma indifferente dello spazio «che non contiene ancora nulla di esistente, ma contiene soltanto le condizioni necessarie della relazione esterna tra gli oggetti possibili dei sensi esterni», e a distinguerla sarebbe precisamente l’attività repulsiva. Tuttavia, quest’ultima non è forse ricavata a sua volta dalle necessarie relazioni esterne tra i corpi? Non si può pensare che una sostanza fisica esista indipendentemente da ogni altra, dato che essa non può occupare lo spazio «mediante la sua semplice esistenza», bensì in quanto annulla il movimento opposto delle altre (anzi, si direbbe, in quanto coincide con questa azione contraria). In realtà, tutta la Dinamica si riferisce a rigore alla qualità della sostanza, non alla sostanza stessa in quanto sostrato persistente delle proprietà dinamiche stesse. L’introduzione della categoria di sostanza, in questo contesto, deriva dalla necessità di contraddire la monadologia nel luogo in cui essa tradizionalmente trovava conferma, cioè trattando delle forze originarie. Ma la vera e propria esibizione del concetto di sostanza materiale si trova nella Meccanica, dove essa viene fondata sulla capacità della materia di comunicare il proprio movimento. In questo caso, d’altra parte, verrà presupposta, oltre all’impenetrabilità, anche la figura discreta del corpo che Kant – come stiamo per vedere − ha rinunciato a dedurre dinamicamente. Alla base di una meccanica che sarà nuovamente fondata sulla relatività dei movimenti corporei riposa dunque un concetto dinamico di sostanza che sembra sfumare piuttosto nella rappresentazione di uno spazio riempito da un continuo 68 MA 505. Cf. 502 cit. (Def. 5). La mia traduzione del 2003, da cui sto citando, contiene qui un errore, poiché abgesondert è reso proprio con «indipendentemente».

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senza centri. Ritroviamo così un risultato che avevamo anticipato trattando dei presupposti estetici della filosofia naturale, e che era esposto in generale nell’Anfibolia (KrV A 265/B 321): In un oggetto dell’intelletto puro è interno soltanto ciò che non ha nessuna relazione (secondo l’esistenza) con qualcosa di diverso da sé. Di contro, le determinazioni interne di una substantia phaenomenon nello spazio non sono altro che relazioni, ed essa stessa è in tutto e per tutto un insieme di mere relazioni. La sostanza nello spazio la conosciamo soltanto tramite forze che sono operanti in esso, per attirarvene altre (attrazione) o per impedire ad altre di penetrarvi (repulsione e impenetrabilità); non conosciamo altre proprietà che costituiscano altre proprietà che costituiscano il concetto della sostanza, la quale appare nello spazio, e che chiamiamo materia.

L’esame della Dinamica ci ha confermato nei dettagli questo processo di relativizzazione della sostanza. Abbiamo colto una difficoltà particolare nel tentativo di considerare le stesse forze motrici come relazioni. Ma il concetto di materia avanzato nel Teorema 4 costituisce un risultato indipendente, che Kant conserverà al di là dei confini della Dinamica dell’86, fin quando, nell’Opus postumum, troverà nello «spazio ipostatizzato» come sostrato delle forze una sostanza materiale libera dal problema della sua deduzione dallo studio foronomico del conflitto, e introdotta in base a un diverso genere di prova. In seguito all’abbandono della monadologia, comunque, Kant si accorge di andare incontro a enormi difficoltà dal momento in cui tenta di conciliare la nuova metafisica con il procedimento dei fisici matematici, cioè di quei lettori cui rivolge la sua nuova opera. Egli pone la questione subito dopo la critica ai monadisti (MA 505): I matematici si rappresentano le forze repulsive esercitate dalle parti delle materie elastiche, a seconda della maggiore o minore compressione, come crescenti o decrescenti in proporzione alle loro distanze reciproche, per es. affermano che le particelle d’aria si respingono reciprocamente in rapporto inverso alle loro distanze, perché la loro elasticità è inversamente proporzionale agli spazi in cui vengono compresse.

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L’esempio è ispirato ad una proposizione dei Principia matematica − che Kant discuterà qualche pagina dopo − in cui Newton studia la repulsione reciproca di particelle di materia microscopica69. Ma esso potrebbe valere per tutti gli esempi possibili di studio matematico di fenomeni di interazione tra corpi, in quanto quest’ultima escluda il contatto e dunque non sia pressione o urto. Lo studio matematico di questi movimenti, cercando proporzioni per formulare una legge, non può prescindere dalla variabile distanza. Questa la distanza matematica tra i punti corrispondenti alle particelle sembra implicare, da un punto di vista fisico, un vuoto: la meccanica matematica, dunque, reca traccia di una metafisica atomistica, o comunque tale che − come quella accennata da Newton negli Scholia ai Principia e nelle Queries dell’Ottica − pur introducendo azioni a distanza e ipotizzando mezzi eventualmente immateriali, presupponga le particelle discrete. Nel suo commento al passo in esame, tuttavia, Kant diffida dall’equivocare tra le proprietà degli oggetti e la loro costruzione (ibidem): Ma si manca del tutto il senso delle loro parole e si fraintende il loro linguaggio se si attribuisce al concetto dell’oggetto stesso ciò che appartiene necessariamente al solo procedimento di costruzione del concetto. Secondo questo procedimento, infatti, ogni contatto può essere rappresentato come una distanza infinitamente piccola; ed è necessariamente così che bisogna fare, nei casi in cui uno spazio più o meno grande deve essere rappresentato completamente riempito da una stessa quantità di materia, cioè mediante una stessa quantità di forza repulsiva. Nel caso di un intero infinitamente divisibile, tuttavia, non si può ammettere una effettiva distanza tra le parti, le quali, per quanto cresca l’estensione spaziale dell’intero, costituiscono un continuo, anche se la possibilità di questa crescita può essere rappresentata intuitivamente solo mediante l’idea di un allontanamento infinitamente piccolo delle parti.

Questa interpretazione delle costruzioni matematiche tocca effettivamente una questione aperta della fisica matematica dell’e69 Principia, Lib. II, Prop. XXIII, Teorema XVIII, pp. 429-431. La discussione è in MA 522.

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poca. Prescindiamo per ora dalla questione se Kant colga il senso storicamente attribuito dai matematici alle loro costruzioni. Bisogna riconoscere che questa tesi pone un nuovo problema prima di tutto a lui stesso. Le distanze, infatti, costituiscono nell’idealismo critico parte integrante della natura, in quanto appartengono alla forma del fenomeno. Negare l’esistenza delle distanze fisiche, allora, non può che significare una cosa: negare l’esistenza del vuoto. È questo il punto in cui Kant si scontra con i limiti della fisica matematica di Newton. Nel teorema newtoniano in questione, la densità di un fluido viene rappresentata come densità di «particelle» discrete. Queste particelle sono considerate qui come punti di propagazione di una forza repulsiva. Come nel caso del centro di propagazione della gravità, Newton astrae dalla questione della realtà fisica (o metafisica) corrispondente: Se i fluidi elastici consistano di particelle che si respingono, tuttavia, è una questione per la fisica. Abbiamo dimostrato matematicamente una proprietà di fluidi che consistano di particelle di questo genere, in modo da fornire ai filosofi naturali i mezzi con cui trattare la questione70.

Questa delega della meccanica alla filosofia naturale non impedisce a Newton, nell’Ottica, di esprimere la propria convinzione di atomista. In questa dottrina, e nel prelavere di essa nella meccanica successiva, si può scorgere una tendenza intrinseca della stessa meccanica razionale: la particella, soggetto della massa e della forza, costituisce un correlato fenomenico della matematica, che così facendo può assumere un riferimento empirico. Tutto ciò incoraggia a considerare le distanze tra i corpi, anche quelli microscopici, come oggettive. Con l’affermazione della continuità della materia Kant anticipa dunque il successivo rifiuto della rappresentazione degli atomi e 70 Principia, Lib. II, Scolio alla Proposizione XXIII, p. 431. È significativo che con questo scolio si concluda il libro II dei Principia, dedicato in gran parte alla meccanica dei fluidi. Al concetto di un fluido continuo, quale stato originario della materia, Kant dedicherà importanti osservazioni nella Nota generale alla Dinamica.

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del vuoto. Negando però oggettività non solo (come Newton) ai punti di propagazione delle forze – considerati come luoghi ideali piuttosto che come sedi della sostanza71 – ma anche alle stesse distanze tra le particelle che costituiscono i corpi, Kant non è più in grado di collegare la sua metafisica alla fisica matematica del tempo. Quest’ultima, come mostrano le cautele di Newton e tentativi come quello di Boscovich, non aveva risolto il problema di conciliare continuità e forze centrali: lo scarto tra matematica e philosophia naturalis permetteva anche in questo caso di lasciare il problema a margine dello sviluppo scientifico. Si potrebbe, dunque, rovesciare la questione a favore di Kant, e far consistere la difficoltà nei limiti di quella fisica: egli starebbe allora sostenendo la razionalità di un concetto di continuità che la fisica del tempo contraddice e verso cui si avvicinerà la fisica successiva con il concetto matematico di campo. Da questo punto di vista è interessante rilevare che proprio le basi del concetto fisico-matematico di campo vengono elaborate per la prima volta nell’ambito della meccanica dei fluidi, dove le particelle microscopiche scompaiono, ai fini della descrizione matematica, in un fluido continuo dotato di proprietà meccaniche. Ma ciò che in questa disciplina fisico-matematica è un fluido ideale, per Kant costituisce la forma originaria della materia: un tutto continuo che riempie lo spazio. È bene ricordare inoltre che Kant sta cercando di realizzare una dinamica metafisica, non una fisica o una meccanica. L’evoluzione del suo pensiero non è determinata tanto dal fatto di riflettere su questa o quell’altra teoria scientifica, ma dall’individuare nella scienza della natura i tratti teorici di una metafisica che la precede. Per questa ragione, la semplice notizia di nuove teorie fisiche non avrebbe mai potuto come tale risolvere i problemi della filosofia kantiana. Come si vedrà, piuttosto, questa muove autonomamente verso una metafisica – e, per conseguenza, una fisica – in cui la materia tende ad assumere le proprietà dello spazio: come la divisibilità infinita, in rottura con la monadologia fisica, viene estesa alla materia, 71 Cf. Reflexion 35, KgS XIV, 111: «Il corpo si trova nel punto in cui convergono le linee direttive delle sue forze». Il passo si trova proprio nell’ambito di considerazioni sulle forze newtoniane.

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così anche la precedenza dell’estensione sul limite matematico, della parte sul punto, viene estesa dal concetto di spazio a quello di materia. Ma essendo queste parti isolate astraendo da un continuo, infine Kant dovrà compiere un ultimo passaggio, e assegnare alla materia come «tutto» la stessa precedenza metafisica sulle parti che il suo concetto di spazio possiede già fin dalla Critica72. 72 Più che le analogie tra dinamismo kantiano e fisica del campo, è opportuno sottolineare le differenze tra le due teorie. Kant, intanto, muove da questioni metafisiche e ne ricava l’esigenza di un continuum materiale, che continuerà a sostenere con argomenti filosofici. D’altra parte, almeno nelle teorie classiche, il campo si definisce mediante l’effetto che produce su una “particella di prova” che ne attraversa lo spazio di propagazione. Al di là di queste distinzioni teoriche, poi, bisogna riconoscere che l’influenza del dinamismo kantiano sulle teorie del campo, se vi fu, fu molto indiretta. Di qui a pochi anni Øersted (1820), imbevuto delle idee della filosofia naturale tedesca ispirata a Kant, scoprirà sperimentalmente la correlazione tra elettricità e magnetismo. Sul passaggio tra il dinamismo kantiano e l’elettromagnetismo, mediante Schelling, si veda ora FRIEDMAN, Kant-Naturphilosophie-Electromagnetism, in M. FRIEDMANA. NORDMANN (eds.), The Kantian Legacy in the Nineteenth-Century Science, Cambridge Mass. 2006, pp. 51-79. Il principale luogo di divergenza concettuale tra la dinamica kantiana e le teorie ottocentesche del campo risiede nel postulato kantiano secondo cui le sole forze pensabili in natura sono le forze centrali (MA 498), che verrà abbandonato in base alle esperienze sulle interazioni elettromagnetiche (per un profilo storico v. P.M. HARMAN, Energy, Force and Matter. The Conceptual Development of Nineteenth-Century Physics, Cambridge 1982 e la recente sintesi in TORRETTI, The Philosophy of Physics, pp. 168-180). Nella fisica del campo del XIX secolo non si trova comunque alcuna vera e propria deduzione della materia dal campo, di cui pure l’energetica e la teoria elettromagnetica della massa posero l’esigenza. Un tentativo del genere si può trovare piuttosto nelle teorie del campo post-relativistiche, che però, come abbiamo ricordato, non hanno portato a buon fine una deduzione della massa dal campo (v. cap. 3, nota 138). Abbiamo anche ricordato il tentativo effettuato da Cassirer di considerare la «fisica del campo» post-relativistica come il compimento di un itinerario di dissoluzione della materia nel campo che risalirebbe idealmente a Kant. Le parole di Cassirer, a prescindere dalla riuscita della sua sintesi, definiscono bene l’esigenza di un relazionismo integrale della fisica della materia, di cui la dinamica kantiana ha delineato l’idea senza poterla realizzare nei dettagli: «La realtà che noi denominiamo campo non si lascia più pensare come un complesso di c o s e fisiche, ma è l’espressione di un complesso di r e l a z i o n i fisiche. Se noi possiamo isolare da queste relazioni determinati elementi, se noi consideriamo isolatamente singoli punti del campo, ciò tuttavia non significa mai che li possiamo anche isolare davvero nell’intuizione, indicandoli come formazioni intuitive a se stanti. Ognuno di questi elementi è invece condizionato dal tutto a cui appartiene, anzi viene “definito” solo mediante questo tutto» (Phänomenologie der Erkenntnis (1929), in CGW 13, p. 540).

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I problemi di costruzione, comunque, si presenteranno con virulenza nell’ambito del tentativo kantiano di fornire una legge delle forze fondamentali, proprio nella misura in cui questa si riferisce all’azione delle forze centrali. La stessa rappresentazione matematica della forza, in quanto dotata di un centro di propagazione, sembra spingere in maniera irresistibile verso un ritorno alla rappresentazione monadologica: se la forza proviene da un punto, dal quale occorre partire per misurarne l’effetto, perché non cedere alla tentazione, tanto forte da assomigliare a un giudizio analitico, di identificare quel punto con una sostanza, e porre questa a fondamento del corpo?73 Tuttavia, evidentemente, il Kant dei Principi metafisici è più preoccupato delle illusioni di una metafisica monadologica che dell’accordo tra la sua metafisica della materia − di una materia senza centro − e le costruzioni corrispondenti, le quali (per ora) rappresentano inevitabilmente questi centri, insieme alle loro distanze reciproche74. Ma il problema della costruzione si ripresenta mediante un concetto di cui, stavolta, neppure la dinamica kantiana non può fare veramente a meno, e che rimarrà al suo interno il più problematico: quello del corpo. La forza repulsiva, infatti, impone alla sua costruzione la rappresentazione di un volume determinato, rispetto a cui si definisce la sua azione75. 73 Una tendenza a ritornare alla monadologia degli anni ’50, che sarebbe immanente alla teoria dei Principi metafisici, in quanto questa fa uso della rappresentazione di un centro di forza, viene sottolineata da ADICKES, Kant als Naturforscher, vol. I, pp. 212, 218. Cf. POLLOK, MA Kommentar, pp. 262, 281. Lo stesso Adickes accenna in sede teorica ad una propria posizione monadologica. È appena il caso di ricordare le tante e diversissime “nuove” monadologie sorte nel frattempo nella filosofia tedesca: si pensi a Herbart, a Lotze, alla Neue Monadologie di D. Mahnke del 1917. 74 Il problema segnalato da Adickes scompare nella teoria di Boscovich, il quale, presupponendo senza preoccupazioni le sue monadi puntuali, può concepire la possibilità di un’azione a distanza tra due punti, tale da far sì la velocità dell’uno sia rallentata dalla forza dell’altro prima dell’effettivo contatto. La crescita asintotica della curva vicino all’origine spiega poi l’impenetrabilità delle monadi puntuali (cf. fig. 5). 75 MA 516: «Definizione 7. Chiamo f o r z a d i s u p e r f i c i e una forza motrice per cui delle materie possono agire immediatamente l’una sull’altra solo attraverso la loro superficie comune di contatto; chiamo invece f o r z a p e n e t r a n t e quella forza, per cui una materia può agire immediatamente anche sulle parti dell’altra che stanno al di là della superficie di contatto. Corollario. La forza repulsiva mediante cui la materia riempie uno spazio è una semplice forza di superficie. Infatti, le parti che stanno

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La penetrazione descritta dal Teorema 1 della Dinamica, dunque, non è rappresentabile quale risultato di un persistente influsso a distanza – come avverrà nel caso dell’attrazione – ma va considerata successiva al contatto tra due corpi. Pur di non introdurre la monade metafisica, dunque, Kant presuppone (implicitamente) fin dall’inizio la rappresentazione fisica di un corpo esteso. Ma così come la dinamica di Boscovich postula la realtà delle monadi fisiche, quella kantiana, per introdurre il conflitto reale, si fonda tacitamente sul presupposto della materia estesa e discreta come un dato. Le si pone dunque il compito di costituire sinteticamente quest’ultima rappresentazione in base a leggi delle forze. Se questo non fosse possibile il vantaggio della metafisica fondata sull’esperienza verrebbe ripagato con l’impossibilità di effettuare il passaggio alla fisica empirica.

D) La forza attrattiva originaria: conflitto tra le forze fondamentali e origine della densità Trattando della forza repulsiva della materia Kant ha affermato che il riempimento dello spazio deve essere dotato di un grado. Non ha parlato però di come questo grado possa essere determinato, né di come, a seconda della diversa intensità della forza, si possa giustificare a priori la presenza di una distribuzione disomogenea della materia, quale viene riscontrata effettivamente in natura. La determinazione effettiva del grado, cioè la sua misura, non spetterà alla metafisica della natura. Compito di essa è, piuttosto, mostrare le sue condizioni di possibilità. Kant introduce a questo scopo, con il Teorema 5, una seconda forza fondamentale della materia: una forza attrattiva originaria, che agisca in contrasto con la precedente e – corrispondendo alla funzione logica della negazione – permetta di pensare la costruzione di questo grado (cioè la densità della materia). a contatto delimitano l’una la sfera d’azione dell’altra: la forza repulsiva non può muovere nessuna parte che sia più distante, se non mediante quelle intermedie, e un’azione immediata di una materia su un’altra, che penetri completamente quest’ultima mediante forze espansive, è impossibile». Le ragioni di questa definizione kantiana diverranno più comprensibili discutendo del suo tentativo di quantificare la forza repulsiva.

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Poiché ogni data materia, per costituire una cosa materiale determinata, deve riempire lo spazio con un determinato grado di forza repulsiva, soltanto un’attrazione originaria in conflitto con la repulsione originaria può rendere possibile tale determinato grado di riempimento, e con esso la materia (MA 518)76.

L’introduzione di una forza attrattiva originaria corrisponde alla pretesa più ambiziosa e peculiare della dinamica metafisica: quella di giustificare in base a un solo principio tanto la gravitazione newtoniana, quanto la stessa estensione fisica della materia. Il tentativo è analogo a quello intrapreso da diversi esponenti del dinamismo di scuola newtoniana. Considerando la forza attrattiva come essenziale alla materia, si cercava di eliminare dalla scienza la lacuna individuata dallo stesso Newton, secondo cui la causa della gravitazione restava ignota. Quest’ultima tesi, infatti, lasciava il dinamismo originale newtoniano fondamentalmente imperfetto, e esposto alle critiche di parte meccanicista, che nella nuova fisica si rifiutavano di vedere qualcosa di più che mere leggi matematiche tutte da intepretare. Si cercava perciò di realizzare un dinamismo considerato come teoria capace di spiegare i fenomeni in base alla loro natura, come paradigma alternativo alle diverse versioni di meccanicismo: se la gravitazione fosse una forza essenziale alla materia, infatti, cadrebbe ogni genere di obiezione relativa alla sua impossibilità fisica, e la fisica dei flussi d’etere e dei vortici si potrebbe dire finalmente privata di ogni fondamento. Le considerazioni di Kant vanno lette sempre in questo contesto, anche se, come di consueto, iscrivendosi nella cornice della filosofia critica acquisiscono un significato originale. Il ragionamento con cui una stessa forza viene considerata responsabile dell’attrazione e dell’estensione fisica dei corpi si può 76 In questo passo, Kant usa il termine ‘grado’ in due sensi differenti: il ‘grado’ della forza repulsiva, infatti, non sembra poter corrispondere al ‘grado’ del riempimento dello spazio che risulterà dal conflitto di questa con la forza attrattiva. Nel seguito del passo citato, infatti, Kant ipotizza che la determinazione di questo grado debba dipendere dalla variazione specifica della forza repulsiva nelle diverse specie di materia. Dunque: dal conflitto di due forze dotate entrambe di un grado risulterà il vero e proprio grado del riempimento dello spazio, o densità.

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riassumere così: perché una materia riempia lo spazio con un’intensità determinata l’azione della forza repulsiva deve essere contrastata originariamente da quella di una forza attrattiva; come risultato di questo conflitto, in natura, si producono parti di materia («cose materiali determinate») dotate di una densità determinata, al cui interno prevale la sola forza repulsiva e al cui esterno si estende, all’infinito, l’azione della forza attrattiva originaria; quest’ultima, dunque, oltre ad assolvere il compito di costituire la stessa materia, agisce al suo esterno con un’azione che può essere identificata con quella della gravità. Se insomma (1) la realtà della forza attrattiva originaria, in quanto condizione di possibilità della stessa materia, è l’autentica tesi metafisica della Dinamica, la gravitazione fisica (2) ne è un corollario: (1) La forza d’attrazione originaria ha in sé il fondamento della possibilità della materia, in quanto cosa che riempie lo spazio in un determinato grado, ed insieme quello della possibilità del contatto fisico (MA 512); (2) l’azione dell’attrazione universale, esercitata immediatamente da tutta la materia su tutta la materia e in ogni direzione, si chiama g r a v i t a z i o n e (MA 518).

Come già nella dimostrazione della prima forza fondamentale, il tentativo kantiano incorrerà in problemi legati in vario modo al collegamento delle tesi metafisiche con le costruzioni della matematica e, attraverso queste, alla situazione della fisica del tempo. Nell’indagare questo problema, Kant si basa su un paradigma scientifico non ancora stabilito, che non possedeva un grado di matematizzazione paragonabile a quello della meccanica newtoniana, né aveva acquisito la solidità interna paragonabile a quella di un meccanicismo ruminato dagli scienziati per almeno due secoli. Perciò si dovranno considerare le sue difficoltà con una tolleranza doppia: a differenza che nel caso della meccanica, egli sta cercando di sostenere a priori la possibilità – e anzi la necessità – di una scienza che in gran parte ancora non c’è. Il Teorema 5 afferma che «la possibilità della materia richiede una forza attrattiva come sua seconda forza fondamentale» (MA 508). La dimostrazione riduce all’assurdo l’ipotesi che la materia sia costituita mediante la sola forza repulsiva e giunge dunque ad 532

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ammettere la necessità di una forza di verso opposto. La forza repulsiva non può limitarsi da sé; ma, se non fosse limitata, la materia non potrebbe esistere (ibidem): Una forza motrice essenziale, per cui le parti della materia si allontanano reciprocamente, i n p r i m o l u o g o non si può limitare da sé: essa infatti sollecita piuttosto la materia ad estendere continuamente lo spazio che riempie; i n s e c o n d o l u o g o, non può essere racchiusa entro un determinato limite di estensione dal solo spazio; nello spazio, infatti, si può trovare la ragione per cui, con l’aumento di volume di una materia in espansione, la forza espansiva diventi più debole in proporzione inversa; ma, dato che di ogni forza motrice sono possibili infiniti gradi minori, nello spazio non si potrà mai trovare una ragione per cui questa forza si annulli in un punto qualsiasi. Perciò la materia, se possedesse la sola forza repulsiva (in cui sta il fondamento dell’impenetrabilità), e se un’altra forza motrice non agisse in senso contrario a questa, non si manterrebbe entro il limite di nessuna estensione, cioè si disperderebbe all’infinito, ed in nessuno spazio assegnabile si potrebbe trovare una quantità di materia assegnabile. Di conseguenza, se nella materia vi fossero solo forze repulsive tutti gli spazi sarebbero vuoti e la materia a rigore non esisterebbe affatto.

Si intravede, in questa argomentazione, il filo conduttore categoriale della coppia realtà-negazione, il quale però non corrisponde a una successione analitica, ma deve essere concretizzato, per ottenere la delimitazione del grado, mediante la rappresentazione di un conflitto reale77. Solo attraverso il riferimento all’intuizione 77 Il filo conduttore è segnalato da Kant stesso nel Corollario generale alla Dinamica (MA 523): «Se noi gettiamo uno sguardo retrospettivo su tutto ciò che è stato discusso nella Dinamica, osserveremo che vi sono stati trattati i seguenti argomenti: i n p r i m o l u o g o, è stato preso in considerazione il r e a l e nello spazio (detto altrimenti il solido), a proposito del riempimento di questo spazio per mezzo della f o r z a r e p u l s i v a; i n s e c o n d o l u o g o, si è considerato ciò che costituisce il n e g a t i v o rispetto al precedente, cioè l’oggetto vero e proprio della nostra percezione esterna, ovvero la f o r z a a t t r a t t i v a, la quale, se fosse la sola ad agire, penetrerebbe tutto lo spazio e ridurrebbe a niente tutta la solidità; i n t e r z o l u o g o, si è trattato della l i m i t a z i o n e della prima delle due forze per azione della seconda, e della determinazione, che ne risulta, del g r a d o d i r i e m p i m e n t o dello spazio. Nel complesso, dunque, si è trattato compiutamente della qualità della materia, per quanto spetta a una Dinamica metafisica, sotto i titoli della r e a l t à, della n e g a z i o n e e della l i -

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pura, infatti, Kant può sostenere a priori la necessità di ammettere una forza attrattiva originaria, risolvendo così l’apparente paradosso di introdurre una proprietà «che appartiene al concetto di materia nonostante non sia contenuta in questo concetto» (MA 510). L’argomentazione, conformemente all’impostazione metodologica dell’opera, si avventura dunque per la via indiretta di un’indagine sulla possibilità della costruzione della materia, distinguendosi con ciò, in quanto sintetica, dal procedimento analitico che caratterizza la monadologia giovanile. Non c’è dubbio, ora, che una forza possa essere annullata soltanto da un’altra forza. Una volta introdotta la rappresentazione di un moto da annullare, Kant è in grado di dimostrare il suo teorema con esattezza matematica. In base allo stesso conflitto, nel Teorema 6, egli dimostrerà che «nessuna materia è possibile mediante la sola forza d’attrazione, senza repulsione» (MA 510). Le due forze fondamentali sono entrambe condizioni necessarie ma − senza il loro conflitto − non sufficienti a produrre il grado della materia. Ci si domanda dunque: qual è il presupposto mediante cui Kant giunge a questa rappresentazione di un conflitto? Quel che innesca l’argomentazione è l’allontanamento delle parti che, se lasciato a se stesso, produrrebbe una dispersione della materia stessa. L’esame del teorema kantiano deve concentrarsi dunque su questa dispersione, e sull’allontanamento che la produrrebbe. L’azione della forza repulsiva deve essere limitata dall’azione opposta di una forza attrattiva; se così non fosse, la stessa materia «non si manterrebbe entro il limite di nessuna estensione, cioè si disperderebbe all’infinito, ed in nessuno spazio assegnabile si potrebbe trovare una quantità di materia assegnabile» (MA 508). Questa dispersione, tanto marcatamente connotata con il linguaggio del calcolo infinitesimale, invita il lettore a tradurla in formum i t a z i o n e». L’argomentazione va dunque in cerca di un rigore che distingua radicalmente le due forze fondamentali kantiane da concetti di opposizioni fisiche fondati sulla sola logica. Del resto Kant affermerà proprio nella seconda edizione della Critica che dalle prime due categorie di ogni classe non può risultare la terza per mera composizione (KrV B 111). La Dinamica mostra che, in metafisica, il passaggio da realtà e negazione alla limitazione richiede la mediazione dell’intuizione pura.

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la, affrontando nuovamente l’oscurità del linguaggio fisico-matematico kantiano. Come si chiarirà nelle pagine successive Kant, parlando di dispersione della materia nello spazio, allude al concetto di densità78. Con la crescita a infinito del volume occupato, dunque, la densità della materia tenderebbe a zero, e con essa la massa. Questo risultato dipenderebbe dall’assenza di un fattore responsabile della limitazione di questo volume, che ne definisca l’estensione. Ma perché, in assenza di un tale fattore dinamico, la materia dovrebbe espandersi? La ragione, scrive Kant, è che ogni punto esercita una forza repulsiva: ora, due forze repulsive, senza dubbio, non si respingono. Non restano allora che due possibilità: o si respingono parti della materia (α), o si respingono i punti (β). Ci si ritrova nuovamente nel labirinto del continuo materiale. (α) La prima ipotesi sembra produrre un circolo vizioso. Se infatti la materia si ottiene solo come risultato dell’azione della forza, come è possibile che la forza agisca su parti della materia? La forza fondamentale è la ratio essendi della materia. Pensare che la forza repulsiva agisca su una parte di materia allontanandola, prima di aver provato la necessità della seconda forza essenziale, anzi per provarla, sembrerebbe identico a presupporre una premessa che risulterà solo in base al presente teorema, ovvero l’esistenza della materia nello spazio. Il problema è tuttavia più specifico, ed è quello già accennato a proposito della forza repulsiva in quanto forza di superficie: si tratta del presupposto ingiustificato della rappresentazione discreta di un corpo, che ora, con la rappresentazione dell’allontamento, diviene pienamente evidente. In effetti il presupposto intuitivo di una materia che riempie lo spazio non è di per sé scandaloso nella struttura dei Principi metafisici. Senza questa premessa Kant non avrebbe potuto introdurre, nel Teorema 1, la rappresentazione di un movimento che attraversa lo spazio occupato da una materia. La rappresentazione dell’estensione impenetrabile – come vide bene Schelling − è precisamente il punto di partenza della Dinamica. Il problema della rappresentazione di un’azione della forza repulsiva su parti della 78 MA 525: «Il grado di riempimento di uno spazio di contenuto determinato si chiama d e n s i t à».

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materia risiede tuttavia in un presupposto più determinato. Si è osservato, infatti, che la forza introdotta nel Teorema 1 corrisponde al concetto puramente foronomico di un’accelerazione. Un’azione tra parti – piuttosto che tra punti – della materia, però, presuppone la determinazione di volumi discreti di materia e del modo in cui un’accelerazione agisce su essi in quanto masse. Ma tanto le masse, quanto la determinazione del loro confine, tale da permettere un loro allontanamento in quanto parti unitarie, sono concetti diversi da quello del semplice riempimento dello spazio trattato nella dinamica metafisica e stabilito a priori. Essi verranno stabiliti in base alla premessa metafisica del riempimento dello spazio, che Kant sta discutendo, ma anche in base a premesse empiriche ricavate da osservazioni e esperimenti. Nella fisica dell’epoca, da Newton in poi, era molto diffusa in proposito l’ipotesi di una specifica forza di coesione, agente a contatto tra i corpi, che Kant conosce bene79. Sono dunque chiari i termini del problema che si pone per la rappresentazione del conflitto: la fisica pura presuppone il riempimento, mostrando che sarà dotato di un grado e che dovrà essere risultato di un conflitto di forze; non presuppone però il corpo discreto: anzi, come si vedrà, nemmeno tutta la metafisica della natura corporea potrà stabilire a priori la figura determinata di un corpo. Consideriamo meglio il significato storico di questo presupposto di un corpo e le ragioni per cui esso non può essere introdotto senza danno nella Dinamica kantiana. La tentazione di considerare le parti di materia come corpi sorge da una dipendenza della forza dal corpo, che Kant sta cercando di eliminare, ma di cui mantiene difettosamente il linguaggio. Si tratta di una caratteristica fondamentale di tutta la fisica moderna: tanto nel caso – galileiano e cartesiano – in cui la forza sia associata al moto della materia stessa, quanto in quello – newtoniano – in cui si ammettano forze agenti 79 NEWTON, Opticks, p. 389. Questa nozione, associata ai fenomeni degli stati di aggregazione, è diffusa nella maggioranza dei testi di fisica del ’700. Kant la discute in numerose Reflexionen (KgS XIV: 138-141, 163ss., 174ss., 183-186, 231ss., 297-300, 309-312, 317-322, 343ss., 412-418, 432-442, 444-448, 456) e nella Nota generale alla Dinamica, MA 526ss.

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sui corpi dall’esterno, corpo e forza sono concepiti come realtà distinte ed eterogenee, e le proprietà meccaniche del corpo – studiate attraverso pesatura, urto o moto nello spazio – stabiliscono concetto e misura della forza, presupponendo una rappresentazione corpuscolare. Non si tratta di un’assunzione puramente immaginaria, ma di una vera e propria premessa teorica, sotto cui cadono non soltanto i corpi di cui si vogliono studiare le proprietà, ma anche gli strumenti per studiarli (cannocchiali, bilance, molle ecc.), che sono a loro volta corpi. Nella Dinamica Kant sta cercando invece di ricondurre estensione e causa del movimento a due forze, di tipo newtoniano, ricavate quali condizioni della sola rappresentazione dello spazio pieno, in modo da ridurre al minimo i presupposti empirici dei concetti fisici. Sviluppa dunque una dinamica senza massa, in cui il riempimento dello spazio non deve essere concepito inizialmente come proprietà di un corpo, ma come una determinazione più astratta, il «reale» nello spazio. Ma su queste basi non si riesce a giustificare adeguatamente, a livello fisico, la rappresentazione di una forza repulsiva in quanto forza di superficie. (β) Pare, dunque, che con l’allontanamento delle parti di materia si debba intendere che siano i punti stessi a doversi allontanare, in quanto reciprocamente respingenti. In questo caso, l’allontanamento costituirebbe un esito coerente: senza dubbio due punti che si respingono a vicenda si allontanano indefinitamente, se non interviene una forza opposta. Ma per valutare questa ipotesi ci si deve domandare: che cosa sono questi punti, e come va considerato il loro allontanamento? I punti, in quanto luoghi d’origine della repulsione, sono i luoghi delle sostanze fisiche del Teorema 4. È difficile, tuttavia, pensare che in essi, che sono privi di proprietà meccaniche, un conflitto foronomico possa produrre un grado determinato della densità – piuttosto che una semplice velocità – così come avveniva, nell’esempio fisico della compressione, con la materia estesa e compressa. Ma anche prescindendo da questo serio problema, è la rappresentazione del loro allontanamento a negare le premesse del teorema. Questo allontanamento, infatti, non può che coincidere con l’ammissione di un vuoto interposto. Ogni punto geometrico contenuto tra essi dovrà essere nuovamente ma537

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teriale: il teorema matematico della infinita divisibilità dello spazio è diventato infatti «ormai fisico» (MA 506). L’allontanamento tra i punti, dunque, determinerebbe un’assurda generazione di infiniti punti di repulsione nelle distanze, oppure del vuoto. Il paradosso suscitato dalla rappresentazione dell’attrazione è analogo ma peggiore rispetto a quello della forza repulsiva originaria: nel caso precedente, sono forza di superficie e vuoto a implicarsi vicendevolmente: la definizione di volumi pieni sembra presupporre un vuoto esterno. Questo problema è forse risolubile mediante un presupposto fisico, anch’esso tipico della fisica dell’epoca, che comparirà nel seguito della Dinamica kantiana: basta ipotizzare un mezzo poco denso, l’etere, che riempia lo spazio cosmico tra i corpi senza interferire sensibilmente con la loro interazione dinamica e − meccanicamente – con i moti planetari. Ma se nel caso della forza repulsiva l’impiego di ipotesi empiriche ausiliarie, come la forza di coesione e l’etere, poteva giustificarsi ai fini della prova del teorema, adesso è in gioco la stessa determinazione della materia che dovrebbe rendere superfluo l’impiego di tali ipotesi. Infatti la costruzione di qualsiasi materia, tanto di questi corpi quanto dell’ipotetico etere, comporta la rappresentazione di un allontamento tra parti cui deve opporsi la gravitazione. Ci si imbatte insomma nuovamente nella problematica rappresentazione del vuoto, che sembra inevitabilmente associata al ragionamento del Teorema 5, qualunque sia l’ipotesi sui soggetti che si allontanano. È impossibile attribuire un significato fisico oggettivo alla situazione descritta da Kant, in cui concetti geometrici e dinamici si succedono e implicano a vicenda vertiginosamente: si pretende un allontanamento, senza produzione di un vuoto, tra punti di propagazione di una forza responsabile del pieno. Anche in questo caso Kant non ignora la difficoltà e la ascrive alla sola costruzione (MA 521): Io vedo bene la difficoltà insita in questo metodo di spiegazione della possibilità della materia: essa consiste nel fatto che, se un punto non ne può respingere immediatamente un altro mediante una forza repulsiva, senza nello stesso tempo riempire mediante questa forza tutto lo spazio fisico che si estende fino alla distanza data, sem-

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bra conseguirne che questo spazio dovrebbe contenere numerosi punti di repulsione, cosa che contraddice la premessa ed è stata sopra confutata (Teorema 4) sotto il nome di una sfera di repulsione del semplice nello spazio.

Quel che Kant intende è che l’allontanamento tra punti di repulsione non può che determinare una distanza tra i punti stessi, e dunque la rappresentazione di uno spazio; ma questo spazio, secondo la continuità della materia, dovrebbe essere a sua volta pieno, e contenere altri punti di repulsione. Come si risolve, allora, la questione? Kant, piuttosto che risolverla in base ai suddetti termini del dilemma, ritiene opportuno liquidarla mediante la critica delle sue premesse. Afferma infatti, ripetutamente, che tutta la questione non interessa la metafisica, bensì la sua applicazione matematica. La materia è un «quantum continuum». Lo spazio ammesso come distanza tra le sue parti non è che «l’idea di uno spazio, che serve a rendere intuitiva la dilatazione di una materia intesa come grandezza continua, sebbene nella realtà essa non possa essere concepita veramente in questo modo» (MA 521, cors. mio). Questi spazi ideali entrano poi nella formulazione delle leggi della forza repulsiva, in cui compare una proporzionalità alla distanza tra le parti che in nessun modo deve essere presa per oggettiva: «Non si deve trasformare, insomma, una difficoltà nella costruzione di un concetto, o piuttosto un suo fraintendimento, in un’obiezione al concetto stesso; altrimenti, questa obiezione riguarderebbe la rappresentazione matematica sia della proporzione con cui avviene l’attrazione a diverse distanze, sia di quella con cui ogni punto ne respinge immediatamente ogni altro, all’interno di un tutto materiale che si espande e si comprime» (MA 522). La metafisica – aggiunge Kant al termine della presente trattazione (MA 522-523) – non deve implicarsi nei dettagli, e nelle eventuali difficoltà, relativi alla definizione di una legge matematica delle forze. Questa limitazione delle ambizioni di una filosofia pura della natura è di per sé perfettamente coerente con il metodo definito nella Prefazione all’opera. Ma il problema che stiamo seguendo non è forse più generale e precedente a questa determinazione di legge? Non si tratta, infatti, di determinare la legge delle 539

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forze, ma di stabilire le condizioni di possibilità dell’azione di una forza nello spazio (cf. MA 534). La critica all’oggettività della rappresentazione dei punti che si allontanano, da questo punto di vista, raggiunge due scopi: riduce all’assurdo una rappresentazione puramente matematica del conflitto e, di conseguenza, giudica preventivamente impossibili i tentativi di chi cercasse di dedurre la materia mediante la pura matematica. Se però la rappresentazione dei punti non può essere oggettiva, come bisogna rappresentare la materia? Un tentativo di istituire una coerenza tra la tesi del continuo fisico (Teorema 4) e i concetti delle forze fondamentali (Teoremi 1 e 5) con le loro costruzioni viene cercato da Kant considerando i particolari di queste ultime – la cui manifestazione nelle dimostrazioni kantiane si è vista condurre ad assurdità – come momenti astratti e ideali, e muovendo piuttosto dal continuo materiale stesso, quale realtà. Kant insiste sul primato del continuo, e del suo grado, rispetto alle due forze che ne costituiscono i momenti, discutendo della forma che potrà assumere una legge delle forze. La questione compare a commento del Teorema 8, che afferma la diffusione infinita dell’attrazione, e nella cui Nota 1 Kant presenta la sua «breve osservazione preliminare relativa al tentativo [Versuch] di una tale costruzione forse possibile», che ripresenta le relazioni matematiche della Monadologia physica. Secondo questa ipotesi: L’attrazione originaria della materia agirebbe in ogni direzione in rapporto inverso ai quadrati delle distanze, mentre la repulsione originaria agirebbe in rapporto inverso ai cubi delle distanze infinitamente piccole, e mediante questa azione e reazione delle due forze fondamentali sarebbe possibile una materia che riempie lo spazio secondo un determinato grado: infatti, poiché con l’avvicinamento delle parti la repulsione cresce in misura maggiore dell’attrazione, si determina un limite dell’avvicinamento che non può essere superato per nesssuna attrazione data; e con ciò si determina quel grado di compressione che costituisce la misura del riempimento intensivo dello spazio» (MA 521; cf. fig. 780). 80 J. VUILLEMIN, Kant’s Dynamics, in E. FÖRSTER (ed.), Kant’s Transcendental Deductions, Stanford 1989, p. 246, segnala che una curva identica a quella kantiana si usa,

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Anche se nell’enunciato di questa ipotetica legge vengono menzionate parti e distanze Kant insiste sul fatto che l’azione di una forza dipende soltanto dalla direzione delle forze e dalla «grandezza dello spazio in cui ciascuna di esse si propaga a distanze diverse» (MA 517). Sono queste le uniche due condizioni necessarie a concepire il conflitto dinamico e la costituzione del grado di riempimento. D’altra parte egli lamenta lungamente l’inadeguatezza delle rappresentazioni matematiche dell’azione mediante linee di propagazione. A questo proposito ribadisce più volte che lo spazio in cui una forza si propaga è l’unica condizione essenziale per determinarne l’azione, la quale non si propaga realmente lungo linee di forza. Discutendo come esempio il caso analogo della diffusione luminosa (in riferimento all’ottica di Euler), Kant considera il grado di realtà in genere come una grandezza originaria che si propaga in tutte le direzioni dello spazio, individuando sfere d’azione, e che agisce, in un punto di queste sfere, con un’intensità determinata dalla grandezza dello spazio da esse incluso81. Se la distribuzione avviene su superfici (come nel caso della forza attrattiva), il grado decresce proporzionalmente al quadrato del raggio (∝1/r2); se avviene secondo volumi (come nel caso della forza repulsiva, che agisce solo a contatto) il grado è inversamente proporzionale al cubo dei raggi (∝1/r3): il conflitto tra due grandezze definite da tali proporzionalità dà proprio la curva della legge delle forze ipotizzata da Kant82. In questo modo di procedere, ora, è lo spazio in cui in fisica, per rappresentare le interazioni dinamiche tra molecole che si mantengono in reciproco equilibrio. Non si tratta però, come sottolinea lo stesso Vuillemin, della curva che determina l’intensità della risultante tra due forze, ma di una curva di potenziale di una singola forza, analoga a quella adottata da Boscovich, e che si ritrova del resto nello studio del potenziale gravitazionale (nel cosiddetto “potenziale efficace”). Un tale monismo dinamico, come abbiamo già detto, sarebbe stato per Kant metafisicamente inaccettabile. 81 MA 519-520. Il riferimento a Euler si trova qui in una lunga nota a pié di pagina (cf. Lettres, XIX-XX, EOO s. III, 11, pp. 44-47). Questa teoria della propagazione della luce è esposta in ERXLEBEN, Anfangsgründe, §§ 298-299. Si tratta comunque di una dottrina diffusa nella scienza del tempo, che Kant poteva trovare per es. in LAMBERT, Photometria sive de mensura et gradibus luminis, colorum et umbrae, Augsburg 1760. 82 Per quanto riguarda la proporzionalità della forza di gravità a 1/r2, le specula-

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si considera di volta in volta l’effetto, non già il centro della presunta causa, a costituire il termine da cui si deve cominciare per la costruzione della forza. Schematizzare la forza con linee che si propagano dal centro, associando il grado al numero di queste linee, non può restituire la continuità della qualità distribuita su ogni superficie: la divaricazione reciproca delle linee condurrà infatti a produrre dei vuoti. Questa concezione, ispirata a una rappresentazione discreta della qualità in questione (in ottica, a una concezione corpuscolare o comunque emissionistica della luce), viola dunque il principio di continuità, cui deve conformarsi la distribuzione geometrica richiesta dalla stessa costruzione matematica83. Lo spazio illuminato, invece, si deve considerare «uniforzioni in proposito erano cominciate già prima della pubblicazione dei Principia (per es. con Hooke), e continueranno in meccanica razionale almeno fino all’inizio dell’800. Tra gli esempi sotto gli occhi di Kant c’è senz’altro il teorema sulla «intensione e remissione delle qualità» di Keill che costituisce il suo riferimento diretto nella Monadologia physica (J. KEILL, Introductio ad veram physicam, London 1705, p. 4; cf. p. 22. WARDA, Immanuel Kant Bücher, p. 34, segnala un’edizione del 1739; cf. KgS I, 484). Un altro tentativo certamente noto a Kant era quello di Maupertuis che si trova nello scritto Sur les loix de l’attraction (Mémoires de l’Académie Royale, Paris 1735, pp. 343362; rist. in Oeuvres, I, pp. 160-170 come Conclusion al Discours sur les différentes figures des astres). Qui la legge dell’inverso del quadrato viene giustificata mediante considerazioni finalistiche sulla geometria dello spazio.Come suggerisce WESTFALL, Force in Newton’s Physics, pp. 508-509, una sfumatura finalistica era forse presente, in tal senso, già nello stesso Newton. Sulle fonti delle dottrine sulla propagazione della forza si vedano, oltre al già citato TONELLI, Elementi pp. 16-18, anche VUILLEMIN, Physique et métaphysique, pp. 129-134 e POLLOK, MA Kommentar, p. 320 n. 83 MA 520: «Se il matematico si vuole rendere intuitiva la diminuzione di luce con il crescere della distanza, si serve di raggi divergenti, per rappresentare, sull’area della superficie sferica su cui questi si propagano, la grandezza dello spazio su cui la stessa quantità di luce si deve distribuire uniformemente tra di essi, e dunque per rappresentare la diminuzione del grado di luminosità; ma egli non intende che questi raggi si considerino come i soli ad essere luminosi, come se tra di essi si trovassero sempre spazi privi di luce che crescerebbero col crescere della distanza. Se ci si vuole rappresentare ciascuna di queste superfici come uniformemente illuminata, la stessa quantità di luce che copre la più piccola di esse si deve pensare uniformemente distribuita su quella più grande, e per indicare il movimento rettilineo si devono tracciare linee rette da tutti i punti della superficie a quello da cui proviene la luce». Per il caso specifico della luce Kant osserva che concepirla come «ammasso di particelle» costringe il fisico, per spiegare il fenomeno della propagazione non perfettamente rettilinea della luce, a immaginare urti reciproci delle particelle: un’ipotesi ausiliaria

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memente pieno», e in base al grado del suo riempimento – per esempio il grado di illuminazione di una superficie sferica, che Kant porta come analogo del grado di attrazione – si determinerà il numero delle linee di propagazione con cui schematizzare l’azione come propagantesi da un centro: il carattere accessorio e strumentale di simili rappresentazioni diviene dunque evidente (MA 520). Si deve dapprima pensare l’azione con la sua intensità e poi se ne può raffigurare la causa. Questo vale tanto per i raggi d’attrazione, se così li si vuole chiamare, quanto per tutte le linee direttrici di forze che, irradiandosi da un punto, vanno a riempire uno spazio, foss’anche corporeo.

La stessa sovrapposizione tra quantità di forza, quantità di materia e grado di riempimento dello spazio, ricorrente nella Dinamica, conferma che Kant, pur rappresentando la forza secondo il modello della forza centrale newtoniana, ne concepisce l’azione come conseguenza della distribuzione di un quantum su una superficie (o in un volume). Da un punto di vista matematico, le forze centrali non sono che momenti della costruzione che permette di ricavare leggi esatte; ma ciò si riflette sul punto di vista filosofico, che si occupa della possibilità di questa costruzione: le forze, allora, contribuiscono all’«esibizione [Darstellung] di una materia», piuttosto che determinarne la natura (MA 511). In base a queste pagine la ricerca di una rappresentazione della materia che non presupponga i punti o il vuoto come suoi elementi costitutivi giunge dunque a una possibile conclusione: la materia dovrà essere pensata originariamente come realtà fisica dotata di un grado (densità) nello spazio. La realtà oggettiva della materia, cioè, sarà essenzialmente determinata come riempimento dello spazio dotato di un grado, senza che questa determinazione debba o possa essere risolta in una rappresentazione discreta, sia che si evita adottando il modello puramente matematico. Kant si riferisce probabilmente alle obiezioni avanzate da Euler contro Newton, che abbiamo ricordato trattando delle ipotesi sull’affezione (cap. 6, nota 45).

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essa un composto di punti o di corpi. Questa soluzione, in effetti, discende direttamente dal principio dell’anticipazione della percezione, premessa trascendentale della dinamica metafisica: la materia deve essere prima di tutto grado. Si tratterà, però, di una quantità intensiva associata a uno spazio, non a un punto. Al grado puramente intensivo della monadologia si sostituisce ora un grado in cui la quantità intensiva viene associata a un volume. Abbiamo dunque un’ipotesi di lettura plausibile, che conviene sviluppare fino in fondo. Che cosa avrebbe portato Kant a questo mutamento di posizione? Certamente ha riflettuto molto su una fisica, come quella di Newton, in cui la densità – a differenza che nella sua sistemazione successiva – è una grandezza primitiva, non derivata da massa e volume84. Ma, prima di insistere sui dettagli della fisica che egli ha in mente, si deve osservare che, anche in questo caso, l’autentico fondamento del suo pensiero si radica nell’ontologia. Quel che determina il primato del grado sulla forza come quantità vettoriale, infatti, è ancora una volta la precedenza nell’ordine dell’esperienza possibile. La realtà del volume pieno precede la rappresentazione della forza come momento. Analogamente, come si è visto in precedenza, la rappresentazione del centro di propagazione di una forza è successiva a quella dei fenomeni da cui si evince la direzione della forza stessa. Solo riconoscendo questa precedenza teorica della qualità fisica (la percezione spaziale) rispetto all’analisi quantitativa dei suoi momenti è possibile capire, infine, come Kant potesse stabilire, all’inizio della Dinamica, l’equivalenza tra «quantità di forza» e «quantità di materia». Le sfere d’azione, dunque, non sono altro che un espediente costruttivo per indicare l’effetto di una forza nella sua dimensione vettoriale. In realtà, nella cornice di quanto scrive Kant, questa forza dovrà essere pensata come risultante di un volume pieno, il quale agisce collettivamente, e non realmente a partire da un punto. Determinato questo volume, il fatto che esso si espanda e contragga può essere schematizzato con un allontamento e avvicinamento 84 Cf. NEWTON, Principia, Definizione 1, pp. 39-40: «La quantità di materia è una misura della materia che sorge dalla sua densità e dal volume considerati congiuntamente» Si veda in proposito I.B. COHEN, A Guide to Newton’s Principia, pp. 86-95.

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di punti, e la resistenza da esso esercitata all’esterno come una forza diretta perpendicolarmente alla superficie. La determinazione di questo volume, nella dinamica pura, si potrà considerare irrilevante, e la corrispondenza tra volumi discreti delle costruzioni matematiche e corpi veri e propri verrà stabilita empiricamente. Una volta determinato il volume si potrà stimare la forza esercitata in tutte le direzioni e il centro di propagazione non individuerà il luogo d’origine di una causa; quest’ultima sarà conosciuta esclusivamente attraverso il suo effetto nello spazio, conformemente alla prospettiva inaugurata da Newton e sviluppata da Kant nella teoria delle forze fondamentali. Dal punto di vista metafisico, il fondamento dell’attrazione sarà la stessa quantità di materia, fondata nella densità e determinata da un volume. La densità di cui si occupa la metafisica non è però ancora quella di un corpo determinato, ma corrisponde a una proprietà generale di ogni punto dello spazio in quanto è riempito dalla materia. Questa distinzione tra dinamica a priori e meccanica, che delimita l’ambito di validità della prima, dovrà in seguito essere discusso: a questo livello, infatti, il problema della forza di coesione non potrà più essere aggirato. Prima di passare a questo collegamento tra dinamica del continuo e meccanica del discreto, tuttavia, è naturale approfondire il legame tra la teoria della materia kantiana e quella parte della meccanica con cui essa, come si è visto, intrattiene dirette analogie. Le rappresentazioni matematiche discusse da Kant sono infatti consuete nell’idraulica dell’epoca. Si è tentati di pensare, dunque, che la dinamica incardinata sul grado di una materia continua comporti una rinuncia alla rappresentazione della particella e trovi il suo naturale prolungamento fisico nella rappresentazione di un fluido originario. Risiederebbe in ciò la versione fisica di un distacco da una monadologia che inclina strutturalmente verso l’immagine della particella sferica. In effetti Kant afferma, nella Nota generale alla Dinamica, che lo stato fluido è uno stato originario della materia, non riconducibile dunque a uno stato di aggregazione di particelle microscopiche, e che esso può essere considerato più originario rispetto a quello solido. Queste affermazioni sono svolte però in base ad argomenti empirici. Il primo riguarda la con545

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tinuità dei fluidi implicata dalle leggi dell’idrostatica, e suggerisce che il fluido ideale posto alla base di quest’ultima teoria matematica costituisca nello stesso tempo un sostrato fisico. Il secondo si basa sul legame sperimentale tra la coesione e la fusione, portando l’esempio del vetro, le cui parti separate non acquistano da solide, con il contatto, quella coesione reciproca che si ottiene fondendole: il che fa presumere «un precedente stato di fluidità»85. Gli esempi fisici, però, non devono ingannare. Si tratta, nella dinamica a priori, di una «materia in generale», in quanto riempie lo spazio e deve farlo con un grado di densità, ma il cui stato di aggregazione deve restare indeterminato. Essa non coincide, infatti, con la materia in concreto, che esiste solo sotto forma di materie eterogenee. Il «quantum» di materia è la condizione di possibilità di ogni «quantità di materia» determinata, che di volta in volta si troverà in diversi stati di aggregazione e di conseguenza sarà fisicamente misurabile. Per esprimere il collegamento di questo quantum metafisico con l’ambito della metafisica e la sua indipendenza dalle esperienze della materia aggregata, Kant troverà un’espressione felicissima nell’Opus postumum: lo chiamerà «spazio realizzato». Il primato ontologico del grado di riempimento dello spazio in quanto costitutivo della materia come continuo, dunque, deriva dalle premesse ontologiche della fisica kantiana, e non comporta ancora una presa di posizione riguardo alla rappresentazione della materia nella fisica empirica. In esso si esprime senza dubbio l’idea fondamentale della dinamica kantiana, ed uno dei massimi risultati della fisica pura. Una volta chiarito il senso da attribuire alle rappresentazioni matematiche ricorrenti nella Dinamica, si 85 Per la legge dell’idrodinamica (o legge di Pascal) si veda MA 528: essa afferma che nelle materie fluide «ogni [...] punto tende a muoversi in tutte le direzioni con la stessa forza con cui viene spinto in una direzione qualsiasi». Cf. NEWTON, Principia, Lib. II, Prop. XIX, Teorema XIV, pp. 417-419. Per il rapporto tra coesione e fluidità si veda MA 526. L’ipotesi di un fluido originario è assimilabile a quella che si trova nella Allgemeine Naturgeschichte, nella misura in cui Kant lo identifica spesso con un etere fluido. Essa è molto discussa nelle riflessioni manoscritte kantiane di questi anni: v. in part. Reflexion 45a (1775-7), KgS XIV, 406ss. Cf. ADICKES, Kant als Naturforscher, II, p. 137.

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può ora tornare sulla questione generale: si accorda questa continuità con la metafisica delle forze? In particolare: viene preservata, nella nostra ipotesi della diversità originaria del grado di densità, la funzione di esibizione del conflitto reale? Bisogna sottolineare ancora che l’introduzione delle due forze fondamentali si è resa necessaria in base al filo conduttore delle categorie. Nella logica trascendentale la qualità determinata (il grado) risulta dalla composizione di realtà e negazione; di conseguenza, nella metafisica della natura corporea, la realtà determinata, dotata di un grado finito, deve risultare dall’opposizione di due momenti: l’opposizione deve essere un conflitto di realtà, e la negazione deve corrispondere a una quantità di segno opposto. In base a queste premesse, per esempio, una legge come quella di Boscovich, che si basa su una sola legge che descrive i fenomeni, per Kant non potrebbe possedere realtà oggettiva. Ripercorrendo in senso discendente la struttura teorica della Dinamica, però, abbiamo rilevato la difficoltà di ritornare dalla rappresentazione continua della materia alla sua costruzione dinamica in base a forze di tipo newtoniano. Quest’ultime, che sono i soli strumenti matematici che Kant è in grado di concepire a tale scopo, si accompagano necessariamente a rappresentazioni che la dinamica pura non può giustificare, soprattutto quella dell’estensione determinata, senza le quali anche solo la loro schematizzazione sarebbe impossibile. Senza questo collegamento con la meccanica, d’altra parte, la fisica pura non potrebbe contenere le trattazioni sulla massa e sulle leggi del moto, che si troveranno nella Meccanica metafisica. La questione è allora: si può conservare il concetto dinamico di sostanza materiale senza la sua rappresentazione meccanica? Questa ipotesi di lettura è stata legittima in base a una certa chirurgia interpretativa, che separi una parte della Dinamica da tutto il resto dell’opera, facendo della densità una grandezza primitiva; ma di certo essa contraddice il disegno unitario dei Principi metafisici, e prima di tutto della stessa Dinamica, in quanto esclude la possibilità di indagare la costruzione della materia mediante il conflitto delle forze. La densità è una grandezza primitiva sul piano fisicomatematico ma, come Kant ripete nella Nota generale alla Dinamica, sul piano metafisico deve essere derivata dal grado origina547

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riamente diverso delle forze. Perciò, non potendo costruire la materia a priori, Kant si impegna a stabilire che quella costruzione deve essere possibile in fisica empirica. L’esibizione del conflitto reale, dunque, viene rimandata dalla fisica pura a una teoria della fisica empirica che per ora non ha un proprio luogo architettonico. In questo tentativo, come stiamo per vedere, si ritrovano le suddette difficoltà di schematizzazione. Quando nell’Opus postumum affronterà la questione del passaggio dalla metafisica alla fisica, e cercherà una fondazione della fisica empirica compatibile con la continuità della materia, la costruzione matematica non verrà più nominata. Il tentativo di collegare la metafisica dell’influsso con le forze della fisica newtoniana rimane fino in fondo problematico.

8.3. Dinamica pura e dinamica empirica A) Forza di attrazione originaria e gravitazione universale Nei Teoremi 7 e 8 della Dinamica Kant si concentra sull’azione della forza attrattiva originaria. Astraendo da tutti i problemi legati alla determinazione del grado e alla costituzione dell’estensione determinata, egli presuppone la rappresentazione del confine della materia e indaga l’azione della forza attrattiva al di fuori di questo confine. Nelle note di commento fa la sua comparsa la gravità di Newton. Ma qual è il rapporto tra forza attrattiva originaria e forza di gravità? Se le due coincidessero si avrebbero due possibilità: o la dinamica metafisica assumerebbe in sé una contingenza empirica tale da privarla di qualsiasi pretesa aprioristica, oppure, al contrario, la forza di gravità newtoniana sarebbe stata dedotta a priori. La prima ipotesi è contraddetta dallo stesso precedente tentativo kantiano di introdurre la forza attrattiva come proprietà essenziale alla materia: esso, infatti, viene svolto prescindendo attentamente da qualsiasi possibile attestazione empirica di un’attrazione universale, cosa che cent’anni dopo i Principia di Newton può costituire soltanto una scelta consapevole. D’altra parte, Kant non ritiene possibile conoscere a priori la forza di gravità e afferma con chiarezza che essa «deve essere ricavata insieme alle sue leggi a par548

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tire da dati dell’esperienza» (MA 534). È soltanto alla luce dei Principia di Newton, dove viene introdotta la legge di questa forza, che la si può identificare con la forza attrattiva originaria. La sola cosa che viene affermata a priori dalla metafisica della natura è la necessità di una forza attrattiva in generale. Il rischio di un equivoco su questo punto deriva dalla discussione a margine di problemi relativi all’azione della forza attrattiva, che Kant svolge riferendosi al caso fisico della gravità newtoniana, dando l’impressione di averne introdotto il concetto mediante dimostrazioni metafisiche. Ma la ragione di questi esempi è la seguente: per Kant, alla luce della fisica newtoniana, la forza attrattiva originaria coincide in concreto con la forza di gravità, nel senso che la prima è la condizione dell’esistenza della materia anticipata a priori che in natura è soddisfatta dalla forza studiata da Newton i base ai fenomeni del movimento. Perciò gran parte delle questioni filosofiche presenti in questa parte della Dinamica coincidono con quelle che erano state discusse in riferimento al concetto newtoniano. Questa coincidenza, dunque, non deve far mettere in dubbio la distinzione kantiana tra principi metafisici e principi matematici ed empirici, quali diverse fonti della conoscenza della forza attrattiva, che resta pienamente valida anche per questa parte dell’opera. Vogliamo ora caratterizzare meglio il rapporto tra il concetto metafisico di attrazione originaria e quello fisico di gravitazione universale, che Kant determina in modo molto diverso e più approfondito rispetto a quanto avveniva nella cosmologia precritica. In generale la prima contiene «il fondamento» della seconda, così come la forza repulsiva originaria conteneva il fondamento dell’impenetrabilità: «L’ a z i o n e dell’attrazione universale, esercitata immediatamente da una materia su tutta la materia e in ogni direzione, si chiama g r a v i t a z i o n e» (MA 518)86. La metafisica 86 Cf. MA 534, dove Kant parla dell’«attrazione universale» come «causa della gravità». Per la precisione Kant, nel passo citato (MA 518) distingue «gravitazione» (Gravitation) e «gravità» (Schwere): «la tendenza a muoversi nella direzione della gravitazione maggiore è la gravità». Si traduce Schwere con ‘gravità’, seguendo il modo in cui Kant, nella Nota 2 al Teorema 7, traduce la newtoniana gravitas. Essa è per Kant il fenomeno del moto dei corpi, prodotto dalla forza di gravitazione. È opportuno perciò distinguerla a sua volta dal ‘peso’, con cui si traduce invece Gewicht, un termine che Kant

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della natura, cioè, intende provare che una forza attrattiva originaria si deve ammettere come proprietà essenziale della materia: «sul fondamento» della gravitazione, scrive Kant, «si basa la possibilità stessa della materia». Viene così fornita la premessa mancante al ragionamento che, mediante esperimenti e proposizioni geometriche, porta all’affermazione newtoniana di una gravitazione universale, in modo da ottenere un concetto finalmente oggettivo e scientifico. L’intenzione kantiana si comprende facilmente tenendo presente il testo di Newton. Nei Principia la gravità dei corpi viene nominata più volte, con un linguaggio che difficilmente si può considerare privo di significato fisico. Newton afferma che esiste una causa della forza di gravità, «che penetra fino ai centri del Sole e dei pianeti senza alcuna diminuzione del suo potere di agire, e che agisce non in proporzione alla quantità delle superfici delle particelle su cui agisce (come sono solite fare le cause meccaniche) ma in proporzione alla quantità di materia solida, e la cui azione si estende ovunque fino a distanze immense, decrescendo sempre come il quadrato delle distanze»87. Ispirato da passi come questo, e pensando di replicare alle critiche dei meccanicisti, Cotes aveva ipotizzato in una lettera a Newton che una «breve deduzione del principio della gravità» si potrebbe ricavare dalla stessa legge di usa soprattutto trattando di fenomeni di statica. Un passo della Berliner Physik permette di chiarire il significato dei tre termini ‘Gravitation’, ‘Schwere’ e ‘Gewicht’: «La forza attrattiva originaria è il fondamento della gravitazione [Gravitation], e la forza repulsiva originaria il fondamento dell’impenetrabilità e dell’elasticità. − La gravitazione, così come la si incontra sulla Terra, si chiama gravità [Schwere]. − [...] La gravità deve essere distinta dal peso [Gewicht]. La gravità non è altro che la velocità con cui un corpo è inclinato a cadere e il peso è una forza con cui il corpo è inclinato a cadere. La gravità è uguale in tutti i corpi, tutti i corpi cadono con la stessa velocità, se astraiamo dalla resistenza dell’aria. Ma essi non sono di peso uguale. La spinta che un corpo esercita, in quanto viene ostacolato nella sua caduta, è il peso, e si basa sulla quantità di materia» (KgS XXIX, 80ss.). In base a questa pagina, si può associare la terminologia kantiana a quella propriamente fisico-matematica, facendo corrispondere gravità e gravitazione a due grandezze determinate, cioè accelerazione di gravità (g) e forza di gravità (mg). Nella terminologia fisica dell’epoca non esisteva comunque un lessico pienamente consolidato. 87 Principia, Scolio generale, p. 764. Nell’Introduzione e nello Scolio alla sez. XI del primo libro, d’altra parte, Newton nega la realtà fisica dell’attrazione.

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azione e reazione, poiché questa impedirebbe di spiegare attrazioni uguali e contrarie con impulsi (in caso contrario, si sarebbero dovuti ammettere impulsi simultanei ed uguali su lati diversi di un corpo): si avrebbe dunque una vera e propria «attractio mutua». Newton, di cui è nota la tenace – e lungimirante – esitazione ad ammettere l’attrazione sul piano fisico senza conoscerne la causa, richiamò il discepolo alla prudenza e tenne ferma la distinzione tra leggi (induttivamente fondate) e ipotesi (prive di riscontro sperimentale). L’attrazione mutua è imposta dalla terza legge del moto semplicemente perché altrimenti si produrrebbero moti che i fenomeni non mostrano. Cotes dovette limitarsi a scrivere, nella sua Prefazione, che la gravità è una proprietà «primaria»; Leibniz non dovette discutere le tesi di un attrazionismo essenzialista88. Sulla causa dell’attrazione Newton, nelle diverse edizioni delle sue opere, Newton si dichiarò sempre incapace di giudicare: qualsiasi ipotesi, comprese quelle di un mezzo meccanico o addirittura immateriale che egli pure avanza, restava finora ancora estrinseca rispetto ai principi metodici della filosofia sperimentale: «Finora non sono ancora riuscito a dedurre dai fenomeni la ragione per queste proprietà della gravità, e io non fingo ipotesi»89. La questione (che Newton stesso rimette ai «filosofi naturali») 88 In Opticks, Query 31, p. 376, Newton non esclude ancora una spiegazione meccanica della gravità (il testo comparve per la prima volta nell’edizione latina del 1706, quella posseduta da Kant che ne trae nel 1786 una critica della posizione newtoniana). Cotes, che stava curando la nuova edizione dei Principia, comunicò la sua proposta in una lettera del 18 [marzo] 1712/13, in cui consigliava a Newton si replicare alle obiezioni di «Descartes e altri», intendendo anche Leibniz. Secondo Cotes, il riferimento ad una attractio mutua nel corollario alla prop. V del libro III andava giustificato di fronte a chi accusava di Newton di fingere ipotesi (The Correspondence of Isaac Newton, vol. V, pp. 391-393; che si trattasse di Leibniz lo conferma la lettera di Bentley a Cotes del 12 marzo, ivi, p. 390. La risposta di Newton, del 28 marzo 1713, è ivi, pp. 396-397). Il ragionamento era peraltro piuttosto efficace sul piano fisico-matematico e poteva appoggiarsi su altri luoghi dell’opera (cf. per es. Principia, Lib. I, Prop. LXIX, Teorema XXIX, pp. 296-298). La questione riguardava però piuttosto lo statuto dei principi, e Newton si preoccupò soprattutto di mantenere l’esposizione dei Principia sul piano della «filosofia sperimentale». Su questo episodio si veda KOYRÉ, Newtonian Studies, pp. 273-282 e in generale sullo stesso tema pp. 139-163. 89 Opticks, Query 31, p. 376.

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non poteva restare in sospeso per Kant. Egli intende dunque correggere le affermazioni di Newton sulla causa della forza, stabilendo un luogo di innesto della metafisica nella fisica, senza che quest’ultima perda nient’altro del suo contenuto e del suo valore. La sua forza attrattiva originaria è appunto la causa della gravità di cui i filosofi naturali sono andati in cerca. Coerentemente con questo assunto, la deduzione dell’essenzialità di una forza attrattiva, nei Principi metafisici, procede attraverso un percorso autonomo rispetto a quello della fisica-matematica: così si potrà pretendere di giustificare a priori una premessa che la fisica deve limitarsi a postulare. Alla luce di queste considerazioni risulta evidente che Kant parla della stessa attrazione che compare nella fisica di Newton: in tal senso, la forza attrattiva originaria, fondamento di quella empiricamente accessibile, non è un’altra forza, ma è il principio metafisico, conoscibile a priori, di cui la gravitazione newtoniana costituisce l’applicazione (o specificazione) più compiuta. Si può parlare in proposito di identità estensiva e differenza concettuale tra i due concetti90. La differenza concettuale risiede precisamente nel fatto che la forza attrattiva originaria è un concetto puramente discorsivo, il concetto cioè della causa di cambiamento del movimento senza la quale la materia non sarebbe possibile; la forza di gravità è invece la forza definita in termini matematici nella legge di gravitazione universale. La metafisica insomma afferma: esiste una forza attrattiva originaria; la fisica matematica: la forza attrattiva originaria corrisponde al fenomeno della gravità e agisce secondo tale legge. Con la prova metafisica della forza fondamentale Kant sostituisce il procedimento ipotetico-deduttivo che Newton teorizzava nelle sue Regulae philosophandi91. L’universalità della forza attrattiva non si può fondare su una mera universalizzazione 90 Questa terminologia viene adottata da CARRIER, Kants Theorie der Materie, in part. pp. 186-7. 91 Principia, Lib. III, Regulae philosophandi, IV, p. 555: «Nella filosofia sperimentale, le proposizioni ricavate dai fenomeni per induzione dovrebbero essere considerate o esattamente o quasi del tutto vere, ignorando qualunque ipotesi contraria, finché altri fenomeni non rendano tali proposizioni o più esatte o suscettibili di eccezione».

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di risultati induttivi, ma può essere affermata apoditticamente soltanto in base alla proposizione metafisica secondo cui, laddove c’è materia, una tale forza deve agire92. Vediamo ora quali proprietà della forza di gravità siano determinabili a priori, quali strettamente empiriche. In primo luogo, l’esistenza di una forza fondamentale viene dimostrata attraverso la necessità di una forza come «causa di un movimento». Questa formulazione, che si è vista condurre verso una definizione newtoniana di forza accelerativa, non può essere immediatamente ascritta alla forza fondamentale, che come tale, in linea di principio, resta matematicamente indeterminata. Ma la cosa diviene possibile qualora si consideri che, tra i principi metafisici, Kant includerà tra breve la legge dell’inerzia. Dal punto di vista matematico, come nel caso della forza repulsiva, viene anticipata la sola componente foronomica, che assumendo la legge di continuità si può esprimere in termini differenziali come f∝dv. Oltre alla variazione di velocità si possono anticipare a priori altre due proprietà formali dell’attrazione: l’azione a distanza e la proporzionalità alla quantità di materia. Ciò avviene con gli ultimi due teoremi della Dinamica, dove Kant determina la forza attrattiva come un’«azione immediata» che le parti della materia esercitano le une sulle altre attraverso lo spazio vuoto (Teorema 7) e che si propaga all’infinito (Teorema 8). È questa la parte del libro in cui si compie l’esplicito superamento delle esitazioni di Newton e viene abbandonato il suo insegnamento metodico. «L’ a t t r a z i o n e e s s e n z i a l e a o g n i m a t e r i a è un’azione immediata di questa materia sulle altre attraverso lo spazio vuoto» (Teorema 7, MA 512). Introducendo il concetto di un’azione a distanza, Kant risponde alle classiche obiezioni che i fisici meccanicisti, e con essi anche Leibniz, avevano rivolto contro di esso, 92 Questo risultato determina retrospettivamente il modo in cui Kant, a cominciare da questi anni, interpreta Newton, come colui che avrebbe spiegato le leggi di Kepler «con una causa naturale universale» e avrebbe in genere introdotto nella scienza del moto un «principio universale e propriamente detto: cioè, un concetto della ragione da cui si possa inferire a priori, come passando da una causa a un effetto, una legge della determinazione delle forze». Per i riferimenti v. pp. 172-173.

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considerandolo il vero e proprio scandalo della fisica newtoniana93. Rilevando una contraddizione nella rappresentazione di una materia che agisce «là dove non si trova», questi critici avevano ricondotto i fenomeni di gravitazione all’azione meccanica di particelle impercettibili di materia o dell’etere, e dunque a una forza repulsiva esercitata in verso opposto94. Questo modo di ragionare si basa sulla premessa che «spinta» e «urto» siano le sole azioni fisiche concepibili in natura, e di conseguenza fa della gravità un’«attrazione apparente» (Nota 2, MA 514). L’obiezione a questo modo di ragionare è efficace: Kant sostiene che il concetto di attrazione apparente si basa su un circolo vizioso; presuppone infatti un’altra materia che eserciti una forza repulsiva a contatto; ma questa materia presuppone a sua volta l’azione di una forza attrattiva origi93 La prima ferma stroncatura era venuta da Huygens, il quale dichiarò che «il principio dell’attrazione» sarebbe stato «un’assurdità», in quanto non ricavabile da nessun principio della meccanica o legge del moto (HUYGENS, Discours sur la cause de la pesanteur (1690), in ID., Oeuvres complètes, La Haye 1888-1950, vol. XXI, p. 471). Si veda in proposito WESTFALL, Force in Newton’s Physics, pp. 184-188. La polemica filosofica, almeno per le generazioni successive in Germania, avvenne comunque in nome di Leibniz. Nella Prefazione ai Nouveaux essais Leibniz scriveva che ammettere, come fa Locke, la gravitazione newtoniana, pur riconoscendo la sua incomprensibilità di fondo, «significa, in effetti, tornare alle qualità occulte o, peggio che mai, inesplicabili». Tutta la discussione di Leibniz, che esaminava la corrispondenza di Locke col vescovo di Worcester e sottolineava le oscillazioni dell’autore, faceva capo alla tesi secondo cui la posizione di Locke, che si esprimeva nella possibilità che Dio attribuisse alla materia proprietà come l’attrazione e il pensiero, tendeva al materialismo (A VI, 6, 60ss.; il passo citato è a p. 65). Analoghe affermazioni venivano ribadite da Leibniz nella corrispondenza con Clarke: qui Leibniz sostiene che l’azione di una forza che non appartenga alla natura dei corpi equivale a qualcosa di «miracoloso» (terzo scritto di Leibniz, § 17, CLC 57). Per le reazioni dei primi interpreti si possono vedere KOYRÉ, Newtonian Studies, pp. 115-172 e la breve sintesi di I.B. COHEN, A Guide to Newton’s Principia, pp. 152-155. 94 Nota 1, MA 513. L’obiezione secondo cui agendo a distanza un corpo agirebbe «là dove non si trova» compare nelle prime tre edizioni (1690-5) di LOCKE, Essay, II, VIII, 11. In seguito al dibattito con E. Stillingfleet, vescovo di Worcester, Locke emendò la sua precedente affermazione secondo cui i corpi agirebbero solo per impulso, aggiungendo l’inciso scettico: «per quanto possiamo concepire». L’obiezione venne comunque ricordata da Clarke nella corrispondenza con Leibniz. Clarke rivolgeva la critica meccanicista a favore della propria interpretazione teologico-metafisica della gravitazione (quarta risposta di Clarke, § 45, CLC 116).

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naria che impedisca la sua infinita dispersione, che sia dunque una condizione della sua esistenza in uno spazio determinato e perciò preceda logicamente lo stesso contatto. La rappresentazione della materia, essenziale alla tesi dei meccanicisti, dipende così dalla deduzione di un’azione a distanza: «La forza d’attrazione originaria ha in sé il fondamento della possibilità della materia, in quanto cosa che riempie lo spazio in un determinato grado, ed insieme quello della possibilità del contatto fisico» (Teorema 7, Dimostrazione: MA 512). Sulla scorta del Teorema 5 della Dinamica, dunque, le tesi dei meccanicisti vengono completamente rovesciate: una forza di azione a distanza viene considerata condizione della stessa azione a contatto. Dal fatto, poi, che questa azione preceda logicamente la presenza della materia nello spazio discenderà con facilità il contenuto del Teorema 8, secondo cui l’attrazione originaria si estende all’infinito. Infatti né la materia stessa né lo spazio possono limitarne l’azione: la materia perché è a sua volta il risultato della forza attrattiva stessa, che dunque è una forza penetrante; lo spazio perché in esso si trova senza dubbio la ragione della diminuzione di grado della forza attrattiva, mai però del suo annullamento. La possibilità dell’azione a distanza corrisponde però a un’altra determinazione dell’attrazione originaria: la proporzionalità alla quantità di materia. La forza attrattiva, essendo essenziale alla materia, è proporzionale alla sua quantità. Rovesciando le tesi dei meccanicisti, e sostenendo che una forza attrattiva deve essere essenziale alla materia, Kant si propone dunque di rettificare esplicitamente la stessa concezione originale di Newton (MA 514-5). Il fatto che Newton avesse sottolineato di non considerare la gravità come una proprietà essenziale della materia – preferendo limitarsi ad aver stabilito le leggi della sua azione, senza determinarne il modo e la causa – appare a Kant come una esitazione legittima, se considerata dal punto di vista del matematico che delimita il campo della propria scienza, poiché la questione è «fisica, o metafisica, ma non è matematica» (MA 515)95. Di fatto, però, questa posi95 Tra i tanti luoghi newtoniani pertinenti Kant cita l’Avvertenza alla seconda edizione dell’Ottica: «ne quis gravitatem inter essentiales corporum proprietates me habere

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zione risulta per Kant in contrasto con i presupposti impliciti nello stesso modo di procedere di Newton: il fatto che questi considerasse la gravità proporzionale alla quantità di materia, e si servisse di questo principio per misurare le masse dei pianeti a partire dai loro movimenti, costituisce per Kant un’implicita ammissione dell’originarietà della forza attrattiva, in quanto inerente alla stessa materia. A questo proposito, Kant cita una proposizione in cui Newton ammette che l’etere è soggetto alla gravità, e – prendendo di petto l’espediente retorico più diffuso tra tutti i critici dell’attrazione, che invocavano le cautele di Newton contro i suoi sostenitori − commenta così (ivi): Egli dunque non escluse l’etere (e tanto meno le altre materie) dalla legge di attrazione. Ma allora quale altra materia poteva restargli, mediante il cui urto considerare l’avvicinamento reciproco dei corpi come un’attrazione solo apparente? Non ci si può dunque richiamare a questo grande fondatore della teoria dell’attrazione come a un proprio precursore, quando ci si prende la libertà di sostituire un’attrazione solo apparente alla vera attrazione che egli sostenne, assumendo la n e c e s s i t à dell’impulso mediante u r t o per spiegare il fenomeno dell’avvicinamento96. existimet, quaestionem unam de eius causa investiganda subieci» (MA 515). Per esteso, Newton scrive (p. cxxiii): «per mostrare che io non considero la gravità come una proprietà essenziale dei corpi, ho aggiunto una questione che riguarda la sua causa, scegliendo di proporla in forma di questione perché sono ancora soddisfatto di essa, per mancanza di esperimenti». Il riferimento è alla Query 21 (pp. 350-352), introdotta per la prima volta nella seconda edizione inglese dell’opera (1717/18). L’ipotesi in questione sulla causa della gravità è che essa derivi dalle variazioni di densità dell’etere. 96 Principia, Lib. III, Prop. VI, Cor. II, pp. 574-575. La Proposizione VI afferma (p 572): «Tutti i corpi gravitano verso ciascun pianeta, ed i loro pesi verso un medesimo pianeta, ad uguali distanze dal centro del pianeta, sono proporzionali alla quantità di materia contenuta in ciascuno di essi». Kant cita e traduce il Corollario II dall’edizione latina, con qualche omissione e la chiosa finale interpolata. Il testo originale è il seguente: «Si aether aut corpus aliud quodcumque vel gravitate omnino destitueretur, vel pro quantitate materiae suae minus gravitaret: quoniam id (ex mente Aristotelis, Cartesii et aliorum) non differt ab aliis corporibus nisi in forma materiae, posset idem per mutationem formae gradatim transmutari in corpus ejusdem conditionis cum iis quae, pro quantitate materiae, quam maxime gravitant, et vicissim corpora maxime gravia, formam illius gradatim induendo, possente gravitatem suam gradatim amitte-

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Così l’azione a distanza, che per Newton era un fenomeno tutto da spiegare, diviene per Kant una semplice implicazione analitica del concetto di forza fondamentale. Con questo passaggio, però, viene anticipata discorsivamente un’altra caratteristica formale della legge di gravitazione universale: f∝m. Un ulteriore aspetto della legge di gravitazione universale che la metafisica sembra poter anticipare a priori, come si è visto, è la proporzionalità inversa al quadrato delle distanze. Se Kant afferma, nei luoghi citati, di aver fornito una pura ipotesi matematica, è altrettanto vero che nei teoremi della Dinamica allude in due casi al fatto che solo lo spazio può “contenere la ragione” del variare di grado dell’azione della forza97. Forse le sue esitazioni sorgono dalla consapevolezza che, in natura, altri fattori potrebbero intervenire a modificare quanto ci si aspetterebbe in base alla pura rappresentazione matematica. Nel caso analogo dell’elasticità, per esempio, egli invita a non confondere il suo carattere originario con quello derivato, determinato dal calore (MA 522). Resta il fatto che la proporzionalità inversa al quadrato, che Kant e altri considerano conseguenza della geometria dello spazio, coincide con quella ricavata da Newton in base ai fenomeni e tenendo conto delle perturbazioni fisiche che modificano i movimenti dei corpi rispetto a quelli di solidi ideali nel vuoto. L’unica ragione delle riserve kantiane, allora, si deve attribuire proprio a questa diversità di metodo: la pura matematica ha tanta efficacia per ricavare le leggi naturali proprio perché essa si basa sulla forma pura dei fenomeni; ma prescindere dal contenuto reale di questi stessi fenomeni significherebbe confondere la «conformità oggettiva a scopi» che re». La chiosa «contra experientiam» è tratta dalla fine del Corollario I, che tradotto per intero afferma: «Dunque, il peso dei corpi non dipende dalla loro forma o struttura. Perché, se i pesi potessero cambiare con le forme, essi sarebbero, in una stessa materia, maggiori o minori a seconda della varietà delle forme, il che è del tutto contrario all’esperienza». Su questa critica di Kant a Newton si veda l’analisi di FRIEDMAN, Kant and the Exact Sciences, pp. 153ss. Cf. anche l’articolo pionieristico di BUCHDAHL, Gravity and Intelligibility: Newton to Kant (1970), rist. in ID., Kant and the Dynamics of Reason, pp. 245-270. 97 Lo spazio «contiene le condizioni delle loro leggi di propagazione» (MA 534). Cf. MA 508.

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questa forma possiede per definizione con una teleologia metafisica di tipo precritico98. Fatta quest’ultima precisazione, la struttura formale della legge di gravitazione universale resta anticipata quasi in ogni suo aspetto. È stata avanzata, in proposito, la suggestiva ipotesi secondo cui il solo aspetto lasciato da Kant alla determinazione empirica sarebbe la costante di gravitazione universale, cioè il parametro numerico che lega tra loro tutte le variabili in gioco99. In realtà, Kant non fa che sostenere la necessità di una proporzionalità diretta alla quantità di materia e di una proporzionalità inversa al quadrato del raggio. Resta indeterminato con ciò un insieme indefinito di caratteristiche matematiche della legge. Alla luce della Meccanica, dove verrà introdotto un concetto di massa equiparabile a quello newtoniano, si potrà sostenere che Kant cerchi di anticipare a priori la definizione matematica di forza motrice (f∝mdv/dt): si avrebbe così un’anticipazione del primo membro dell’equazione newtoniana. Con la dimostrazione della legge di azione e reazione, poi, si otterrà anche la presenza del prodotto mimii al secondo membro. Ma a margine di queste anticipazioni rimarrà ancora un’incongruenza tra proprietà della forza fondamentale e legge newtoniana, a proposito della quale si deve parlare senza esitazioni di un’incomprensione kantiana. Che cos’è, infatti, il raggio che compare nell’equazione? Dalla discussione kantiana della Dinamica abbiamo appreso a non scambiarlo per la distanza tra due centri di propagazione della forza. Ma cosa autorizza a schematizzare la posizione di questo quantum come il centro di una sfera? Kant, nella Foronomia (MA 482), ha affermato che il centro di un corpo coin98 Abbiamo ricordato le considerazioni teleologiche di Maupertuis sulla legge dell’inverso del quadrato. Abbandonando il finalismo che caratterizza i suoi primi scritti, Kant parlerà nel § 62 della Kritik der Urteilskraft di una «conformità oggettiva a scopi» solo formale delle forme geometriche, da intendersi nel suddetto senso critico e a illustrazione di questo concetto porterà proprio il caso del perfetto accordo tra le coniche e le traiettorie dei moti celesti e terrestri. Sul confronto con la teleologia di Maupertuis v. §§ 1.2; 2.3. 99 Si vedano in proposito, e in generale sulla prefigurazione a priori della legge di gravitazione, PLAASS, Kants Theorie der Naturwissenschaften, p. 327 e CARRIER, Kants Theorie der Materie, pp. 187-188, che riprende sostanzialmente l’ipotesi di Plaass.

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cide con il suo centro geometrico, e che perciò, fin dal livello foronomico, si può schematizzare un corpo come «punto materiale». Egli sa che lo stesso Newton − come si legge nella Geografia fisica − «ha mostrato che la gravità dei corpi non è altro che un’attrazione che viene effettuata dall’intero corpo e non dal solo centro»100. Ma il trasferimento di questa tesi fisica sul piano della fisica pura è tutt’altro che scontata. Essa, al contrario, è oggetto di un teorema matematico, che Newton sviluppò solo molti anni dopo aver elaborato la legge dell’attrazione per punti materiali, e la cui dimostrazione fu forse decisiva per la sua decisione di pubblicare i suoi risultati nei Principia101. In base a questo teorema, la forza attrattiva esercitata da tutti i punti di un corpo sferico di densità omogenea o di densità variabile ma costante a pari distanze dal centro (cioè con una densità differenziata secondo calotte concentriche omogenee di spessore arbitrario) può essere considerata come propagantesi a partire dal centro geometrico. Il teorema, dunque, non è valido in generale per corpi di densità disomogenea, e comunque non ha niente a che fare con il semplice postulato geometrico cui Kant sembra limitarsi. Su questo punto, dunque, Kant non ha tenuto nel giusto conto il contenuto matematico della fisica. Il teorema costituisce dunque un ulteriore elemento distintivo tra le generiche affermazioni di proporzionalità, ricavabili a livello metafisico, e la struttura matematica della legge di gravitazione: un elemento che, in questo caso, non è empiricamente determinaImmanuel Kants physische Geographie, § 33, KgS IX, 216. Principia, Lib. I, Prop. LXXIV, Teor. XXXIV, p. 304. Il teorema afferma che, se verso ognuno dei diversi punti di qualsiasi data sfera tendono uguali forze centripete, proporzionali all’inverso del quadrato delle distanze da quei punti, allora «un corpuscolo posto all’esterno della sfera è attratto da una forza inversamente proporzionale al quadrato della distanza del corpuscolo dal centro della sfera». La tesi viene generalizzata nel teorema XXXV al caso dell’attrazione tra due sfere omogenee, e nel teorema XXXVI a quello di sfere la cui densità varia con la distanza dal centro. Come osserva WESTFALL, Force in Newton’s Physics, p. 461, questo teorema è essenziale per l’identificazione tra dinamica celeste e gravità terrestre, e la sua tarda formulazione (nel 1685) ha probabilmente a che fare con la lunga esitazione di Newton a pubblicare la sua teoria della gravitazione, raggiunta molti anni prima. Gauss, con il suo celebre teorema del flusso, ne stabilirà una fondamentale generalizzazione. 100 101

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to – come la costante di gravitazione – ma costituisce un risultato puramente matematico.

B) Incomprensibilità delle forze fondamentali e limiti della fisica pura Il radicamento della gravitazione nella forza attrattiva originaria costituisce agli occhi di Kant la comprensione di questo concetto che mancava alla fisica di Newton: fornisce infatti la conoscenza a priori del suo fondamento. La definizione dell’attrazione originaria come forza fondamentale, tuttavia, comporta nello stesso tempo la determinazione del limite della conoscenza dinamica. La metafisica della natura, con questo concetto, interpreta la situazione aporetica della fisica di Newton rispetto al fondamento della forza, cercando di spiegarla non come il risultato di una mancanza, ma come segno di una limitatezza intrinseca della conoscenza. Come ha scritto in proposito Alexandre Koyré, «il secolo XVIII si riconciliò – tranne rarissime eccezioni – con l’incomprensibile»102. La maggioranza degli interpreti newtoniani, nella seconda metà del secolo, assumono di fronte al concetto di gravità un atteggiamento scettico o addirittura pragmaticamente neutrale. Il tentativo kantiano consiste nel sostituirlo con un chiarimento filosofico sul significato dei concetti scientifici, dissolvendo la rappresentazione di una conoscenza sfuggente nel futuro delle ricerche empiriche o negli arcani di una metafisica speculativa (cf. § 4.1). Non a caso Kant introduce l’argomento nella Nota 1 al Teorema 7, subito dopo aver decretato la possibilità, anzi la necessità, di accettare il concetto di azione a distanza (MA 513): È una pretesa impossibile quella di chi richiede che si renda comprensibile la possibilità delle forze fondamentali; queste ultime, infatti, si chiamano così appunto perché non possono venire derivate da altre in modo tale da farsene un concetto. La forza attrattiva originaria, tuttavia, non è affatto più i n c o m p r e n s i b i l e della repulsione originaria.

102

KOYRÉ, Newtonian Studies, p. 163.

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Le forze originarie sono concetti ricavati dallo studio della proprietà per cui la materia riempie uno spazio, mediante un’indagine sulla costruzione possibile nell’intuizione pura (MA 524): Noi le possiamo ammettere soltanto se appartengono inevitabilmente a un concetto di cui si possa dimostrare che è un concetto fondamentale e che non si può ricavare da nessun altro (come quello del riempimento dello spazio): e questo è il caso della forza repulsiva e della forza attrattiva ad essa opposta.

Ora, come si è visto, il riempimento dello spazio è un concetto fondamentale. Appartiene all’essenza logica della materia – nella quale occupa un luogo primario, espresso efficacemente dal sinonimo «materialità» – e nei Principi metafisici, quando Kant istituisce la corrispondenza tra categorie e proprietà essenziali, corrisponde alla qualità: ad esso spetta dunque la semplicità (non analizzabilità) logica della stessa categoria. L’appartenenza delle forze fondamentali a questo concetto, tuttavia, non è assimilabile a un’implicazione analitica, come potrebbe far pensare questo passo, ma è stata sostenuta in base a delle prove basate su uno studio della possibilità di costruire l’impenetrabilità nell’intuizione pura. Le forze fondamentali sono risultate essere, così, condizioni di possibilità dell’impenetrabilità. Come tali sono concetti che è necessario ammettere, ma di cui non è conoscibile ulteriormente la ragione. Per quanto riguarda ogni tentativo di estendere a priori la conoscenza di queste forze, determinandone il concetto al di là della loro funzione di condizioni di determinati fenomeni, nella Nota generale alla Dinamica Kant conclude perentoriamente (MA 534): La comprensione a priori di forze originarie secondo la loro possibilità sta assolutamente al di fuori dell’orizzonte della nostra ragione e tutta la filosofia naturale consiste piuttosto nel ricondurre forze date, in apparenza diverse, a un numero minore di forze e facoltà, che servano alla spiegazione degli effetti delle precedenti; questa riduzione procede però soltanto fino alle forze fondamentali, oltre le quali la nostra ragione non sa andare.

La struttura della fisica, quale è descritta in questo passo, for561

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nisce un modello per tutta la conoscenza empiricamente fondata. Le «forze date» cui Kant si riferisce non si possono considerare quali concetti puramente empirici: il concetto di forza viene ricavato mediatamente dai fenomeni, e dunque la sua introduzione comporta pur sempre una mediazione logica. Risalendo alla definizione della scienza esposta nella Prefazione possiamo riconoscere nella forza, in quanto concetto analizzabile in termini di categorie, un principio razionale della connessione dei fenomeni. In quanto è ricavata quale condizione di particolari fenomeni essa si distingue dalla «forza fondamentale» come pura idea razionale di un fondamento unico di un intero genere di fenomeni, che Kant ha discusso nella Dialettica trascendentale trattando dei presupposti regolativi dell’indagine empirica (KrV A 649/B 677). Il fisico può dunque assumere, alla sommità dell’ideale albero gerarchico delle forze che egli sta cercando di ricostruire con esperimenti e applicazione della matematica, due forze fondamentali che appartengono essenzialmente alla possibilità stessa della materia. Il fatto che esse occupino la sommità della filosofia naturale comporta la loro necessaria incomprensibilità. Questa però, lungi dal significare una disgraziata limitazione dell’intelletto, non è che una conseguenza immediata dello stesso carattere fondamentale di queste forze nell’ambito del sistema delle conoscenze. Con questi passaggi pare giungere a conclusione l’itinerario con cui Kant, componendo la disputa tra newtoniani e leibniziani, sviluppa la sua dinamica metafisica. Tuttavia, nella Nota generale alla Dinamica, si trova un passo in cui è sembrato a molti interpreti che Kant revochi in dubbio le sue affermazioni sulla necessità di ammettere le forze fondamentali e così facendo riduca lo statuto del suo dinamismo a quello di mera ipotesi: Il concetto di materia viene ricondotto a pure e semplici forze motrici e non ci si poteva aspettare che fosse diversamente, perché nello spazio non si possono pensare nessuna attività e nessun cambiamento, all’infuori del movimento. Ma chi pretenderà di comprendere la possibilità delle forze fondamentali? Noi le possiamo ammettere soltanto se appartengono inevitabilmente a un concetto, di cui

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si può dimostrare che è un concetto fondamentale e che non si può ricavare da nessun altro (come quello del riempimento dello spazio): e questo è il caso della forza repulsiva e della forza attrattiva ad essa opposta. Per quanto riguarda la loro connessione e le loro conseguenze, noi possiamo senz’altro giudicare a priori quali rapporti si possano pensare tra di loro senza contraddizione, ma non per questo si può pretendere di ammettere uno di essi come qualcosa di reale: il diritto di istituire un’ipotesi, infatti, esige inderogabilmente che la p o s s i b i l i t à di quanto si ammette sia d e l t u t t o c e r t a, ma nel caso delle forze fondamentali questa possibilità non si può mai discernere (MA 524).

L’impossibilità di discernere la possibilità delle forze fondamentali, nella conclusione di questo passo, è stata considerata incompatibile con la necessità di ammetterle, dunque con l’apoditticità del dinamismo103. È probabile che Kant si riferisca invece all’impossibilità di stabilire a priori una particolare legge delle forze fondamentali, piuttosto che la stessa necessità di ammettere tali forze104. L’ipotesi problematica sulla «connessione» delle forze sembra riferirsi al problema che Kant in seguito definisce come «il più importante compito della filosofia naturale», quello della determinazione dei diversi gradi di densità della materia. Data l’importanza di questi due temi per la delimitazione della Dinamica è opportuno chiarire quale sia il rapporto tra questo problema della densità specifica e l’impossibilità di comprendere la possibilità delle forze fondamentali. Pur ammettendo che le forze fondamentali siano condizioni necessarie della materia in generale − si legge nella stessa pagina − ciò non è sufficiente a rendere possibile la costruzione del concetto di materia: «[...] occorre guardarsi dall’andare oltre ciò che ren103 La sconfessione dell’apoditticità del dinamismo è sostenuta per es. da: TUSCHLING, Metaphysische und transzendentale Dynamik, pp. 35ss.; BUCHDAHL, Gravity and Intelligibility; ID., Kant’s ‘Special Metaphysics’ and the Metaphysical Foundations of Natural Science, pp. 307-8; G. BRITTAN, Kant’s Two Grand Hypotheses e BUTTS, The Methodological Structure of Kant’s Metaphysics of Science, entrambi contenuti in BUTTS (ed.), Kant’s Philosophy of Physical Science, rispettivamente pp. 61-94 e pp. 163-199. 104 In questo senso ‘eine derselben’ andrebbe riferito non a ‘Kraft’, ma a ‘Verknüpfung’, o ‘Folge’.

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de possibile il concetto universale di una materia in generale e dal voler spiegare a priori la sua specifica determinazione e diversità» (MA 524). In altre parole, come Kant precisa successivamente (dopo il passo citato in cui parrebbe negare le stesse forze fondamentali), quando la materia viene «risolta in forze fondamentali (di cui non siamo in grado né di determinare a priori le leggi, né tanto meno di addurre con sicurezza una molteplicità, che serva alla spiegazione della differenza specifica delle materie) ci manca ogni mezzo per costruire questo concetto di materia e rappresentare nell’intuizione la possibilità di ciò che si è pensato in generale» (MA 525). Il problema, dunque, sorge dal momento in cui si passa dal concetto di materia in generale alla costruzione della materia determinata, che deve avvenire matematicamente in base a dati sperimentali. L’impenetrabilità presuppone come sue condizioni delle forze fondamentali, che dunque appartengono alla possibilità della materia in generale. Non si può però stabilire a priori la legge delle forze, come nell’ipotesi giovanile di Kant, né stabilire una varietà di gradi delle forze, corrispondenti alla disomogeneità delle diverse sostanze chimiche. In altre parole la densità originariamente diversa delle materie è un dato irriducibilmente empirico, e con esso la possibilità di stabilire una legge matematica delle forze. Questo iato tra metafisica e fisica matematica, tuttavia, non intacca la validità e l’autonomia della prima. Dopo aver esposto la sua ipotesi matematica sulla legge delle forze, Kant scrive infatti (MA 522-523): Preciso ancora una volta che io non voglio che la presente esposizione della legge di una repulsione originaria si consideri come necessariamente appartenente al progetto della mia trattazione metafisica della materia; né voglio che essa sia coinvolta nelle controversie e nei dubbi, cui il precedente tentativo potrebbe andare incontro, essendo sufficiente alla metafisica l’aver rappresentato il riempimento dello spazio come una proprietà dinamica di quest’ultimo.

In che senso, invece, l’impossibilità di comprendere la possibilità delle forze fondamentali contraddirebbe la validità a priori del564

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la Dinamica? In base al collegamento con il problema di una costruzione della materia, in questo passo, si è ritenuto che Kant si riferisse qui alla «possibilità reale» dei concetti105. Comprendere la possibilità reale significa per Kant stabilire il riferimento di un concetto all’esperienza possibile, il che a priori può avvenire soltanto fornendone una rappresentazione nell’intuizione pura. La questione è richiamata in un passo della Foronomia: Conoscere qualcosa a priori significa conoscerlo in base alla sua semplice possibilità. Ma la possibilità di determinati oggetti naturali non può essere conosciuta in base al loro semplice concetto; infatti, in base a questo può senz’altro essere conosciuta la possibilità del pensiero (che esso non si contraddica), ma non dell’oggetto, in quanto oggetto fisico che possa esser dato al di fuori del pensiero (in quanto esistente). Perciò, per conoscere la possibilità di particolari oggetti naturali e dunque per conoscere questi a priori, si richiede ancora che venga data a priori l’ i n t u i z i o n e corrispondente al concetto, cioè che il concetto venga costruito (MA 470).

Alle condizioni logiche della possibilità di un concetto, cioè alla sua non contraddittorietà, si aggiungono così, nell’ontologia kantiana, le condizioni formali e materiali dell’esperienza. Per esempio, la possibilità del concetto di triangolo si ottiene descrivendone la figura con l’immaginazione pura. Nel caso degli oggetti reali occorre una percezione o una connessione legale con una percezione (KrV A 219-B 266ss.)106. In questo senso “possibilità reale” e “realtà oggettiva” individuano le medesime condizioni per l’applicazione empirica di un concetto (KrV B 268-69). Riferendo queste affermazioni kantiane sulla possibilità degli oggetti naturali alle forze fondamentali si conclude che queste, per quanto siano fondamenti di spiegazione dell’impenetrabilità, non si potrebbero conoscere a priori. 105 La possibilità è inclusa in tal senso tra i requisiti per poter avanzare un’ipotesi in KANT, Logik, KgS IX 64-5. 106 Nel caso in cui il concetto stesso appartenga alle condizioni necessarie di ogni esperienza la sua possibilità reale coinciderà con la “verità trascendentale”: è il caso di spazio, tempo e categorie.

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L’equivoco è dato dal considerare equivalenti i casi degli oggetti e delle forze fondamentali, sovrapponendo così l’impossibilità di conoscere qualcosa a priori (secondo la sua possibilità) e l’impossibilità di comprendere la possibilità delle forze. Queste ultime certamente non si possono né intuire, né costruire. La funzione svolta dall’intuizione pura per stabilire la necessità di ammettere forze fondamentali non va confusa con l’impiego della matematica per la costruzione (fisico-empirica) della materia. Che la forza sia dedotta mediante la costruzione dei movimenti, mentre non in sé costruibile, era affermato già nella Foronomia, dove «causa ed effetto» vengono citati quali esempi di «un concetto che non si può dare a priori nell’intuizione» (MA 487). Piuttosto, la forza fondamentale è risultata una condizione necessaria del riempimento dello spazio e della sua costruzione (che però non può avvenire a priori). Che la sua possibilità non sia ulteriormente comprensibile significa dunque soltanto − nel primo senso che abbiamo esaminato − che il suo concetto non è ulteriormente determinabile: né analiticamente, mediante la distinzione logica di un concetto superiore (che era la via battuta dalla metafisica leibniziano-wolffiana); né sinteticamente, mediante la distinzione estetica di nuove proprietà ottenuta con la costruzione (che porta piuttosto verso la specificazione empirica della legge delle forze). Questa impossibilità di costruzione delle cause, che peraltro non riguarda le sole forze fondamentali ma tutte le forze, non pregiudica la tesi secondo cui – posta la validità dei teoremi dinamici – sarebbe necessario ammettere le forze fondamentali stesse, in quanto condizioni dell’impenetrabilità107. Una conferma su questa interpretazione si può ottenere tenendo conto del significato logico dei termini discernere (einsehen) e comprendere (begreifen)108. Essi equivalgono, come gradi della cono107 Sulla impossibilità di comprendere le forze fondamentali si veda anche Berliner Physik, KgS XXIX, 78, dove si legge che le forze si possono «discernere» (einsehen), ma non «comprendere» (begreifen). Kant intende probabilmente che se può distinguere il concetto, ma non riportarlo ulteriormente a dei «fondamenti». 108 Sulla distinzione di questi due gradi della conoscenza vedi KANT, Logik, § VIII (KgS IX, 65). Cf. CAPOZZI, Kant e la logica, vol. I, pp. 525-540.

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scenza, alla conoscenza razionale, cioè alla determinazione delle ragioni di una determinata conoscenza (nel caso del «comprendere», si aggiunge anche la coscienza della necessità di queste ragioni). In questo senso conoscere, o comprendere, la possibilità delle forze fondamentali significherebbe possedere la ragione per cui esse posseggono tali e tante proprietà. Un pensiero del genere, relativamente al caso delle forze, non era senza esempi dal punto di vista di Kant: si potrebbe pensare forse ai già ricordati tentativi, come quelli di Keill e Maupertuis, di determinare la legge dell’inverso del quadrato in base alla struttura dello spazio e eventualmente con l’ausilio di principi teleologici; certamente, si deve pensare alla forza primitiva della metafisica leibniziana e wolffiana. Simili tentativi, nel criticismo, sono stati esclusi in linea di principio dalla logica modale trascendentale: così, nel passo citato, Kant li liquida con un breve rimando alla dottrina delle ipotesi. Un’osservazione svolta da Kant sul caso delle verità geometriche conferma la nostra lettura. Le proprietà assiomatiche dello spazio geometrico dipendono dalla forma dell’intuizione, e dunque la struttura dello spazio tridimensionale euclideo, come abbiamo visto, non è ulteriormente comprensibile. Per questa ragione, nello stesso paragrafo della Logica, si legge che nemmeno la possibilità di costruire i concetti matematici permette di comprendere la loro possibilità: «Nulla può essere compreso meglio di ciò che dimostra il matematico, ad esempio che tutte le linee nel cerchio sono proporzionali. E tuttavia egli non comprende come accada che una figura così semplice abbia queste proprietà». Diverso dal caso della costruzione delle cause (sempre impossibile) è quello della costruzione degli effetti, che in questo caso coincide con la costruzione del grado di densità mediante la connessione delle forze − cioè il problema del primo passo citato – e che invece deve essere possibile in fisica empirica. Ritroviamo così la nostra prima ipotesi di lettura. La rappresentazione pura di un conflitto dei movimenti (come quanta), indispensabile a passare dal concetto di riempimento dello spazio a quello di forza, resta ben distinta dalla determinazione matematica del grado determinato (quantitas) del riempimento. La prima si limita a stabilire la possibilità di questa determinazione in quanto dovrà basarsi su un con567

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flitto delle due forze. Ma questa determinazione non si può realizzare a priori. Infatti, benché lo spazio contenga le condizioni della propagazione delle forze, esso non basta a determinare le leggi particolari delle forze. Non contiene come tale «nulla di esistente», ma «contiene soltanto le condizioni necessarie della relazione esterna tra gli oggetti possibili dei sensi esterni». La fisica si occupa di ciò che «costituisce in esso la sostanza», cioè la materia (MA 503). La varietà specifica della materia, ora, è fondamento del fatto che il grado delle forze può essere originariamente diverso a seconda dei luoghi, in quanto possono darsi diverse materie (le sostanze chimiche, ma anche le materie magnetiche o elettriche della fisica del tempo, infine il calorico), la cui varietà e mescolanza deve essere tenuta presente per stabilire leggi delle forze. È proprio questo fattore reale a distinguere le forze (quali momenti intensivi) dalla pura geometria dei quanta. Quest’ultima, senza dubbio, fornisce gli schemi matematici necessari a una dinamica scientifica, ma essi restano strumenti per la costruzione dei concetti definiti ipoteticamente. In conclusione, allora, i passi kantiani fin qui esaminati vanno letti in due sensi diversi, nessuno dei quali comporta l’ipoteticità delle forze fondamentali. Quando Kant scrive che non si può comprendere la possibilità delle forze fondamentali egli delimita l’esigenza puramente razionale di trovare delle ragioni (o fondamenti: Gründe) di questi concetti, così come le forze fondamentali lo sono dei fenomeni da cui sono ricavate quali cause. Pensa cioè a quell’esigenza, riflessa in termini logici e regolativi nelle idee della ragione, che la metafisica wolffiana soddisfa nel concetto di sostanza, in quanto ente determinato solo internamente. L’accostamento tra questo problema e quello della della costruzione della materia, in MA 524, non deve far confondere i due problemi. Il primo riguarda un concetto fondamentale e individua un limite dell’analisi, il secondo riguarda invece le sue «conseguenze», e individua un limite della sintesi pura. Con queste considerazioni siamo giunti alle soglie del territorio della fisica empirica, in cui dobbiamo ora fare una incursione per seguire le sorti della Dinamica kantiana. Se essa mantiene la propria autonomia e validità, come ha mostrato il suo esame, lo fa con568

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dizione di uno iato: le forze fondamentali si sono rivelate concetti generali il cui rapporto con la varietà delle forze della natura resta affidato alla parte empirica della fisica. Un innesto della dinamica a priori nella fisica è stato compiuto – per evidenti ragioni storiche − solo nel caso della gravità. Ma è rimasta da parte la questione della necessaria dipendenza delle costruzioni fisiche da alcuni concetti che la dinamica pura non ha stabilito. La discussione dei concetti della fisica empirica, nella Nota generale alla Dinamica, ripresenta su questo diverso piano la questione della validità del dinamismo, che stavolta non può più essere rimandata.

C) Meccanicismo, dinamismo e passaggio alla fisica: legge delle forze e struttura della materia Nella Nota generale alla Dinamica Kant affronta la questione dell’estensione del dinamismo ai concetti della fisica empirica, cioè a quelle proprietà che non costituiscono condizioni di possibilità della materia in generale, ma appartengono nondimeno alle proprietà universali della materia: per esempio la densità, lo stato di aggregazione e la solubilità chimica. La sezione ha una struttura stranamente circolare che, insieme ad alcune inesattezze redazionali, suscita l’impressione di una scrittura rapidissima. Kant comincia il discorso istituendo un confronto generale tra dinamismo e meccanicismo come metodi della filosofia naturale (MA 523525). Passa poi a trattare, secondo una suddivisione esplicitamente approssimativa, diverse questioni associate alle proprietà della materia che il dinamismo non riesce a dedurre a priori: 1) concetti di corpo, volume e densità (MA 525-526); 2) coesione come attrazione a contatto e stati di aggregazione (MA 526-529); 3) elasticità (MA 529-530); 4) azione meccanica e soluzione chimica (MA 530-531). Discutendo, a quest’ultimo proposito, della possibilità che una materia come il calorico o la materia magnetica penetri attraverso i corpi, senza che ciò comporti l’ammssione di vuoti all’interno degli stessi corpi, il discorso ritorna al confronto tra «metodo dinamico» e «metodo meccanico» per la spiegazione della diversità specifica delle materie (MA 532-535). Questo ritorno al tema iniziale, che sembra prodursi spontaneamente sotto 569

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la penna di Kant, esprime bene l’unità problematica di questa sezione, concentrata sui due concetti che, in effetti, fin dall’inizio costituiscono il tema fondamentale della Dinamica: il pieno e il vuoto. Il fatto che le proposizioni della Dinamica non siano ancora riuscite a eliminare la possibilità del vuoto dipende dall’impossibilità di costruire il concetto di materia in base alle due forze fondamentali. Per salvare il fenomeno della figura discreta della materia, che servirà a passare alla meccanica, bisogna dunque introdurre l’azione di una forza, l’attrazione a contatto, che non può essere ricavata a priori: con ciò la dinamica a priori incontra il suo limite. La lunga Nota generale alla Dinamica possiede dunque un’importanza fondamentale per tutta la fisica pura: essa tratta delle proprietà della materia che essa non è riuscita a dedurre a priori e pone la questione del rapporto di queste con la parte pura della fisica. In questo senso, sussiste un’interessante analogia tra questa sezione e le sezioni marginali delle maggiori opere di Newton. I concetti trattati sono approssimativamente gli stessi: il concetto di corpo, la comprensione delle forze, la forza di coesione dei corpi, le azioni chimiche della materia, l’etere, il calorico. Newton aveva espresso efficacemente lo stato di incertezza e frammentarietà delle conoscenze su questi temi, rimasti fuori dalla fisica matematica, nello Scolio generale ai Principia mathematica e nelle Queries poste in appendice all’Ottica, che contenevano essenzialmente resoconti empirici e congetture in forma problematica. Il fatto che Kant raggruppi tali questioni al di fuori della parte propriamente metafisica dell’opera corrisponde alla situazione della fisica contemporanea, in cui relativamente a tali fenomeni mancava ancora una sintesi teorica paragonabile a quella raggiunta in meccanica celeste. Lette in questo contesto, le considerazioni kantiane riflettono una conoscenza media delle questioni di fisica, caratterizzandosi per una prudenza maggiore rispetto alla grande quantità delle riflessioni manoscritte. Questo scarto risulta evidente in particolare nel caso del concetto dell’etere: questa materia dotata di scarsissima densità, suscettibile di spiegare, mediante la sua diffusione e pressione, fenomeni come la stessa coesione, qui viene solo ipotiz570

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zata, pur essendo il concetto fondamentale delle congetture fisiche rimaste manoscritte109. Ma questa continuità con le vedute dei fisici ha un’importante eccezione: la questione della densità specifica della materia. In questo caso lo “scolio generale” kantiano non può lasciare la questione alla semplice ricerca empirica, discutendone le ipotesi. Ne va infatti del collegamento tra la fisica pura e la fisica empirica imposto dalla tesi dinamistica che prescrive un genere di ipotesi per la soluzione di questo problema. Proprio per questo motivo è corretto dire che la Nota generale alla Dinamica contiene in nuce alcuni dei problemi che porteranno Kant a progettare, nel giro di alcuni anni, il Passaggio dai principi metafisici della scienza della natura alla fisica. Molti dei concetti scientifici qui discussi, infatti, si collegheranno in un modo o nell’altro con la questione filosofica fondamentale110. Tale questione fondamentale può essere formulata così: se di109 ADICKES, Kant als Naturforscher, II, pp. 2ss., condannando il dilettantismo scientifico di Kant, non rilevava questo riserbo critico che distingue il testo dei Principi metafisici dal materiale manoscritto. Un apprezzamento sulla cautela kantiana intorno alla questione dell’etere − e in genere della sua epistemologia − è stato invece espresso da L. GEYMONAT, Introduzione a KANT, Primi principi metafisici della scienza della natura, tr. it. dei Metaphysische Anfangsgründe a cura di G.L. Galvani, Bologna 1959, in part. p. XXXII. 110 Questo collegamento è in generale dato per scontato dalla maggioranza degli interpreti dell’Opus postumum: la stessa quadripartizione della Nota ha invitato a riconoscervi – sia pure in attraverso corrispondenze piuttosto forzate – il primo esempio di una nuova trattazione secondo l’ordine categoriale. TUSCHLING, Metaphysiche und transzendentale Dynamik, sulla base di questa continuità e della sua tesi sul fallimento della Dinamica pura, presenta i Principi metafisici come semplice «istantanea» nella continuità delle riflessioni manoscritte kantiane (p. 32). Afferma poi (pp. 186-187) che nei Principi metafisici Kant si dedicherebbe alla meccanica pura, mentre l’attenzione alle scienze non matematizzate in rapida evoluzione come la chimica caratterizzerebbe la genesi dell’Opus postumum. Un’alternativa così secca è inadeguata, perché sopravvaluta la perfezione filosofica della meccanica razionale, che Kant metterà ancora in discussione nell’Opus postumum, e soprattutto circoscrive immotivatamente ai tardi anni ’90 l’attenzione kantiana per la filosofia della chimica. Questa diviene effettivamente più marcata in quel periodo, ma è presente fin dai primi anni del criticismo. L’origine problematica dell’Opus postumum andrà dunque cercata non tanto in nuove letture scientifiche, quanto in problemi filosofici precedenti, che queste letture incoraggiano semmai a riprendere.

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namismo e meccanicismo fossero semplicemente metodi alternativi e parimenti validi della fisica empirica, come potrebbe restare valida la dinamica a priori, che ha apoditticamente negato la possibilità dei concetti fondamentali del meccanicismo, cioè il pieno e il vuoto? In altre parole: se le forze fondamentali appartengono necessariamente al concetto di materia (Teoremi 1 e 5; Corollario al Teorema 6 e MA 524), e se la materia è infinitamente divisibile in parti ognuna delle quali è materia (Teorema 4), come è possibile dubitare, come fa ora Kant, che il dinamismo sia una dottrina vera e che il meccanicismo, con i suoi atomi impenetrabili e il vuoto, sia una dottrina falsa? Se la Dinamica si risolvesse nel mostrare la semplice possibilità di una filosofia naturale dinamistica, concepita come semplice ipotesi alternativa a quella meccanica, essa non avrebbe alcuna ragion d’essere, essendo stata questa tesi sufficientemente argomentata da Kant come un corollario delle Anticipazioni della percezione. Il rischio di questo “collasso” teorico, che si presenta qui sul piano della metodologia empirica, ha le sue prime premesse nell’ontologia. Nella discussione del principio del grado, infatti, è stato affermato che «tra la coscienza empirica e quella pura è possibile un cambiamento graduale », ma non è stato stabilita l’effettiva diversità di grado delle percezioni (KrV B 208). È possibile affermare a priori che ogni sensazione, e perciò anche ogni realtà nel fenomeno, per quanto piccola essa sia, ha un grado, cioè una quantità intensiva, che può sempre essere ulteriormente diminuita»: è la proprietà della «continuità» (A 169/B 211). È vero, Kant scrive che «ogni realtà nella percezione ha un grado, tra il quale grado e la negazione ha luogo una infinita successione [Stufenfolge] di gradi sempre più piccoli» e ne ricava l’impossibilità di provare empiricamente una totale assenza di reale nel fenomeno, cioè uno spazio o un tempo vuoti (A 172/B 214). Ma questa effettiva occorrenza di gradi diversi non viene mai pienamente giustificata, e vedremo che il problema del vuoto continuerà a impegnare Kant nei Principi metafisici e oltre (§ 10.2). Proprio riguardo all’ipotesi dinamica di spiegazione della densità, dopo aver individuando la possibilità di concepire i gradi della realtà (come la quantità di materia o il calore) come originariamente diversi, Kant conclude: 572

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Con ciò non intendo affatto dire che, per quanto riguarda la diversità delle materie rispetto al loro peso specifico [spezifische Schwere], le cose stiano effettivamente così, ma intendo solo mostrare [dartun] – in base a un principio dell’intelletto puro – che la natura delle nostre percezioni rende possibile una spiegazione di questo tipo, e che è sbagliato assumere che il reale del fenomeno sia uguale per il grado e diverso soltanto per l’aggregazione e per la quantità estensiva di essa, e addirittura sostenerlo a priori, sulla base di un presunto principio dell’intelletto (KrV A 174-175/B 216-217).

Le cose, nei Principi metafisici, restano immutate: Kant non ha dimostrato l’eterogeneità del grado delle percezioni, ma ha semplicemente negato la necessità di ammettere un grado omogeneo. La determinazione della «gravità specifica» è stata rimandata ai consueti procedimenti di misura meccanica. La questione, da un punto di vista trascendentale, può sembrare capziosa. Una perfetta omogeneità del «grado di influsso sul senso», si potrebbe argomentare, renderebbe impossibile riscontrare differenze qualitative nell’esperienza. In altre parole, un grado universalmente omogeneo delle percezioni equivarrebbe, con la sua isotropia, al grado zero dell’intuizione pura, in cui non si dà alcun oggetto (ma lo si produce semmai con la sintesi dell’immaginazione). La situazione è analoga a quella del concetto di movimento: Kant non potrebbe affatto concepire il concetto di grado se non riflettendo sul contenuto positivo della percezione, per poi individuarne la forma logica. Tuttavia questo ricorso all’esperienza che contraddice di fatto l’ipotetica condizione di omogeneità del continuum percettivo costituisce il segno di un necessario presupposto non puro dell’intera filosofia trascendentale. Ci si domanda se la fisica pura possa contribuire a anticiparlo. Tenendo presente tale questione aperta si può ripercorrere il confronto tra meccanicismo e dinamismo. «Il principio della dinamica della natura materiale», esordisce Kant, «è il seguente: tutto il reale degli oggetti dei sensi esterni, che non sia semplicemente una determinazione dello spazio (luogo, estensione, figura), deve essere considerato come una forza motrice» (MA 523). Questo principio si realizza prima di tutto con l’introduzione delle due forze fondamentali, e si oppone a quello del meccanicismo, che si ba573

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sa sulla spiegazione dei fenomeni fisici mediante «gli a t o m i e il v u o t o». La stessa critica metafisica dei concetti meccanicistici sembra determinare la necessità di ammettere i concetti dinamici: il «cosiddetto solido» e l’impenetrabilità assoluta «vengono esclusi dalla scienza della natura, in quanto concetti vuoti, e sostituiti da una forza repulsiva; al contrario l’attrazione vera e immediata [che Kant contrappone a quella «apparente» degli urti opposti] viene difesa dai cavilli di una metafisica che fraintende se stessa e viene definita come una forza fondamentale, necessaria alla possibilità stessa del concetto di natura» (MA 523). L’assoluta impenetrabilità e l’assoluta indistruttibilità degli atomi meccanicistici vengono descritte da Kant, con grande efficacia, come concetti provvisori. Da un punto di vista critico, dunque, la metafisica della natura kantiana esprime l’esigenza di prolungare la parabola della scienza moderna riguardo al concetto di materia: la particella corporea, che aveva costituito l’elemento di razionalizzazione di un mondo fisico variamente popolato da movimenti naturali, virtù e simpatie, e che aveva accompagnato per due secoli il tentativo di descrivere con esattezza matematica i fenomeni della natura, viene presentata ora come un elemento di irrazionalità. Kant insiste sul passaggio dalla critica al meccanismo alla posizione della tesi opposta: la dottrina del pieno e del vuoto pretende di essere una «condizione necessaria alla spiegazione della variabilità dei gradi di riempimento dello spazio» (MA 524); retrocedendola al rango di ipotesi si ricava immediatamente la possibilità di introdurre il modo di spiegazione dinamico (MA 533). Si riconosce in questo passaggio il segno di quanto è risultato nella parte dimostrativa della Dinamica, dove la critica del «solido» del meccanicismo coincide con la prova della prima forza fondamentale. Il «principio della dinamica della natura materiale» cui Kant qui si riferisce, dunque, costituisce la specificazione del principio trascendentale del grado, che è stata conseguita con i teoremi della Dinamica e che riceve qui la sua formulazione generale. Fatta questa premessa Kant procede a confrontare i due metodi, meccanicismo e dinamismo, rispetto al modo di spiegare la diversa densità delle materie. Non si tratta ovviamente di un esempio tra i tanti; la questione viene presentata anzi come «il più im574

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portante» compito della scienza della natura (MA 532). La cosa non può sorprendere il conoscitore della Dinamica: la spiegazione di questa varietà costituisce precisamente il tassello mancante per passare dalla rappresentazione generale di un conflitto dinamico all’effettiva costruzione della materia. Il meccanicismo spiega la densità specifica mediante una distribuzione variabile dei vuoti tra gli atomi di materia, ma questo procedimento, secondo Kant, presenta diversi inconvenienti: non solo si basa sul concetto di impenetrabilità assoluta – il che è il suo difetto metafisico – ma per di più concede all’immaginazione la libertà di costruirsi «un mondo di fantasia» fatto di atomi e vuoto. Questa critica si riferisce proprio a quella particolarità del meccanicismo che risulta vantaggiosa nella costruzione delle ipotesi. In base alla diversa distribuzione di atomi e vuoto, infatti, si può ottenere «una grande varietà specifica di materie diverse, sia per la loro densità che per il modo d’azione (qualora intervengano forze estranee)» (MA 525) − in altre parole, si possono ottenere le diverse densità e, di conseguenza, le diverse masse, che insieme alle forme delle particelle spiegano il diverso comportamento meccanico dei corpi. Ma in cosa consiste il vantaggio del meccanicismo? In esso, «la possibilità tanto delle figure quanto degli intervalli vuoti può essere rappresentata con evidenza matematica». Il meccanicismo, dunque, può rappresentare a priori nell’intuizione la materia discreta, con la sua varia distribuzione, e pretendere con ciò di dedurre geometricamente la sua specificità meccanica: in tal senso Kant parla di «metodo di spiegazione matematico-meccanico», contrapponendolo a quello «metafisico-dinamico». Ma è proprio la possibilità di costruire la materia a costituire il problema del meccanicismo: «questo vantaggio, la fisica puramente matematica lo paga doppiamente». In primo luogo, perché pone a fondamento il solito concetto vuoto del solido; in secondo luogo, aggiunge qui Kant, perché così facendo «deve rinunciare a ogni forza propria della materia»111. Questo difetto di111 Abbiamo visto che questa obiezione poteva essere ripresa da Newton e seguaci – cap. 8, nota 42 −, ma vi si avverte anche un’eco delle obiezioni leibniziane e wolffiane contro l’occasionalismo, secondo cui questo invocherebbe una causa sovrannaturale dei movimenti naturali, sistematizzando il miracolo. Peraltro Leibniz aveva rivolto le

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pende dalla suddetta libertà concessa all’immaginazione. Con essa si concede per principio l’arbitrio di introdurre rappresentazioni empiricamente infondate: Kant, infatti, sta parlando di un meccanicismo privo di basi sperimentali, che “finge” i vuoti, i pieni e le forme microscopiche, quale era quello dell’atomismo dell’epoca. Ora, pur concedendo questa libertà, la fisica puramente matematica non si accorda, secondo Kant, con il procedimento sperimentale mediante cui si ottengono le leggi fisiche. Questo secondo aspetto si chiarisce con la trattazione parallela del dinamismo. Secondo il dinamismo si può considerare lo spazio sempre pieno e tuttavia concepire diversi gradi di riempimento. Questa diversità di gradi, tuttavia, si può senz’altro pensare, ma non costruire. È significativo che Kant, a proposito del dinamismo, usi più volte l’espressione «pensare»: il metodo dinamico per ricavare i diversi gradi di densità, infatti, benché fondato sul conflitto delle due forze fondamentali non permette di costruire la materia. Kant si limita a indicare le condizioni di una tale costruzione, che non potrà non presupporre ulteriori dati: il grado originariamente diverso dovrà essere determinato empiricamente. Il metodo dinamico intende però fornire la possibilità reale di un tale procedimento in base alle condizioni pure dell’azione delle forze. Esso afferma che si può pensare come originariamente variabile il grado della forza repulsiva: il conflitto fisico avverrebbe cioè tra «forze repulsive» (si noti il plurale) e attrazione originaria. La ragione per cui la sola forza repulsiva si può pensare dotata di un grado originariamente variabile consiste nella dipendenza di essa dal solo spazio geometrico entro cui la materia è limitata, «indipendentemente dal fatto che dietro tale superficie si trovi molta o poca di questa materia»; l’attrazione è invece un’interazione tra tutte le parti della materia e come tale è stabilita univocamente dalla quantità di quest’ultima (MA 524). In altre parole la forza repulsiva, a differenza dell’attrazione, non dipende dalla quantità di materia. Concessa questa premessa, si può allora considerare la forza repulsiva originariamente variabile e, dalla sua opposizione a una forza attrattiva stesse obiezioni contro Newton, che avrebbe sostenuto una «filosofia pigra», accontentandosi di soddisfare l’immaginazione (quinto scritto a Clarke, § 24; CLC 133).

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che è sempre costantemente proporzionale alla quantità di materia, ricavare di volta in volta una diversa densità. Considerando la semplicità con cui questa ipotesi riconduce il fenomeno della densità ad un puro rapporto quantitativo, senza ricorrere all’immaginazione, Kant ritiene che il dinamismo sia molto più adeguato «alla filosofia sperimentale e ne favorisc[a] i progressi, in quanto porta direttamente a scoprire le forze motrici proprie delle materie e le loro leggi» (MA 533). Il dinamismo si presta meglio alla formulazione di leggi matematiche perché si fonda su un concetto che definisce un’azione dipendente dalle condizioni geometriche del fenomeno, considerate secondo la continuità intrinseca allo spazio, senza introdurre la mediazione di figure microscopiche di cui non si possiede l’intuizione empirica (si pensi alla variabile distanza nel caso della legge di gravità newtoniana e alla variabile volume nella “legge” dell’elasticità originaria, che Kant ritiene collegabili immediatamente con la rappresentazione dinamica della materia come un continuo). Viene così prefigurato un compito che la fisica empirica dovrà eseguire in base a concetti più specifici di proprietà della materia e a grandezze determinate112. Nel 1792, sollecitato a tornare sul problema, Kant afferma però di avere dei dubbi sulla consistenza del suo metodo per costruire il conflitto tra le forze. Essi sorgono dal fatto che «la forza di attrazione dipende dalla densità, ma questa a sua volta dipende dalla forza di attrazione»113. Per comprendere il problema si può tradurre il conflitto nei termini delle grandezze matematiche cui esso fa riferimento. A un’accelerazione attrattiva, dipendente dalla quantità di materia, si oppone un’accelerazione repulsiva, che varia con il grado di forza e con il volume, ma non dipende direttamente dalla quantità di materia. Il grado della forza repulsiva è una funzio112 Affermando qui la maggiore adeguatezza del dinamismo alla fisica matematica, forse, Kant ha in mente anche le ricerche su fenomeni qualitativamente diversi come quelli termici, elettrici e magnetici, che nelle sue lezioni di fisica egli considerava come la vera e propria frontiera della ricerca fisica e la cui riconduzione a un modello meccanico era problematica (Berliner Physik, KgS XXIX, 89-91). 113 Cf. lettera a J.S. Beck del 16 (17) ottobre 1792 e, per il passo citato, le note di Kant alla lettera di Beck, KgS XI, 375-377, 361-365). Cf. ADICKES, Kant als Naturforscher, I, pp. 134, 215ss.; POLLOK, MA Kommentar, pp. 309ss., 316.

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ne del volume e del grado originario del riempimento dello spazio: Fr = f(V, Gr). Il grado della forza attrattiva, invece, è una funzione della quantità di materia, che equivale alla massa, e della distanza L a cui la forza viene esercitata: Fa = f(M, L). Kant ritiene con ciò di aver definito due grandezze indipendenti114. Ma egli ha posto nella Dinamica una proporzionalità tra grado originario del riempimento dello spazio Gr e densità D115; questa relazione, considerata insieme a quella tra densità D volume V e massa M che Kant trae dalla fisica newtoniana, produce il problema fin qui latente: se D = Gr − o quanto meno D = f(Gr) − e M = DV, i gradi delle due forze non sono indipendenti. Il problema riscontrato da Kant nel 1792 si riconosce appunto mettendo in evidenza la relazione biunivoca tra quantità di materia e densità: l’attrazione non si può più considerare indipendente dal grado originario della forza repulsiva116. 114 In MA 533-4 si legge che il grado della forza repulsiva «non ha di per sé nulla in comune con il grado dell’attrazione» e dunque «potrebbe essere o r i g i n a r i a m e n t e d i v e r s o a seconda delle materie». 115 MA 525. Qui Kant definisce la densità come «grado di riempimento di un volume determinato». Forse, con la specificazione di un volume determinato, egli intende distinguere il grado originario, puntuale e intensivo, dalla densità come grandezza che si definisce rispetto a un volume. Questa distinzione, comunque, non toglierebbe la relazione tra grado e densità, ma la nasconderebbe con una astrazione. 116 La circolarità del ragionamento si lascia esprimere a fatica nell’odierna terminologia fisica, che Kant tenta di aggirare, alla ricerca di una quantità originaria rispetto alle altre. Per analogia si può accostare il grado della forza repulsiva alla pressione, ispirandosi alla relazione della legge di Boyle PV = k. Qui la pressione si può interpretare come una grandezza direttamente proporzionale a un fattore dinamico, che cresce con la diminuzione del volume e dunque della superficie di azione (p = F/S). La circolarità diviene allora evidente, in quanto F = Ma (per la seconda legge della dinamica) e M = D/V (per la definizione di massa). La pressione dipende dalla massa così come l’attrazione gravitazionale: si può postulare l’una o l’altra come grandezza fondamentale, ma non si può ricavare questa grandezza da un conflitto di forze. Kant, comunque, si sforza di non identificare la repulsione originaria con quella descritta dalla legge dei gas perfetti, da cui proviene originariamente la definizione di pressione qui impiegata. Cf. MA 522, dove la legge della repulsione originaria è distinta dalla «legge di Mariotte» della repulsione di particelle d’aria, che viene trattata da Newton nei Principia (Kant stesso rimanda a Lib. II, Prop. XXIII, Schol.): questa comporta una proporzionalità inversa alla distanza, ma riguarda una repulsione derivata dal calore e non originaria.

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Se la presente interpretazione è corretta il conflitto tra le forze definite da Kant diviene fisicamente fittizio e l’idea di una legge empirica della costruzione della materia si basa su una petizione di principio: la Dinamica, per stabilire il grado originario di una legge siffatta, non farebbe altro che postulare una quantità intensiva originariamente diversa (come abbiamo ipotizzato in precedenza), laddove il meccanicismo postula una quantità estensiva di atomi nel vuoto. Se ciò resta preferibile dal punto di vista dell’esperienza possibile, che nega il vuoto, dal punto di vista della fisica pura non si è fatto alcun passo avanti. La semplice posizione della densità come una grandezza originaria avviene già nelle definizioni di una fisica puramente matematica, come quella di Newton, la quale stabilisce così, attraverso quella che può considerarsi una convenzione, un sistema dimensionale per le sue misure. Il vantaggio del grado kantiano dovrebbe risiedere nel dedurre la grandezza originaria da un conflitto di forze ma, come è già emerso nel corso dell’esame dei teoremi dinamici, pare che queste due forze non siano che momenti astratti di una grandezza originaria, che Kant pensa sul modello del grado delle percezioni trattato trascendentalmente nella Critica. I dubbi sul conflitto delle forze, comunque, saranno posti negli anni ’90. Finora Kant non mette in dubbio che il conflitto dinamico possa rendere comprensibile la possibilità del grado originario della densità. Perché, allora, il dinamismo come metodo fisico rimane già adesso un’ipotesi? Il dinamismo è una possibilità o una necessità? È questo il luogo delle presenti incertezze kantiane. In un caso egli passa dall’una all’altra come se esse andassero identificate (MA 533-534, corsivo mio): Infatti, una volta mostrato che il postulato su cui si basa il metodo meccanico di spiegazione non è valido come principio, si capisce da sé che non lo si deve ammettere come ipotesi nella scienza della natura, fin tanto che resti una p o s s i b i l i t à di pensare la diversità specifica della densità delle materie senza il ricorso a spazi vuoti. Questa n e c e s s i t à si basa però sul fatto che la materia non riempie lo spazio mediante un’assoluta impenetrabilità (come ammettono gli scienziati meccanicisti), ma mediante una forza repulsiva dotata di un grado che può variare a seconda delle diverse materie.

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La critica al meccanicismo, che riduce quest’ultimo a una mera ipotesi, non sembrava lasciar spazio a dubbi. Per capire come mai, allora, Kant esiti sulla necessità di un dinamismo fisico che pure ha metafisicamente fondato, basta tornare all’insufficienza della sua legge delle forze, e indagarne le premesse mancanti. Criticando il meccanicismo, Kant si è rivolto contro le ipotesi metafisiche della fisica, relative alla costruzione della materia, ma non ha sconfessato quel che la stessa fisica stabilisce in termini sperimentali. La possibilità di una costruzione alternativa delle forze, d’altra parte, rimanda intrinsecamente allo stesso procedimento sperimentale mediante il quale si potrà stabilire il grado originariamente diverso della forza repulsiva – per esempio pesando pari volumi di materie diverse. Per determinare empiricamente il grado di una determinata parte dello spazio occorre però circoscriverne il volume fisico, e considerare l’azione di una forza attrattiva sulla materia ivi contenuta. Se non ci fosse un volume determinato, infatti, non si potrebbe determinare l’intensità della forza attrattiva, che è proporzionale alla quantità di materia. Senza la rappresentazione di un volume fisico determinato, dunque, non si otterrebbe il grado di densità del volume, e quindi la massa, che la Dinamica deve fornire alla Meccanica. Ne risulta che Kant, cercando di ricollegarsi al concetto di corpo della meccanica, prospetta una legge della costruzione della materia che, per la sua concreta attuazione, presuppone un concetto empirico: la coesione. Ora, la spiegazione di questa proprietà con una forza è ipotetica; perciò, per quanto le forze fondamentali siano state dimostrate a priori, il dinamismo, in quanto metodo generale che riconduce «tutto il reale degli oggetti» a forze, resta un’ipotesi117. Un discorso analogo vale per la possibilità dei corpi rigidi, presupposto della parte basilare e più antica della meccanica, che Kant dichiara ancora aperto118. 117 È significativo che un influente fisico successivo, sostenitore del dinamismo kantiano, considererà la coesione come una terza forza fondamentale: F.A.K. GREN, Grundriß der Naturlehre, Halle 1793 (18014), § 114. 118 Kant dichiara apertamente l’aporia della filosofia a priori, ma anche di tutta la fisica: il problema «di come siano possibili i corpi rigidi non è ancora stato risolto, per quanto la comune dottrina della natura creda di liberarsene facilmente» (MA 529). Il riferimento polemico è all’ennesimo postulato dei fisici matematici, che in questo ca-

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Se questo limite del dinamismo riguarda la deduzione del volume pieno, specularmente gli corrisponde un limite riguardo alla confutazione del vuoto. Infatti, nonostante la dottrina delle forze fondamentali e la critica al meccanicismo, Kant non se la sente di escludere positivamente la possibilità del vuoto nel mondo. Si potrebbe pensare, del resto, un mondo in tutto e per tutto simile a quello dell’atomismo meccanico, in cui si avessero le materie elastiche e attraenti a distanza del dinamismo. In questo mondo, la coesione della materia sarebbe stabilita mediante una forza di coesione, che delimiterebbe le parti della materia piena, la quale al suo interno sarebbe continua. All’esterno della materia, però, vi sarebbe il vuoto. In questa ipotesi, il metodo di spiegazione meccanica, per i corpi macroscopici, sarebbe collegabile a leggi, e dunque ritornerebbe valido. Tolti gli argomenti contro il vuoto che erano fondati sul «principio di pienezza», dunque metafisico-dogmatici, si avrebbe così una rappresentazione adeguata alla fisica matematica newtoniana. Contro una simile ipotesi Kant non ha obiezioni fisiche, né metafisiche, ma trascendentali: il vuoto non è oggetto di esperienza possibile e come tale costituisce «una barriera che viene posta al dominio della ragione, perché l’invenzione ne prenda il posto o per farla riposare sul cuscino delle qualità occulte» (MA 533). Questo giudizio – che discuteremo trattando della Fenomenologia − discende ancora una volta dal principio trascendentale del grado, e dunque dal criterio ontologico dell’esperienza possibile. Esso incoraggia certamente Kant, nella presente discussione sulla fisica empirica, ad escogitare un’ipotesi ausiliaria contro il vuoto. Egli afferma dunque che il vuoto tra i corpi fisici si può considerare riempito da una materia di scarsissima densità, l’etere (MA 534). Era l’ipotesi dei cartesiani, ripresa e rielaborata anche dai newtoniani so starebbe alla base dei trattati di meccanica dei solidi (una delle branche della meccanica che aveva ricevuto il massimo sviluppo nel XVIII secolo). Si può osservare che una meccanica dei fluidi senza vincoli sarebbe impossibile, nella fisica dell’epoca, perciò la rigidità è altrettanto fondamentale della coesione come condizione della meccanica. Kant scriverà infatti che per lo studio meccanico della materia allo stato fluido il recipiente «prende il posto della sua rigidità» (MA 540).

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del XVIII secolo. Ma anche per questo etere valgono le considerazioni svolte sul concetto di corpo: ammesso che si tratti di un fluido o comunque di un materiale particolare, dotato di densità minima, resta il fatto che l’etere deve essere dotato di un principio di aggregazione (o legame con le altre materie), come una forza di coesione o una legge chimica, altrimenti rischia di divenire un concetto scientificamente inservibile quanto le particelle indistruttibili. La filosofia dinamica ha insomma di fronte a sé il compito ineludibile di spiegare la formazione dei corpi e dei fluidi particolari, a partire dal continuo materiale in cui consiste il suo mondo fisico. Tuttavia la coesione e i principi di aggregazione sono proprietà che non appartengono alla possibilità della materia, ma sono derivate e fenomenologicamente variabili, e dunque questo compito resta impedito alla dinamica pura. In conclusione, l’impossibilità di spiegare a priori il fenomeno della coesione determina una cesura tra la dinamica metafisica e la fisica vera e propria. La metafisica decreta la necessità di considerare il riempimento dello spazio dinamicamente; ma questo principio non si può tradurre nella costruzione a priori della materia, e dunque, per quanto fondata, la realizzazione fisica del dinamismo torna ipotetica. La legalità distingue il concetto arbitrario di una forza fondamentale da quello dotato di validità oggettiva, ma la Dinamica costituisce un tentativo di ricavare a priori le forze senza le leggi, e perciò non giustifica a priori il vantaggio del metodo dinamico di spiegazione. Questo particolare, che facilmente sfugge al lettore, forse sfugge allo stesso Kant, che come abbiamo visto apre la Nota generale con quel «principio generale della dinamica della natura materiale» che sembrerebbe raccogliere sotto di sé sia la dinamica pura che quella empirica, e in coda alla stessa sezione sembra presentare quest’ultimo metodo come un postulato della Dinamica (MA 534, corsivo mio). Così l’indagine metafisica, oltre che a mostrare il fondamento del concetto empirico di materia, serve al solo scopo di condurre la filosofia naturale, fin dove è possibile, alla ricerca di fondamenti dinamici di spiegazione, perché solo da questi si può sperare di otte-

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nere leggi determinate e dunque un’autentica concatenazione razionale delle spiegazioni.

«Fin dove è possibile...»: lo statuto ipotetico del dinamismo fisico-matematico, in ogni caso, non deve costituire agli occhi di Kant una confutazione della dinamica a priori. L’indagine sulla rappresentazione a priori della materia deve bastare allo scopo, anche senza il suo compimento matematico, a meno di non concedere che egli lasci stampare un’opera la quale, nel corso della redazione, gli si riveli già inconsistente. Non è possibile spiegare altrimenti la sicura conclusione kantiana, subito dopo il passo appena citato: Questo è tutto quello che la metafisica può fare per la costruzione del concetto di materia, e dunque per applicare la matematica alla scienza della natura, per quanto riguarda le proprietà mediante le quali la materia riempie in diverso grado lo spazio: essa, cioè, può considerare queste proprietà dinamicamente e non come posizioni originarie e incondizionate, quali le postulerebbe un trattato puramente matematico.

Nonostante queste dichiarazioni, la questione per Kant non è veramente chiusa, almeno a giudicare dalla quantità dei suoi appunti che proseguono senza soluzione di continuità. Prima ancora di formulare il progetto di un Passaggio dai principi metafisici della scienza della natura alla fisica, egli dedica gran parte delle sue riflessioni successive al problema della coesione e degli stati di aggregazione dei corpi119. Per garantire il passaggio da una fisica pura dinamistica alla fisica empirica vengono riesaminati proprio i 119 In un foglio dell’Opus postumum, datato da Adickes agosto 1799, Kant conferma retrospettivamente le presenti conclusioni: «Il passaggio alla fisica non può risiedere nei principi metafisici (dell’attrazione, della repulsione ecc.): questi infatti non forniscono affatto proprietà determinate che si possano addurre empiricamente, e non si possono escogitare [ausdenken] [proprietà] specifiche di cui si possa sapere si esse si trovano anche in natura o anche se la loro esistenza sia provabile [erweislich], ma i fenomeni si possono solo [spiegare] empiricamente o, per così dire, fingere di spiegare ipoteticamente» (KgS XXII 282; la punteggiatura e le integrazioni sono mie).

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concetti che nei Principi metafisici mettono in stallo la Dinamica. Le indagini sui fondamenti della fisica che si profilano in questi tardi scritti sembrano dunque conseguire dalla rielaborazione delle difficoltà fin qui evidenziate, ben prima del momento in cui Kant, prendendone consapevolezza, parlerà di «iato nel sistema». Le forze fondamentali vengono ora specificate a priori attraverso l’anticipazione a priori di forze specifiche, senza le quali gli esperimenti fisici e chimici non sarebbero possibili. Tra di esse la coesione assume una funzione primaria. Ma con l’estensione del dinamismo a priori si trovano anche diversi tentativi di specificare la rappresentazione del conflitto: per es., data la materia coesa, si può pensare che essa subisca una pressione, causata dall’attrazione della materia diffusa nello spazio esterno, e che reagisca ad essa mediante una forza repulsiva originaria. Così, tanto la coesione, quanto l’etere, come materia diffusa in tutto lo spazio, divengono nuovi presupposti che Kant cerca di anticipare a priori. Alla fine degli anni ’90 infine, ristabilire un collegamento tra queste indagini e i presupposti trascendentali del criticismo, Kant cercherà di elaborare degli argomenti trascendentali per stabilire l’universalità fisica del pieno120. I segni di questa evoluzione, comunque, si colgono già nei Principi metafisici. L’ipotesi dell’etere si riferisce qui a una materia in cui la repulsione sarebbe «incomparabilmente» superiore all’attrazione: una materia, cioè, di densità puramente ideale, necessaria semplicemente a eliminare i vuoti e dotata di un effetto impercettibile sui movimenti dei corpi. L’etere, con ciò, si presenta già come materia sui generis, dotata di proprietà non accessibili direttamente all’esperienza: in nuce, si può intravedere già l’etere come idea della ragione che comparirà nelle pagine di uno dei primi fascicoli dell’Opus postumum121. La funzione dell’etere, nel decennio successivo, non si limiterà ai problemi della coesione e degli stati di aggregazione, ma, intervenendo nella rappresentazione del conflitto, costituirà anche un fattore di una nuova rappresentazione del 120 Su questo tema si vedano i capitoli 12-13. Cf. ADICKES, Kant als Naturforscher, II, pp. 166ss. 121 Oktavenentwurf (1796), KgS XXI, 378.

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conflitto originario che dà luogo alla densità. Questo etere, o calorico, costituirà dunque quel presupposto a priori di cui mancava l’esposizione dei teoremi sulle forze fondamentali: una materia precedente la stessa rappresentazione delle forze, che possa essere considerata complessivamente come sostrato delle forze. A proposito di questa rappresentazione del conflitto, si legge già nella Dinamica: Poiché ogni data materia, per costituire una cosa materiale determinata, deve riempire lo spazio con un determinato grado di forza repulsiva, soltanto un’attrazione originaria in conflitto con la repulsione originaria può rendere possibile tale determinato grado di riempimento, e con esso la materia; può darsi, allora, che questo grado derivi dall’attrazione propria che le parti della materia compressa esercitano tra di loro, oppure dalla somma di questa attrazione con quella di tutta la materia dell’universo [Weltmaterie] (MA 518, corsivo mio).

Nella Fenomenologia Kant riconoscerà proprio nell’etere questa Weltmaterie (MA 563-564). Egli dunque concepisce già la possibilità che l’etere svolga una funzione per i problemi aperti della Dinamica; ma non ne può trarre ancora una rielaborazione della dinamica, in primo luogo per lo statuto ipotetico dell’etere e poi anche perché abbracciare questa ipotesi prelevandola dalla fisica corrisponderebbe a tornare al repertorio concettuale del meccanicismo. Per rendere questo concetto funzionale a una revisione teorica del dinamismo gli occorrerà dunque elaborare a priori il concetto di una materia cosmica, diversa dall’etere meccanico, e provarne la validità oggettiva. La presenza di questi motivi irrisolti suscita l’impressione generale che Kant non si dedicasse con calma, nella stesura della Dinamica, alla questione di come ripensare la rappresentazione del conflitto quantitativo delle forze e della sua legge in una fisica empirica e dunque dare una sistemazione radicalmente nuova alle idee fondamentali avanzate per la prima volta nelle opere precritiche. Lo conferma il modo poco netto in cui viene abbandonata la sua ipotesi giovanile, basata sull’idea di una legge matematica a priori. Kant la presenta dapprima come un «compito puramente 585

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matematico», in quanto essa si baserebbe «soltanto sulla direzione delle due forze [...] e sulla grandezza dello spazio in cui ciascuna di esse si propaga a distanze diverse». Successivamente dichiara impossibile stabilirla a priori. L’incongruenza è evidente: se i criteri della legge fossero davvero solo geometrici la legge dovrebbe essere puramente matematica, e secondo la dottrina del metodo kantiana non potrebbe restare ipotetica: potrebbe essere solo sbagliata o corretta122. Si vede dunque che, su questo problema, la teoria pura kantiana resta ancora sospesa tra un dinamismo costruttivo non più sostenibile e un dinamismo misto (fondato sul concetto di etere) non ancora pienamente giustificato. Ma la difficoltà nel determinare il rapporto tra dinamica pura e fisica, che abbiamo esaminato, non costituisce soltanto il massimo problema della Dinamica, bensì possiede una più vasto rilievo filosofico. Se infatti, come abbiamo ipotizzato per aggirare le difficoltà, il risultato della fisica pura si limitasse all’aver presentato uno schema per esibire i momenti costitutivi della materia, senza illustrare compiutamente il concetto del conflitto di realtà, allora anche l’esibizione degli «esempi in concreto» della metafisica sarebbe rimandata alla fisica empirica. Ma la specificazione fisica del conflitto, come abbiamo visto, comporta per Kant il ricorso a diverse ipotesi ausiliarie, come la forza di coesione, la densità originariamente diversa, l’esistenza dell’etere. In questo modo, allora, la validità dell’ontologia verrebbe a dipendere da numerose ipotesi fisiche! Si tratterà allora, per il Kant degli anni ’90, di trasformare queste ipotesi ausiliarie in elementi di una dottrina scientifica, in cui la filosofia deve trovare il passaggio dai propri concetti puri a un sistema del mondo.

8.4. Conclusioni. Risultati e limiti della Dinamica La Dinamica costituisce, sia dal punto di vista storico-genetico, che dal punto di vista della logica interna, il nucleo argomentativo dell’intera fisica pura dei Principi metafisici. La teoria dinamica 122 Sul fatto che un giudizio matematico non può restare ipotetico v. per es. A 734/B

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della materia, che Kant vi espone, è infatti una rielaborazione di quella della Monadologia physica e, così come nel pensiero precritico, costituisce anche nel criticismo il punto di congiunzione tra i principi generali della metafisica e le dottrine della fisica empirica. Nella nuova sistemazione, come abbiamo rilevato, Kant cerca di integrare la tesi delle due forze fondamentali in un cornice teorica nuova. In particolare, nell’ambito della nuova fisica pura, egli collega le tesi della dinamica per un verso con i principi della foronomia, che precedono logicamente le dimostrazioni della dinamica, per l’altro con quelli della meccanica, che trarrà dalla dinamica pura il concetto della forza motrice della materia, da quella empirica quello della materia coesa e del corpo rigido, per sviluppare i propri concetti e le proprie leggi. Un tentativo di questo respiro ha solo due analoghi nel corpus kantiano, entrambi meno organici dal punto di vista testuale: il gruppo di opere degli anni 1755-56 che abbiamo esaminato in precedenza, e il gruppo di manoscritti dell’Opus postumum dedicati alla realizzazione di un sistema elementare delle forze motrici e alle prove dell’esistenza di una materia cosmica, quale sostrato delle forze. Proprio in virtù di questa posizione nodale della Dinamica ho dedicato particolare spazio all’analisi critica delle argomentazioni kantiane, raccogliendo insieme alle difficoltà di cui Kant stesso fu consapevole anche quelle che mi sono sembrate difficoltà intrinseche del ragionamento e che troveranno implicitamente risposta in alcuni sviluppi successivi delle idee kantiane. Data l’importanza di queste difficoltà per il successivo sviluppo delle idee kantiane ritengo dunque opportuno riassumere schematicamente quanto è emerso, mettendo in rilievo solo le tesi generali della Dinamica che hanno un collegamento con questo sviluppo successivo e non rimangono dunque associate strettamente al testo dei Principi metafisici (per questo motivo, per es., non includo in questo riepilogo la questione della forza attrattiva originaria, che pure ha avuto fin qui un’importanza cruciale nello sviluppo delle idee kantiane). I risultati cui mi riferisco sono dunque i seguenti: 1) La dimostrazione delle forze fondamentali (in part. Teoremi 1 e 5). 2) La deduzione della densità specifica dal conflitto delle forze fon-

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damentali, secondo l’ipotesi di una legge delle forze (corollari e note al Teorema 8). 3) La dimostrazione della continuità originaria della materi intesa come quantum, infinitamente divisibile e priva di parti minime e puntuali (in part. Teorema 4). 4) La spiegazione dinamica della coesione e degli stati di aggregazione e (5) la negazione del vuoto, che dal punto di vista fisico procederebbe dalla tesi precedente (in part. Nota generale alla Dinamica).

Dall’esame precedente è risultato che le prime due tesi non sono state adeguatamente fondate, in base alle diverse difficoltà poste dalla rappresentazione foronomica del conflitto. In termini diversi da quelli impiegati nel nostro esame, sappiamo che Kant ebbe consapevolezza di una certa difficoltà della sua teoria su questi due punti: a) conobbe l’opposizione di alcuni fisici alla tesi di una forza repulsiva originaria, e di fatto si dedicò in appunti privati e interventi minori degli anni immediatamente successivi a elaborare una diversa rappresentazione del conflitto, che coinvolgeva in diversi modi il concetto di etere o calorico; b) riconobbe esplicitamente (nel 1792) una circolarità nel conflitto tra le forze fondamentali, che implicitamente metteva in dubbio la stessa necessaria duplicità delle forze fondamentali (rimarcata nei Teoremi 5 e 6 della Dinamica). La quarta tesi è rimasta ipotetica, la quinta, perciò, problematica, e ciò ha una grande rilevanza per la filosofia della natura nella misura in cui in essa ne va non soltanto di una opzione ipotetica (forza di coesione o etere meccanico), ma anche della continuità tra dinamica pura e dinamismo empirico, che Kant – sia pure con qualche oscillazione a livello testuale – dà per scontata come un postulato della parte dimostrativa dell’opera. Infatti, in assenza di una deduzione del confine tra i corpi nella dinamica pura il modello del conflitto tra le forze risulta bisognoso di un elemento ulteriore, che spieghi appunto l’esistenza di parti discrete di materia disomogenea delineate da bordi: la forza attrattiva infatti presuppone per la sua stima una quantità di materia determinata, e la forza repulsiva è una forza di superficie. Ma se l’elemento ulteriore fosse concepito in termini meccanici, cadrebbe a livello empirico 588

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quella distinzione tra dinamismo e meccanicismo su cui Kant ha giocato tutta l’originalità della sua dinamica. Tutto l’itinerario successivo delle riflessioni kantiane confermerà la viva esigenza di considerare concetti come coesione e rigidità quali posizioni di una filosofia dinamica e non di un’immaginazione meccanica. Infine, la tesi della continuità della materia rappresenta lo svolgimento più originale della Dinamica, che si accorda particolarmente bene con i presupposti trascendentali della nuova filosofia della natura (forme dell’intuizione come quanta continua; principio trascendentale del grado). D’altra parte essa si collega con difficoltà con le precedenti tre tesi, che sono quelle più antiche del dinamismo kantiano, risalenti alla fase monadologica, e resta inoltre separata dallo sviluppo storico della fisica, nel cui contesto quelle tesi erano state formulate123. Cionondimeno, e a dispetto di questo isolamento scientifico, essa si può considerare come un risultato indipendente. La considerazione del terzo episodio chiave della dinamica kantiana, nell’Opus postumum, conferisce concretezza e validità storica a questa ipotesi. Infatti, riprendendo i problemi aperti della Dinamica e della fisica empirica, Kant lavorerà nel decennio successivo a una riforma della dinamica basata sul concetto di etere o calorico, ma, per salvare il punto di vista dina123 Così, per un verso, la «versione critica della teoria dinamica della materia» si può adeguatamente delineare nel modo seguente (FRIEDMAN, Philosophy of Natural Science, in GUYER (ed.), The Cambridge Companion to Kant and Modern Philosophy, pp. 312-313): «In netto contrasto con la Monadologia fisica [...] Kant abbandona l’idea di parti elementari minime della materia, o monadi fisiche, e sostiene invece che tutte le parti della materia o sostanze materiali, proprio come lo spazio che occupano, devono essere infinitamente divisibili. In effetti, sviluppando questo argomento, Kant respinge esplicitamente proprio la teoria delle monadi fisiche che egli stesso aveva difeso in precedenza (nel 1756). Uno spazio riempito di materia o sostanza materiale, nella nuova teoria di Kant, consiste ora in una infinità, o continuo, di punti materiali, ognuno dei quali esercita le due forze fondamentali di attrazione e repulsione. Il “bilanciamento” delle due forze fondamentali, che in precedenza aveva determinato un piccolo (ma finito) volume, che rappresentava una “sfera di attività” dell’impenetrabilità intorno a una singola fonte puntiforme [point-like], ora determina una definita densità di materia in ogni punto dello spazio in questione, prodotta dalla mutua interazione di attrazione e repulsione». L’ultimo periodo, tuttavia, esprime un’intenzione che la Dinamica non riesce a realizzare.

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mistico guadagnato e difeso in precedenza, giungerà infine (a partire dal 1796) a rielaborare lo statuto di questo concetto, che sembrava sancire la resa e il ritorno alle rappresentazioni del meccanicismo. La doverosità di un tale ricompattamento teorico, il cui concetto chiave sarà quello di uno «spazio ipostatizzato», si avverte come un tensione irrisolta in tutti gli scritti del decennio 17861796 − e anzi, come si è segnalato, compare già nel testo dei Principi metafisici. Intorno a questo nuovo concetto Kant, muovendo dalla tesi della continuità della materia (nel senso detto), rimetterà mano da una nuova prospettiva alle questioni del conflitto originario, della densità, degli stati di aggregazione della materia, del vuoto. Questa consapevolezza ha motivato in sede storiografica i continui riferimenti a margine dal testo della Dinamica, e dai suoi problemi, a questo sviluppo successivo: anche se il tentativo di fine anni ’90 non costituisce una sintesi pienamente armonica, e dovrà restare documento privato di un ripensamento incompiuto.

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Capitolo 9 La Meccanica: ripensamento dei concetti newtoniani

9.1. Gli elementi della meccanica metafisica La Meccanica si occupa della materia come mobile, che «in quanto tale possiede una forza motrice» (Definizione 1, MA 536)1. In altre parole, essa considera la materia che, in quanto si muove, esercita una forza motrice su altre materie. Contiene dunque i principi della «comunicazione del movimento», cominciando con una definizione della quantità di movimento e passando poi alla formulazione di tre leggi metafisiche: della conservazione della quantità di materia, dell’inerzia e dell’uguaglianza di azione e reazione. Kant chiama queste proposizioni «leggi della meccanica generale». In diversi luoghi, egli sembra identificare la seconda e la terza di queste leggi con le due omonime leggi della meccanica newtoniana: aggiunge fra parentesi la formulazione newtoniana della legge d’inerzia (MA 541); afferma poi che Newton «non osò dimostrare a 1 Kant non distingue qui la meccanica dalla statica: in essa, infatti devono essere trattate «quelle forze motrici che i corpi posseggono in quanto si muovono, sia la velocità del loro movimento finita o infinitamente piccola (semplice tendenza al movimento)», MA 486 (cf. POLLOK, MA Kommentar, p. 385). Una tale posizione è comunque perfettamente coerente con la fisica newtoniana, in cui la distinzione tra statica e meccanica dipende da una diversità di applicazione piuttosto che di principi. Ancora una volta il titolo della sezione si adatta alla terminologia di Lambert, che nella Anlage zur Architectonic (I, § 68, p. 53) definisce «meccanica» la dottrina delle forze che intervengono nel movimento, e la limita ai casi in cui la struttura dei corpi viene presupposta come data e resta costante; la «Dinamica» si occuperebbe invece della modificazione di questa struttura.

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priori» la sua legge dell’azione e reazione. La corrispondenza di queste leggi rispettivamente con la prima e la terza legge del moto di Newton è alla base del diffuso giudizio secondo cui Kant si sarebbe proposto nella Meccanica di fornire una dimostrazione a priori di queste leggi2. Come vedremo le leggi kantiane non pretendono di dimostrare in toto il contenuto matematico delle leggi newtoniane, bensì – analogamente a quanto accade nella Dinamica rispetto alla legge di gravitazione universale – di anticiparne il contenuto puramente concettuale sulla base di premesse metafisiche; ciò comporta anche una certa anticipazione della loro forma matematica, che andrà valutata di caso in caso. Le premesse in base alle quali Kant procede in questa impresa sono diverse, e concatenate in modo un po’ involuto. In primo luogo, come si legge nella Prefazione, la terza sezione dell’opera presuppone il concetto empirico di «inerzia»: in proposito occorrerà spiegare che cosa significhi questa inerzia, e in che senso, in quanto concetto empirico, si distingua dal concetto di inerzia ricavato a priori nella omonima legge metafisica. In secondo luogo, la meccanica segue rigorosamente il filo conduttore categoriale: Kant sottolinea che le sue tre leggi «corrispondono esattamente alle categorie di sostanza, causalità e reciprocità, in quanto questi concetti si applicano alla materia» (MA 551). Nell’enunciarle osserva in tutti e tre i casi che ad ognuna di esse corrisponde una «proposizione della metafisica generale», riportando la formulazione delle tre Analogie dell’esperienza, come se la metafisica della natura non facesse che applicarle a un oggetto particolare. Come ci hanno insegnato le sezioni precedenti questa corrispondenza resta tutta da capire. Esiste poi un terzo presupposto della Meccanica, senza tener conto del quale non si possono comprendere né il rapporto tra le sue leggi metafisiche e le leggi della fisica newtoniana, né quello 2 Tra gli studi più recenti si vedano: BUCHDAHL, The Conception of Lawlikeness; K. OKRUHLIK, Kant on the Foundations of Science, in W.R. SHEA (ed.), Nature Mathematized. Historical and Philosophical Case Studies in Classical Modern Natural Philosophy, vol. I, Dordrecht/Boston/London 1983, vol. I, pp. 251-268; G. BRITTAN, Kant’s Theory of Science, pp. 117ss.

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di esse con i principi trascendentali: si tratta della capacità della materia di imprimere un movimento, che Kant ha ricavato a priori nella Dinamica. Senza questa premessa non si può capire il significato della definizione che apre la nuova sezione, secondo cui la materia in quanto mobile possiede una forza motrice; ma senza capire questa definizione non si capiscono nemmeno tutte le proposizioni successive: una comprensione della Meccanica, dunque, deve aver inizio con un chiarimento di questa premessa, e cioè del rapporto tra Dinamica e Meccanica. Kant, non a caso, affronta subito la questione (Nota alla Definizione 1; MA 536). La Meccanica considera «la forza di una materia messa in movimento, volta a comunicare questo movimento ad un’altra materia». Nella Dinamica, invece, «la materia poteva essere considerata anche in quiete», in quanto essa esercitava una forza in base al semplice fatto di riempire uno spazio. Kant si riferisce insomma a due concetti differenti di forza, che distingue qui soltanto attraverso la distinzione tra imprimere un movimento (restando in quiete) e comunicarlo (attraverso il proprio movimento). Questa distinzione, che nella Dinamica è alla base di enormi difficoltà, è indispensabile per la Meccanica: «È chiaro [...] che il mobile non avrebbe alcuna forza per il solo fatto di muoversi, se non possedesse anche forze motrici originarie, mediante cui agisce in ogni luogo in cui si trova, prima di ogni movimento» (ibidem). La capacità meccanica di comunicare un movimento, dunque, presuppone l’azione delle forze fondamentali della materia, introdotte nella Dinamica, poiché una materia che ne fosse priva non potrebbe comunicare un movimento. La situazione descritta va precisata: la materia non può essere altro che un corpo, o comunque quel volume di materia coesa (e rigida) che, come si è visto, la Dinamica non ricava a priori. Se così non fosse, non si potrebbe di parlare di repulsione, in quanto quest’ultima è una forza di superficie. Fatta questa precisazione si può nuovamente schematizzare la materia come un punto, tenendo fermo che un punto materiale non potrebbe neanche entrare in conflitto con un altro, se non fosse luogo d’origine di una forza: «nessuna materia imprimerebbe un movimento equivalente al proprio a un’altra materia, che si opponesse al suo 593

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movimento standole d i f r o n t e in linea retta, se non obbedissero entrambe a leggi originarie della repulsione» (ibidem). Ora, come si collegano tra di loro gli elementi fin qui elencati? La metafisica della natura non può definire i suoi concetti mediante semplici composizioni concettuali, ma deve ricorrere all’indagine sulla possibilità della costruzione nell’intuizione pura. È utile domandarsi, dunque, in che modo la comunicazione del movimento mediante forze fondamentali possa essere descritta in termini matematici. Un’ipotesi allettante, per collegare i concetti kantiani con le costruzioni cui egli stesso intende riferirli, sarebbe di considerare la forza fondamentale come equivalente alla «forza motrice» newtoniana. Ponendo, cioè, che la Dinamica abbia provato che una materia esercita una forza designabile matematicamente come F (dove F=ma), la rappresentazione dell’urto ne risulterebbe agevolmente. L’urto, infatti, deve avvenire con continuità, dunque attraverso un tempo finito3. Il concetto della comunicazione del movimento sarebbe equivalente, in termini matematici, alla consueta espressione dell’impulso: ∫Fdt=mv (dove F è la forza del corpo A, e mv è la quantità di movimento del corpo B). Questa ipotesi, tuttavia, non si adatta senza problemi alle sue premesse dinamiche. La forza repulsiva della Dinamica, lo si è visto, è un concetto di origine foronomica (∝ dv), e la si può considerare equivalente alla forza motrice newtoniana, proporzionale alla massa, solo a condizione di sopprimerne l’indipendenza dalla forza attrattiva, e con essa tutta l’ipotesi di ricavare dal conflitto tra le forze la variabilità delle densità specifiche. L’itinerario kantiano per salvare la distinzione tra le forze fondamentali, ma anche la purezza della fisica pura, si può delineare piuttosto nel modo seguente. Egli cerca di dedurre a priori, in corrispondenza con le categoria di sostanza e mediante i concetti dinamici e considerazioni foronomiche, il concetto meccanico di massa; in seguito, seguendo il filo conduttore delle altre categorie di relazione, impiega il concetto di massa per formulare le leggi della meccanica. In particolare, il presupposto dinamico della materia si può considerare equivalente al3

MA 552, Nota generale alla Meccanica.

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la semplice proprietà di produrre un cambiamento del movimento (la forza acceleratrice), e questa si può considerare orientata secondo i due versi di una linea, a seconda di quale delle due forze fondamentali venga presa in considerazione. Questa definizione dinamica di forza, come si è visto, si può considerare equivalente all’espressione matematica dv (il tempo non compare perché non si tratta ancora della sostanza, persistente nel tempo, ma appunto di un presupposto della sua costruzione). Mentre però quest’espressione esprime l’effetto foronomico, la forza di cui la Dinamica ha fornito la deduzione è una causa, non un concetto puramente matematico, la cui azione ha un’origine localizzata nello spazio ed è associata a un volume in genere. Invece la forza motrice meccanica, in quanto associata a un volume determinato e dunque a una massa misurabile, si potrà considerare equivalente, in ogni dato istante, a mv: Kant la chiamerà anche, per tutta la sezione, «movimento». La comunicazione del movimento si riferirà dunque alla trasmissione di quantità di moto tra i corpi. Infine la seconda legge della dinamica di Newton, con la sua definizione di forza come F∝m∆v, si potrà considerare implicita nella legge meccanica di azione e reazione. Si tratterà ora di seguire questo itinerario nel dettaglio, attraverso l’esame dei quattro teoremi della Meccanica. Prima di passare a questo esame esaminiamo un’ultima apparente difficoltà generale. La trattazione della comunicazione del movimento si riferirà tanto alla repulsione quanto all’attrazione, anche se Kant sceglie di fare solo esempi di azioni repulsive (urti)4. Questa simmetria sembra problematica per due aspetti. 1) Kant attribuisce un movimento originario anche alla materia che imprime un movimento per attrazione, benché questa dal punto di vista dinamico possa anche essere considerata in quiete. La ragione di ciò è che in questa sezione viene assunta l’azione reciproca 4 MA 536: «Nessuna materia imprimerebbe un movimento equivalente al proprio a un’altra materia, che si opponesse al suo movimento standole d i f r o n t e in linea retta, se non obbedissero entrambe a leggi originarie della repulsione, né potrebbe costringerne un’altra a s e g u i r l a lungo la sua direzione (cioè a trascinarsela dietro), se non possedessero entrambe forze attrattive». La scelta degli esempi viene dichiarata poche righe dopo.

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tra le materie, che comporta un movimento di entrambe le materie5. 2) Nel caso dell’attrazione si ha ha necessariamente un’accelerazione relativa dei corpi, nel caso degli urti si possono considerare le due materie come dotate di moto uniforme. Ma Kant pone un’esplicita equivalenza tra la legge meccanica della comunicazione dei movimenti e la «legge dinamica» della impressione reciproca dei movimenti6. In questo caso, di nuovo, Kant potrebbe presupporre che in concreto l’azione reciproca è anche (e spesso prima di tutto) attrattiva, e che dunque il moto uniforme rappresentato per lo studio degli urti è una astrazione. D’altra parte, abbiamo visto trattando della Dinamica che egli tende a scambiare tra di loro accelerazione e velocità sul piano delle definizioni matematiche. Di nuovo, questo è particolarmente evidente nello studio della caduta libera, dove egli parla di corpi che cadono con la stessa velocità7. Simili dubbi possono sorgere per il fatto di confondere piano metafisico e piano empirico della scienza. Nella Meccanica metafisica la materia viene considerata originariamente in movimento in base al presupposto della dinamica e alla legge di azione e reazione. Perciò il problema dell’origine del movimento, che nella Dinamica si deve porre in quanto essa non considera il movimento come relativo, nella Meccanica si dilegua, sostituito dalla relatività 5 La cosa è evidente nel solo esempio di azione attrattiva, quella di una «cometa, dotata di una forza attrattiva maggiore di quella della Terra, [che] passando vicino a quest’ultima la trascini via con sé» (MA 537). Dove il moto della Terra va inteso come moto nel sistema di riferimento del centro di massa tra i due corpi. 6 MA 548-549, Teorema 4, Corollario 2. 7 MA 541: nell’attrazione gravitazionale «il corpo che esercita un’attrazione imprime anche a se stesso una velocità di movimento proprio (mediante la resistenza del corpo attratto) e questa velocità, in circostanze esterne uguali, è proporzionale appunto all’insieme delle sue parti». Ricordiamo gli altri passi già citati in precedenza: Berliner Physik, KgS XXIX, 80-81: nella caduta libera «tutti i corpi cadono con uguali velocità, se si astrae dalla resistenza dell’aria». Danziger Physik, KgS XXIX, 142: «La gravità significa la velocità cui un corpo cade; è la stessa presso tutti [i corpi]». Cf. MA 540 (dove l’esempio è quello statico della bilancia). Non si possono intedere questi passi come fraintendimenti di nozioni fisiche, come quella dell’accelerazione di gravità (g), che Kant mostra in numerosi casi di comprendere benissimo. Cf. CARRIER, Kant’s Mechanical Determination of Matter, pp. 123-125.

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originaria dei movimenti fisici. Ma occorre distinguere questo movimento in astratto da quello effettivo studiato dalla fisica empirica. Il movimento precedente all’urto non viene considerato ancora in concreto, come causato da una forza attrattiva e dunque accelerato più o meno uniformemente (e eventualmente perturbato da una materia interposta). Il riferimento a un movimento di verso opposto delle materie che interagiscono non deve dunque evocare la condizione fisica di un perpetuo movimento oscillatorio (di contrazione e espansione) dell’universo, come nella Allgemeine Naturgeschichte (KgS I, 320-321), ma serve soltanto a schematizzare il conflitto di quantità che è implicito nella comunicazione del movimento: il verso di un’azione si definisce per contrasto con il verso opposto perché si sta trattando di una grandezza che si deve comporre con altre grandezze, che in base alla scomposizione delle componenti vettoriali saranno di verso opposto. La differenza di piano decide del diverso esito del problema dell’origine del movimento: sul piano metafisico esso significherebbe un inizio assoluto extrafenomenico, che comporta il riferimento del fenomeno con un nulla e dunque risulta inconcepibile; sul piano fenomenico, dove il movimento è da subito necessario e relativo, si tratterebbe invece di ritornare a collegare il postulato di un movimento originario con l’esistenza stessa della materia: ciò che Kant aveva fatto nella Allgemeine Naturgeschichte e che tornerà a fare nell’Opus postumum.

9.2. Quantità di materia e quantità di movimento A) Quantità di materia, massa, quantità di movimento: riorganizzazione delle definizioni newtoniane La quantità di materia viene definita come «l’insieme [Menge] del mobile contenuto in uno spazio determinato» (Definizione 2, MA 537). Questo insieme, pur essendo una grandezza, non è costituito da una determinata quantità di parti che si possano distinguere ed enumerare: «La materia è divisibile all’infinito, per cui di nessuna materia si può determinare immediatamente la quantità mediante l’insieme delle sue parti». Kant, dunque, accoglie una definizione 597

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estensiva di quantità di materia, ma subito dopo nega che l’estensione materiale sia immediatamente numerabile (in base al Teorema 4 della Dinamica). Il termine ‘Menge’ designa tuttavia una molteplicità (multitudo) e, come tale, comporta la rappresentazione di elementi distinti: si tratta allora di capire perché Kant, pur concependo la materia come un continuo, definisca la quantità di materia come un insieme del mobile – che però resta in linea di principio indeterminato – e non come il quantum di un mobile. Le ragioni di questo passaggio risiedono nella costruzione del concetto meccanico di materia, le cui condizioni verranno esposte nel seguito della Meccanica. Poiché la quantità di materia non è costituita da un numero determinato di parti, né coincide con il volume, la costruzione dovrà avvenire indirettamente, chiamando in causa un’altra grandezza – la quantità di movimento − dalla quale ricavare quella cercata. Solo con questo ulteriore passaggio si vedrà come anche la rappresentazione discreta del mobile debba essere conservata ai fini della costruzione. La questione viene trattata nel Teorema 1, che afferma: «La quantità di materia si può misurare rispetto ad una qualsiasi altra solo mediante la quantità di movimento che possiede a una determinata velocità» La proporzionalità tra massa (m) e quantità di movimento (mv) era un luogo comune nella meccanica e Kant non fa che riprenderla: «la quantità di movimento (misurata meccanicamente) è quella che si misura mediante la quantità di materia che si muove insieme con la sua velocità» (MA 537). Per Kant, tuttavia, essa non costituisce una mera definizione matematica, ma possiede una dignità metafisica, in quanto – essa sola – contiene la possibilità di costruire il concetto di quantità di materia, e dunque di rendere coerenti la sua definizione e la sua misura8. 8 Qui di seguito verranno esaminate le ragioni addotte, nei Principi metafisici, per giustificare questa costruzione indiretta della quantità di materia, mostrandone il collegamento con la struttura concettuale della meccanica del tempo. Il fatto che questa costruzione debba comportare la rappresentazione di un movimento, e dunque una dimensione temporale, possiede tuttavia una risonanza trascendentale: la prima analogia dell’esperienza, infatti, stabiliva che la sostanza è costituita essenzialmente dalla persistenza nel tempo (KrV A 182/B 224). Sulla dimensione temporale della sostan-

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Il tentativo intrapreso da Kant si comprenderà meglio tenendo presente che egli, introducendo i concetti meccanici, sta commentando puntualmente le definizioni newtoniane dei Principia mathematica. L’esigenza di costruire la quantità di materia a priori discende da un ben preciso giudizio di inadeguatezza teorica sul collegamento istituito da Newton tra definizione di quantità di materia e misura sperimentale di quest’ultima. L’inadeguatezza consiste – come ormai ci aspettiamo − in una insufficiente connessione reciproca dei concetti fondamentali e nella commistione di elementi a priori e elementi empirici nel passaggio dalla loro definizione alla loro applicazione fisica nella stima delle masse. Si leggano le prime due definizioni dei Principia mathematica9: Definizione 1. La quantità di materia è una misura della materia che sorge dalla sua densità e dal volume considerati congiuntamente [...] Definizione 2. La quantità di movimento è una misura del movimento che sorge dalla velocità e dalla quantità di materia considerate congiuntamente.

Nel commento alla Definizione 1 Newton aggiunge la seguente precisazione terminologica sul concetto di quantità di materia: «io intendo questa quantità tutte le volte che impiego il termine “corpo” o “massa” nelle pagine successive». Aggiunge poi che la quantità di materia «può essere conosciuta dal peso del corpo, perché – facendo esperimenti molto accurati con il pendolo – ho trovato che essa è proporzionale al peso, come sarà mostrato in seguito». Come risulta dai passi citati, nel testo dei Principia compaiono due metodi per stimare la quantità di materia. Per definizione essa si può ricavare moltiplicando la densità per il volume; altrimenti, come di fatto accade quasi sempre nell’elaborazione del sistema del mondo, la massa si può stimare mediante il peso (più in generale, mediante l’interazione gravitazionale). Kant esamina entrambe queste procedure di stima del concetto di massa, il cui rapza, che si manifesta mediante la grandezza mv, si veda VUILLEMIN, Physique et métaphysique, pp. 271-272. 9 Principia, pp. 39-40.

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porto non viene approfondito nel testo newtoniano, individuandone dei presupposti a priori. Nessuna delle due, nella formulazione newtoniana, fornirebbe dunque una trattazione rigorosa della possibilità di costruire la quantità di materia. La prima viene riferita dallo stesso Newton alla legge di Boyle, cioè al riscontro sperimentale di una proporzionalità tra pressione e volume. Questo riferimento non indica però un metodo per stimare la massa. In primo luogo lo stesso Newton, pur inclinando a interpretare la relazione pV = cost. nei termini di una distribuzione di particelle nel vuoto, suggerisce che la situazione fisica corrispondente potrebbe dipendere anche dalla presenza di un fluido interposto tra le particelle10. Quale che sia la causa dell’elasticità, dalla pressione corrispondente non si potrà ricavare la massa direttamente, bensì soltanto mediante la rappresentazione di una comunicazione del movimento: la pressione, infatti, non è che una specificazione della forza motrice (p=F/S). Abbandonando queste complicazioni empiriche, e procedendo in base alla semplice definizione, la quantità di materia si potrebbe ricavare se fosse nota a priori la densità di un corpo: si tratta non a caso di un procedimento che rimane a margine della trattazione newtoniana11. La sorte di questa deduzione della massa è analoga nella filosofia kantiana. L’ipotesi di una stima a priori della densità è stata avanzata nella Dinamica, dove si basava però sulla determinazione del grado originariamente specifico della forza repulsiva e perciò non forniva una procedura per ricavare il grado determinato: il collegamento dei concetti dinamici con l’esperienza era mediato da fenomeni fisici come la compressione o l’attrazione gravitazionale, dunque da casi di comunicazione del movimento. La seconda procedura newtoniana di misura si riferisce proprio all’interazione meccanica, ed è quella solitamente impiegata nei 10 Ivi. Kant si riferisce proprio a una simile ipotesi quando, discutendo la legge in questione, chiama l’elasticità in questione «derivata», escludendola di conseguenza dalla fisica pura. 11 Si veda I.B. COHEN, A Guide to Newton’s Principia, pp. 86-95. La relazione tra «specifick Gravity» e densità è trattata da Newton, per es., in Opticks, Lib. II, Part III, Prop. 10, p. 271. Kant, conservando la terminologia newtoniana, indica il peso specifico come «spezifische Schwere».

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Principia. La definizione si riferisce alla sola pesatura, che presuppone alcune premesse sperimentali – associate alla determinazione della proporzionalità di massa e peso – e dunque non sembra potersi stabilire in una metafisica della natura. D’altra parte il metodo che Newton segue di fatto per stimare le masse planetarie costituisce l’equivalente di una “pesatura” a distanza fondata sulla legge di azione e reazione. La densità, in questo modo, risulta praticamente inutilizzabile quale grandezza primitiva e tende a divenire una grandezza derivata, ottenuta dividendo la massa per il volume. L’intera procedura di misura si basa dunque su una legge provata induttivamente. Kant, come si vedrà, mostra di tener presenti tutti questi passaggi, e cerca di ristrutturarne l’ordine logico: rende esplicita l’assimilazione newtoniana della pesatura a una comunicazione del movimento; nel Teorema 1, di conseguenza, introduce un principio della stima indiretta che pone la legge di azione e reazione come condizione della stima della quantità di materia. Tuttavia questa legge dovrà essere dimostrata a priori: la sua dimostrazione, dunque, coinciderà con la fondazione di un metodo coerente di stima della massa. Infine il riferimento ai presupposti dinamici della comunicazione del movimento permetterà di stabilire un legame concettuale tra massa e densità, riconducendo entrambe al loro fondamento metafisico, la forza fondamentale. Per introdurre la costruzione del concetto di materia Kant (Definizione 2) ne distingue il concetto da quelli di massa e corpo, svolgendo un’ulteriore, implicita riorganizzazione delle definizioni newtoniane corrispondenti. La massa, scrive, equivale alla quantità di materia «in quanto si considera che nel suo movimento tutte le sue parti siano simultaneamente attive; si dice allora che la materia a g i s c e i n m a s s a quando tutte le sue parti, muovendosi in una stessa direzione, esercitano s i m u l t a n e a m e n t e la loro forza motrice sull’esterno». Il primato gnoseologico della massa non abolisce la differenza tra questa e la quantità di materia, che è il suo fondamento. In proposito Kant coglie bene le intenzioni del pensiero newtoniano, in cui la quantità di materia costituisce una grandezza essenziale e invariabile. La Definizione 1 dei Principia, però, chiama questa grandezza «misura», salvo poi mostrare che la sua stima è possibile solo mediante la quantità di movimento. Kant 601

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mette in evidenza questa distinzione definendo quantità di materia la «sostanza materiale» e considerando la massa come misura della sua azione istantanea. Infine, dato che quantità di materia e massa sono due concetti costruibili a priori, egli distingue ulteriormente da essi quello di corpo, che richiede un’ulteriore determinazione empirica: «Una massa di figura determinata si chiama corpo (in senso meccanico)» (MA 537). La stima della quantità di materia, del resto, non richiede che venga determinata la figura determinata di un corpo, ma solo la sua azione.

B) Costruzione della quantità di movimento: premesse foronomiche e dinamiche La concatenazione delle premesse a priori che stanno a fondamento del concetto di quantità di materia viene illustrata da Kant, coerentemente con il metodo della metafisica, attraverso un’indagine sulla possibilità di costruire nell’intuizione pura il concetto della quantità di movimento (Corollario al Teorema 1). Questo concetto si deve rappresentare come «composto da molti movimenti di punti, distinti tra di loro, ma congiunti in un intero» (MA 538). Questa rappresentazione sarebbe implicita nella consueta misura meccanica della quantità di movimento mediante gli urti12. Per ottenere il concetto meccanico di quantità di moto, però, bisogna considerare questi punti «come qualcosa che possiede una forza motrice p e r m e z z o d e l p r o p r i o m o v i m e n t o» (ibidem). Su questo presupposto delle forze fondamentali Kant ritiene dunque di poter fondare una costruzione della quantità di movimento realizzata mediante un’applicazione del teorema foronomico. Ai fini di questa costruzione, si considera la quantità di materia come un insieme di punti mobili, dunque come una grandezza estensiva. Essendo questi punti dotati di forza motrice, si può considerare l’effetto che essi producono collettivamente, in quanto cioè agiscono «in massa». Così, due punti dotati della stessa velocità che agiscono in massa 12 Anche qui Kant sta commentando e ripensando un’affermazione di Newton, il quale illustra la definizione di quantità di movimento nel modo seguente (Principia, Definizione II, p. 40): «il movimento dell’intero è la somma del movimento delle parti individuali».

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possiedono una quantità di movimento doppia rispetto a quella che ne avrebbe uno solo (mentre nella Foronomia, poiché i punti materiali non si consideravano dotati di forza motrice, due punti coincidenti e dotati di velocità uguali non davano una velocità doppia, e per raddoppiare la velocità bisognava attribuirne una uguale ed opposta allo spazio in cui si muove il punto)13. Con questo complesso itinerario argomentativo Kant intende raggiungere due scopi: in primo luogo, stabilisce il rapporto tra meccanica e dinamica, contrappondendosi nuovamente alla concezione della massa come proprietà intensiva, propria della dinamica monadologica (Nota al Teorema 1, MA 539, 541); in secondo luogo mantiene la rigorosa unità metodologica dell’opera, cioè il riferimento alla composizione foronomica dei movimenti, traendone la costruzione di un concetto estensivo di quantità di materia come insieme di parti reciprocamente esterne, che è così dotato di evidenza intuitiva. Ora, alla luce di questo concetto, quale significato si deve attribuire alla definizione della quantità di materia come «insieme del mobile»? Il fatto che in essa venga menzionato un insieme di punti costituisce per diversi interpreti l’illegittima reintroduzione di una rappresentazione discreta della materia14. Considerando però le premesse dinamiche della Meccanica kantiana si può ricostruire una coerenza della sua teoria. La quantità di materia, infatti, risulta estensiva ai soli fini della costruzione. La Dinamica ha insegnato, tuttavia, che la forza repulsiva può conferire originariamente una densità diversa a uguali volumi di materia, senza toglierne 13 MA 538. La teoria kantiana, in questo passaggio, è molto simile a quella di Boscovich, in cui la massa è spiegata come azione aggregata di punti materiali. In Boscovich, però, i punti dotati di forza sono effettivamente costituenti metafisici dei corpi e il loro legame reciproco, che determina la possibilità dell’azione in massa, è iscritto nella stessa legge della loro azione reciproca. Kant, al contrario, deve giustificare l’azione in massa di una materia continua con un presupposto ulteriore. Nella Nota al Teorema 1 afferma in effetti che la massa, in quanto agisce simultaneamente, si riferisce in senso stretto a un corpo rigido, presupponendo dunque una spiegazione della loro coesione. Nel caso dei fluidi il recipiente, determinando una pressione simultanea delle parti della materia, «prende il posto della sua rigidità» (MA 540). 14 Vedi ADICKES, Kant als Naturforscher, I, p. 292; POLLOK, MA Kommentar, p. 393.

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l’interna continuità. Da questo punto di vista, dunque, Kant non fa che escogitare per la sua costruzione un espediente che si basa sulla proprietà del continuo: corpi di densità maggiore verranno rappresentati come composti di più punti (la continuità dello spazio permette infatti di individuare un numero arbitrario di punti in un medesimo volume). Sarà così possibile una costruzione foronomica della quantità di movimento che ne riconduca nuovamente il quantum a una composizione dell’omogeneo (in questo caso, di movimenti). La considerazione apparentemente discreta della materia, perciò, non deve essere rivestita di significato oggettivo; essa si può piuttosto ritenere analoga a quella delle linee di forza attrattive, che Kant a discusso nella Dinamica, secondo la quale il quantum di forza è il primum ontologico, mentre il numero di linee convergenti prolungate dalla superficie della sfera non è che una sua raffigurazione schematica, introdotta ai fini dell’evidenza geometrica e conforme al metodo della fisica matematica. Nel Teorema 1, in definitiva, Kant introduce due condizioni della possibilità di costruire la quantità di materia: una premessa quantitativa, corrispondente alla possibilità di costruire le azioni meccaniche nell’intuizione pura, e una premessa qualitativa, cioè la possibilità di considerare identici volumi fisici come continui, ma dotati di densità diverse. Il fatto che la prima premessa venga ora impiegata per la costruzione della quantità di materia è un risultato che dimostra la stretta concatenazione logica delle diverse sezioni dell’opera: nella Dinamica è stata dissolta la possibilità di considerare la quantità della materia in termini puramente estensivi, come molteplicità numerabile di parti; ma il fatto che il momento quantitativo della materia venga sviluppato mediante il movimento anticipa già il fatto che la sostanza, da un punto di vista meccanico, verrà definita secondo categorie di relazione. Come stiamo per vedere, infatti, il procedimento empirico di stima meccanica delle masse richiede anche una terza premessa a priori (specificamente meccanica): la legge di azione e reazione. Il Teorema 1 della Meccanica, da questo punto di vista, ha la funzione di raccordare i concetti delle sezioni precedenti, che serviranno alla trattazione delle tre leggi metafisiche. Si vede subito che un elemento problematico di questo sistema 604

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di principi risiede di nuovo nella tesi dinamica dell’eterogeneità della materia: «la materia deve poter essere misurata in confronto a d u n ’ a l t r a q u a l s i a s i» (MA 538). Se la materia fosse omogenea, scrive Kant, la massa si potrebbe stimare mediatamente confrontando i volumi. In base alla eterogeneità della materia, cioè alla proprietà in base alla quale la densità di diverse parti di materia si può considerare originariamente diversa, diviene invece necessaria la stima mediante la quantità di movimento («Dunque non è possibile una misura valida della materia, né immediatamente [cioè per enumerazione delle parti] né mediatamente [confrontando i volumi omogenei], fin tanto che si astrae del suo movimento» − ivi). Ricordiamo, però, che questa eterogeneità non è stata ricavata empiricamente dalla pesatura di pari volumi di materie chimicamente eterogenee, ma è stata introdotta come postulato del concetto dinamico di materia, in quanto esso permette di considerare originariamente diverso il grado della forza repulsiva. Il concetto del momento come grado della causalità, che compariva come esempio già nel capitolo sulle Anticipazioni della percezione, troverebbe ora impiego nella stima indiretta della quantità di materia15. Ma la Dinamica, come abbiamo visto, non ha potuto far altro che anticipare la possibilità che la forza possieda un grado originariamente diverso; l’effettiva varietà di questo grado non è stata dimostrata. Anche in questo passaggio, dunque, si coglie la necessità di un’ulteriore determinazione a priori delle condizioni per misurare sperimentalmente il peso specifico, al fine di impedire che la metafisica rimanga staccata dalla fisica empirica, o ne assimili 15 Il momento è il «grado della realtà [...] considerata come causa» (KrV A 169/B 210). Alla luce della meccanica si capisce meglio come mai l’esempio fatto sia il momento della gravità: in questo caso, a differenza che per tutti gli altri esempi di grandezze fisiche citati da Kant, il grado viene costruito nella sintesi successiva oggettiva, mediante la rappresentazione della comunicazione del movimento. Peraltro questa costruzione rende pienamente ragione anche della terminologia newtoniana adottata da Kant. Le grandezze intensive sono «f l u e n t i, in quanto la sintesi (dell’immaginazione produttiva) nella produzione di esse è un processo nel tempo, la cui continuità è designata in particolare col termine ‘fluire’ (scorrere)» (Ivi, A 170/B 211). Il termine ‘fluente’ proviene dalla matematica newtoniana, così come ‘momento’ (Principia, Lib. II, Lemma II, pp. 364-365).

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la contingenza. Il tentativo kantiano, in ciò analogo a quello di Newton, consiste dunque nel sottoporre la stima a un principio meccanico, senza far uso direttamente del grado dinamico originariamente diverso.

C) La stima della quantità di movimento: pesatura e azione a distanza È importante sottolineare che Kant, nel Teorema 1, non indica un metodo per stimare la quantità di materia, ma enuncia una condizione necessaria, non sufficiente, della sua stima. Si è trattato dunque, finora, della costruzione possibile di una quantità già determinata. Ma come si può misurare, in effetti, la quantità di materia? Fin qui Kant non si è mai riferito direttamente a urti o altri procedimenti fisici, il che del resto avrebbe violato il carattere a priori della meccanica. Egli non ha fatto altro che affermare: data la quantità di movimento p (= mv) di un corpo, la sua massa si può ottenere dividendo p/v. Dato un qualsiasi altro corpo dotato della stessa velocità, dividendo nuovamente pi/v, si avrà una stima della quantità di materia omogenea a quella effettuata in precedenza. Il procedimento di costruzione appena descritto non è che un modo di rendere tutto questo intuitivo e dunque di rappresentare la possibilità delle corrispondenti operazioni algebriche. Resta da capire come si misuri effettivamente la quantità di movimento. Si potrebbe pensare che quest’ultimo sia semplicemente un problema empirico, che debba tenersi distinto dal contenuto puramente a priori del concetto di quantità di moto. Kant stesso, discutendo il Teorema 1, suggerisce una simile lettura. Il fatto – scrive – che la quantità di materia si possa misurare soltanto indirettamente, dividendo la quantità di movimento per la velocità, ma che la quantità di movimento si definisca mediante la quantità di materia stessa, non costituisce un circolo. Infatti, la definizione e il teorema non esprimono concetti identici: la prima definisce un concetto, mentre il secondo definisce «la sua applicazione all’esperienza» (MA 540). L’esempio portato da Kant sembra confermare il sospetto che ci si trovi di fronte a una rappresentazione em606

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pirica, come se si fosse data una “definizione operativa”: la quantità di materia «si mostra nell’esperienza soltanto mediante la quantità di movimento a una data velocità (per es. con l’equilibrio)». Ma il caso dell’equilibrio non è che una delle tante, inevitabili concretizzazioni empiriche dei concetti di cui Kant sta tentando una trattazione a priori. L’applicazione all’esperienza non si riduce a questa concretizzazione: lo stesso fenomeno dell’equilibrio, come tutti i fenomeni meccanici, deve essere compreso sulla base di una legge a priori della comunicazione del movimento. La stima della quantità di movimento, dunque, non dipende da una semplice osservazione empirica, ma comporta ancora un principio a priori. Questa importante precisazione si fa strada proprio a proposito dell’esempio dell’equilibrio. Kant osserva che esso comporta un riferimento alla forza attrattiva e ne approfitta per ribadire che la stima della massa non dipende però direttamente dalle forze fondamentali – il che tenderebbe a ripristinare una rappresentazione intensiva e monadologica – bensì da una costruzione meccanica (MA 541): È vero che l’attrazione universale, in quanto causa della gravitazione universale, può fornire una misura della quantità di materia e della sua sostanza (come in effetti accade quando si confrontano le materie pesandole), anche se qui non sembra che ci si basi sul movimento proprio della materia attraente, bensì su una misura dinamica, cioè sulla forza attrattiva. Tuttavia, dato che per mezzo di questa forza una materia agisce immediatamente con tutte le sue parti su tutte le parti di un’altra, e pertanto (alle stesse distanze) l’effetto16 è evidentemente proporzionale all’insieme delle parti, ne segue che il corpo che esercita un’attrazione imprime anche a se stesso una velocità di movimento proprio (mediante la resistenza del corpo attratto) e questa velocità, in circostanze esterne uguali, è proporzionale appunto all’insieme delle sue parti; per cui anche in questo caso la misurazione avviene meccanicamente, sebbene in modo indiretto. 16 Quest’ultimo termine è erroneamente saltato nella traduzione italiana citata, compromettendo la possibilità di una comprensione adeguata del testo.

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L’argomento, come ci si aspettava, si fonda sulla legge di azione e reazione. In base ad essa un corpo A che attragga un corpo B ne viene attratto a sua volta con pari forza motrice. In questo senso, indirettamente «imprime a se stesso» un movimento. In base a queste premesse, sembrerebbe possibile ricavare senza ulteriori mediazioni la misura della massa: «alle stesse distanze» da un corpo attraente, cioè la Terra, le accelerazioni sono le stesse; l’effetto dell’attrazione di due corpi A e B sulla terra, dunque, sarà rispettivamente mAg e mBg; esso si può considerare prescindendo dal fattore comune g: l’equilibrio dei pesi, allora, corrisponde a un’uguaglianza delle masse. L’impiego dell’espressione mg è qui appropriato, ma la maniera kantiana di trattare queste grandezze richiede alcuni chiarimenti. La massa, intanto, fa la sua comparsa in quanto l’attrazione, come è risultato (a priori) nella Dinamica, è un effetto proporzionale all’insieme delle parti. Si tratta, poi, di una massa tout court, che sta al di qua della distinzione tra massa gravitazionale e massa inerziale. La diversità di questi concetti era ben nota all’epoca, e Newton aveva provato sperimentalmente la loro proporzionalità17. Kant conosceva bene questa differenza18 , e non è pensabile dunque che la trascurasse, né sarebbe stato adeguato in questa sede accogliere il risultato sperimentale newtoniano. Pare, piuttosto, che proprio la riduzione dell’interazione gravitazionale (essenziale alla materia) a una comunicazione meccanica di movimento costituisca ai suoi occhi il fondamento di una omogeneità tra i due concetti. Tutto questo, però, comporta evidentemente il solito scambio, o un postulato di equivalenza, tra velocità e accelerazione. Nel passo in esame Kant parla di velocità, ma ancora una volta sta pensando ad accelerazioni. Conseguente17 Principia, Lib. III, Prop. VI, Teorema VI. L’esperimento consisteva nel misurare i periodi di oscillazione di pendoli, alle cui estremità erano sospese scatole di legno riempite di diversi materiali (le scatole servivano a rendere omogenea la resistenza dell’aria). Gli esperimenti possedevano una precisione tale che «una differenza di materia minore di una millesima parte dell’intero» sarebbe stata facilmente individuata. I periodi risultarono uguali. 18 Cf. KrV A 173/B 215, dove parlando della quantità di materia distingue la sua considerazione «per il momento della gravità o peso» e quella «per quello della resistenza rispetto ad altre materie in movimento».

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mente, la tesi kantiana secondo cui la quantità di materia si può misurare soltanto «a pari velocità» andrebbe letta come riferita a pari accelerazioni19. Pesatura e azione a distanza costituiscono dunque due vie alternative ma identicamente fondate per stimare la quantità di movimento, e quindi la quantità di materia, ed entrambe presuppongono la dimostrazione a priori della legge di azione e reazione. Anche in questo caso, dunque, la possibilità di costruire il concetto definito all’inizio della sezione diviene evidente solo in seguito, e addirittura soltanto alla fine, con «la costruzione della comunicazione dei movimenti» realizzata per dimostrare la legge di azione e reazione nel Teorema 4.

9.3. Le leggi della meccanica metafisica A) Prima legge della meccanica: conservazione della quantità di materia La prima legge della meccanica metafisica (Teorema 2) non corrisponde ad alcuna proposizione newtoniana. È una legge di conservazione della sostanza materiale, che discende direttamente dalle premesse trascendentali della metafisica ed esprime nella sua generalità un postulato implicito sia nella fisica newtoniana che nella nuova chimica20. Essa afferma che «in tutti i cambiamenti della 19 Secondo CARRIER, Kant’s Mechanical Determination, pp. 131-132 ciò significherebbe che la bilancia costituisce il principale mezzo per misurare le masse. Questi critica la tesi di FRIEDMAN, The Metaphysical Foundations of Newtonian Science, in BUTTS (ed.), Kant’s Philosophy of Physical Science, pp. 45-46, 51, il quale al contrario sostiene che Kant, proprio ispirandosi al procedimento di Newton nei Principia, considererebbe l’interazione a distanza come la via principale per stimare le masse dei corpi. Alla luce delle considerazioni kantiane sulla pesatura, che abbiamo esaminato in precedenza, la tesi di Carrier risulta difettosa: la bilancia, in quanto macchina dotata di coesione e rigidità, trasforma la pesatura in un procedimento dotato di numerose condizioni ulteriori, rispetto alla stima mediante l’attrazione a distanza o mediante l’urto. Del resto, come è stato mostrato, Kant considera il caso della pesatura come esempio di comunicazione reciproca del movimento. In ultima analisi, dunque, le tesi di Carrier e Friedman risultano compatibili. 20 La conservazione della materia nella filosofia cartesiana, oltre che dipendere da presupposti teologici, aveva un diverso oggetto: la materia che si conserva, per Kant, è essenzialmente pesante. Per la chimica la conservazione della quantità di materia

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natura fisica la quantità di materia resta in totale la stessa», e si basa su una applicazione alla sostanza materiale del principio di conservazione della sostanza contenuto nella Critica, secondo cui nei cambiamenti della natura nessuna sostanza si crea né si distrugge. Quel che aggiunge la metafisica della natura corporea è che la sostanza deve essere considerata composta di parti «reciprocamente esterne». Questa affermazione ripresenta quanto è stato argomentato nella Dinamica: la materia deve essere considerata sempre estesa, come parte e non come punto; è essenzialmente estensione piena21. Il più rilevante corollario di questa trattazione critica della sostanza materiale emerge nella Nota 1, dove Kant confronta il caso dell’oggetto sensibile nello spazio, le cui parti sono tutte sostanze, con quello dell’oggetto del senso interno, la cui grandezza è intensiva e non consiste di parti reciprocamente esterne. In base a queste premesse, l’Io – considerato come fenomeno – può essere sottoposto a un «graduale dileguarsi» senza che ciò contraddica alcuna legge metafisica, e costituisce anzi un concetto che designa una «cosa dal significato indeterminato, cioè il soggetto di tutti i predicati, senza che nessuna condizione distingua tale rappresentazione da quella di un qualcosa in generale» (MA 542-543). I presupposti filosofici di questa affermazione sono stati già esaminati nel cap. 3. Qui ci si può limitare a sottolineare la simmetria argomentativa che conduce Kant, nella cornice della metafisica della natura corporea, a concedere la possibilità di un’estinzione dell’Io. Il grado della materia, infatti, è grado di riempimento di uno spazio: perciò è associato originariamente a un quantum di estensione. Di conseguenza se si costringe una quantità di materia in un pesante, oggetto di numerosi esperimenti di Lavoisier, costituì come è noto un passaggio essenziale verso la formazione di una scienza quantificata (cf. H. GUERLAC, Lavoisier – The Crucial Year, Ithaca 1961, p. xviii). Nell’Analitica Kant presenta un esempio di conservazione della sostanza tratto proprio da un contesto chimico: il peso del fumo si ottiene sottraendo il peso della cenere da quello del combustibile iniziale (KrV A 185/B 228). 21 Sul collegamento tra Meccanica e Dinamica a proposito di questa tesi del carattere estensivo della materia si veda E. WATKINS, Kant’s Justification of the Laws of Mechanics, in ID., Kant and the Sciences, pp. 136-159.

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volume minore il grado di densità aumenta proporzionalmente, rendendo impossibile la soppressione. Inoltre, come mostra la meccanica, ogni aggregato discreto di materia agisce e con questa sua azione mostra di possedere una grandezza costante nel tempo. Una produzione o scomparsa della materia violerebbe la legalità trascendentale dell’esperienza. Il grado dell’autocoscienza, invece, è inesteso e non manifesta con la sua azione nessuna realtà permanente: perciò può essere annullato senza violazione della legalità naturale22. Da un punto di vista fisico è interessante osservare che Kant, pur conoscendo bene le varie leggi di conservazione del movimento (cartesiane, leibniziane e newtoniane) non ne presenti nessuna in sede metafisica. È possibile che consideri tali leggi irriducibilmente vincolate a un’origine empirica. In ogni caso, va visto in ciò un altro esito importante della presa di distanza dalla metafisica di impostazione leibniziana. Materia e movimento, che nella metafisica leibniziana erano accomunati dall’essere fenomeni della forza e dunque della sostanza immateriale, ne risultano come due entità del tutto eterogenee: la materia corrisponde al sostrato ultimo della realtà e forma una totalità assoluta che si conserva; il movimento, benché «determinazione fondamentale» della materia e chiave per accedere scientificamente a tutte le proprietà fisiche, non è che un accidente intrinsecamente relativo. Questo iato tra metafisica kantiana e metafisica leibniziana avrà il suo rilievo per le diverse fortune dell’una e dell’altra nell’ambito di una filosofia naturale (empirica) in cui, a partire dalla metà dell’800, diverrà fondamentale il concetto di «energia»23. L’assenza di intuitività del concetto 22 Ci si potrebbe domandare, semmai, a quale condizione oggettiva corrisponda questo annullamento, che Kant non identifica esplicitamente con la cessazione della vita. 23 Helmholtz, introducendo la legge di conservazione dell’energia, parlerà ancora di «forza viva». Il termine «energia» venne impiegato come sinonimo di «forza viva» già da Thomas Young nel 1807 ma si diffuse solo a partire dalla seconda metà del secolo. Secondo HARMAN, Energy, Force and Matter, p. 67, esso venne impiegato nel senso corrente del principio di conservazione da W. Thomson a metà del XIX secolo. Sulla definizione della grandezza ‘lavoro’ e la sua espressione matematica (½ mv2) cf. KUHN, Energy Conservation as an Example of Simultaneous Discovery, in The Essential Tension, pp. 66-104, in part., pp. 83-88.

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di energia è un utile punto di vista sulle divergenze metodiche tra i due sistemi: per Leibniz la formula mv2, non potendo avere raffigurazione vettoriale, rappresenta una grandezza assoluta ed esprime adeguatamente lo scarto tra geometria e realtà metafisica; per Kant essa costituirebbe una semplice espressione algebrica, da ricondurre – nei suoi elementi – alle operazioni sintetiche del soggetto. L’atteggiamento di Kant rispetto alla quantità mv è in tal senso esemplare: laddove Hegel riconoscerà in questo prodotto la negazione delle astrazioni matematiche (m e v) e la coincidenza di idealità e realtà nella materia24, Kant si sforza di riportare quel prodotto a una composizione di elementi foronomici, a una «composizione dell’omogeneo» mediante cui gli stessi concetti meccanici possano poggiare in ultima analisi su costruzioni di congruenze geometriche, come capitali su una riserva aurea25. L’assenza di una legge metafisica non significa, comunque, che Kant non ammetta la conservazione del movimento a livello fisico. Almeno in un luogo considera implicitamente la conservazione di mv come un corollario della meccanica razionale (MA 550-551). Nelle riflessioni sul problema dell’inizio del movimento, inoltre, egli sostiene più volte la compatibilità tra movimento libero e conservazione del movimento, in base alla legge di azione e reazione: al movimento effettuato liberamente corrisponderà sempre un movimento uguale ed opposto26. Si trattava di un’altra questione centrale nel dibattito tra Leibniz e Clarke. Leibniz aveva biasimato l’imperfezione del Dio newtoniano, affermando la superiorità dell’armonia prestabilita. Clarke aveva ammesso la continua dissipazione della quantità di movimento nel mondo, e la conseguente necessità di ammettere un periodico intervento divino per aggiustare 24 HEGEL, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften (1830), § 261, in Gesammelte Werke, vol. 20, p. 253. 25 L’immagine dei capitali e della riserva aurea veniva usata da A. Eddington per caratterizzare il rapporto tra leggi statistiche e leggi dinamiche in fisica quantistica (New Pathways of Science, Cambridge 1935, p. 81). Cassirer lo citava con favore, trovandovi conferma della sua tesi coheniana di un necessario abbandono di ogni immagine nella fisica più recente (CASSIRER, Determinismus und Indeterminismus in der neueren Physik, Göteborg 1937, CGW 19, pp. 144-145). 26 Cf. per es. Refl. 42 (ca. 1773-5), KgS XIV, 189, 192, 195.

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le irregolarità27. Aveva poi ritorto l’accusa accusando Leibniz di fatalismo28. Kant, che nel criticismo ha ammesso la causalità libera, sottolinea dunque che nemmeno essa viola le leggi meccaniche della natura. La stessa trattazione kantiana della lex inertiae, benché svolta mediante argomenti puramente teoretici, andrà considerata sotto questo profilo: Kant vi difende l’autonomia della natura tenendo fuori dal discorso ogni considerazione del soprasensibile.

B) Seconda legge della meccanica: legge d’inerzia e vis inertiae La seconda legge della meccanica (Teorema 3) afferma che «ogni cambiamento della materia ha una causa esterna» ed equivale alla «legge dell’inerzia» formulata da Newton, secondo cui «ogni corpo persiste nel suo stato di quiete o di movimento, nella stessa direzione e con la stessa velocità, se non viene costretto da una causa esterna ad abbandonare questo stato» (MA 543). La validità di questa legge si basa sul fatto che «la materia non possiede né determinazioni né fondamenti di determinazione puramente interni», ma trae ogni sua proprietà da rapporti esterni nello spazio. Ogni cambiamento nella materia, dunque, deve essere attribuito non solo a una causa – come richiede la «metafisica generale» – bensì a una causa esterna. Si è già rilevato come, con questa legge, Kant dovrebbe introdurre la possibilità di distinguere tra due movimenti, quello uniforme e quello accelerato, che da un punto di vista foronomico sem27 Primo scritto di Leibniz, CLC 23; prima risposta di Clarke, § 4, CLC 30-31; quarta risposta di Clarke, § 38, CLC 114-115. 28 Seconda risposta di Clarke, § 1, CLC 47. La tesi della libertà incondizionata dell’anima, opposta al «fatalismo», uno dei punti centrali della polemica Leibniz-Clarke, era stata notoriamente ripresa da Voltaire per la sua propaganda antileibniziana. Poiché i cartesiani – seguiti poi da Leibniz − sostengono la conservazione della quantità di movimento, Voltaire li presenta come gli atei e li contrappone ai newtoniani, che sarebbero intrinsecamente teisti. VOLTAIRE, Eléments de la philosophie de Newton (1738), I. I; I. IX; Oeuvres complètes de Voltaire, vol. 15, pp. 196-197, 246-247. L’opera venne presto tradotta in tedesco Metaphysik des Newtons, oder Betrachtung der Meinungen des Herrn Leibnitz und des Newtons, Helmstadt 1741).

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brerebbero indifferenti. Tuttavia la dimostrazione della lex inertiae lascia intatta la questione: il concetto di «cambiamento», da cui si ricava l’esigenza di una causa, viene identificato fin dall’inizio con quello di una «sostituzione di un movimento con un altro movimento o con la quiete, e viceversa» (ivi). Questo passaggio, tutt’altro che analitico, avviene senza ulteriori qualificazioni, e al suo interno si scorge il rischio di una petitio principii29. La velocità, infatti, non è essa stessa un cambiamento? Duemila anni di fisica aristotelica sono trascorsi senza che sorgessero dubbi sulla necessità di addurre una causa del moto uniforme (ne risentiva ancora la nozione leibniziana di vis inertiae), né Kant, a giudicare da queste pagine, va oltre un’implicita adesione alla concezione cartesiana dell’inerzia, piuttosto che fornire una fondazione metafisica. In realtà il ragionamento qui supposto si trova nella Foronomia, dove Kant afferma che il moto rettilineo è equivalente alla quiete e come tale non comporta la rappresentazione di una causa motrice. Egli sembra considerare questa intercambiabilità di moto e quiete per contrasto con il caso del moto curvilineo che, con il cambiamento di direzione, rompe la simmetria del fenomeno30. Ma anche ammettendo l’indifferenza concettuale di moto rettilineo uniforme e quiete, per contrasto con il moto curvilineo, non è affatto immediata l’estensione di questo ragionamento al moto rettilineo accele29 Questa obiezione alla prova kantiana è stata avanzata da K. WESTPHAL, Kant’s Proof of the Law of Inertia, in Proceedings of the Eight International Kant Congress, Milwaukee 1995, vol. II, pp. 413-424; cf. ora ID., Kant’s Transcendental Proof of Realism, pp. 205-227. 30 È interessante osservare che Kant utilizza, a proposito dell’equivalenza tra moto rettilineo e quiete, lo stesso termine, ‘einerlei’, per affermare tanto che il fenomeno resta lo stesso, quanto che i concetti sono gli stessi (MA 488). In altre parole, uno stesso contenuto percettivo si può considerare sia come movimento sia come quiete. Nella Fenomenologia, Kant afferma dunque che il principio di relatività foronomico attua una trasformazione «del fenomeno in esperienza» (MA 555). Impiegando una terminologia kantiana, allora, si potrebbe dire che un giudizio percettivo esprime il fenomeno del movimento nella sua immediatezza soggettiva (‘vedo qualcosa muoversi’), e che un successivo giudizio di esperienza ne stabilisce la irriducibile duplicità, costituendo un fenomeno oggettivo. I concetti di quiete e movimento, in questo senso, possono dirsi identici, a condizione che li si intenda come riferiti al solo contenuto oggettivo del movimento, piuttosto che al dato percettivo.

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rato. La variazione di velocità, come tale, non modifica quella simmetria in base alla quale Kant dimostra l’indifferenza di movimento uniforme e quiete. Su questo punto, dunque, la prova kantiana è difettosa: resta valida per i moti rettilinei uniformi (supponendo che non esistano ragioni indipendenti di ammettere uno spazio assoluto), ma lascia aperto lo spazio per un’ulteriore relativizzazione del movimento31. Nella Nota Kant conclude comunque che l’inerzia della materia non deve essere intesa come un’attiva forza di resistere, come aveva fatto per esempio Kepler, ma come una «mancanza di vita» (MA 544). Su questa proprietà della materia, addirittura, si basa tutta la scienza della natura, mentre l’«ilozoismo» è la «morte di ogni filosofia naturale» (ibidem). Con questa nota e con quella al teorema precedente Kant sottolinea più esplicitamente di prima la radicale rottura tra la propria metafisica della natura e quella di Leibniz, mostrando come le stesse leggi della meccanica richiedano quali propri corollari l’esclusione di principio dal concetto della sostanza fisica delle proprietà essenziali di una sostanza spirituale, cioè la coscienza e la vita32. La trattazione kantiana intende perfezionare quella svolta da Newton sulla vis inertiae e sulla legge d’inerzia. Conviene riportare il testo della definizione newtoniana che Kant tiene presente per le sue considerazioni: Definizione 3. La forza inerente [vis insita] della materia è un pote31 Una prova simile a quella kantiana si trova in EULER, Mechanica, §§ 56-57 (Prop. 7). Anche Euler conclude che solo una causa esterna può modificare lo stato (§ 57), basando la dimostrazione sul principio di ragion sufficiente (se non esiste ragione per cui lo stato di un corpo deve cambiare, esso resta immutato). Al di là del principio di ragione stesso, che in Kant corrisponde al principio trascendentale di causalità, si pone qui il problema analogo della definizione di ‘stato’. Per Euler, poi, anche la quiete deve possedere una ragione, benché questa non sia colta dalla sua definizione «negativa» dell’inerzia (§ 74): la quiete in questione è però quella assoluta (EOO, s. II, 5, pp. 27-28, 31-32). 32 Una concezione metafisica dell’inerzia come semplice passività delle creature corporee era stata sostenuta da Leibniz nella Teodicea, però in riferimento alla metafisica delle perfezioni (I, § 30; GP VI, 119-121). Kant cerca ovviamente di basare la sua trattazione sugli elementi dell’intuizione sensibile.

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re di resistere per cui ogni corpo, per quanto ne è in sé capace, persevera nel suo stato di riposo o di movimento rettilineo uniforme. Questa forza è sempre proporzionale al corpo e non differisce in alcun modo dall’inerzia della massa, eccetto che nella maniera in cui viene concepita. In base all’inerzia della materia, ogni corpo viene tolto solo con difficoltà dal suo stato di riposo o di movimento. Di conseguenza, la forza inerente può essere chiamata anche con il significativo nome di forza d’inerzia. Inoltre, un corpo esercita questa forza soltanto durante un movimento del suo stato, causato da un’altra forza esercitata su di esso, e questo esercizio della forza è, a seconda del punto di vista, sia una resistenza sia un impeto: resistenza in quanto il corpo, per mantenere il suo stato, si oppone alla forza impressa, e impeto in quanto lo stesso corpo, cedendo solo con difficoltà alla forza di un ostacolo che opponga resistenza, si sforza di cambiare lo stato di quell’ostacolo. La resistenza si attribuisce comunemente ai corpi in quiete e l’impeto ai corpi in movimento; ma movimento e quiete, nel senso popolare del termine, sono distinti l’uno dall’altro solo secondo il punto di vista, e i corpi considerati comunemente come in riposo non sono sempre veramente in quiete33.

Il concetto di vis inertiae esprime, nella fisica newtoniana, la resistenza opposta dalla materia al suo spostamento o alla modificazione del suo movimento uniforme. La prima di queste qualità (l’inclinatio ad quietem già discussa dagli scolastici medievali) era stata assimilata da Kepler all’inerzia34. Newton nega che una tale resistenza dinamica abbia luogo nel caso del moto rettilineo uniforme, che egli − secondo la legge dell’inerzia − considera indifferente rispetto alla quiete35. Benché chiami «forza» questa proprietà Principia, p. 404. J. KEPLER, Epitome astronomiae copernicanae (1618), Opera Omnia, Frankfurt a.M. 1858-1871, vol. 6, pp. 174-175: «Alla materia infatti [...] è propria l’inerzia, o ripugnanza al moto, la quale è tanto più forte, quanto maggiore è la quantità [copia] di materia confinata in un dato volume». 35 Sull’influenza del concetto kepleriano di vis inertiae nella fisica di Newton si vedano JAMMER, Concepts of Mass, p. 70, e I.B. COHEN, Newton’s Concepts of Force and Mass, in COHEN-SMITH, The Cambridge Companion to Newton, p. 61. In una copia personale della seconda edizione dei Principia Newton aggiungeva il seguente commento, mai pubblicato, alla sua discussione della vis inertiae: «Io non intendo la forza d’i33 34

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dei corpi, dunque, Newton non la considera omogenea alle forze impresse di cui si occupa la meccanica. Si tratta piuttosto di un concetto che esprime la resistenza dei corpi al moto impresso e la sua proporzionalità a una grandezza costante. D’altra parte, quando afferma che «un corpo persevera in ogni nuovo stato soltanto per la forza d’inerzia»36, pur senza tornare alla teoria aristotelica del moto, Newton sottolinea che la legge di inerzia ha un fondamento nella vis inertiae come fattore dinamico. Newton dunque fa dipendere dalla vis inertiae sia il moto inerziale sia il coefficiente di resistenza alle forze impresse (la quantità di moto). Per comprendere l’insoddisfazione kantiana rispetto a questa analisi è utile mostrare la differenza del concetto newtoniano da quello di «massa inerziale», che lo ha rimpiazzato nella successiva sistemazione della fisica newtoniana. Quest’ultimo, rispetto all’originale, ha perso progressivamente ogni connotazione dinamica e viene definito mediante la proporzione matematica della seconda legge di Newton: non è che un parametro costante che misura la resistenza meccanica dei corpi; la questione di una comprensione del suo fondamento, analogamente al caso della gravità, resta a margine della meccanica razionale (almeno fino a quando Einstein non attirerà nuovamente l’attenzione su di essa)37. Il caso di Euler, che Kant conosce bene, è esemplare di questa situazione di passaggio. Egli parla ancora di una «facoltà di perseverare», ma rinuncia a stabilire che essa abbia un fondamento dinamico; fatta questa precisazione, la identifica senz’altro con la massa inerziale38. In genere, ai nerzia di Kepler, mediante cui i corpi tendono alla quiete, ma una forza di rimanere nello stesso stato di quiete o di movimento». Come si vede il problema della definizione di stato di movimento si pone già nel pensiero di Newton. 36 NEWTON, Principia, Definizione IV, p. 41. 37 Si vedano le dense pagine di JAMMER, Concepts of Mass, pp. 71-72. 38 Euler si sforza di trovare una denominazione neutra, o «negativa», optando per «facoltà di perseverare», in contrasto con la kepleriana facoltà di resistere, in quanto «non si conosce ancora in che modo i corpi resistano alle forze che li sollecitano» (EULER, Mechanica, § 74, Def. 9, EOO, s. II, 5, pp. 31-32). Nelle Lettres, lett. 74, conservando la denominazione usuale, chiarisce più diffusamente che l’inerzia coincide con la massa: è il concetto poi noto come massa inerziale (EOO, s. III, 11, pp. 160-162). Sul concetto euleriano è utile la breve sintesi di JAMMER, Concepts of Mass in Classical and Modern Physics, pp. 87-89, che ricorda anche l’enorme diffusione, ancora nel XIX

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tempi di Kant, la denominazione di vis inertiae è contestata da tutti i fisici newtoniani39. Tornando a Newton, la vis inertiae resta un concetto ben distinto da quello di quantità di materia e definisce appunto la capacità di resistenza di quest’ultima rispetto agli influssi dinamici: il rapporto tra i due concetti, a giudicare dalle parole di Newton, pare essere un quello della proporzionalità40. Si danno dunque due aspetti del concetto newtoniano di vis inertiae, che corrispondono a diversi collegamenti concettuali. In quanto esprime la proporzionalità dell’azione di resistenza alla massa, l’inerzia può essere stabilita mediante la legge di azione e reazione: è questa la connessione sistematica lungo la quale la meccanica razionale successiva definirà la massa inerziale. In quanto coincide con una proprietà di esercitare una resistenza al cambiamento di moto essa possiede un fondamento nella stessa materia41. Attraverso il legame istituito da Newton, nella Definizione 1, tra quantità di materia e densità, la vis inertiae si lega a quest’ultima grandezza. Implicitamente, dunque, la densità newtoniana contiene il fondamento fisico dell’inerzia come resistenza: si prefigura così l’itinerario seguito dal Kant lettore di Newton, che distingue il fondamento dinamico dal concetto meccanico. Anche da questo punto di vista si vede come

secolo, di prove della lex inertiae basate sul principio di ragione. Sui rapporti tra Kant e Euler in merito a questa nozione si veda P.M. HARMAN, Force and Inertia: Euler and Kant’s Metaphysical Foundations of Natural Science, in W.R. SHEA (ed. by), Nature Mathematized, pp. 229-249. 39 La stessa critica della vis inertiae si trova per es. in ERXLEBEN, Anfangsgründe, § 56. Sulla trattazione kantiana nel contesto dell’epoca v. OKRUHLIK, Kant on the Foundations of Science, in W.R. SHEA (ed.), Nature Mathematized, in part. p. 254; POLLOK, MA Kommentar, pp. 454ss. 40 La dipendenza, in Newton, della vis inertiae dalla quantitas materiae, e di quest’ultima dalla densità, è ben chiarita sempre in JAMMER, Concepts of Mass, pp. 64-74 41 Cf. NEWTON, Opticks, p. 397, dove il nesso caratteristico, che poi apparirà confusione, tra legge di inerzia e forza di inerzia è particolarmente evidente, e anzi viene coinvolta nell’intreccio concettuale anche la terza legge del moto: «La vis inertiae è un principio passivo per il quale i corpi persistono nel loro movimento o quiete [lex inertiae di Euler-Kant], ricevono il movimento in proporzione alla forza che lo imprime [cf. F=ma], e resistono tanto quanto ad essi è opposta resistenza [cf. legge di azione e reazione]».

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Kant, pur tenendo conto dei fisici più recenti, si confronta direttamente con i concetti originali di Newton: laddove Euler ne riprende l’impostazione fisico-matematica, Kant ne sviluppa le aperture metafisiche. Il duplice esito del riesame kantiano consiste nell’indagine sul fondamento dinamico della massa, in Dinamica, e nella considerazione dell’inerzia come mera indifferenza tra quiete e moto rettilineo uniforme42. Quest’ultimo risultato è stato preparato già con il lavoro precritico sulla relatività del moto. Nel Neuer Lehrbegriff der Bewegung und Ruhe (1758) Kant individua il principale difetto del concetto di vis inertiae nel fatto che tale forza, nel caso degli urti, comincerebbe ad agire solo successivamente al contatto. Considerando però la relatività del movimento e della quiete conclude che «in ogni urto si trova un movimento di un corpo verso un altro, mosso con ugual grado contro il primo; il che spiega con chiarezza e rende comprensibile la legge di azione reazione, senza aver bisogno di inventare una particolare specie di forza naturale» (KgS II, 19-20). Così facendo Kant, come molti fisici dell’epoca, elimina un concetto superfluo e riduce il numero di concetti elementari, conformemente a quello che trent’anni dopo definirà «il compito di ogni filosofia naturale». Tenendo presente il modello newtoniano si vede come Kant giunga a questo risultato attribuendo un valore diverso alla relatività del moto, e cioè trasformandola da particolare e contingente a universale e necessaria. Non a caso, nello stesso testo del ’58, Kant respinge già la nozione newtoniana di moto assoluto, esposta nello Scolio alle Definizioni, criticando l’argomento addotto da Newton a favore dello spazio assoluto. Un simile spazio, scrive Kant, è senza dubbio immaginabile, ma non può essere minimamente impiegato per considerare i moti dei corpi: «giacché come ne distingue42 Nella trattazione kantiana questa distinzione di aspetti sembra corrispondere a un’interpretazione della seconda legge del moto nella sua forma matematica. Se F∝mdv/dt, pare che la legge di inerzia esprima il fattore cinematico della proporzionalità della forza al cambiamento di velocità – per cui il moto rettilineo è dinamicamente non diverso dalla quiete – e la vis inertiae alluda alla proporzionalità a m, dunque alla relazione tra forza e quantità di materia.

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rei le parti e i luoghi diversi, non occupati da nulla di corporeo?» (KgS II, 17). L’argomentazione kantiana, dunque, pare guidata da quella relatività intrinseca del movimento che verrà stabilita nella Foronomia. Tuttavia, nella Meccanica dell’86, il ripensamento del concetto di inerzia perde la sua fondazione puramente foronomica, in seguito a una sistematica scomposizione del concetto newtoniano di vis inertiae nei suoi diversi momenti categoriali. La relatività dei moti è il fondamento dell’inerzia come indifferenza di quiete e moto; ma, piuttosto che di un concetto meccanico, si tratta dell’applicazione meccanica di un concetto di relatività puramente foronomico, che in seguito sarà designata come sistema di riferimento inerziale. Il nuovo svolgimento troverà compimento con la costruzione della comunicazione del movimento (Teorema 4). Nella Nota 1 a questo teorema (MA 549), infatti, Kant afferma che la sua costruzione permette di evitare la «forza particolare» d’inerzia, introdotta per la prima volta da Kepler. Per quanto riguarda l’aspetto dinamico della resistenza meccanica, esso non corrisponde più a una particolare forza di inerzia: il suo fondamento sono le stesse forze fondamentali della Dinamica. Di nuovo, Kant sviluppa in modo originale il concetto di Newton. Benché quest’ultimo parlasse di una vis inertiae, avrebbe ritenuto inaccettabile ammettere un vero e proprio fondamento dinamico di questa proprietà. Uno dei principi fondamentali della sua fisica, infatti, asserisce che le proprietà universali della materia non sono soggette a «intensione e remissione», cioè a variazione di grado. Proprio in base a questo principio, Newton tracciava una distinzione netta tra gravità e inerzia: «Io non affermo che la gravità sia essenziale ai corpi: con la loro vis insita non intendo altro che la loro inerzia. Questa è immutabile» e come tale viene definita «essenziale» alla materia43. Kant, al contrario, non soltanto può considerare essenziale una proprietà dotata di grado, ma considera ogni proprietà della materia come necessariamente dotata di grado. Perciò l’“inerzia”, che si risolve nella massa, viene fondata in ultima analisi nelle forze fondamentali. Il punto di congiunzio43

Principia, Regulae philosophandi, Regola III, p. 555.

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ne tra resistenza dinamica e concetto meccanico di massa è dato dal concetto di densità in quanto prodotto fenomenico del conflitto delle forze e insieme fattore intensivo della massa. Questo riferimento alle forze fondamentali della Dinamica non contraddice la tesi kantiana di aver bandito ogni sfumatura vitalistica dalla materia: il ricorso in stile leibniziano al fondamento dinamico dell’impenetrabilità44 , come abbiamo visto, non toglie che le forze fondamentali abbiano perduto ogni carattere di attività nel senso leibniziano del termine (se ne troverà conferma con lo studio dell’azione reciproca). Piuttosto, con questo rimando, i limiti del dinamismo puro si riflettono sulla meccanica, e in tale misura resta problematico che la gerarchia logica dei concetti possa corrispondere a un ordine deduttivo. Se infatti si ammette che il grado specifico della densità non possa essere dedotto da una legge delle forze, non resta che riconoscere che esso si debba determinare solo indirettamente, mediante la misura della quantità di materia di un corpo, la quale a sua volta avviene in base all’azione e reazione della massa. In questo caso si avrà un esito analogo a quello newtoniano: la massa rimarrebbe la grandezza fondamentale della fisica; le forze fondamentali troverebbero in essa il fondamento di determinazione del loro grado. Di fronte al concetto puramente negativo e “relativistico” di inerzia e alla sua dipendenza logica dal concetto di forza e di azione reciproca, ci si può infine domandare: in che senso Kant, nella Prefazione all’opera, ha potuto includere «l’inerzia» tra le proprietà empiriche della materia che stanno alla base della fisica pura? Nei casi di movimento, estensione e impenetrabilità è stato riscontrato un passaggio da un concetto empirico, ricavato dalla percezione, ad una sua successiva elaborazione scientifica secondo principi a priori. Anche nel caso dell’inerzia si può avanzare una ricostruzione analoga, cercando di colmare la lacuna che anche in questo caso Kant offre al lettore. Certamente, l’assenza di vita non può es44 Alla lettera, la rilettura kantiana del fattore dinamico dell’inerzia come densità si trova in nuce già nel giovane Leibniz: «La materia prima è la stessa massa, nella quale non si trova altro che estensione e antitipia o impenetrabilità» (lettera a Jacob Thomasius, aprile 1669, GP IV, 165).

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sere un oggetto di percezione come tale. Piuttosto, la resistenza offerta dai corpi al movimento, quale viene sperimentata nello stesso corpo umano, può costituire il punto di partenza empirico di un’indagine, guidata dalle categorie di relazione, sulla capacità della materia di esercitare una forza mediante il proprio movimento (cap. 6, nota 17). Considerando questa situazione nei termini delle proprietà precedentemente introdotte dalla metafisica, si ottiene come risultato che l’inerzia non è una forza speciale, ma un fattore dell’azione meccanica che tutte le parti della materia esercitano reciprocamente in quanto dotate di forze motrici originarie. Perciò Kant afferma che coloro che hanno ammesso una speciale forza di inerzia «in fondo, la ricavarono dall’esperienza» (MA 549). Come nel caso del movimento e dell’impenetrabilità, anche la “resistenza” meccanica testimoniata dalla percezione diviene, dal punto di vista oggettivo dell’esperienza, una proprietà essenzialmente relativa.

C) Terza legge della meccanica: azione e reazione, comunicazione del movimento. Conclusioni sulla determinazione a priori dell’oggetto fisico La terza legge della meccanica afferma che «in ogni comunicazione di movimento l’azione e la reazione sono sempre uguali tra di loro» (Teorema 4). Kant afferma di aver voluto dimostrare a priori la legge di azione e reazione che Newton ricavò in base a fondamenti empirici (MA 549)45. Un esame della dimostrazione kantiana mostra che essa si basa effettivamente su diversi presupposti a priori (MA 544-545): (Si deve prendere dalla metafisica generale la proposizione secondo cui ogni azione esterna che accade nel mondo è un’a z i o n e r e 45 Per es. Newton dimostra che se le parti di una metà della Terra non agissero su quelle dell’altra metà, il pianeta di muoverebbe spontaneamente in una direzione perpendicolare all’asse che separa le due metà (Principia, Leggi del moto, Scol., pp. 6970). In generale, la legge di azione e reazione viene provata mostrando come la sua violazione comporterebbe un’infrazione della legge d’inerzia che i fenomeni non autorizzano.

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c i p r o c a. Qui, per restare entro in confini della Meccanica, si mostra soltanto che questa azione reciproca (actio mutua) è nello stesso tempo una r e a z i o n e (reactio); tuttavia, io non posso lasciare del tutto da parte la suddetta legge metafisica della reciprocità, senza nuocere a una perfetta comprensione dell’argomento). [1] Tutti i rapporti d’a t t i v i t à della materia n e l l o s p a z i o e tutti i cambiamenti, in quanto possono essere c a u s e di determinati effetti, si devono sempre rappresentare come reciproci; [2] cioè, dato che ogni cambiamento della materia è un movimento, nessun movimento di un corpo si può pensare relativo ad un corpo a s s o l u t a m e n t e i n q u i e t e , che debba esser messo in movimento dal precedente. Piuttosto, quest’ultimo si deve rappresentare come r e l a t i v a m e n t e i n q u i e t e rispetto allo spazio cui lo si riferisce, ma come mosso nello spazio assoluto insieme a questo spazio di riferimento, [3] nella direzione opposta e con la stessa quantità di movimento possedute dal corpo che gli muove contro nello spazio assoluto stesso46. [4] Infatti, il cambiamento del rapporto tra i due corpi (cioè il movimento) è del tutto reciproco: quanto l’uno si avvicina ad ogni parte dell’altro, tanto si avvicina l’altro ad ogni parte del primo; e dato che qui non si tratta dello spazio empirico che circonda i due corpi, ma solo della linea che li congiunge (poiché questi corpi si considerano in relazione reciproca soltanto per quanto riguarda l’influsso che il movimento dell’uno può avere sul cambiamento di stato dell’altro, astraendo da ogni relazione con lo spazio empirico), il loro movimento si può considerare determinabile soltanto rispetto allo spazio assoluto, nel quale ognuno dei due corpi deve dare uno stesso contributo a quel movimento che nello spazio relativo viene attribuito a uno solo di loro, non essendovi nessuna ragione di attribuirne di più all’uno o all’altro.

La dimostrazione si basa, in ultima analisi, su due premesse: il principio trascendentale di azione reciproca e la simmetria delle relazioni spaziali. Si tratta effettivamente di due premesse a priori, che però non risultano ben distinte nel testo. Per valutare la concatenazione logica della dimostrazione sarà dunque opportuno 46 Quello che qui Kant chiama spazio assoluto va ovviamente inteso, in riferimento alla Foronomia, come lo spazio che in un dato caso si prende come assoluto, ma che a sua volta potrebbe essere considerato relativo. Cf. Fenomenologia, Teorema 3 (§ 10.1).

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svolgere alcune precisazioni47. Seguiamo il ragionamento secondo i passaggi numerati in grassetto. La proposizione 1 ribadisce il contenuto della terza «analogia dell’esperienza»48. La parte 2 del ragionamento, insomma, non è che una specificazione (o applicazione) al caso della materia del principio generale ribadito nella parte 1: considerando ciò che nella materia è un cambiamento, cioè il movimento (evidentemente accelerato), si deve concludere che un corpo messo in movimento da un altro non può essere considerato inizialmente in quiete, ma, dovendo anch’esso agire, si dovrà considerare anch’esso in movimento; si tratta del caso del corpo urtato, che abbiamo già incontrato trattando dell’inerzia. In 3 Kant determina questo movimento reciproco, affermando che esso deve essere tale da produrre, nel corpo che reagisce, una quantità di movimento pari a quella del corpo considerato agente. Per comprendere questo passaggio bisogna precisare prima di tutto che in esso viene fatto uso di un significato di movimento diverso da quello della proposizione precedente: il movimento, in quanto opposto alla quiete, era un concetto puramente foronomico; il movimento re47 La reciprocità, o simmetria, delle relazioni spaziali non viene esplicitamente distinta da Kant, e in seguito si ha l’impressione che egli faccia dipendere tutta la dimostrazione da una sola premessa (MA 548; Corollario 2): «Questa, dunque, è la l e g g e m e c c a n i c a dell’uguaglianza di azione e reazione; essa si basa sul fatto che nessuna c o m u n i c a z i o n e del movimento ha luogo senza che si presupponga una r e c i p r o c i t à dei movimenti stessi e che dunque nessun corpo ne urta un altro che sia immobile r i s p e t t o a d e s s o, mentre, se il corpo che viene colpito è immobile rispetto allo spazio, l’urto avviene come se esso si muovesse i n s i e m e a t a l e s p a z i o nella stessa misura del primo ma in direzione opposta, di modo che il suo movimento, insieme a quello che in tal caso spetta al contributo relativo del primo corpo, produca la stessa quantità di movimento che avremmo attribuito a quest’ultimo nello spazio assoluto. Infatti nessun m o v i m e n t o che debba essere c a u s a d e l m o v i m e n t o di un altro corpo può essere a s s o l u t o: ma, posto che sia relativo rispetto a quest’ultimo, non c’è nessuna relazione nello spazio che non ne comporti una uguale e reciproca». Reciprocità dell’azione meccanica e reciprocità delle relazioni spaziali vengono qui accostate e forse confuse. Qui di seguito cerco di ricostruire il ragionamento in modo da tener distinte queste due premesse. 48 Cf. KrV A 211/B 256ss. Come si è detto il riferimento alla spazialità dell’azione reciproca si troverà solo nell’enunciato della seconda edizione, a conferma che questa modifica dipende dai risultati dei Principi metafisici: critica della «metafisica della natura pensante» e spazialità dell’esibizione (cf. cap. 3).

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ciproco cui si riferisce la conclusione quantitativa del ragionamento è il movimento in senso meccanico, ovvero la quantità di movimento mv. Ora, nel conclusivo passaggio 4 Kant sembra far dipendere la reciprocità della quantità di movimento dalla reciprocità puramente foronomica dei movimenti: le quattro volte che vi viene menzionato il movimento – qualificato come «cambiamento di rapporto» e soprattutto come concetto «relativo allo spazio» – si tratta del concetto foronomico. La diversità delle masse, d’altra parte, non determina alcun cambiamento nella rappresentazione «rispetto allo spazio». Tuttavia, si consideri la diversità tra i due generi di relatività in questione: la relatività foronomica, se si trattasse di essa, poneva la possibilità di considerare equivalenti e intercambiabili due movimenti (cioè due velocità uniformi) uguali ed opposti; il risultato del teorema meccanico è diverso: si ha una distribuzione dei movimenti. Anche nel caso in cui si tratti di due masse uguali il risultato non è – come sarebbe dal punto di vista foronomico − di considerare tutto il movimento proprio ora della prima massa, ora dell’altra (alternativamente), bensì esso va suddiviso in parti uguali tra i due corpi. Nella Fenomenologia Kant introdurrà una distinzione tra le forme di disgiunzione che determinano i giudizi di relatività foronomico e meccanico, chiamando rispettivamente i primi giudizi «alternativi», i secondi «distributivi»49. In conclusione non si capisce come la reciprocità foronomi49 MA 559-560. Cf. già la nota a piè di pagina posta al termine della dimostrazione (MA 548): «Nella Foronomia, poiché il movimento di un corpo veniva considerato solo rispetto allo spazio, cioè come cambiamento della relazione r i s p e t t o a l l o s t e s s o s p a z i o, io potevo indifferentemente attribuirlo al corpo nello spazio o, viceversa, attribuirne uno uguale ed opposto allo spazio relativo; in entrambi i casi si otteneva esattamente lo stesso fenomeno. La quantità di movimento dello spazio era soltanto la velocità ed anche quella del corpo, di conseguenza, non era altro che la sua velocità (perciò si poteva considerare il corpo semplicemente come un punto in movimento). Nella Meccanica, invece, dato che un corpo viene considerato in movimento verso un altro corpo, rispetto al quale, mediante questo movimento, sta in un r a p p o r t o c a u s a l e – cioè lo muove, venendo in reciprocità d’azione con esso, o mediante la forza dell’impenetrabilità, con il suo avvicinamento, o mediante la forza d’attrazione, con il suo allontanamento –, non è più indifferente attribuire il movimento opposto a uno di questi corpi o allo spazio. Infatti, qui entra in gioco un diverso concetto della quantità di movimento: non si tratta più di quella che viene pensata solo in

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ca dei movimenti possa condurre di per sé alla legge meccanica di azione e reazione, per cui m1v1 = – m2v2. Perciò il principio di relatività qui richiamato non può essere quello foronomico, e bisognerà piuttosto indagare quale sia il fondamento del corrispondente principio meccanico, che in queste pagine non viene trattato sotto un titolo proprio. Per distinguere la premessa qui implicita converrà rifarsi alla successiva costruzione. Come nel Teorema 1, infatti, Kant non muove senz’altro da una definizione di azione come mv, nel qual caso la legge di azione e reazione non sarebbe stata che una semplice applicazione del principio trascendentale, ottenuta sostituendo all’azione in generale l’espressione matematica dell’azione fisica. Viceversa – come si è visto – la stima dell’azione ha rimandato alla rappresentazione della comunicazione del movimento. Ci si aspetta, ora, che la costruzione della comunicazione del movimento fornisca, insieme all’esibizione indiretta della massa, anche la ragione della reciprocità dell’azione. Questa ragione, come si può mostrare, risiede in una proprietà dell’intuizione pura: la simmetria delle relazioni spaziali. Per chiarire la questione occorre prima esaminare separatamente le importanti conseguenze immediate dell’applicazione fisica della legge dinamica dell’azione reciproca. Nell’intuizione esterna, ha esordito Kant, l’azione reciproca consiste in una azione e reazione. (a) Senza porre a fondamento il principio dell’azione reciproca, non vi sarebbe affatto la rappresentazione di una rapporto allo spazio e che consiste nella semplice velocità, ma di quella in cui si deve prendere in considerazione anche la quantità di sostanza (in quanto causa motrice); in questo caso, dunque, non è più indifferente, ma n e c e s s a r i o ammettere che entrambi i corpi siano in moto e dotati della stessa quantità di movimento in direzioni opposte; se poi uno dei due è in quiete relativa rispetto allo spazio, è necessario che il movimento richiesto venga attribuito ad esso e i n s i e m e a n c h e a l l o s p a z i o [...]. Ora, dato che entrambe le forze che agiscono sono sempre reciprocamente uguali ed opposte, nessun corpo può agire su un altro per mezzo di esse, se non nella misura in cui l’altro reagisce con la stessa quantità di movimento. Per cui nessun corpo, mediante il proprio movimento, ne può mettere in movimento un altro che sia d e l t u t t o i n q u i e t e, ma quest’ultimo si deve muovere in direzione opposta (insieme allo spazio) con la stessa quantità di movimento che deve ricevere dal primo e nella stessa direzione».

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azione reciproca, ma solo di una coesistenza geometrica di punti o volumi (communio spatii) (KrV A 213/B 260). In questo caso la causalità sarebbe in teoria analizzabile in termini puramente geometrici: è il caso della fisica cartesiana (e leibniziana). La terza analogia dell’esperienza, rovesciando alla radice questa rappresentazione, conclude che le sostanze non potrebbero essere considerate simultanee, e dunque tali da comporre un mondo, se non vi fosse tra esse un’azione reciproca originaria. Ora (b) dalla trattazione a priori della quantità di movimento si ricava che questa reciprocità dell’azione investe la stessa definizione dell’azione (o effetto: Wirkung). Sottolineare questo punto permette di capire meglio, da un punto di vista meccanico, la necessità intrinseca dell’azione reciproca tra le sostanze. Abbiamo detto (pp. 245-248) che nella seconda analogia dell’esperienza, il «principio della successione temporale secondo la legge di causalità», la connessione causale poteva ancora pensarsi riferita a stati di una stessa sostanza. L’esemplificazione spaziale elimina questa possibilità, in quanto la distinzione di condizione e condizionato vi assume necessariamente la forma dell’esteriorità reciproca. Per definire un effetto in termini meccanici occorre dunque riferirsi al concorso di due soggetti fisici e considerare la loro azione reciproca. Da un punto di vista meccanico, l’azione fisica di una sostanza non è più pensabile isolatamente, come avveniva con la forza della percossa della meccanica del XVII secolo. Esiste dunque una sola azione, che esprime l’influsso reciproco tra le sostanze (come esprime già il termine «Gemeinschaft»): «l’azione viene costruita come comune ai due corpi» (MA 546)50. Si aggiunga (c) che la stessa grandezza m non ha un significato geometrico, e non può riferirsi a nulla di esistente se non mediante il fenomeno del moto dei corpi in relazione reciproca. Senza con50 Da questa comunanza dell’azione, nella Nota 1 (MA 549-550), viene ricavata la critica dei «trasfusionisti», sostenitori di un «passaggio graduale» del movimento da un corpo all’altro, che viola il principio – caro a Leibniz – secondo cui ‘accidentia non migrant e substantiis in substantias’. Dalla nota a piè di pagina sembra che Kant stia pensando a Descartes o ai cartesiani in generale. Cf. LEIBNIZ, Nouveaux essais, II, XXIII, § 28 (A VI, 6, p. 224), dove Leibniz presenta proprio il cartesiano Rohault come un “trasfusionista”. Cf. POLLOK, MA Kommentar, pp. 449-450.

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siderarla nella sua dimensione relativa e spazio-temporale, la stessa massa, insieme alla sua azione, sarebbe inconcepibile. Il Corollario 1 della terza legge, ottenuto considerando l’estensione universale della gravitazione, è proprio la necessaria mobilità di tutti i corpi dell’universo: «ogni corpo, per quanto grande sia la sua massa, deve poter essere mosso dall’urto con un altro corpo, per quanto piccole siano la massa o la velocità di quest’ultimo» (MA 548). Si tratta di un noto corollario della fisica newtoniana, che Kant può affermare a priori grazie al fatto di aver ricavato a priori la stessa legge meccanica da cui esso discende. Questo risultato si esprime nel Teorema 3 della Fenomenologia, dove Kant definisce il movimento meccanico come «movimento necessario». Ora, tenendo presente queste premesse, consideriamo l’origine e l’efficacia del principio di simmetria. La sua presenza è segnalata, nel testo della dimostrazione, laddove Kant scrive che il movimento dei corpi interagenti «può essere ritenuto determinabile soltanto rispetto allo spazio assoluto, nel quale ognuno dei corpi deve dare uno stesso contributo a quel movimento che nello spazio relativo viene attribuito a uno solo di loro, non essendovi nessuna ragione di attribuirne di più all’uno o all’altro» (MA 545, cors. mio)51. Le parole messe in evidenza suggeriscono che il principio che fin qui ho chiamato ‘di simmetria’ si può considerare un’applicazione del principio di ragion sufficiente. L’ipotesi non appare peregrina, se si considera che questo principio era comunemente impiegato, all’epoca, per dimostrare la legge archimedea della leva, cioè un principio fisico in cui si ha a che fare con la simmetria di una condizione fisica – l’uguaglianza dei pesi situati allo stesso modo sulla bilancia rispetto al centro e agli assi – che corrisponde all’equilibrio. Lo stesso Leibniz, interpretando in questo modo la dimostrazione di Archimede, afferma che il principio di ragione era stato necessario a quest’ultimo per «passare dalla matematica alla fisica»52. Tuttavia questo modo di esprimersi, in Kant, non si può 51 Gli stessi concetti e le stesse conseguenze si trovano già nel Neuer Lehrbegriff, KgS II, 18-19. 52 Per es. nel secondo scritto a Clarke, § 1 (CLC 36). Il riferimento è al trattato archimedeo Sull’equilibrio delle figure piane, I, 1. E. CASTELLANI, Simmetria e natura, Ro-

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considerare come il rimando a un principio metafisico distinto. Sembra piuttosto che Kant, sviluppando la presente argomentazione, ritenesse che una proprietà dell’intuizione spaziale potesse giustificare (analiticamente) ciò che nella metafisica leibniziana doveva discendere da un principio ad hoc. Già in un abbozzo di dimostrazione della legge di azione e reazione, che si legge in un resoconto di lezioni degli anni ’60, Kant pone chiaramente il fondamento della dimostrazione nel fatto che nello spazio «ogni proprietà è reciproca»53. Vent’anni dopo, nei Principi metafisici, Kant non aggiunge nulla alla delucidazione del concetto in esame: «non c’è nessuna relazione nello spazio che non ne comporti una uguale e reciproca». Maggiori dettagli si trovano in una lettera che Kant scrive nel 1791, sollecitato dal medico Christian Hellwag a riesporre il fondamento della sua prova54. Kant esordisce ribadendo che le forze sono uguali e contrarie perché «i rapporti di cui lo spazio rende possibile la produzione non sono unilaterali ma sempre reciproci». Ne ricava nuovamente «moti reciproci, uguali e contrari», senza dirimere fin qui l’ambiguità del termine movimento. Aggiunge un esempio di riformulazione un po’ oscuro, ma rivelatore: Non posso pensare di tracciare alcuna linea dal corpo A ad ogni punto del corpo B senza tracciare anche (viceversa) altrettante linee uguali dal corpo B a A55 e senza pensare come reciproco ed uguale il cambiamento di questo rapporto di un corpo (B) nei confronti di ma/Bari 2000, p. 80, rilevando il legame tra principi di simmetria e principio di ragion sufficiente, commenta: «L’argomento che sta alla base delle relazioni di simmetria, cioè l’argomento per cui uno stato di simmetria non si altera senza una ragione, può essere infatti inteso nel seguente modo: diversamente da quanto succede per la simmetria, un’asimmetria non può nascere dal nulla ma deve avere una ragion d’essere. Il che, in assenza di ragioni contrarie, costituisce sicuramente una forte motivazione per assumere che la natura presenti, in origine, delle simmetrie piuttosto che delle asimmetrie». 53 Metaphysik Herder, KgS XXVIII, 161. Una prima versione del ragionamento kantiano dei Principi metafisici si trova nella Refl. 59 (ca. 1770-1772), KgS XIV, 465ss.. 54 Lettera a Ch.F. Hellwag datata 3 gennaio 1791, KgS XI, 244-247. 55 Il testo ha «dal corpo A a B», che non fornisce alcun senso plausibile.

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un altro (A) per opera dell’urto di quest’ultimo. Dunque non vi è qui bisogno di una causa positiva particolare della reazione del corpo su cui è prodotta l’azione [...]. L’unica ragione sufficiente di queste leggi si trova nello spazio e nella proprietà in virtù della quale in esso i rapporti sono di reciprocità e di simultaneità.

Da questo passo si ricava che, come si è ipotizzato, il principio di simmetria nella distribuzione reciproca dei movimenti dipende dalle proprietà dello spazio, piuttosto che da un distinto principio di ragione. Il riferimento a «linee» prolungate da un corpo all’altro, nell’evocare la costruzione della quantità di movimento, suggerisce che il ragionamento – a differenza di quello del teorema foronomico – proceda su un piano puramente intuitivo. Ma questo fondamento resta ancora una volta implicito e non privo di ambiguità. Per illustrare il contenuto del principio in questione, o comunque tentarne una formulazione coerente con le premesse kantiane, è opportuno considerare un particolare esempio di comunicazione di movimento, quello di due corpi di massa uguale che si muovono reciprocamente. In questo caso, essendo le masse uguali, si ottiene un modo di comprendere come Kant possa giustificare l’impiego di un principio geometrico alla base di una teorema meccanico. Basta lasciarsi guidare dalla costruzione «apparentemente foronomica» della quantità di movimento illustrata nel Teorema 1 e si consideri il movimento composto di numerosi movimenti di parti materiali che agiscono in massa. A questa rappresentazione si applichi in primo luogo la legge trascendentale di reciprocità: i due corpi agiscono entrambi, e ciò impedisce di considerare la velocità relativa – che nel fenomeno può essere attribuita a uno solo dei due considerando l’altro in quiete – come oggettivamente posseduta da uno solo dei due corpi. Ora, se ognuno dei due corpi deve agire, la velocità andrà ripartita tra i due. Come dovrà avvenire questa ripartizione? Laddove la meccanica matematica si appella alla legge di azione e reazione, la meccanica metafisica, che questa legge deve provare, invoca una proprietà geometrica. Per comprenderne meglio l’evidenza, si ricordi il fatto che l’azione si stima con mv, considerando la velocità uniforme, e che ciò permette di considerare le velocità come gli spazi e fornire dunque una rap630

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presentazione spaziale di questa ripartizione. A questo punto interviene il principio di simmetria: la velocità deve essere divisa in due e così assegnata ai due corpi in versi opposti. Sarebbe infatti possibile pensare infinite altre ripartizioni accordabili con il fenomeno, ma esse introdurrebbero delle asimmetrie prive di giustificazione: si tratta dunque di dividere in due un semplice segmento, indipendentemente da qualsiasi presupposto dinamico; la distribuzione, allora, viene concepita come la divisione di un quantum di movimento/velocità. Una volta concesso questo caso, si può estendere l’analisi a un numero indefinito di parti dotate di movimento. La velocità V del fenomeno dovrà essere considerata, in base alla legge di azione reciproca, come somma di velocità non nulle delle singole parti: V= v1+v2+...+vn (vx≠0; x=1, 2, ..., n)56. La velocità della parte n sarà, per il suddetto principio di simmetria, vn= V/n. Alla luce di queste premesse, si può ora leggere la conclusione della dimostrazione kantiana, in cui viene descritta la costruzione della comunicazione del movimento: Su questa base il movimento di un corpo A verso un corpo B in quiete, rispetto al quale A può essere causa di movimento, viene ricondotto allo spazio assoluto: esso, cioè, viene considerato, come rapporto di cause efficienti che agiscono l’una sull’altra, in modo tale che entrambe forniscano lo stesso contributo al movimento che nel fenomeno viene attribuito tutto al corpo A; ma ciò non può avvenire che nel modo seguente: la velocità, che nello spazio relativo viene attribuita al corpo A, viene ripartita fra A e B in rapporto inverso alle rispettive masse, assegnando al solo corpo A la sua parte di velocità nello spazio assoluto, mentre al corpo B, i n s i e m e a l l o s p a z i o r e l a t i v o nel quale esso è in quiete, si attribuisce una velocità in direzione opposta; in questo modo lo stesso fenomeno del movimento viene perfettamente conservato, mentre l’azione viene costruita come comune ai due corpi [cf. Fig. 8]57. 56 Va specificato anche che la direzione dei vettori velocità deve essere quella che congiunge i centri di massa dei corpi e che il loro verso è sempre rivolto dall’uno all’altro corpo. 57 MA 545-546. Il testo prosegue: «Sia dato un corpo A che si muova con una velocità uguale ad AB rispetto allo spazio relativo, andando incontro a un corpo B, che

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Come Kant scrive in seguito «questa è la costruzione della comunicazione del movimento, che comporta simultaneamente, come sua condizione necessaria, la legge dell’uguaglianza dell’azione e della reazione» (Nota 1, MA 549). Soltanto passando per l’intuizione pura e indagando la possibilità di costruire la comunicazione del movimento in base alla reciprocità delle relazioni spaziali si vede che l’azione reciproca richiesta dalla «metafisica generale» deve essere anche reazione (uguale e contraria). Tuttavia occorre precisare – come nel caso del Teorema 1 – che quella illustrata è solo la possibilità di una costruzione58. Il numero n delle parti di materia resta indeterminato, come schematizzazione della quantità di materia. Per definirlo di caso in caso occorrerà conoscere la proporzione reciproca delle masse in questione; dunque, per costruire la comunicazione del movimento si devono conoscere le masse. Le masse, però, si misurano mediante la comunicazione del movimento, negli urti o nell’attrazione. Non si tratta forse di un circolo? Per stimare la massa non si potranno, ovviamente, contare le parti della materia, che è continua. Si potrà tuttavia presupporre una massa campione come unità di misura e, in base ad essa, estendere la stima della gravità agli altri corpi, rispetto allo stesso spazio sia i n q u i e t e. Si divida la velocità AB in due parti, Ac e Bc, il cui rapporto reciproco sia inverso a quello delle masse B e A, e si supponga che A sia dotato della velocità Ac rispetto allo spazio assoluto, e che B, i n s i e m e a l l o s p a z i o r e l a t i v o, sia dotato della velocità Bc in direzione opposta: i due movimenti sono dunque uguali ed opposti e, dato che si eliminano reciprocamente, i due corpi si portano in quiete l’uno rispetto all’altro, cioè nello spazio assoluto. Ora, B procedeva con la velocità Bc nella direzione BA, direttamente opposta a quella del corpo A, cioè ad AB, muovendosi i n s i e m e a l l o s p a z i o r e l a t i v o. Se dunque il movimento del corpo B viene eliminato dall’urto, non per questo viene eliminato il movimento dello spazio relativo. Perciò, dopo l’urto, lo spazio relativo si muove rispetto a entrambi i corpi A e B (che ormai stanno in quiete nello spazio assoluto) nella direzione BA con la velocità Bc; in altri termini, dopo l’urto entrambi i corpi si muovono con una stessa velocità Bd uguale a Bc nella direzione AB in cui procedeva il primo di essi». La costruzione in questione, dunque, descrive l’equivalente di un urto anelastico: ciò dipende dal fatto che, come ricorda Kant subito dopo, essa deve tenere conto anche del caso dell’attrazione. 58 Kant scrive che è la costruzione, ma le sue parole si riferiscono alla costruzione del quantum, la quale, come nella Foronomia, si occupa della possibilità delle costruzioni fisico-matematiche propriamente dette: una costruzione determinata della comunicazione del movimento comporterà un riferimento alle masse determinate.

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compresi quelli celesti – come fece Newton. Al di là della convenzione di una massa unitaria due ulteriori presupposti empirici giustificavano Newton a effettuare questo passaggio dal concetto di massa al sistema del mondo: l’uguaglianza tra massa inerziale e massa gravitazionale e l’indipendenza della massa dalle proprietà chimiche della materia. Abbiamo visto che Kant ammette implicitamente l’identità delle due grandezze quando riporta la pesatura ad una comunicazione di movimento. Anche l’universalità della massa e la sua indipendenza dalle proprietà chimiche non viene mai messa in dubbio, probabilmente in base al fatto che la massa è ricavata nell’ambito di una meccanica a priori e come tale riguarda fin dall’inizio la materia in generale e non le sue proprietà chimiche59. Riguardo alla specificazione fisica della legge kantiana ci si può domandare quale possa essere il rapporto con la meccanica degli urti. Relativamente a questo caso già Huygens aveva posto una proporzionalità inversa tra masse e velocità nello studio della comunicazione del movimento, nel contesto di un relativismo cinematico che presenta una singolare corrispondenza con quello kan59 Ulteriori problemi si pongono, da un punto di vista matematico, per realizzare la stima delle masse di un numero arbitrario di corpi considerati agenti simultaneamente l’uno sull’altro. Se ne trova una breve discussione in JAMMER, Concepts of Mass, pp. 98-100, relativamente alla definizione machiana di massa. Le questioni matematiche sembrerebbero estranee a una discussione sulla meccanica metafisica di Kant. Tuttavia il fatto che Kant consideri la massa come sostanza materiale, e dunque attribuisca alla sostanza un’originaria relatività cosmologica, espone il concetto kantiano alle difficoltà matematiche della sua misura. Se la massa risultasse indeterminabile, risulterebbe tale anche la quantità di materia di un corpo; e nella misura in cui risulta determinabile a meno di determinate convenzioni, allora queste convenzioni appartengono anche al concetto di sostanza. Jammer (pp. 96-97) segnala anche un problema di tipo concettuale che è interessante valutare in rapporto alla trattazione kantiana: se la stima delle masse avviene in un sistema di riferimento non inerziale i valori ottenuti differiranno da quelli ottenuti in un sistema inerziale. È probabile che Kant non tratti di questo presupposto, poiché la distinzione tra sistemi inerziali e non inerziali è assente dalle sue considerazioni sulla meccanica. In ogni caso l’estensione della legge metafisica alla realtà concreta di tutti i corpi in movimento dà luogo a un’importante conseguenza: si danno infinite relazioni, perciò la sostanza non si riesce a determinare completamente. Questo problema è discusso in ADICKES, Kant al Naturforscher, I, pp. 337ss., che però non considera i dettagli matematici.

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tiano. Kant aveva una conoscenza (più o meno diretta) della trattazione di Huygens, ma pone la sua indagine su un piano diverso60. La trattazione di Huygens si riferisce a corpi perfettamente duri, presupponendo che essi posseggano quella che si direbbe oggi un’elasticità perfetta; la costruzione sviluppata nel teorema kantiano, invece, corrisponde alla rappresentazione di un urto perfettamente anelastico: i corpi, dopo il contatto, si muovono insieme nello spazio relativo, ma nello spazio di riferimento “assoluto”, definito (come in Huygens) dal comune centro di gravità dei corpi, sono in quiete61. Più avanti nel testo, quasi a voler prevenire la conseguente interpretazione fisica, Kant afferma che nella sua costruzione «è indifferente considerare i corpi che si urtano come assolutamente duri o no» (MA 550). Nella Nota generale alla Meccanica, d’altra parte, svolge una critica del concetto di corpo assolutamente duro, fondata su argomenti matematici, giungendo alla conclusione che i corpi assolutamente duri sarebbero impossibili. Un corollario di questo risultato è la legge meccanica di continuità, secondo la quale «in nessun corpo lo stato di quiete o di movimento – in questo caso la velocità o la direzione – vengono modificati mediante l’urto, in un istante, ma solo in un tempo determinato, attraverso una serie infinita di stati intermedi, la cui differenza reciproca è minore di quella tra l’ultimo e il primo» (MA 552). Questa gradualità non si manifesta nella costruzione kantiana, secondo la quale i corpi, dopo il contatto, si muovono immediatamente in una stessa direzione e con pari velocità62. Come conciliare dunque l’e60 Cf. KgS I, 50, dove Kant lascia intendere di conoscere la trattazione huygensiana per il tramite della Meccanica di Wolff. Sulla trattazione degli urti in Huygens v. WESTFALL, Force in Newton’s Physics, pp. 146-158. 61 Nel Neuer Lehrbegriff, discutendo la legge di azione e reazione, Kant affermava che in essa «si astrae da ogni forza elastica», e che gli urti elastici costituiscono solo un caso particolare della legge di azione e reazione (KgS II, 23). Egli insomma, fin dagli anni ’50, sviluppa le sue riflessioni in proposito su un binario differente da quello leibniziano: per Leibniz, infatti, proprio l’elasticità degli urti è una delle attestazioni empiriche della forza passiva originaria (Specimen dynamicum, GM VI, 237). 62 È significativo che Kant, nel Neuer Lehrbegriff, considerasse la sua rappresentazione dell’azione e reazione come un modo per liberarsi di una legge fisica di continuità – coincidente con quella qui chiamata legge «meccanica» – di cui sosteneva l’assurdità. L’argomento si fondava su una sorta di paradosso zenoniano, per cui lo scam-

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lasticità, invocata per il caso dell’urto dall’immagine di una molla che si contrae tra i due corpi (MA 550), con la formulazione metafisica della legge di azione e reazione? Sembra che lo iato tra rappresentazione dell’urto elastico e costruzione della comunicazione del movimento debba risiedere nel fatto che l’urto elastico, benché a priori giustificato, non possiede l’universalità adeguata a inserirlo nel presente contesto: per prima cosa, mentre l’elasticità della materia è stabilita a priori, il grado di elasticità va invece misurato empiricamente; si possono avere urti perfettamente elastici, ma anche una dissipazione di movimento (quella che, nella fisica classica, viene espressa dal coefficiente di restituzione). Kant non concepisce la possibilità che questa dissipazione sia il prodotto di una forza di resistenza. Può darsi, piuttosto, che egli la consideri una conseguenza di quell’elasticità «derivata», propria dei corpi macroscopici e dovuta a fluidi come il calorico, che mediante il proprio movimento assorbirebbero parte del movimento comunicato (Cf. MA 522). Si tratta in ogni caso di circostanze empiriche, che la pura rappresentazione della comunicazione del movimento non può prendere in considerazione, poiché la sua legge non «si doveva fondare sulla particolare qualità delle materie che si comunicano il movimento» (MA 550)63. Del resto l’elasticità è una prerogativa degli urti, mentre la legge kantiana si riferisce anche alle attrazioni: anche per questo essa deve lasciare indeterminate le proprietà strutturali dei corpi, limitandosi a studiarne la reciprocità d’azione. La concreta comunicazione dei movimenti negli urti, con il suo momento elastico e la sua dissipazione di movimento, resta di dominio di una fisica in cui, bio graduale e non istantaneo del movimento comporterebbe un regresso all’infinito e dunque non risulterebbe affatto in un movimento effettivo, che denotava una comprensione ancora acerba del calcolo infinitesimale (KgS II, 23). Nel criticismo questa obiezione svanisce: non solo Kant ammette la conclusione di processi fisici che avvengono attraverso passaggi infiniti (per es. la «soluzione assoluta» − MA 531), ma ogni fenomeno fisico, in base alla legge trascendentale di continuità argomentata sotto il principio delle anticipazioni della percezione, deve essere considerato analizzabile in parti (potenzialmente) infinite. 63 Ricordiamo ancora la riflessione dell’Opus postumum in cui Kant, in un altro contesto, attribuisce a Huygens un «empirismo della teoria del moto» (KgS XXII, 528).

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dati i corpi dotati di massa e una definizione newtoniana della forza motrice, la legge di continuità può infine legittimare l’espressione del momento impresso come mv= ∫Fds. È ancora una volta l’esistenza di corpi discreti, con gli eventuali fluidi meno densi tra essi diffusi, a segnare lo iato tra la meccanica metafisica e il mondo fisico. Restando al piano metafisico possiamo concludere: Kant ha tentato una soluzione del problema della comunicazione del movimento che evitasse tanto il ricorso all’esperienza, quanto una specifica forza di inerzia separata dalla legge di azione e reazione. Il risultato più rilevante dell’itinerario che qui si compie riguarda la determinazione della sostanza materiale: questa risulta definita in linea di principio dai rapporti meccanici con gli altri corpi e in questo senso come un concetto essenzialmente relativo al sistema cosmico delle relazioni fisiche. L’esito della Meccanica kantiana testimonia ancora una volta dell’intrinseca relatività di ogni ente e concetto fisico all’interno della metafisica della natura di Kant, che si dimostra perciò addirittura opposta alla metafisica tradizionale – che concerneva l’incondizionato e l’assoluto – e diviene una metafisica del condizionato e del relativo64.

9.4. Appendice. Relatività della massa e legge di azione e reazione: confronto con la trattazione di Mach La relativizzazione della massa, insieme al modo in cui Kant vi giunge nella Meccanica, suggerisce un confronto con la trattazione dei concetti meccanici svolta da Ernst Mach. Le analogie tra la meccanica metafisica kantiana e la discussione critica dei concetti newtoniani svolta da Mach sono notevoli e il fatto che lo stesso Mach non le riconoscesse dipende probabilmente dall’oblio toccato ai Principi metafisici nella seconda metà del XIX secolo65. Un confronto relativo alla trattazione del64 Questo aspetto del concetto meccanico di sostanza è stato eccellentemente messo in evidenza da VUILLEMIN, Physique et métaphysique, § 28, pp. 255-274. 65 L’opera è in generale trascurata da Mach, che invece si occupa in diversi luoghi della filosofia trascendentale kantiana. JAMMER, Concepts of Mass, p. 84, allude impli-

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la terza legge del moto newtoniana può risultare istruttivo per mettere in luce alcuni aspetti della meccanica kantiana. Mach – come Kant − considera la legge di azione e reazione e la definizione del concetto di massa come due questioni indissolubili. Egli critica la definizione newtoniana di massa giudicandola essenzialmente circolare: Egli [Newton] dice che la massa è la quantità di materia di un corpo misurata dal prodotto del suo volume per la densità. Il circolo vizioso è evidente. La densità infatti non può essere definita se non come la massa dell’unità di volume. Newton si è reso conto che in ogni corpo è inerente una proprietà quantitativa che determina il movimento ed è diversa dal peso – appunto quella che sul suo esempio chiamiamo massa – ma non è riuscito a esporre questa conoscenza in modo corretto66.

Il modo di realizzare quest’ultimo compito viene assimilato in seguito, da Mach, a una formulazione rigorosa della legge di azione e reazione: L’oscurità del concetto di massa si fa evidente quando si applica in dinamica il principio di azione e reazione. Pressione e contropressione possono essere uguali, ma come sappiamo che pressioni uguali producono velocità inversamente proporzionali alle masse? Newton ha sentito il bisogno di verificare sperimentalmente questo principio fondamentale67.

Mach – come Kant − si riferisce allo Scolio alle Leggi del moto, in cui Newton riferisce diversi esperimenti che confermano questa proporzione. Sebbene Mach riconosca l’esperienza come l’unica fonte di conoscenza in proposito, l’itinerario seguito da Newton resta per lui insoddisfacente, poiché una definizione circolare della massa starebbe alla base di una legge e della sua verifica empirica. Viceversa la stessa formulazione della legge, fondata sull’esperienza, contiene secondo Mach l’unica definizione possibile di massa: citamente a una linea di continuità tra le analisi kantiane dei concetti e delle leggi della meccanica e l’indagine storico-critica machiana. Ovviamente, forti analogie tra Kant e Mach esistono anche nella critica alle nozioni di spazio e moto assoluto. 66 MACH, Die Mechanik, p. 188. 67 Ivi, p. 194.

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Il lettore ha già capito che i due distinti enunciati con cui Newton ha formulato il concetto di massa e il principio di azione e reazione dipendono l’uno dall’altro, cioè l’uno suppone l’altro. Le esperienze che stanno a fondamento di questi concetti sono: la conoscenza istintiva del rapporto fra pressione e contropressione, il fatto che i corpi resistono alla variazione di velocità indipendentemente dal loro peso ma proporzionalmente a esso, l’osservazione che i corpi di peso maggiore ricevono sotto uguale pressione velocità minori. Newton ha capito molto bene quali concetti e principi base siano necessari alla meccanica. È la forma della sua esposizione che lascia molto a desiderare68.

L’ipotesi di Mach è che la massa possa essere definita, in base a mere «esperienze meccaniche», nel modo seguente: «Diciamo corpi di massa uguale quelli che, agendo l’uno sull’altro, si comunicano accelerazioni uguali ed opposte»69. La formulazione della legge di azione e reazione, infine, è già contenuta nella definizione di massa: Il concetto di massa da noi formulato rende inutile una formulazione distinta dal principio di azione e reazione. Nel concetto di massa e nel principio di azione e reazione (come abbiamo già notato) viene enunciato due volte lo stesso fatto; cosa evidentemente superflua. Nella nostra definizione, dicendo che due masse 1 e 2 agiscono l’una sull’altra, si è già detto che esse si comunicano accelerazioni opposte che stanno tra loro nel rapporto 2:170.

Per ottenere una riformulazione compiuta dei principi della meccanica, infine, Mach estende le sue osservazioni critiche all’esposizione newtoniana di tutte e tre le leggi del moto. La prima e la seconda legge sono già contenute nella definizione di forza, secondo la quale senza forza non si verifica accelerazione, e quindi si verifica quiete o moto rettilineo uniforme. Dire che la variazione del moto è proporzionale alla forza, dopo che l’accelerazione è stata definita come misura della forza, significa cadere in una tautologia inutile. Per evitarla sarebbe stato sufficiente chiarire che le definizioni premesse non sono definizioni matematiche arbitrarie, ma proprietà dei corpi date dall’esperienza. La terza legge non contiene nulla di nuovo. Questa legge però [...] è incomprensibile se non si possiede un concetto corretto della Ivi, pp. 194-196. Ivi, p. 211. 70 Ivi, p. 214. 68 69

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massa; ma una volta che questo concetto sia stato formulato in base a esperienze dinamiche, essa è inutile71.

La riorganizzazione dei principi della meccanica, qui prefigurata, viene realizzata sostituendo agli enunciati newtoniani degli altri che posseggono «maggiore semplicità e migliore ordine metodico». Si tratta di una serie di proposizioni che Mach intende come resoconti di pure osservazioni empiriche o come definizioni fondate sulle relazioni osservate. a) Proposizione sperimentale. Corpi posti l’uno in presenza dell’altro determinano, in circostanze che devono venire stabilite dalla fisica sperimentale, accelerazioni opposte l’una all’altra nella direzione della loro linea di unione. (La legge d’inerzia è già contenuta in questa proposizione). b) Definizione. Il rapporto delle masse dei due corpi è il rapporto inverso delle loro rispettive accelerazioni preso con segno negativo. c) Proposizione sperimentale. I rapporti delle masse sono indipendenti dallo stato fisico dei corpi che determinano le accelerazioni mutue (cioè dall’essere essi elettrici, magnetici ecc.), e restano gli stessi tanto se queste sono impresse direttamente quanto se lo sono indirettamente. d) Proposizione sperimentale. Le accelerazioni che più corpi A, B, C... imprimono a un corpo K sono indipendenti l’una dall’altra. (Da questa proposizione segue immediatamente il teorema del parallelogramma delle forze). e) Definizione. Una forza motrice è il prodotto della massa di un corpo per l’accelerazione impressagli72.

Le analogie con la trattazione kantiana, prescindendo dallo sfondo teoretico, sono evidenti: la massa (e dunque la quantità di materia newtoniana, termine che Mach per semplicità elimina del tutto) viene definita mediante relazioni meccaniche. Queste relazioni sono fondate sulle accelerazioni reciproche dei corpi. Queste ultime accelerazioni, d’altra parte, presuppongono per definizione una originaria inattività meccanica della materia, quale viene espressa nella lex inertiae. Veniamo ora alle differenze. Cosa avrebbe da obiettare Kant a questa presentazione? In primo luogo, ovviamente, egli contesterebbe che le proposizioni sperimentali di Mach siano meri dati empirici, denunciando i numerosi postulati impliciti nell’uso di nozioni come corpo, 71 72

Ivi, p. 240. Ivi, pp. 241-242.

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compresenza spaziale e simultaneità. Tralasciamo per il momento tale questione, concedendo il carattere fattuale delle proposizioni machiane. Il primo elemento di diversità delle vedute kantiane si deve allora individuare nel carattere sistematicamente primario che Mach assegna alle accelerazioni dei corpi. Laddove Kant ritiene inevitabile assegnare un fondamento alle accelerazioni, e così facendo mostrare – quale condizione necessaria dell’impenetrabilità – l’oggettività della definizione puramente metafisica di forza, la definizione machiana, con questo passaggio, perde ogni carattere di causalità e si limita ad esprimere una relazione matematica, ricavata da osservazioni sperimentali. Un secondo rilevante aspetto di diversità risiede nella presenza, in Kant, di una distinta dimostrazione della legge di azione e reazione. Entrambe queste differenze tra le due dottrine si fondano, dunque, sull’importanza attribuita da Kant alle categorie di relazione. Seguendo questo filo conduttore, si può svolgere un esame più approfondito delle proposizioni di Mach, con risultati degni di interesse. La prima proposizione sperimentale di Mach non contiene un semplice resoconto sperimentale. Da un punto di vista cinematico, infatti, le accelerazioni reciproche di due corpi non costituiscono qualcosa di direttamente osservabile. La situazione descritta da Mach, è bene sottolinearlo, prescinde da qualsiasi principio meccanico e si riferisce alla mutua presenza nello spazio di due corpi. Con queste premesse, però, l’accelerazione può essere considerata relativa quanto la velocità, e non è affatto scontato distribuire le accelerazioni nel fenomeno nel modo indicato nella proposizione: in altre parole, la presunta descrizione empirica presuppone ciò che dovrà essere dimostrato, distribuendo le accelerazioni reciproche in proporzione inversa alle masse. È notevole però che Mach, alcune pagine prima, menzionasse effettivamente un argomento sulla distribuzione delle accelerazioni, che presenta una notevole analogia con il principio kantiano della reciprocità delle relazioni spaziali. Egli considera «due corpi perfettamente identici», ponendo che essi agiscano l’uno sull’altro (il che, per Kant, presuppone un principio trascendentale) e conclude: «Poiché si esclude l’influenza di un qualsiasi terzo corpo e quella dell’operatore, l’unica interazione determinata in modo univoco è la comunicazione di velocità uguali e opposte, dirette secondo la retta che unisce i due corpi»73. 73

Ivi, p. 197.

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Successivamente Mach applica questa argomentazione alla prova della legge di azione e reazione, chiamandolo «principio di simmetria»74. Nella sua formulazione definitiva delle leggi del moto, tuttavia, questo principio scompare, agendo occultamente nella presunta proposizione sperimentale dell’accelerazione reciproca, che – come si vede dal passo citato – lo stesso Mach in precedenza considera bisognosa di giustificazione. Sottolineiamo ancora che Mach poche righe dopo passa dalle velocità alle accelerazioni, presupponendo a quanto pare, per i due casi, una stessa questione di relatività e una stessa soluzione di simmetria. Questo aspetto delle indagini machiane, che scompare nella formulazione definitiva dei principi meccanici, rimane affidato a meri accenni; una stessa sorte, si è visto, tocca al principio kantiano. Ma l’impiego del principio di simmetria, in Kant, è giustificato da quel complesso collegamento tra costruzioni foronomiche, concetto della quantità di materia e legge trascendentale di azione reciproca, il quale, come si è visto, esclude che schematizzazioni come quella machiana possano essere adeguate e fa capo a un concetto dinamico della materia giustificato indipendentemente. Viceversa, le costruzioni machiane, a prenderle alla lettera, si basano su un’evidenza geometrica, la cui validità oggettiva non viene messa in discussione. Anche la presunta derivazione della lex inertiae dipende in realtà dalla scelta di un sistema di riferimento, ma aggira la questione fondamentale dell’impossibilità che la materia si metta in moto autonomamente. A prescindere dall’esito della prova kantiana, quest’ultima pone almeno un problema, connesso con il principio di causalità, che nella trattazione machiana non viene dissolto ma semplicemente trascurato. Si ritorna infine al piano trascendentale da cui si è inizialmente fatta astrazione: la stessa identità dei corpi, che per Mach si accompagna all’origine percettiva del concetto di sostanza, per Kant è possibile solo attraverso un principio metafisico della persistenza della sostanza nel fenomeno75. Diviene con ciò evidente la radicale opposizione di principio 74 «Se due corpi perfettamente identici sotto tutti gli aspetti sono posti l’uno di fronte all’altro, ci aspettiamo in base al principio di simmetria a noi già noto che essi si comunichino accelerazioni uguali ed opposte secondo la direzione della linea di congiunzione» (ivi, p. 211). Una compiuta deduzione della legge di azione e reazione da questo principio si trova già di seguito al passo citato alla nota precedente (p. 197). 75 In questo passaggio la mutata situazione scientifica, che Mach interpreta con no-

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tra i due pensatori, che non riguarda tanto i risultati, quanto il metodo della loro fondazione. Tale opposizione si esprime nello stesso concetto di natura: «Nella natura – scrive Mach – non vi è causa né effetto. La natura è qui e ora»76. L’economia del pensiero machiana, così, rischia di presupporre la strutturazione dei fatti empirici senza indagarne gli aspetti non empirici. In tal modo, fin dall’inizio, Mach preclude l’accesso a una qualsiasi ontologia della natura, sia essa critica o metafisica: iscrivendo le sue numerose indagini entro una concezione pragmatica della conoscenza egli le presenta come una raccolta di dati, il che certamente ne anima la capacità critica, ma – senza l’indagine critica sui presupposti teorici – rischia di lasciare spazio a un nuovo dogmatismo77.

tevole finezza, gioca un ruolo decisivo: questi si oppone esplicitamente all’immagine del corpo e alle sue suggestioni metafisiche – compresa quella del meccanicismo – affermando che solo le leggi scientifiche possiedono autentica scientificità, e come tali vanno considerate autonome (Ivi pp. 457ss., 472ss). Le pagine machiane contro il meccanicismo come metafisica, giustamente celebri, sfondano peraltro una porta mezza aperta, che ai tempi di Kant non era nemmeno socchiusa. 76 Ivi, p. 459. 77 Proprio questo aspetto rigorosamente positivistico ha permesso a Mach di negare oggettività alle rappresentazioni meccanicistiche della fisica del tempo, laddove Kant, nel tentativo di superare il momento puramente dissolutivo della critica, ha necessariamente appuntato l’attenzione ora sul corpo, ora, nell’ultima fase del suo pensiero, sull’etere, condizionando le sue ricerche con un’inevitabile contingenza. D’altra parte la riduzione della teoria fisica a una raccolta economica di osservazioni e a strumento pratico rischiava all’epoca di Mach di incoraggiare un ritorno alla distinzione scolastica tra metafisica e «ipotesi matematiche». Basti considerare l’esito cui conduceva, con premesse analoghe, l’epistemologia di Duhem. In base a un’interpretazione meramente fenomenistica e strumentalistica delle teorie fisiche (peraltro ancora di grande interesse teorico) Duhem negava a queste ultime la piena validità oggettiva, mantenendo uno spazio intatto per una metafisica puramente speculativa (come quella tomista) che, sfruttando l’incapacità della fisica di cogliere le «cose nascoste sotto i fenomeni», restasse al riparo da qualsiasi rilievo empiricamente condizionato (P. DUHEM La théorie physique, pp. 3-22). Pragmatismo della fisica e metafisica dogmatica si rivelano dunque due dottrine perfettamente compatibili, al punto da permettere il rovesciamento del giudizio sul processo di Galilei, affermando che la Chiesa aveva ragione a condannare le pretese del matematico, il quale è autore di semplici ipotesi matematiche efficaci (ivi, pp. 59-60). La necessità di un riferimento della metafisica al mondo fisico, tesi fondamentale nel pensiero di Kant, costituisce una critica di una simile concezione, già presente nella Naturlehre dell’epoca. Tra i primi a riprendere la questione in sede teorica, rispetto all’epistemologia di Mach e Duhem, vi fu ovviamente il Cassirer di Substanzbegriff und Funktionbegriff nel 1910.

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Capitolo 10 La Fenomenologia

10.1. Movimento relativo, reale, assoluto Nella Fenomenologia «non si tratta [...] della trasformazione dell’apparenza [Schein] in verità, ma di quella del fenomeno in esperienza; nell’apparenza, infatti, l’intelletto è pur sempre in gioco con i suoi giudizi che determinano un oggetto, sebbene corra il rischio di prendere il soggettivo per oggettivo; nel fenomeno, invece, non si trova nessun giudizio dell’intelletto» (MA 555). Non si tratta delle apparenze che possono sorgere dai concetti della pura ragione – come nella Dialettica trascendentale – ma del concetto di un fenomeno dato e di come, riflettendo sulle condizioni della sua esperienza, se ne possa ricavare un concetto oggettivo. Riferendosi alle sezioni precedenti della fisica pura, dunque, la Fenomenologia si occupa della materia come mobile, «in quanto può essere, come tale, un oggetto dell’esperienza» (MA 554)1. Esamina cioè la mo1 Con il termine ‘fenomenologia’ Kant, come in molti altri casi, riprende un termine già usato ma lo elabora in un senso originale. In questo caso, Fenomenologia era il titolo della quarta sezione del Neues Organon di Lambert, dove designa la «dottrina della parvenza», cioè la scienza che «deve rendere riconoscibile la parvenza e indicare i mezzi per evitarla e per penetrare il vero» (Neues Organon, Vorrede [s.p.]). Kant non si riferisce però alla parvenza vera e propria, che nasce da un errore di giudizio, ma al fenomeno, in cui «non si trova ancora nessun giudizio dell’intelletto». Anche nella Fenomenologia, dunque, svolge un ruolo la distinzione tra fenomeno come dato percettivo e fenomeno come risultato del giudizio, cioè come oggetto dell’esperienza, di cui abbiamo constatato la presenza nel criticismo. È appena il caso di notare che, in una lettera del 2-9-1770, Kant chiamava «phaenomenologia generalis» la scienza

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dalità del movimento secondo le categorie della possibilità, della realtà e della necessità, e si occupa della trasformazione del fenomeno cinetico in esperienza. L’esperienza è «una conoscenza che determina l’oggetto in un modo valido per ogni fenomeno» (ivi): il giudizio fenomenologico, in questo senso, insegna a distinguere nel fenomeno del movimento le determinazioni oggettive, attribuendo il movimento del fenomeno a un oggetto fisico. Da questo punto di vista i tre teoremi mostrano come il movimento trattato nella Foronomia sia solo «possibile» (Teorema 1), quello trattato nella Dinamica sia «reale» (Teorema 2), e quello trattato nella terza legge della Meccanica sia «necessario» (Teorema 3). Nello svolgimento di questo compito Kant ripete inevitabilmente molte argomentazioni contenute già nelle sezioni precedenti. La riflessione fenomenologica, infatti, è implicita in quasi tutti i problemi discussi in precedenza, per esempio nella determinazione della relatività del movimento rettilineo. Tuttavia, la ripetizione sistematica di alcuni passaggi porta una chiarezza maggiore rispetto alla trattazione precedente. È il caso del movimento rettilineo, che viene determinato come intrinsecamente «possibile», in alternativa a quello opposto dello spazio materiale. Kant, raccogliendo affermazioni fatte già in precedenza, scrive che «il movimento di una materia, pensato senza alcuna relazione con una materia esterna ad essa, cioè c o m e m o t o a s s o l u t o, è i m p o s s i b i l e» (MA 555), per cui il movimento «può essere oggetto dell’esperienza soltanto a condizione che siano oggetti dell’esperienza entrambi i termini correlativi» (MA 556): una tesi che, come si è visto, era fondamentale per la dimostrazione foronomica della relatività del movimento. In generale, fin dall’inizio nella Fenomenologia, tornano centrali i concetti problematici dello spazio e del movimento assoluti. La critica del movimento assoluto, che occupa infatti gran parte della lunga Nota generale, costituisce il vero elemento di novità rispetto al contenuto delle sezioni precedenti. Qui Kant (come era accaduto nelle note ai teoremi della Dinamica) istituisce ancora propedeutica della metafisica (KgS X, 96-99). Il termine ‘fenomenologia’ è dunque associato storicamente alla genesi dell’idea stessa della Critica.

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una volta un confronto diretto con la fisica newtoniana, senza prescindere dalla valutazione dei suoi argomenti sperimentali. I casi del movimento relativo e soltanto possibile – trattato nella Foronomia – e di quello reciproco e necessario di due corpi che si trasmettono una forza motrice – trattato nella Meccanica – vengono collegati senza grandi difficoltà (Teoremi 1 e 3) con il concetto di uno spazio assoluto come idea della ragione, che «deve servire di regola per considerare al proprio interno ogni movimento come soltanto relativo» senza corrispondere a nulla di oggettivo (MA 560). Questo spazio ideale compariva già nelle sezioni precedenti: nella Foronomia, serviva come ricettacolo del movimento dello spazio empirico opposto a quello di un corpo in movimento rettilineo; nella Meccanica, costituiva il sistema di riferimento del moto reciproco di due corpi con velocità inversamente proporzionali alle masse. In entrambi i casi, rileggendo le sezioni precedenti, si comprende bene in che senso questo spazio assolvesse una funzione regolativa, senza poter essere un oggetto: infatti, ogni spazio che si consideri assoluto si può a sua volta pensare come mobile dentro uno spazio più grande, e «il concetto di queste determinazioni di rapporto si deve modificare ogni volta che la materia viene messa in relazione con l’uno o l’altro di questi spazi»; lo spazio di riferimento, cioè, si può considerare sempre come uno spazio relativo, ma «nello spazio relativo ogni condizione per considerare qualcosa mobile o immobile è sempre a sua volta condizionata» (MA 559). Una questione nuova si pone invece a margine del Teorema 2. Esso afferma che il moto circolare di un corpo è reale, a differenza del movimento relativo di rotazione nel verso opposto compiuto dallo spazio (che, da un punto di vista fenomenico, sarebbe equivalente ad esso): nel primo, infatti, ha luogo una modificazione continua del movimento, la quale secondo la legge d’inerzia richiede la rappresentazione di una forza motrice e perciò di un movimento reale. Reale (wirklich), nel senso categoriale del termine, significa associato all’azione di un oggetto nel fenomeno, e specificamente, alla luce della Dinamica, al «momento» di una forza. Il giudizio sul moto circolare è dunque un giudizio disgiuntivo «in senso oggettivo», nel quale cioè non si può trovare una soluzione 645

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simmetrica tra le due alternative nel fenomeno, così come accade nel giudizio della Foronomia (che è «alternativo», e pone entrambi i movimenti come possibili) e in quello della Meccanica (che è «distributivo», e suddivide il movimento del fenomeno tra i due termini della relazione). Il moto circolare che manifesta l’azione di una forza centrale esclude il moto circolare inverso dello spazio, che deve essere considerato apparente2. Lo stesso fenomeno della forza centrifuga costituiva per Newton uno degli argomenti sperimentali a favore della possibilità di individuare il moto assoluto, pur non potendo essere riferito direttamente allo spazio assoluto, che non si può percepire. Kant si riferisce esplicitamente al ragionamento newtoniano, sottolineando il «paradosso» secondo cui mediante la forza centrifuga si può stabilire la realtà di un movimento rotatorio pur senza riferirlo ad uno spazio empirico esterno (MA 558). Sostiene però che i fenomeni discussi da Newton a favore del moto assoluto – come «il movimento di due corpi intorno a un centro comune» o «la stessa rotazione della Terra» (MA 557-8) – non mettono in dubbio la distinzione tra movimento reale e movimento assoluto. Il riferimento è proprio agli esperimenti con cui Newton ricava l’azione di una forza centrifuga, quindi l’assolutezza del moto rotatorio, in base al principio secondo cui «gli effetti che distinguono il moto assoluto dal moto relativo sono le forze che allontanano dall’asse del moto circolare». Il primo di questi è il celebre esperimento del secchio pieno d’acqua, sospeso a un filo e messo in rotazione, in cui l’innalzamento dell’acqua contro le pareti del contenitore testimonierebbe di un moto assoluto; il secondo, che è piuttosto un esperimento mentale, si riferisce alla tensione di una corda che congiunga due corpi in moto circolare3. 2 MA 556-557. La definizione dei tre tipi di giudizio disgiuntivo si trova in MA 559-560, nota a piè di pagina. 3 Il luogo commentato è NEWTON, Principia, Scolio alle Definizioni, pp. 50ss. L’esperimento del secchio è rivolto contro la concezione cartesiana della relatività del moto circolare, e si propone di provare l’esistenza di uno spazio assoluto. Kant si riferisce criticamente a queste parole di Newton: «È certamente molto difficile riconoscere i veri movimenti dei singoli corpi, e distinguerli effettivamente da quelli apparenti, perché le parti di quello spazio immobile, in cui i corpi si muovono realmente, non impressionano i sensi. Il caso, tuttavia, non è del tutto disperato» (p. 52).

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In questi esempi, osserva Kant, l’apparenza del moto assoluto è data dal fatto che il modo in cui si stabilisce la realtà del movimento in questione non richiede il riferimento a uno spazio empirico esterno, ma si basa sul comportamento del solo corpo osservato, per cui sembra che il movimento stesso sia privo di riferimento a ogni altra materia, e perciò assoluto. Egli si oppone a questo argomento tentando di rovesciarlo: il fatto stesso che il cambiamento di relazione tra le parti di una materia, corrispondente all’azione di una forza centrifuga, non si riferisca ad uno spazio esterno, bensì ad un allontanamento relativo di due corpi o delle parti di un corpo (forza centrifuga), significherebbe che il movimento reale non si può considerare assoluto. Il ragionamento svolto rispetto al movimento reale è analogo a quello già dedicato al movimento necessario, così che il primo caso viene ricondotto al secondo: lo “spazio assoluto” vi compare come spazio del movimento reciproco, che in questo caso non è più quello di due corpi che esercitino l’uno sull’altro una forza motrice, ma quello di due corpi – o delle parti di uno stesso corpo – che siano soggetti a una forza centrifuga4. Questo spazio, però, potrebbe essere a sua volta contenuto in un altro spazio più grande, il che modificherebbe la rappresentazione del movimento delle parti (componendolo con quello dello spazio), pur non potendolo mai risolvere in quiete, e dovendone perciò conservare la realtà5. Sia nel caso del movimento reale che di quello ne4 A commento degli esperimenti newtoniani Kant scrive (MA 561-562): «Questo movimento, però, pur non comportando un cambiamento del rapporto con lo spazio empirico, non è un movimento assoluto, ma soltanto un cambiamento continuo delle relazioni reciproche delle materie, il quale, anche se viene rappresentato nello spazio assoluto, non è che un movimento relativo e anzi proprio per questo è un movimento vero: tutto ciò si basa sulla rappresentazione dell’allontanamento reciproco e continuo di ogni parte della Terra (esterna all’asse) rispetto a ogni altra parte che le sia diametralmente opposta rispetto al centro. Nello spazio assoluto, infatti, questo movimento è reale, perchè compensa la teorica perdita di distanza, che la gravità di per sé determinerebbe attirando il corpo, e lo fa senza nessuna causa dinamica respingente (come si può vedere dall’esempio scelto da Newton [...] cioè mediante un movimento che si dice reale rispetto alla sola materia che si muove (cioè rispetto al suo centro), e non rispetto allo spazio esterno». 5 Sulla distinzione fra moto reale e moto assoluto v. R. PALTER, Absolute Space and Absolute Motion in Kant’s Critical Philosophy, in Proceedings of the Third Internatio-

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cessario, dunque, il movimento si basa essenzialmente sul riferimento reciproco di parti della materia; un movimento assoluto, invece, sarebbe «soltanto quello che spettasse a un corpo indipendentemente da qualunque altra materia» (MA 562). Tale, prosegue Kant, sarebbe solo il movimento di tutta la materia, cioè «il movimento rettilineo dell’intero universo», che rappresenterebbe però un’infrazione delle leggi generali del movimento. Al contrario, sarebbe concepibile un movimento rotatorio dell’intero universo intorno al proprio asse, un’ipotesi però che non porterebbe «alcun vantaggio» alla fisica (MA 563). Questo riferimento cosmologico sollecita un’osservazione sui limiti della fenomenologia pura del movimento. Può sembrare strano che Kant non tratti qui delle ipotesi astronomiche. L’ispirazione astronomica della Fenomenologia è infatti evidente. Il suo scopo ricalca quello attribuito da Newton ai Principia: la distinzione dei movimenti veri da quelli apparenti, in base alla determinazione delle loro cause6. Si pensi poi al fatto che, proprio in base alle leggi newtoniane, nella Prefazione alla seconda edizione della Critica Kant attribuirà «certezza apodittica» all’ipotesi copernicana7. nal Kant Congress, pp. 172-187. È interessante confrontare queste pagine kantiane con quelle di MACH dedicate alla critica del concetto newtoniano di moto assoluto (Die Mechanik, pp. 220ss., 267ss.). Le parole con cui Mach (p. 267) contesta la tesi del moto assoluto, rivolgendosi contro A. Höfler (fisico e – tra l’altro – curatore dell’edizione dei Metaphysische Anfangsgründe per l’Akademie Ausgabe), sembrano un commento, in spirito kantiano, alle affermazioni di Newton citate in precedenza: «Höfler è d’avviso che si neghi l’esistenza del moto assoluto perché si crede che esso sia rappresentabile, mentre, al contrario, è un dato della “introspezione più sottile” che esistono rappresentazioni del moto assoluto. Secondo lui pensabilità e conoscibilità del moto assoluto non devono essere confuse: solo la seconda manca... Ma è proprio della conoscibilità che si occupa lo scienziato! Ciò che non è conoscibile, ciò che non è percepibile sensorialmente non ha significato nella scienza naturale». Ovviamente, per Kant la percezione è necessaria ma non sufficiente. 6 NEWTON, Principia, Scolio alle Definizioni, p. 53: «In quel che segue, verrà data una più esauriente spiegazione di come determinare i movimenti veri in base alle loro cause, effetti, e differenze apparenti, e, viceversa, di come determinare dai movimenti, veri o apparenti, le loro cause e i loro effetti. Tale infatti è il proposito per cui ho composto il seguente trattato». 7 KrV B XXII: «Così le leggi centrali dei moti dei corpi celesti conferirono una rigorosa certezza a ciò che Copernico aveva in un primo tempo ammesso soltanto come

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Pare, dunque, che proprio il punto di vista trascendentale, attribuendo al soggetto implicato nel processo conoscitivo la valutazione della realtà dei movimenti, conduca di ritorno alla conferma a priori di quell’ipotesi astronomica che ne rispecchia il principio metodologico8. Su cosa si fonda, però, tale giudizio sull’astronomia copernicana? L’ipotesi matematica diviene certa in base alle leggi centrali del movimento, dunque grazie alla funzione unificante svolta dal concetto newtoniano di gravitazione. Certamente, alla luce dei Principi metafisici, la forza centrale è il fondamento per distinguere i moti apparenti, o meglio privi di azione, da quelli effettivi, fondati su un’azione reciproca. Tuttavia, per ottenere un giudizio sulle ipotesi cosmologiche questo non basta, per il semplice motivo che la fenomenologia pura non possiede gli elementi per formularle. Le mancano in primo luogo i fenomeni astronomici (i phaenomena newtoniani9, le Naturbegebenheiten della Naturlehre), la cui varietà e determinatezza non è inclusa nel concetto generale del movimento; le manca poi la matematica, che serve a descrivere a priori quei movimenti in modo tale da ricavarne proposizioni quantitative; infine, le manca la stessa legge di gravitazione, che viene ricavata in base a questi fenomeni e in base alla matematica, nel terzo libro dei Principia. Una volta introdotte le prime due premesse, sarà possibile la formulazione delle ipotesi astronomiche; con la terza – nella misura in cui Kant ne dà per provata la validità ipotesi [...]». Cf. supra § 4.2. Anche Kant, in precedenza, considerava quella copernicana un’ipotesi efficace (cf. Logik, KgS IX, 86; Wiener Logik, KgS XXIV, 887-888; Logik Blomberg, XXIV, 221). Si veda CAPOZZI, Kant e la logica, I, p. 680, secondo cui sarebbe in tal senso significativa l’assenza dell’ipotesi copernicana dalla trattazione delle ipotesi nella Logik Dohna Wundlacken (KgS XXIV, 746-747) che risale agli anni ’90. 8 Sul rapporto tra ipotesi astronomiche e fenomenologia kantiana si veda J. VUILLEMIN, La théorie kantienne des modalités, in Akten des fünften Internationaler KantKongresses, Mainz 1981, pp. 149-167, in part. 154ss. (rist. in ID., L’intuitionnisme kantien, Paris 1994). 9 «Phaenomena» è il titolo della sezione del terzo libro dei Principia, dove sono esposte tutte le osservazioni astronomiche che in seguito, sulla scorta delle premesse precedenti (definizioni, leggi del moto, proposizioni matematiche dei libri I-II e regole del filosofare) permetteranno di stabilire il sistema del mondo.

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− l’ipotesi copernicana assume lo status di ipotesi certa. D’altra parte senza la fenomenologia pura, che rielabora le premesse su spazio e movimento esposte da Newton all’inizio del suo trattato, le conclusioni della fisica newtoniana resterebbero ancora basate su una corrispondenza tra matematica e esperienza che è viziata da premesse metafisiche fuorvianti come quella dello spazio assoluto. Se la Fenomenologia non include, in quanto dottrina metafisica, una trattazione delle ipotesi fisiche, essa però conclude il ripensamento della “fenomenologia” metafisica leibniziana, cominciato nella Dinamica. In effetti proprio la distinzione più sottile della Fenomenologia kantiana, quella tra il movimento possibile e il movimento reale in quanto entrambi relativi, costituisce un tentativo di risolvere uno dei nodi più intricati della teoria del movimento di Leibniz. Leibniz aveva sostenuto, sul piano fisico, la piena relatività di ogni movimento, anche curvilineo e rotatorio10. Il movimento è infatti un cambiamento reciproco della situazione di molteplici corpi, e, se lo si considera solo in quanto cambiamento di luogo, non si può trovare ragione di attribuire il movimento o la quiete a uno di questi corpi. D’altra parte il movimento così inteso è un mero fenomeno, cioè non una cosa «del tutto» reale. Sul piano metafisico, al quale si riferisce la determinazione della forza essenziale alle sostanze, Leibniz affermava risolutamente che, poiché non possono esistere relazioni puramente estrinseche, il movimento deve essere fondato in uno dei suoi termini; in altre parole, se si considera il moto rispettivo di due corpi, la forza che causa il movimento non può essere una proprietà del sistema meccanico, ma deve inerire a uno solo dei due corpi, che sarà il soggetto reale del movimento: «Si muove ciò in cui sono al tempo stesso il mutamento di posizione e la ragione del mutamento»11. Coerentemente con queste premesse, nel carteggio con Clarke, Leibniz accolse 10 Si veda la critica dell’esperimento newtoniano sul moto assoluto, fondata sulla relatività infinitesimale degli stessi moti curvilinei, nella lettera a Huygens del 12/22 giugno 1694, GM II, pp. 184-5. 11 LEIBNIZ, Inizia rerum mathematicarum metaphysica, GM VII, 20. Cf. Discours de métaphysique, § XVIII, GP IV, 444. Sul rifiuto della realtà delle relazioni estrinseche si veda MUGNAI, Leibniz’s Theory of Relations.

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una distinzione tra «movimento vero» e movimento apparente, in quella che sembrava una concessione al partito newtoniano12. Come accordare il movimento «assoluto e vero» e quello rispettivo costituisce ancora un problema dibattuto dell’esegesi leibniziana. La soluzione più agevole sembrerebbe infatti quella di accogliere entrambi i concetti e riconoscere che ogni movimento relativo si deve fondare sull’azione di una forza, ma che in alcuni casi, a causa dell’imperfezione espressiva delle percezioni, non siamo capaci di distinguere questa causa in base al fenomeno. Questa soluzione comporta però che si diano proprietà noumeniche inconoscibili, secondo una interpretazione della monadologia che sembra in contrasto con l’incessante polemica leibniziana contro le qualità occulte13. In particolare, nelle stesse pagine del carteggio con Clarke, Leibniz afferma quel celebre “principio di osservabilità” (come lo chiamò Cassirer) secondo cui «quando non vi è mutamento osservabile, non vi è affatto mutamento», che sembra escludere la possibilità di postulare forze in base ad azioni non osservabili14. In ogni caso sappiamo che Leibniz, anche in base al suo relativismo cinematico, sostenne l’equivalenza delle ipotesi astronomiche, e che il solo criterio per sostenere la verità dell’una rispetto all’altra consisterebbe nella maggiore «semplicità dell’ipotesi»15. 12 Quinto scritto a Clarke, § 53, CLC 149-150: «Non trovo nulla, nella Definizione VIII dei Principi matematici della natura, né nello Scolio alla definizione, che provi o possa provare la realtà dello spazio in sé. Nondimeno concedo che vi è differenza tra un movimento assoluto vero di un corpo e un semplice mutamento relativo della sua situazione in rapporto a un altro corpo. Quando infatti la causa immediata di un mutamento è nel corpo, esso è veramente in moto; e allora la situazione degli altri in rapporto a lui sarà mutata di conseguenza, benché la causa di tale mutamento non sia in loro». 13 Per un riepilogo sulla questione si veda GARBER, Leibniz. Physics and Philosophy, pp. 306-309. 14 Quinto scritto a Clarke, § 52; CLC 149. L’affermazione è rivolta contro il moto assoluto newtoniano, e invero non contiene un riferimento esplicito alla forza: «Si ribatte ora che la verità del moto è indipendente dall’osservazione, ma non è indipendente dall’osservabilità. Non vi è moto quando non vi è mutamento osservabile. E anzi, quando non vi è mutamento osservabile, non vi è affatto mutamento». Cassirer celebrò questo principio di osservabilità in Zur Einsteinschen Relativitätstheorie, considerandolo tra i precedenti teorici della teoria della relatività (CGW 10, pp. 30-31). 15 Si veda per es. la lettera a Huygens del 14 settembre 1694, GM II, 198-199. Un

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Per Kant, in primo luogo, il movimento (sebbene relativo) diviene la «determinazione fondamentale» della materia e la realtà dei concetti dinamici e meccanici, che viene stabilita in base ad esso, non trascende in nessun modo il piano dei fenomeni. Il movimento ha piuttosto una sua realtà positiva (il grado di velocità), che può essere composta con altre realtà dello stesso genere, come accade nei teoremi che introducono i concetti delle forze fondamentali. Sul piano fenomenologico, come abbiamo visto, Kant accoglie un nesso tra forza centrale e realtà effettiva (Wirklichkeit) del movimento e perciò distingue il moto reale, fondato nella forza, da quello puramente relativo, che si può attribuire indifferentemente all’uno o all’altro corpo. Tuttavia, nella cornice dell’Estetica trascendentale, queste conclusioni differiscono sia da quelle di Leibniz sia da quelle di Newton. Dalle prime, come da ogni teoria su un fondamento soprasensibile dei fenomeni, a causa dell’impossibilità di trascendere il piano dei fenomeni stessi; dalle seconde, come da ogni concezione “assolutistica”, perché il nesso tra forza e sostanza non esclude che anche il movimento reale sia relativo, come ogni proprietà nel fenomeno inclusa la stessa sostanza. Il punto decisivo è che nella prospettiva kantiana i rapporti cinematici sono proprietà collettive del sistema meccanico, cosa che Leibniz avrebbe considerato metafisicamente inconcepibile, e Newton avrebbe interpretato semmai come una prova dell’onnipresente azione delcollegamento della questione astronomica con quella più generale della fenomenologia del movimento si trova in un testo con cui Leibniz presentava a un sacerdote romano il Tentamen de motuum coelestium causis (1689), GM VI, 146: «Per capire poi più esattamente la cosa, bisogna sapere che il movimento si definisce in modo tale che implica qualcosa di rispettivo e che non si possono dare fenomeni in base a cui siano determinati in modo assoluto il moto o la quiete; infatti il movimento consiste nel mutamento di posizione o di luogo. E lo stesso luogo a sua volta implica qualcosa di relativo, anche secondo il pensiero di Aristotele, che lo definiva in base alla superficie dell’ambiente. Onde a rigore ogni sistema può essere difeso, così che neanche un angelo potrebbe determinare qualcosa di assoluto con certezza metafisica, perché la stessa condizione delle leggi del movimento consiste nel fatto che tutte le cose nei fenomeni avvengono nello stesso modo, né si può stabilire se e fino a che punto un dato corpo sia in uno stato di quiete o di movimento, se non disponendo di una ragione di maggiore esplicabilità; e questo è tanto vero che neppure la forza dell’agire costituisce un vero giudizio di movimento assoluto».

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lo «spirito sottilissimo». In conclusione, Kant ritiene che la fisica newtoniana, affermando la realtà delle forze centrali, abbia provato la certezza dell’ipotesi copernicana; sul piano della teoria della forza e della materia, tuttavia, egli postula una geometrizzazione della dinamica che nessuna teoria fisica era in grado di offrire. Di fatto, egli non approfondì in seguito i concetti meccanici di spazio e movimento, mentre si concentrò sul fondamento della materia e della forza. Per farlo, tentò di risolvere sul piano filosofico puro la questione della pienezza dello spazio.

10.2. Fenomenologia della percezione e problema del vuoto I teoremi della Fenomenologia si occupano esclusivamente del fenomeno del movimento: muovendo dal semplice contenuto della percezione, privo di determinazioni intellettuali, ne ricavano concetti d’esperienza. Oltre alle relazioni spaziali e temporali, il fenomeno contiene anche la sensazione, che ne costituisce l’aspetto materiale. Il grado positivo della sensazione è stato trattato nella Dinamica, secondo il concetto del riempimento dello spazio, e solo facendo astrazione da esso è stato possibile lo studio puramente quantitativo del movimento. Tuttavia, come abbiamo visto, la questione della diffusione della materia non è stata chiusa. Così − ricalcando l’ordine espositivo dell’Analitica, al cui termine veniva trattato il concetto del nulla – Kant aggiunge una trattazione dei diversi tipi di spazio vuoto, equivalente fisico del grado nullo. Abbiamo visto che Newton, contro la concezione della materia di Descartes, attribuiva all’impenetrabilità un fondamento puramente empirico e considerando fenomeni come la variabilità della densità, la coesione e il movimento delle comete ammetteva il vuoto come postulato della meccanica. Perciò Kant, negando il vuoto a livello fisiologico puro, non soltanto si allontana ancora una volta dalla fisica di Newton, ma affronta il compito di una nuova − e molto ardua − giustificazione filosofica di un’ipotesi fisica. Conformemente al piano architettonico, Kant tratta in primo luogo (MA 563) del concetto di vuoto qualche si presenta nella Foro653

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nomia. Questo corrisponde allo spazio assoluto, il quale si è però rivelato essere una semplice idea, che compare nel processo di costruzione dei moti foronomici e si considera esistente solo a causa di un’ingiustificata astrazione rispetto al processo potenzialmente infinito di questa costruzione. In corrispondenza con la Dinamica – e conformemente a una terminologia consueta – Kant distingue tre concetti di vuoto: il vuoto «mondano», che si divide a sua volta in vuoto «disseminato» nei corpi (quello che ne determina la porosità, e dunque serve a spiegarne la varia densità) e vuoto «concentrato», che divide i corpi tra di loro. Quest’ultimo coincide di fatto con il vuoto considerato dal punto di vista della Meccanica, in quanto serve a «ricavare la possibilità di un movimento libero da ogni ostacolo all’interno dello spazio cosmico», idealmente necessario per la tesi della legge di inerzia (cf. MA 564). Accanto a questi viene posto il vuoto «extramondano», che starebbe appunto al di fuori del mondo. Per mondo non va intesa qui la totalità materiale immersa in uno spazio infinito, come faceva per esempio More, ma la stessa totalità dello spazio: ad essa – in base all’assunzione della geometria euclidea – è vano voler porre un confine. Tanto nel caso del vuoto dinamico quanto in quello del vuoto meccanico Kant ricollega la discussione al problema della coesione dei corpi e dell’ipotesi dell’etere, contenuta nella Nota generale alla Dinamica. Il dinamismo ha chiarito che non è necessario ammettere il vuoto all’interno dei corpi, ma non ha dimostrato che è impossibile ammetterlo. L’ipotesi del vuoto non si può escludere in base al semplice principio di contraddizione, e servirebbe un fondamento fisico per escludere a priori la possibilità del vuoto: tale sarebbe «il fondamento della possibilità della coesione di una materia in generale, se solo [la] si comprendesse meglio» (MA 563). Come già nella Dinamica, Kant individua nel concetto dell’etere una ragione sufficiente per l’eliminazione di ogni concetto dinamico di vuoto. Questa ipotesi, scrive, ha «diverse ragioni a proprio favore» (MA 564). Se infatti si ammettesse che l’attrazione della coesione è soltanto apparente e consiste in realtà nella compressione esercitata dall’etere diffuso in tutto lo spazio (secondo una concezione molto diffusa), risulterebbe fisicamente impossibile ogni spa654

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zio vuoto. Un tale spazio, infatti, non opporrebbe alcuna resistenza alla penetrazione da parte dell’etere. Ammettendo l’ipotesi dell’etere, dunque, la fisica kantiana ripristinerebbe, per il caso della coesione, quel concetto di attrazione apparente che il meccanicismo rivolgeva contro il concetto di attrazione a distanza (MA 563564)16. Analogo è il caso del vuoto meccanico che si ammette tra i corpi per pensare un movimento libero di essi nel cosmo: esso non è impossibile dal punto di vista logico, e la sola cosa che si può provare è che non è necessario ammetterlo per spiegare i moti celesti, poiché «anche in spazi completamente riempiti, la resistenza può essere pensata piccola quanto si vuole» (MA 564). Ma tale vuoto verrebbe eliminato se solo si riuscisse a penetrare il «vero e proprio mistero naturale, difficilmente risolubile, del modo in cui la materia pone dei limiti alla sua propria forza espansiva», cioè ancora una volta risolvendo il problema della coesione, come accade con l’ipotesi dell’etere meccanico. Si tratta, è bene sottolinearlo, di un conflitto di ipotesi. Il nesso tra concetto dell’etere e problema del vuoto si chiarisce tenendo presente l’ipotesi alternativa concepita da Kant per spiegare la coesione, cioè quella di una vera e propria forza di coesione, capace di attrarre in superficie. Il conflitto tra i due modi di spiegare la coesione, prima di presentarsi nei Principi metafisici, attraversa, a fasi alterne, tutta la successione delle riflessioni fisiche precedenti17. Che la coesione sia una forza ipotetica e non essenziale, come si è visto, viene argomentato in base a un argomento empirico: essa muta al mutare degli stati di aggregazione. Il fatto che entrambe le ipotesi vengano menzionate, dunque, non è segno di una redazione affrettata, ma di un dilemma scientifico che Kant Esaminerò questa pagina al momento di trattare della teoria dell’etere (cap. 12). Cf. ADICKES, Kant als Naturforscher, II, p. 14 (sincretismo tra le due ipotesi nel De igne), p. 117 (dinamismo puro nello scritto sulle quantità negative del 1763), p. 118 (ritorno alla compressione dell’etere intorno alla metà degli anni ’70), p. 132 (vibrazioni dell’etere – forze vive – al posto della compressione, a fine anni ’80; in questa fase, peraltro, Kant pare di nuovo incerto tra le due ipotesi, come si vede proprio nei Principi metafisici). 16 17

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non riesce a risolvere, decidendo infine di presentarne semplicemente le alternative. Che però Kant inclini proprio nel 1786 a prediligere l’ipotesi dell’etere è degno di essere rimarcato, e pone una questione fondamentale relativamente alla sua filosofia. Infatti, era ben noto che Newton aveva avanzato l’ipotesi della forza di coesione e più in generale aveva presentato una teoria atomistica della materia, in cui ipotizzava anche una struttura “molecolare” dei diversi materiali e poneva forze agenti a piccole distanze. Questa congettura si basava su un esame fenomenologico dei passaggi di stato nei diversi materiali, e prevedeva altre conferme nei fenomeni chimici ed elettrici, presentandosi come alternativa al corpuscolarismo fittizio dei cartesiani. Nel complesso si può affermare che la filosofia naturale di fine ’700 decretava la maggiore fertilità dell’ipotesi newtoniana rispetto a quella cartesiana. Tra i difensori della concezione cartesiana vi era stato Leibniz, che aveva negato il vuoto non soltanto perché considerava l’azione a distanza una qualità occulta − tentandone una interpretazione vorticistica −, ma anche perché considerava il vuoto come una violazione del principio di ragion sufficiente. Tuttavia un argomento del genere non poteva valere nulla nel criticismo di Kant. La questione, dunque, è la seguente: poiché Kant non ammetteva più questo e analoghi principi metafisici, e stava tentando di realizzare una metafisica coerente con la fisica di Newton, per quale ragione egli dovette negare il vuoto fisico, e cacciarsi in quindici anni di tentativi di provare l’esistenza dell’etere − sia pure non più di un etere “cartesiano”? Una possibile spiegazione di questo presupposto, che chiaramente precede e orienta le riflessioni sulla fisica, deve essere cercata in sede filosofica. Possiamo formulare un’ipotesi plausibile considerando cosa accadrebbe se si ammettessero il vuoto e la forza di coesione. È un fatto che Kant non affermò di aver corretto Newton negando il vuoto (non era del resto, lo spazio newtoniano riempito con lo «spirito sottilissimo»?), mentre lo fece riguardo alla tesi del carattere essenziale della gravità. Fu questo il risultato più originale e prezioso che Kant ascriveva alla sua dinamica, fin dal 1756, poiché esso costituiva da sempre il basamento del suo progetto di una metaphysica cum geometria iuncta, capace di ren656

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dere salda la metafisica e certa la fisica. Ora, abbiamo visto che la dinamica del 1786 non ha potuto fornire la legge in base alla quale la materia pone dei limiti a se stessa. Questi limiti, dunque, potrebbero essere determinati dalla forza di coesione, che agirebbe in conflitto con la forza repulsiva. Tuttavia, anche se Kant non lo ammette mai a chiare lettere, è evidente che in questo caso il conflitto dinamico fondamentale opporrebbe forza repulsiva e forza coesiva, mentre l’attrazione rimarrebbe fuori dal gioco. Ma in base al «necessario» contributo di una forza attrattiva originaria Kant aveva fondato la possibilità stessa della materia, cioè della densità. Ammettendo dunque la forza di coesione il conflitto originario alla base dell’impenetrabilità si sarebbe forse potuto conservare (non ci sarebbe stato, allora, ritorno alle pure finzioni atomistiche), ma la prova a priori della gravitazione sarebbe risultata di troppo: in breve, l’intero edificio della fisica pura sarebbe crollato, proprio sul punto in cui essa si innesta sulla dottrina della fisica empirica più salda e più efficace sul piano metafisico-cosmologico. Negare la forza di coesione, e dunque affermare il pieno, diviene così una questione di “sopravvivenza” per la filosofia naturale del criticismo. A questo punto però la pressione dell’etere attratto non riguarda solo la spiegazione della coesione, ma nello stesso tempo la determinazione dei limiti della «forza espansiva». Il problema, allora, è che un’ipotesi fisica risulta necessaria per stabilire la teoria metafisica del conflitto. Forse possedendo già una prima stesura dei Principi metafisici, e comunque conoscendo bene il problema, Kant anticipò la critica del vuoto già nell’Analitica dei principi. Nel capitolo sulle Anticipazioni della percezione afferma che «dall’esperienza non si potrà mai trarre una prova dello spazio vuoto o di un tempo vuoto» (KrV A 172/B 214). Nega senz’altro che si possa dare una percezione immediata dell’assenza del reale, e aggiunge che, per quanto riguarda un’inferenza del vuoto, resta possibile ammettere infiniti gradi di realtà, fino al più piccolo: ma quest’ultima affermazione comporta la possibilità di negare il vuoto anche per quei fenomeni che sembrano recarne evidenza, non già la sua piena confutazione. L’esempio scelto è proprio il concetto di densità, con la «prova trascendentale» opposta alla «presunta necessità» della spiegazione 657

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meccanicista (in realtà fondata su un «presupposto metafisico»), prova che come abbiamo visto risulta nella possibilità, non già nella certezza, di una spiegazione dinamistica del grado di densità indipendente dal vuoto (KrV A 173-5/B 215-6). La questione viene ripresa nella trattazione delle categorie di relazione dove Kant cerca di negare il vuoto in base al principio di continuità18. Nel bilancio sul principio della necessità Kant elenca quattro proposizioni che hanno in comune il «non ammettere entro la sintesi empirica nulla che possa arrecare danno o impedimento all’intelletto e alla connessione continua di tutti i fenomeni, ossia all’unità dei suoi concetti» (KrV A 229/B 282). Nella presentazione di queste proposizioni si trova una strana asimmetria: due di esse corrispondono ai principi dinamici («Nulla accade per un cieco caso»; «Nessuna necessità nella natura è cieca, bensì condizionata e come tale intelligibile») e due ai principi matematici; queste ultime, però, vengono presentate entrambe come corollari del principio di continuità, che è stato introdotto discutendo la categoria di realtà; questo principio «ha vietato nella serie dei fenomeni (mutamenti) ogni salto (in mundo non datur saltus), ma anche ogni vuoto o lacuna fra due fenomeni nell’insieme di tutte le intuizioni empiriche nello spazio (non datur hiatus)» (A 228-9/B 281-2). Dunque il principio che Kant assegna alla quantità deriva dal principio della qualità: «Nell’esperienza non può rientrare nulla che provi un vacuum o che anche soltanto lo ammetta come parte della sintesi empirica». Ma dall’ammissione che le pure qualità e le pure quantità siano continue non sembra seguire senz’altro la negazione del vuoto. La continuità è stata presentata da Kant come la proprietà secondo cui un continuo non si compone di parti semplici, e non comporta di per sé l’assenza di intervalli di realtà19. La sua applicazione ai cambiamenti, però, comporterebbe che nel passaggio tra uno stato a e uno stato b «non si dia a l c u n a d i f f e r e n z a del reale nel fenomeno, così come non vi è lacuna differenza nella quantità dei tempi, che sia l a p i ù p i c c o l a p o s s i b i l e» e che «le differenze che intercorrono fra un grado e l’altro 18 19

KrV A 214/B 261; A 229/B 281. KrV A 169/B 211; A 209/B 254.

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sono tutte quante minori della differenza tra 0 e a» (A 209/B 254). Perciò l’affermazione secondo cui il vuoto violerebbe «la connessione continua dei fenomeni» viene rimandata in seguito alla legge di continuità. Ma tutto questo non comporta l’impossibilità di un passaggio al grado zero della realtà materiale. A dire il vero l’accenno di una confutazione trascendentale del vuoto compare – ma viene subito ritirato – in un passaggio della prova della terza analogia dell’esperienza (KrV 212/B 258-259). Qui l’interazione necessaria tra le sostanze (come fenomeni) viene presentata come condizione per connettere due sostanze coesistenti attraverso un «cammino della sintesi empirica». In base a una implicita identificazione tra isolamento dinamico – cioè assenza di interazione – e separazione nello spazio vuoto, il riempimento dello spazio diviene condizione dell’interazione. In conclusione, come se Kant avesse percepito oscuramente l’ambiguità nel ragionamento, la possibilità dello spazio vuoto, data la necessità dell’interazione, viene riaffermata. Tuttavia la confusione non è del tutto rimossa, poiché ci si aspetterebbe allora che l’interazione restasse indipendente da un riempimento continuo dello spazio, mentre Kant lascia la questione aperta: la comunanza dinamica può essere «mediata o immediata». Da qui, come vedremo, ripartiranno le ricerche di una prova trascendentale del pieno nell’Opus postumum. Si vede dunque, nel complesso, che Kant disponeva per ora di argomenti insufficienti. Lo stesso principio dell’esistenza comportava la possibilità di inferire mediatamente delle realtà; non era possibile, forse, inferire anche una privazione di realtà? Newton, insieme a tutti i fisici sperimentali, ricavava il vuoto proprio dalla nullità della resistenza meccanica. Kant stesso concluderà, nella nota alla prima Antinomia, che lo spazio vuoto nel mondo (vacuum mundanum) non contraddice i principi trascendentali20. La sola affermazione che risulta fondata – che Kant ha sempre accolto − è quella secondo cui, poiché la percezione della resistenza mecca20 KrV A 432-433/B 460-461: «Uno spazio dunque (sia esso pieno oppure vuoto) può certo essere delimitato dai fenomeni, ma i fenomeni non possono essere d e l i m i t a t i d a u n o s p a z i o v u o t o esterno ad essi».

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nica possiede un’intensità che può tendere a zero, nessuna esperienza permetterebbe di distinguere il vuoto vero e proprio dalla presenza di una materia di scarsissima densità. Ciò si accorderebbe con il punto di vista degli scienziati: per esempio Torricelli, discutendo il suo celebre esperimento sul vuoto, ammise di non poter distinguere tra «vacuo» e «roba sommamente rarefatta»21. Notoriamente, poi, Leibniz aveva sottolineato contro Clarke che la produzione meccanica del vuoto negli esperimenti di Guericke e Torricelli non escludeva che una materia come quella luminosa «o altre materie molto sottili» potessero attraversare le pareti dei contenitori22. Ma tutto questo non basta per affermare categoricamente e a priori la pienezza di tutto lo spazio in senso fisico – senza parlare dell’etere, le cui proprietà restano ancora tutte da definire. Il vuoto negato da Kant in sede filosofica è la negazione del reale della sensazione, un nihil privativum, «concetto della mancanza di un oggetto»23. La stessa teoria kantiana del fenomeno distingue la percezione dal grado di realtà, e dunque una mancanza di coscienza nella percezione può dar luogo alla percezione oscura di qualcosa, non senz’altro alla tesi che il non percepito non esista. L’annullamento della percezione, del resto, è stato ammesso in sede psicologica, dove corrisponde non già a un’assurda negazione dell’esperienza possibile, ma all’«estinzione» di quella individuale (MA 542; cf. KrV B 414). La stessa concezione generale delle forme dell’intuizione, guadagnata a fatica per mettere fine alle dispute metafisiche sullo spazio, avrebbe forse permesso a Kant di ammettere il vuoto, come puro intervallo spaziale, senza cacciarsi nelle dispute metafisiche sul rapporto tra spazio infinito e Dio che ne avevano caratterizzato l’introduzione in meccanica nel XVII secolo – almeno questo è quanto sembra emergere dalla concessione del vacuum mundanum. Questo vuoto non sarebbe infatti un ente 21 E. TORRICELLI, Lettera a Michelangelo Ricci dell’11 giugno 1644, in Opere, a cura di G. Loria-G. Bassura, vol. III, Faenza 1919, pp. 186-188. L’esperimento di Torricelli viene ricordato da Kant come caso esemplare del metodo sperimentale in KrV B XII. 22 Quinto scritto a Clarke, § 34; CLC, 137. 23 Sul concetto del nulla si veda KrV A 290/B 346.

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reale (tanto meno sarebbe Dio stesso), ma restando un ens imaginarium24 potrebbe darsi quale puro intervallo, e costituire legittimamente un elemento dell’esperienza, fermi restando i principi della meccanica e della fenomenologia del movimento. È significativo che, tuttavia, Kant non poté ammettere un tale esito, che evidentemente non distingueva – alla maniera di Leibniz − da un’ipostatizzazione empiricamente infondata delle pure relazioni nel fenomeno25. Si vede allora che l’unica soluzione per negare il vuoto, in base alle sue premesse, sarebbe stata una prova della sostanzialità di ogni parte dello spazio: solo la sostanza fisica, infatti, non si può annullare. Perciò Kant tentò infine di dare ragione di una certa ipostatizzazione dello spazio fenomenico, secondo i principi della Critica (riesaminando, in particolare, le condizioni dell’influsso) e dunque non con un ritorno fisico all’etere cartesiano, ma nemmeno con un salto metafisico allo spirito esteso di More: tentativo molto arduo, la cui storia dovrà essere fatta al momento di trattare dell’Opus postumum. Per ora è importante rilevare come nell’intera questione si sovrapponessero due diversi concetti di spazio, e che solo una accurata distinzione renderà possibile met24

Sull’ens imaginarium, di cui è esempio lo stesso spazio puro, si veda A 292/B

348. 25 Cf. la nota a piè di pagina alla prova dell’Antitesi, dove Kant accoglie la critica di Leibniz allo spazio assoluto newtoniano e afferma chiaramente che lo spazio puro – considerato astraendo dalle percezioni – è un puro ente di ragione (KrV A 429/B 457): «Lo spazio è semplicemente la forma dell’intuizione esterna (intuizione formale), ma non è un oggetto reale che possa essere intuito esternamente. Lo spazio – prima di tutte le cose che lo determinano (lo riempiono o lo delimitano), o che piuttosto forniscono una i n t u i z i o n e e m p i r i c a conforme alla sua forma – con il nome di spazio assoluto non è nient’altro che la semplice possibilità di fenomeni esterni, in quanto esistono in sé o in quanto possono ancora essere aggiunti a fenomeni dati. Quindi, l’intuizione empirica non è composta da fenomeni e dallo spazio (dalla percezione e dall’intuizione vuota). L’uno non è rispetto all’altro il correlatum della sintesi, ma è soltanto connesso con l’altro in una medesima intuizione empirica, come materia e forma di essa. Se si vuole separare uno di questi due elementi dall’altro (lo spazio da tutti i fenomeni), nasceranno diverse specie di determinazioni vuote dell’intuizione esterna, che comunque non saranno percezioni possibili. Per esempio, il movimento e la quiete del mondo in uno spazio vuoto infinito sono una determinazione del rapporto reciproco fra di loro: una determinazione, questa, che non può mai essere percepita e dunque non sarà altro che il predicato di un ente immaginario».

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tere ordine nella schiera degli argomenti trascendentali e fisici. La premessa di questa distinzione, ancora una volta, si trova nei Principi metafisici. Qui lo spazio puro, come forma geometrica, non può essere identificato con uno spazio reale o fisico. Una tale identificazione costituirebbe un’ipostatizzazione erronea come quella dei newtoniani, che comporterebbe sul piano foronomico la confusione di un oggetto di esperienza possibile con una pura idea. In effetti, per sottolineare che trattasi di metabasis eis allo genos, Kant fa l’importante commento che lo spazio puro non può essere né pieno, né vuoto (MA 563). Fatta salva questa distinzione, nel Passaggio, Kant tenterà di provare che invece lo spazio fisico, come sostrato di un nuovo schematismo dinamico e non come oggetto particolare dell’esperienza, deve essere considerato pieno, e così riterrà di aver risolto la questione. Ma questo piano intermedio, per ora, non è ancora intravisto, e Kant resta a metà tra una impossibile prova relativa allo spazio puro (che sarebbe metafisico-dogmatica) e un’evidenza empirica, che non sarebbe apodittica. Nell’ultima pagina della Nota generale alla Fenomenologia – che si può considerare uno “scolio generale” dei Principi metafisici – Kant non solo non ammette il problema aperto del vuoto, ma, giocando sul nesso tra vuoto e mancanza di percezione, decide di elevare ulteriormente il registro retorico, identificando il vuoto con il soprasensibile e l’inconoscibile (MA 564-5): La dottrina metafisica dei corpi termina dunque con il vuoto, e perciò con l’incomprensibile; in questo condivide il destino di tutti i tentativi in cui la ragione, risalendo ai principi, aspira a cogliere i fondamenti ultimi delle cose: infatti, dato che per sua natura la ragione non può comprendere qualcosa se non in quanto questo qualcosa è determinato secondo date condizioni, di conseguenza non può fermarsi al condizionato, né mettersi in condizione di cogliere l’incondizionato, quando il desiderio di sapere la esorta a cogliere la totalità assoluta di ogni condizione, non le resta altro che ritirarsi dagli oggetti in se stessa, per indagare e determinare, invece dei confini ultimi delle cose, i confini ultimi della sua propria facoltà rimessa a se stessa.

Purtroppo queste rimasero le ultime parole pubblicate da Kant 662

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sulla questione del vuoto. Ma va ad onore del filosofo che egli non poté restarne soddisfatto. Come si vede dagli scritti e dalle riflessioni che continuano ininterrotte dallo stesso 1786, Kant continua a cercare conferma della necessità di uno spazio pieno nella fisica più recente, studiandovi le teorie dell’etere e del calorico. Per questa via, nella seconda metà degli anni ’90, ritorna al problema filosofico della possibilità della fisica, che era implicito nella questione del vuoto. Si decide, così, a compiere un salto paragonabile a quello che, nella fenomenologia del movimento, ha riguardato dieci anni prima l’ipotesi copernicana: l’etere, elemento fondamentale della nuova scienza del calore e della chimica di Lavoisier, viene considerato ora un’ipotesi «necessaria», in base a nuovi argomenti trascendentali. Questo nuovo sforzo di riflessione, per quanto iniziato da un problema della fisica pura del 1786, non è facilmente accordabile con la teoria dei Principi metafisici, e il Passaggio alla fisica rende certo necessaria una nuova sintesi, che Kant non realizzerà mai. Ma anche dal punto di vista della questione del vuoto l’Opus postumum testimonia della connessione essenziale che unisce riflessione trascendentale e riflessione fisica nella filosofia naturale del criticismo, al di là delle distinzioni architettoniche. Nello stesso tempo queste tarde ricerche determinano una svolta nella riflessione sulla fisica sperimentale, che è stata seguita con attenzione come fonte indispensabile della conoscenza, ma che infine, se deve essere resa veramente scientifica, non si può più considerare semplicemente empirica.

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Parte Terza Spazio, materia e forza nell’Opus postumum. Dalla fisica alla filosofia trascendentale «Der Schematismus der Verstandesbegriffe ist [...] ein Augenblick in welchem Metaphysik und Physik beide Ufer zugleich berühren Stix interfusa» [KgS XXII, 487]

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Capitolo 11 Il Passaggio dalla metafisica alla fisica: itinerario e problema dell’Opus postumum

Le riflessioni di Kant sulla fisica, dopo la pubblicazione dei Principi metafisici, proseguono senza soluzione di continuità. Seguendo l’itinerario del suo pensiero su questioni fisiche come la coesione, il calore o la luce, si ha anzi l’impressione che l’opera pubblicata nel 1786 non costituisca altro che un’“istantanea”, la fissazione di un momento di passaggio all’interno di un processo ininterrotto, scandito da ripensamenti e caratterizzato da un puntuale aggiornamento scientifico1. In effetti, come si è visto, la genesi dell’opera e la riproposizione al suo interno di dottrine già presentate in diversi contesti di fisica e metafisica dipendono soprattutto dall’idea di una fisica pura formulata nel contesto della filosofia critica. Quel che fornisce un nuovo significato a queste teorie, e ne incoraggia la rielaborazione, è il doppio filo conduttore costituito dall’analisi del concetto di materia secondo le categorie e dal riferimento alla rappresentazione del movimento. Secondo questo criterio alcune di esse, come la teoria dinamica della materia e le leggi generali della meccanica, vengono dotate di una giustificazione a priori, mentre altre rimangono allo stato di semplici ipotesi empiriche e come tali vengono introdotte con estrema prudenza, o ad1 Cf. TUSCHLING, Metaphysische und transzendentale Dynamik, p. 32. Sull’evoluzione delle teorie fisiche kantiane l’esposizione più esaustiva resta quella di ADICKES, Kant als Naturforscher, I, sez. II (teoria dinamica della materia) e II, sez. IV (teoria dell’etere), cui fanno da pendant le note storico-critiche al vol. XIV dell’Akademie Ausgabe, che contiene le Reflexionen zur Mathematik, Physik und Chemie.

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dirittura sottaciute. Un discorso analogo può valere per l’ultima fase delle riflessioni kantiane sul rapporto tra fisica e filosofia, ritrovate insieme in un gruppo di dodici fascicoli e pubblicate integralmente – dopo una lunga e intricata vicenda editoriale – come volumi 21 (1936) e 22 (1938) dell’Akademie Ausgabe, sotto il titolo di Opus postumum2. Anche in questo caso si può aver prova dell’impegno di organizzazione guidato dall’idea di una nuova opera, che determina il passaggio da riflessioni sciolte ad abbozzi preparatori, anche se l’opera resta incompiuta. Così la stessa evoluzione delle dottrine fisiche kantiane va considerata anche in questa fase alla luce del significato che esse assumono per l’idea di una nuova opera, e dunque nel contesto architettonico del criticismo in cui se ne definisce il progetto. A rigore, come osservò già il primo espositore di questi inediti, è inopportuno parlare di una nuova opera. Non solo perché l’ultimissima fase delle riflessioni kantiane – a partire dal 1800 circa – sembra dedicata piuttosto a schemi di un sistema della filosofia («sistema della filosofia trascendentale in tre sezioni», corrispondenti a «Dio, il mondo [...] e il soggetto come ente mondano razio2 I manoscritti erano parzialmente comparsi già negli anni 1882-84 sulla «Altpreussische Monatschrift», a cura di R. Reicke e E. Arnoldt. In seguito citerò dai volumi dell’Accademia, il cui testo fu dapprima preparato da Adickes, poi rivisto ancora da G. Lehmann e A. Buchenau. Indico quando è utile le segnature apposte da Kant ai fogli o la numerazione canonica dei Lose Blätter (LB). Va sottolineato che l’ordine con cui i manoscritti sono stampati è quello con cui essi furono trovati tra le carte di Kant, e non corrisponde all’ordine cronologico della loro composizione. La datazione progressiva elaborata da E. ADICKES, Kants Opus postumum dargestellt und beurteilt, Berlin 1920, che viene qui complessivamente presupposta, venne facilitata da diverse indicazioni contenute sui supporti scrittòri (lettere, abbozzi per altre opere, ecc.) e per il resto sviluppata in base ai consueti criteri formali e materiali (grafia, carta, inchiostro). La si trova nella tavola in coda a KgS XXII. Sulla storia del testo e dell’edizione si veda l’Einleitung del curatore G. Lehmann all’edizione dell’Accademia, XXII, 751-89. Un resoconto che include la stessa storia dell’edizione di Lehmann si trova nell’introduzione di V. Mathieu alla sua traduzione parziale italiana, KANT, Opus postumum, Roma/Bari 1982, pp. 1-12. Si veda infine l’introduzione di E. Förster alla sua traduzione inglese, notevolmente più ricca di informazioni della precedente (KANT, Opus postumum, Cambridge 1993, in part. pp. xvi-xxix; d’ora in poi citato come FÖRSTER, Opus postumum). Le traduzioni sono mie, o, quando disponibili, riprese da Mathieu con diverse modifiche.

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nale»3), ma soprattutto perché, nel corso di una evoluzione durata almeno otto anni, le riflessioni kantiane non acquistano in organicità e attraversano una continua evoluzione tematica, scandita da diverse fasi di sistemazione teorica. Dunque, piuttosto che distinguere una o più opere, o addirittura, come fece Vittorio Mathieu, ricostruire un indice approssimativo dell’opera incompiuta, sembra essenziale ricostruire le ragioni di questa evoluzione e del passaggio tra i diversi tentativi, che restano frammentari4. Kant stesso, che parlò pubblicamente del suo nuovo lavoro, pone la questione dell’unità dell’opera e della sua collocazione architettonica, introducendo, a cominciare dai primissimi fogli di datazione incerta, il titolo di «Passaggio dai principi metafisici della scienza della natura alla fisica»5. Sotto questo titolo le riflessioni 3 KgS XXI, 27. Schemi come questo si ritrovano in tutto il primo Konvolut, datato da Adickes tra dicembre 1800 e il febbraio 1803 (copertina). La tesi delle due opere venne avanzata nella prima ampia esposizione del manoscritto ad opera di A. KRAUSE, Das Nachgelassene Werk I. Kants: Vom Übergange von den metaphysichen Anfangsgründe der Naturwissenschaft zur Physik, mit Belegen popular-wissenschaftlich dargestellt, Lahr 1888, ed accolta già da Hans Vaihinger, nella recensione al lavoro di Krause comparsa sullo «Archiv für Geschichte der Philosophie» nel 1891. 4 MATHIEU ebbe il merito di attirare l’attenzione sul valore e sui dettagli argomentativi dell’Opus postumum nel suo libro La filosofia trascendentale e l’«Opus postumum» di Kant, Torino 1958. Ne sostenne l’interesse, insistendo sull’unità problematica delle riflessioni anche molto tarde, contro l’opinione di chi vi vedesse – secondo l’esempio di Kuno Fischer – l’impresa chimerica di un Kant annebbiato dalla vecchiaia. Lo stesso indice proposto da Mathieu (ripresentato da ultimo in ID., L’opus postumum di Kant, pp. 83-90) si presenta come uno strumento orientativo, da non prendersi alla lettera ma nel senso di una mappatura tematica del materiale per la nuova opera. Nonostante le cautele, comunque, la tesi “organica” di Mathieu possiede aspetti disorientanti. Per esempio, concentrandosi su una determinata fase delle riflessioni kantiane, individua nelle prove dell’esistenza dell’etere il luogo di un passaggio, all’interno di un indice programmatico, dal sistema degli elementi al sistema del mondo. Anche la considerazione delle ultime riflessioni sul sistema della filosofia trascendentale come «appendice» dell’opera è incerta e in definitiva inutile. 5 La prima comparsa di questo titolo apre il cosiddetto Oktavenentwurf, collocato da Adickes nell’anno 1796 (KgS XXI, 373-412). Il titolo compare però, sebbene in forma lievemente diversa, già nei primi fogli sciolti, datati da Adickes tra 1786 e 1796, dunque tra la pubblicazione dei Principi metafisici e la redazione dell’Oktavenentwurf: v. LB 36, 2 (XXI 463), che si apre col titolo «Passaggio della met[afisica] della nat[ura] alla fisica», e LB 22 (XXI 465) che porta il titolo «Passaggio [Überschritt] dalla metafisica della natura corporea alla fisica». Questi fogli contengono comunque discussio-

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kantiane procedono almeno fino ai fogli datati a partire dal dicembre 1800 (I Konvolut), da quando, cioè, il “passaggio” si estende a una revisione dei concetti della filosofia trascendentale come spazio e tempo6. Dunque, stando alla datazione di Adickes, si può individuare un periodo di lavoro più intenso che va dal 1796 alla fine del 1800, e al cui interno si trova il momento di massima prossimità a un testo destinato alla pubblicazione, quando Kant fa trascrivere da un copista parti dei fogli con la segnatura ‘Übergang’ 9, 10, 11 (circa maggio-agosto 1799) che contengono alcune sezioni introduttive e la prova dell’esistenza del materiale cosmico. Nella serie dei manoscritti le tematiche affrontate da Kant si concentrano di volta in volta su temi differenti, di cui conviene subito delineare la successione. Una prima fase relativamente omogenea può includere il periodo 1786-1796, che va dai primi fogli sciolti, di poco successivi alla pubblicazione dei Principi metafisici – e omogenei per temi e metodi alle precedenti Reflexionen di argomento fisico – al gruppo di fogli in ottavo noto come Oktavenentwurf. Essa presenta trattazioni di proprietà o processi fisici quali coesione, densità, solidificazione, soluzione, e anche, negli anni ’90, i primi tentativi organici di classificazione delle proprietà della materia. L’oggetto di queste riflessioni e classificazioni sono soprattutto le proprietà della materia che Kant trattava nella Nota generale alla Dinamica dei Principi metafisici. Il “passaggio” si presenta dunque come una specificazione della fisica pura, in cui alla trattazione della materia in genere segue quella della materia fisica vera e propria: «Dalle proprietà mediante cui è possibile la materia in generale a quelle che le conferiscono una determinata ni sul movimento dei fluidi e sugli stati di aggregazione della materia ancora prive di organizzazione categoriale. Per quanto la loro datazione sia incerta – e occorrerebbero in proposito nuove ricerche – essi testimoniano dunque che la problematica del “Passaggio” precede la composizione di un “sistema elementare delle forze” (che ha inizio intorno al 1796). 6 Gli ultimi materiali dell’OP sono redatti quasi tutti entro la fine del 1801 e solo il fascicolo I è da collocarsi negli anni 1802-3, dunque nel periodo in cui, secondo la testimonianza di Hasse e Wasianski, le facoltà intellettive kantiane subirono effettivamente un deterioramento incapacitante. Cf. FÖRSTER, Opus postumum, p. XXVIII.

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connessione (modificabile da altre forze naturali) delle parti che hanno coesione reciproca [zusammenhängen]: 1) densità. 2) coesione 3) mobilità o immobilità comparativa» (KgS XXI, 373). In questa fase si possono riscontrare diverse novità rispetto alle dottrine fisiche accennate nei Principi metafisici, tutte già concentrate intorno a una nuova e più ampia funzione svolta dal concetto di etere, o meglio – è bene chiarirlo subito – da diversi concetti di un materiale universalmente diffuso, che viene chiamato di solito Wärmestoff, e che svolge un ruolo in diverse congetture fisiche. L’etere viene considerato da Kant un’ipotesi privilegiata – se non «inevitabilmente necessaria» – per spiegare ora la densità, ora la coesione, ora la variazione degli stati di aggregazione, mediante azioni diverse quali il suo legame chimico, i suoi urti, le sue vibrazioni. Viene introdotta poi una nuova dottrina dell’attrazione e della repulsione, volta a superare le difficoltà di quella della Dinamica: gli urti dell’etere, diffuso in tutto lo spazio, vengono posti quali cause di un’attrazione a contatto, responsabile della coesione, mentre al calorico (talvolta distinto dall’etere meccanico, in quanto materia particolare [XXI, 378], talvolta identificato con esso [XXI, 381]) viene attribuita una repulsione penetrativa7. Un passaggio decisivo si esprime nel Loses Blatt 6 (XXI, 47577), dove Kant discute l’esigenza di un «passaggio», segnalando lo «iato» tra principi metafisici e fisica e introducendo l’idea di «concetti intermedi» (Mittelbegriffe) per colmarlo. Questi concetti vengono identificati con le «forze motrici», che considerate rispetto ai loro «rapporti reciproci» possono essere classificate a 7 Un bilancio di questa nuova dottrina si trova in KgS XXII, 387. Tra le innovazioni rinvenute da Förster in questa fase vi è anche un nuovo concetto dinamico della quantità di materia, che si contrapporrebbe a quello meccanico e si fonderebbe sulla pesatura (Opus postumum, pp. xxxi-xxxii). Ma questa innovazione, a ben vedere, non sussiste: in primo luogo, Kant parla di una stima anche «intensiva» della quantità di materia, riferendosi però alla consueta possibilità che materie di pari volume, in quanto dotate di diverse densità, posseggano anche una quantità di materia diversa (XXI, 447). Inoltre, anche la stima della Meccanica si fondava, in ultima analisi, sulla gravitazione (MA 541). L’omologia di fondo tra i due procedimenti è ribadita anche qui (XXI, 450). Peraltro la discussione della pesatura, come vedremo, suggerisce un argomento per ricavare l’etere come condizione a priori dell’aggregazione fisica.

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priori e completamente. Considerando la novità di contenuti di questo foglio, alcuni interpreti hanno proposto di correggere la datazione di Adickes, che lo colloca immediatamente prima dell’Oktavenentwurf, assimilandolo ai fogli 3/4, 5, 7 (agosto-settembre 1798)8. I fogli successivi all’Oktavenentwurf (‘A−C’, ‘α−ε’, ‘a−c’, ‘Nr.1− Nr. 3η’, ‘I’, di datazione compresa tra luglio 1797 e ottobre 1798) contengono numerosi tentativi di classificazione delle forze, sviluppati secondo il filo conduttore delle categorie e ordinati secondo paragrafi, ma continuamente ricominciati dall’inizio (la categoria della modalità non viene mai raggiunta). Contengono anche numerosi abbozzi di Introduzione e Prefazione al passaggio, che stando alla datazione di Adickes sarebbero anche i primi. I tentativi di classificazione prendono successivamente il nome di un Sistema elementare delle forze motrici (‘Elem. Syst. 1-7’, ‘Farrago 1-4’, ‘A, B Übergang’, ‘A Elem. Syst. 1-6’, da ottobre 1798 a maggio 1799). Nel corso dei diversi tentativi di riscrittura, sempre guidati dal filo conduttore categoriale, l’attenzione si concentra su un numero minore di proprietà fisiche, rispetto alle più disparate indagini fisiche dei fogli precedenti. Nel frattempo Kant manifesta una sempre più marcata consapevolezza metodologica di stare elaborando una nuova dottrina fondata sulla posizione a priori dell’etere come materia imponderabile diffusa in tutto lo spazio9. Il transito da quella che inizialmente si presenta come una tavola dei concetti dinamici dalla funzione strettamente euristica a una nuova probleTUSCHLING, Metaphysische und transzendentale Dynamik, pp. 91 n., 125-8; FÖROpus postumum, p. 262-263, nota 30. Förster, che si basa su una visione diretta del manoscritto, insiste su questa datazione perché in questo foglio individua la presa di coscienza kantiana del problema dello iato, la quale viene dichiarata nelle lettere dello stesso 1798 di cui parleremo tra breve. Il suo argomento per la nuova datazione del manoscritto, fondato su una somiglianza della scrittura con quella dei Lose Blätter del 1798, non ha in sé una grande forza probativa, tanto più che si tratta di uno scarto di due anni rispetto alla datazione di Adickes, e che Förster riconosce la somiglianza della scrittura anche con quella del gruppo individuato da Adickes. In conclusione per Förster le due datazioni sarebbero ugualmente plausibili, ma la sua è preferibile per ragioni contenutistiche. 9 Si veda per es. KgS XXII, 197. 8

STER,

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matica trascendentale viene espresso esemplarmente da una formula: «principi regolativi che sono al tempo stesso costitutivi»10. Ma questo passaggio dalla trattazione sistematica delle questioni fisiche alla loro fondazione trascendentale si conclude con le cosiddette “prove dell’esistenza dell’etere” esposte nei fogli ‘Übergang 1-14’ (maggio-agosto 1799), il cui contenuto è già in parte anticipato nei fogli precedenti, ma che diviene ora il tema centrale11. Kant insiste lungamente sulla «stranezza» e «unicità» di queste prove, che si basano su un’argomentazione di tipo trascendentale: elaborando la vecchia tesi dell’impossibilità di percepire il vuoto introduce il concetto di un materiale dimostrabile a priori, assimilato a uno «spazio ipostatizzato», che identifica con la «base [Basis] di tutte le forze motrici della natura». Secondo alcune annotazioni contenute in questi fogli la prova dell’esistenza dell’etere avrebbe dovuto mediare il passaggio dal Sistema elementare delle forze motrici a un Sistema del mondo. Con quest’ultimo titolo – identico a quello del terzo libro dei Principia newtoniani – Kant indicava probabilmente una presentazione complessiva delle conoscenze fisiche che non intendeva realizzare di persona. Le successive riflessioni kantiane (‘A-Z’, ‘AA’, ‘BB’, agosto 1799-aprile 1800), invece, si concentrano su una nuova interrogazione relativa alla possibilità della fisica, incentrata sulla considerazione dell’attività sintetica del soggetto e della sua «autoposizione» nello spazio e nel tempo. Le riflessioni sull’autoposizione e sulla «produzione» di spazio e tempo si prolungano nel VII Konvolut (‘Beylage 1-8’ e ‘Beylage V’, aprile-dicembre 1800), dove Kant – tenendo presenti gli sviluppi contemporanei dell’idealismo – allarga ulteriormente il campo delle dottrine trattate, tornando sul concetto di cosa in sé e trattando dell’autoposizione del soggetto morale e dei postulati della ragione pratica, come l’idea di Dio. Nell’ultimo fascicolo (Konvolut I, dicembre 1800-febbraio 1803), in cui pure ricompare il titolo del «passaggio», Kant scrive numePer es. ‘B Übergang’, KgS XXII, 241. KgS XXI, 206-247; 535-612; 512-520. Per affinità formale e tematica Adickes include in questo gruppo anche il foglio n. 10 del fascicolo XII, non segnato da Kant (XXII, 609-615). 10 11

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rosi, molto scarni abbozzi in cui compare (in diverse versioni) il titolo: «Il punto di vista più alto della filosofia trascendentale nel sistema delle idee: Dio, il Mondo, e l’uomo nel mondo, che limita se stesso mediante leggi del dovere». È probabilmente questo, non quello precedente, il progetto di cui Kant – secondo la testimonianza dei primi biografi − continuò a parlare con entusiasmo nei suoi ultimissimi anni. Il riferimento a un amanuense che dovrebbe occuparsi di copiare alcune sezioni, in ogni caso, contrasta con il carattere molto frammentario di queste annotazioni, nelle quali la tematica della fisica in senso stretto è quasi del tutto assente. Ora, a prescindere dalle discussioni sull’unità dell’opera, qual è la nuova questio iuris per cui Kant progetta l’estensione della filosofia naturale? Solo mediante un chiarimento sulla necessità di questa nuova indagine filosofica i materiali dell’Opus postumum possono acquisire un interesse, nonostante la loro frammentarietà12. Individuare le ragioni del Passaggio, considerato il riferimento architettonico indicato dallo stesso Kant, deve avvenire in primo luogo considerando il rapporto tra l’Opus postumum e le opere kantiane immediatamente precedenti in cui viene toccata la questione della fisica come scienza, e cioè i Principi metafisici e la terza Critica. Tratteggiando il mio punto di vista interpretativo, nel § 3.4, ho sostenuto l’importanza che la fisica pura doveva assumere per realizzare l’esibizione dei concetti della filosofia trascendentale. Trattando dei Principi metafisici, in seguito, abbiamo di volta in volta incontrato problemi irrisolti, che dunque pregiudicavano l’intera consistenza della filosofia della natura. Gran parte delle ricerche dell’Opus postumum si possono considerare tentativi di risolvere quei problemi, ora con aggiunte, ora per vie radicalmente alternative come l’elaborazione di un nuovo concetto di ma12 K. FISCHER, Geschichte der neueren Philosophie, Mannheim 1860, vol. 3, p. 83, prima ancora di consultare il nuovo manoscritto, negò che vi fosse l’esigenza di un passaggio dalla metafisica alla fisica, in quanto nel sistema kantiano non vi sarebbe stata nessuna lacuna da colmare, e avanzò la tesi della «decrepitezza» di Kant. Anche Adickes che pure si occupò del testo per molti anni e ne pose in rilievo con un lavoro titanico i molteplici riferimenti scientifici, considerava l’impresa kantiana largamente illusoria e priva di originalità. Si veda il bilancio in Kant als Naturforscher, II, pp. 176, 203.

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teria. Prima di esaminare questi nuovi sviluppi occorre però sostare brevemente sulla questione architettonica posta dal nuovo lavoro, considerando l’evoluzione del pensiero kantiano sull’architettura del sistema dalla genesi del Passaggio alla trasformazione dell’etere in materia dimostrabile a priori nel 1799. Con questa svolta trascendentale, infatti, l’indagine particolare sulla fisica come scienza empirica si estende all’intero sistema della filosofia teoretica, come infine riconosce lo stesso Kant. La questione fondamentale relativa alla genesi dell’Opus postumum consiste nello stabilire se l’idea del Passaggio sorgesse come semplice prolungamento architettonico dell’impresa filosofia kantiana, presupponendo la validità dei risultati precedentemente acquisiti, o se la sua esigenza non derivasse piuttosto da un’autocritica kantiana rispetto alle opere precedenti e dunque comportasse una decisiva cesura rispetto ad esse. L’alternativa non deve essere necessariamente risolta in modo unilaterale: gli stessi Principi metafisici, come si è visto, si iscrivono in un preciso schema architettonico, ma nella loro concreta realizzazione comportano l’emergenza di nuovi problemi e addirittura, con le loro connessioni argomentative, tendono a rompere le distinzioni architettoniche, ora rimettendo in questione i principi trascendentali, ora chiamando in causa ipotesi fisiche. Il caso dell’Opus postumum è ancora una volta analogo, benché si presenti più confuso: mai, nel corso delle riflessioni kantiane, viene apertamente sconfessata una delle opere precedenti, e anche quando vengono discusse, con nuovi esiti, dottrine precedenti come quella dell’etere e quella dello spazio, l’impressione è che Kant non rinunci a collocare le nuove ricerche nell’ambito del vecchio edificio sistematico, indispensabile, fin dalla formulazione del titolo, a individuare il loro contenuto filosofico. Del resto, come è stato messo più volte in evidenza, nelle opere precedenti Kant aveva spesso già individuato i problemi dell’Opus postumum, rimandandoli però all’ufficio di una «fisica empirica». Kant parla dello «iato», o «lacuna» (Lücke), nel sistema in due lettere del 1798, a Christian Garve e a Johann Kiesewetter13. In ba13

Rispettivamente del 21 settembre 1798 (KgS XII, 256-257) e 19 ottobre 1798

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se a queste fonti, e alla sua datazione del Loses Blatt 6, Förster ha sostenuto che Passaggio e “iato nel sistema” non si riferirebbero a un identico problema: il progetto di un Passaggio, concepito ai tempi della terza Critica in base all’idea di un sistema delle leggi empiriche, avrebbe acquisito un nuovo e diverso rilievo trascendentale dal momento in cui Kant si sarebbe reso conto che senza la costruzione del concetto di corpo, che la dinamica dei Principi metafisici non aveva portato a termine con successo, non sarebbe stato realizzato il compito di mostrare la realtà oggettiva delle categorie14. Si può subito osservare che la testimonianza delle lettere pone un termine ante quem alla scoperta dello «iato», ma non stabilisce che Kant lo avesse appena scoperto nel 1798. In ogni caso, poiché a mio avviso Förster (sviluppando alcune ipotesi di Tuschling) ha individuato correttamente l’ambito della nuova problematica trascendentale, collegandola con i Principi metafisici prima e piuttosto che con la Critica della facoltà di giudizio, ma ne ha un poco esagerato il significato retrospettivo per il sistema della filosofia naturale, converrà tenere presente e discutere prima di tutto questa sua tesi. Per valutare la tesi di Förster occorre accennare al rapporto tra la totalità dei testi dell’Opus postumum e il progetto del Passaggio, che ne costituisce per così dire la ramificazione maggiore, ma non l’unica. Il rapporto del Passaggio con i Principi metafisici viene affrontato numerose volte da Kant nei suoi abbozzi di Prefazione15. Alla luce di questi passi, retrospettivamente, i primi fogli dell’O(XII, 258-259). Nella prima, dopo aver lamentato la sua debolezza, Kant scrive: «Il compito di cui mi sto occupando riguarda il “Passaggio dai principi metafisici della scienza della natura alla fisica [“Übergang von den metaphys. Anf. Gr. d. N. W. zur Physik”]. Deve essere risolto, perché altrimenti ci sarebbe uno iato [Lücke] nel sistema della filosofia critica». Nella seconda introduce un nuovo lavoro con cui pensa «di concludere il suo compito [Geschäft] critico e di riempire un rimanente iato; ovvero “il Passaggio dai pr. met. della sc. d. nat. alla fisica”, in quanto parte propria della philosophia naturalis, che nel sistema non può mancare». Per le testimonianze dei primi biografi v. cap. 1, nota 5. 14 Questa tesi di FÖRSTER si trova espressa per la prima volta nell’articolo Is there ‘a Gap’ in Kant’s Critical System?, in «Journal of the History of Philosophy» 25 (1987), pp. 533-555. Il contenuto di questo articolo è confluito e ampliato in ID., Kant’s Final Synthesis, pp. 48-74. 15 Si veda per es. KgS XXI, 402-3, XXI, 407 (Oktavenentwurf).

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pus postumum si possono considerare come primi tentativi di rielaborazione di quanto Kant aveva scritto nella Nota generale alla Dinamica, precedenti la definizione del nuovo passaggio architettonico. Questa rielaborazione sorge da diverse questioni aperte, su cui di volta in volta hanno insistito gli interpreti più recenti. In primo luogo, la Dinamica dei Principi metafisici non sarebbe riuscita a ricavare a priori la realtà oggettiva delle forze motrici, o almeno – come si è sostenuto qui – avrebbe incontrato delle difficoltà per stabilire l’esibizione del conflitto. Di certo, poi, Kant non ha ottenuto una costruzione della materia in quanto dotata di specifiche densità che identificano i diversi materiali (Stoffe) in natura, oltre che di coesione e stato di aggregazione, ma per spiegare queste proprietà ha fatto ricorso a ipotesi meccaniche che mettono a repentaglio il primato del dinamismo sul meccanicismo. Negli anni successivi alla pubblicazione dei Principi metafisici egli si sarebbe dunque reso conto, sollecitato da alcune recensioni critiche alla sua opera e nello stesso tempo da nuove letture scientifiche, che la stessa dinamica a priori – fondata sulla deduzione delle densità dal conflitto delle due forze attrattiva e repulsiva – incorreva in difficoltà che divenivano evidenti proprio al momento di collegarla con le suddette proprietà fisiche16. Di fatto queste difficoltà venSulla prima ricezione si vedano i riferimenti nel cap. 3, nota 122 e anche FÖRKant’s Final Synthesis, pp. 33-45. Sul problema della densità si veda la lettera a Beck del 16 (17) ottobre 1792 commentata nel § 8.3 C. TUSCHLING, Metaphysische und transzendentale Dynamik, attribuisce particolare importanza, per la posizione dei problemi della nuova opera, alle letture scientifiche di Kant negli anni a cominciare dal 1786. La tesi conclusiva è che l’Opus postumum elaborerebbe una «nuova teoria della materia», alternativa a quella dei Principi metafisici; quest’ultima, infatti, si fonderebbe sulla rappresentazione di un punto materiale come luogo d’origine di una forza, e dunque conterrebbe una contraddizione rispetto alla continuità della materia (pp. 57ss.). Inoltre la stessa dimostrazione del Teorema 1, con cui Kant introduce la forza repulsiva originaria, presupporrebbe la rappresentazione discreta di un corpo, dunque di un determinato stato della materia che Kant non riuscirebbe a dedurre (p. 100). Questi difetti risalirebbero al fatto che Kant, presupponendo già nel concetto di impenetrabilità il risultato da ottenere (p. 103), avrebbe edificato l’intera fisica pura basandosi sulla foronomia, e perciò non avrebbe potuto realizzare il salto logico al concetto di forza (p. 105), che nell’Opus postumum viene infatti realizzato non mediante la matematica ma attraverso una nuova argomentazione trascendentale. In proposito, le affermazioni kantiane sul metodo matematico nella fisica, contenute nell’Opus po16

STER,

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gono affrontate, a cominciare dai primi fogli sciolti dell’Opus postumum, mediante il ricorso al concetto di etere, così come era accaduto già in riflessioni di molto precedenti. La questione della possibilità della fisica, tuttavia, assume un nuovo rilievo filosofico alla luce della terza Critica e della questione trascendentale di un sistema delle leggi empiriche che viene qui posta17. Nella terza Critica si tratta solamente del principio trascendentale della facoltà di giudizio nel suo uso riflettente, che stabilisce la possibilità di realizzare un tale sistema, ma esso non viene nemmeno abbozzato. Alla luce di queste premesse, che Kant non smentisce mai esplicitamente, si ottiene già in generale il luogo problematico del Passaggio: realizzare lo schema razionale di un sistema delle forze, in modo da fornire un filo conduttore regolativo per la ricerca fisica e quindi per la specificazione dei principi metafisici (come le tesi generali della dinamica) in proposizioni della fisica empirica quale scienza sperimentale dei fenomeni secondo concetti di forze e leggi corrispondenti18. La prima affermazione ricorrente negli abbozzi di Prefazione, infatti, è precisamente che i concetti di forza, benché empirici, devono essere pensati prima dell’esperienza effettiva. A questa tesi, perfettamente coerente con la concezione kantiana della metodologia fisica espressa già nella Prefazione alla seconda edizione della Critica, si aggiunge ora la consapevolezza della necessità di elaborare un sistema delle forze, ricavata dai risultati delle opere prestumum, nel rivolgersi contro Newton si riferirebbero in realtà altrettanto all’impianto dei kantiani Principi metafisici. Terrò in seguito presenti queste importanti tesi di Tuschling, rilevandone alcuni limiti. 17 Il compito della terza Critica viene così espresso nell’Introduzione: «a partire da percezioni date di una natura che contiene una molteplicità, forse infinita, di leggi empiriche, fare un’esperienza interconnessa; il quale compito sta a priori nel nostro intelletto» (KU § V, 584). Sul tema si vedano L. SCARAVELLI, Osservazioni sulla Critica del giudizio, in ID., Scritti kantiani, Firenze 1968, in part. pp. 357-376; FRIEDMAN, Kant and the Exact Sciences, pp. 242-264. 18 FRIEDMAN, Kant and the Exact Sciences, p. 257, insistendo su quest’ultimo passaggio, individua lo «iato» di cui parla Kant nel collegamento tra il molteplice delle leggi naturali, trattato nell’Appendice alla Dialettica trascendentale e nella terza Critica, e la determinazione del concetto di materia in generale realizzata dai Principi metafisici.

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cedenti. Poiché si tratta ora di anticipare la forma di una conoscenza sistematica Kant impiega il filo conduttore delle categorie. Ma è fondamentale rilevare come si ripeta il consueto svolgimento della critica in un sistema dei principi: nel passaggio dall’indagine sulla facoltà di giudizio alla schematizzazione di un sistema scientifico la semplice «possibilità» di formare un sistema, conquistata a livello trascendentale, diviene anche «necessità» (soggettiva), articolata secondo diversi concetti. Ecco individuato il nuovo territorio intermedio delle conoscenze «regolative» ma insieme «costitutive» del passaggio. Non si tratta più di massime euristiche, ma di una nuova dottrina della facoltà di giudizio nel suo uso determinante. Nei primi fogli dell’Opus postumum viene individuato dunque il concetto di nuove conoscenze a priori «secundum quid», distinto dalle conoscenze a priori «simpliciter», in quanto «sono conoscenze a priori con la loro necessità, tali cioè che senza di esse non sarebbe possibile nessuna esperienza su un determinato fenomeno»19. L’esistenza dell’etere, a sua volta, comincia a essere concepita (in diversi modi) come postulato della nuova teoria delle forze motrici. In effetti per ragioni dapprima fisiche, poi puramente logiche, Kant è per così dire sospinto dalla stessa curvatura trascendentale dei suoi pensieri a rimetterne in discussione lo statuto, che da quello di un materiale vero e proprio dotato di proprietà chimiche e meccaniche diviene progressivamente quello di un concetto della filosofia pura, come segnalano le qualifiche di «ipotesi necessaria», «idea», «spazio realizzato». Fatte queste brevi anticipazioni si può tornare sulla questione originaria: perché Kant attribuirebbe un’urgenza sistematica al Passaggio soltanto a partire dal 1798? Secondo quanto si è visto, l’evoluzione del pensiero kantiano, fino a quest’anno, è graduale: non è dunque plausibile che Kant si occupasse per quasi otto anni di un Passaggio dotato di una mera funzione regolativa, e non si accorgesse dello iato nel sistema. In realtà questa tesi si basa su due premesse sbagliate: quella 19

‘C’, KgS XXI, 331.

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secondo cui i Principi metafisici si sarebbero dovuti occupare di costruire il concetto di materia e quella secondo cui, realizzando questo compito, nell’opera dell’86 si sarebbe dovuta completare la prova della realtà oggettiva delle categorie. Giungendo a rendersi conto, lungo un itinerario documentato dalle riflessioni manoscritte, che questo risultato non era stato ottenuto, che cioè il concetto di corpo non era stato costruito, Kant avrebbe dunque scoperto uno iato nel sistema: «17 anni dopo la pubblicazione della Critica della ragion pura, la questione della validità oggettiva dei suoi concetti e principi attendeva ancora una dimostrazione soddisfacente»20. Vediamo dunque, rispettivamente, quale fosse il nuovo problema fisico, e come potesse acquistare una rilevanza trascendentale. In primo luogo, come si è osservato trattando dei Principi metafisici, la costruzione del concetto di corpo non era tra gli scopi dell’opera. L’impossibilità di costruire il concetto di corpo in base alle forze fondamentali non poteva dunque costituire in sé un pro-

20 FÖRSTER, Kant’s Final Synthesis, pp. 70-73. La prima premessa si esprime significativamente nell’integrazione proposta da Förster di un passo del Loses Blatt 6, in cui Kant scrive (KgS XXI, 476): «La fisica è la dottrina delle leggi delle forze motrici della materia. Poiché quest’ultima, come tutto ciò che appartiene all’esistenza delle cose, deve essere conosciuta mediante l’esperienza [si interrompe] Come fa la materia a produrre un corpo?» Förster (p. 70) propone di leggere: poiché le forze motrici devono essere conosciute per esperienza «la fisica presuppone fondamenti metafisici in cui la possibilità di un oggetto esterno sia conosciuta a priori, cioè, che il concetto sia costruito». Per Förster l’interruzione dipende dal fatto che Kant si rende conto, riflettendo sui limiti del suo dinamismo, di non aver costruito il concetto di corpo: da ciò la domanda successiva. Ora, secondo quanto è stato sostenuto in precedenza, Kant non avrebbe mai scritto una simile frase, se non fraintendendo completamente il significato della sua stessa opera, che non si propone affatto di fornire la costruzione del concetto di corpo, né di alcun altro concetto fisico, ma solo quella della composizione foronomica e meccanica del movimento in genere. Förster potrebbe essersi ispirato, per giungere a tali conclusioni, alle lunghe analisi di TUSCHLING, Metaphysische und transzendentale Dynamik, pp. 35ss, 86ss., 96ss., 103ss., dedicate al fallimento dei Principi metafisici relativamente alla costruzione del corpo. Lo stesso Tuschling scriveva (p. 61) che Kant avrebbe posseduto in questi anni una visione sbiadita della propria opera dell’86, identificandola con la sola Foronomia. Così facendo però, per accreditare un’interpretazione riduttiva dell’opera, si ricorre nuovamente all’ipotesi del Kant demente.

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blema per la filosofia pura nel suo complesso. Non si può sostenere, peraltro, che Kant si accorgesse di questa impossibilità soltanto nel 1798, e ciò non soltanto perché questa consapevolezza, associata alla nuove riflessioni sull’etere, sembra implicita anche nei precedenti Lose Blätter, ma soprattutto perché Kant la riconosce esplicitamente già nei Principi metafisici. Il matematico, scrive qui, può costruire il concetto di materia con il pieno e il vuoto, ma nel farlo presuppone un concetto, quello del pieno assoluto o «solidità», che non si lascia ricondurre a leggi e dunque risulta da un uso arbitrario dell’immaginazione. Viceversa, riconducendo la materia all’azione di forze, è possibile pensare una costruzione della materia, fondata sul conflitto di queste ultime, in quanto esse agiscono in proporzioni diverse a seconda dei materiali. Tutto questo, però, è un «compito matematico» che la fisica pura non può realizzare21. Piuttosto, allora, la questione fisica si può presentare così: Kant continua a occuparsi degli elementi di una costruzione dinamica della materia e si rende conto che i diversi fenomeni e concetti in questione richiedono nuove considerazioni filosofiche; che, in breve, la fisica empirica come tale, rimandata fin qui a margine del discorso filosofico, non può esistere. Egli si impegna dunque a distinguere il campo delle ipotesi fisiche dalle nuove premesse a priori che le rendono possibili: in particolare i concetti di forza motrice, materia e spazio fisico, la cui interrelazione diviene il tema principale delle riflessioni (rispettivamente intorno al 1796 – con il sistema delle forze motrici – e 1797-1799 – materia e spazio fisico). Veniamo ora alla pertinenza di queste nuove indagini per il «compito critico». La portata filosofica più generale di queste nuove indagini va definita effettivamente in base al compito sistematico che Kant aveva assegnato alla fisica pura. Questo, come si è 21 MA 525: «Quando lo stesso materiale viene risolto in forze fondamentali (di cui non siamo in grado né di determinare a priori le leggi, né tanto meno di assegnare con sicurezza una molteplicità, che serva alla spiegazione della differenza specifica delle materie) ci manca ogni mezzo per costruire questo concetto di materia e rappresentare nell’intuizione la possibilità di ciò che si è pensato in generale». Cf. MA 498 (il pieno come postulato dei matematici meccanicisti).

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visto, consisteva nell’obiettivo di «mostrare» la realtà oggettiva delle categorie, e non coincideva affatto con quello di «dimostrarla»22. L’esibizione, tuttavia, assolveva a un compito altrettanto necessario per la filosofia, quello di procurare esempi in concreto alla metafisica, che mostrassero l’applicazione dei principi filosofici, soddisfacendo la loro l’originaria funzione di critica alle cosmologie metafisico-dogmatiche; in particolare, questo collegamento veniva cercato in una teoria della materia fondata sulla costruzione del grado mediante un conflitto di realtà, poiché essa concretizza l’esigenza trascendentale di una «comunanza» dinamica. Da questo punto di vista, allora, il problema del passaggio dalla dinamica pura al dinamismo fisico non rimane una questione particolare della fisica, ma assume un rilievo per la filosofia trascendentale. Come abbiamo visto, infatti, Kant si rende conto negli anni ’90 che il compito di spiegare la coesione o le diverse densità della materia non è semplicemente matematico, né semplicemente empirico. Già nei Principi metafisici, in effetti, egli aveva avanzato due ipotesi sulla stima delle forze, entrambe fondate sugli elementi della fisica empirica. La prima ipotesi si basa sulla possibilità di considerare la forza repulsiva dotata di gradi infinitamente diversi, nel suo conflitto con una forza attrattiva che, in quanto proporzionale alla quantità di materia, sarebbe sempre uniforme (MA 524) – e abbiamo visto che, sollecitato da Beck nel 1792, egli si rende conto delle difficoltà logiche, oltre che empiriche, cui va incontro questa ipotesi. L’altra ipotesi è quella di considerare non già un conflitto tra forze, ma quello tra l’etere diffuso in tutto lo spazio, mosso dalla forza attrattiva originaria, e la materia dotata originariamente di forza repulsiva. Le due ipotesi sono 22 Questo compito era stato infatti svolto sufficientemente dalla dottrina dello schematismo trascendentale. In accordo con questa lettura FRIEDMAN, Matter and Motion in the Metaphysical Foundations and the First Critique, pp. 56-59. Secondo FÖRSTER, Kant’s Final Synthesis, pp. 56ss., al contrario, questo compito sarebbe stato affidato da Kant ai Principi metafisici e neanche qui, a causa dell’aporia intorno al concetto di corpo, sarebbe stato svolto con successo. Sarebbe questo lo iato di cui parla Kant nei primi manoscritti dell’Opus postumum. Fatta salva la distinzione tra prova della validità delle categorie e esibizione degli esempi in concreto per la metafisica, e riferendo il problema a quest’ultima, le considerazioni di Förster restano valide.

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alternative: spiegazione puramente dinamica del grado di densità, che comporta la prova a priori dell’attrazione, e introduce l’etere per spiegare la coesione; spiegazione meccanica del grado di densità, che priva del suo compito principale l’intera dinamica pura, e attribuisce all’etere (mosso dall’attrazione) un ruolo per la determinazione mediata del grado. Ma in entrambi i casi viene presupposto l’etere come materia che sopraggiunge dall’esterno del corpo attraente, già costituita, di densità evanescente. Questo statuto peculiare del concetto di etere viene posto in rilievo nell’Opus postumum e pone un dilemma: o questo materiale non è un oggetto empirico, come tale dotato di proprietà meccaniche misurabili e omogeneo agli altri concetti fisici – e allora non è una ipotesi sperimentalmente provabile – oppure esso deve essere considerato omogeneo e interagente con gli altri elementi fisici, ma allora, dato che non lo si può costruire a sua volta con il conflitto dinamico, viene introdotto con un secco postulato, non diverso da quelli consueti nel meccanicismo e nell’atomismo. Un esito, quest’ultimo, evidentemente inaccettabile dal punto di vista della filosofia trascendentale, che è proprio quello sotto cui si sviluppa l’intera filosofia naturale di Kant. In ogni caso Kant dovette rendersi pienamente conto solo nel 1799 del mutamento logico delle sue indagini sull’etere e sul calorico. In quest’epoca si mette a lavorare alle prove a priori dell’esistenza della materia cosmica logicamente distinta dall’etere e dal calorico delle riflessioni precedenti. Ma di certo egli lavora già negli anni ’96-’97 a un sistema delle forze capace di fornire nuovi principi a priori, senza il quale le costruzioni fisico-matematiche risulterebbero infondate e dunque le esibizioni dei concetti metafisici risulterebbero incompiute. In queste ricerche si tratta già, a mio parere, di colmare lo iato nel sistema. È poi pensabile, in particolare, che Kant attribuisca particolare urgenza alla questione anche per la scoperta dello statuto non ipotetico della materia cosmica, che ha considerato fin dal 1796 come un presupposto necessario del sistema delle forze. Se dunque questa consapevolezza matura soltanto nel 1798, come suggeriscono le lettere disponibili, la cosa si può spiegare mediante il fatto che proprio in questo periodo Kant riconosce il salto qualitativo alla nuova questione tra683

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scendentale, già accennato negli ultimi fogli ‘Elem. Syst. 1-7’ (fine 1798) e poi sistematicamente realizzato nei fogli ‘Übergang 1-14’, e ‘Übergang A-B’. Peraltro, come abbiamo detto, le lettere del 1798 pongono un termine ante quem per la presa di coscienza kantiana della problematica dello “iato”. È da notare, allora, che il 1796 è l’anno in cui Kant pubblica la Metaphysik der Sitten e conclude la sua attività didattica: si può presumere, dunque, che egli si dedicasse in seguito con più calma a uno sguardo d’insieme sul sistema, e dunque anche alle questioni aperte delle filosofia naturale. La riflessione sulla fisica, come diviene esplicito nei fascicoli successivi (in particolare il Konvolut VII) ha portato infine non soltanto a una nuova indagine sulla possibilità della fisica, ma contemporaneamente ad una revisione di alcuni elementi della filosofia trascendentale. In particolare, tornando sul concetto di materia, Kant ha messo in luce una possibilità accennata ma rimasta inesplorata nella Critica, e cioè che una specificazione spaziale a priori della materia della sensazione, in base a nuovi argomenti fondati sulla possibilità dell’intuizione esterna, potesse condurre a una confutazione a priori del vuoto. Si tratta allora di vedere in base a quale concetto di «materia cosmica», e con quali nuovi argomenti, Kant ritenesse possibile ricollegarsi alla filosofia trascendentale e perfezionarla.

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Capitolo 12 Dall’ipotesi dell’etere al nuovo schematismo dinamico (1785-1799)

Fin dagli esordi del pensiero kantiano l’ipotesi dell’etere è al centro delle riflessioni sulla fisica e sulla chimica, coesistendo non senza difficoltà con il dominante orientamento dinamistico della filosofia naturale. Le riflessioni su questo concetto proseguono ininterrotte e attingono allo sviluppo contemporaneo delle scienze, i cui risultati erano ancora altamente incerti e la cui terminologia, di riflesso, era poco stabile. Da ciò dipendono le numerose svolte e la grande complessità delle idee kantiane in proposito. Fin dall’inizio Kant mutua dalla scienza dell’epoca un’incertezza di fondo sulle proprietà di questo materiale ipotetico e sulla sua stessa identità numerica rispetto ai diversi fenomeni che esso è di volta in volta chiamato a spiegare, come il calore, la luce, l’elettricità e il magnetismo1. Negli anni ’55 e ’56 lo statuto del concetto, da un punto di vista metafisico, si presenta analogamente incerto. Nel De igne (1755) Kant presenta l’ipotesi di un etere, associato al fenomeno del fuoco, costituito da particelle microscopiche discrete (dunque simile per conformazione a quello ammesso anche da Eu1 L’evoluzione del pensiero kantiano sull’etere viene descritta, con ampi riferimenti storici, da ADICKES, Kant als Naturforscher, II, pp. 1-205. Un’esposizione più breve, ma in sé molto utile, si trova in EDWARDS, Substance, Force and the Possibility of Matter, pp. 112-144. Sul concetto di etere nella fisica del XVIII secolo si vedano l’acuta sintesi di HEILBRON, Elements of Early Modern Physics, pp. 38-46, 60-64, e la miscellanea a cura di G.N. CANTOR-M.J. HODGE, Conceptions of Ether. Studies in the History of Ether Concepts (1740-1900), Cambridge/London/New York 1981.

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ler)2. Nella Allgemeine Naturgeschichte, dello stesso anno, pone alla base della sua ipotesi cosmologica l’esistenza di una materia originaria (Urstoff), diffusa in tutto lo spazio secondo una distribuzione disomogenea, in cui l’azione delle forze newtoniane, attrattiva e repulsiva, produrrebbe la formazione dei corpi celesti. Nella Monadologia physica, un anno dopo, la materia viene ricondotta all’azione di forze originarie esercitate dalle monadi fisiche, la cui sfera di attività corrisponde alle particelle corporee. Il rapporto tra la metafisica monadologica e il concetto fisico e cosmologico dell’etere, mediato dal concetto cosmologico di materia, resta poco chiaro. L’ipotesi che uno stesso «mezzo materiale» (Mittelmaterie) possa costituire il fondamento unico di spiegazione di fenomeni diversi quali il calore, l’elettricità, il magnetismo, viene espressa pubblicamente nel saggio sulle quantità negative del 17633. D’altra parte nel libro sul Beweisgrund, tornando a discutere i dettagli della sua cosmologia, Kant − ispirandosi al principio newtoniano della semplicità della natura − presenta già l’ipotesi dell’unicità di questo mezzo capace di spiegare anche la luce e lo identifica con l’«etere» (Äther)4. In una recensione dell’anno successivo, infine, 2 Si veda lo scritto premiato di EULER, Dissertatio de igne, in qua eius natura et proprietates explicantur, in Pièces qui ont remporté le prix de l’académie royal des sciences de Paris, Paris 1738, pp. 1-19 (EOO s. III, 10, pp. 2-13). 3 KgS II, 187-188: «Sembra che in generale la forza magnetica, l’elettricità e il calore abbiano luogo [geschehen] mediante uno stesso mezzo [Mittelmaterie]. Tutti e tre si possono produrre mediante sfregamento, ed io suppongo che la diversità dei poli e la opposizione della loro attività positiva e negativa, se si procedesse con accortezza, si dovrebbero poter osservare anche nei fenomeni del calore. Il piano inclinato di Galileo, il pendolo di Huygens, il tubo al mercurio di Torricelli, la pompa ad aria di Otto Guericke e il prisma di vetro di Newton ci hanno fornito la chiave per molti e grandi segreti della natura. In tutta apparenza anche l’attività positiva e negativa delle materie, principalmente nel campo dell’elettricità, nasconde una somma di conoscenze ed è augurabile che una generazione più felice, verso la quale stiamo guardando, possa trarre leggi universali da tutto ciò che oggi ci appare ancora in una luce ambigua». 4 KgS II, 113: «Nel metodo della corretta filosofia domina una regola che, per quanto non sia stata formalmente espressa, è stata sempre osservata in pratica: in ogni ricerca delle cause di certi effetti si deve star molto attenti a conservare per quanto è possibile l’unità della natura, cioè a dedurre [herleiten] da un unico principio [Grund] già conosciuto effetti vari, e a non ammettere subito, all’apparire di una qualche maggiore dissomiglianza, nuove e diverse cause agenti per diversi effetti. Si presume per-

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egli formula anche l’ipotesi di una conciliazione tra la monadologia fisica e la teoria di questo mezzo unitario5. Anche nelle riflessioni degli anni ’70 l’etere rimane uno dei concetti fondamentali della fisica. Ma l’unicità del materiale cosmico è una congettura destinata a rimanere tale, frequentemente messa in dubbio, negli anni successivi, in base al riesame delle ipotesi fisiche6. Nei primi anni del criticismo Kant distingue almeno sul piano terminologico il calorico (Wärmestoff), che è al centro delle più recenti ricerche chimiche, da altre sostanze specifiche come la materia magnetica (magnetische Materie). Soprattutto, poi, le riflessioni su questi fenomeni restano separate da quelle relative all’etere (Äther) meccanico di cui parlava anche Newton − che riceve particolare attenzione nei Principi metafisici − e sulla materia luciò nella natura un unico principio per conseguenze diverse, e si crede d’aver motivo per ritenere il più delle volte l’unione dei fenomeni di una specie con quelli di un’altra come qualcosa di necessario e non come effetto di un ordine artificiale e contingente. Quanti diversi effetti, per i quali prima si credeva necessario trovare cause diverse, non sono ora dedotti dall’unica forza di gravità? Il salire di alcuni corpi e il cadere di altri. Di vortici, per mantenere in circolo i corpi celesti, non si è più parlato, non appena se ne è trovata la causa in quella forza semplice della natura. Si presume con grande fondamento che il dilatarsi dei corpi per il calore, la luce, la forza elettrica, i temporali, forse anche la forza magnetica siano fenomeni diversi di una stessa identica materia attiva, che si estende in tutto lo spazio, cioè dell’etere, e si è in generale scontenti quando ci si vede costretti ad ammettere un principio nuovo per una data specie di effetti». 5 Si tratta della Recension von Silberschlags Schrift: Theorie der am 23. Juli 1762 erschienenen Feuerkugel, «Königsberger Gelehrten und Politischen Zeitungen», n. 15 (23 marzo 1764). Kant mette in evidenza che lo stesso Silberschlag compirebbe una «inconsueta svolta verso le altezze della metafisica»: «Egli cerca di mostrare, attraverso principi [Gründe] che sono di grande significato, ma non sembrano abbastanza sviluppati: che la presenza delle sostanze corporee nello spazio sarebbe propriamente una sfera di attività, che ha il suo perimetro e centro dinamico. Dalla diversità di queste sfere e delle forze che in esse agiscono, secondo la differenza delle sostanze egli ricava la forza di elasticità [Spannkraft], la condensazione [Verdichtung], la vibrazione dell’aria e dell’etere, il suono, i toni, la luce, i colori e il calore, e insieme anche l’attrazione delle materie» (KgS VIII, 450). 6 Già in questi testi si può rilevare la questione se l’etere sia un materiale specifico tra gli altri, o una materia universale, di cui le altre sarebbero specificazioni: v. per es. Reflexion 44, KgS XIV, 295, dove l’etere è detto «utero [Gebährmutter]» di tutti i corpi.

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minifera (Lichtstoff), materie che d’altra parte, in base all’ipotesi ondulatoria di Euler, vengono frequentemente identificate. L’aspetto discriminante tra le diverse costellazioni teoriche risiederà sempre nel fatto che un primo gruppo di fenomeni fa capo a un materiale imponderabile (come il calorico), il secondo a un materiale dotato di una sia pur minima densità (l’etere). La loro identificazione, che Kant tornerà a congetturare negli anni ’90, dovrà prima di tutto fare i conti con questo problema. Una volta stabiliti i rapporti tra i diversi concetti e i rispettivi sostrati fisici, infine, si tratterà di determinare il ruolo di queste materie ipotetiche – eventualmente identiche − nel contesto della cosmologia basata sulla materia e sulle sue forze fondamentali. Insomma i problemi di fondo delle riflessioni fisiche kantiane possono così riassumersi: che rapporto c’è tra i diversi materiali ipotetici, tutti parimenti impercettibili e diffusi nello spazio, che si adducono per spiegare fenomeni diversi sotto i nomi di Äther, Lichtstoff, Wärmestoff, magnetische Materie? E poi: che rapporto c’è tra questi materiali − alcuni dei quali o tutti identici − e la materia cosmica in genere da cui si formano i corpi (Urstoff o Weltstoff) 7, oggetto della cosmogonia? Lo stato della questione riceve un significativo riassestamento proprio quando, durante l’elaborazione dei Principi metafisici, Kant torna a occuparsi della monadologia fisica e dell’etere e si risolve ad avanzare la concezione della materia come continuo, abbandonando la rappresentazione metafisica dei «punti fisici» che è ormai insostenibile nella cornice della filosofia critica. Nello stesso 1785 Kant pubblica un breve scritto, Über die Volkane im Monde, in cui viene ripresa la questione delle proprietà della materia nel contesto cosmologico. Discutendo l’origine dei vulcani lunari, osservati da Herschel nel 17838, avanza l’ipotesi che essi sia7 La «materia» è identificata con lo «Urstoff aller Dinge» nella Allgemeine Naturgeschichte (KgS I, 228; cf. 226, 279, 312-313). Nel Beweisgrund Kant indica lo stesso concetto con il termine Weltstoff (KgS II, 141; 146; 150). Entrambi i termini si ritrovano nei tentativi di sintesi del criticismo, fino all’Opus postumum. 8 Kant (KgS VIII, 66) si riferisce a un’osservazione di Herschel del 4 maggio 1783, di cui apprende attraverso un canale doppiamente indiretto. Si tratta di un articolo comparso sul «Gentleman’s Magazine» del 1784, in cui si riferiva di una comunica-

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no prodotti da un’eruzione di gas avutasi in uno stato originario del pianeta. Kant osserva che essa possiede un’interessante utilità «rispetto alla cosmogonia», in quanto suggerisce l’ipotesi più generale secondo cui «i corpi celesti avrebbero ricevuto la loro prima formazione in un modo simile» (KgS VIII, 74). Secondo questa nuova ipotesi i corpi celesti sarebbero stati originariamente in stato fluido, cosa che spiegherebbe anche la loro forma sferoidale9. «Senza calore», però, «non c’è fluidità». Si pone dunque la questione: «Da dove veniva questo calore originario?» Kant respinge l’ipotesi di Buffon, che lo faceva risalire al calore del Sole, in quanto essa non farebbe altro che spostare la questione dell’origine. Secondo la sua ipotesi alternativa, il materiale originario [Urstoff] di tutti i corpi celesti è stato diffuso in forma gassosa attraverso tutto lo spazio in cui essi ora si muovono, e questi si sono formati da esso secondo leggi dapprima dell’attrazione chimica, poi, soprattutto, di quella cosmologica [ivi].

Rispetto all’ipotesi cosmogonica del 1755 si osserva una fondamentale novità: Kant introduce un’attrazione chimica precedente a quella gravitazionale («cosmologica»). La premessa di questa applicazione congiunta delle due forme di interazione è l’identificazione dell’Urstoff di cui tratta anche la meccanica con il calorico. La fonte e la funzione di questa novità, di cui Kant è pronto ad affrontare tutte le difficoltà, vengono chiarite nel seguito del passo: Così, le ipotesi di Crawford forniscono spunto per rendere comprensibile, insieme alla formazione dei corpi celesti, anche la produzione di tanti gradi di temperatura [Hitze] quanti se ne vogliano. Se infatti l’elemento del calore è diffuso uniformemente per l’intero spazio, ma è legato a diverse materie nella misura in cui queste diversamente lo attraggono; se, come egli prova, le materie diffuse in zione, relativa alla scoperta di Herschel, indirizzata all’Accademia delle scienze di Pietroburgo. 9 Kant pensava qui alla formazione delle gocce nei fluidi a contatto con l’aria, un fenomeno discusso anche nei Principi metafisici e lungamente esaminato nell’Opus postumum.

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forma gassosa contengono – e richiedono per una diffusione gassosa – molto più calore elementare di quanto possano contenerne quando passano in stato di masse solide, cioè si congiungono in sfere: allora queste sfere devono contenere un eccesso di materia calorica rispetto all’equilibrio naturale con la materia calorica nello spazio in cui si trovano; cioè il loro calore relativo rispetto allo spazio cosmico deve crescere.

Questa crescita del calore latente nei corpi solidi, che Kant considera proporzionale alla grandezza della massa formata, spiegherà il perché del maggior calore emesso dal Sole. In base a questo principio si potrà spiegare anche la presenza di crateri sulla Terra, la Luna e Venere, in quanto questi sarebbero formati dall’«eruzione atmosferica» della loro originaria materia fluida − la stessa che è responsabile, in fasi geologiche più recenti, delle eruzioni vulcaniche propriamente dette, visibili anche sul Sole. Kant si riferisce alle teorie di Adair Crawford, autore di Experiments and Observations on Animal Heat (1779), una delle opere che contribuirono alla diffusione sul Continente delle ricerche sul calore specifico e sul calore latente sviluppate dapprima in Scozia da Joseph Black e poi da Johann Wilcke, e che si congiunsero in molti casi con l’ipotesi del fluido calorico – per esempio in Lavoisier (la cui memoria sul calore, scritta con Laplace, è del 1783). Tali dottrine avevano già larga diffusione, ed erano ampiamente discusse nel compendio di Karsten adottato da Kant per le sue lezioni di fisica dell’anno 1785. Come testimoniano i primi biografi10, e come confermano i documenti delle sue lezioni e le riflessioni11, gli anni ’80 e 10 La più ampia testimonianza sull’interesse kantiano per la chimica dopo i sessant’anni si trova in JACHMANN, Immanuel Kant geschildert in Briefen an einen Freund, Dritter Brief, pp. 19-20. Sia Jachmann che Borowki, ricordando la fioritura degli studi chimici a Königsberg, segnalano il ruolo svolto da Karl Gottfried Hagen, farmacista e commensale di Kant, di cui quest’ultimo possedeva i manuali di chimica sperimentale (WARDA, Immanuel Kants Bücher, p. 34). Anche in questo caso, le conoscenze kantiane non dovettero essere sempre di prima mano, e spesso la lettura delle voci pertinenti del Physikalisches Wörterbuch di Gehler fornisce un punto di vista adeguato sulle teorie e le discussioni che Kant veniva recependo (v. in part. «Antiphlogistisches System»; «Sauerstoff»; «Wasserstoff»). 11 Si veda in part. KARSTEN, Anleitung zur gemeinnützlichen Kenntniß der Natur, §§

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’90 sono per Kant un periodo di grande interesse per le dottrine chimiche. Ma l’elemento teorico più interessante dell’ipotesi formulata da Kant, dal nostro punto di vista, non è tanto l’associazione del cambiamento di stato con la presenza del calorico, quanto la concezione di un legame chimico tra calorico e altri elementi (Stoffe). Questa dottrina si diffondeva in questi anni presso i fisici europei proprio in seguito agli esperimenti sul calore latente e sui calori specifici, ma non era ampiamente accolta (per esempio, non la accoglie lo stesso Crawford) e – è bene notarlo – non comportava di per sé una presa di posizione rispetto alle teorie del flogisto e della combustione che costituiscono l’oggetto specifico delle discussioni che portano alla nuova teoria degli elementi di Lavoisier. L’assunzione del legame chimico del calorico incoraggia Kant a introdurre – a più di vent’anni dalla sua ultima esposizione – una modifica fondamentale dell’ipotesi cosmogonica giovanile. La funzione svolta dai legami chimici, in effetti, sembra permettere di spiegare la stessa formazione di una densità eterogenea di materia, che nell’ipotesi giovanile era pre464-472. I §§ 491-495 contengono un’esposizione molto favorevole della chimica di Lavoisier e, come si è detto, è probabile che Kant lo adottasse come testo di lezione nel 1785 proprio a causa del maggiore spazio dedicato alla chimica rispetto al compendio di Erxleben, per quanto si trattasse di un testo di carattere meno specialistico. Per le sue lezioni degli anni 1787-88, infatti, Kant tornò al testo di Erxleben, che nella terza edizione (1784) era stato sostanziosamente arricchito dalle aggiunte di Lichtenberg, molte delle quali di argomento chimico (le testimonianze di queste lezioni sono purtroppo perdute). Una marcata presenza della chimica di Lavoisier è però riscontrabile solo a partire dalle ulteriori aggiunte nella sesta ediz. del 1794. La teoria del calore latente sembra adombrata da Kant già nelle Refl. 45 (1776, KgS XIV, 343396) e 54 (1779, KgS XIV, 448-455). La Refl. 64 (fine anni ’80, KgS XIV 482-483) contiene un estratto da F.X. BAADER, Vom Wärmestoff, seiner Vertheilung, Bindung und Entbindung, vorzüglich beim Brennen der Körper (1786), dove viene sostenuto il legame chimico tra calorico e altre sostanze. Una trattazione approfondita dell’importanza delle letture kantiane degli anni ’80 e ’90 relative alla nuova scienza del calore e alla chimica “antiflogistica” di Lavoisier, con cenni molto chiari su queste dottrine scientifiche, si trova in FRIEDMAN, Kant and the Exact Sciences, pp. 264-290 (in part. sulle riflessioni e lezioni di argomento chimico nella seconda metà degli anni ’80 v. pp. 282285). Friedman considera queste conoscenze come la ragione delle nuove speranze riposte da Kant in un passaggio dai principi solo regolativi della terza Critica a un nuovo principio costitutivo per la facoltà di giudizio determinante (pp. 285, 289-290). Sull’argomento si veda anche P. VASCONI, Sistema delle scienze naturali e unità della conoscenza nell’ultimo Kant, Firenze 1999.

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supposta come un dato originario. La qualità eterogenea delle materie che «diversamente» attraggono il calorico sembrerebbe dunque prendere il posto – almeno per le prime fasi dello sviluppo cosmico − del diverso grado di forza repulsiva che nei Principi metafisici viene addotto per spiegare la genesi della densità. Dunque l’indagine sul calorico – ripensato secondo i più recenti sviluppi della termologia e della chimica – non soltanto procede parallelamente all’elaborazione della dinamica matura ma, in base all’ipotesi che il calorico studiato dai chimici sia identico all’etere della tradizione newtoniana, determina un possibile perfezionamento non solo della cosmogonia − che proprio in questi anni Kant ripresenta ricevendo una rinnovata attenzione presso gli astronomi – ma della stessa teoria dinamica della materia12. Mentre la «gravità specifica» degli elementi chimici e il calorico non erano elementi estranei alla fisica newtoniana, è proprio l’implicita identificazione tra materia cosmica e calorico a comportare conseguenze a livello filosofico, poiché essa conduce a sovrapporre le nuove ricerche chimiche alla teoria dinamica della materia. La questione dell’esistenza del calorico, di conseguenza, si estende oltre l’ambito delle evidenze sperimentali. Introducendo la sua nuova ipotesi cosmologica, in effetti, Kant aggiunge tra parentesi che essa «è molto probabile anche per altre ragioni». Tra queste ragioni potrebbero esservi le altre proprietà (sempre ipotetiche) dell’etere, considerato appunto come sostrato della propagazione luminosa, acustica, magnetica, elettrica e insomma ricettacolo delle proprietà più diverse. Ma dato il contesto cosmologico è più probabile che Kant, nel 1785, si riferisca al proprio argomento a sostegno dell’ipotesi dell’etere, presentato con le stesse parole nei Principi metafisici e che lo scritto fisico insomma rimandi a 12 Per l’influenza dei nuovi concetti chimici sulla cosmologia si veda C. FERRINI, Heavenly Bodies, Crystals and Organism. The Key Role of Chemical Affinity in Kant’s Critical Cosmogony, in ID. (a cura di), Eredità kantiane (1804-2004), Napoli 2004, pp. 273-317. M. CAPOZZI, La sfera infinita del cosmo nella Naturgeschichte di Kant, in P. TOTARO-L. VALENTE (a cura di), Sphaera. Forma, immagine e metafora tra medioevo ed età moderna, Firenze 2009 (in preparazione) contiene un esame della revisione kantiana della Allgemeine Naturgeschichte nel contesto dell’attenzione che l’opera tornò a ricevere tra gli astronomi.

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quello metafisico. Sarà dunque opportuno, ora, raccogliere in uno sguardo le diverse ragioni che giustificano l’introduzione del calorico e dell’etere nei Principi metafisici per mostrare come il rispettivo collegamento con la teoria dinamica della materia, anche nell’ipotesi di una identificazione di questi due materiali tra di loro, ponesse appunto quei problemi della teoria della materia che, a partire dallo stesso 1786, occuperanno Kant nelle riflessioni confluite dell’Opus postumum. Seguendo un ordine che sarà utile all’esposizione successiva consideriamo le seguenti questioni: stato di aggregazione, coesione, densità. Riguardo al primo problema, in perfetto accordo con lo scritto dell’anno precedente, incontriamo il concetto del calorico (Wärme o Wärmestoff) in quanto causa della dilatazione degli altri elementi, che non è però presente negli interstizi di essi, come l’etere meccanico, ma è legato ai corpi – e «disciolto» in essi – mediante «compenetrazione chimica»13. La teoria degli stati di aggregazione che Kant tiene presente, per quanto si limiti ad accennarvi, assume una fluidità originaria della materia, cui il calore è capace di riportare anche materie come vetro e metalli. Si suppone, dunque, che la perdita del calore sia responsabile della solidificazione – teoria che ritroviamo negli anni successivi. Tuttavia, essendo il calorico un materiale ipotetico, Kant si mantiene prudente e afferma che la questione di «come sono possibili i corpi rigidi» resta «un problema ancora irrisolto» (MA 524). Mentre tutto questo è perfettamente accettabile in via ipotetica, un problema logico di circolarità si nasconde invece nella filosofia dinamica, intorno ai concetti di coesione e densità. Newton, infatti, conosceva bene tutti i fenomeni invocati da Kant, ma ne traeva 13 MA 532: « Questa compenetrazione chimica si potrebbe riscontrare proprio laddove una delle due materie non viene frantumata ma letteralmente disciolta dall’altra: è così, pressappoco, che il calorico [Wärmestoff] penetra nei corpi, perché se si distribuisse soltanto negli spazi vuoti della sostanza rigida, questa rimarrebbe fredda, non potendo assorbirne niente». Il calorico è presentato poco sopra come la causa dell’elasticità dell’aria, che sarebbe dunque «derivata», mentre esso avrebbe una elasticità «forse originaria» (MA 530). Kant dunque considera il calorico ancora come una materia sui generis, ma tale da costituire il fondamento di proprietà generali di tutte le altre materie, in quanto presente universalmente in esse (in questo caso, in soluzione).

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una conclusione diversa sulla struttura della materia: la solidificazione dei fluidi mostrerebbe che essa è originariamente composta di particelle dure. Sappiamo che Kant nega a tutti i costi la conformazione originariamente discreta della materia. Tuttavia, per spiegare la coesione e la densità della materia originariamente fluida, che l’interazione con il calorico può rendere solida e diversamente conformata, egli chiama in causa nuovamente concetti propri del meccanicismo, che presuppongono quelle stesse proprietà. Per quanto riguarda la coesione, infatti, menziona una forza specifica – quella ipotizzata da Newton – che è però un’attrazione «limitata soltanto alla condizione del contatto», e che dunque non può dirsi una forza fondamentale alla materia. Kant trova invece diverse ragioni per farne una proprietà solo derivativa: non agisce su tutte le materie (come l’attrazione universale) ma presuppone il contatto, non dipende dalla densità, e presuppone una precedente fluidità per agire14. Insomma Kant distingue lo statuto di questa forza rispetto a quello dell’attrazione a distanza, poiché essa non si definisce in base a un’azione necessaria della materia, ma agisce solo a determinate condizioni: riavvicinare due parti di un corpo solido che si è spezzato non basta a ristabilirne la coesione. Perciò, piuttosto che ipotizzare questa forza anche in assenza di una sua legge – come fece Newton – Kant preferisce dubitare che si tratti di un’attrazione vera e propria e avanza il dubbio che si tratti di «attrazione apparente», cioè di compressione. Insomma, fatto salvo il caso dell’attrazione universale, che ritiene di aver dimostrato, Kant resta fedele al punto di vista leibniziano di diffidare di azioni dinamiche non essenziali. In questo modo egli è quasi costretto a richiamare in causa la rappresentazione di un’azione meccanica. L’ipotesi della compressione esterna è esaminata in un passo della Nota generale alla Fenomenologia, che conviene rileggere, perché vi si trovano le premesse del suddetto problema logico. Kant premette che la non necessità del vuoto è stata provata a sufficienza nella Dinamica, ma che resta da provarne la impossibilità (è il problema di cui abbiamo trovato la prima espressione già nel14

MA 518, 526-529.

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l’Analitica dei principi; § 10.2). Che il vuoto sia «addirittura i m p o s s i b i l e», scrive ora Kant (MA 563-564) non lo si può dimostrare soltanto in base al suo concetto, secondo il principio di contraddizione. Tuttavia, se anche non si trovasse nessun fondamento logico per respingerlo, ci potrebbe essere un generale fondamento fisico per escluderlo dalla scienza della natura, cioè il fondamento della possibilità della coesione di una materia in generale, se solo si comprendesse meglio quest’ultima. Infatti, se l’ a t t r a z i o n e che si ammette per spiegare la coesione della materia dovesse essere solo apparente, non cioè vera attrazione, ma piuttosto l’effetto della c o m p r e s s i o n e esercitata da una materia diffusa in tutto lo spazio cosmico (l’etere), che a sua volta fosse messa in condizione di esercitare questa spinta solo grazie a un’attrazione universale e originaria, cioè la gravitazione – un’opinione, che ha del ragioni [manche Gründe] a proprio favore –, allora lo spazio vuoto all’interno delle materie sarebbe, se non logicamente, almeno dinamicamente e dunque fisicamente impossibile, perché ogni materia si espanderebbe spontaneamente negli spazi vuoti che si volessero ammettere al suo interno (poiché in questi nulla si opporrebbe alla sua forza espansiva) e li manterrebbe sempre pieni.

Che l’etere fosse una possibile causa della coesione era in sé una ipotesi fisica che Kant conosceva e ponderava da molti anni15. Questa ipotesi si poteva anche collegare con quella della soluzione chimica del calorico: una volta liberato dal legame chimico con altre materie, il calorico sarebbe stato identico all’etere meccanico, e capace di comprimere le altre materie dall’esterno producendo la coesione come «resistenza allo spostamento delle parti». Si sarebbe trattato certamente di una teoria sperimentalmente lacunosa: a qual condizioni il calorico si legherebbe, a quali invece rimarrebbe esterno e non legato? Inoltre, sarebbe pur sempre un fluido praticamente imponderabile (la sua densità tende a zero). 15 Si veda per es.: Refl. 40 (ca. 1773-5), KgS XIV, 138-139; Refl. 50 (di datazione incerta, ma che potrebbe risalire secondo Adickes al 1776-78), KgS XIV, 443, dove l’etere interno ai corpi e quello esterno vengono posti in «comunanza» di azione e dotati di oscillazioni.

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Ma erano, almeno, difficoltà tipiche della fisica del tempo16. Il problema logico, nel contesto della filosofia kantiana, dipende però dal collegamento che Kant istituisce, nel passo citato, con la questione ulteriore «della possibilità della materia in generale», cioè della genesi della densità. È proprio questo collegamento ulteriore a fornire «il fondamento fisico più generale» per negare lo spazio vuoto. Insomma Kant considera decisivo per ammettere l’etere, causa della coesione, un argomento che ne fa anche la causa della densità. Un riferimento a questa ipotesi, come abbiamo visto, si trova nel pieno della dinamica (Teorema 8, Nota 2), cioè proprio nel passaggio cruciale in cui Kant, ammettendo come metafisico l’attrazione a distanza, rifiuta come fisico la forza di coesione (MA 518): Poiché ogni data materia, per costituire a cosa materiale determinata, deve riempire lo spazio con un determinato grado di forza repulsiva, soltanto un’attrazione originaria in conflitto con la repulsione originaria può rendere possibile un determinato grado di riempimento, e con esso la materia; può darsi, allora, che questo grado derivi dall’attrazione propria che le parti della materia compressa esercitano tra di loro, oppure dalla somma di questa attrazione con quella di tutta la materia dell’universo [aller Weltmaterie]17.

Dunque l’etere sarebbe in concreto il fattore dinamico corrispondente all’attrazione, ed entrerebbe in conflitto con la forza repulsiva originaria per determinare il grado della densità. Si vede bene a questo punto il problema di circolarità. Anche l’etere, che agisce sulle altre materie e «ne mantiene la densità comprimendole», deve possedere una densità18; ma quest’ultima dovrebbe esse16 Sulla fisica degli imponderabili si veda J. HEILBRON, Weighing Imponderables and Other Quantitative Science around 1800, Berkeley 1993. 17 Il passo va letto insieme a quello della Nota generale alla Dinamica, MA 533534 (esaminato nel § 8.3 C), in cui viene compiuto il passaggio dalla possibilità alla necessità di pensare una densità di materia originariamente diversa. 18 MA 564: «Uno spazio vuoto f u o r i d e l m o n d o – se con mondo si intende il complesso di tutte le materie attrattive per eccellenza (dei grandi corpi celesti) – sarebbe impossibile per le stesse ragioni: infatti, nella misura in cui cresce la distanza da questi corpi, decresce in proporzione inversa l’attrazione da essi esercitata sull’e-

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re stabilita in base al conflitto tra repulsione e attrazione originarie. Kant scrive che noi pensiamo il grado di repulsione dell’etere come «incomparabilmente maggiore» di quello dell’attrazione (per cui la sua densità tende a zero). Dunque lascia intendere che esso possegga repulsione e attrazione originaria, da cui risulterebbe una densità quasi nulla. Ma il problema risiede allora nel fatto che l’etere, condizione della densità delle materie, possiede a sua volta una densità. Dato però che Kant non lo identifica con la materia in genere, la cui densità proverrebbe dal confitto tra le forze, ma lo pone quale materia speciale che comprime le altre, ne risulta che o esso è superfluo per spiegare la densità – e allora non si capisce perché Kant lo introduca in Dinamica – oppure, se si ammette che il conflitto tra le forze non basta a stabilire la densità senza una azione meccanica, si apre un regresso all’infinito. Una verifica di questa situazione di inconsistenza si ha sul piano di un possibile approfondimento fisico-sperimentale dell’ipotesi. L’effetto attrattivo dell’etere rimarrebbe infatti inosservabile – data la sua distribuzione omogenea nello spazio – ma anche la sua compressione non potrebbe essere studiata matematicamente, perché esso non avrebbe mai confini determinati, né una massa empiricamente rilevabile. Dunque, è forse possibile ammettere, nella chimica ancora non quantificata quale Kant la descrive nel 1786, questo fluido imponderabile, empiricamente non osservabile, incoercibile, come postulato della dinamica, tuttavia la sua azione di urto o compressione rimane scientificamente inaccessibile ed è vano ipotizzarla. Ma questo significa anche che la sua costruzione è impossibile. Dunque questa materia cosmica, quale che sia la sua funzione teorica, viola i confini della fisica pura: si tratterà allora di una ipotesi speculativa, oppure, nel migliore dei casi, di una condizione la cui validità oggettiva si prova indipendentemente dal contenuto determinato delle percezioni esterne. Quest’ultimo genere di condizione è però solo quella trascendentale: proprio in questo senso procederà il ripensamento dello statuto del materiale tere (che racchiude tutti quei corpi e, venendone attratto, ne mantiene la densità comprimendoli), per cui la densità di quest’ultimo non farebbe che diminuire all’infinito, senza lasciare mai lo spazio del tutto vuoto».

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cosmico alla fine degli anni ’90. In questa fase, però, si tratta ancora dell’ipotesi di una «materia esterna [...] distribuita ovunque nell’universo», che entra in conflitto con le altre materie e come tale è causa del «determinato grado di riempimento». Come tale essa non può conservare una funzione ausiliaria per la fisica pura senza produrre le suddette difficoltà di principio. Kant continuerà, ancora per molti anni, a domandarsi se l’azione dell’etere – spesso identificato con il calorico − sia una forza morta o una forza viva, prima di accorgersi della difficoltà di principio: «un materiale assolutamente imponderabile sarebbe tale che di esso non esisterebbe nessuna quantità assegnabile»19. D’altra parte se si pone che questo materiale sia identico al calorico (quale unico Urstoff) è anche vano pensarlo legato o slegato chimicamente, per spiegare la rigidità, perché anche la soluzione chimica richiede che entrambi gli elementi siano già dotati di una densità determinata. Nei Principi metafisici, infatti, Kant accoglie la possibilità che in un composto chimico possa darsi la «soluzione assoluta» delle sostanze, quella che chiama anche «compenetrazione [Durchdringung] chimica», propria della «soluzione di due materie specificamente diverse», in cui «non [...] si trova nessuna parte dell’una che non sia unita a una parte dell’altra materia specificamente diversa – secondo la proporzione comune all’intera miscela» (MA 530). In questa soluzione, per esprimerci in termini diversi da quelli kantiani, la densità di una nuova materia, e di conseguenza il suo volume, equivale a una media tra la loro densità specifica, per cui, invece di dar luogo a un’interazione meccanica, gli stessi fondamenti dinamici della materia vi costituiscono, come coefficienti, un solo materiale omogeneo: «Il volume occupato dalla soluzione può essere uguale, minore o anche maggiore della somma dei volumi che le materie messe in soluzione occupavano prima di mescolarsi, a seconda del rapporto tra le forze attrattive e quelle repulsive. Nella soluzione esse costituiscono ciascuna per sé e tutte e due insieme un mezzo elastico. Questa può essere anche da sola una ragione sufficiente per cui la materia di19

‘a Übergang’, KgS XXII, 208.

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sciolta non si separa di nuovo dal solvente per azione della sua gravità» (ivi). Dunque, se si identificano l’etere e il calorico, quest’ultimo perde la sua consistenza logica di ipotesi anche per la spiegazione degli stati di aggregazione. In conclusione: (a) il concetto di calorico chiamato in causa per spiegare gli stati di aggregazione e quello di etere impiegato per spiegare la coesione hanno legami con la fisica del tempo, e con i fenomeni, legami validi nella misura in cui agli stessi materiali non venga assegnata anche una funzione per la deduzione della densità; (b) l’etere invocato come attore del conflitto fisico originario e concausa della densità specifica o lo si considera identico al precedente (e eventualmente anche al calorico), e allora si ha un circolo vizioso nella deduzione, oppure deve essere privato delle proprietà meccaniche e chimiche, e resta perciò privo di attestazione empirica. Tolti questi collegamenti con i fenomeni, e preoccupandoci ora della tenuta della fisica pura, bisogna allora domandarsi: come si può tenere distinto questo materiale imponderabile e responsabile della densità da quelli ipotizzati in fisica, e provarne l’esistenza a prescindere da osservazioni e esperimenti?20 In effetti, l’etere meccanico e il calorico chimico, associati da Kant ai fenomeni degli stati di aggregazione e alla coesione, sono materie specifiche, sostanze (Stoffe) della chimica, sia pure ipotetici; mentre l’etere quale attore del conflitto fisico originario, da cui dipende il grado di densità, non è che una figura del problema fondamentale della dinamica kantiana, che come tale non può essere considerato propriamente materiale (nella sua compressione), ma semmai coincide con la materia in genere della fisica pura, fermi restando tutti i problemi della deduzione delle proprietà meccaniche e strutturali di quest’ultima. La questione che si cela in questa equivocità dell’etere non si può considerare marginale. Essa coincide con il luogo in cui, dai due punti di vista dei concetti del pieno (§ 8.3B-C) e del vuoto (§ 10.2), abbiamo rilevato la debolez20 Il sospetto di circolarità riguardo all’etere come causa della coesione era stato avanzato già da LOCKE, Essay, II, XXIII, § 23. L’argomento era rivolto – nello spirito del “chimico scettico” di Boyle – a sostegno della scepsi sulla comprensibilità delle proprietà materiali.

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za del primato del dinamismo puro sul meccanicismo, cioè della tesi fondamentale che decide dal punto di vista di Kant della superiorità della sua fondazione della fisica rispetto a quella di Newton. È bene ricordare ancora una volta, allora, che gli intricatissimi problemi di consistenza cui va incontro la teoria della materia nella fisica pura di Kant non minacciavano le ipotesi della filosofia naturale di Newton. Quest’ultimo, nell’Ottica, si schierava a favore di una forza di coesione21 e – in una pagina che Koyré definì «profetica» – avanzava una descrizione congetturale della struttura della materia come una gerarchia di particelle e rispettive forze, che sarebbe stata capace di spiegare la varia fenomenologia degli stati di aggregazione22; infine egli assumeva la gravità specifica delle particelle come un concetto originario, associato a una pro21 Opticks, Query 31, p. 388-389: «Le parti di tutti i corpi duri omogenei che si toccano completamente aderiscono con grande forza. E per spiegare come questo possa avvenire, alcuni hanno inventato atomi uncinati, il che è una petizione di principio; e altri ci dicono che i corpi sono incollati dalla quiete, cioè da una qualità occulta, o piuttosto, da nulla; e altri, che essi aderiscono a causa del concorso dei movimenti [by conspiring motions], cioè, mediante una quiete relativa tra di loro. Dalla loro coesione io inferisco piuttosto che le loro particelle si attraggono reciprocamente con una qualche forza, che nel contatto immediato è estremamente forte, a piccole distanze effettua le sopra menzionate operazioni chimiche, e non si estende molto lontano dalle particelle con alcun effetto sensibile». Come abbiamo visto questa ipotesi venne sviluppata da Boscovich, la cui forza fondamentale spiega a brevi distanze la fenomenologia chimica, mentre oltre una certa distanza si identifica con la gravitazione. 22 Ivi, p. 394-395: «Ora le più piccole particelle di materia potrebbero essere reciprocamente coese mediante le forti attrazioni, e comporre particelle più grandi di minore virtù; e molte di queste potrebbero essere coese e comporre particelle più grandi la cui virtù fosse ancora più debole, e così via in diverse successioni, finché la progressione termina con le particelle più grandi, da cui dipendono le operazioni della chimica e i colori dei corpi naturali, e che con la reciproca coesione compongono i corpi di grandezza sensibile. Se il corpo è compatto, e si piega o si incava per pressione senza scorrimento delle parti, allora è duro e elastico, e ritorna alla sua figura con una forza che dipende dalla mutua attrazione delle parti. Se le parti scivolano l’una sull’altra, il corpo è malleabile o morbido. Se scivolano facilmente, e sono di misura adatta a essere agitate dal calore, e il calore è abbastanza grande da tenerle in agitazione, il corpo è fluido; e se è adatto a attaccarsi ad altre cose, è umido; e le gocce di ogni fluido assumono una figura rotonda mediante la mutua attrazione delle parti, così come il globo della terra e del mare assume una figura rotonda mediante la mutua attrazione delle parti per gravità». Cf. KOYRÉ, From the Closed World, p. 213.

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cedura di misura empirica. A questa rappresentazione della materia, come sappiamo, Kant si era opposto fin da giovane, perché essa postula proprietà senza spiegarle e ricondurle a una legalità, e aveva tentato di sviluppare un dinamismo metafisico capace di provare l’attrazione originaria e realizzare una costruzione dinamica della materia. Anche con la rinuncia alla costruzione dinamica a priori, nella Dinamica del 1786, Kant non può concedere l’originarietà sia del pieno sia del vuoto. Ritroviamo così, riguardo al caso del materiale cosmico, un’ipotesi di lettura che abbiamo avanzato considerando il problema dal lato del vuoto (§ 10.2): rinunciando alla teoria del puro conflitto dinamico, con la semplice introduzione di un etere meccanico, Kant sarebbe tornato di fatto a Newton e ai filosofi naturali che egli intendeva correggere, col risultato di rinunciare non soltanto alla sua tesi di un dinamismo integrale − limitando così il dominio della legalità naturale con i postulati della meccanica − ma anche la sua prova a priori della gravitazione, che tanta importanza aveva per l’esibizione fisica dell’unità del mondo. Per questo, io credo, Kant non concesse mai questa resa, e fatalmente distaccò la sua filosofia naturale dal corso storico di una fisica delle forze immateriali che riscuoteva negli stessi anni il suo pieno successo senza possedere una spiegazione dinamica delle particelle discrete23. Le difficoltà generali che ho appena messo in luce continuarono a tormentare la teoria kantiana della materia fin quando egli non tentò di ripensare lo statuto teorico dei termini della questione, secondo il consueto criterio dell’origine delle conoscenze. È probabile, anzi, che le stesse difficoltà lo spinsero verso tale ripensamento. Ciò non è affermato nei manoscritti, ma sembra potersi ricavare dall’itinerario problematico che in essi viene descritto. Se ora seguiremo sinteticamente le vicende della teoria della materia di questi anni non sarà dunque per semplice dovere storico. Proprio imbattendosi nelle tante difficoltà poste dallo statuto problematico del concetto di etere/calorico, che mettevano a rischio la 23 La fatale separazione tra le vedute scientifiche di Kant e il «programma “atomistico”» della maggioranza dei newtoniani viene affermata con molta chiarezza da FRIEDMAN, Kant and the Exact Sciences, p. 299.

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possibilità stessa delle corrispondenti spiegazioni, Kant cominciò, approssimativamente intorno al 1796, a distinguere un nuovo genere di condizioni a priori della fisica. Cominciando a seguire le riflessioni raccolte nell’Opus postumum ritroviamo esattamente le difficoltà che abbiamo inferito dai cenni di teoria dell’etere comparsi nelle opere pubblicate. Nei primissimi Lose Blätter, databili tra 1786 e 178724, si ritrova senza soluzione di continuità la discussione intorno ai concetti appena esposti: individuare la causa della coesione, della soluzione chimica, della rigidità vengono considerati i compiti fondamentali di una «scienza empirica della natura»25. Il problema di fondo rimane quello di trovare una teoria coerente che tenga insieme l’etere capace di interazioni meccaniche, quale fondamento della coesione, e l’etere o calorico capace di soluzione chimica, quale fondamento delle diverse densità, oltre che dei fenomeni termici; la spiegazione dei passaggi di stato della materia presenta una singolare commistione di questi concetti. È utile separare questi due aspetti delle riflessioni kantiane ai fini espositivi, ma bisogna tenere presente che la caratteristica fondamentale di questi anni consiste fino alla fine proprio nel loro intreccio, che Kant non riesce a sciogliere e che si riflette anche sulle variabili denominazioni della materia. A sostegno della tesi secondo cui la coesione dipenderebbe dagli urti dell’etere meccanico, e non da una forza attrattiva superficiale, viene addotto un argomento quantitativo26. Discutendo l’e24 LB 25, KgS XXI, 415-416 (che contiene una trascrizione dalla recensione ai Principi metafisici comparsa anonima sulle «Göttingische Anzeigen» del 1786, vol. 191), e LB 26/32, XXI 416-422, con abbozzi per la Prefazione alla Critica della ragion pratica, comparsa nell’inverno 1787. Sulla datazione dei Lose Blätter sussistono dubbi. Già Adickes affermò che, in ogni caso, 18 dei 23 Lose Blätter ritrovati tra i fascicoli dell’Opus postumum non avrebbero relazione con il progetto del Passaggio (Kants Opus postumum, p. 37). Sulla datazione alta, in part. per i fogli che stiamo esaminando, concordano sia TUSCHLING (Metaphysische und transzendentale Dynamik, p. 13-23) che FÖRSTER (Opus postumum, pp. 262-263), con l’eccezione già vista del LB 6. Almeno per i fogli qui esaminati, in base all’esame contenutistico e ai riferimenti suddetti che essi contengono, mi sembra accettabile conservare la datazione di Adickes. 25 LB 35, 2, KgS XXI, 440. 26 Una prima espressione di esso si trova nel LB 23, KgS XXI, 454. Cf. LB 24, XXI,

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sempio di un filo che si spezzi per effetto del suo stesso peso Kant osserva che la gravità, il cui momento è mdv(/dt), perde improvvisamente il proprio equilibrio rispetto alla opposta forza di coesione. Dunque, in precedenza si deve pensare un equilibrio tra le due forze. La condizione di questo equilibrio viene analizzata in base a un principio di analisi dimensionale: l’azione effettuata da un momento equivalente al prodotto di due grandezze (in questo caso massa e velocità), di cui l’una sia finita e l’altra infinitamente piccola, può essere controbilanciata solo da un’azione effettuata da un momento di uno stesso ordine di grandezza, equivalente di nuovo al prodotto di altre due grandezze rispettivamente finita e infinitesima, dimensionalmente omogenee alle precedenti. Kant ne ricava che l’azione contrapposta a quella del peso deve essere soggetta a un momento proporzionale a dmv27. Una tale azione dovrà essere il risultato dell’azione superficiale di un materiale dotato di velocità finita, come l’urto dell’etere, e non può comunque essere ascritta a un’attrazione vera e propria. Trova così conferma la tesi, che abbiamo incontrato in precedenza, secondo cui un’attrazione che non fosse proporzionale alla massa del corpo non sarebbe un’attrazione vera e propria, ma una «compressione esterna». Benché, dunque, Kant nomini diverse volte l’«attrazione» di una lamina infinitesima di materia, la quantità dm v deve essere riferita fisicamente all’azione meccanica dell’etere sulla superficie della materia stessa. Lo stesso fenomeno della «globosità», per cui i fluidi liberi tendono ad assumere forma sferoidale – che era stato un cavallo di battaglia degli attrazionisti – viene spiegato mediante la ten467-468. L’argomento ricorre poi diverse volte nell’Oktavenentwurf, per es. XXI, 377, 389. 27 Il suddetto principio di analisi dimensionale viene discusso mediante diversi esempi nella Nota generale alla Meccanica dei Principi metafisici, dove Kant lo impiega per illustrare diversi casi di conflitti meccanici. Per esempio (MA 551), la sollecitazione (∝Fdt) dell’aria compressa che sostenga un peso si deve considerare dotata di una velocità finita, perché con essa una quantità infinitesima di materia (trattandosi di forza di superficie) trattiene in equilibrio una quantità finita di materia sottoposta alla gravità (∝m dv/dt). In base a un ragionamento analogo Kant argomenta l’impossibilità di ammettere corpi assolutamente duri (MA 552).

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denza della materia ad assumere la forma adatta a resistere agli urti dell’etere. Vengono poi ripresi e sviluppati gli altri elementi della teoria della struttura della materia: mentre la coesione dipenderebbe dagli urti di una materia «originariamente elastica», la diversa densità delle materie dipenderebbe dal diverso grado originario di forza repulsiva. Le suaccennate difficoltà di principio si incontrano non appena si consideri l’applicazione di questa ipotesi alla spiegazione degli stati di aggregazione, e cioè non appena si entri nel campo delle più promettenti ipotesi della chimica contemporanea. Queste difficoltà si presentano in modo particolarmente evidente nei testi dei primi anni ’90. Un primo documento pubblico dell’adesione a una concezione sostanzialistica del calorico si trova nella Critica della facoltà di giudizio, dove la cristallizzazione viene ricavata dalla «perdita di un quantum di calorico» (KU § 58, 348). La questione non investe però la teoria della materia, in quanto il calorico viene presentato come una semplice ipotesi opinabile (Meinungssache)28. È un altro esempio della consueta prudenza tenuta da Kant nei testi pubblicati, che non rende pienamente conto dell’impegno profuso in privato per modificare la stato della questione. Nei Lose Blätter dei primi anni ’90, in generale, il calorico viene considerato come un solvente che si lega chimicamente alla materia e la rende fluida, mentre la perdita di questo legame, e la sua fuoriuscita, spiegherebbe la solidificazione – così come la diffusione del calore e la propagazione della luce. Il problema teorico si presenta in quanto Kant dà di tutti questi concetti un’interpretazione meccanica in termini di ipotetiche vibrazioni della materia: la fluidità corrisponderebbe a una vibrazione dominante del calorico, materia dotata di «un movimento vibratorio che dura costantemente» e che mediante la sua agitazione dissolve e mescola le altre materie; la solidificazione e la formazione di strutture, successiva alla scissione del calorico, viene attribuita alla distribuzione dei diversi materiali, anch’essi vibranti, in base alle diverse densità. Tra i fenomeni che questa teoria sarebbe capace di spie28

KU § 91, 467. Cf. Logik, § IX, KgS IX, 67.

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gare si trovano la struttura fibrosa dei cristalli, dei metalli e dei muscoli29. Questo tentativo di interpretazione meccanica dei concetti chimici non è privo di incertezze, e non sempre si riesce a distinguere tra etere meccanico «diffuso tra le parti dei corpi» e calorico chimicamente dissolto. Un esempio particolarmente chiaro di questa sovrapposizione di piani è il Loses Blatt 23 (che è almeno del 1794)30. Kant pone materie diverse che si «separano» da una precedente «soluzione» e che, messe in agitazione dalla vibrazione «dominante» dell’etere fuoriuscito, cominciano a vibrare con vibrazioni «parziali» eterogenee, a seconda della diversa densità, e dunque si distribuiscono secondo lamine omogenee, costituendo una «struttura» («Textur»). L’esempio fondamentale di questo processo è proprio la cristallizzazione31. Non è difficile immaginare le ragioni per cui Kant si sforza, in questi anni, di tradurre i fenomeni sperimentali del calore latente, del legame chimico, e degli stati della materia nei termini della sovrapposizione di onde meccaniche, e di associare queste onde alla presenza di materie eterogenee. Egli cerca di superare l’ostacolo che, secondo la Prefazione ai Principi metafisici, impedisce ancora una matematizzazione della chimica, e di ricondurre le interazioni chimiche a «una legge dell’avvicinamento o allontanamento delle parti, secondo cui – magari in proporzione alle loro densità o ad altre simili proprietà – si lascino rendere intuitivi e rappresentare a priori nello spazio i loro movimenti insieme alle loro conseguenze». Ricondurre processi e affinità chimiche a rappresentazioni meccaniche renderà possibile costruirle32. In particolare l’atSi veda per es. LB 43/47, KgS XXI, 424. KgS XXI, 452-453. Il foglio contiene un riferimento agli esperimenti di acustica svolti dal fisico E.F.F. Chladny, che visitò Königsberg nel febbraio 1794 (cf. la nota di Lehmann, KgS XXII, 810). 31 Nelle stesse pagine si ritrova la spiegazione della coesione in base all’urto di materie esterne (KgS XXI, 452). Sulla duplicità dell’etere/calorico cf. per es.: LB 26/32, 2, KgS XXI, 418; LB 43/47, 1, XXI, 422. 32 MA 470-461. Si veda poco più tardi il foglio ‘No. 3 α’, KgS XXII, 247, dove Kant cerca di ricondurre le stesse «affinità elettive», concetto cardine della chimica dell’epoca, a interazioni meccaniche. L’interesse di questi anni per la matematizzazione della chimica poteva essere stato riacceso anche dalla dissertazione discussa a König29 30

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trazione chimica non è universale, dato che agisce selettivamente a seconda dei materiali, e perciò essa richiede la posizione di una legalità eterogenea rispetto a quella delle forze fondamentali33; ricondurla al risultato di fenomeni vibratorii – dipendenti dalla densità – permette di ristabilire una legalità omogenea e a priori fondata. Bisogna riconoscere che Kant procede coerentemente con i criteri di scientificità posti nei primi anni ’80. Lo stesso auspicio di meccanizzazione, formulato nella Critica rispetto alla chimica di Stahl (A 646/B 674), viene rivolto alla chimica più recente. E l’idea di fondo, secondo cui la chimica non sarebbe che una parte della fisica, condivisa anche nel compendio di Karsten, è riaffermata con decisione nelle riflessioni sul Passaggio34. Nondimeno l’interpretazione meccanica della chimica conserva la suddetta inconseguenza logica. Si pensi, per esempio, alla teoria del passaggio di stato: come mai il calorico si libera, o, secondo l’interpretazione kantiana, diminuisce le sue vibrazioni? In un caso egli sembra concepire (coerentemente) il confine tra rigidità e fluidità come corrispondente a un limite di intensità nelle oscillazioni del calorico, al di sotto del quale le materie vengono «separate» ma non «disciolte». Ma la questione si ripresenta a un altro livello: cosa condurrebbe al mutamento di questo grado? Kant risponde: «la sottrazione di calorico»35. In realtà la nuova spiegazione del legame chimico del calorico non fa che aggiungere problemi rispetto alla teoria della materia precedente, ed è in sé soltanto l’ultima espressione di una incertezza tra teoria sostanzialisberg da J.B. RICHTER, De usu matheseos in chymia, Königsberg 1789, di cui Kant era certamente a conoscenza, il cui autore si proponeva di trattare della chimica come di una parte della matematica applicata. Richter dava compimento a questo progetto negli Anfangsgründe der Stöchyometrie oder Messkunst chymischer Elemente, Breslau/Hirschberg 1792-1794. 33 LB 28, KgS XXI, 444. Lo stesso argomento è addotto in MA 526 contro la forza di coesione. 34 KARSTEN, Anleitung, Vorrede, pp. IV-V (KgS XXIX, 173). Per quanto riguarda l’Opus postumum: KgS XXI, 288, 316, 362-363, 488, 625, 649. Troveremo conferma di questa importante coincidenza teorica di chimica e fisica discutendo dei concetti di ‘base’ e ‘forza motrice’, che giocano un ruolo fondamentale in riflessioni più tarde. 35 LB 24, KgS XXI, 466-467.

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stica e teoria vibratoria del calore che affligge il pensiero kantiano fin dai suoi esordi36. Gli appunti di Kant per una teoria unificata dell’etere/calorico potrebbero peraltro dipendere soltanto dal fine della matematizzazione della chimica, ma, viste anche le difficoltà in cui si arrestano fin dall’inizio, risultano meglio comprensibili se si considera il vantaggio che egli poteva sperare di ricavarne riguardo a quello che per lui era in questi anni il problema filosofico più importante, e cioè la spiegazione della densità. La testimonianza più rilevante di questa aspettativa si trova ancora una volta in un breve scritto, pubblicato nel 1792: Etwas über den Einfluß des Mondes auf die Witterung (KgS VIII, 312-323). Kant vi discute l’ipotesi secondo cui l’azione gravitazionale della Luna sull’atmosfera terrestre determinerebbe un influsso sul clima, giudicandola inadeguata a causa della troppa debolezza dell’attrazione lunare. Individua però una diversa ragione a favore di un influsso della Luna sul clima. Si tratta di ammettere una materia imponderabile (o più di una) che ricopra l’atmosfera, diffusa ben al di sopra dell’aria ponderabile (e proprio per questo meglio disposta a subire cambiamenti a causa della maggiore attrazione lunare), la quale – mossa dall’attrazione della Luna e in tal modo in diversi tempi mescolata [vermischt] o separata [getrennt] rispetto all’aria sottostante, mediante affinità con quest’ultima (dunque non mediante il suo peso) – sia capace ora di rafforzarne, ora di indebolirne l’elasticità.

Questo processo, a sua volta, produrrebbe una variazione del peso dell’aria sospesa su una determinata regione della Terra e dunque un influsso mediato, «secondo leggi chimiche», della Luna sul clima (KgS VIII, 322). La materia imponderabile serve a risolvere una «contesa» (Widerstreit) fisica – se la Luna abbia o meno influsso sulle variazioni climatiche – ma l’intervento parrebbe motivato soprattutto dalla volontà di mettere alla prova questo partico36 Su questo aspetto del pensiero fisico kantiano si veda ADICKES, Zur Lehre von der Wärme von Fr. Bacon bis Kant, «Kant-Studien» 27 (1922), pp. 328-368, i cui risultati vengono riassunti in Kant als Naturforscher, II, pp. 1-3. Cf. FRIEDMAN, Kant and the Exact Sciences, pp. 291-292.

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lare fondamento di spiegazione, che in questi anni occupa le riflessioni private di Kant e che possiede un rilevo teorico ben oltre la questione particolare qui affrontata. La variazione di elasticità che comporta una variazione di peso significa infatti una variazione della forza repulsiva (l’elasticità «originaria»), ed essa dipende qui dalla soluzione chimica tra aria e materia imponderabile, presentando così una spiegazione della variazione del grado di densità in base all’azione di un imponderabile. Se si considerano le riflessioni coeve è evidente l’importanza di una tale ipotesi per la teoria della materia fondata sulla interazione tra calorico e materie specifiche. Rispetto al materiale che Kant va analizzando nelle riflessioni viste finora, compare qui una nuova fondamentale qualificazione, che ne fa una materia «incoercibile» e segna idealmente uno scarto tra i Lose Blätter e i primi fogli dedicati all’idea di un Sistema elementare delle forze motrici (KgS VIII, 323). Questa materia imponderabile – scrive Kant – può forse essere considerata anche incoercibile (unsperrbar), cioè tale da non poter essere delimitata da altre materie se non mediante una affinità chimica con esse (quale quella che ha luogo tra la materia magnetica e il ferro), e da poter agire liberamente attraverso tutte le altre.

L’incoercibilità della materia cosmica, insieme alla sua imponderabilità che è stata affermata poco prima – e che ne è conseguenza inevitabile – esclude in linea di principio la possibilità di una sua azione meccanica. Perciò Kant non parla di vibrazioni, che in questa nuova ipotesi sarebbero fuori luogo. Poiché, d’altra parte, la materia cosmica si considera attratta gravitazionalmente dalla Luna si tratta nel complesso di una teoria meccanicamente inapplicabile. Il suo aspetto filosoficamente promettente è la sola teoria della soluzione chimica che potrebbe contribuire a spiegare la densità specifica mediante un conflitto non più meccanico, ma puramente matematico (cioè la media dei gradi). Dunque questo materiale potrebbe essere identificato con il solo calorico, o con più materie, ma non con l’etere meccanico, come Kant tenta di fare invano nelle riflessioni private. Ma non viene raggiunta una teoria unitaria della materia sul piano fisico-chimico. 708

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Alla luce delle considerazioni fin qui svolte siamo già in grado di valutare il rapporto tra le riflessioni dei primi anni ’90 e le nuove conoscenze chimiche, in particolare con l’adesione alla chimica di Lavoisier che avviene proprio in questi anni37. Abbiamo rilevato la compresenza di una concezione sostanzialistica con una vibratoria del calore: in generale è significativo che la concezione vibratoria, associata alle rappresentazioni meccaniche, risulti preponderante nei fogli rimasti manoscritti, mentre la concezione sostanzialistica, associata alla teoria di un legame chimico del calorico, sia dominante negli scritti pubblicati. Tenendo conto del fatto che la teoria chimica poteva risultare utile per una teoria delle densità specifiche, e dunque prometteva di sbloccare un problema fondamentale della filosofia naturale kantiana, questo rapporto non sembra tanto il risultato dell’occasionale contesto scientifico in cui compaiono gli scritti, quanto piuttosto l’espressione di un interesse filosofico generale che continua a caratterizzare come sempre il rapporto di Kant con la fisica. Tuttavia, pur concedendo tutto questo, bisogna riconoscere che gli aggiornamenti di Kant in chimica non mutavano e non potevano mutare radicalmente lo stato della questione di filosofia pura. Non soltanto, come abbiamo visto, il legame del calorico con i corpi si trovava già nei Principi metafisici, dove però il problema della densità è tutt’altro che risolto. Soprattutto, le nuove teorie fisiche del calorico non presentavano sostanziali innovazioni del concetto di materia, cioè dell’aspetto “metafisico” che doveva essere rilevante per Kant. Il «calorico» di Lavoisier, per esempio, restava pur sempre una matière subtile cartesiana inserita nel mondo delle interazioni dinamiche newtoniane. Nel Traité élémentare de chemie un «calorico» imponderabile riceve un 37 In base ai documenti della ricezione kantiana della chimica sono state proposte diverse datazioni di questa adesione. Come termine ante quem viene posto in generale il 1796, poiché nella Prefazione alla Metaphysik der Sitten si legge «il chimico [dice]: esiste una sola chimica (quella di Lavoisier)» (KgS VI, 207). Cf. FRIEDMAN, Kant and the Exact Sciences, 264-290. Occorre comunque distinguere i tempi dell’adesione ai diversi aspetti della chimica: le proprietà chimiche del calorico, come abbiamo visto, sono accolte già nel 1785. Per quanto riguarda la tesi caratteristica della decomponibilità dell’acqua si vedano per es. Refl. 72-73 (1793-4; 1794-5) e le relative note di Adickes, KgS XIV, 503-516. Cf. ADICKES, Kant als Naturforscher, I, p. 63.

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ruolo fondamentale per la teoria degli stati della materia, tuttavia Lavoisier stesso riconosce che ai fini esplicativi esso equivale a una forza repulsiva (cioè con una spiegazione più conforme alla originale teoria newtoniana)38. Non c’è ragione di credere che Lavoisier avrebbe fatto questa affermazione se avesse avuto ragioni sperimentali per affermare il contrario. Il calorico della nuova chimica, in effetti, non differisce sostanzialmente dal «fuoco» di Boerhaave, che costituiva la fonte principale delle conoscenze kantiane in proposito fin dai primissimi scritti39. D’altra parte lo stesso Kant negli anni ’70, in base a una diversa interpretazione delle teorie contemporanee, identificava l’etere con una «forza repulsiva universale»40. In generale, nelle teorie della materia del XVIII secolo si trovavano teorie del conflitto tra etere e calorico (Boerhaave), teorie miste, in cui il calorico è ipotizzato per spiegare gli stati di aggregazione mentre la coesione può essere ascritta a una forza attrattiva (Lavoisier), e teorie dinamiche pure (Boscovich). Nessuna di queste era in grado di determinare fondatamente l’esclusione dell’una o dell’altra rappresentazione della materia. La stessa incertezza di Kant su una possibile identità di etere e calorico, che non è una caratteristica nuova dell’Opus postumum, dipende da questa situazione scientifica e, sul piano fisico-sperimentale resterà tale fino agli ultimissimi anni della sua attività filosofica41. Identificare Äther e Wärmestoff permette di unificare la spiega38 A. LAVOISIER, Traité élémentaire de Chimie, Paris 1789, vol I, pp. 1-8 (il capitolo iniziale intitolato Des combinaisons du calorique & de la formation des fluides élastiques aériformes). Cf. H. METZGER, La philosophie de la matière chez Lavoisier, Paris 1935, pp. 38-44 e THACKRAY, Atoms and Powers, pp. 4-5. 39 Si veda in particolare H. BOERHAAVE, Elementa chemiae, Leiden 1732, p. 71 (cito dalla seconda edizione, Paris 1733) e in generale tutto il capitolo De igne. Cf. FRIEDMAN, Kant and the Exact sciences, p. 292: «La concezione kantiana della materia del calore come continuum universalmente distribuito e in stato di perpetua vibrazione assomiglia molto strettamente alla concezione di Boerhaave». La continuità tra la nuova chimica e quella di inizio secolo è rispecchiata anche nella voce «Wärmestoff» in GEHLER, Physikalisches Wörterbuch, IV, pp. 544-545, nel quale la teoria di Boerhaave viene considerata ancora come lo «stato dell’arte», cui le nuove scoperte sul «legame chimico» del calorico aggiungerebbero soltanto delle integrazioni. 40 KgS XIV, 343. 41 Le prime occorrenze di questa identificazione, nell’Opus postumum, si trovano

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zione ondulatoria della luce (secondo l’ipotesi di Euler, che Kant accoglie negli anni ’80) con quella dei fenomeni termici. Ma ciò non comporta soltanto le difficoltà di principio di attribuire proprietà meccaniche all’imponderabile, bensì anche il problema empirico posto dal fenomeno del movimento del calore verso l’alto42. D’altra parte anche l’identificazione tra Wärmestoff e Lichtstoff è dubbia: nei testi editi e manoscritti degli anni ’90 Kant ne assume spesso l’identità, ma la questione resta irrisolta e l’identificazione viene spesso negata43. In una nota della Geografia (1801) Rink, riferendosi alla voce «Licht» del dizionario di Gehler, dichiara che la natura della luce è sommamente incerta (materiale specifico? modificazione del calorico? accidente o effetto di altre materie?), ma considera l’ipotesi corpuscolare newtoniana più probabile di quella ondulatoria di Euler proprio in base alle «più recenti ricerche chimiche». Rink prosegue riaprendo la questione della materialità del calorico e di una sua possibile spiegazione dinamica, per la quale rimanda proprio alle delucidazioni dell’annunciato Passaggio di Kant44. Tutto il

nell’Oktavenentwurf, KgS XXI, 381 e nel foglio ‘β’, XXI, 256. FRIEDMAN, Kant and the Exact Sciences, p. 295 la considera una nuova acquisizione dell’Opus postumum. Ma l’ipotesi è non soltanto presente, ma dominante negli scritti degli anni ’70 e ’80. In effetti, la distinzione tra etere meccanico e calorico si era accentuato soltanto in seguito, quale probabile esito delle nuove conoscenze chimiche. Cf. ADICKES, Kant als Naturforscher, II, pp. 38-44, 143-148, 163-165. 42 Si veda la lettera del 2 aprile 1800 a Hagen, KgS XII, 301. 43 Kant considera il secondo come una specie del primo nell’Appendice a SÖMMERRING, Über das Organ der Seele, Königsberg 1796, pp. 81-86, in part. KgS XII, 32-33. Per l’identificazione tra Wärmestoff e Lichtstoff si veda per es. Oktavenentwurf, KgS XXI, 381, 383; ‘β’, XXI, 256; ‘α Übergang’, XXII, 214. È consueta anche l’associazione di luce e calore con l’elettricità (si trova per es. sulla copertina del fascicolo IV, KgS XXI, 338, e poi fino ai fogli più tardi, per es. ‘S’, XXII, 455). Kant distingue i due materiali, per es., in ‘Beylage VII’, XXII, 84. 44 Physische Geographie, I, § 34, Nota 1, KgS IX, 220-221: «Se però il calorico stesso si possa ammettere come qualcosa di materiale, o se sia necessario riguardo ad esso un modo di spiegazione dinamico: questo problema non è stato ancora risolto. La più recente ricerca che mi sia nota, in proposito, è stata realizzata dal dotto Sig. Mayer a Göttingen, su cui si possono vedere le locali «Gelehrte Anzeigen», n. 84 dell’anno 1801. Se riuscisse all’onorevole autore di questa geografia fisica di rendere noto ancora il suo Passaggio dalla metafisica della natura alla fisica! Anche a proposito di questo oggetto si troverebbero là, come so per certo, alcune acute osservazioni».

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passo di Rink potrebbe essere stato approvato e magari ispirato da Kant, o potrebbe invece basarsi su letture autonome e su una generosa congettura: in ogni caso il rimando è appropriato, poiché tutti questi problemi erano al centro delle riflessioni sul Passaggio. Ma il chiarimento kantiano in proposito non sarebbe consistito nel presentare un’ipotesi ben fondata. Kant non era evidentemente in grado di risolvere i problemi aperti della struttura della materia e della chimica; d’altra parte, come di consueto, egli mostrò una fine consapevolezza dello iato tra teorie empiriche e rappresentazione della materia tipico della scienza dell’epoca, giungendo a concludere che concetti come le particelle, gli imponderabili e le vibrazioni microscopiche erano «pensati a priori», e ancora attendevano una piena conferma sperimentale alla luce di una teoria ancora mancante. In ogni caso la direzione presa dalle sue riflessioni intorno al 1796 fu quella di un approfondimento critico-gnoseologico, innescato proprio dal rilievo di una inconseguenza logica negli elementi teorici, piuttosto che da un’adesione a questa o quella teoria chimica. Si potrebbe parlare − ancora un volta − di una “fondazione”, ma solo nel senso di un affrancamento della filosofia naturale dalla chimica empirica e di una riorganizzazione autonoma dei concetti fondamentali di quest’ultima. In questo senso si può affermare che Kant cominci a svolgere, rispetto ai concetti fondamentali delle più recenti teorie della materia, un lavoro analogo a quello dedicato dieci anni prima alla meccanica newtoniana. Le prime espressioni di un tentativo di sistemazione teorica delle riflessioni precedenti si trovano nell’Oktavenentwurf (1796). All’inizio del fascicolo l’etere, in base alla sua funzione di fondamento di esplicazione della coesione, viene definito una «ipotesi indispensabile e necessaria». Piuttosto che insistere sul successo di un’ipotesi specifica, tuttavia, Kant sta cominciando a riflettere sullo statuto di questo concetto indispensabile. In quanto originariamente espansivo e posto a fondamento della fluidità originaria della materia, l’etere non possiede a sua volta una forza di coesione: non è dunque «né fluido né solido» (XXI, 380) e non è suscettibile di soluzione. Kant scrive allora che si tratta non di «un oggetto dell’esperienza», ma di una «idea» di un materiale originariamente espansivo, che serva a spiegare la coesione dei corpi 712

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(XXI, 378). Dato il contesto chimico, il termine idea potrebbe aver qui il significato già impiegato nella Critica per designare i concetti di elementi chimici puri, che si devono pensare per comprendere i composti ma che non si possono mai dare come tali (KrV A 646/B 674). Ma l’etere comincia a essere considerato piuttosto come materia primaria che come elemento specifico: non si tratta di un materiale come gli altri, ma del fondamento di ogni fluidità, «la base [Basis] di ogni materia che riempie lo spazio universale» (XXI, 380). Ad esso Kant torna a riferire fenomeni diversi come calore e luce, ritornando sulla sua ipotesi cosmologica: la materia eterogenea dei corpi celesti era originariamente diffusa nell’etere; a causa della pressione dell’etere stesso, quello ancora contenuto nei corpi fuoriesce sotto forma di calorico – dando luogo alla solidificazione – mentre la sua propagazione rettilinea corrisponde alla luce. In base al fatto che l’etere penetra ogni materia Kant lo paragona adesso alla materia magnetica, ipotizzando che lo stesso magnetismo possa fondarsi in esso. In quanto condizione di proprietà come la coesione l’etere è a sua volta «incoercibile». Con ciò sembra affermarsi definitivamente l’impossibilità di considerarlo un normale concetto meccanico: come potrebbe una materia incoercibile, né fluida né solida, e capace di penetrare tutte le altre, entrare in relazione meccanica con la materia di cui esso è condizione? In quanto tale l’etere sembra presentarsi come un’idea nel senso di un nuovo ente di ragione impiegato per l’istituzione dell’esperienza. Tuttavia, resta oscuro come un’«idea» possa costituire un’«ipotesi necessaria» per spiegare le proprietà strutturali della materia. A partire dall’Oktavenentwurf le riflessioni fisiche, fin qui sciolte, cominciano a essere organizzate secondo un filo conduttore categoriale, a testimonianza di un passo indietro dal tentativo di costruzione ipotetica verso il campo della filosofia pura. Si trova una prima classificazione dei diversi generi di interazione fin qui esplorati: attrazione e repulsione possono essere intese sia come azioni a distanza che come azioni a contatto, per cui si hanno quattro forme di possibili conflitti45. La funzione dell’etere non è più 45

Oktavenentwurf, KgS XXI, 387: «attrazione e repulsione, entrambe come forze

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quella di ipotesi ausiliaria a sostegno di una di queste coppie di concetti. Nella pagina successiva Kant scrive che una materia può essere conosciuta empiricamente soltanto mediante l’azione della gravitazione, cioè pesandola: è la prima menzione della ponderabilità, che costituirà il primo titolo categoriale (quantità) del sistema elementare delle forze negli abbozzi successivi. A commento di essa, Kant aggiunge: Se una materia fosse espansiva e nello stesso tempo incoercibile (così come si pensa la materia magnetica e forse anche l’etere) essa sarebbe allora anche condizionatamente imponderabile, cioè nessuna esperienza sarebbe in grado di far conoscere essa e il suo peso46.

Piuttosto che a sviluppare la sua ipotesi fisica dell’etere Kant sembra interessato ad anticipare la tipologia delle proprietà della materia (a loro volta associate all’azione di forze) e a considerare l’etere come condizione necessaria di queste proprietà. Al termine di ogni titolo categoriale introduce l’ipotesi dell’etere, in quanto condizione della rispettiva proprietà che a sua volta non possiede la proprietà stessa: per esempio come imponderabile condizione della ponderabilità47. Con il progressivo lavoro intorno al «sistema elementare delle forze motrici», in particolare nell’esame dei presupposti dinamici della bilancia, si chiarisce anche meglio in che modo Kant ritiene di collegare questo principio imponderabile con i fenomeni. Le «forze motrici» che vengono classificate non designano più delle quantità matematiche, bensì le proprietà fisiche che devono essere anticipate logicamente prima che se ne trovi una specificasuperficiali (cohaesio et expansio). Attrazione e repulsione, entrambe come forze corporee penetranti (gravitatio et caloricum)». 46 KgS XXI, 388. Cf. XXI, 408. 47 Questa situazione è schematicamente molto netta a partire dal foglio ‘A’ (17971798). Le prime versioni di classificazione sono molto diverse e frammentarie (si veda per es. Oktavenentwurf, KgS XXI, 374-376), quando non si limitano a ripetere la classificazione della Nota generale alla Dinamica. Cf. ivi, pp. 408-412: qui Kant (p. 408) ricorda proprio di aver fatto «alcuni passi» in tal senso già nei Principi metafisici, dove però si trattava di fornire esempi empirici e non veniva presentata una classificazione sistematica.

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zione fisico-matematica (un rapporto analogo a quello che legava forza attrattiva e gravitazione). Il sistema presenta una «topica» delle proprietà fisiche possibili, organizzate in coppie di proprietà opposte, una delle quale deve essere attribuita di volta in volta all’oggetto. Per esempio proprio la ponderabilità compare tra le proprietà classificate, in quanto contrapposta all’imponderabilità. In contrasto con le riflessioni precedenti, di carattere sostanzialmente fisico e ipotetico – e quasi a riconoscimento dei limiti di questi tentativi congetturali – il lavoro sul «sistema» delle forze consiste nel classificare le proprietà di cui l’indagine sperimentale deve far uso, senza entrare nei dettagli della loro quantità: l’applicazione della matematica alla fisica sarà possibile solo a condizione di postulare queste proprietà semplicemente pensate. Nel corso di questa graduale evoluzione si possono distinguere due tipi di classificazioni. Il primo tipo raggruppa le forze motrici definendo coppie disgiuntive di proprietà che possono caratterizzare una singola forza (come attrazione/repulsione, superficiale/ penetrativa; momento/vis viva, durata finita/perpetua). Si tratta insomma di proprietà classificate secondo tutti i possibili rapporti spaziali e temporali dell’azione dinamica. Questa prima classificazione non raggiunge mai un assetto definitivo e resta formulata sempre sotto forma di una o più liste, accompagnate talvolta da poche parole di commento48. Il secondo tipo di classificazione è uno sviluppo di quella della Nota generale alla Dinamica e include proprietà della materia che non esprimono immediatamente l’azione di forze motrici, anche se dovranno esservi ricondotte (almeno secondo il «metodo di spiegazione dinamico»): tra queste si trovano quantità di materia, coesione, fluidità/rigidità che vengono riorganizzate e integrate seguendo la tavola delle categorie. Al contrario della precedente, questa classificazione dà occasione a un’ampia discussione critica49. Nei fogli precedenti alla serie ‘Elem. Sy48 Tra le versioni embrionali di questa classificazione si vedano per esempio Oktavenentwurf, KgS XXI, 387, ‘A’, XXI, 307-309. Per un primo esempio della composizione secondo i quattro titoli indicati si veda il foglio ‘c’ (Ag.-Sett. 1798), XXI, 287-288. 49 Un primo esempio di formulazione ben ordinata è nel foglio ‘c’, KgS XXI, 288 (ponderabilità, solido/fluido, coesione, sussistente/inerente).

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st. 1’-‘Elem. Syst. 7’ la corrispondenza uno a uno tra categorie e proprietà spesso manca, mentre la riflessione sul calorico occupa ancora lo spazio maggiore. In seguito si trovano molte esposizioni successive della seconda classificazione, che solo nei più tardi fogli con segnatura ‘Elem. Syst.’ raggiungono il quarto titolo categoriale. Lo sviluppo parallelo delle due classificazioni comporta diversi slittamenti di proprietà dall’una all’altra, tra cui il passaggio del concetto di infinità/finitezza temporale dell’azione dalla prima alla seconda classificazione, la quale raggiunge così la sua composizione definitiva: ponderabilità (quantità), «coesibilità» (qualità), «coercibilità» (relazione) e perpetuità (modalità)50. La più significativa connessione tra le due classificazioni si riscontra sotto il titolo della qualità, rispettivamente intorno ai concetti di forza superficiale e coesione (foglio ‘A’). Infatti per definire una forza superficiale occorre riferirsi a una materia coesa dotata di bordi. Il problema, di cui abbiamo studiato le origini nei Principi metafisici, consiste nella ricerca di un nuovo conflitto oltre a quello che nella fisica pura dà luogo alla possibilità della densità, e che determinando la coesione renda possibile passare alla fisica sperimentale. Il concetto che segna il discrimine tra le vecchie e le nuove riflessioni, e che è venuto in primo piano attraverso le riflessioni sull’etere/calorico, è proprio quello di ponderabilità: esso stabilisce infatti la condizione per determinare la densità (indicata qui con il termine «Ponderosität»). Ma la densità, a partire dai fogli del 1797 circa, non viene più considerata quale risultato del conflitto – anche se la rappresentazione del conflitto non viene esplicitamente abbandonata, ma piuttosto lasciata da parte – bensì come quantità misurabile. L’attenzione di Kant si rivolge invece al fatto che le condizioni di questa misura sono proprietà come coesione, coercibilità e rigidità. In generale esse co50 Nello stesso tempo la prima classificazione tende a sostituire il proprio quarto titolo con quello di estensione (Umfang) universale o limitata dell’azione. Si veda ‘No. 3δ’, KgS XXI, 531-532, che include entrambe le classificazioni. Nel foglio ‘Elem. Syst. 4’, XXII, 169-171 la prima classificazione viene divisa in due, che riguardano rispettivamente «contenuto spaziale» e «modo di azione». Ma nel foglio ‘A Elem. Syst. 1’, XXI, 182-183, la «perpetuità» ricompare nella prima classificazione.

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stituiscono le condizioni a priori non matematiche dell’impiego dello strumento di misura. Nel caso della pesatura, in particolare, queste proprietà si devono trovare nelle leve o nelle corde tese. Questo significa però che delle forze motrici originarie precedono logicamente qualsiasi concetto meccanico della scienza sperimentale51. Mediante un ragionamento puramente discorsivo Kant pone l’esigenza di riconoscere la possibilità di forze eterogenee rispetto a quelle gravitazionali, senza però ipotizzarne in alcun modo la natura (si ha la tentazione di pensare allo sviluppo delle teorie elettriche nei decenni successivi). D’altra parte, egli inclina senz’altro a ipotizzare una spiegazione della coesione e la coercibilità (anche degli strumenti di misura) mediante l’azione di un materiale «incoesibile» e «incoercibile», condizione incondizionata delle stesse proprietà di coesione e coercibilità52. È segno che il pensiero kantiano è ancora in parte imprigionato in un dilemma: risolve la materia in forze, ma queste devono appartenere a una materia e il suo concetto di materia implica pur sempre le proprietà meccaniche elementari. In ogni caso la mancanza di queste proprietà nella dinamica pura è il tema principale dei manoscritti, nel cui sviluppo le riflessioni sull’anticipazione delle «forze motrici» fisicamente indeterminate e quelle sulle esplicazioni mediante l’etere/calorico tendono sempre più a distinguersi. Si ha l’impressione che Kant si sforzi di affrancarsi dal rischio di tornare semplicemente ai postulati della filosofia meccanicista e tenti perciò di “smaterializzare” l’etere. In questo contesto problematico e teorico compaiono le prime 51 Si veda ‘No. 3β’, KgS XXII, 259-260. Questo passaggio è ben messo in rilievo da FÖRSTER, Kant’s Final Synthesis, 15-17. 52 Una formulazione molto chiara di questo passaggio si trova in foglio successivo, ‘A Element. Syst. 4’, KgS XXII, 587: «Questa materia, che si dovrebbe pensare soggettivamente imponderabile, poiché non pesa [hinwiegt] in nessuna direzione, e nello stesso tempo sarebbe incoercibile, conterrebbe dunque la forza per la rigidità della bilancia. Dunque già nel concetto della ponderabilità (ponderabilitas objectiva) si trovano l’assunzione e il presupposto di una materia che penetra tutti i corpi, dotata di forze motrici primitive, e che dunque è contenuta a priori [in quel concetto] senza andarne in cerca nella fisica empiricamente (con osservazione e esperimento) e senza aver bisogno di escogitare alcun materiale ipotetico per la spiegazione del fenomeno della pesatura, poiché questo viene piuttosto postulato».

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annotazioni sul progetto di un «Passaggio (Übergang) dai principi metafisici della scienza della natura alla fisica». Negli abbozzi di Prefazione alla nuova opera Kant collega l’esigenza di un sistema delle forze alla generica circostanza, già ampiamente trattata nella terza Critica, secondo cui da un mero aggregato di percezioni, senza un sistema di concetti, non si potrebbe mai ricavare una scienza. Comincia dunque ad abbozzare una classificazione dei «concetti intermedi» (XXI, 175) – coesione, ponderabilità, rigidità, soluzione ecc. – secondo i quali la fisica deve poter indagare la natura. La classificazione sistematica delle forze motrici è necessaria al fine di «modellare le percezioni primitive, da cui viene formato il concetto delle forze motrici, in leggi dell’esperienza»53. Il compito filosofico e costitutivo assegnato a questi concetti si esprime ora nel progetto di uno «schematismo della facoltà di giudizio»54. Riguardo a questa formulazione è importante chiarire in primo luogo che i nuovi concetti non si riferiscono direttamente all’intuizione, e come tali non sono apodittici come il principio generale delle anticipazioni della percezione, ma lo sono soltanto ipoteticamente. Essi si riferiscono a forze «pensabili», non senz’altro reali, e perciò Kant li definisce «pensati a priori» ma «attestati a posteriori»55. Il passaggio contiene semplicemente concetti di forze motrici della materia pensabili e di loro leggi, la cui realtà oggettiva viene lasciata ancora indecisa e fonda un sistema di concetti secondo la forma con cui può essere confrontata l’esperienza56.

I concetti in questione non sono dunque empirici, ma «autoprodotti (selbstgemacht)». La dottrina del Passaggio è dunque una «topica» di funzioni, un «sistema di applicazione», che come tale riguarda «lo scienziato, e non la natura come oggetto»57. Il ritorno a ‘No. 3γ ’, KgS XXI, 367. Si veda per es. KgS XXII, 263; XXI, 363; XXI, 168, 174. 55 ‘c’, KgS XXI, 289-290. 56 ‘A’, KgS XXI, 309. 57 Particolarmente chiara è la trattazione delle nuove anticipazioni dinamiche, riguardo a forma e relazioni, nel foglio ‘α’ (1797-98), KgS XXI, 504, dove si trova an53 54

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una terminologia propriamente filosofica attesta uno sforzo di ripensamento teorico, ma non basta a chiarire agevolmente lo statuto dei nuovi concetti e del sistema che li classifica. Le difficoltà in proposito, che conviene esaminare, sono ben espresse quando Kant annota: si tratta di «principi regolativi che sono anche costitutivi»58. Per un verso, infatti, la caratterizzazione dei nuovi concetti come «problematici», così come la loro organizzazione secondo coppie disgiuntive, suggerisce che la nuova dottrina non sia altro che un’estensione della dottrina della ragione presentata nella prima Critica – dalla «determinazione completa» ai «principi regolativi» – e come tale essa resti priva di valore costitutivo59. Ma il fatto che Kant risollevi una questione di «applicazione» suggerisce che egli abbia in mente una dottrina costitutiva piuttosto che un mero organo di ordinamento razionale di osservazioni e risultati sperimentali. Egli insiste più volte sulla «necessità» di una classificazione a priori delle forze motrici, ricavandola nelle bozze di Prefazione dal solito argomento che sottopone la scientificità alla sistematicità. Ma questo punto di vista generale, che serve a dare un primo inquadramento al «Passaggio», si deve considerare insieme al compito di introdurre i concetti fondamentali della fisica empirica, che è stato fin qui al centro delle riflessioni kantiane, e che assume sempre più nettamente una valenza trascendentale. I concetti del sistema, infatti, non sono certo scelti a caso, ma sono proprio i concetti che si devono postulare per fare una esperienza di oggetti esterni. I Principi metafisici – come si legge nell’importante Loses Blatt 6 – non offrono un vero e proprio «materiale», ma «mere forme». I corpi non sono stati costruiti mediante le forze fondamentali; ma «la materia, come produce un corpo?» Per rendere che l’ultimo passo citato (p. 506). Le espressioni citate in precedenza provengono rispettivamente da: un abbozzo di Prefazione senza segnatura (fascicolo II, foglio III), KgS XXI, 176-177 (concetti «autoprodotti»); LB 3/4, XXI, 478 («Sistema di applicazione»); LB 5, XXI, 485 («topica»). 58 ‘B Übergang’, KgS XXII, 240-241. 59 La problematicità dei concetti viene affermata, per es., nel foglio ‘No. 3’, KgS XXI, 358. Cf. ‘3 ’, XXI, 366-367; ‘3 ’, XXI, 530-531. L’enumerazione secondo coppie disgiuntive ricompare nel nuovo contesto a partire dal foglio ‘A’, XXI, 311. Un altro esempio si trova nel più tardo foglio ‘K’, XXII, 357.

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possibile l’allestimento di una costruzione dinamica le forze fondamentali non bastano e perciò devono essere anticipati nuovi «concetti intermedi (Mittelbegriffe)», senza dei quali si darebbe uno iato (Kluft) tra metafisica e fisica60. La curvatura trascendentale della questione diviene evidente nei fogli ‘1-3 ’. La percezione di un oggetto esterno («una pietra») non può condurre al concetto di «esperienza» senza l’ausilio di forze motrici (KgS XXI, 62). La ponderabilità, per esempio, è una condizione senza di cui la quantità di materia non avrebbe alcun significato (XXI, 217). Ma la coercibilità e la coesione (di una leva) sono condizioni della stessa ponderabilità61. I concetti già raccolti nelle classificazioni precedenti – come ponderabilità, solidità, coesione, calore – ricevono dunque lo statuto di condizioni a priori dell’esperienza fisica e come tali vengono organizzati secondo il filo conduttore categoriale62. Se gettiamo uno sguardo indietro alla Logica trascendentale troviamo conferma della distinzione tra fenomeno come molteplice dell’apprensione e fenomeno come oggetto (§ 3.4): quest’ultimo richiede leggi, ma queste risalgono a concetti di forze; tuttavia questi concetti, e il loro ordinamento sistematico, non possono essere ricavati né dalla percezione, né dalla matematica. Ricalcando i riferimenti kantiani alla dottrina trascendentale del giudizio si può così ricostruire la nuova dottrina dello schematismo. Secondo il filo conduttore delle categorie vengono riorganizzate le proprietà fondamentali della fisica, che vengono applicate ai fenomeni e danno luogo a nuovi principi, come per esempio: «tutta la materia è ponderabile», che «non è una proposizione empirica»63. È utile verificare il parallelismo di questa teoria con 60 LB 6, KgS XXI, 474-476. La centralità del problema della possibilità dei corpi per l’intero progetto del «Passaggio», posta la continuità della materia dei Principi metafisici, è stata giustamente messa in evidenza da TUSCHLING, Metaphysische und Transzendentale Dynamik, pp. 179-180 e FÖRSTER, Kant’s Final Synthesis, pp. 45-50. 61 KgS XXII, 255, 259-260; XXI, 294. 62 Si veda KgS XXI, 307, dove la ponderabilità è «la prima funzione delle forze motrici secondo la categoria di quantità». Cf. ‘A Übergang’, XXII, 226, dove la classificazione delle forze è detta un «sistema delle categorie». 63 KgS XXI, 295.

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la fisica pura dei Principi metafisici. Si rileva in primo luogo una precedenza logica della qualità (coesione) sulla quantità (ponderabilità) analoga a quella che legava nei Principi metafisici impenetrabilità e movimento. Di nuovo, sarà la rappresentazione del conflitto dinamico a fornire il fondamento reale della realtà nello spazio, che altrimenti resta puramente immaginaria. La questione si ricollega allora con quella, più generale, del passaggio dalla possibilità di principi dinamici alla loro necessità: problema che, stavolta, non è risolto in base alla deduzione del conflitto reale nell’intuizione pura. Ma questa differenza suggerisce una questione decisiva: nella fisica pura si poteva già parlare di uno schematismo – anche se Kant non lo faceva, forse per evitare confusione con lo schematismo trascendentale – in quanto i concetti essenziali della materia, organizzati secondo il filo conduttore delle categorie, venivano applicati all’esperienza mediante l’intuizione pura del movimento (e abbiamo visto quanto fosse intricata l’introduzione di questo nuovo medio nella filosofia pura); ora si devono applicare concetti elementari di forze motrici all’esperienza; ma qual è il nuovo medio tra concetto e intuizione? Si tratterà di uno spazio, nel quale la rappresentazione del conflitto reale renderà possibile conferire realtà empirica alle forze anticipate a priori; sarà allora uno spazio materiale che viene qualificato a priori secondo rapporti dinamici. Dunque Kant non rinuncia alla specificità delle forze fondamentali della Dinamica – le sole dimostrabili a priori in base al concetto di materia – ma introduce nuove condizioni delle costruzioni fisico-matematiche, isolando così un ulteriore dominio di pertinenza della filosofia pura rispetto alla teoria fisica vera e propria. Ma proprio l’esigenza di conferire realtà oggettiva a questo sistema di forze tiene in gioco il concetto dell’etere/calorico, e nello stesso tempo ne impone una profonda rielaborazione. L’etere/calorico continua infatti a svolgere un ruolo di primo piano e viene presentato come la fonte della realtà oggettiva delle nuove forze elementari. Per esempio è regolarmente considerato quale causa della coesione nel contesto delle discussioni sulla leva64. 64

Per es. KgS XXII, 138-139, 158.

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Ma il deciso chiarimento del suo statuto ideale, che riprende e approfondisce quello avviato nell’Oktavenentwurf, toglie di fatto valore alle rappresentazioni fisiche del conflitto: il calorico viene posto logicamente come condizione incondizionata delle proprietà del sistema elementare, in sé «imponderabile», «incoesibile» e «incoercibile», e dunque inadatto a produrre alcuna rappresentazione del conflitto65. Dal punto di vista filosofico, d’altra parte, è evidente che nessuna sostanza particolare può essere un oggetto di conoscenza a priori, e che il calorico, come sostanza particolare, deve restare ipotetico66. L’ultimo tentativo kantiano di conservarne l’omogeneità rispetto alle altre materie consiste nel considerarlo come «corpo cosmico» o «materia cosmica» (Weltstoff) unitario, dalla cui perpetua agitazione si formano tutti i corpi. Si ritorna così alla prospettiva cosmologica della Allgemeine Naturgeschichte, che ben si adatta con i Principi metafisici in base alla continuità della materia e alla confutazione del vuoto. Il Weltstoff, da questo punto di vista, non sarebbe altro che la materia in generale della fisica pura considerata fuor di astrazione, non distributivamente – secondo le sue proprietà essenziali – ma collettivamente. E tuttavia, nella cornice del criticismo, il ritorno a questa rappresentazione fisica non può avvenire senza ulteriori passaggi. L’esistenza della materia, nel Kant precritico, dipendeva in primo luogo da quella di Dio, che nel nuovo contesto teoretico non è più accertabile. Una prova a priori dell’esistenza della materia, come sappiamo, era comparsa nella Confutazione dell’idealismo. Non si trattava però di una materia onnipresente e mobile, e soprattutto si trattava di materia impenetrabile. L’attribuzione ad essa delle nuove proprietà “incondizionate” introduce dunque un nuovo ordine di problemi, che conduce gradualmente all’idea di una prova a priori dell’esistenza del materiale cosmico, nei fogli ‘Elem. Syst. 1-7’, ‘A-B Übergang’, ‘A. Elem. Syst. 1-6’ (tutti datati intorno al 1799). 65 Si veda per es. KgS XXII, 179 e, per il calorico imponderabile come condizione della ponderabilità, XXII, 138. 66 Lo status ipotetico del calorico, insieme ai dubbi sulla sua stessa esistenza come sostanza materiale, viene ribadito nel LB 3/4, dove Kant parafrasa l’articolo «Wärmestoff» di Gehler (KgS XXI, 479-481).

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In presenza dei vecchi argomenti (coesione della bilancia67, ecc.) viene ora in primo piano un argomento “cosmologico” basato sulla agitazione perpetua del calorico. Il movimento nel mondo non può avere inizio e deve dunque essere considerato persistente; ma la persistenza richiede un «primum mobile», quale fondamento reale la cui esistenza può essere postulata. Di questo argomento notiamo in primo luogo l’aspetto fisico. Per quanto la forma dell’argomento sembri schiettamente metafisica, è chiaro che Kant intende ancora una volta bandire dalla natura la rappresentazione di una dissipazione dinamica e il conseguente ricorso a un intervento divino per conservare il movimento (è la vecchia polemica contro Newton)68. Si tratta dunque, per così dire, di un primum mobile fenomenico. Ricordiamo che un tale postulato è necessario alla formulazione dei teoremi della Dinamica: abbiamo studiato le difficoltà che si ponevano a una deduzione del movimento dal semplice concetto di materia, dai due punti di vista dell’affezione e della teoria dinamica della materia. Kant non fa questo riferimento retrospettivo, ma è importante osservare che il presente argomento 67 Un’esposizione particolarmente chiara si trova nel foglio ‘Elem. Syst. 1’, KgS XXII, 138, 157. Nelle sue occorrenze più tarde, la questione della precedenza di principi dinamici rispetto a quelli meccanici viene ripresa ancora riguardo alla teoria delle macchine semplici, con particolare riferimento alla meccanica di Kästner. Una esposizione della teoria della leva di Kästner si trovava nel Physikalisches Wörterbuch di Gehler alla voce «Zusammensetzung der Kräfte» (vol. IV, pp. 931ss.). Si veda per es. ‘A Übergang’, KgS XXII, 228; ‘Übergang 11’, KgS XXI, 607. 68 Tra le prime affermazioni di questa funzione v. già ‘A’, KgS XXI, 310-31; tra le più chiare nei fogli in esame ‘Elem. Syst. 7’, XXII, 198, ‘A Elem. Syst. 6’, XXII, 607608. Questo legame con la cosmologia newtoniana è sviluppato in M. CARRIER, Kraft und Wirklichkeit. Kants späte Theorie der Materie, in S. BLASCHE (hrsg.), Übergang. Untersuchungen zum Spätwerk Immanuel Kants, Frankfurt a.M. 1991, pp. 224-227. L’articolo contiene anche un tentativo di classificazione degli argomenti sull’etere in tre specie: chimico, cosmologico e trascendentale. Come stiamo vedendo si tratta di una classificazione troppo semplificata. Il presente argomento «cosmologico», intanto, avanza una tesi metafisica di impostazione aristotelica (cf. Physica, 251 b), che in questa fase deve essere connessa con la funzione di formazione dei corpi e dunque con l’argomento «chimico», ma che in seguito verrà ripreso nella cornice dei nuovi argomenti trascendentali in connessione con la possibilità dell’intuizione. Ad esso vanno poi aggiunti i precedenti, diversi argomenti fisico-ipotetici – meccanici e chimici – e i successivi argomenti trascendentali, che esamino nel prossimo capitolo.

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non muove dall’analisi di un concetto fisico di materia, ma dalla necessità di ammettere un movimento originario, e solo successivamente ne inferisce un generico sostrato materiale, che non è dunque più collegabile con le precedenti ipotesi fisiche. Nel foglio ‘Elem. Syst. 5’, per esempio, Kant scrive che è «sufficiente» ammettere un movimento vibratorio originario nell’universo e che il calorico come sostanza corrispondente viene ammesso solo in via ipotetica, come «phaenomenon substantiatum»69. Più volte, poi, sottolinea che il nome di ‘calorico’ è ormai inadeguato e restrittivo per una tale sostanza. D’altra parte considera il nuovo materiale cosmico, in base alla sua perpetua agitazione, come «principio universale della possibilità dell’esperienza»70. Queste modifiche producono un inevitabile distacco rispetto al giro di problemi del «sistema elementare delle forze». Tolta la rappresentazione meccanica del conflitto, cui Kant tende ogni volta che ritorna sui concetti fisici, si deve comprendere in che modo l’etere sarebbe un «postulato» della ponderabilità, della coesione, infine della stessa dinamica71. L’ipotesi che Kant sta seguendo è che il nuovo materiale, in quanto sostanza, sia la «base» di tutte le forze motrici, che in sé resta dinamicamente indeterminata; resta da capire come mai si possa attribuire a questo materiale un movimento proprio e anzi, dato che non è impenetrabile, se sia ancora opportuno chiamarlo materia. In questi fogli del 1799 si presenta tuttavia un fondamentale passo avanti gnoseologico. Kant comincia a rendersi conto che i suoi ragionamenti sulla materia cosmica fanno uso di differenti concetti di realtà. Resta fermo che il riempimento dello spazio non può che essere inteso in senso fisico-dinamico. Se la materia cosmica riempie lo spazio con continuità si dovrebbe dunque dire che essa lo fa mediante la propria impenetrabilità, fondamento delle proprietà meccaniche, oppure – come la materia magnetica – peKgS XXI, 181-182. KgS XXII, 197. 71 Cf. rispettivamente KgS XXII, 587; XXII, 19; XXII, 200. Kant insiste parallelamente nel rifiuto della forza di coesione, la cui spiegazione viene detta addirittura «circolare» (XXII, 586). 69 70

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netrando liberamente tutti i corpi. La prima ipotesi è esclusa dall’imponderabilità del materiale in esame. La seconda ipotesi è associata all’esempio di un materiale specifico inferito ipoteticamente in base ai fenomeni. Come si può, invece, considerare presente nello spazio la stessa materia cosmica, da cui hanno origine i fenomeni meccanici, senza che questa possa interagire meccanicamente? Esiste un’ipotesi per una simile spiegazione, che Kant conosce bene: si tratta della nozione di una onnipresenza di Dio come sostanza spirituale estesa ma penetrabile, introdotta da More in polemica con Descartes e ricordata da Newton. Questa, peraltro, era stata impiegata per ipotizzare una spiegazione di diversi fenomeni fisici, e si collegava anche con una spiegazione metafisica della stessa origine del movimento. Tuttavia, oltre al fatto che l’intero contesto teologico in Kant deve venire meno, lo stesso concetto di una «nuova specie di sostanza, che per esempio sia presente nello spazio senza impenetrabilità» è escluso nella Disciplina della ragion pura rispetto alle ipotesi in quanto non si dà empiricamente e non se ne riesce a comprendere a priori la possibilità (KrV A 770/B 798). Tenendo presente queste tre specie di ipotesi che restano escluse (meccanica, dinamica empirica, speculativa), siamo in grado di comprendere l’esigenza di un significato di riempimento dello spazio adeguato alla nuova teoria. Kant lo introduce nel foglio ‘Elem. Syst. 6 Einleitung’, scrivendo efficacemente che il Passaggio riguarda «il riempimento del vuoto con forme», le quali devono servire alla «determinabilità di spazio e tempo riguardo alle forze motrici» (KgS XXII, 193). La determinabilità a priori dello spazio e del tempo mediante l’intelletto rispetto alle forze motrici della materia è la tendenza dei Principi metafisici della scienza della natura [Metaph. A. Gr. der N.W.] alla fisica, e il passaggio ad essa è il riempimento del vuoto con forme che riguardano tutti i possibili oggetti dell’esperienza nella loro unità. Una creazione dell’idea del tutto dell’intuizione di sé che determina completamente se stessi.

Questo concetto – che si chiarirà compiutamente con l’esame dei fogli successivi – non si può evidentemente collegare con la rappre725

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sentazione fisica del conflitto, mentre suona perfettamente coerente con quella del nuovo schematismo. Nel complesso, la novità nell’espressione non deve far pensare a una radicale riforma filosofica. Un riempimento formale in tal senso si poteva considerare già quello menzionato nel capitolo sulle Anticipazioni della percezione della prima Critica, dove si trattava del «momento» quale puro principio inesteso di causalità (KrV A 168/B 210). Kant dunque riprende questo concetto per chiarirlo ed elaborarlo, in particolare per quanto riguarda la possibilità – che verrà esplorata nelle successive prove dell’esistenza dell’etere – di una sua duplice applicazione ai casi dell’affezione e del cambiamento esterno. La continuità con la filosofia precedente è confermata − sempre nel passo citato − anche dal primo accenno a un’altra delle tesi trascendentali che verranno sviluppate in seguito, secondo cui la determinazione dinamica dello spazio operata dal nuovo schematismo sarebbe una «autoaffezione» del soggetto. Anche il concetto di autoaffezione non è ovviamente estraneo alla filosofia trascendentale della Critica, ma qualifica fin dall’inizio la dottrina dello schematismo puro come operazione del soggetto e determinazione spontanea della forma dell’intuizione. Piuttosto che spingersi verso un ampliamento speculativo del suo pensiero precedente, qui come in alcune lettere degli stessi anni che ritornano sullo schematismo, pare che Kant si stia confrontando con i nuovi idealismi speculativi dei suoi interpreti per riaffermare il valore critico dei concetti trascendentali: ribattendo, per esempio, che il primato della compositio sul compositum, come conferma anche la riflessione sulla fisica, non toglie la ricettività della sensazione, come invece avviene se si prende la distinzione tra l’Io puro e l’Io empirico – che vale solo in abstracto – come una precedenza logico-metafisica della spontaneità del primo sulla ricettività del secondo, e si ipotizza una deducibilità dei dati sensibili dall’intelletto puro, o da un principio superiore. Per esempio, l’urgenza di una specificazione dello schematismo si potrebbe collegare alla preoccupazione per le tesi di Fichte, secondo il quale la Critica avrebbe contenuto soltanto una «propedeutica» alla vera e propria filosofia72. 72 Su compositio e compositum si vedano per es. KgS XXI, 274; XXI, 633 e la lettera a J.H. Tiefrunk dell’11 dicembre 1797, KgS XII, 222-225. Questa lettera presen-

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Questi chiarimenti aiutano a mettere ordine nella confusione gnoseologica di tutte le riflessioni precedenti sul concetto di materia cosmica, ma non bastano certamente a provarne l’esistenza. Quello che si ottiene, con la nuova teoria dello schematismo dinamico, è soltanto un complesso di proprietà che si devono anticipare a priori determinando la forma dell’intuizione esterna, ma non è ancora fornita una ragione per associare queste proprietà all’esistenza di un materiale che riempie tutto lo spazio. Per introdurre una tale materia viene in evidenza però un ultimo genere di argomento, di carattere trascendentale. Come si legge ancora nel fondamentale foglio ‘A Elem. Syst. 6’, l’indagine riguarda la possibilità delle forze motrici che «[effettuano] una impressione sui sensi». Ricompare dunque il concetto di affezione, che abbiamo lasciato in sospeso studiando proprio le riflessioni contro l’idealismo dei primi anni ’90. Ora già nell’Oktavenentwurf Kant annotava che «non c’è altra materia presente ovunque nello spazio e che si manifesti ai nostri

ta una singolare opportunità di collegare i due piani trascendentale e fisico delle riflessioni kantiane. La priorità della coscienza della compositio sull’intuizione del compositum non è che un modo di riaffermare la funzione dello schematismo. Ma l’intera discussione sembra fare da contrappunto alle riflessioni dello stesso periodo sulla formazione dei corpi, che in fisica deve precedere logicamente la loro percezione e che si conclude proprio con l’introduzione di un nuovo schematismo. Il riferimento all’idealismo di Beck, qui implicito, viene esplicitato per es. nel foglio ‘I’, KgS XXII, 353 (cf. FÖRSTER, Opus postumum, pp. 271-272, nota 68). Sempre a Tiefrunk, il 5 aprile 1798, Kant dichiara per la prima i volta i dubbi sulla filosofia trascendentale fichtiana, di cui parla ancora per conoscenza indiretta (cf. la lettera a Fichte di fine 1797, KgS XXI, 221-222). L’assurdità di sviluppare una filosofia trascendentale in cui la riflessione sia priva di materiale della conoscenza − ciò che è di fatto «mera logica» − è ribadita infine con decisione nella Dichiarazione sulla Wissenschaftlehre del 7 agosto 1799 (KgS XII, 370-371). Al problema posto da Fichte si possono ricollegare l’affermazione secondo cui «questo Passaggio non è semplicemente propedeutica» (‘B Übergang’, KgS XXII, 240) e in genere l’insistenza di Kant sulla «completezza del sistema» della conoscenza della natura nei «tre gradi» metafisica della natura, fisiologia e fisica, questi ultimi due da collegarsi mediante il Passaggio (si veda l’Introduzione nel foglio ‘n. 3’, XXI, 361). La critica alla dottrina della scienza ricompare per es. nel successivo foglio ‘Übergang u[sw]’, XXI, 207. Anche se risalgono a qualche anno prima, vanno tenute presenti su tali questioni anche le pagine sul Versuch über die Transzendentalphilosophie di Maimon nella lettera a Marcus Herz del 26 maggio 1789, KgS XI, 49-54.

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sensi oltre alla luce» (KgS XXI, 383). Con il fenomeno luminoso incontriamo di nuovo un tema ben diffuso nella metafisica e nella scienza dei secoli precedenti, di nuovo dobbiamo riscontrare un tentativo di ripensarlo nei termini dell’idealismo trascendentale della Critica – anche per far fronte alle nuove interpretazioni speculative73. Per chiarire bene il senso degli appunti kantiani di questi stessi anni sul materiale cosmico come fondamento dell’affezione il riferimento a Newton fornisce ancora una volta il filo conduttore più utile. Il tema dell’affezione, infatti, comincia a essere sviluppato attraverso la stessa analogia tra l’esperienza del proprio corpo e il pensiero fisico che reggeva la speculazione newtoniana sullo spazio. L’idea di fondo è che l’esperienza del movimento volontario fornisca un termine analogico per pensare le forze motrici. Ma la stessa affezione, allora, viene pensata come azione di forze sui sensi, in modo da anticipare una visione sistematica della natura come «intero», e dell’uomo in essa, che nessuna intuizione empirica come tale può fornire. Il calorico è dunque «principio dell’esperienza di spazio e tempo nell’intero delle forze motrici della materia», cioè «concetto del solo possibile mezzo per fare [anstellen] esperienza, in quanto quest’ultima può essere un effetto primitivo delle forze motrici della materia sui nostri sensi». Dato però che le forze sono anticipate problematicamente dal soggetto stesso, Kant può parlare di «autoaffezione» restando pienamente nell’ambito della sua filosofia precedente: la rappresentazione di una causa trascendente che impressiona i sensi resta pienamente esclusa74. 73 La metafisica della luce si univa alle speculazioni sull’etere lungo una linea che si può far cominciare idealmente dall’analogia del Sole nel libro VI della Repubblica platonica e che, attraverso molteplici mediazioni, giunge fino ai protagonisti della scienza della natura moderna. Si pensi alla sostanza «spiritosissima, tenuissima e velocissima», «lucida e calorifera» e capace di penetrare ovunque e vivificare tutti gli esseri, emanazione del Sole su cui si dilunga Galilei nella lettera a Piero Dini del 26 marzo 1615, che rimandava all’«opinione di antichi filosofi» citando Dionigi Areopagita (Le opere di Galileo Galilei, Firenze 1929-1939, vol. 5, pp. 301-303). E ancora, alla fine del secolo XVII, allo «spirito sottilissimo» di Newton, che a sua volta si ispirava a More e alla prisca sapientia inventata dai neoplatonici antichi e moderni. Simili speculazioni sarebbero state riprese proprio in questi anni negli scritti di Schelling (sull’anima del mondo, sul Timeo, su Bruno...). 74 Si veda per esempio ‘A Übergang’, KgS XXII, 605-606. L’analogia diviene espli-

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Il nesso tra problema dell’affezione e sistema delle forze, che viene così introdotto, non possiede ancora una dettagliata articolazione, che ne chiarisca il rapporto con le altre linee del ragionamento sul materiale cosmico. Nel foglio appena citato il calorico è presentato anche – senza soluzione di continuità – come la materia che rende possibile la ponderabilità, senza avere in sé un peso (XXII, 607). E ancora nei fogli successivi, in cui il ragionamento trascendentale viene in primo piano e quello fisico-dinamico resta a margine, la rappresentazione del conflitto continua a trovare nel calorico il termine mancante75. Infine, proprio sul piano della pura anticipazione logica di un sistema di forze, il riferimento al calorico come materia luminosa e dunque condizione dell’esperienza spazio-temporale non sembra facilmente collegabile con la sua funzione di sostrato delle forze in perpetua agitazione. Il discorso sull’influsso che la materia cosmica renderebbe possibile possiede dunque una polivocità fin dalle primissime versioni di argomentazione trascendentale, e questa continua a viziare anche le vere e proprie «prove» dell’esistenza della materia cosmica la cui redazione Kant intraprende verosimilmente intorno all’estate del 1799.

cita solo nei fogli ‘A-Z’. Per es. in ‘K’ si legge del «sistema elementare delle forze motrici della materia nel soggetto come suo proprio corpo» (XXII, 357), e a margine viene sottolineata l’importanza della «coscienza dei propri organi nell’uso delle forze motrici, come fenomeno di un corpo in generale, come transito oggettivo alla fisica per ciò che concerne la percezione, in quanto esse contengono a priori [l’]unità dell’oggetto, fenomeno di un tutto dei fenomeni» (XXII, 358-359). Cf. ‘T’, XXII, 481: «Conoscere se stesso come corpo organico nell’esperienza [e a margine] N.B. I l c o n cetto di un elemento immediatamente e primitivamente motore (calorico)». Il nesso è chiarito subito dopo: «Il concetto di corpi organici (che contengono un principio vitale) presuppone già l’esperienza, perché senza di essa anche la loro semplice idea sarebbe un concetto vuoto (senza esempio). Ma l’uomo ha in se stesso un esempio del fatto che un intelletto contiene forze motrici che determinano un corpo secondo leggi». 75 Il passo più chiaro è nel foglio ‘Übergang 13’, KgS XXI, 610: «Ponderabilità, coercibilità, coesione e produttibilità [Erschöpfbarkeit] presuppongono forze motrici che agiscano in opposizione ad esse e che ne respingano l’azione».

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Capitolo 13 La materia cosmica come presupposto trascendentale

13.1. Il nuovo concetto del Weltstoff e le prove della sua esistenza A) Il concetto della materia cosmica e la difesa della filosofia trascendentale Le varie stesure di prove [Beweise] dell’esistenza di un materiale cosmico, che costituiscono il contenuto principale dei fogli ‘Übergang 1-14’, sono giustamente uno degli aspetti più studiati dell’intero Opus postumum. Si tratta dell’ultima trattazione estesa e organica della nuova teoria della materia e dell’intera problematica del passaggio, che Kant giunse in parte a far ricopiare in vista di una stesura definitiva, e che precede una generale involuzione dei manoscritti verso una forma più frammentaria1. Costituisce inoltre il documento principale della svolta trascendentale dell’ultima filosofia naturale kantiana, che tante volte abbiamo trovato implicita negli scritti precedenti. In primo luogo vi si trova la tesi della uni1 Come è noto Kant fece copiare dai fogli 8-10 del Konvolut V (‘Übergang 9-11’). La copia si trova sui fogli 1-2 del Konvolut XII, KgS XXII, 543-555, con correzioni e annotazioni a margine dello stesso Kant. I fogli si aprono con un titolo di Introduzione, cui seguono due sezioni: la prima contiene una Suddivisione formale del metodo del passaggio, con discussioni critiche di Newton, D’Alembert e Kästner sull’esigenza di principi filosofici della filosofia naturale; la seconda contiene una Suddivisione materiale dei corpi naturali che presuppongono queste forze motrici – dedicata alla suddivisione tra corpi organici e inorganici e una Seconda suddivisione che, insieme alla conclusiva Nota, è dedicata al “calorico” e alla sua prova.

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cità della sostanza materiale, la cui esistenza sarebbe implicita nello stesso concetto, e dunque un ritorno sui generis alla dottrina dell’esistenza come omnimoda determinatio2. Inoltre, nel tentativo di allestire le prove, vengono in luce i problemi trascendentali che Kant tratterà, peraltro con poche aggiunte originali, nelle annotazioni più tarde sui temi dell’autoposizione, dell’autoaffezione, della possibilità della fisica, della nuova teoria del fenomeno, di spazio e tempo. Infine, proprio alla luce di questi problemi e degli elementi impiegati per risolverli, è legittimo cercare qui le ragioni intrinseche per cui, subito dopo questo ritorno sui presupposti generali della filosofia della natura, Kant dovette di fatto abbandonare la redazione di una nuova opera. Queste ragioni risiedono a mio avviso nell’impossibilità di determinare un concetto consistente della materia cosmica capace di includere le diverse funzioni – fisiche e gnoseologiche – che questa ha ricevuto nelle riflessioni degli anni 1798 e 1799. Le prove sono chiamate spesso dagli studiosi “dimostrazioni dell’esistenza dell’etere” o “deduzioni dell’etere”. Prima di esaminarne la struttura in dettaglio, e comprendere di che genere di pro-

2 ‘Übergang 12 Bogen b) S.2’, KgS XXI, 603, Nota I alla Prova dell’esistenza del calorico: «Questo modo di provare l’esistenza di un oggetto dei sensi esterni deve colpire, in quanto è unico nel suo genere (il che non ha altri esempi), cionondimeno non deve sembrare strano perché il suo oggetto ha in sé anche la particolarità di essere unico e di non contenere in sé una universalità semplicemente distributiva (come altre rappresentazioni o concetti a priori) ma c o l l e t t i v a − Existentia est omnimoda determinatio dice Christian Wolff, e così anche, viceversa, omnimoda determinatio est existentia, in quanto è un rapporto di concetti equivalenti. Ma questa determinazione completa pensata non può essere data; infatti essa si estende a una infinità di determinazioni empiriche. Solo al concetto di un oggetto dell’e s p e r i e n z a p o s s i b i l e, che non è ricavato da nessuna esperienza, ma piuttosto rende possibile la stessa esperienza, si concede necessariamente questa omnimoda determinatio, riguardo alla sua realtà oggettiva, non sinteticamente, ma analiticamente secondo il principio d’identità». Il termine Substanz si trova più avanti nello stesso foglio (XXI, 604). Cf. XXII, 553: «La sua unità nella determinazione completa dell’oggetto è nello stesso tempo la sua realtà effettiva». Kant preferisce usare il termine Stoff, probabilmente per sottolineare la determinabilità di questa sostanza come base delle forze motrici. Come vedremo più avanti, infatti, per forza motrice Kant intende anche un principio di spiegazione delle proprietà chimiche.

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ve si tratti, conviene domandarci: di cosa Kant intendeva provare l’esistenza? Il «Weltstoff», in questi fogli, è un materiale universale in genere, che viene distinto, più esplicitamente di prima, da un materiale fisico: «lo si chiami etere, o calorico etc. non si tratta di un materiale ipotetico per l’esplicazione di determinati fenomeni (KgS XXI, 218). Il concetto dunque non individua un materiale specifico e i termini fisici si possono usare ormai soltanto «per analogia» (KgS XXII, 594). Si tratta infatti di un «materiale cosmico reale e dato a priori dalla ragione, avente valore di principio della possibilità dell’esperienza del sistema delle forze motrici». Lo si può dire materia in quanto è «onnipresente rispetto ai corpi, sussistente per sé e agitante incessantemente e uniformemente tutte le parti dei corpi» (XXII, 216). La qualifica del movimento – come abbiamo visto − costituisce l’aspetto cruciale della nuova analisi del concetto: esso viene determinato infatti sia come semovente che come perpetuo motore di tutti i corpi. Essendo diffuso in tutto lo spazio non è soggetto a traslazione, perciò il suo movimento è una vibrazione interna. Si ripropone dunque la domanda: si tratta ancora di un materiale capace di interagire con il resto della materia in modo da formare i corpi? Questa vecchia maniera di rappresentazione compare ancora, ma si fa avanti una concezione diversa, che viene messa alla prova e riceve un’attenzione largamente maggiore. La distinzione dei concetti corrisponde a una separazione degli argomenti, che è evidente nella prima stesura di prova a priori, nel foglio ‘Übergang 2’: Dello spazio vuoto non si può dare esperienza, né alcuna inferenza circa l’oggetto di esso. Per venire a sapere dell’esistenza di una materia, ho bisogno dell’influsso di una materia sui miei sensi. Dunque la proposizione ‘c’è spazio vuoto’ non può essere mai una proposizione d’esperienza, né diretta né indiretta3. 3 Kant aggiunge a margine: «ma è soltanto raziocinata [vernünftelt]». Non deve sfuggire che si tratta di un verbo solitamente impiegato per indicare l’illusione dialettica.

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Il testo prosegue, dopo un trattino, con l’introduzione di un argomento differente, basato sulla seguente formulazione: La proposizione ‘vi sono corpi fisici’ presuppone quest’altra: ‘vi è una materia le cui forze motrici e il cui movimento precedono nel tempo la produzione di un corpo’4.

Il primo argomento, che stabilisce l’esistenza del «materiale cosmico» in base alla impossibilità di fare esperienza dello spazio vuoto, costituisce la prima, breve formulazione della prova che verrà ripetutamente abbozzata e sviluppata in diverse variazioni nei fogli successivi della serie ‘Übergang’. Il secondo argomento, che si concentra sulla materia semovente in quanto condizione del formarsi dei corpi, è l’ultima versione dei tentativi precedenti. Lo statuto differente degli argomenti – il primo trascendentale, il secondo fisico-ipotetico – si mostra considerando il genere di condizioni cui si fa appello: nel secondo argomento (che chiamerò C) la formazione dei corpi è un processo fisico, che deve dipendere come tale da ipotesi meccaniche, dinamiche o chimiche, mentre nel primo (che chiamerò prova E) il ricorso alla possibilità dell’esperienza segnala una problematica trascendentale, in cui Kant include anche la vecchia questione del vuoto5. In effetti – come viene affermato nel seguito della stessa pagina (cit. sotto) – Kant cer-

4 KgS XXI, 216-217. Nel seguito del passo, che riporterò tra breve, si legge che il materiale in questione è «semovente» e nello stesso tempo che «muove» tutti i corpi. 5 Nella seconda pagina dello stesso foglio il vacuum mundanum – di cui abbiamo studiato la problematica presenza nei Metaphysische Anfangsgründe (§ 10.2) – viene categoricamente escluso, proprio muovendo dal solito problema della densità specifica (KgS XXI, 218): «Proposizione prima. La differenza della materia, in quanto un corpo in uno stesso spazio ne contiene di più o di meno, non può essere spiegata atomisticamente (con Epicuro), mediante composizione del pieno con il vuoto interposto: perché lo spazio vuoto non è in nessun modo oggetto di una possibile esperienza (non essendo possibile alcuna percezione del non essere di un oggetto reale, ma solo la non percezione dell’essere). Gli atomi poi, come corpuscoli densi, se dovessero essere matematicamente indivisibili conterrebbero un concetto contraddittorio, perché ciò che è spaziale è divisibile all’infinito. Pertanto lo spazio cosmico deve essere pensato come riempito interamente di materia (senza spazi vuoti circostanti o interni (interspazi)), perché nessuno dei due è oggetto di una possibile esperienza».

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ca di risolvere la questione fisica in base a quella trascendentale, e dunque di sostituire l’argomento fisico e ipotetico con quello trascendentale e apodittico. Di conseguenza, sul piano concettuale, l’etere/calorico «che forma i corpi» finirà sempre più sullo sfondo (anche se riferimenti sporadici al suo movimento e ai suoi effetti sulla materia si trovano fino ai fogli più tardi), mentre viene in primo piano il concetto di un materiale a priori, definito in termini trascendentali come “reale” nello spazio nel senso di una nuova anticipazione della percezione. La strategia delle nuove prove, infatti, non è di spiegare direttamente le proprietà della materia quali gli stati di aggregazione (che rimangono dati empirici), ma di sostenere l’esistenza necessaria di un materiale, in quanto condizione della stessa intuizione esterna, che sarà anche condizione delle forze con cui la fisica produrrà le spiegazioni delle suddette proprietà. Nel foglio citato Kant conclude: «non può essere assunto come semplicemente problematico, perché designa primariamente l’intuizione, che, altrimenti, sarebbe vuota e senza percezione». Quale nome per il nuovo materiale Kant trova diverse espressioni molto efficaci: «spazio pensato ipostaticamente», «spazio percepibile», «spazio realizzato»6. Si tratta dunque di un nuovo concetto puro che designa nello stesso tempo un materiale cosmico e lo stesso spazio fisico. Proprio in virtù della sua funzione trascendentale dovremo ricavare con più precisione le determinazioni del suo concetto dalle nuove condizioni che esso soddisfa, e dunque dall’esame delle prove. Ma come può un singolo concetto racchiudere in sé la realtà della materia e la forma dello spazio, e come può l’ipostatizzazione e l’esistenza di un tale oggetto non sconvolgere del tutto le coordinate precedenti del criticismo? Kant certamente non ignora tali questioni, come è divenuto evidente nei fogli precedenti, e raggiunge ora una maggiore distinzione concettuale (infine proprio questa distinzione costituirà il risultato destinato a orientare le ricerche successive, anche al di là del problema delle prove). Ribadisce in primo luogo il giudizio, già acquisito, secondo cui lo spa6 Un esempio delle prime due denominazioni si trova in KgS XXI, 224. Per la terza si veda XXII, 200.

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zio di cui si occupa la filosofia trascendentale non può essere né pieno né vuoto7. Per introdurre il nuovo concetto ritiene ora possibile integrare la dicotomia tra pura forma dell’intuizione e «realtà» in senso fisico, in quanto riempimento dello spazio con materie di diversa densità. Questa dicotomia, ricordiamo, caratterizzava l’intero criticismo – in cui lo stesso reale della sensazione veniva anche chiamato «materia» – e bastava alla definizione dei suoi diversi concetti di spazio: sul piano degli elementi puri si definivano infatti la forma dell’intuizione e l’intuizione formale, mentre con l’introduzione di contrassegni percettivi associabili a oggetti materiali venivano definiti, sul piano fisico-puro, lo spazio materiale o relativo e infine lo spazio assoluto, come idea regolativa di un sistema di riferimento maggiore di ogni altro. Si tratta ora del concetto di un materiale che “riempie” completamente lo spazio, il quale viene però definito in base al concetto trascendentale di realtà nel senso dell’anticipazione della percezione. Questo riempimento dello spazio, come quello operato dal «momento» di una forza, non coincide con l’impenetrabilità, né in genere con alcuna percezione, ma con la sua causa immanente al fenomeno, che viene anticipata dall’intelletto. Il nuovo materiale viene considerato infatti come «principio» delle forze e condizione dell’esperienza, senza essere esso stesso un oggetto dell’esperienza, ma restando precisamente un «ente di ragione»8. Dunque Kant giustifica la validità oggettiva del concetto del Weltstoff − insieme al rispettivo sistema delle forze − in un modo analogo a quello impiegato nella Critica per definire quella dello spazio e della conoscenza geometrica. Se lo spazio, insieme alle figure che vi tracciamo con l’immaginazione, non fosse «condizione dei fenomeni» − sosteneva allora − la geometria si occuperebbe di «mere fantasticherie» (KrV 7 ‘Übergang 12’, KgS XXI, 588: «Lo spazio in generale è soltanto la forma soggettiva dell’intuizione pura esterna a priori, perciò non è né vuoto, né pieno». 8 Cf. ‘Z’, KgS XXII, 529-530, dove esso viene confrontato con il principio della gravitazione, che come abbiamo visto nella Prefazione alla Critica veniva designato quale «causa invisibile». Sul problema di un possibile correlato fenomenologico e fisico del Weltstoff torneremo nel prossimo paragrafo. Sulla sua natura di Gedankending vi sono molti luoghi, tra cui ‘Übergang 4’, XXI, 231, e già ‘A Elem. Syst. 6’, XXII, 606.

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A 157/B 196). In questo caso si tratta della possibilità della realtà, e dunque lo spazio, che nel caso precedente è lo spazio puro e contiene il “materiale” delle figure geometriche, viene considerato come sostrato delle forze motrici, e come tale identificato con un materiale necessariamente esistente che racchiude il “materiale” degli oggetti nel fenomeno. Nei nuovi argomenti – questa la novità assoluta – si conclude infatti che il riempimento in senso dinamico, che nella logica trascendentale è semplicemente possibile e dunque problematico, risulta invece necessario e diffuso uniformemente, in quanto condizione di possibilità dell’intuizione esterna. In questo modo Kant ritiene anche di poter risolvere il problema del vuoto, senza compiere l’abuso speculativo di una metafisica dogmatica – che ipostatizzasse senza ragione lo spazio puro – né essere vincolato dai limiti dell’esperienza effettiva – che non può distinguere tra spazio assolutamente vuoto e spazio riempito da un grado infinitesimo di realtà. Dal punto di vista tecnico, per definire questa nozione intermedia tra Estetica e Logica, Kant impiega i due concetti di universalità (Allgemeinheit) e totalità (Allheit) e sostiene che in questo solo caso le due coincidono in una materia esistente, che si può perciò provare a priori: Questa prova dell’esistenza di una materia mediante concetti a priori è, poiché riguarda l’assoluta unità di un tutto [Ganze], anche la sola della sua specie nella dimostrazione mediante semplici concetti: non è applicabile a nessun altro oggetto. L’unità logica che spetta all’universale viene qui identificata con l’unità reale che spetta al tutto [All] della materia9.

Un altro punto di vista sulla questione è offerto dalla distinzione tra unità «distributiva» e «collettiva», quest’ultima propria delle proprietà che spettano a tutti gli oggetti. Anche stavolta, nel solo caso del Weltstoff inteso come «condizione di possibilità dell’esperienza» le due nozioni coincidono: il materiale cosmico è infatti condizione materiale di ogni percezione. In tal senso la sua unità 9

‘Übergang 5’, KgS XXI, 241.

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collettiva coincide con una condizione materiale di ogni singola cosa nell’esperienza10. Kant ha dunque trovato un inquadramento adeguato per la prova a priori di una materia nell’ambito dei concetti della filosofia critica. Ma bisogna osservare subito che egli non sempre vi si attiene. Prima di passare a un approfondito esame delle prove, e senza affrettarci a salutare una svolta trascendentale, occorre infatti commentare il fatto che egli non abbandona mai del tutto la rappresentazione fisica del materiale in questione – neanche dopo averne rielaborato concetto e prove sul piano trascendentale. Nelle pagine 3 e 4 dello stesso foglio ‘Übergang 2’ – in un abbozzo di Nota ai primi tre tentativi di prova – si legge ancora che esso «penetra tutti i corpi e li agita continuamente dall’interno con attrazione e repulsione». Come al solito, si presenta la difficoltà logica di assegnare una trasmissione di movimento a un materiale che in sé «non è corpo» (XXI, 224) e non ha massa. Sembrerebbe dunque che non vi sia scampo al paralogismo, le cui premesse abbiamo già rilevato nei fogli precedenti; per esempio quando, nel margine della quarta pagina, si legge: «Una materia la cui funzione, in quanto essa è provvista di forza motrice, è solo quella di fare dello spazio in genere un oggetto d’esperienza in generale, e, attraendo e respingendo internamente se stessa, non rimuove alcun’altra materia dal suo posto, ma la penetra interamente, ed è per natura originariamente motrice, per essere oggetto dell’esperienza» (KgS XXI, 224). Un accurato bilancio della questione sarà possibile solo al termine dell’esame delle prove. Si può però già tratteggiare un quadro dei problemi associati allo statuto del nuovo Weltstoff, per fu10 ‘Übergang 8’, KgS XXI, 552: «Questa prova è l’unica del suo genere perché l’idea dell’unità distributiva dell’esperienza possibile qui viene a coincidere [zusammenfällt] con l’unità collettiva di un singolo concetto». Cf. ‘Beylage VII’, XXII, 81, dove Kant distingue invece universalità «analitica» e «sintetica»: «L’universalità analitica (universalitas). Quella sintetica, la totalità [Allheit] universitas rerum». Più avanti (XXII, 84), sempre in un tentativo di individuare la qualificazione più adatta per il Weltstoff, Kant annota: «Universalità discorsiva e intuitiva. Quella nei concetti, questa nell’intuizione. Universalità logica, metafisica, trascendentale – universalità cosmologica (non totalità universalitas, ma universitatis)».

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gare subito alcuni equivoci. Distinguiamo dunque un piano metafisico e un piano fisico. α) Un equivoco che ha suscitato questo nuovo complesso dottrinale è quello di costituire un «superamento» del sistema del criticismo e un estremo approdo a posizioni metafisiche tradizionali – in un accordo (o resa) alle posizioni del nuovo idealismo speculativo11. L’idea di etere viene presentata da Kant con termini che ricordano in effetti quelle dedicate, nella Critica, all’ideale della ragione. Non si tratta però di un’ipostatizzazione di questo ideale – né, come vedremo, della tradiva e rivoluzionaria accettazione di una prova ontologica – bensì dell’introduzione del suo equivalente fenomenico. Il Weltstoff di questi fogli si può considerare un analogo fenomenico dell’ideale della ragione, del quale Kant ha trovato modo di provare l’esistenza necessaria12. La differenza è decisiva. Laddove l’ideale della ragione era il pensiero di un ente che raccogliesse in sé la totalità del pensabile, il Weltstoff del 1799 è un ente che racchiude la totalità dell’esperibile nello spazio: «L’Uno e il Tutto degli oggetti sensibili esterni» (KgS XXI, 586). Per argomentarne l’esistenza Kant riprende lo schema argomentativo che stava alla base del principio della possibilità dell’esperienza nella prima Critica, cioè quello di trovare in quest’ultima il «medio» per collegare sinteticamente e a priori le rappresentazioni e gli oggetti. La definizione della materia come sistema delle forze motrici riceve validità oggettiva mediante il ricorso a un «assioma» sogget11 Questa fase del pensiero kantiano è interpretata come una completa sconfessione dell’idealismo critico precedente, ispirata dagli sviluppi dell’idealismo speculativo, da B. TUSCHLING, Übergang: von der Revision zur Revolutionierung und Selbst-Aufhebung des Systems des transzendentalen Idealismus in Kants Opus postumum, in H.F. FULDA-J. STOLZENBERG (eds.), Architektonik und System in der Philosophie Kants, Hamburg 2001, pp. 129-170. Tuschling non coglie la fondamentale differenza tra ideale della ragione, relativo alla totalità del pensabile, e etere come rappresentazione collettiva della totalità dell’esperibile. Si noti che già nel libro del 1971 Tuschling sosteneva l’esigenza di una riforma della Dottrina trascendentale degli elementi in una «dinamica trascendentale», e riteneva sconfessati i Principi metafisici, ma non si pronunciava ancora su un superamento della stessa Critica. 12 Cf. FÖRSTER, Kant’s Final Synthesis, p. 91: «Suggerisco che l’etere si comprenda meglio come ideale trascendentale in senso critico»; FRIEDMAN, Kant and the Exact Sciences, pp. 300-316.

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tivo, cioè l’unità dell’esperienza del molteplice delle percezioni, propria di un soggetto inserito in un sistema di relazioni dinamiche di tutti gli oggetti (KgS XXII, 609-612; 614). Quello che altrimenti resterebbe un puro pensiero riceve oggettività mediante la sua identificazione con un presupposto materiale necessario dell’esperienza − dove l’aggettivo ‘materiale’ si riferisce alla materia dell’Estetica e non della Logica. In questa cornice, e non nel senso di una svolta metafisica, vanno intesi anche i paragoni fra idealismo trascendentale e spinozismo istituiti da Kant nei manoscritti successivi13. Assumendo l’esistenza del nuovo materiale cosmico quale posizione dello stesso soggetto, Kant distingue l’operazione di quest’ultimo, che è un’anticipazione trascendentale, dalla produzione infinita della sostanza spinoziana; nello stesso tempo, con un tipico rovesciamento del punto di vista, sembra avanzare una interpretazione dello spinozismo nei termini del criticismo. Lo “spinozismo”, cioè l’inerenza delle proprietà del reale nel soggetto-sostanza, sarebbe qui relativo al fenomeno: il soggetto si autopone come oggetto e anticipa la forma dei fenomeni mediante l’autoaffezione. In ciò risiede la sua analogia con il Dio spinoziano: «Lo spirito dell’uomo è il Dio di Spinoza (per ciò che concerne il formale di tutti gli oggetti sensibili)» (cors. mio)14. Il nuovo concetto di materia ha individuato una determinazione logica della materia dell’Estetica, in quanto condizione della ricettività del soggetto, senza con ciò farne un prodotto dell’intelletto. A partire da quest’ultimo passaggio è possibile anche delineare una ipotesi su come queste nuove riflessioni potessero legarsi con Per es. ‘Beylage V’, KgS XXII 64, e più tardi XXI, 22, 36, 87, 89, 96, 99-101. KgS XXI, 99: «Noi non possiamo conoscere alcun oggetto in noi o fuori di noi altrimenti che ponendo in noi stessi gli actus del conoscere secondo certe leggi. Lo spirito dell’uomo è il Dio di Spinoza (per ciò che concerne il formale di tutti gli oggetti sensibili) e l’idealismo trascendentale è il realismo in senso assoluto». Nella nota a piè di pagina alla sua traduzione italiana Mathieu afferma che «incisi come questo sono essenziali per far riconoscere, in questa tarda dottrina di Kant, un idealismo pur sempre formale, come quello del precedente periodo critico» (p. 375). Ciò è in genere vero e il riferimento al realismo «in senso assoluto» della filosofia trascendentale potrebbe essere rivolto contro le interpretazioni che fanno del criticismo un vuoto formalismo. 13 14

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le vicende filosofiche contemporanee. Il primato dell’esistenza sulla riflessione, come è noto, era stato uno dei punti di raccordo istituiti da Jacobi – nei Briefe über die Lehre des Spinoza del 1785 – tra la propria critica della filosofia e quella kantiana; ma egli ne aveva tratto l’accusa di una inconseguenza del kantismo e di un suo necessario esito dogmatico. Uno dei testi kantiani in cui Jacobi trovava spunto per sottolineare la latente ammissione di un principio immediato e intuitivo dell’esistenza era proprio lo Einzig mögliche Beweisgrund – ristampato nel 1794 e tuttavia: precritico. Kant nel saggio Was heißt sich am Denken orientieren? (1786) aveva tempestivamente riaffermato i presupposti della sua teologia contro i due partiti razionalistico – di Mendelssohn – e fideistico (concetto razionale di Dio elaborato nella teologia razionale; ma prova solo morale); inoltre, pensando probabilmente anche a Jacobi, aveva sottolineato nella nuova Prefazione alla Critica (1787) che il criticismo lasciava spazio alla fede, non però distruggendo la ragione, bensì mostrandone i limiti immanenti – in analogia con il metodo della stessa fisica newtoniana. Dopo Jacobi, anche Maimon nel suo Versuch über die Transzendentalphilosophie (comparso nel 1790) aveva tentato un innesto del criticismo in una concezione spinozistica, ma non aveva sollevato una grande discussione. Kant avrebbe forse potuto chiudere la questione dello spinozismo con la trattazione della terza critica, considerando quella di Jacobi come una nuova apologia della Schwärmerei. Ma la pubblicazione dei Briefe über die kantische Philosophie di Reinhold (1786-87; 1790-922) complicò la situazione. Il discepolo e divulgatore vi sosteneva infatti che il criticismo richiedeva una più approfondita fondazione delle dottrine kantiane, che rendesse conto anche dell’esistenza della cosa in sé. Abbiamo visto che Kant aveva replicato a un’analoga obiezione di insufficienza del sistema nella nota alla Prefazione dei Principi metafisici, rivolgendosi a Schultz. Stavolta, però, egli dovette misurarsi con un nuovo attacco esterno, occasionato dalla nuova esposizione del suo pensiero. La dottrina di Reinhold, insieme alla «critica della ragione», venne infatti attaccata nell’Aenesidemus di Gottlob Schulze (1792), e qui compariva la critica, destinata a fare epoca, del formalismo della filosofia critica, cioè della impossibilità, al suo interno, di passare dalle determi740

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nazioni dell’intelletto alla realtà: la Critica non avrebbe stabilito nulla di certo «né sull’esistenza o non esistenza delle cose in se stesse e delle loro proprietà, né sui limiti della conoscenza umana»15. Questa obiezione toccava un punto dolente e doveva ricevere risposta. Per privare la rappresentazione del suo riferimento oggettivo, infatti, faceva leva sulla incompiutezza del sistema, che in fondo accomunava le diverse critiche ricevute dal criticismo nel suo primo decennio. In base a una concezione dell’idealismo critico come edificio incompiuto, che in Schulze riceveva uno svolgimento scettico, erano possibili anche le interpretazioni speculative nel senso dello spinozismo. In replica a queste ultime, tra la seconda edizione della Critica e la prima metà degli anni ’90, Kant non perde occasione di criticare lo spinozismo come «sistema dell’emanazione» e – come risulta per esempio dal manoscritto sui Progressi della metafisica – sottolinea la continuità ideale tra la propria filosofia, il cui supremo fondamento è pratico, e quella di Leibniz e Wolff16. Ma serviva appunto una pars construens che liquidasse sia l’interpretazione scettica, sia quella speculativa, e le ripetute promesse di Kant sul compimento del sistema non potevano evidentemente bastare. È noto che Kant si aspettò una confutazione delle tesi di Maimon e Enesidemo nella terza parte della Prüfung der Kantischen Critik dello stimato collega Johann Schultz. Questo volume, a lungo atteso (i primi due comparvero nel 1792), non comparve mai, forse perché Schultz, che era in buoni rapporti con Fichte, risentì della critica di quest’ultimo ai seguaci di Kant «letteralisti» (del resto, come abbiamo visto, fu proprio Schultz uno tra i primi a destare le preoccupazioni di Kant sulla completezza del sistema)17. Intanto, negli anni ’90, questo tema cri15 [G.E. SCHULZE], Aenesidemus oder die Fundamente der von dem Herrn Professor Reinhold in Jena gelieferten Elementar-Philosophie: Nebst einer Verteidigung des Skeptizismus gegen die Anmassungen der Vernunftkritik, [s.l.] 1792, p. 24. V. cap. 3, nota 128 per il commento di Kant. 16 Si veda per es. la lettera a Kästner del 5 agosto 1790, dove Kant lamenta che la filosofia di Leibniz e Wolff sia oramai meno considerata, negando che il criticismo abbia inteso contrastarla, e anzi sottolinea di aver voluto raggiungere in modi diversi «lo stesso scopo» (KgS XI, 186). Cf. Fortschritte, KgS XX, 260. 17 La citata opinione di Kant rispetto al libro mai comparso di Schultz è testimo-

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tico venne ripreso e sviluppato da più parti: la Wissenschaftslehre, comparsa nel 1794, giustificava agli occhi di Kant l’accusa del formalismo, e perciò, come abbiamo visto, egli ritenne necessario dichiararne pubblicamente l’inconsistenza nel 1799; della questione del formalismo risentiva poi anche l’idealismo di Schelling, che vi replicava (già nei primissimi scritti comparsi negli anni 17951797) sostenendo che la filosofia deve descrivere un ritorno dalla coscienza pura all’assoluto, in una concezione presentata come uno spinozismo emendato alla luce del kantismo. Proprio nei suoi ultimi anni di attività Kant trovò in Schelling e Lichtenberg diversi accostamenti tra il suo pensiero e lo spinozismo, che suscitarono le riflessioni private nei manoscritti dell’Opus postumum. Ma proprio questi manoscritti, che contenevano il lavoro preparatorio per il compimento del sistema, rimasero inediti18. Mi sembra evidente che tutte queste vicende abbiano avuto un’importanza primaria per la concezione del Passaggio, al di là delle difficoltà intrinseche al pensiero kantiano che abbiamo rilevato. Di fatto, insistendo sul Weltstoff come «ente di ragione» (Gedankending) e assimilandolo ad analogo dell’ideale della ragione Kant escludeva ogni ipotesi di un ritorno a un fondamento metafisico in un senso diverso da quanto poteva concedere la Critica. Ma lo faceva proprio trattando del passaggio dalla forma di un sistema alla sua realizzazione, cioè di quella parte del sistema che giustificava pienamente (rendendo possibile l’esibizione) il collegamento tra la logica trascendentale e la realtà. È sintomatico – da queniata da un appunto scritto intorno al 1801 (KgS XIX, 317): «Rendere noto al pastore Mellin che la terza parte della Prüfung risponderà alle obiezioni di Maimon e Enesidemo». Notizie sulla vicenda si trovano in FÖRSTER, Opus postumum, p. 278, n. 110. La stima di Kant per il collega e matematico Schultz, quale interprete dei suoi scritti, è ribadita in una lettera a J. Schlettwein del 29 maggio 1797 (KgS XII, 367). 18 Secondo Schelling (che forse Kant lesse direttamente) Spinoza infatti non avrebbe spiegato l’origine delle nostre rappresentazioni del reale e dell’ideale «discendendo nelle profondità della sua autocoscienza» e «invece di spiegare in base alla nostra natura in che modo il finito e l’infinito, originariamente uniti in noi, procedono originariamente l’uno dall’altro, si smarrì nell’idea di un infinito fuori di noi». SCHELLING, Ideen zu einer Philosophie der Natur (1797), in Werke, vol. 5, p. 90. Su spinozismo e criticismo Schelling si esprimeva già in Vom Ich als Prinzip der Philosophie (1795) e nelle Philosophische Briefe über Dogmaticismus und Kriticismus (1795).

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sto punto di vista – che negli anni 1799-1800 Kant impiega l’espressione «salto mortale», che Jacobi aveva riferito per articolare l’atto di fede, proprio per indicare l’esito cui andrebbe incontro la filosofia naturale se non si desse il passaggio dalla metafisica alla fisica19. Alla luce di queste vicende si potrebbe finanche ipotizzare che la stessa urgenza dello «iato» nel sistema potrebbe essere sorta negli anni ’90 proprio sulla scia delle polemiche sul criticismo, dalle tesi di un suo possibile fondamento o svolgimento spinozistico, all’attacco di Enesidemo alla filosofia di Reinhold e Kant (la nostra storia, iniziata con i problemi della filosofia “leibniziano-wolffiana”, finirebbe in questo senso con quelli della filosofia “kantiano-reinholdiana”). Concludere il sistema, con il Passaggio, avrebbe sgombrato il campo dai tentativi di innestare sul tronco del criticismo nuove ramificazioni dogmatiche (o scettiche). In ogni caso, con la comparsa del System des Transzendentalen Idealismus di Schelling (1800), e con la lettura del secondo volume delle Vermischte Schriften di Lichtenberg, dello stesso anno, un Kant ormai esausto riconobbe l’evoluzione in atto nella storia dell’idealismo, ma cercò di interpretarla a suo modo. Lavorava infatti a un suo progetto di «sistema della filosofia trascendentale» tutto fondato su idee della ragione nel senso rigorosamente critico del termine: l’uomo sarebbe sì identico a Dio, come aveva detto Spinoza, ma non nel senso di essere incluso o dipendente da una sostanza, ma in quanto costruisce razionalmente l’idea di Dio e di tutta la realtà secondo principi autonomi20. Kant dunque, come aveva fatto vent’anni prima rispetto alla filosofia leibniziana, proponeva ora 19 Per es. KgS XXII, 279-280: «C’è un territorio particolare (o se si vuole un ponte) attraverso cui i confini della metafisica devono essere condotti in una completa connessione con la fisica, ed è un passo pericoloso (salto mortale [in italiano nel testo]) osare il salto da una riva all’altra, in mezzo alle quali si trova un ampio solco [Kluft]». Cf. ‘Y’, XXI, 512, cit. § 13.1.B. 20 KgS XXI, 87: «Sistema dell’idealismo trascendentale mediante Schelling, Spinoza, Lichtenberg ecc., come le tre dimensioni: il presente, il passato e il futuro». Kant trovava in Lichtenberg un modo di interpretare lo spinozismo in un senso coerente con il criticismo. Sull’esistenza di Dio, intesa sempre in senso pratico, e non «fanatico», si trovano molte pagine di riflessioni nel primo Konvolut. Per quanto affermato qui si veda per es. XXI, 25.

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un’interpretazione dello spinozismo conforme al criticismo – e certo molto forzata – in cui venisse eliminata la rappresentazione di una intuizione intellettuale delle cose in Dio: ultimo episodio di quella strategia conciliatoria che aveva caratterizzato i suoi scritti fin dall’esordio21. β) Passiamo alla difficoltà che si poneva, concesso il carattere non metafisico del nuovo elemento, per il suo collegamento con la fisica. Kant tenta di stabilirne a priori l’esistenza in base alla proprietà per cui esso sarebbe principio del movimento, che ne farebbe quel fondamento dell’affezione esterna la cui determinazione mancava nel criticismo. Questo movimento non può più essere considerato come l’azione di un etere meccanico, ma il movimento è pur sempre una determinazione fisica. Allora, come deve essere concepito? In proposito si possono considerare tutte le caratterizzazioni kantiane sul “movimento” del Weltstoff alla luce della tesi del carattere solo «derivativo» di tutte le forze meccaniche. Questa tesi tipica della Dinamica è riaffermata ovunque nell’Opus postumum, in particolare nelle bozze di Introduzione al Passaggio, dove a commento di essa Kant insiste anche sulla necessaria precedenza di principi «filosofici» rispetto a quelli solo «matematici» dei Principia newtoniani. Il compito di mediazione della nuova dottrina per rendere possibile l’applicazione della matematica è esplicitamente collegato alla nuova condizione della omnimoda determinatio fisica22. È dunque legittimo prendere il «movimento» vibratorio del calorico, che muove se stesso, come la raffigurazio21 Notizie sulla ricezione e lo studio del libro di Lichtenberg si trovano in FÖRSTER, Opus postumum, 279-80, nota 124. Lichtenberg, nelle sue riflessioni, tentava un accostamento di spinozismo e idealismo trascendentale, che ispira in molti luoghi le annotazioni kantiane. Sullo Spinoza di Lichtenberg si veda per es. ‘Beylage V’, KgS XXII, 55. Manca uno studio complessivo dell’Opus postumum alla luce delle vicende filosofiche tedesche degli anni ’90. Una ricostruzione della prima ricezione del criticismo che mette in evidenza alcuni dei punti qui richiamati si trova in G. DI GIOVANNI, The First Twenty Years of Critique: The Spinoza Connection, in The Cambridge Companion to Kant, pp. 417-448. Sul problema dello spinozismo nell’Opus postumum v. G. DE FLAVIIS, Kant e Spinoza, Firenze 1986, pp. 245-275 e, su Lichtenberg, 276-286. 22 Oltre ai suaccennati abbozzi di Introduzione, nei fogli fatti copiare, si veda per es. KgS XXII, 81.

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ne del concetto universale e collettivo dell’azione originaria delle forze motrici, senza la quale le costruzioni della fisica matematica non avrebbero significato fisico. Il materiale cosmico corrisponderebbe in tal senso a quel sostrato non impenetrabile ma responsabile delle interazioni dinamiche che Newton e i suoi seguaci avevano posto ipoteticamente alla base dell’azione delle forze, senza chiarirne la natura fisica o metafisica. Non c’è ragione di credere, d’altra parte, che Kant ritenesse possibile tornare letteralmente alla speculazione “iperfisica” che si annidava dietro il problema delle forze – per esempio, proprio sul margine del foglio ‘Übergang 2’, Kant riprende la sua polemica contro Herder, che come è noto è fin dagli anni ’80 l’esempio del fingitore di forze e fondamenti trascendenti in filosofia naturale. L’originalità del tentativo kantiano, allora, risiederebbe nella ammissione di questo materiale sui generis come condizione della dinamica, non direttamente percepibile ma immanente al campo dei fenomeni, e come tale distinto dal sostrato soprasensibile che occupa nel criticismo il luogo di fondamento (solo pensato) di spazio e tempo. Ma questa interpretazione del movimento non risolve ancora il problema della sua interpretazione fisica. In questo continuum dinamico tanto ostinatamente distinto dai concetti meccanici, eppure sempre un po’ concettualmente confuso, è stato possibile vedere un presentimento kantiano del concetto fisico-matematico di campo23. Ora, è vero – e suggestivo – che Kant nel Passaggio muove da una distinzione fondamentale tra materia e corpi e identifica in più occasioni il materiale cosmico con il sistema delle forze, quale sua unità «collettiva»24. Bisogna sottolineare però che egli non concepì mai una sostanza che muove non meccanicamente (cioè indipendentemente dalla massa) – che avrebbe probabilmente assimilato a un’anima – e in tutto il periodo del cri23 Abbiamo già rimandato a W.-C. WONG, Kant’s Concept of Ether as a Field in the Opus postumum. Si veda anche ID., On the Idea of an Ether-Deduction in the Opus postumum, in Kant und die Berliner Aufklärung. Akten des IX. Internationalen Kant-Kongresses, Berlin/New York 2001, Bd. 4, pp. 676-684, che discute gli studi più recenti e fa giuste osservazioni sul concetto di etere. 24 Si vedano di nuovo i fogli ‘Übergang’ copiati, dove entrambe queste caratteristiche sono ben evidenti: KgS XXII, 546, 549.

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ticismo considerò sempre i corpi dotati di massa e movimento come le sole sostanze capaci di azione, dunque quali elementi veri e propri della fisica matematica. Perciò, pur sviluppando sul piano filosofico il concetto di una materia continua e poi addirittura di uno spazio immediatamente dotato di proprietà dinamiche, egli non poté mai accogliere questo concetto sul piano fisico, e anzi proprio nel “passaggio” alla fisica gli si ripresenta fatalmente l’esigenza di concepirne l’azione in termini meccanici – in accordo con il concetto di materia dominante nella fisica dell’epoca. Per questo motivo, credo, egli continua – nel 1799 e in seguito − a identificare la capacità dinamica della materia cosmica con una interna «agitazione», con il risultato di non riuscire mai a collegare adeguatamente la sua metafisica con una qualsiasi concezione fisica – per esempio quella dei fenomeni elettrici e magnetici, che riceveva invece negli stessi anni le attenzioni dei nuovi idealisti (e che del resto non era capace di portare a deduzioni della massa). Così il dinamismo kantiano, come negli anni ’80, rimane ancora fino alla fine privo di un adeguato sviluppo fisico-matematico. L’impostazione trascendentale data alla questione – anche a volerla separare dalle difficoltà di applicazione, che stavolta sono però essenziali – apriva forse possibilità più promettenti, ma nello stesso tempo poneva altre difficoltà per le nuove prove filosofiche. Infatti anche se non ci fossero stati questi ostacoli di carattere epistemologico, e Kant avesse concepito la possibilità di un sostrato fisico qualificato dinamicamente e di un abbandono completo delle qualità primarie del meccanicismo, tutto questo non sarebbe bastato a provare l’esistenza di un tale sostrato in ogni punto dello spazio. Viceversa la rappresentazione meccanica della materia svolse un ruolo primario – benché sottinteso – nelle diverse prove trascendentali allestite a tal fine da Kant, che conviene ora esaminare nel dettaglio.

B) Le prove «analitiche» dell’esistenza del Weltstoff nei fogli ‘Übergang 1-14’ Il nucleo delle nuove prove è l’affermazione dell’esistenza necessaria del materiale cosmico quale sostrato di un influsso persi746

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stente che deve collegare qualsiasi coppia di punti nello spazio fisico. La rappresentazione a priori di questo influsso dovrebbe costituire una condizione sia dell’intuizione esterna sia della realtà delle forze motrici. L’argomento deve dunque collegare il concetto di materia come oggetto dell’intuizione esterna – il dato empirico della fisica pura – con il concetto di uno spazio fisico quale sostrato necessario dell’interazione dinamica e dunque condizione della fisica sperimentale. Per questo motivo le diverse versioni di prova E non cominciano da concetti fisici, come il corpo o i processi chimici, ma riguardano i concetti puri che congiungono metafisica della natura e fisica, ovvero spazio, tempo e movimento. Le molteplici versioni della prova, in effetti, possono essere ricondotte a tre tipi di argomento25. Il primo (Es) sostiene l’esistenza della materia cosmica come condizione necessaria dell’esperienza dello spazio. In alcune versioni Kant specifica che fare esperienza dello spazio significa essere capaci di localizzare gli oggetti nello spazio, cioè di fare esperienza della distanza (Es=d), Questo tipo di argomento, come cercherò di mostrare, è non soltanto quello più ripetuto, ma anche – in particolare nella versione specifica Es=d – quello da cui dipendono tutti gli altri. Il secondo (Em) sostiene che, senza ammettere il materiale cosmico, non si potrebbe fare esperienza del movimento. Il terzo (Et) avanza una tesi analoga sostenendo la necessaria eternità del movimento nel tempo. Esso corrisponde di fatto alla tesi incontrata in precedenza riguardo al primus motor quale condizione della «perpetuità» del movimento26. 25 Nella discussione successiva tengo presente soprattutto le analisi di Mathieu, Friedman e Förster, che hanno aperto la via al difficile compito di comprendere questa tarda impresa dimostrativa di Kant. MATHIEU, La filosofia trascendentale e l’«Opus postumum», pp. 250-267; L’opus postumum di Kant, pp. 117-133. FRIEDMAN, Kant and the Exact Sciences, pp. 290-341, FÖRSTER, Kant’s Final Synthesis, p. 82-101. Più di recente si veda anche la dettagliata analisi di D. EMUNDTS, Kants Übergangskonzeption im Opus postumum, Berlin 2004, che muove dalla stessa distinzione tra argomento fisico sulla formazione dei corpi e argomento trascendentale sulla possibilità dell’esperienza (pp. 179-180) 26 Si tratta dell’argomento «cosmologico» cui parla Carrier nell’articolo citato e che

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In fogli successivi, compare una generalizzazione della prova, in cui il materiale cosmico è presentato quale condizione dell’unità delle percezioni. Infine, oltre a qualche occasionale riferimento ai vecchi argomenti fisico-ipotetici, si trovano ancora alcune affermazioni dell’esistenza del materiale cosmico come «unità collettiva di tutti gli oggetti» e in genere condizione di possibilità dell’esperienza, nei quali non vengono fatti riferimenti né alle condizioni dell’intuizione in genere, né a quelle dell’intuizione esterna e ai concetti di spazio e tempo vuoti. Si tratta però di asserzioni prive di argomentazione, spesso di brevissimi cenni, che vanno intesi dunque come riferimenti abbreviati agli argomenti esposti in precedenza, o che comunque li presuppongono (indicherò tutti queste tesi non sviluppate semplicemente con E)27. In base a queste abbreviazioni si può comporre una lista completa di tutte le bozze di prova (in questo caso indico la segnatura dei fogli originali con relativa pagina; seguono la paginazione del vol. XXI dell’Accademia e l’indicazione in corpo minore delle linee in cui si trova l’argomento): ‘Übergang 2’, p. 1: ‘Übergang 2’, p. 1: tato sopra; ‘Übergang 2’, p. 1:

216, 12-16 (Es), citato sopra; 216, 16-217, 7 (C), il primo enunciato è ci217, 7-17 (Es+t), presentato come «il fondamento della precedente affermazione»;

anche Guyer include nella sua classificazione degli argomenti per la «deduzione dell’etere». Ora il movimento svolge un ruolo differente, non più riferito al problema della conservazione della sua quantità nell’universo, ma alla possibilità della percezione, che diventa il nuovo concetto chiave di tutti gli argomenti. P. GUYER, Kant’s Ether Deduction and the Possibility of Experience, in Akten des Siebenten Internationalen KantKongresses, Bonn 1991, p. 122. 27 Förster e Guyer, negli studi citati alla nota precedente, introducono ulteriori distinzioni. Il primo distingue una tesi sulla possibilità della percezione in genere da una sulla possibilità della percezione dello spazio. Il secondo distingue una tesi relativa alla possibilità della percezione dello spazio e un’altra relativa alla possibilità della percezione di oggetti esterni (argomenti 1-2: possibilità dello spazio; 3: percezione di oggetti esterni). Cercherò di mostrare che si tratta di tre aspetti della stessa questione, che è artificioso separare.

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‘Übergang 2’, p. 2: ‘Übergang 2’, p. 2: ‘Übergang 2’, p. 2: ‘Übergang 2’, p. 3: ‘Übergang 2’, p. 3: ‘Übergang 2’, p. 4: ‘Übergang 3’, p. 1: ‘Übergang 3’, p. 2: ‘Übergang 3’, p. 2: ‘Übergang 3’, p. 2: ‘Übergang 4’, p. 1: ‘Übergang 4’, p. 2: ‘Übergang 4’, p. 2: ‘Übergang 4’, p. 4: ‘Übergang 6’, p. 4: ‘Übergang 7’, p. 1:

‘Übergang 7’, p. 3: ‘Übergang 7’, p. 3: ‘Übergang 8’, p. 2: ‘Übergang 8’, p. 2: ‘Übergang 8’, p. 3: ‘Übergang 8’, p. 4: ‘Übergang 9’, p. 3: ‘Übergang 9’, p. 4: ‘Übergang 10’, p. 1:

‘Übergang 11’, p. 1: ‘Übergang 11’, p. 2: ‘Übergang 11’, p. 3: ‘Übergang 11’, p. 3: ‘Übergang 12’, p. 1: ‘Übergang 12’, p. 1: ‘Übergang 12’, p. 2: ‘Übergang 12’, p. 2:

217, 23 - 218, 17 (Et); 218, 19-27 (Es); 219, 5-22 (Em+s); 219, 25 - 220, 14 (Es); 220, 16-26 (Et); 223, 10 - 224, 2 (Em); 225, 12-26 (Es+t); 226, 25 - 227, 8 (Es+t); 227, 13-22 (Et); 227, 27 - 228, 23 (due volte Es); 229, 15-30 (Es=d); 232, 21 - 233, 14 (Es); 233, 16-23 (Es +C); 236, 8 - 237, 3 (Es); 246, 5-29 (Es); 535, 10 - 536, 9 (due volte Es. Qui compare anche il vecchio argomento quantitativo basato sulla vis viva del calorico); 539, 22 - 540, 12 (Es); 542, 3 - 543, 11 (Es); 547, 7-21 (Es); 547, 22 - 548, 4 (C); 549, 28 - 550, 9 (Es); 551, 12 - 25 (Es+t); 559, 5 - 560, 8 (Es, cancellato); 560, 23 - 561, 12 (Et, cancellato); 562, 21 - 563, 15 (due volte Es=d, cancellati. Qui si trova un breve cenno al conflitto tra calorico e forza attrattiva, che impedirebbe il collasso della materia in un punto, che ricorda analoghi passaggi dell’Oktavenentwurf); 572, 25 - 573, 14 (Es); 575, 12-19 (Et); 576, 10 - 577, 4 (Es + Et); 577, 16ss. (E); 581, 13-24 (E, cancellato); 582, 17 - 583, 19 (Es); 585, 22 - 586, 5 (E); 588, 17 - 589, 3 (E);

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‘Übergang 12 Bogen a) S.2’, p. 1: 589, 21 - 590, 9 (Es); ‘Übergang 12 Bogen a) S.2’, p. 2: 591, 22 - 592, 15 (E); ‘Übergang 12 Bogen a) S.2’, p. 3: 592, 17 - 593, 5 (E); ‘Übergang 12 Bogen a) S.2’, p. 4: 594, 15 - 596, 7 (E); ‘Übergang 12 Bogen b) S.2’, p. 2: 600, 1-8 (E); ‘Übergang 12 Bogen b) S.2’, p. 3: 601, 7 - 603 2 (E+Es).

Si tratta di una classificazione orientativa, che include i tentativi più sviluppati insieme ai riassunti di poche righe a margine, tentando di mettere ordine tra i frequenti salti logici, la mescolanza di argomenti diversi e le linee poco leggibili. Bisogna però sottolineare che, come suggerisce anche la quantità di occorrenze, la vera novità di questi fogli rispetto a tutti gli scritti kantiani precedenti è l’approfondimento delle condizioni dell’intuizione esterna. Bisogna insistere su questa indagine nuova, per non fraintendere i molti elementi concettuali e logici che le prove condividono con la filosofia trascendentale precedente. Le analogie infatti non spiegano ancora come mai Kant ritenesse solo ora di poter provare l’esistenza della materia: il che avviene alla luce delle riflessioni sul problema della sintesi del molteplice empirico e sul sistema delle forze (negli anni 1789-1798 circa), che a loro volta vengono rimandate alla nuova condizione di un riempimento di tutto lo spazio quale fondamento delle percezioni esterne. Senza fare questa precisazione, e presentando gli argomenti come fossero ricavati da meri concetti quali l’unità dell’esperienza o l’esistenza (come alcune linee possono suggerire), si rischia di confondere i nuovi argomenti con la semplice composizione di vecchie premesse e di incoraggiare la tesi sbagliatissima di un ritorno (o resa) dell’ultimo Kant alla metafisica speculativa, come avviene anche con la fuorviante denominazione di una «prova ontologica dell’etere»28. 28 Di una nuova «prova ontologica» parla MATHIEU, Introduzione alla traduzione italiana dell’Opus postumum (1984), pp. 35-36 e – un po’ più sfumato – L’opus postumum di Kant, pp. 117-121. Mathieu riconosce che il nuovo argomento ha un significato diverso da quello della prova teologica e si riferisce alla sola conoscenza dei fenomeni, tuttavia sostiene che Kant vi realizzi un passaggio impensabile nella sua filosofia precedente, ben espresso dal richiamo alla formula scolastica ‘forma dat esse rei’.

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Leggiamo dunque alcuni esempi particolarmente chiari dei diversi argomenti: [C e Es+t: ‘Übergang’ 2, p. 1, KgS XXI, 216-217] [C] La proposizione “vi sono corpi fisici” presuppone quest’altra: “vi è una materia le cui forze motrici e il cui movimento precedono nel tempo la produzione di un corpo”. Infatti tale [produzione] è solo il loro formarsi, e avviene da sé (spontaneo). Ma questa formazione, che deve avvenire dalla materia stessa, deve avere un primo inizio, la cui possibilità è bensì incomprensibile, ma la cui originarietà, come spontaneità, non può essere messa in dubbio. Deve dunque esserci una materia che penetra internamente tutti i corpi (come peso, onus), e, al tempo stesso, li muove continuamente (come potentia), la quale per se stessa costituisce un intero che, come intero cosmico [Weltganzes] sussistente per sé e muoventesi internamente da sé, serve di base [Basis] a tutte le altre materie mobili, e per se stesso forma l’intero cosmico di un materiale che designa, semplicemente e soltanto universalmente, l’esistenza di una materia, senza sue forze particolari, e in questa qualità soltanto ha forza motrice, e, privo di tutte le altre forze eccetto la propria agitazione, mantiene le altre forze motrici in un’attività continua e viva in tutti i luoghi. [Es+t] Il fondamento di questa affermazione è che le intuizioni nello spazio e nel tempo sono solo forme, e senza qualcosa che le renda comunque conoscibili per i sensi non offrirebbero alcun oggetto reale che renda possibile un’esperienza in genere, e in particolare anche quella della grandezza, e, pertanto, lascerebbero assolutamente vuoti per l’esperienza lo spazio e il tempo. Questo elemento dunque, che sta a priori a fondamento di quella esperienza generalmente possibile, non può esser considerato come semplicemente i p o t e t i c o, ma come un materiale cosmico [Weltstoff] dato, originariamente motore; non può essere assunto come semplicemente problematico, perché designa primariamente l’intuizione, che, altrimenti, sarebbe vuota e senza percezione. [Es=d. ‘Übergang 3’, p. 2, KgS XXI, 228] L’intero spazio cosmico [Weltraum] come oggetto di esperienza possibile non è vuoto in nessuna delle sue parti, ma è uno spazio pieno, perché lo spazio vuoto non è un oggetto di possibile esperienza. Il materiale che deve essergli attribuito sotto questo rispetto è, con le sue proprietà di riempimento [e] presenza riguardo all’occupa-

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zione e penetrazione (permeabilità) di tutti gli spazi, non un materiale ipotetico, bensì derivante a priori da concetti secondo il principio di identità. Infatti, in virtù di questa onnipenetrazione [alldurchdringung], l’unità di questo materiale, così come dello spazio stesso, è il più alto principio della possibilità dell’esperienza di enti sensibili esterni [...] In virtù del fatto che esso deve essere presupposto per determinare la posizione [Stelle] nello spazio di ogni materia, esso non è un mero ente di ragione [Gedankending] ma, mobile e movente, è ovunque omogeneo e unico nel suo genere – non può essere aumentato né diminuito in nessun luogo. – Quando si parla di attrazione attraverso lo spazio vuoto si tratta di una mera idea. [Es=d: ‘Übergang 4, p. 4, KgS XXI, 229] Ciò mediante cui lo spazio diviene in genere un oggetto di esperienza possibile (della misura, della direzione, ecc.) è un materiale cosmico [Weltstoff] distribuito universalmente, onnipenetrante, dotato di forze motrici, la cui realtà effettiva [Wirklichkeit] dipende solamente dal principio della possibilità dell’esperienza esterna ed è perciò conosciuta e confermata a priori secondo il principio di identità; perché senza presupporre questo materiale io non potrei avere affatto una esperienza esterna: lo spazio vuoto non è un oggetto di esperienza possibile. [Em, ‘Übergang 2’, p. 4, KgS XXI, 223] Teorema Le materie primordialmente [uranfänglich] motrici presuppongono un materiale che riempie, penetrandolo, l’intero spazio cosmico, come condizione della possibilità dell’esperienza delle forze motrici in questo spazio; questo materiale originario [Urstoff] non è escogitato ipoteticamente per la spiegazione dei fenomeni, ma è contenuto identicamente, come materiale dimostrabile categoricamente e a priori per la ragione, nel passaggio dai principi metafisici della scienza della natura alla fisica. Prova Il movimento della materia nello spazio vuoto non è un oggetto di possibile esperienza; e, dunque, non lo è neppure il passaggio dal pieno al pieno a t t r a v e r s o i l v u o t o. Non può esservi dunque per i sensi alcun movimento, e neanche, perciò, alcuna forza motri-

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ce, se non in uno s p a z i o r i e m p i t o di materia, perché solo di questo è p o s s i b i l e fare esperienza. [Et: ‘Übergang 2’, p. 2, KgS XXI, 217-218] Del primo movimento e della materia originariamente motrici (materia primitiva movens). La materia con le sue forze motrici può iniziare un movimento solo in quanto o essa stessa si pone in moto esternamente (vis locomotiva), oppure ciascuna parte di essa si pone in moto rispetto alle altre e pertanto la materia muove sé stessa internamente (vis interne motiva). – Ma un qualsiasi inizio assoluto del movimento di una m a t e r i a è impossibile; se però viene ammesso, la cessazione o la diminuzione di esso sono parimenti impensabili, perché l’ostacolo o la resistenza nell’abolizione del moto è egualmente una forza motrice contrapposta. – A un motore primo (primus motor) si dovrebbe ascrivere la spontaneità, cioè un volere, che contraddice interamente la materialità. – Ne consegue, ora, la proposizione, non tratta dalla fisica in modo da essere empirica, bensì appartenente al passaggio dai principi metafisici della scienza della natura e valida a priori: “Esiste una materia diffusa come un continuum nella totalità dello spazio cosmico, che riempie, penetrandoli uniformemente, tutti i corpi (e, pertanto, non è soggetta ad alcun cambiamento di luogo), che, la si chiami etere o calorico etc. non è un materiale [Stoff] ipotetico [ecc.]”.

Il ragionamento kantiano in Es si può così riassumere. Lo spazio vuoto non può essere oggetto di intuizione empirica – come è evidente in base al principio delle anticipazioni della percezione – ma nemmeno può essere ammesso per inferenza mediata. Se qualche parte dello spazio fosse vuota, infatti, sarebbe impossibile fare esperienza della materia come oggetto esterno. Ogni volta che ci riferiamo a una distanza assumiamo infatti che una linea continua sia attraversata da un qualche “passaggio” di realtà, che congiunge il soggetto localizzato nello spazio con il luogo dell’oggetto distante. Attraverso questo “passaggio” diviene possibile l’affezione e dunque la percezione di oggetti distanti. Fin qui troviamo premesse sull’affezione esterna che erano già presenti nelle opere precedenti. Il punto più arduo da comprendere, che conduce alla confutazione del vuoto, è l’ulteriore aggiunta secondo cui la condizio753

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ne fisica dell’affezione implicherebbe un riempimento permanente di ogni punto dello spazio, cioè l’«ipostatizzazione» dello spazio stesso. Alla luce anche dei cenni di una deduzione trascendentale del pieno nell’Analitica dei principi (cf. § 10.2), che vengono collegati ai nuovi argomenti in fogli successivi, si può avanzare la seguente interpretazione: noi possiamo rintracciare i percorsi che collegano i corpi tra di loro (incluso il nostro) mediante “serie” soggettive di percezioni visive; per riferire ognuna di queste serie a intervalli spaziali, tuttavia, dobbiamo assumere che tutti i punti dei rispettivi intervalli esistano quali posizioni di un reale continuo spaziale, anche quando non siano percepiti o direttamente percepibili. Altrimenti non ci sarebbe ragione di identificare intervalli nel molteplice spazio-temporale della percezione con distanze spaziali oggettive (in questo senso si possono leggere le frequenti affermazioni secondo cui lo spazio come forma pura dell’intuizione non è in sé un oggetto dell’esperienza e l’intuizione formale non può essere identificata con l’intuizione di uno spazio vuoto). Ora l’esistenza di una realtà in un luogo dello spazio presuppone, per essere oggetto di esperienza possibile, la possibilità che questa realtà si manifesti ai sensi; perciò assumere l’esistenza persistente dei luoghi significa presupporre in essi una attività, e dunque una presenza permanente. Ma dato che questa condizione della percezione si deve riferire a ogni possibile coppia di punti si deve ammettere un’attività dinamica perpetua in ogni punto dello spazio, e dunque pensare lo spazio stesso «ipostaticamente». Il nesso tra affezione, interazione dinamica e confutazione dello spazio vuoto è particolarmente evidente, per esempio, nel foglio ‘K’ (dicembre 1799): poiché l’esperienza è sempre una «ne segue che le forze motrici nello spazio che impressionano il senso del soggetto sono, in virtù della loro coesistenza nello spazio, già moventi in tutte le parti di quest’ultimo (poiché uno spazio vuoto non è un oggetto di esperienza possibile)» (KgS XXII, 359). Come si arriva, infine, al movimento del materiale cosmico? Kant dà per scontata un’assimilazione di ogni attività motrice a un movimento. Ma un movimento – altra proposizione sottintesa da Kant, stavolta poco problematica e ben diffusa nella filosofia precedente – presuppone un soggetto mobile nello spazio e, dato che 754

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questo soggetto deve occupare tutto lo spazio, il movimento ad esso attribuito non potrà essere traslatorio: si giunge così alla rappresentazione di una vibrazione universale. Abbiamo così ricostruito la conclusione: deve esistere, come condizione dell’esperienza esterna, un materiale autosussistente che riempie ogni punto dello spazio quale sostrato di un movimento permanente. Kant lo chiama Weltstoff, ma anche spazio ipostatizzato, o percepibile, poiché si tratta della pura estensione spaziale determinata a priori come realtà (quale fondamento del movimento e della percezione) in ogni tempo (sostanzialità): è lo spazio materiale senza hiatus qualitativo e il fondamento del movimento originario della materia, che nell’Analitica trascendentale e nei Principi metafisici, come abbiamo visto, non erano stati introdotti con successo. Se questa ricostruzione è valida, gli argomenti del genere Es possono essere ridotti a quelli della specie Es=d, poiché l’argomento relativo allo spazio vuoto – essendo lo spazio materiale della fisica il complesso delle relazioni metriche tra i luoghi simultanei – non è che una universalizzazione di quello riguardante l’esperienza della distanza. Gli argomenti Es sono anche equivalenti a quelli che si concentrano sul movimento (Em): lo spazio della fisica è infatti il complesso delle relazioni tra i punti materiali, ma il movimento di un punto (quello della Foronomia, che va distinto dal movimento del materiale cosmico che compare nella conclusione della prova) è il cambiamento della sua distanza rispetto agli altri punti. Per quanto riguarda, infine, le prove che riguardano la permanenza del movimento cosmico nel tempo (Et), esse affermano l’impossibilità di assegnare limiti temporali a questo movimento universale, e dunque, nella misura in cui devono assumere a priori l’esistenza di questo movimento (per inferirne il sostrato), assumono già che questo movimento universale sia una condizione dell’esperienza – ciò che viene provato dagli argomenti precedenti – discutendone semplicemente la permanenza quale ulteriore condizione dell’unità dell’esperienza. Un corollario di queste prove è la possibilità dell’applicazione delle forze motrici all’esperienza. Questa funzione del materiale cosmico, di cui abbiamo studiato la genesi nei fogli precedenti, viene ora richiamata dalla sua denominazione come «base» delle for755

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ze motrici29. La sua importanza per l’intera problematica del Passaggio è ovviamente primaria, e senza di esso l’intera impresa delle prove trascendentali perderebbe di senso. Non deve sfuggire, infatti, il riferimento di tale questione filosofica alla fisica newtoniana: il passaggio dal «Sistema elementare delle forze motrici» al «Sistema del mondo», scandito dalla «realizzazione» dello spazio, ricalca quello dai libri I e II dei Principia mathematica, che contengono uno studio puramente matematico di movimenti possibili, al libro III, che contiene l’applicazione del concetto di forza e la determinazione dei movimenti reali in base ai fenomeni astronomici. Non si può trattare di una coincidenza, se si considera che proprio sulla cesura tra i libri II e III Newton introduceva il suo scolio sulla realtà della forza di gravità (dal fondamento inconoscibile) e che proprio la giustificazione della realtà delle forze costi29 Un’altra linea argomentativa che non discuto approfonditamente collega le «forze motrici» ai «materiali» o «elementi» in senso chimico e considera il Weltstoff (pur sempre «calorico») come «materiale primitivo» e in questo senso «base» di tutti gli altri. Si veda per es. KgS XXI, 605; XXII, 359. FRIEDMAN, Kant and the Exact Sciences, pp. 311-316, collega questo giro di argomenti con la chimica di Lavoisier, identificando gli Stoffe kantiani con gli éléments. Per quanto quest’ultima identificazione sia corretta sul piano fisico-chimico, bisogna riconoscere che essa riconduce ad argomenti di tipo ipotetico, che si intrecciano ai nuovi argomenti trascendentali ma non li sostituiscono, né li corroborano. La distinzione di piano è tracciata per es. in ‘T’, XXII, 471472; ‘X’, XXII, 508-509. Inoltre la nozione del calorico come «base» degli elementi e di questi ultimi come «fondamenti [Grundlagen] (basis) delle forze motrici» ha origine logica, mentre dal punto di vista chimico sorgono grandi problemi nel collegamento del calorico con la sua funzione di formazione dei corpi. Su questo punto mi pare eccessiva la tesi di Friedman, secondo il quale sarebbe ormai abbandonata la concezione precedente di una chimica newtoniana (con il compito di specificare una «legge dell’avvicinamento o allontanamento delle parti», MA 470-471) e dunque «nel periodo della deduzione dell’etere Kant sarebbe giunto a vedere che un’unificazione di fisica e chimica – e dunque una chimica veramente scientifica – può essere elaborata in un una maniera del tutto diversa» (op. cit., p. 311, ma cf. pp. 317-318). L’attrazione, la repulsione e la vibrazione dell’etere sono ancora i soli modi per spiegare il legame chimico, e dunque per rendere possibile la teoria della formazione dei corpi. Ma proprio quest’ultima – che resta un desideratum – costituisce il collegamento tra il materiale come «base» del sistema delle forze motrici e la linea argomentativa principale sulla possibilità dell’esperienza esterna. La concezione della chimica che fa da sfondo a questo problema è ancora quella newtoniana che si trova esposta nei Principi metafisici.

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tuisce per Kant il tema del Passaggio e il suo compito di integrazione filosofica rispetto all’opera di Newton: senza questa mediazione filosofica – scriverà Kant nei fogli dei mesi successivi – il passaggio dalla matematica alla fisica sarebbe un «salto mortale». Su questo punto si trova un passo molto chiaro nel foglio ‘Y’30: Si può in effetti fare anche un uso filosofico della matematica solo indirettamente, cioè come strumento, senza oltrepassare il suo campo (della matematica) con un salto alla fisica (salto mortale [in italiano nel testo]), ma restando nel binario del Passaggio dai Princ. metaf. della sc. d. nat. [alla fisica], se vengono date le leggi del movimento per le date forze motrici della materia che in attrazione e repulsione sussistono a priori in rapporti spaziali e temporali, e la cui determinazione è sottoposta a principi matematici.

Kant non ignora che Newton aveva effettivamente considerato reali le forze motrici nel terzo libro dei Principia, ma prende alla lettera l’affermazione del grande scienziato, secondo cui la determinazione della forza sarebbe di competenza della «filosofia naturale», e intende dissipare con la sua filosofia le ambiguità dell’opera newtoniana, che lasciava la questione in sospeso ma (terminando con la posizione delle «cause invisibili», come Kant scriveva nella seconda Prefazione alla Critica) lasciava aperta la porta alla speculazione sul fondamento trascendente della natura. La nuova dottrina dello schematismo, di cui lo «spazio realizzato» costituisce il compimento, si può considerare dunque come l’esecuzione di quel compito di introduzione dei concetti dinamici, svolta entro i confini della filosofia critica, che viene richiamato in sede di Introduzione come uno degli obiettivi del Passaggio31. 30 KgS XXII, 512. Subito prima Kant contesta lo stesso titolo dell’opera di Newton, che sarebbe dovuto essere piuttosto Scientiae naturalis principia mathematica, poiché ai principi matematici vanno «coordinati» quelli filosofici. Sulla matematica come «strumento» cf. G. BÜCHEL, Geometrie und Philosophie. Zum Verhältnis beider Vernunftwissenschaften im Fortgang von der Kritik der reinen Vernunft zum Opus postumum, Berlin/New York 1987. 31 Stando alla datazione di Adickes dei fogli ‘Elem. Syst. 1-7’ e ‘Übergang 1-14’ mantiene dunque un certo interesse l’ipotesi di Mathieu secondo cui le «prove dell’etere» avrebbero dovuto scandire il passaggio, all’interno della nuova opera, dalla se-

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Tenendo presente questa funzione cruciale del materiale cosmico appare particolarmente grave il fatto che Kant adombri due differenti modi di collegarlo con il sistema delle forze motrici. Il primo, più coerente con lo statuto trascendentale delle prove, si può far risalire alla «determinabilità dello spazio e del tempo»: l’esperienza dello spazio è condizione della rappresentazione del movimento, ma il movimento è condizione della introduzione delle forze motrici; dunque la condizione dell’esperienza dello spazio è anche condizione della realtà del sistema delle forze. Il secondo genere di collegamento, operato dal concetto di un’attività primordiale della materia, si può ricollegare piuttosto al vecchio giro di pensieri sulla teoria della formazione dei corpi (prova C): il continuum fisico sarebbe riempito in ogni punto e in ogni tempo con un’attività dinamica, inerente al materiale «motore»; dunque le forze motrici classificate nel sistema elementare, quali funzioni specifiche dell’attività dinamica della materia, sarebbero applicabili al molteplice delle percezioni dando luogo a una «totalità dinamica». Il primo ragionamento si basa sul movimento traslatorio come ratio cognoscendi della forza, e introduce il materiale cosmico come condizione dell’esperienza di questo movimento; il secondo si basa sull’attività primordiale (identificata essa stessa con un movimento) qual ratio essendi della forza, e viene riportato alla problematica trascendentale solo dall’identificazione tra forza e causa dell’affezione. Nel primo caso la materia coincide con una condizione fisicamente indeterminata e indiretta della dinamica, nel secondo con il sostrato di una attività fisica determinata (o comunque determinabile), condizione diretta dell’intuizione. La conclusione è però la stessa: il concetto fisico di forza motrice, di cui fanno uso i «principi matematici» della scienza della natura, riceve ora una fondazione filosofica e – concessa la completezza del sizione sul «Sistema elementare delle forze» a quella sul «Sistema del mondo» (L’opus postumum, pp. 78-80). L’idea è in sé corretta nel senso che, in una nuova teoria del giudizio determinante, al sistema dei concetti deve seguire anche la determinazione del medio per l’applicazione. Tuttavia il «sistema del mondo» cui Kant si limita a rimandare, senza chiarirne il contenuto, non doveva essere costituito da proposizioni della filosofia pura, bensì da dottrine della fisica empirica.

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stema elementare delle forze – è compiuto il passaggio dai principi metafisici della scienza della natura alla fisica come scienza matematico-sperimentale. La duplicità qui evidente non caratterizza solo il risultato delle prove, ma anche il loro fondamento logico. Lo si può mostrare richiamando le osservazioni kantiane sullo statuto degli argomenti. Egli chiarisce subito che «il fondamento probativo [Beweisgrund] è soggettivo e derivato dalle condizioni dell’esperienza possibile» (KgS XXI, 221). Secondo la teoria kantiana delle dimostrazioni questo significa che le nuove argomentazioni, come tutte le prove filosofiche, sono «acromatiche», cioè fondate su meri concetti. Infatti, per un verso, nessuna intuizione empirica può attestare l’esistenza del nuovo materiale, che tornerebbe altrimenti a essere un concetto empirico. D’altra parte, secondo la teoria della sensibilità, non è possibile alcuna intuizione pura della materia. Piuttosto sono spazio e tempo, come forme pure, che «mancando di qualcosa che li renda conoscibili per i sensi, non forniscono oggetti reali qualsiasi per rendere possibile una esistenza in generale, e, soprattutto, quella della grandezza». Il Weltstoff è dunque una condizione dell’esperienza di spazio e tempo, e dell’intuizione empirica in genere, che «non può essere assunto solo problematicamente, perché primariamente indica [Bezeichnet] l’intuizione, che rimarrebbe altrimenti vuota e senza percezione». In altre parole esso costituisce il fondamento reale della sensazione, che è necessario a priori per attestare una qualsiasi esistenza. Alla luce di questo riferimento indiretto alla sensazione va letta l’affermazione secondo cui solo un argomento discorsivo potrebbe provare l’esistenza del Weltstoff, che dunque sarebbe «dato mediante la sola ragione». La determinazione del Beweisgrund soggettivo è insomma ricavata da una analisi delle condizioni dell’intuizione esterna: per questo motivo Kant scrive che l’esistenza del materiale cosmico segue «analiticamente». Questa analisi presuppone evidentemente molti aspetti già trattati nell’Estetica trascendentale, senza metterli in dubbio, ma è altrettanto evidente che ne individua una nuova condizione, che nello stesso tempo qualifica il nuovo materiale: si tratta appunto della dipendenza dell’affezione esterna dal riempimento universale dello spazio. Ma proprio questo riempimento, come 759

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abbiamo visto, possiede due aspetti categorialmente distinti: in primo luogo, un materiale deve in qualche modo riempire lo spazio, al fine di fornire realtà ai punti e rendere possibile la distanza come oggetto dell’esperienza (e nello stesso tempo la realizzazione del sistema delle forze); in secondo luogo, questo riempimento viene determinato esso stesso in senso causale, come influsso capace di agire sui sensi del soggetto, e addirittura come movimento universale permanente. Come si comincia a vedere, tenere insieme la duplice determinazione del materiale cosmico è una condizione essenziale per collegare l’obiettivo di realizzare il sistema delle forze motrici con la questione dell’affezione. Ritroviamo dunque la questione del nesso tra fisica a priori e affezione, che abbiamo esaminato in precedenza. Possiamo ora riprenderla nel suo insieme per ricavarne un bilancio non solo delle prove trascendentali, ma dell’intero progetto del Passaggio.

13.2. Affezione e influsso: la biforcazione del Passaggio Il riferimento a un influsso della materia sui sensi compare subito nell’argomentazione Es: «Per venire a sapere dell’esistenza di una materia, ho bisogno dell’influsso di una materia sui miei sensi». Le basi filosofiche di questa proposizione si trovano nella Critica della ragion pura, dove l’affezione dei sensi è la nota distintiva dell’intuizione sensibile, in quanto viene opposta al concetto, che è fondato su una funzione dell’intelletto. Il concetto di affezione, d’altra parte, è originariamente metafisico, e come tale contiene quello di influsso, cioè di relazione causale tra le sostanze. Nell’intera Dottrina trascendentale degli Elementi, nondimeno, il concetto di intuizione empirica esterna non viene collegato con la rappresentazione di interazioni tra sostanze. Esso viene risolto semplicemente nella sua forma pura, lo spazio, e nella sua materia, cioè il reale che dà contenuto sensibile a quella forma (rendendo possibile la sensazione). Ma qui – come in seguito nell’Analitica trascendentale – per materia non si intende ancora la materia nello spazio, né la “corrispondenza” tra materia e sensazione può essere identificata con una qualsiasi rappresentazione determinata dell’affezione dei sensi. La dottrina degli elementi non è la sede in 760

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cui la natura dell’affezione, rispetto ad oggetti esterni o interni, potesse essere specificata. Il luogo opportuno per questa specificazione potevano essere i Principi metafisici, in cui la materia viene considerata effettivamente come l’oggetto dei sensi esterni. Nella Prefazione a quest’opera, in effetti, abbiamo incontrato una determinazione fisica dell’affezione, che viene fondata sulla determinazione fondamentale del movimento. Abbiamo visto, però, che il nesso tra movimento e affezione non produceva in nessun caso una concezione conseguente con lo sviluppo della fisica pura realizzato nelle quattro sezioni dell’opera, mentre proprio a causa della nuova cornice sistematica restava esclusa l’ipotesi di una forza come causa dell’affezione, che pure Kant aveva considerato nelle riflessioni private (§ 6.3). Nell’Opus postumum quest’ultima ipotesi ricompare, e addirittura si trova una definizione della esperienza come «l’effetto primitivo delle forze motrici della materia sui nostri sensi»32; ma si ritrova anche l’ipotesi alternativa del movimento33 e in generale Kant – complice la vaghezza della sua definizione di «forza motrice» – non giunge a una decisione definitiva su questo punto estremamente controverso. Tuttavia le diverse variabili del problema ricevono almeno un esame gnoseologico che negli scritti precedenti mancava. Per esporre i risultati originali di questo esame sarà utile ripartire dagli elementi che definiscono la relazione logica tra affezione dei sensi e influsso. L’affezione dei sensi esterni richiede per definizione tre elementi: lo spazio come pura forma dell’intuizione esterna, gli organi dei sensi quali oggetti nello spazio e gli oggetti intuiti. Nei Principi metafisici, dove il concetto di materia viene assunto e esaminato alla luce dell’intuizione pura del movimento, il compito di una determinazione fisica dell’affezione non viene svolto. Tuttavia, come si ricava dal passo della Prefazione su movimento e affezione, si pone l’esigenza di stabilire il rapporto tra soggetto e materia nello spazio in base a condizioni a priori. Dopo aver ripreso l’indagi‘A Übergang’, KgS XXII, 606. Si veda per esempio KgS XXI 573, dove il movimento è causa della «eccitazione» (Erregung) dei sensi. 32 33

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ne sull’affezione esterna, nel foglio ‘Y’ dell’Opus postumum Kant esprime l’esigenza di ritornare sul fondamento trascendentale del concetto di materia, presentandone una nuova definizione (KgS XXII, 513-514): Nei principi metafisici della scienza della natura la materia in generale fu definita così: essa è i l m o b i l e n e l l o s p a z i o. Ma un’altra definizione può anche venir formulata così: essa è c i ò c h e f a d e l l o s p a z i o u n o g g e t t o d e i s e n s i; e, precisamente, il sostrato di tutte le intuizioni empiriche esterne con coscienza, cioè di tutte le percezioni (sparsim), in quanto esse siano pensate (coniunctim) come oggetto dell’esperienza».

Questa nuova definizione, in cui si esprime il bilancio della nuova indagine sul concetto di materia, costituisce uno dei risultati più interessanti di tutto l’Opus postumum. Essa collega l’affezione all’influsso mediante una condizione trascendentale, in un modo che ben si accorda con il concetto di materia della fisica pura (Teorema 4 della Dinamica), senza entrare nei dettagli matematici e intuitivi dell’influsso stesso. Nel foglio ‘Z’, ricco di osservazioni sul fondamento trascendentale della fisica matematica, Kant si pronuncia molto chiaramente sulla precedenza logica della nuova definizione di materia rispetto alla precedente (KgS XXII, 535): La materia è ciò che rende lo spazio un oggetto dei sensi (oggetto di possibile percezione). (La definizione secondo cui essa è il mobile nello spazio è una conseguenza di ciò).

Questa funzione trascendentale della materia viene svolta in concreto dalla forza motrice, perciò la nuova definizione viene collegata a quella dinamica della materia in quanto possiede una forza motrice34. Ma la chiave per comprendere la nuova definizione risiede nell’approfondimento del terzo elemento dell’affezione, il concetto di spazio. Kant aveva affermato già nella Foronomia che 34 ‘Elem. Syst. 6’, KgS XXII, 189-190. Si noti che la nuova definizione non comporta un abbandono della precedente, ma piuttosto una precedenza trascendentale della forza sul movimento basata sulla nuova teoria dinamica della percezione.

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lo spazio puro dell’Estetica trascendentale non può essere impiegato come tale in una dottrina del movimento, perché l’esperienza del movimento richiede l’intuizione sia della materia sia dello spazio (MA 481): In ogni esperienza si deve avere la sensazione di qualcosa, e questo è il reale dell’intuizione sensibile; di conseguenza anche lo spazio in cui dobbiamo fare esperienza dei movimenti deve poter essere oggetto di sensazione, cioè contraddistinto dalla possibilità di essere oggetto di sensazione, e questo spazio, in quanto complesso di tutti gli oggetti dell’esperienza [Inbegriff aller Gegenstände der Erfahrung] ed esso stesso oggetto dell’esperienza, si chiama s p a z i o e m p i r i c o.

Questa affermazione introduce lo «spazio materiale» come «spazio relativo» e conduce al ben noto rifiuto dello spazio assoluto quale possibile oggetto della fisica. Ma dal nostro presente punto di vista dobbiamo meravigliarci del fatto che la totalità degli oggetti dell’esperienza venga qui considerata come un oggetto empirico. Questo spazio materiale, dunque, contiene almeno due diversi concetti: primo, lo spazio fisico relativo come sistema di riferimento, stabilito di volta in volta empiricamente con l’ausilio di contrassegni percettivi; secondo, lo spazio fisico inteso come totalità dei possibili oggetti dell’esperienza esterna in quanto questi possono essere associati a luoghi di un continuo simultaneo, all’interno del quale possono essere di volta in volta designati i sistemi di riferimento cinematici. Questo secondo concetto non definisce propriamente uno spazio geometricamente e meccanicamente determinato (che sarebbe di nuovo lo spazio assoluto), ma piuttosto una condizione “collettiva” dell’intuizione empirica esterna. Esso perciò non svolge un ruolo esplicito nei Principi metafisici, ma costituisce nondimeno una condizione del precedente concetto di spazio empirico: infatti, come è possibile fare esperienza dei luoghi dello spazio fisico, in modo da stabilire un sistema di riferimento? È un movimento, o una forza (o altro) a renderli in linea di principio percepibili? Poiché questi luoghi corrispondono in concreto a oggetti esterni mediante cui si stabilisce un sistema di riferimento, la questione della possibilità dello spazio 763

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empirico risale allo stesso problema della percezione della materia, cioè al problema della natura dell’influsso nello spazio in quanto condizione dell’esperienza. Ma siamo in grado di vedere, ora, come questo problema deve coinvolgere non soltanto i concetti di materia e affezione, ma anche la nozione stessa di spazio. Mi sembra infatti evidente che Kant nei fogli ‘Übergang 1-14’ riprenda precisamente questo problema per ricavarne come soluzione l’esistenza del materiale cosmico e così anche il fondamento della possibilità degli influssi dinamici in genere. Abbiamo visto che questa condizione dell’influsso deve essere una materia cosmica e che l’influsso deve avvenire in uno spazio riempito persistentemente. Abbiamo anche rilevato che la funzione e l’originalità di queste premesse fondamentali della prova si capiscono soltanto confrontandole con la storia precedente del criticismo. Il riferimento a un influsso dinamico come condizione della coesistenza spaziale, ovviamente, non è nulla di nuovo nel pensiero kantiano. L’influsso, come afferma la terza analogia dell’esperienza, e come viene ripetuto anche nell’Opus postumum, «costituisce la comunanza di tutta la materia nello spazio»35. Se ritorniamo però sul brano della prova del principio di comunanza e al concetto di «comunanza dinamica», di cui abbiamo già visto l’importanza per la questione dell’affezione, troviamo quella che è sembrata ad alcuni interpreti una versione nascosta di “prova dell’etere” (KrV A 213/B 260): Nelle nostre esperienze è facile notare che solo gli influssi continui in tutte le posizioni [Stellen] dello spazio possono condurre il nostro senso da un oggetto all’altro, e che la luce che gioca fra il nostro occhio e i corpi celesti può produrre una comunanza mediata fra noi ed essi e provare [beweisen] la simultaneità di questi ultimi con il fatto che non possiamo cambiar luogo empiricamente (cioè percepire questo mutamento) senza che la materia ci renda possibile ovunque la percezione del nostro luogo, e per il fatto che questa solo mediante il suo influsso reciproco può mostrare [dartun] la sua simul-

35

‘Übergang 9’, KgS XXI, 561.

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taneità, e con ciò la coesistenza degli oggetti, fino ai più lontani (sebbene solo mediatamente)36.

«Soltanto un influsso continuo in tutti i luoghi dello spazio può condurre i nostri sensi da un oggetto all’altro», mettendoci in relazione fisica e teoretica con i corpi esterni. È importante cercare la modificazione apportata a questa teoria nei manoscritti dell’Opus postumum. Anche nell’Opus postumum l’esperienza degli oggetti simultanei è fondata sulla rappresentazione di un influsso tra questi oggetti e i nostri organi. Anche nell’Opus postumum, ancora, da queste condizioni dipende la stessa unità del mondo sensibile, che è a sua volta conseguenza dell’unità dell’esperienza37. La differenza principale della nuova trattazione è sottile: la comunanza dinamica, secondo la Critica, può essere immediata oppure mediata, perché la logica trascendentale conclude soltanto che ci deve essere un influsso, pur fornendo – mediante l’esempio della luce – un cenno su come determinarne ulteriormente la natura38; le prove dei fogli ‘Übergang’, invece, affermano categoricamente che deve trattarsi di influsso mediato, poiché vi si pone il riempimento dello spazio quale condizione trascendentale dell’intuizione: «Nessun effetto delle forze motrici della materia può raggiungere i nostri sensi attraverso lo spazio vuoto»39. Dato però che la nuova argomentazione possiede uno statuto trascendentale ci si può domandare: come mai essa non si trova negli scritti precedenti? Il modo migliore per comprendere questo cambiamento è considerare il massimo esempio di influsso immediato a distanza, l’attrazione, e il nesso di questo con il problema dell’affezione. Abbiamo visto che, non appena viene abbandonata la concezione me36 KrV A 213/B 260. Sul collegamento di questo passo con l’Opus postumum insiste EDWARDS, Substance, Force and the Possibility of Physics, pp. 23-47. 37 Si veda KrV A 219/B 266, da confrontare con il frequente incipit delle riflessioni sul materiale cosmico, a partire dai fogli ‘Übergang’: «c’è solo una esperienza», dunque un solo spazio (per es. KgS XXI, 576, 592, 594-595). 38 KrV A 213/B 259: «esse [le sostanze] devono stare in comunità dinamica (immediatamente o mediatamente)». 39 ‘Übergang u[sw]’, KgS XXI, 220.

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tafisica dell’attrazione come «fenomeno esterno» dell’influsso intermonadico, comincia negli scritti kantiani una riflessione sul fondamento fisico-dinamico della coesistenza. Le prime linee della terza Analogia, affermando che la coesistenza nello spazio non può essere «conosciuta empiricamente», escludevano l’ipotesi – di cui abbiamo trovato notizia nei documenti sulle lezioni e nella Nota generale al sistema di principi – che lo spazio stesso, in quanto forma dell’intuizione, potesse costituire il fondamento della comunanza tra le sostanze fenomeniche. Nell’Opus postumum viene introdotta una condizione più restrittiva: pur restando un sostenitore dell’attrazione a distanza Kant afferma ora non solo che l’azione a distanza è «una mera idea», nel senso che l’attrazione agisce come se non ci fosse nulla nello spazio interposto tra i corpi (in quanto dipende solo dalla massa dei corpi e dalla distanza) – cosa che era già messa in chiaro nei Principi metafisici (MA 513) – ma anche che la gravitazione può essere individuata e misurata solo se lo spazio si considera pieno. Questo nesso tra attrazione e pieno, che compare nei fogli ‘Übergang 1-14’ in connessione con l’indagine sulla possibilità dell’intuizione della distanza, riceve la massima attenzione nei fogli immediatamente successivi, dove si vede come Kant sia giunto a modificare le sue conclusioni proprio a partire dall’indagine sulle condizioni trascendentali della fisica empirica. La cosa è molto chiara nel foglio ‘Z’. Kant vi sostiene che al fine di applicare la legge di gravitazione ai fenomeni dobbiamo conoscere i luoghi in cui si diffonde l’azione della forza attrattiva, cioè determinare le distanze nello spazio; pone dunque la questione della possibilità di conoscere gli stessi luoghi dello spazio fisico. Con quali mezzi, tuttavia, viene resa manifesta questa forza che governa l’intero spazio cosmico, dato che ciò non può avvenire empiricamente, perché essa contiene una legge a priori. Come conosceremo i luoghi in cui questa attrazione universale [agisce], e possiede un maggiore o minore momento di accelerazione rispetto ad altri [luoghi], al fine di determinare le distanze a cui l’attrazione agisce; perché di questo dobbiamo essere istruiti prima di applicare la legge di gravitazione a una qualsiasi parte della materia, e l’actio im-

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mediata in distans non può produrre alcuna percezione nel soggetto intuente perché lo spazio è vuoto e non è affatto sensibile40.

Dato che l’attrazione a distanza richiede ulteriori condizioni preliminari, la determinazione della coesistenza deve presupporre un qualche genere di influsso mediato. Questo influsso deve agire attraverso ogni punto di uno spazio pieno e Kant conosce bene due generi di fenomeni per la sua determinazione fisica, che vengono ricordati verso la fine del foglio ‘Z’(KgS XXII, 530): Luce e suono (con i loro colori e toni) sono tali mezzi di transizione [solche Überschritte] che rendono rappresentabile un’azione a distanza (actio in distans) come immediatamente possibile... Noi vediamo o udiamo luce e suono non in quanto toccano immediatamente i nostri occhi e orecchie, ma piuttosto come un influsso sui nostri organi degli oggetti dei sensi in quanto distanti da noi.

Considerando i molteplici riferimenti a questo influsso fisico mediato, altrove nell’Opus postumum e negli scritti kantiani in genere, sembrerebbe a portata di mano la soluzione del dilemma della terza analogia: la natura dell’influsso a distanza, fondamento della percezione esterna, sarebbe la luce, come vibrazione perpetua di un mezzo diffuso in tutto lo spazio. Mediante il suo influsso sui nostri sensi – e mediante la sua velocità finita – la distanza dei corpi potrebbe essere determinata prima che qualsiasi stima mec-

40 ‘Z’, KgS XXII, 529 (l’argomento è ripetuto a margine). Cf. anche la prima pagina del foglio, XXII, 524. Il ragionamento del foglio ‘Z’ si deve collegare con la nuova, enfatica considerazione dell’attrazione newtoniana nei fogli dello stesso gruppo ‘A-Z’ (si veda per es. XXII, 518, 521; e sullo stesso foglio XXII, 528). In particolare, si potrebbe trattare di una implicita correzione alla occasionale identificazione della gravità con lo «spazio sensibile» nel foglio immediatamente precedente (‘Y’, XXII, 522): «Ora [dopo Kepler e Huygens] si fece avanti Newton e procedendo da filosofo introdusse una forza motrice identica allo spazio, connessa [con lo spazio] e da considerarsi semplicemente come spazio sensibile, chiamata attrazione gravitazionale [...]». Dopo aver suggerito che la gravitazione potrebbe essere la chiave per fare dello spazio un oggetto dell’esperienza, Kant corregge ora la sua affermazione e riconosce nel riempimento una condizione preliminare dell’applicazione del concetto di attrazione. Una versione successiva dello stesso argomento si trova in XXI, 59-60.

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canica della massa abbia luogo41. Ma la luce – come viene affermato in numerosi luoghi di questi e di precedenti fogli – non sarebbe altro che un movimento del materiale cosmico, un flusso di propagazione rettilinea, mentre l’agitazione interna sarebbe il calore. Questa identificazione del materiale cosmico (Weltstoff, o Wärmestoff) con il sostrato della luce (Lichtstoff) – ipotesi diffusa nella fisica del tempo − costituisce dunque l’atto di ipostatizzazione che produce l’apparente coerenza logica dell’argomento trascendentale kantiano42. Infatti uno stesso materiale cosmico è condizione dell’intuizione esterna, come materia luminosa, e dei fenomeni termici e chimici, come calorico. Infine il movimento del calorico, come sappiamo, è ancora considerato un fondamento necessario – diretto o indiretto – della formazione dei corpi. Perciò la prova trascendentale dell’esistenza di una materia luminosa fornisce allo stesso tempo la base del sistema delle forze motrici. La fallacia del ragionamento, alla luce di questi esempi fisici, è evidente: la considerazione di tante diverse funzioni quali proprietà di un singolo materiale, così come la teoria ondulatoria di luce e calore, non sono ovviamente verità analitiche. In effetti i successivi sviluppi della fisica e della chimica hanno portato a spiegazioni diverse e più efficaci di luce, calore e formazione dei corpi, tutte in41 Il collegamento storico con l’applicazione astronomica della velocità finita della luce si trova per es. in KgS XXI, 235; XII, 537; XI, 71. Per quanto riguarda la teoria della percezione luminosa si veda Anthropologie, § 19, KgS VII, 156-157. Nel contesto della riflessioni sulla funzione trascendentale del materiale cosmico, naturalmente, questa dottrina riceve una nuova attenzione. Tra i passi più tardi si vedano:’Übergang 4’, KgS XXI, 229; ‘Übergang 10’, XXI, 565; ‘Übergang 12 Bogen b) S. 2’, XXI, 605; ‘AA’, XXII, 426; XXI, 55, 88. Sulla datazione di questi ultimi due luoghi (1801) v. FÖRSTER, Opus postumum, 286-287, nota 158. 42 Riportato così sul piano ipotetico il ragionamento kantiano ricalcherebbe per esempio quanto si poteva leggere nella voce «Leere, leerer Raum» del Physikalisches Wörterbuch di Gehler (vol. II, pp. 866-871). Qui (p. 867) il vuoto intramondano viene così confutato: «già il pensiero che noi vediamo i corpi celesti non lascia ammettere che vi sia in questo senso un vuoto assoluto dello spazio celeste. La luce che giunge a noi dalle stelle fisse, infatti, o deve riempire essa stessa questi spazi, oppure deve incontrare in essi una materia adatta alla sua propagazione». Nel caso di una teoria ondulatoria il punto decisivo, dal punto di vista fisico, era ovviamente l’inconcepibilità di una propagazione nel vuoto.

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dipendenti dall’ipotesi di un singolo materiale cosmico. Il collegamento di quest’ultimo con la questione del «sistema delle forze» nasconde dunque una proiezione nel dominio della filosofia trascendentale di alcune particolari ipotesi fisiche (teoria ondulatoria della luce; teoria chimica del calore; le stesse congetture fisico-dinamiche kantiane sulla formazione dei corpi). Considerando da questo punto di vista il concetto del materiale cosmico possiamo rilevare che le prove trascendentali si fondano su un paralogismo43. Io non credo, tuttavia, che il problema delle prove trascendentali della materia nell’Opus postumum possa essere completamente risolto con il riconoscimento che Kant venne messo fuori strada dai concetti della fisica del tempo. Certamente la messa in evidenza di questi presupposti aiuta a capire meglio come, sviluppando il concetto metafisico di influsso attraverso questi concetti scientifici, il suo tentativo di realizzare il passaggio alla fisica sul piano trascendentale dovesse incontrare difficoltà insuperabili. Ma la questione non si conclude con questa generica constatazione, e va ulteriormente approfondita: si può mostrare infatti che, ancora una volta, il suo rapporto con la scienza dell’epoca non era privo di fraintendimenti, e che furono questi, prima ancora degli esempi fisici, a introdurre il difetto logico nell’argomentazione; e ancora che, d’altra parte, le riflessioni kantiane giunsero per questa via accidentata a un ripensamento interno della filosofia della natura indipendente dallo sviluppo della fisica sperimentale. Per quanto riguarda la nozione equivoca della materia essa di43 Questo genere di critica storica viene sviluppata nell’illuminante trattazione del «fato» delle prove dell’etere in FRIEDMAN, Kant and the Exact Sciences, pp. 325-328. Friedman sottolinea anche che Kant stesso considera il calorico come una ipotesi nel resto dell’Opus postumum (in part. rimanda a KgS XXII, 84) e, riguardo al ruolo della materia luminosa quale condizione dell’intuizione esterna, pone delle domande decisive: «Tuttavia, cosa hanno a che fare la luce – o, in generale, un mezzo per il nostro contatto percettivo con gli oggetti della conoscenza – con il “Tutto della materia” che serve da base per un sistema delle forze motrici della materia? Perché il nostro mezzo per stabilire un contatto percettivo con i corpi, qualunque esso risulti essere, dovrebbe costituire anche una base per la scienza completa ideale [...]?» Dato che non si trova una risposta adeguata a queste domande l’intero progetto del Passaggio deve crollare: «La deduzione dell’etere – e dunque il progetto del Passaggio – deve essere considerata in conclusione un fallimento».

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scende dalla già rimarcata circostanza che Kant la considera nello stesso tempo movente e mobile. La sua determinazione fisica come calorico (con la sua vibrazione, che “realizza” le forze motrici) e materia luminosa (con il suo movimento rettilineo) è resa possibile da questa duplice funzione cinetica. Ma occorre sottolineare che questa specificazione fisica deve restare per Kant ipotetica, mentre il ragionamento trascendentale inferisce a rigore un generico influsso in un generico Urstoff, che andrebbe specificato successivamente mediante nozioni empiricamente fondate. Questa precisazione non elimina certo i problemi legati alla specificazione fisica, ma permette di vedere che le difficoltà del Passaggio non si risolvono in essi44. Infatti una più astratta fonte di oscurità della teoria della materia, che stavolta è indissolubile dalla formulazione degli argomenti trascendentali, e che Kant non riuscì mai a dissipare, consiste nella stessa possibilità di identificare forza motrice e movimento in una stessa materia qualsiasi. L’equivoco, in particolare, risiede proprio nel concetto di forza motrice. Abbiamo visto che l’equivocità di questo concetto costituisce la fonte dei massimi problemi della Dinamica kantiana. In quanto «causa del movimento» non è sempre chiaro se essa coincida con la quantità di movimento cartesiana (mv), o con la forza accelerativa newtoniana (∝ mdv). Nello stesso tempo, Kant chiama «movimento» sia una quantità foronomica (v), sia una meccanica (mv). Il rischio dell’equivoco, come abbiamo visto, giunge al punto da mettere a rischio in alcuni ragionamenti finanche la coerenza con i 44 Sulla corrispondenza tra il Weltstoff e un materiale fisico particolare si basava la severa liquidazione di Adickes, che parlava di dimostrazioni «completamente prive di valore» motivate da una «non critica arrendevolezza senile verso opinioni preferite, e dalla brama, schiettamente razionalistica, di elevare tali opinioni, da semplici teorie e ipotesi, a proposizioni rigorosamente dimostrate» (Kants Opus postumum, pp. 389; 394). La tesi dell’etere come «spazio pieno “d’una specie qualsiasi”» è sostenuta per contro da MATHIEU, La filosofia trascendentale e l’«Opus postumum», pp. 258-259. Questa conclusione lascerebbe ammettere che l’influsso di una materia sia condizione dell’affezione dei sensi senza sapere come questo influsso agisca sui sensi. Si può osservare però che anche un influsso sui sensi in generale è un particolare tipo di influsso – ancora ignoto – che come tale non può essere senz’altro identificato con il sistema delle forze motrici.

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concetti della meccanica newtoniana. Nelle prove della materia a priori i risultati di queste premesse sono non meno deleteri. In base ad esse Kant può scrivere che la fisica deve presupporre un «sistema delle forze motrici» e che una «forza motrice» è condizione dell’intuizione esterna: dove quest’ultima viene identificata con un movimento (vibrazione) capace di esercitare una modificazione sugli organi dei sensi. Ora, è evidentemente illegittimo identificare il sostrato di questa vibrazione con la «base» delle forze motrici in generale a meno di non postulare una particolare teoria fisica (ricadendo nelle difficoltà precedenti). Eppure questa tesi ambivalente è di cruciale importanza per stabilire il ruolo sistematico delle nuove prove trascendentali nel Passaggio, poiché esso rende possibile lo slittamento dal «sistema delle percezioni» al «sistema delle forze motrici», collegando un luogo teorico della filosofia trascendentale con il problema della possibilità della fisica45. Non si trattava di una novità assoluta nella filosofia trascendentale, perché già nella Critica della facoltà di giudizio un’analoga equivocità aveva permesso di collegare il problema della specifica molteplicità delle leggi delle forze motrici con il principio della finalità (Zweckmässigkeit) della natura. Qui infatti la possibilità di una natura ordinata da leggi speciali dipendeva dalla percezione della bellezza naturale, sotto il presupposto che la «legalità» formale delle percezioni esterne esibisse il fondamento di una sottostante sistematicità formale delle forze46. In generale, dunque, pare che Kant – complici anche le sue incertezze sul piano strettamente fisico-matematico – non giungesse mai a un chiarimento definitivo sullo schematismo in fisica. Ma proprio questo tema serviva a conferire validità oggettiva alle indagini altrimenti solo euristiche del «sistema elementare», collegandole con le prove del ma45 Questa fallace connessione tra forze motrici e condizioni della percezione esterna è evidente anche nei fogli fatti copiare da Kant, KgS XXII, 549-550. Si vedano anche XXI: 202, 591, 595-596, 601. Essa compare ancora nei fogli successivi, segno che Kant non riesce a rilevarla: per es. ‘AA’, XXII, 257-258. L’identificazione tra sistema delle percezioni e sistema delle forze motrici, attraverso la nozione equivoca di forza motrice, è messa bene in evidenza nella ricostruzione della prova trascendentale di FÖRSTER, Kant’s Final Synthesis, p. 89, il quale però non ne rileva la difficoltà. 46 Si veda l’Appendice.

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teriale in quanto «base» delle forze. Ne risulta per così dire un solco che attraversa l’intero progetto del Passaggio, a seconda che si intenda l’azione del Weltstoff nel senso meccanico di un movimento effettivo o nel senso di una generica anticipazione dinamica. Possiamo dunque concludere riassumendo l’intera biforcazione che caratterizza l’itinerario problematico fin qui seguito. A partire dai Principi metafisici, tre problemi vengono collegati con la teoria dell’etere o calorico: (1) la possibilità della fisica scientifica, cioè sistematica; (2) la possibilità dell’intuizione esterna; infine – in stretta dipendenza dalla trattazione dei due problemi precedenti – (3) la negazione dello spazio vuoto. Per affrontarli, nell’Opus postumum, vengono adottati due diversi concetti del riempimento dello spazio e dunque dell’influsso: (a) quello di un riempimento effettivo (materiale), in termini meccanici o chimici; (b) quello di un riempimento possibile (formale), nel senso di un’azione dinamica in ogni punto dello spazio in generale necessaria, ma solo di caso in caso effettiva. Il problema della fisica sistematica (1) deriva dalla mancanza di una compiuta teoria della struttura della materia nei Principi metafisici, e si pone inizialmente con le riflessioni sulle proprietà della materia come densità, coesione e stati di aggregazione, per essere più tardi collegato con quello della possibilità dell’esperienza. Questa linea argomentativa ha condotto dapprima alla classificazione sistematica dell’Elementarsystem, poi alla teoria del nuovo schematismo. In base all’idea di una «unità collettiva» delle forze motrici l’indagine sulle condizioni della fisica è stata collegata dapprima soprattutto con i concetti meccanici dell’etere/calorico, cioè con il concetto chiave delle precedenti riflessioni di fisica (nel caso della chimica, abbiamo visto che si poneva a livello metafisico la possibilità di una costruzione della soluzione indipendente da rappresentazioni meccaniche, ma che Kant sul piano fisico tornava a postularne una interpretazione meccanica in termini di vibrazioni). Nella nuova concezione del riempimento formale dello spazio, tuttavia, Kant ha posto le basi di una nuova riflessione sulla fisica che non ha alcun collegamento intrinseco con la rappresentazione dei movimenti ipotetici (e addirittura necessari) di un materiale vero e proprio. Il nuovo schematismo riguarda infatti sempli772

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cemente l’influsso dinamico possibile, le prove della materia la sua esistenza, ma nessuna di queste dottrine a priori può fingere ipotesi fisiche di alcun tipo sull’effettiva modalità di azione della sostanza materiale (anche se, come abbiamo visto, le prove stesse presuppongono alcuni elementi della teoria fisica corrispondente). Il problema dell’intuizione di oggetti esterni (2), che discende dal concetto di affezione delle opere precedenti e in particolare dalle riflessioni sull’idealismo materiale, è stato collegato anch’esso con la possibilità dell’esperienza, ma riguarda piuttosto una condizione mancante dell’Estetica che una specificazione fisica della teoria del giudizio. Esso costituisce l’obiettivo per cui viene introdotto, nelle prove dei fogli ‘Übergang 1-14’, un movimento che congiunge e riempie ogni punto dello spazio. Questa linea argomentata sbocca infine nella posizione di una materia in movimento perpetuo, quale medio per la determinazione della distanza spaziale. Il problema dell’intuizione esterna, dunque, riceve risposta mediante il concetto di un riempimento effettivo dello spazio. Questo movimento del Weltstoff fornirebbe anche realtà al sistema delle forze, ricollegandosi alla precedente linea di ricerca. Nel complesso, tuttavia, Kant raggiunge esiti diversi a seconda dei diversi concetti di riempimento. a) L’influsso basato sul riempimento effettivo dello spazio può giustificare l’affezione causata dal movimento (2) e la negazione del vuoto (3). Come si vede, si ricostituisce così una concezione meccanicistica. Questo richiede però l’ipotesi di un etere meccanico (come nel 1786) e l’identificazione di esso con la materia luminosa e della luce con le sue vibrazioni. Ma tutto ciò non può fornire alcuna fondazione a priori del sistema delle forze (1) e un presupposto materiale per lo schematismo della fisica, perché il materiale sarebbe omogeneo alla materia vera e propria e non concepibile a priori – peraltro, come mostra la storia del concetto di etere, questo materiale avrebbe comportato difficoltà anche sul piano fisico-ipotetico. Ma le prove trascendentali rimandano precisamente a una caratterizzazione fisica dell’influsso, fondata sul riempimento completo ed effettivo dello spazio. b) L’influsso basato sul riempimento possibile può accompagnarsi all’idea di una nuova fondazione a priori del sistema delle 773

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forze (1), mediante un nuovo schematismo, necessario a orientare l’osservazione e l’esperimento (resta peraltro incerto se sia possibile concludere una volta per tutte la classificazione delle forze motrici). Lo stesso concetto di influsso può forse essere connesso anche con un’attività primordiale nello spazio, al fine di applicare la rappresentazione matematica della forza con la sua realtà (come nell’argomento Et), soddisfacendo un’esigenza della fisica di Newton. Tuttavia tale influsso possibile non fornisce evidentemente alcun fondamento dell’affezione (2): come può infatti un influsso in genere essere collegato immediatamente con una impressione degli organi dei sensi? La gravitazione, per esempio, non lo può. È evidente anche che esso non permette di escludere il vuoto in senso fisico (3). Queste conclusioni mostrano che il tentativo kantiano di gettare un ponte tra filosofia trascendentale ed epistemologia fu impedito dalle difficoltà di elaborare a priori un concetto di materia che tenesse insieme l’evidenza intuitiva con la determinazione logica. Nondimeno la svolta trascendentale delle riflessioni sull’etere e sulle forze motrici è la testimonianza di un estremo sforzo di chiarimento sui problemi che gravavano fin dall’inizio sulla teoria kantiana della materia e della fisica, e se non produsse un risultato dimostrativo certamente comportò un progresso analitico in merito al complesso sistema di concetti che mediano il passaggio dalla percezione alla costruzione dell’oggetto. Nei manoscritti successivi troviamo infatti l’introduzione di nuove domande trascendentali che il sistema critico aveva lasciato in sospeso, pur non potendole evitare. Dunque la redazione delle “prove dell’etere” nei manoscritti del 1799 servì per così dire come una scala, mediante cui Kant ritornò nei suoi ultimi anni al territorio più familiare della filosofia pura – anche se poi questa scala dovette essere gettata via.

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Capitolo 14 Fenomeno indiretto, autoaffezione, autoposizione, spazio: ritorno dalla fisica alla filosofia trascendentale

Immediatamente successivi all’impresa delle prove del materiale cosmico sarebbero, in base alla datazione canonica, i fogli in cui l’intreccio tra fisica e filosofia trascendentale diviene esplicito, e cioè in primo luogo quelli con la segnatura ‘A’-‘Z’, poi quelli indicati come ‘Beylage[n]’. Vi si trova un notevole approfondimento di concetti comparsi nelle riflessioni precedenti, che vengono qui tematizzati come tali, lasciando da parte la strutturazione architettonica e l’ambizione dimostrativa. Il ritorno a un’indagine epistemologica generale è attestato, finalmente, dalla formulazione di domande che abbiamo atteso lungo tutta la trattazione della filosofia della natura del criticismo: «come è possibile la fisica come scienza?»; e prima ancora, «che cos’è la fisica?» – dato che è ormai chiaro che non si tratta di una dottrina semplicemente empirica, ma di un «sistema» di «principi formali della possibilità degli oggetti esterni». La questione impone un ritorno su alcuni aspetti della filosofia trascendentale1. I temi principali, che mi limiterò ad accennare, sono tre, tutti strettamente interconnessi: la teoria del «fenomeno indiretto», la teoria dell’«autoposizione» del soggetto nello spazio – cui si accompagna una revisione dei concetti di affezione e cosa in sé – e la stessa teoria di spazio e tempo. 1 Tra le molte formulazioni della domanda sulla fisica si vedano i fogli ‘T’ e ‘X’, dove le domande su «che cos’è la fisica?» e «come è possibile la fisica?» precedono le analoghe domande sulla possibilità del Passaggio (KgS XXII, 467; 496). Cf. ‘L’, XXII, 361: «Come è possibile la fisica come scienza?».

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La teoria del fenomeno indiretto – o «fenomeno del fenomeno», «fenomeno di secondo ordine» – proviene dalla precedente indagine sulle nuove anticipazioni dinamiche e ne costituisce un bilancio nel contesto più ampio della filosofia trascendentale. Il fenomeno indiretto non è altro che l’anticipazione del fenomeno, inteso come oggetto dell’intuizione sensibile, e dunque esiste già – pur mancandone il nome – nel criticismo precedente. Si considerino le seguenti tesi: «Solo per mezzo di ciò che lo stesso intelletto fa, il soggetto intende il proprio oggetto» (KgS XXII, 553); a fondamento dell’esperienza non sta la soggettività della rappresentazione mediante i sensi (primarium dabile), bensì la sua oggettività per i sensi (primarium cogitabile). Si consideri infine anche la fuorviante dichiarazione: «wir machen alles selbst» («facciamo tutto da noi»). Tutti questi si possono considerare semplici corollari della tesi secondo cui le intuizioni senza concetti sono cieche, e si può dire che, in generale, la nuova teoria del fenomeno corrisponde a quell’idea del metodo della fisica sperimentale che Kant – attraverso l’esempio di Galilei – presentava già nelle celebri pagine della Prefazione alla Critica del 17872. La specificità delle nuove riflessioni consiste nell’approfondimento del contenuto fisico delle nuove anticipazioni e soprattutto nel più articolato inquadramento gnoseologico3. Secondo la nuova teoria l’intero sistema delle proprietà e delle interazioni dinamiche che devono determinare ogni singolo oggetto fisico deve essere rappresentato a priori, in quanto si tratta di un momento essenziale di quella coordinazione delle percezioni senza la quale è impossibile la rappresentazione di un 2 Non sarà inutile, qui, sottolineare l’esattezza storica di quella descrizione, almeno per quanto riguarda scienziati – come Copernico, Kepler, Galilei, Torricelli, oltre che Newton – che sostennero la necessità della suppositio matematica per lo studio della natura. Come è noto, invece, Bacon associava le «anticipazioni della natura» all’arbitrio speculativo. Si veda l’utile raccolta di testi e il bilancio storiografico in P. ROSSI, Aspetti della rivoluzione scientifica, Torino 1971, pp. 149-158. 3 Sull’originalità del «fenomeno del fenomeno» sono ancora validi gli inquadramenti di G. LEHMANN, Erscheinungsstufen und Realitätsproblem in Kants Opus postumum, «Kant-Studien» 45 (1953/54), pp. 140-154 e MATHIEU, L’opus postumum, in part. 159-161. Sul nesso con la teoria dello schematismo insisteva giustamente R. DAVAL, La métaphysique de Kant, Paris 1951, in part. pp. 267-396.

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oggetto. Trattandosi però, stavolta, dell’oggetto individuale e non più dell’oggetto in genere della logica trascendentale, l’estensione della sintesi a priori fisica viene collegata – come è evidente anche a livello terminologico – alla dottrina della omnimoda determinatio dell’oggetto. La nuova teoria, insomma, è saldamente radicata nelle riflessioni precedenti e in particolare nell’idea di un riempimento formale dello spazio e di un nuovo schematismo. Esaminiamo però nei testi alcuni degli sviluppi più originali, che riguardano sia le condizioni soggettive del conoscere che l’oggetto stesso. In primo luogo l’anticipazione delle forze viene ad includere in sé tutta la teoria dell’affezione, per cui si parla di una «autoaffezione» del soggetto, nel senso che anche il processo dinamico responsabile dell’affezione è una cogitatio a priori che anticipa logicamente l’intuizione stessa. Leggiamo alcuni passi del foglio ‘E’, in cui si trovano insieme i vari elementi della nuova teoria della conoscenza fisica: spazio sensibile, sintesi a priori dell’oggetto fisico, autoaffezione. Poiché lo spazio vuoto non rientra tra gli oggetti di possibile esperienza, considerato assolutamente (absolute) come forma pura dell’intuizione, esso è solo fenomeno di un oggetto esistente; e questo è un oggetto della conoscenza sintetica a priori. Ma lo spazio sensibile (spatium sensibile), il cui molteplice nella coesistenza si offre come un oggetto dell’esperienza possibile (spatium cogitabile), è tuttavia un oggetto reale (esistente) di possibili percezioni delle forze della materia che muovono i sensi nel soggetto afficiente se medesimo, e senza la cui apprensione del molteplice dei suoi fenomeni non sarebbe dato alcun oggetto di rappresentazione empirica; perciò [è] fenomeno di un fenomeno, e come tale dato oggettivamente (KgS XXII, 332). La forma di un sistema, e non di un semplice aggregato delle percezioni, deve partire dal fenomeno degli oggetti, che è un loro modo di rappresentazione semplicemente soggettivo, cioè contiene la rappresentazione degli oggetti nel fenomeno, la quale soltanto consente una conoscenza a priori del complesso delle percezioni, e dell’unificazione di tali rappresentazioni empiriche del soggetto. Ma codesta coordinazione [Zusammenstellung] (coordinatio) è essa

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stessa, di nuovo, fenomeno, e, di conseguenza, nient’altro che fenomeno del fenomeno, cioè rappresentazione del formale con cui il soggetto impressiona se medesimo secondo un principio, ed è a se stesso spontaneamente un oggetto: questo non è più, a sua volta, rappresentazione empirica dell’oggetto e del fenomeno, bensì conoscenza a priori dell’oggetto sensibile, secondo cui il soggetto non trae da quel complesso nulla di più, per l’aggregazione, di quanto esso stesso vi abbia messo4.

In riferimento alla nozione di fenomeno indiretto, le stesse percezioni vengono definite come «effetti che il soggetto esercita su se stesso», dunque come risultati di un’autoaffezione5: dove si devono intendere le percezioni non come «aggregato», ma in quanto formano un sistema ai fini della costituzione sintetica dell’oggettività (KgS XXII, 389). Conformemente a questo chiarimento sull’affezione il sostrato delle anticipazioni viene ora indicato più rigorosamente come una materia trascendentale che risiede «nella facoltà rappresentativa del soggetto»6. Ciò non significa che l’intera dottrina riguardi solo uno strato soggettivo del conoscere; viceversa Kant afferma, con un importante sviluppo della sua “fenomenologia” trascendentale, che «semplicemente soggettivo» è il fenomeno diretto, mentre «oggettivo» è solo quello indiretto, anticipato a priori. Si giunge così all’altro esito della nuova teoria dell’oggetto fisico, e cioè all’identificazione del fenomeno indiretto con la «cosa stessa» (die Sache

4 KgS XXII, 333-334. Sull’autoaffezione sono particolarmente incisive le pagine del foglio ‘X’, XXII, 502-503: «Il materiale della rappresentazione sensibile si trova nella percezione, cioè nell’atto con cui il soggetto impressiona se medesimo e diviene a se stesso fenomeno di un oggetto». Qui non viene tolta la ricettività dell’impressione, ma si tratta della costituzione sintetica dell’oggetto: «La percezione con cui il [s]oggetto viene affetto dall’oggetto mentre il soggetto impressiona se medesimo secondo le categorie, fa dell’aggregato delle percezioni un sistema di forze motrici della materia, il quale è oggettivo». Più avanti si legge: «L’intelletto ha la capacità di farsi una rappresentazione empirica di un oggetto sensibile, e con ciò anche la percezione di un oggetto, appunto in quanto esso stimola a priori alla reazione le forze motrici dell’oggetto su cui esso agisce». 5 KgS XXII, 367; 395; 461. 6 KgS XXII, 574-575.

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selbst). Si tratta di nuovo di una teoria presente in nuce già nel criticismo, ma che assume ora un duplice rilievo, negativo e positivo7. In primo luogo viene esplicitamente impiegata, insieme alla teoria dell’autoaffezione, per l’esclusione di ogni traccia di oggettività dal concetto di cosa in sé, sulla cui positività come abbiamo ricordato la Critica conservava almeno quelle incertezze nell’espressione che avevano dato occasione agli attacchi di Jacobi e di Enesidemo-Schulze. Con l’introduzione dell’affezione tra le relazioni anticipate dall’intelletto ai fini dell’esperienza viene meno la possibilità – sostenuta nel 1770 – di collegare l’oggetto fenomenico con il fondamento dell’affezione: passaggio da cui proveniva inevitabilmente la positività del noumeno inconoscibile. La cosa in sé è dunque soltanto un «ente di ragione» posto in corrispondenza con l’oggetto, la ‘x’ che viene posta «dal principio della conoscenza sintetica», e come tale «non è un oggetto particolare che esista al di fuori della mia rappresentazione, ma soltanto l’idea dell’astrazione dal sensibile che viene riconosciuta necessaria». Questa astrazione, lo sappiamo, è resa necessaria in genere dalla contingenza delle forme dell’intuizione, ma – sempre in base ai principi dell’Estetica − la si ritrova anche a partire dall’idea della cosa: Quell’= x è un concetto della posizione assoluta, e non un oggetto che sussista per sé, ma semplicemente un’idea di rapporti: [l’idea] di porre un oggetto in corrispondenza con la forma dell’intuizione, e di farne un oggetto di possibile esperienza nella determinazione completa (non desumendo il suo concetto, come principio, dall’esperienza: come negli assiomi dell’intuizione, nelle anticipazioni della percezione, etc.).

In altre parole, la cosa in sé vuol essere l’oggetto esistente e completamente determinato, considerato però a prescindere dai rapporti dell’intuizione sensibile, che come sappiamo lo risolvono

7 Cf. KrV A 45/B 63, dove l’espressione «cosa in se stessa [Sache an sich selbst]» è usata per significare l’oggetto fisico (la pioggia) contrapposto alla parvenza (l’arcobaleno). Cf. anche B 69-70.

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in un complesso di relazioni e dunque ne tolgono l’individualità separata. In questo senso si tratta di una «idea di rapporti» corrispondenti a quelli rappresentati nella forma dell’intuizione, ma distinti da questi, e dunque dall’intera procedura della sintesi del molteplice studiata nell’Analitica trascendentale: è insomma la stessa cosa intelligibile, insieme ai suoi rapporti, che Kant aveva tentato di determinare nella sua metafisica precritica. Di essa non resta che l’astrazione dal sensibile, che priva la ragione di ogni capacità determinante, e l’idea di un «diverso rapporto dell’intuizione con il soggetto», che non si sa come determinare8. Più originale è l’aspetto positivo della nuova teoria, che sviluppa il concetto di oggetto di cui abbiamo trovato la prima caratterizzazione nella Critica. In essa viene chiarito che l’oggetto della fisica (e in genere l’oggetto, in quanto determinato nel fenomeno indiretto) viene rappresentato e caratterizzato essenzialmente come il fenomeno indiretto, formato logicamente e gradualmente determinato con la sintesi del molteplice. In questo senso Kant scrive che «l’oggetto di un fenomeno indiretto è la cosa stessa» (‘G’, KgS XXII, 340). Questi passaggi sono particolarmente chiari nel foglio ‘F’. Kant distingue accuratamente sia l’oggetto sensibile (sensibile aliquid), cioè il fenomeno diretto, sia l’oggetto «intelligibile», «esente da sensibilità» (Sinnfrey), che è teoreticamente vuoto, dall’oggetto vero e proprio della fisica, che è «il pensabile (cogitabile) del modo della composizione (modus compositionis) di ciò che è immediatamente dato, nell’unità sintetica dell’esperienza». La determinazione di quest’ultimo avviene sempre in modo collettivo, attraverso il «principio formale» della coesistenza dei fenomeni nello spazio e nel tempo9. 8 I passi citati provengono dai fogli ‘Beylage’, in cui Kant ribadisce molte volte la negatività e astrattezza della cosa in sé alla luce dello sviluppo positivo della teoria del fenomeno indiretto (KgS XXII, 20, 23-24, 28-29, 31). In questi fogli compaiono anche i nomi di «Enesidemo» e «Teeteto», da riferirsi rispettivamente a Schulze e a Dietrich Tiedemann, autore del Theätet, oder über das menschliche Wissen: ein Beitrag zur Vernunftkritik, Frankfurt a.M. 1794. La nuova teoria dell’oggetto sembrerebbe rivolgersi proprio alle obiezioni contro la concezione critica dell’affezione, che Kant attribuisce esemplarmente a questi autori. Egli infatti ne intende le teorie come forme di idealismo soggettivo, o «egoismo» (per es. XXII,19-20). 9 ‘F’, KgS XXII, 336. Più avanti (XXII, 338-339) viene menzionata anche una nuo-

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Si giunge così all’ultimo aspetto essenziale della nuova teoria, che riguarda la determinazione di esistenza: l’esistenza dell’oggetto corrisponde ora pienamente con la omnimoda determinatio e non si parla più di posizione assoluta. La nuova teoria dell’oggetto riguarda infatti una necessaria anticipazione ipotetica dell’oggetto, in cui l’intuizione empirica, benché sempre necessaria, non è in linea di principio sufficiente per attestare l’esistenza. Ma dato che l’oggetto fisico è determinato mediante forze ipotetiche, ne risulta che il giudizio sulla sua esistenza è intrinsecamente ipotetico. Kant trae questa conclusione con molta lucidità nel foglio ‘X’, in due Note sulla nuova definizione della fisica come sistema dei principi formali della scienza della natura (KgS XXII, 497-498). L’ e s p e r i e n z a non si può a v e r l a (riceverla) senza f a r l a, e pertanto alla sua possibilità appartiene un principio a priori dell’esibizione degli oggetti sensibili, il quale determina in precedenza di quale specie saranno le percezioni (rappresentazioni empiriche con coscienza) che nella costruzione [Anstellung] dell’esperienza si richiederanno per la d e t e r m i n a z i o n e c o m p l e t a dell’oggetto della percezione, cioè per la sua esistenza. Reciprocamente non si può fare la percezione, ma solo r i c e v e r l a come data [...]. Qualcosa di empirico (come materiale per l’intuizione sensibile) è contenuto necessariamente in ogni esperienza, ma la d e t e r m i n a z i o n e c o m p l e t a del concetto di questo materiale, in tutti i rapporti secondo cui impressiona i sensi, è altresì richiesta, come formale della connessione del molteplice dell’intuizione empirica, affinché un aggregato di percezioni di un oggetto si possa far valere come un oggetto stesso, fondato nell’esperienza. Ora poiché abbracciare ed esporre compiutamente la determinazione c o m p l e t a di un oggetto della percezione è una semplice i d e a (concetto problematico), che si presta bensì all’approssimazione (approximatio), ma non alla totalità della percezione, l’esperienza non può mai fornire una prova sicura dell’esistenza dell’oggetto di questi o quegli oggetti sensibili come forze motrici della materia. Sono fondamenti di determinazione raccolti, che bastano ad annunciare una espeva «anfibolia dei concetti della riflessione» che deriverebbe dallo scambio tra sensibile (fenomeno diretto) e intelligibile (fenomeno indiretto) nel sistema delle forze. Si dovrà realizzare a tal riguardo uno «schematismo dei concetti della riflessione della differenza tra sensibile e intellettuale nei paralogismi del giudizio». Cf. XXII, 490.

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rienza in modo parziale (sparsim), ma mai del tutto congiuntamente (omnimodo coniunctim). Perché solo quella completamente determinata, l’esistenza, fonda l’esperienza.

Questa curvatura ipotetica dell’intera teoria dell’anticipazione, che avevamo già rilevato come possibile conseguenza della teoria del fenomeno nel criticismo, va considerata insieme alla tesi dell’esistenza necessaria della sostanza. In effetti già nei fogli ‘Übergang’ la prova dell’esistenza della sostanza cosmica viene collegata con una ripresa del concetto wolffiano di esistenza: in questo caso «unico» si può attribuire analiticamente l’esistenza a un concetto individuale, cui non corrisponde alcuna intuizione, in quanto esso rende possibile l’esperienza10. Si può dunque concludere: esiste una sola sostanza (materiale), entro la quale prendono forma i corpi, che sono gli oggetti empirici veri e propri; ma se l’esistenza della prima è analiticamente contenuta nel suo concetto, l’esistenza di questi ultimi è problematica e sottoposta alla costituzione di un sistema dinamico. In questo senso Kant può scrivere, sul margine del foglio ‘G’, che «solo il sistema è la cosa stessa» (XXII, 343). Quest’ultimo passaggio non viene esaminato approfonditamente, ma certamente non si deve cadere nella tentazione dell’“anticipazione” storica e scambiare la prospettiva kantiana per un costruttivismo radicalmente ipotetico11. È ovvio, per un verso, che 10 Citiamo ancora l’importante passo del foglio ‘Übergang 12 Bogen b) S.2’ (KgS XXI, 603): «Existentia est omnimoda determinatio dice Christian Wolff, e così anche, viceversa, omnimoda determinatio est existentia, in quanto è un rapporto di concetti equivalenti. Ma questa determinazione completa pensata non può essere data; infatti essa si estende a una infinità di determinazioni empiriche. Solo al concetto di un oggetto dell’esperienza possibile, che non è ricavato da nessuna esperienza, ma piuttosto rende possibile la stessa esperienza, si concede necessariamente questa omnimoda determinatio, riguardo alla sua realtà oggettiva, non sinteticamente, ma analiticamente secondo il principio d’identità». 11 Si veda per esempio l’articolo pionieristico di MATHIEU, «Costrutto» in Bridgman e « fenomeno del fenomeno» in Kant, «De Homine» 31-32 (1965), pp. 189-206, le cui tesi sono riprese nei successivi scritti di Mathieu. L’autore, in fondo, intendeva accreditare l’interesse della tarda epistemologia kantiana alla luce del «nuovo concetto di esistenza» che emergerebbe in questi fogli. Tuttavia, come vedremo meglio, non si trat-

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Kant teneva ferma l’impossibilità di una fisica puramente speculativa, e che la tarda riflessione sul fenomeno si presta ad essere letta agli occhi di molta epistemologia successiva, che proprio in Kant ritrovò uno degli osservatori più lucidi del metodo ipoteticodeduttivo in fisica. D’altra parte bisogna ricordare che Kant, in questa fase del suo pensiero, stava tentando di elaborare le basi di una fisica dimostrativa, che a sua volta avrebbe dovuto dare compimento al sistema. I due elementi essenziali di questa nuova teoria sono appunto la prova dell’esistenza della sostanza e la composizione del sistema elementare. Riguardo a questi occorre sottolineare che Kant non rinunciò mai all’equazione tra sistematicità, completezza e scientificità, e che dunque la sua teoria del fenomeno mira pur sempre a una classificazione completa delle forze e dei concetti di materia. Proprio il concetto delle “forze” porge occasione per un altro importante chiarimento sulla teoria del fenomeno indiretto. Non bisogna cadere nell’equivoco, da cui si è facilmente tentati, di intendere le forze nel senso di una pura fisica matematica – e magari collegare il tentativo di sistematizzazione kantiana con quello della fisica teorica odierna con le sue quattro specie di interazione fondamentale (Kant, peraltro, non include mai l’elettricità e il magnetismo tra le “forze motrici” in questione). Quanto ampia sia la nozione kantiana di “forze” si vede nel foglio ‘G’, dove il concetto di fenomeno del fenomeno viene così illustrato (KgS XXII, 340342): Noi, ad esempio, non avremmo alcuna coscienza di un corpo duro o molle, caldo o freddo, i n q u a n t o t a l e [cioè: in quanto corpo], se non ci fossimo formati anzitutto il concetto di queste forze motrici della materia (dell’attrazione e della repulsione, o di quelle ad esse subordinate dell’espansione e della coesione), e se non potessimo ora dire che questa o quella rientra sotto tale concetto. Sono dunque tava tanto di un nuovo concetto, quanto di una sua risistemazione nel complesso della teoria della conoscenza. Per un recente tentativo di rivalutazione epistemologica della teoria del fenomeno indiretto si veda M. MASSIMI, Why there are no ready-made phenomena: what philosophers of science should learn from Kant, in ID. (ed.), Kant and Philosophy of Science Today, Cambridge 2008, pp. 1-35.

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dati a priori concetti come [tali che servono] per la conoscenza empirica – i quali non sono perciò, tuttavia, concetti empirici – in pro della esperienza (cosa naturale soggettivamente) per avere oggetti dati secondo un principio a priori, e [ciò avviene] solo grazie al fatto che noi stessi abbiamo fatto l’oggetto dell’intuizione empirica (della percezione), e lo abbiamo prodotto noi stessi, in noi, mediante composizione, per gli strumenti del senso; e così abbiamo esibito un oggetto sensibile per l’esperienza, secondo i suoi principi universali, e abbiamo prodotto così il singolo della rappresentazione sensibile nell’universale secondo la forma dell’intuizione sensibile per il soggetto [cors. mio].

Segue un altro esempio, ancora più interessante: Così ad esempio, il cristallo di rocca, nella classificazione dei minerali, è una specie del genere delle rocce, e cioè un corpo duro, fragile, un tempo fluido e ora trasparente, che ha assunto una certa figura e struttura regolare, e che noi pensiamo prodotto da una materia di specie particolare. Ora l’intelletto, mediante la d e s c r i z i o n e (descriptio), che tuttavia non è d e f i n i z i o n e (definitio), non provenendo da concetti a priori, forma, a partire dal materiale empirico (basis), il concetto di un corpo trasparente collegato per attrazione, e che oppone forte resistenza per repulsione alla modificazione della sua figura; e aggiunge, al materiale dell’intuizione empirica, il formale dell’esperienza.

La pagina si chiude con un ritorno al quadro generale del sistema elementare: Ma le forze motrici della materia, in conseguenza dell’unità dello spazio e del suo riempimento completo (dato che lo spazio vuoto non sarebbe oggetto di possibile esperienza), formano un loro s i s t e m a e l e m e n t a r e, che è precisamente l’oggetto della fisica; la quale è un loro s i s t e m a d o t t r i n a l e e, grazie all’indagine sulla natura, progredisce continuamente rispetto alla specificazione logica.

Come si vede Kant, parlando di «forze motrici», ha in mente sempre anche le proprietà che costituivano la frontiera della scienza dell’epoca, come la durezza (anche delle macchine), la coesione, la cristallizzazione (più sotto elenca tra le «forze»: «durezza, 784

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mollezza, pesantezza, leggerezza, ecc.» − XXII, 344): si tratta di proprietà sensibili non ancora ridotte dinamicamente. Fino all’ultimo, dunque, la sua fisica non è mai puramente matematica, e non perde mai il nesso percezione-forza, il che dipende anche dalla situazione storica della scienza della natura. Tenendo conto di quest’ultimo chiarimento la teoria del fenomeno indiretto appare, piuttosto che come una fulminante novità epistemologica (nel senso di un minore o maggiore empirismo), soprattutto come un chiarimento del concetto di oggetto e una correzione opportuna della gnoseologia idealistico-trascendentale. Non si tratta però di una correzione minima e inessenziale. Al contrario possiamo affermare, alla luce di tutta la ricostruzione precedente, che si tratta di un intervento di grandissimo rilievo per la filosofia trascendentale: nonostante la pesantezza dello stile, bisogna riconoscere che Kant, all’età di 75 anni, riuscì a rendersi distinti dei passaggi del suo pensiero che erano rimasti impliciti per almeno vent’anni. Questo chiarimento ha una ricaduta anche sui due concetti che hanno occupato maggiormente la nostra ricostruzione della filosofia naturale: il concetto di esibizione e quello di affezione. Riguardo all’esibizione dei concetti, come si vede per esempio nel primo passo citato dal foglio ‘G’, Kant afferma ora che essa si svolge nella composizione a priori e solo indirettamente ottiene conferma nell’intuizione empirica. Dunque – come avevamo ipotizzato nel § 3.4 – essa non può fare a meno della posizione di forze motrici e perciò non si può risolvere semplicemente in una intuizione, come ancora pareva in base a molti luoghi del criticismo. Queste forze, peraltro, non sono più le forze fondamentali dimostrate nell’intuizione pura, ma le forze motrici poste nel fenomeno indiretto (mediante autoaffezione) ai fini della determinazione dell’oggetto. Nella seconda pagina dello stesso foglio ‘G’ si legge: «Noi non possiamo trarre dalle nostre rappresentazioni sensibili null’altro che ciò che vi abbiamo posto per la rappresentazione empirica di noi stessi, con la coscienza della sua esibizione, cioè mediante l’intelletto (intellectus exhibet phaenomena sensuum)»12. 12 KgS XXII, 343. Il passo prosegue: «e questa esibizione fa, di un aggregato di percezioni, un sistema secondo le condizioni formali dell’intuizione e della loro coesi-

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Per quanto riguarda l’affezione, abbiamo già detto che essa – in quanto processo fisico – viene a sua volta sottoposta all’attività anticipante del soggetto, per cui diviene autoaffezione. La distinzione tra ricettività, come concetto trascendentale, e affezione, come sua oggettivazione, prepara infine l’inevitabile chiarimento sulla presunta positività della cosa in sé. A quest’ultimo sviluppo si ricollega la seconda dottrina su cui è opportuno soffermarci, che è dunque parte integrante della nuova teoria dell’intuizione empirica: quella dell’«autoposizione» del soggetto nello spazio. Questa teoria è sviluppata nei fogli del 1800, ma come di consueto appare in modo graduale: è dapprima implicita nel ragionamento (nei fogli ‘A-Z’), comincia poi a venire trattata separatamente nel foglio ‘BB’, riceve infine piena attenzione nei fogli dei fascicoli VII e X segnati da Kant come ‘Beylage 1-8’, della seconda metà del 180013. Essa riguarda il passaggio dall’appercezione alla rappresentazione di sé come oggetto dell’intuizione, che comporta a sua volta due momenti: in primo luogo la mia posizione nello spazio e nel tempo, poi la conoscenza sintetica di me, che produce la distinzione tra un sé pensabile (coincidente con la cosa in sé) e un sé empirico distinto dal soggetto conoscente e dunque fenomeno14. Riguardo alla “novità” di queste riflessioni vale un distenza nel soggetto: una conoscenza dell’oggetto esterno come fenomeno, a vantaggio della possibilità dell’e s p e r i e n z a , cioè per l’indagine naturale, mediante composizione del molteplice delle forze motrici della materia nel fenomeno, che è lo schema di un concetto che, a priori, come semplice fenomeno, rende possibile quella forma del composto nell’oggetto e il fondamento dell’esperienza della sua conoscenza. Poiché solo un fenomeno consente una conoscenza a priori». 13 Per una ricostruzione generale della Selbstsetzungslehre si veda FÖRSTER, Kant’s Final Synthesis, pp. 101-116. 14 La distinzione tra i due momenti è posta in ‘Beylage III’, KgS XXII, 32: «Io pongo me stesso come oggetto dell’intuizione, secondo il principio formale della determinazione del soggetto dell’autocoscienza e della composizione nell’unità dell’oggetto (spazio e tempo); ma, appunto perciò, come qualcosa di e s i s t e n t e in rapporto a me, di conseguenza come f e n o m e n o (oggetto dell’intuizione sensibile). Io sono il cogitabile secondo un principio e, al tempo stesso, il dabile come oggetto del mio concetto: la rappresentazione della cosa in sé, e poi nel fenomeno». Cf. ‘Beylage VIII’, XXII, 89: «La coscienza di me stesso (apperceptio) è l’atto del soggetto di fare di se stesso un oggetto, ed è puramente logica (sum), senza determinazione dell’oggetto (apprehensio simplex). Il pensiero, la rappresentazione di me stesso con coscienza, precede ogni giudizio. Non

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scorso analogo ai precedenti. Essa è ben radicata nelle nuove riflessioni sull’affezione e sul materiale cosmico e già anche nella filosofia precedente del criticismo. L’impossibilità logica di localizzare il soggetto conoscente (l’«intelligenza») nello spazio, e nello stesso tempo la necessità di considerarlo in relazione alla materia esterna, sono infatti risultati ben saldi del pensiero critico precedente: la critica della psicologia razionale e la confutazione dell’idealismo, rispettivamente, rendevano oggettivamente indeterminata la pura appercezione, ponendo l’esigenza di chiarirne il rapporto con il sé fenomenico. Nelle pagine sull’intuizione di sé della seconda edizione della Critica veniva in chiaro d’altra parte che ogni intuizione interna riguarda me come fenomeno, presupponendo un atto di sintesi del molteplice temporale (il quale a sua volta, per il suo contenuto reale, dipende da quello spaziale). Mancava semmai la distinzione di uno specifico atto di posizione del soggetto nello spazio, che deve precedere logicamente la sintesi del molteplice interno in quanto le rappresentazioni appartengono a un soggetto originariamente corporeo. L’introduzione dell’«autoposizione» (Selbstsetzung) del soggetto nello spazio e nel tempo quale nuovo «principio della filosofia trascendentale», da questo punto di vista, non deve fare pensare a un’estrinseca concessione kantiana allo stile deduttivo dell’idealismo. Se si tratta di una discussione occasionata dalle nuove teorie sugli atti del soggetto puro − di autori come Reinhold e Fichte −, sembra che Kant intenda piuttosto contrastare quella che gli pare una tendenza verso l’idealismo soggettivo, restando fedele nella sostanza agli scritti precedenti. posso dire p e n s o, d u n q u e sono (cogito ergo sum), e non procedo nella conoscenza grazie a tale rappresentazione ma, se essa deve fornire un giudizio (io sono pensante), si tratta di un giudizio identico, e non progressivo»; fin qui si ha il concetto di «intuizione empirica indeterminata» del 1787. Ma sulla terza pagina dello stesso foglio il ragionamento riprende (XXII, 96): «La conoscenza comprende intuizione e concetto: che io sono dato a me stesso, e sono pensato da me stesso come oggetto. – Esiste qualcosa (apprehensio simplex), io sono semplicemente un soggetto logico e un predicato, ma anche oggetto della p e r c e z i o n e, dabile, non solum cogitabile». La teoria è evidentemente parallela a quella del fenomeno indiretto e della determinazione completa (cf. nella pagina precedente il sunto su noumeno e fenomeno, XXII, 94 e XXII, 98).

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In breve, negli scritti degli anni ’90 i problemi della posizione del soggetto e della conoscenza di sé come oggetto dell’intuizione coinvolgono almeno tre aspetti: la localizzazione stessa che permette di riferire a sé delle intuizioni, le ipotesi di una sua spiegazione fisiologico-empirica (poiché quelle metafisiche in senso classico non sono più prese in seria considerazione), infine la sintesi che fa di sé un oggetto vero e proprio. Kant conserva una ininterrotta attenzione alle ricerche di carattere empirico e dedica al tema il breve scritto comparso in appendice a Über das Organ der Seele di Samuel Thomas Sömmerring del 179615. Lo scritto contiene essenzialmente una riflessione sulle tesi del fisiologo intorno al commercio tra anima e corpo. Vi si ritrova il tipico atteggiamento di Kant riguardo alle ipotesi più ardite della filosofia naturale: un grande interesse, uno sforzo di immersione nei dettagli − Kant elabora una ipotesi sulla produzione delle percezioni in base a un’analisi chimica dei liquidi cerebrali (XII, 33) − poi la censura logica, che è la stessa maturata negli anni giovanili: cercare un luogo dell’anima è prima di tutto un errore categoriale. Da questo punto di vista lo sviluppo delle ipotesi fisiologiche, così come di quelle metafisiche, rimane sterile. Diverso è l’esito della questione, invece, se la si prende dal punto di vista trascendentale, come avviene nei manoscritti che stiamo esaminando. Consideriamo in primo luogo il momento della localizzazione in sé, astraendo dalla sintesi della conoscenza di sé. Abbiamo visto che l’influsso è stato “localizzato” mediante riflessione trascendentale nella pura rappresentazione del fenomeno indiretto, così che né gli oggetti materiali né le interazioni dinamiche si possono considerare semplici dati empirici, ma piuttosto condizioni schematiche di una determinazione mai completa del materiale percettivo e sperimentale. Dei tre elementi dell’intuizione esterna – oggetto, spazio interposto e organi dei sensi – questi ultimi appaiono nel nuovo quadro teorico fuori contesto. L’«autoposizione», allora, non è altro che un corollario della nuova teoria 15 KgS XII, 31-35. Si veda anche la lettera a Sömmerring, 17 settembre 1795, KgS XII, 41-42.

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dell’affezione, necessario a stabilire il passaggio dal soggetto logico all’esperienza esterna. Infatti, come non è immediato assegnare una localizzazione a distanza ai corpi percepiti, fintanto che non venga rappresentato un influsso, così non è immediato assegnare un luogo al soggetto pensante, fintanto che non venga postulata quella corrispondenza tra esso e il suo corpo che nessuna teoria è in grado di spiegare. Ma con questa localizzazione il compito della conoscenza è solo impostato. Come è risultato nel criticismo, la conoscenza empirica di sé è una determinazione relativa al mondo esterno e inconcludibile (§ 3.3). Scriveva Kant in un appunto manoscritto: «l’uomo conosce se stesso in quanto conosce altre cose»16. Considerando questo momento sintetico, ora, Kant studia anche da questa angolatura la genesi della rappresentazione della cosa in sé. Questa sorgerebbe proprio con la posizione di sé del soggetto, astraendo dalla sua determinazione sintetica: «L’oggetto in sé (noumenon) è un semplice ente di ragione (ens rationis) nella cui rappresentazione il soggetto pone se stesso»17. Ne risulta un’analogia tra concetto del soggetto trascendentale e concetto della cosa in sé che occorre considerare accuratamente, per non cadere di nuovo in affrettate analogie con gli svolgimenti di altri autori che negli stessi anni lavoravano sugli stessi concetti della filosofia trascendentale. Kant non scrive che l’appercezione ha origine puramente astrattiva, così come ha fatto invece riguardo alla cosa in sé. Ciò sembra confermare quel primato logico dell’Io che proprio in questi anni riceveva i nuovi svolgimenti metafisici da egli rifiutati. Certamente l’esigenza stessa di una teoria dell’autoposizione sembrerebbe negare l’originarietà della corporeità e concedere troppo a una separazione di impronta metafisica tra anima e corpo. Ma anche se Kant mantiene una distinzione irriducibile tra pensiero e materia, è altrettanto evidente che – come nel caso della cosa in sé – egli intende escludere ogni ipotesi di una oggettività disincarnata. Proprio per questo l’autoposizione viene presentata come un «principio della filosofia trascendentale». Semmai un punto debole della 16 17

Refl. 3826, KgS XVII, 304 (ca. 1772). KgS XXII, 36, cf. p. 37.

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teoria, dal punto di vista storico, si potrebbe individuare nel fatto che egli risolva la questione con un secco postulato, trattando del solo soggetto pensante, mentre trascura le indagini che erano già in corso sul rapporto tra molteplice delle percezioni e spazio, dunque sulla localizzazione come contenuto intrinseco della percezione e sul suo rapporto con la geometria dello spazio fisico: proprio gli sviluppi di tali riflessioni avrebbero costituito nel secolo successivo un’altra delle fonti di insoddisfazione per l’Estetica kantiana18. D’altra parte, come ormai si vede, alla luce delle nuove teorie dell’intuizione esterna lo stesso concetto di spazio era coinvolto nel processo di revisione filosofica. Infatti, se l’esperienza della distanza è fondata sull’anticipazione di interazioni dinamiche, il rapporto tra lo spazio puro e lo spazio materiale della fisica è ormai mediato dall’intero sistema della fisica. Al termine di uno dei numerosi riassunti della teoria dello spazio Kant conclude, nel foglio ‘Beylage I’: «Gli assiomi dell’intuizione sono matematici, ma in quanto i loro oggetti si riferiscono anche l’uno all’altro come cause ed effetti, sono anche filosofici, e interessano la dottrina della natura»19. Prima di questa affermazione Kant elenca, tra gli assiomi relativi allo spazio: l’infinità, la tridimensionalità, e il fatto che l’oggetto sensibile esterno eserciti forze motrici. Sappiamo che quest’ultimo è stato rielaborato in base alla nuova teoria trascendentale del fenomeno; non potrà essere lo stesso per i precedenti? 18 Mi riferisco alle indagini sulla determinazione della distanza in base all’analisi delle percezioni, indipendenti dalla posizione di influssi e dello stesso corpo proprio, di cui Kant poteva trovare esempio nella New Theory of Vision di Berkeley, o nella Inquiry di Thomas Reid. Sullo sviluppo di queste indagini, con particolare riferimento all’Estetica kantiana, si veda G. HATFIELD, The Natural and the Normative: Theories of Spatial Perception from Kant to Helmholtz, Cambridge Mass./London 1990, e ora ID., Kant on the perception of space (and time), in The Cambridge Companion to Kant and Modern Philosophy, pp. 61-93. Di «spazio percettivo», in quanto distinto da quello «geometrico» e da quello «fisico», si cominciò a parlare in seguito allo sviluppo delle geometrie non euclidee e poi della fisica relativistica. Un bilancio molto utile sui tre concetti si trova nella dissertazione di R. CARNAP, Der Raum, Berlin 1922. Da un diverso punto di vista, ma sugli stessi temi, si veda A. FERRARIN, Lived Space, Geometric Space in Kant, «Studi-kantiani», XIX (2006), pp. 11-30. 19 ‘Beylage I’, KgS XXII, 9-10.

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Per quanto affermazioni come queste non vengano sviluppate fino in fondo, i loro esiti procedono inevitabilmente verso una revisione delle note tesi dell’Estetica sulla geometria dello spazio. Infatti, dal punto di vista trascendentale del nuovo concetto di «spazio sensibile», si può affermare soltanto che una “via” spaziale deve collegare gli organi dei sensi con gli oggetti esterni, il che è in accordo con l’Estetica trascendentale nella misura in cui lo spazio viene considerato semplicemente come forma dell’esteriorità e fondamento a priori della relazione di contiguità (Neben einander); ma se la distanza (dunque lo spazio metrico) non è già, immediatamente, un oggetto dell’esperienza, ma deve divenirlo in base al sistema delle forze, non c’è più ragione di identificare le proprietà metriche dello spazio euclideo con quelle dello spazio fisico determinato in base alle percezioni. Proprio in questo senso Kant distingue in questi fogli tra uno «spatium cogitabile» (puro) e uno «spatium percepibile» (empirico), che è identico con il materiale cosmico anticipato a priori20. In base a queste premesse – col senno di poi – acquistano un qualche interesse anche le scarne note stese a partire dai fogli ‘Beylage’ riguardo a una prova del postulato euclideo delle parallele. Sappiamo ormai che l’ultimo Kant non si soffermò sulle letture di fisica e di matematica per semplice amore di conoscenza, ma sempre perché vi trovava spunti per la filosofia trascendentale. In effetti, come risulta da queste annotazioni, la questione si poneva a partire dal concetto della conoscenza sintetica a priori in matematica, e Kant pensava a una prova filosofica del postulato delle parallele, secondo meri concetti21. Finanche la tridimensionalità 20 Si veda per es. ‘Übergang 4’, KgS XXI, 235: «Ci rappresentiamo lo spazio come ogni oggetto della sensibilità in un duplice modo, i n p r i m o l u o g o come qualcosa di p e n s a b i l e (spatium cogitabile), in quanto esso, come grandezza del molteplice reciprocamente esterno, è una mera forma dell’oggetto dell’intuizione pura e si trova soltanto nella nostra facoltà rappresentativa; i n s e c o n d o l u o g o, però, anche come qualcosa di p e r c e p i b i l e [spürbares] (spatium percepibile), in quanto qualcosa di esistente al di fuori della nostra rappresentazione, che noi percepiamo e che siamo capaci di includere nella nostra esperienza e che costituisce un oggetto dei sensi – il materiale che riempie lo spazio». 21 ‘Beylage VII’, KgS XXII, 80-81. Si veda anche l’annotazione a margine sul fo-

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dello spazio, in un caso, viene considerata come un principio sintetico a priori (KgS XXII, 413). È probabile che Kant reagisse al concorso bandito nel 1799 dall’Accademia delle scienze di Berlino in cui si sosteneva l’opposizione alla tesi secondo cui la matematica proverebbe che vi siano «rappresentazioni soggettive pure» e si chiedeva di mettere «in massima luce» la tesi dell’origine empirica di tutte le nostre conoscenze22. Ma nelle note kantiane si trova soprattutto la posizione del problema, nulla di un suo vero e proprio svolgimento: stavolta Kant giunge solo a intravedere un nuovo problema, che avrebbe comportato un nuovo, radicale ripensamento delle sue idee23. glio ‘Beylage VIII’ (301): «matheseos principia philosophica possono aversi anche nella dottrina delle parallele». Sulla natura della prova è più chiara la Refl. 11 (1800), KgS XIV, 52: «Come si può dimostrare, con pieno rigore ma non alla maniera euclidea, la proposizione: ‘se due linee parallele sono intersecate da una terza [linea], ecc.’, attraverso un modo filosofico di rappresentazione, per concetti, prima della costruzione». 22 Il direttore della classe filosofica dell’Accademia era Ch.G. Selle, di orientamento empirista, e il testo dell’annuncio conteneva un evidente riferimento critico alla filosofia kantiana: «L’Accademia reale delle scienze non condivide l’opinione di coloro che considerano provato dalla matematica che vi siano rappresentazioni soggettive pure. Essa è convinta, al contrario, che vi siano sostanziali argomenti in favore del contrario, che non hanno ancora ricevuto una replica soddisfacente; e che non mancano forti ragioni per ammettere la generale origine empirica di tutte le nostre conoscenze, che potrebbe soltanto, forse, non esser stata ancora esposta nella sua piena luce». Sulle annotazioni relative al postulato delle parallele v. FÖRSTER, Kant’s Final Synthesis, pp. 277-278, nota 106, ma anche le note di Adickes alle riflessioni sul medesimo argomento: Refl. 5-11, KgS XIV, 23-52. 23 È interessante osservare che pochi anni dopo, nello stesso ambiente accademico di Königsberg, sarà Herbart – senza avere alcuna conoscenza dell’Opus postumum – a introdurre nella sua metafisica una distinzione tra «spazio sensibile» e «spazio intelligibile». Si veda J.F. HERBART, Theoria de attractione elementorum principia metaphysica, Königsberg 1812, i cui contenuti sono già anticipati negli Hauptpunkte der Metaphysik del 1808. Mediante questi concetti Herbart ripropone una deduzione dello spazio dalle monadi nel senso della metafisica leibniziana: lo spazio intelligibile è la realtà metafisica, fondata nelle monadi, mentre lo spazio sensibile è il fenomeno che ne risulta. I modi per tale deduzione Herbart – come tutti i lettori precedenti di Leibniz – deve escogitarli autonomamente. Cionondimeno, come è ben noto, la sua dinamica metafisica costituirà una delle premesse in base a cui Bernhard Riemann formerà il suo concetto di varietà (Mannigfaltigkeit) nella famosa memoria del 1854, e a sua volta questo concetto costituirà una premessa essenziale del sempre più diffuso riget-

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In conclusione, si vede che gli sforzi di riforma della filosofia trascendentale, iniziati con l’impresa aporetica delle prove dell’esistenza della materia cosmica, aprirono nuove prospettive per il sistema del criticismo. Ciò avvenne negli ultimissimi anni di attività di Kant, il quale intendeva probabilmente prendere posizione rispetto agli sviluppi dell’idealismo trascendentale mediante una riforma del criticismo, ma non ebbe il tempo, né la forza, di sviluppare e ponderare adeguatamente le nuove idee24. È evidente, tuttavia, che questi ultimi sforzi teorici risultano dalla riflessione sulla fisica, e la cosa può stupire solo chi persista nel pregiudizio di una totale discontinuità di elementi che separerebbe filosofia trascendentale e fisica, perdendo di vista l’autentico carattere dell’esperienza di pensiero kantiana. Ricongiungendo invece i molti fili che uniscono la filosofia naturale di Kant si è visto che essa, nel criticismo, non si limitò affatto, come hanno creduto molti interpreti del XX secolo, al compito di una “fondazione a priori” di una scienza empirica data – come la meccanica newtoniana, la fisica di Lavoisier ecc. –, fondazione che Kant si sarebbe proposto successivamente al compimento dell’indagine trascendentale sull’esperienza. Alla luce di tutte le ricerche precedenti, viceversa, l’intera teoria della conoscenza a priori (o metafisica) della natura appare come un ininterrotto tentativo di sistematizzare elementi metafisici (come sostanza e influsso), matematici (come continuità e moto della concezione kantiana dello spazio, presso scienziati e filosofi, a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Certamente l’interpretazione filosofica di queste teorie sarebbe stata diversa se si fosse prima conosciuto e preso sul serio l’Opus postumum. Così anche le vicende dell’esegesi kantiana, come quelle della leibniziana, sono state influenzate in misura importante dalla mancanza degli inediti. 24 Su questo contesto, e le reazioni di Kant, l’esame di questi fogli andrebbe approfondito. Nelle sue riflessioni su spazio e affezione Kant poteva certamente tenere molti dei contemporanei di cui abbiamo già rilevato l’importanza per le sue tarde riflessioni. Sulla priorità della forza sullo spazio vuoto, proprio nel 1799, ebbe luogo anche uno scambio tra Herder e Kiesewetter: si veda J.G. HERDER, Metakritik zur Kritik der reinen Vernunft, Leipzig 1799, p. 72, e la replica di J.G.C.Ch. KIESEWETTER, Prüfung der Herderschen Metakritik, Berlin 1799, p. 75, nota (il movimento è qui «ratio cognoscendi» dello spazio). Da tenere presenti anche i molti riferimenti alle riflessioni di impostazione idealistica di Lichtenberg, le cui Vermischte Schriften Kant ricevette in visione nel 1800.

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mento), fisico-ipotetici (come gravitazione e calorico), alla luce della riflessione trascendentale sulla sintesi delle percezioni dei sensi. Da questo punto di vista non stupisce affatto che la riflessione sulla fisica continuò fino agli ultimi anni a reagire sui più astratti principi della filosofia. Anzi questo rapporto, nel periodare circolare e sintomatico di alcuni dei fogli più tardi, trova infine la sua espressione più pregnante: al titolo di un «passaggio dalla metafisica alla fisica», che caratterizza il problema dell’Opus postumum, segue qui la sua inversione, e si legge di un «passaggio dalla fisica alla filosofia trascendentale»25.

25 KgS XXI, 17. Con questa immagine Kant esprimeva ancora una volta la centralità di quel passaggio per l’intera filosofia: in esso ne andava infatti del perfezionamento della dottrina dello schematismo, ma quest’ultima permetteva di collegare tra di loro metafisica e fisica, pensiero e intuizione, separati altrimenti da un confine apparentemente invalicabile. In un’altra immagine che si trova nell’Opus postumum, tratta da Virgilio, Kant paragona il confine oltrepassato con lo schematismo allo Stige che avvolge gli inferi. È significativo che egli, alludendo a questa immagine, faccia corrispondere l’oltrepassamento del confine, che nel mito è compiuto da Orfeo, con la realizzazione di un sistema fisico del mondo. L’esibizione intuitiva dei concetti rimase sempre per Kant prerogativa della filosofia naturale. All’esibizione effettuata dalla bellezza naturale o artistica, fondamentalmente analogica, egli non conferì mai un valore ontologico.

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Appendice Il problema formale della legalità fisica nella Kritik der Urteilskraft

1. L’obiettivo gnoseologico della terza Critica Il passaggio dalla Critica della ragion pura ai Principi metafisici della scienza della natura costituisce agli occhi di Kant la specificazione delle leggi trascendentali dell’esperienza. Sebbene il concetto di materia contenga delle rappresentazioni empiriche la sua determinazione segue l’ordine delle categorie e i teoremi metafisici traggono la propria necessità dal fatto di applicare all’oggetto nello spazio le leggi trascendentali. Il compito svolto dalla fisica pura, dunque, è anch’esso – come quello dell’Analitica dei principi – un caso di sussunzione svolta dalla facoltà di giudizio, che come tale si chiama «determinante». Il «medio» per la realizzazione del giudizio, cioè della legge, era nel primo caso la forma pura del tempo – e la dottrina che insegnava a sussumere il fenomeno in generale era lo «schematismo trascendentale» –, nel secondo caso è la rappresentazione del movimento. Realizzati i Principi metafisici, Kant si trova però di fronte a un problema già posto nella Critica, a cui la fisica pura non ha fornito alcuna soluzione: quello delle leggi empiriche cui deve poter essere ricondotta la natura nella concreta varietà delle sue forme. Si tratta di un problema che, in base al concetto kantiano di legge, non può restare di dominio di una mera logica induttiva. Qualunque proposizione che debba dirsi legge, infatti, deve essere dotata di quella necessità che solo il collegamento con i principi trascendentali della natura può procurare. C’è dunque l’esigenza di una specificazione ulteriore delle conoscenze a priori, e pertanto di una nuova indagine sul principio del giudizio (KU § IV, 179-180):

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La facoltà determinante di giudizio sotto leggi trascendentali universali, date dall’intelletto, è solo sussumente; la legge le è indicata a priori ed essa non ha quindi bisogno di pensare, per se stessa, a una legge, per poter subordinare all’universale il particolare della natura. − Solo che ci sono così molteplici forme [Formen] della natura, per così dire tante modificazioni dei concetti trascendentali universali della natura, la quali sono lasciate indeterminate da quelle leggi che l’intelletto puro dà a priori, poiché tali leggi riguardano solo la possibilità di una natura (quale oggetto dei sensi) in genere, che per ciò devono esserci anche leggi tali che, in quanto empiriche, possono, sì, essere considerate contingenti secondo il modo d’intendere del n o s t r o intelletto, e che però, se le si devono chiamare leggi (come pure richiede il concetto di una natura), devono essere considerate necessarie a partire da un principio, sebbene a noi sconosciuto, dell’unità del molteplice.

Lasciando cadere il velo dell’astrazione dal molteplice dei fenomeni, che nella Critica è stato considerato solo «in generale», ricompare il molteplice completamente determinato della natura, cui corrisponde un nuovo compito: «a partire da percezioni date di una natura che contiene una molteplicità, forse infinita, di leggi empiriche, fare un’esperienza interconnessa; il quale compito sta a priori nel nostro intelletto»1. La facoltà di giudizio, in questo caso, deve trovare un principio che legittimi la sua aspettativa di risalire dal molteplice delle percezioni a una molteplicità definita di leggi: si tratta dunque di un principio per la facoltà di giudizio riflettente. Per comprendere questo legame fra la legalità specifica della natura e l’esperienza bisogna ricordare che, per Kant, ogni concetto è una regola della sintesi, e dunque la necessità di presupporre leggi empiriche non corrisponde alla semplice ricerca di una più perfetta conoscenza della natura, ma è requisito della sua stessa esperienza. Si può pensare, infatti, che la molteplicità delle leggi empiriche sia «talmente grande, da rendere impossibile al nostro intelletto di scoprirvi un ordine afferrabile, di dividere i suoi prodotti in generi e specie, al fine di usare principi per spiegare e intendere l’una cosa anche per spiegare e comprendere l’altra, e di fare un’esperienza interconnessa da un materiale per noi così confuso (pro1 KU, § V, 184. Sul compito della terza Critica di fronte a questo molteplice si vedano L. SCARAVELLI, Osservazioni sulla Critica del giudizio, in ID., Scritti kantiani, in part. pp. 357-376; FRIEDMAN, Kant and the Exact Sciences, pp. 242-264.

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priamente: solo infinitamente molteplice, non adeguato alla nostra capacità di afferrarlo»2. Il problema era implicito nel concetto di «natura formaliter spectata», che esprime sul piano metafisico l’esigenza di una determinazione completa dell’oggetto della conoscenza empirica. Essendo la sostanza fenomenica individuata mediante la stessa regolarità di un mutamento, lo stesso problema si lascia esprimere attraverso quello della causalità specificamente diversa degli individui (KU § V, 183): Per esempio l’intelletto dice: Ogni mutamento ha la sua causa (legge universale della natura); la facoltà trascendentale di giudizio non ha niente di più da fare che indicare a priori la condizione della sussunzione sotto il concetto dell’intelletto in questione: cioè la successione delle determinazioni di un’unica e medesima cosa. E nei riguardi della natura in genere (come oggetto di esperienza possibile) quella legge viene riconosciuta come assolutamente necessaria. – Ma gli oggetti della conoscenza empirica, oltre quella condizione formale del tempo, sono ancora determinati, o, per quanto se ne possa giudicare a priori, determinabili in mol2 KU § V, 185. La posizione del problema è molto chiara in diversi passi della Erste Einleitung zur Kritik der Urteilskraft, che conviene citare. KgS XX, 209: dal sistema delle leggi trascendentali della natura «non consegue ancora che la natura sia un sistema comprensibile per la facoltà conoscitiva umana anche secondo l e g g i e m p i r i c h e, e che sia possibile agli uomini la completa connessione sistematica dei suoi fenomeni in una esperienza, e dunque essa stessa come sistema. Infatti, la molteplicità e la disomogeneità delle leggi empiriche potrebbe essere così grande, che ci sarebbe in parte possibile collegare in un’esperienza percezioni secondo leggi particolari trovate occasionalmente, mai però riportare queste leggi stesse all’unità dell’affinità secondo un principio comune, qualora infatti, cosa in sé ben possibile (almeno per quanto l’intelletto può stabilire a priori) la molteplicità e la disomogeneità di queste leggi, e dunque delle forme naturali ad esse conformi, fosse infinitamente grande e ci mostrasse in queste un rozzo aggregato caotico e neanche la minima traccia di un sistema, sebbene noi lo si debba presupporre secondo leggi trascendentali». KgS XX, 214, dove Kant afferma l’omogeneità tra legalità specifica della natura e sua pensabilità secondo un sistema logico di generi e specie: «Il principio della facoltà di giudizio riflettente, mediante il quale la natura viene pensata come sistema secondo leggi empiriche, è però semplicemente un principio per l’uso logico della facoltà di giudizio, certamente un principio trascendentale per la sua origine, ma solo per considerare la natura a priori come qualificata ad un sistema logico della sua molteplicità sotto leggi empiriche». KgS XX, 216: «Il principio proprio della facoltà di giudizio è dunque: l a n a t u r a s p e c i f i c a l e s u e l e g g i u n i v e r s a l i i n l e g g i e m p i r i che, secondo la forma di un sistema logico, a beneficio della f a c o l t à d i g i u d i z i o».

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ti modi diversi, così che nature specificamente diverse, oltre a ciò che esse hanno in comune, in quanto appartenenti alla natura in genere, possono essere ancora cause in modi infinitamente molteplici; e ciascuno di questi modi deve avere (secondo il concetto di una causa in genere) la sua regola, che è legge, e di conseguenza comporta necessità, anche se noi, secondo la costituzione e i limiti delle nostre facoltà conoscitive, non intendiamo affatto tale necessità.

La ragione per cui l’intelletto umano non intende questa necessità risiede nel fatto che ogni conoscenza avviene mediante concetti, cioè mediante determinazioni generali, le cui specificazioni non vengono rappresentate come implicazioni necessarie. La legalità specifica della natura perciò costituisce uno scopo «necessario» dell’intelletto – uno scopo, cioè, insito nella stessa forma della conoscenza intellettuale – e in tal senso il principio che giustifica l’uso riflettente della facoltà di giudizio viene concepito come principio della «conformità a scopi [Zweckmäßigkeit] della natura»3. Già nell’Appendice alla Dialettica trascendentale Kant ha sostenuto che la ragione pone all’intelletto lo scopo di una massima «unità sistematica» delle conoscenze (KrV A 643/B 671ss.). Si avrebbe perciò un «uso ipotetico della ragione», l’esercizio di massime razionali come principi regolativi della conoscenza intellettuale. La costituzione di un sistema completo delle conoscenze è affidata a un procedimento ipotetico-deduttivo simile a quello che aveva descritto Newton: Se la ragione è la facoltà di derivare il particolare dall’universale, si possono verificare due casi. O l’universale è di già in sé certo e dato, nel qual caso esso non richiede altro che il giudizio in vista della sussunzione, sicché il particolare è con ciò necessariamente determinato; e questo è l’uso apodittico della ragione. O l’universale è assunto solo problematicamente, quale semplice idea; in questo caso il particolare è certo, ma l’universalità della regola concernente la conseguenza è un problema; e allora si cerca se molti casi particolari, che sono tutti certi, derivano dalla regola e, se risulta che tutti i casi adducibili seguono da essa, se ne infe-

3 KU § V, 184. Sulla suddetta caratteristica dell’intelletto umano Kant ritorna nel § 69, con la distinzione tra intelletto intelletto ectipo, come quello umano, e intelletto archetipo, che conosce e produce gli oggetti intuendoli. 4 KrV A 646/B 674. Alla generalizzazione per induzione Newton dedica in parti-

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risce l’universalità della regola estendendola a tutti i casi, anche non dati. Questo è l’uso ipotetico della ragione4.

Già in questa sede Kant riconosce che questo uso regolativo della ragione, riferito alla specificazione delle leggi trascendentali della natura in un sistema logico, presuppone un nuovo «principio trascendentale», individuando un problema che, benché ancora formulato secondo lo schema della classificazione logica e non in riferimento alle leggi naturali, è già quello che ricomparirà nella terza Critica: Se tra i fenomeni che ci stanno innanzi ci fosse una differenza tanto grande, non intendo dire di forma (poiché rispetto ad essa possono anche essere simili [Kant allude qui alla pura forma della sensibilità]), ma di contenuto, cioè rispetto alla molteplicità degli esseri esistenti, che neppure il più sottile intelletto umano fosse in grado di scoprire la benché minima somiglianza confrontando un fenomeno con l’altro (caso questo perfettamente pensabile), la legge logica dei generi non rimarrebbe in piedi e neppure rimarrebbe il concetto di genere o un qualsiasi concetto universale; e addirittura non rimarrebbe l’intelletto, che non si occupa che di questi. Il principio logico dei generi presuppone dunque un principio trascendentale, se ha da trovare applicazione nella natura (col qual termine intendo qui gli oggetti che ci sono dati [non, cioè, la natura come legalità trascendentale dei fenomeni in generale]) In virtù di questo principio, nel molteplice d’una esperienza possibile è necessariamente supposta una omogeneità (di cui non possiamo però determinare il grado a priori), perché, in mancanza di essa, sarebbe tolta la possibilità di ogni concetto empirico, quindi di ogni esperienza5.

Questo nuovo problema trascendentale viene presentato come talmente radicale da investire la stessa possibilità dei concetti empirici. Tuttavia, Kant non afferma ancora l’esigenza di una nuova indagine trascendentale. L’uso regolativo della ragione si articola in tre massime, relative all’organizzazione delle conoscenze in un sistema logico: il principio di omogeneità (o unità) del molteplice rispetto ai generi sucolare la terza e la quarta delle regulae philosophandi (quest’ultima, comunque, aggiunta soltanto alla terza edizione: Kant possedeva per certo solo la seconda, ma si trattava di nozioni ben diffuse tra i newtoniani). Il testo in Principia mathematica, pp. 552555). 5 KrV A 653/B 681 (il corsivo è mio). Cf. KrV A 648/B 676, A 660/ B 688.

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periori, il principio di varietà (o molteplicità) dell’omogeneo rispetto alle specie inferiori, e il principio di affinità di tutti i concetti, che legittima un passaggio ininterrotto da ogni specie ad un’altra mediante un graduale aumento della differenza6. Grazie a questi tre principi viene fornita all’intelletto la forma di un’unità collettiva di ogni conoscenza, cioè un sistema secondo generi e specie, in cui si possa sussumere sempre sotto concetti più generali, determinare sempre secondo differenze più specifiche e trovare sempre specie intermedie. Si tratta di principi a priori, benché siano relativi all’uso empirico dell’intelletto e mai realizzabili compiutamente, perché non li si ricava dall’esperienza, ma mediante essi si progetta a priori l’ordine sistematico che le conoscenze devono assumere. Essi posseggono addirittura una certa «validità oggettiva», soltanto analoga, però, a quella di cui sono dotati i principi trascendentali. Non è possibile, infatti, dirli costitutivi, perché non possono essere forniti del correlativo schema della sensibilità, che permetta di considerarli riferibili a oggetti in concreto (KrV A 664/B 692). D’altra parte posseggono l’«analogo di uno schema [...] nell’idea di un maximum nella divisione della conoscenza dell’intelletto e nella riunione in un unico principio» (KrV A 665/B 693). Con ciò, la loro validità oggettiva viene distinta dal puro valore ipotetico di un «espediente economico della ragione»7. Il rifiuto di una deduzione psicologica si trova anche nella terza Critica (KU §V, 182), ma soltanto qui viene sostenuta la necessità di una nuova deduzione trascendentale. La novità consiste nel fatto che Kant 6 Al termine dell’Appendice, Kant cita la «celebre legge, escogitata da Leibniz e validamente difesa da Bonnet, della scala continua delle creature», presentandola come «un derivato del principio di affinità, il quale poggia sull’interesse della ragione» (KrV A 668/B 696). C. BONNET (di cui si veda Contemplation de la nature, Amsterdam 17645) è citato in proposito da Kant anche nello scritto sui principi teleologici (KgS VIII, 179). Gli altri esempi scientifici citati a illustrazione delle massime razionali verranno discussi nelle pagine seguenti. 7 KrV A 653/B 681. Una tale deduzione economica, che comincia a prendere piede presso gli scienziati di orientamento empiristico, verrà teorizzata come è noto da Mach, che parlerà esplicitamente di «economia del pensiero», individuandone l’origine in un principio evoluzionistico di adattamento. Secondo questo principio ogni legge di natura, finanche le leggi fondamentali della meccanica, sarebbe l’espressione abbreviata di osservazioni sperimentali. Per un tentativo di ripensare questa visione delle leggi di natura si veda M. DORATO, Il software dell’universo. Saggio sulle leggi di natura, Milano 2002.

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ritiene di aver trovato un medio nella sensibilità, pur diverso da quello della dottrina dello schematismo, in grado di giustificare l’impiego delle massime regolative: perciò queste massime vengono ora ascritte alla facoltà del giudizio che riflette sul molteplice empirico. Una ragione dell’ambiguità nella prima Critica risiede probabilmente nella speranza nutrita da Kant nel potere determinante della facoltà di giudizio e dunque in una specificazione delle leggi trascendentali, una speranza, come si è visto, associata alla sua riflessione sulla fisica della gravitazione (§ 3.1). Questo caso particolare costituisce l’esempio della possibilità che i principi trascendentali trasmettano iniettivamente la propria necessità alle conoscenze empiriche. Su questo sfondo, si può comprendere il modo in cui Kant – confidando nell’origine puramente filosofica dei concetti fisici – poteva considerare solubile, in questi anni, il problema delle leggi empiriche8. La prova della validità oggettiva del principio trascendentale di causa, benché non determini il contenuto del nesso casuale, stabilisce a sufficienza che, di caso in caso, l’esperienza mostrerà delle regolarità nel collegamento dei fenomeni successivi. In proposito, laddove qui sono stati distinti due problemi – 1) se ogni evento sia preceduto una causa; 2) se eventi della stessa specie siano preceduti da cause della stessa specie9 – Kant tende a vederne uno solo. Scrive, per esempio (KrV A 195/B 240): [1] È dunque sempre in riferimento a una regola, in base alla quale i fenomeni, nella loro successione, ossia così come avvengono, risultano determinati tramite lo stato precedente, che io rendo oggettiva la mia sintesi soggettiva (dell’apprensione); e anzi, è unicamente in base a questa presupposizione che è possibile l’esperienza di qualcosa che accade.

E di seguito: 8 La tesi di un legame di graduale specificazione tra leggi trascendentali e leggi empiriche è stata sostenuta con grande efficacia da FRIEDMAN, Causal Laws, pp. 185-6. Si tratta di un tentativo di risolvere la questione della necessità delle leggi empiriche, che altri commentatori mantengono più vicina alla lettera (ambigua) della nozione kantiana di regolativo. Si vedano per es. BUCHDAHL, The Conception of Lawlikeness, in Kant and the Dynamics of Reason, pp. 226-231 e P. GUYER, Kant’s Conception of Empirical Law, in «Proceedings of the Aristotelian Society», Supplementary Volume 64, 1990, pp. 221-242. 9 Si veda l’articolo di L.W. Beck citato in cap. 3, nota 23.

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[2] Invero, sembra che questo contraddica tutte le osservazioni che si sono sempre fatte sul modo di procedere nell’uso del nostro intelletto: secondo tali osservazioni è solo grazie alla percezione e alla comparazione di molti, che seguono in maniera concorde a dei fenomeni precedenti, che noi siamo condotti innanzitutto a scoprire una regola, in base alla quale certi accadimenti seguono sempre a certi fenomeni e in tal modo siamo indotti a formarci il concetto di causa. Su tale base questo concetto sarebbe semplicemente empirico e la regola che esso fornisce – che tutto quello che accade abbia una causa – sarebbe accidentale quanto l’esperienza stessa: la sua universalità e necessità sarebbero in tal caso soltanto immaginate e non avrebbero alcuna vera validità universale, poiché esse non sarebbero fondate a priori ma soltanto sull’induzione. Accade qui come con altre rappresentazioni pure a priori (ad esempio spazio e tempo), che possiamo desumere dall’esperienza come concetti chiari soltanto per il fatto che le avevamo poste nell’esperienza costituendo dunque quest’ultima anzitutto mediante tali rappresentazioni.

Il passaggio da un problema all’altro suscita insomma l’impressione che Kant ragioni così: poiché il concetto di una connessione causale è posto a priori dall’intelletto, la scoperta induttiva della regola di connessione causale sarebbe al riparo dalla contingenza empirica. Grazie a questa tesi, come sappiamo, diviene possibile per Kant «scalzare dalla sua base il dubbio di Hume» (Prolegomena, § 27). Questo risultato è stato più volte riaffermato in base all’idea della sintesi a priori, che introdurrebbe una «unità necessaria» delle rappresentazioni anche nel caso dei più comuni giudizi empirici10. Ma anche accogliendo senz’altro tutto questo, resta irrisolto il problema della molteplicità delle leggi empiriche. Si consideri infatti la necessità nella successione degli stati di una sostanza, che ricalca nella trattazione dell’Analitica dei principi quella necessità ipotetica metafisica della monadologia, e rende particolarmente facile cogliere il problema. Con essa non è ancora giustificata l’armonia tra le molteplici e individuali successioni legali di stati, che saranno reperibili di volta in volta empiricamente.

10 Si veda soprattutto la discussione del giudizio ‘il corpo è pesante’ in KrV B, 141142; MA 476; Ma 509. KrV B 141-2, § 19. In queste discussioni non pare che Kant consideri come, nei Principi metafisici, la pesantezza (Schwere) sia stata inclusa tra le proprietà essenziali della materia, sebbene per via sintetica (cf. MA 509 e supra § 8.2.D). Sembra che, nel fare l’esempio di un concetto empirico, Kant non voglia complicare il discorso richiamandosi alla eccezionalità di questo caso.

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L’analogia con Leibniz, anche in questo caso, è istruttiva. L’idea di Kant è che un intelletto umano infinito conoscerebbe leggi della natura talmente specifiche da ottenere una completa determinazione legale della successione degli stati di un individuo; si tratterebbe, tuttavia, di una conoscenza pur sempre fenomenica11. Al suo interno, ora, la legalità della successione degli stati di un individuo (ammesso che si sappia identificarlo come tale) in generale è stabilita con certezza: per questo motivo, Kant non parla di problema della sistematicità dei fenomeni, ma delle diverse leggi12. Si intravede qui il modello leibniziano della legge individuale della sostanza, e con esso il problema che Kant sempre vi congiunge, quello cioè dell’inaccettabile principio di una armonia prestabilita tra le leggi delle diverse sostanze: «un mezzo di soccorso, questo, che sarebbe ben peggiore del male a cui dovrebbe rimediare [i dubbi humiani], e che anzi non può essere di alcun aiuto» (MA 476). Ma qualora, «come è ben possibile pensare», si ipotizzi che le leggi individuali siano infinitamente variabili, come nella monadologia leibniziana, ma non accordate, ecco che si presenta il problema della terza Critica. Una garanzia non speculativa dell’unità sistematica della natura, dal punto di vista kantiano, non si può ottenere se non mediante una nuova anticipazione formale, che non può non ricorrere al concetto di scopo. Non è un caso che Kant prenda lo slancio per una reimpostazione del problema muovendo dal concetto di teleologia, che nella tradizione leibniziana ma anche in quella newtoniana unisce metafisica e filosofia naturale. Egli sostiene che, mediante semplici leggi meccaniche, non si potrà mai ricondurre l’organismo a leggi puramente meccaniche (non potrà esistere un Newton che possa «rendere comprensibile anche solo la generazione di un filo d’erba secondo leggi della na11 Si veda in proposito l’appendice polemica contro la sensibilità confusa nella Introduzione alla KU § V, 185: subito dopo essersi riferito al problema di fare un’esperienza interconnessa a partire da un materiale delle percezioni che è per noi «così confuso», Kant aggiunge subito tra parentesi: «propriamente: solo infinitamente molteplice, non adeguato alla nostra capacità di afferrarlo». Si tratta dunque di un grado di complessità inattingibile, relativo però al fenomeno, la cui forma a priori è invece perfettamente distinta. Analogamente Kant scrive che la geometria può avere uno sviluppo infinito, solo che, in questo caso, esso avviene all’interno della forma dell’intuizione pura, che come tale è oggettivamente «conforme a scopi» (KU § 62) e neutralizza il rischio di condurre prima o poi alla scoperta di un caos irrelato. 12 Cf. Erste Einleitung, KgS XX, 209.

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tura che nessuno ha ordinato»). Nel concetto dell’organismo, in cui la presunzione di una finalità oggettiva è necessaria per la stessa comprensione dell’oggetto, Kant trovava già nella prima Critica il modello della struttura teleologica dell’idea, secondo la quale la ragione si aspetta di poter classificare la totalità dei fenomeni13. Mentre, però, esiste una conformità oggettiva a scopi della natura, quella data con le forme di spazio e tempo, la finalità materiale, quale per esempio quella che si pone a fondamento del concetto di organismo, non può mai essere considerata oggettiva. Muovendo dall’esempio dell’organismo, dunque, Kant comincia a indagare la possibilità di un principio soggettivo ma trascendentale che la facoltà di giudizio, incapace di prescriverlo alla natura, darebbe a se stessa, ma il cui impiego sarebbe nondimeno legittimato a priori. Esaminando la percezione di piante, cristalli e altre formazioni naturali egli trova infine, nell’analisi dei giudizi estetici sul bello naturale, la chiave di volta architettonica per una soluzione del nuovo problema trascendentale.

2. Armonia e ambiguità della forma: sul tentativo di collegare bellezza naturale e legislazione della natura «Il principio del gusto è il principio soggettivo della facoltà di giudizio in generale»: questa affermazione, che compare come titolo del § 35 13 Sulla struttura organica dell’idea sistematica il passo fondamentale è KrV A 832833/B 860-861: «Sotto il governo della ragione le nostre conoscenze non possono assolutamente costituire una rapsodia, bensì devono costituire un sistema, nel qual soltanto esse possono sostenere e promuovere gli scopi essenziali della ragione. Con sistema io intendo però quell’unità di molteplici conoscenze sotto un’idea. Quest’ultima è il concetto razionale della forma di un tutto, in quanto mediante tale concetto viene determinata a priori l’estensione del molteplice, come pure la collocazione delle parti tra di loro. Il concetto scientifico della ragione contiene quindi il fine e la forma del tutto, congruente con quel fine. L’unità del fine, a cui si riferiscono tutte le parti – le quali si riferiscono anche reciprocamente nell’idea di quel fine – fa sì che si possa avvertire la mancanza di una parte qualsiasi quando si conoscano le altre, e non abbia luogo alcuna aggiunta contingente né si verifichi alcuna quantità indeterminata di perfezione i cui limiti non siano già determinati a priori. L’intero è quindi articolato (articulatio) e non ammucchiato (coacervatio): esso può certo crescere internamente (per intussuceptionem), ma non esternamente (per appositionem), come accade in un corpo naturale, la cui crescita non aggiunge alcun membro, bensì, senz’alcun mutamento delle proporzioni, rende ogni membro più forte e più capace in vista dei suoi fini».

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della terza Critica, esprime efficacemente la pretesa di unità dell’opera, come critica del gusto e insieme prolungamento della critica della ragione. Ma poiché il problema della conformità a scopi della natura ha origine nella prima Critica, ed ottiene nella terza una riconsiderazione secondo un principio estetico, si deve cercare, in quest’opera, il nuovo passaggio logico per cui tale principio avrebbe il seguente significato: che, laddove la facoltà di giudizio non sa applicare uno schematismo oggettivo (KU § 9), questo principio estetico fungerebbe da presupposto trascendentale in sostituzione dei presupposti teleologici e dunque metafisici ancora incombenti sull’«uso regolativo della ragione» della Dialettica trascendentale. Vediamo l’avanzarsi di questo principio nell’Analitica del bello: Kant ha accuratamente distinto i moventi del giudizio estetico da quelli del giudizio sul piacevole e sul buono (§ 7) e sul perfetto (§ 15), fondati i primi su un «sentimento privato» o tutt’al più su un sondaggio empirico, i secondi sul concetto della moralità, i terzi su concetti di scopo oggettivo. Nell’«esposizione» del giudizio estetico si susseguono e si stratificano i suoi diversi momenti (il bello piace «senza interesse», è «ciò che piace universalmente senza concetto», è la «forma della conformità a scopi di un oggetto, in quanto essa vi è percepita senza rappresentazione di uno scopo») il cui tratto comune è l’esigenza di un validità universale; questa esigenza non è riconducibile ad una regola del giudizio, ma la sua legittimità viene suscitata direttamente dalle forme naturali (nel caso del bello naturale), o comunque dalla ‘forma’ sensibile, per cui solo l’esempio ne è espressione adeguata. La giustificazione di questa esigenza costituisce proprio il nucleo argomentativo che stiamo cercando, da cui il problema strettamente estetico irradia il suo principio su quello del presupposto inconoscibile. Sebbene problema e soluzione vengano sparsamente anticipati (si vedrà, non a caso) nel corso dell’Analitica del bello, ad essi è dedicata propriamente la Deduzione dei giudizi estetici puri (KU § 30, 279; corsivi miei). L’esigenza di una validità universale per ciascun soggetto di un giudizio estetico, in quanto giudizio che deve appoggiarsi a un qualche principio a priori, richiede una deduzione (cioè una legittimazione della sua pretesa), che deve essere ancora aggiunta alla sua esposizione, e precisamente quando esso riguarda un compiacimento o un dispiacimento per la forma dell’oggetto. Tali sono i giudizi sul bello della natura. Infatti la

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conformità a scopi ha in questo caso il suo fondamento nell’oggetto e nella sua configurazione [Gestalt], sebbene essa non indichi il riferimento dell’oggetto ad altri oggetti secondo concetti (in vista di un giudizio conoscitivo), ma riguardi esclusivamente l’apprensione di tale forma [Form], in quanto questa si mostra conforme, nell’animo, e alla facoltà dei concetti e a quella della loro esibizione (che è tutt’uno con la facoltà dell’apprensione).

In questo passo, attraverso lo stile intricato e sempre alla ricerca di raccordi parentetici tipico di tutta la terza Critica, si colgono i due elementi fondamentali su cui si basa la teoria del presupposto estetico. Il primo è la forma dell’oggetto, che «dà occasione» al piacere estetico, il secondo è l’accordo delle facoltà o la conformità agli scopi di esse, come giustificazione del giudizio estetico. L’apprensione è l’atto in cui questi due elementi concorrono nella concreta esperienza estetica: la forma suscita l’accordo e questo la rivela come forma bella14. Ma proseguendo con l’analisi di questi elementi del giudizio estetico, alla ricerca del nucleo argomentativo che ci interessa, ci si accorge subito che la loro distinzione non può corrispondere a una netta separazione, come accadeva con gli «elementi» della prima Critica. E ciò dipende proprio dalla impossibilità di isolare una regola logica del giudizio estetico dal suo esercizio concreto, come accadeva con lo «schematismo» della prima Critica. I due elementi di cui qui si vuole trovare il rapporto, la forma dell’oggetto e il principio dell’accordo delle facoltà nella sua apprensione, si distinguono con difficoltà, perché nel principio di determinazione del giudizio la forma e l’accordo si definiscono a vicenda, essendo unite in una stessa caratteristica della percezione (ecco perché l’Analitica deve già anticipare il risultato della Deduzione): Quindi nella rappresentazione di un oggetto nient’altro che la conformità 14 Sull’associazione tra constatazione della conformità a scopi e apprensione cf. Erste Einleitung, KgS XX, 220: «Quando dunque la forma [Form] di un oggetto dato nell’intuizione empirica è siffatta, che l’apprensione del molteplice di esso nell’immaginazione si accorda [übereinkommt] con l’esibizione di un concetto dell’intelletto (a prescindere da quale sia questo concetto), allora intelletto e immaginazione convengono reciprocamente [wechselseitig zusammenstimmen] nella semplice riflessione per l’attuazione del loro compito, e l’oggetto viene percepito come conforme a scopi per la facoltà di giudizio».

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soggettiva a scopi, senza alcuno scopo (né oggettivo, né soggettivo), e dunque la semplice forma della conformità a scopi nella rappresentazione con cui un oggetto ci è dato, può costituire, in quanto ne siamo consapevoli, il compiacimento che, senza concetto, giudichiamo come universalmente comunicabile, e quindi il principio di determinazione del giudizio di gusto15.

Come Kant ripete più volte, è la comunicabilità universale, e non il piacere che ne deriva, a costituire il principio del giudizio di gusto, poiché solo essa fa sì che per il piacere possa pretendersi validità universale (per es. § 9). Ma la comunicabilità universale è implicita nella «forma della conformità a scopi» (la sensazione che essa suscita è infatti per definizione comunicabile: § 20), la quale dunque condensa in sé tutta la struttura del giudizio estetico. Allora, per capire se e come questo giudizio possa essere sottoposto a un principio della legalità specifica della natura, esaminiamo cosa sia questa «forma della conformità a scopi», seguendo, per quanto possibile, la scomposizione degli elementi che abbiamo rilevato nel passo iniziale. α) Cominciamo dalla «conformità a scopi». A giudicare dall’Introduzione è proprio il principio trascendentale della conformità a scopi (Zweckmäßigkeit) a costituire l’obiettivo della terza Critica. Esso deve giustificare l’impiego delle massime della facoltà di giudizio, come la lex continui. Dunque il punto di partenza è lo stesso dell’Appendice alla Dialettica della prima Critica, dove si parlava di uso regolativo della ragione. Ora Kant, ripetendo quanto era già presente nel testo del 1781, scrive che l’unità della natura nella sua infinita molteplicità di leggi «deve necessariamente essere presupposta e ammessa, ché altrimenti non potrebbe verificarsi una interconnessione completa delle conoscenze empiriche per un tutto dell’esperienza», che dunque «la facoltà di giudizio, che è soltanto riflettente nei riguardi delle cose sotto leggi empiriche possibili (ancora da scoprire), deve pensare la natura nei riguardi di queste ultime secondo un principio della conformità a scopi della nostra facoltà conoscitiva» (§ V, 184). Ma adesso non si limita a dichiarare questa esigenza, come se essa bastasse a giustificare l’aspettativa della propria soddisfazione. Cerca invece una giustificazione dell’«armonizzarsi [Zusammenstimmen] della natura con la no15 KU

§ 11, 221, cors. mio. Cf. GARRONI, Estetica ed epistemologia, p. 67

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stra facoltà conoscitiva» (§ V, 185): essa dovrà mostrare in qualche modo come mai si possa ottenere quell’«unità legale», che è «conforme a un intento necessario (a un bisogno) dell’intelletto»; se insomma quell’«ordine della natura secondo le sue leggi particolari [...] sia ad essa effettivamente adeguato» (§ VI, 187), se essa non sia un «aggregato» ma possa costituirsene un «sistema»16. Ma il giudizio estetico è proprio l’esperienza che permette di aspettarsi la soddisfazione di questo bisogno, e dalla quale scaturisce, come da ogni soddisfazione, un sentimento di piacere (ivi). Se davvero questo sentimento sorge da quell’accordo fra natura e facoltà, esso deve essere universalmente valido, poiché, «per una conoscenza possibile in genere», si presuppone l’universalità delle condizioni ricettive umane17. Ora, se si pensa una conformità agli scopi teoretici della natura, che non dipenda dalle condizioni di possibilità dell’intuizione in generale (spazio e tempo) e tuttavia «preceda la conoscenza dell’oggetto», essa deve essere «immediatamente legata» con la «rappresentazione» di tale oggetto, il che trascende l’ambito della pura ragione e delle massime regolative. Ma allora non è certo se essa sia dia o meno: «ci si domanda soltanto se ci sia, poi, una tale rappresentazione della conformità a scopi» (KU § VII, 189; cors. mio). β) Con ciò il problema generale del giudizio riflettente confluisce nel problema estetico ed entra in gioco la «forma» della conformità a scopi, che deve essere esperita e non può essere semplicemente pre-

Einleitung, KgS XX, 203. dei giudizi di gusto, KU § 38, 289-290: «Se si concede che in un puro giudizio di gusto il compiacimento per l’oggetto è legato con il semplice giudizio sulla sua forma [Form], allora nient’altro che la conformità soggettiva a scopi di tale forma rispetto alla facoltà di giudizio è ciò che sentiamo legato nell’animo con la rappresentazione dell’oggetto. Ora, dal momento che la facoltà di giudizio, sotto il profilo delle regole formali del giudicare e a prescindere da ogni materia (e sensazione dei sensi e concetto), può rivolgersi solo alle condizioni soggettive dell’uso della facoltà di giudizio in genere (che non è limitata a una particolare specie di senso, né a un particolare concetto dell’intelletto), quindi a ciò che di soggettivo può essere presupposto in tutti gli uomini (in quanto richiesto per una conoscenza possibile in genere), allora deve poter essere ammesso come valido a priori per ciascuno l’accordo di una rappresentazione con queste condizioni della facoltà di giudizio. Vale a dire: il piacere, o la conformità soggettiva a scopi della rappresentazione rispetto al rapporto delle facoltà conoscitive del giudizio di un oggetto sensibile in genere, lo si potrà con ragione esigere da ciascuno». 16 Erste

17 Deduzione

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supposta: è nella «semplice apprensione della forma dell’oggetto dell’intuizione, senza riferimento di essa a un concetto per la conoscenza determinata» che si deve trovare se vi sia legato un «piacere», che esprima «l’adeguatezza dell’oggetto rispetto alle facoltà conoscitive». Ma tale piacere può essere constatato solo con un «giudizio empirico e singolare»18. E ciò significa porsi di fronte alla forma (§ 8, 216; cors. mio): Per giudicare se un abito, una casa, un fiore sono belli, non ci si lascia convincere a parole, nel proprio giudizio, da ragioni o da principi. Uno vuol sottoporre l’oggetto ai suoi propri occhi, proprio come se il suo compiacimento derivasse dalla sensazione ; e tuttavia, quando poi dice bello un oggetto, crede di avere per sé una voce universale e avanza l’esigenza dell’adesione di ciascuno, mentre invece ogni sensazione privata deciderebbe per lui solo e per il suo compiacimento.

Il piacere per la forma è dunque la ratio cognoscendi del bello, la cui ratio essendi è l’accordo delle facoltà in presenza di essa19. Poiché la deduzione presuppone semplicemente l’universalità delle condizioni soggettive della ricettività e la corretta astrazione da ogni elemento logico o patologico, si capisce che tutto il problema della deduzione si concentra nel passaggio per cui la forma «si mostra conforme» all’accordo delle facoltà (§ 30, 279). Un passaggio che pare sfuggire a ogni considerazione logica e che pure Kant si sforza di analizzare. Del resto in alternativa a questa ricerca dell’accordo nell’apprensione ci sono soltanto i sistemi delle presupposizioni metafisiche (o criptometafisiche). A questo punto della sua indagine Kant presenta la forma sempre attraverso formule in cui si addensano tutti gli elementi del giudizio di gusto, come fossero corpi attratti da un buco nero che solo attraverso essi manifesta la sua esistenza: la forma è ciò che mette in moto le fa18 KU

§ VII, 189; 191. Cf. § 37. SCARAVELLI, Osservazioni sulla Critica del Giudizio, p. 491. 20 Questa circostanza ricorre in tutta l’opera e dipende dalla struttura propria del giudizio estetico. Infatti, per un verso, questo impedisce che se ne esponga una regola o uno schema, isolati dall’apprensione diretta dell’oggetto; d’altra parte, sebbene Kant si riferisca al “sentimento”, e dunque a qualcosa di propriamente immediato e alogico, nello stesso tempo egli si sforza di esplicitare una struttura argomentativa del giudizio estetico. Ciò lo porta ad astrarre l’uno dall’altro dei momenti, che altrove identifica. Infatti, 1) Il giudizio di gusto esprime in primo luogo la «validità universale» 19 Cf.

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coltà, ciò che ne determina l’accordo, ciò che suscita il concetto del principio della facoltà di giudizio ecc.20. Ma come va inteso il soggetto di queste formule? È possibile isolare questa forma, che, a quanto dice Kant, sarebbe l’autentico anello di congiunzione fra giudizio estetico e giudizio oggettivo? Mentre la «conformità a scopi [...] non può essere percepita» (§ VII, 189), pare che la forma dell’oggetto che, in quanto di volta in volta la suscita, è forma della conformità a scopi, appartenga alla percezione: dello stato d’animo, e trae piacere dalla sua comunicabilità; 2) Ma il giudizio su tale comunicabilità è determinato dallo «stato d’animo che si riscontra nelle facoltà rappresentative, in quanto queste riferiscono una rappresentazione data alla conoscenza in generale» (§ 9) e questo stato d’animo è quello che Kant chiama sentimento del libero gioco delle facoltà fra loro; 3) Ma il piacere coincide con questa consapevolezza estetica (§ 12). Dunque il piacere coincide con la presa di coscienza del principio che lo determina, la comunicabilità universale, anche se nell’analisi ne viene astratto. Inoltre, come abbiamo visto, Kant dice altrove che è la «forma» il fondamento di determinazione del giudizio: si tratta della forma concretamente appresa, non di una immagine astratta, che ci si rappresenti in assenza dell’oggetto estetico. Dunque, piacere, forma, comunicabilità universale, sono tutti momenti di un evento concreto; isolarli produce il rischio di intendere troppo rigidamente ciò che Kant si sforza di non ridurre ad un apparato dottrinario di elementi gnoseologici. Il presupposto del giudizio di gusto non è più una condizione universale esponibile separatamente, come quella degli schemi della prima Critica, o quella della legge morale nella seconda; il presupporre è invece una pretesa necessaria, ma non esplicitabile, di ogni singolo giudizio estetico. Infatti, se «esso asserisce [...] che siamo autorizzati a presupporre universalmente in ogni uomo le stesse condizioni soggettive della facoltà di giudizio che troviamo in noi» (Nota al § 38, KU 190), d’altra parte questo presupposto è a sua volta richiesto «per essere autorizzati ad avanzare l’esigenza di un accordo universale per un giudizio della facoltà estetica di giudizio». Ma tale esigenza, suscitata da un stato d’animo, non è esposta al rischio di incertezza. Il presupposto dell’identità delle condizioni soggettive si giustifica per assurdo: poiché se non vi fosse tale identità «gli uomini non potrebbero comunicarsi le loro rappresentazioni, né la stessa conoscenza». La pretesa di un accordo possibile (le condizioni) ma ideale (la corretta sussunzione dell’oggetto sotto esse), costituisce l’idea di un senso comune (§§ 39-40), estrema trasfigurazione critica del principio di ragione leibniziano. 21 In molti casi Kant parla della “rappresentazione” dell’oggetto, che «dà occasione» (veranlasst) al piacere estetico. Sulla necessaria presenza di questa rappresentazione ha insistito opportunamente SCARAVELLI, Osservazioni, pp. 475-528. Ma la rappresentazione in questione coincide con la forma, poiché non può certamente essere concetto, ma non è neppure sensazione (nel senso tecnico kantiano), poiché quest’ultima suscita solo “attrattive”: essa è allora forma dell’intuizione empirica. Vedremo come in questo concetto si nasconda l’ambiguità dell’argomentazione di Kant.

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è la sua necessaria presenza a fare del giudizio estetico un giudizio singolare21. Del resto Kant scrive che, anche se l’immaginazione è legata nell’apprensione di un oggetto dato nei sensi a una forma determinata di questo oggetto e in quanto tale non ha libero gioco (come nell’immaginare), è però ancora possibile comprendere che l’oggetto possa appunto fornirle una forma [precisamente, quella per cui si ha la migliore «proporzione delle facoltà»], tale da contenere una composizione del molteplice quale la progetterebbe l’immaginazione, se lasciata libera a se stessa, in accordo con la c o n f o r m i t à a leggi in genere d e l l ’ i n t e l l e t t o [il che è lo schematismo della prima Critica]22.

Essendo questa forma data e determinata pare che se ne possa tentare una agevole caratterizzazione. Quello che ci interessa, ora, è non tanto capire come questa forma percettiva possa effettivamente suscitare un sentimento di piacere nella sua semplice apprensione disinteressata (che è proprio ciò che a rigore non può farsi e per cui Kant espone il principio estetico aiutandosi con i numerosi esempi tipici della cultura estetica settecentesca). Vogliamo capire, invece, se il piacere che essa suscita, e dunque l’«armonia» delle facoltà che lo determina, possa valere a giustificare l’idea di principio trascendentale della conformità a quelli scopi teoretici che determinano il problema della conformità a scopi nella riflessione sulla natura: la scoperta e l’accordo delle infinite leggi delle forze, la spiegazione dell’organismo. Che la forma sia il conoscibile nell’oggetto, e che questo consista in un intreccio di relazioni permanenti o mutevoli secondo una regola, unito dalla sintesi dell’intelletto, è risultato nella prima Critica. Si è visto che la forma, in senso trascendentale, è infatti la «determinazione», la materia il puro «determinabile» (KrV A 266/B 322). Che poi l’immaginazione concorra alla costituzione della forma, ovvero alla determinazione del fenomeno, è anche questo chiaro nella prima Critica, e diviene anche più esplicito nella terza: l’immaginazione è infatti designata come «facoltà dell’esibizione», o addirittura «delle intuizioni», che «progetta» la sintesi del molteplice. Ora, coerentemente con la terminologia della prima Critica, Kant parla, a proposito del sentimento di piacere estetico, di uno «schematismo senza concetto» o «libero». Come lo schematismo trascendentale della facoltà di giudizio determi22 Nota

generale alla prima sezione dell’analitica, KU 240-241.

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nante costituisce la regola della connessione del molteplice, rendendo possibile anche la costruzione matematica, così lo «schematismo libero» è l’apprensione della forma bella. Ma esso non segue una regola determinata, bensì, come si esprime Kant, è un «gioco» dell’immaginazione che si intrattiene con la forma dell’oggetto e vi trova la possibilità di una regolarità, richiesta dall’intelletto («legalità libera»), senza una legge determinata che si lasci esprimere in un concetto23. La forma che entra in gioco nel giudizio estetico non è allora il semplice esempio di una regola (come quello descritto nella prima Critica per lo schema del cane); non è nemmeno, tuttavia, qualcosa come una rigida figura di fronte a cui aleggi la riflessione, poiché essa si dà nel costituirsi della figura all’attenzione (dell’intelletto), che è propriamente l’«apprensione», non il puro molteplice dato. In questa apprensione, in quanto processo empirico, viene cercato l’accordo dell’immaginazione con l’intelletto relativamente a eventuali scopi (teoretici o tecnici). Per esempio, nell’atto in cui si esita di fronte a qualcuno o qualcosa, prima di riconoscerlo come un tale qualcuno o qualcosa (si potrebbe dire, per ricalcare i tecnicismi di Kant, prima di trovare la rappresentazione conforme a qualche concetto), dunque contemplando un contenuto sensibile ma insieme pensando: solo che del bello non si lascia mai trovare una determinazione logica che ne possa sostituire la presenza, come avviene invece con tutti i fenomeni di cui si abbia il concetto. Ma questa forma allora, che nelle espressioni kantiane sembra ora risolversi nel «gioco» della sua apprensione, ora esserne un presupposto e uno sfondo, come figura determinata (Gestalt), sembra fare tutt’uno con lo schematismo libero che essa suscita. Concentriamoci allora su questo schematismo, che assume il ruolo di medio fra giudizio estetico e giudizio oggettivo. Esso innesca tutto il processo fissato nel giudizio estetico e ad esso fa capo quel principio della conformità a scopi, di cui si gioverebbe l’indagine della natura. Ma quale sarebbe la funzione di un tale schematismo per l’eliminazione del presupposto inconoscibile di una finalità oggettiva della natura? Lo «schematismo», nell’itinerario del criticismo, è in generale il «metodo per rappresentare una molteplicità secondo un concetto, in una immagine», 23 Se ciò accadesse si avrebbe la possibilità di ‘esporre’ logicamente ad un terzo la bellezza di un oggetto, che invece deve essere «posto di fronte agli occhi».

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che garantisce la possibilità di un riferimento a oggetti delle categorie (KrV A 140/B 179). Ma lo schematismo che entra in gioco nell’indagine fisica, in quanto deve essere scientifica e dunque matematica, è fondamentalmente composizione di spazio e tempo secondo regole. Ora, se i problemi relativi a fenomeni quali le forze fisiche e chimiche e gli organismi devono essere risolti in una conoscenza effettiva, ciò non potrà accadere che tramite un qualche sviluppo della concezione dello schematismo. Quindi, se la forma del fenomeno deve suscitare l’idea di una possibile soddisfazione del bisogno di unificazione secondo regole della massima unità, essa deve farlo suggerendo la possibilità di un perfezionamento della sintesi di esso secondo spazio e tempo. In ciò dovrebbe risiedere il senso dello schematismo libero, nel suo significato epistemologico: nel sentimento di un accordo con possibili schemi determinati, ancora non esplicitamente formulati. È significativo che le prime ricerche di un principio del gusto, negli anni ’70, procedessero proprio in questa direzione. Kant cerca tale principio basandosi appunto sull’universalità delle «leggi della sensibilità» (che poi saranno proprietà delle forme dell’intuizione). In una riflessione appartenente al periodo di elaborazione della Dissertazione (1769-70) si vede chiaramente come Kant sviluppi parallelamente il contenuto della futura Estetica e la riflessione sulla bellezza e come entrambe le tematiche convergano su una stessa nozione di forma24: Abbiamo trattato di ciò che ci piace in quanto appartiene alla nostra condizione o la influenza [affiziert] e riguarda con ciò il nostro sentirci bene [= piacevole per «giudizio privato»]. Ora parliamo di ciò che piace in se stesso, che la nostra condizione ne sia modificata o no; ciò che dunque piace in quanto è conoscenza [erkannt], non in quanto è sensazione [empfunden].

Ciò sembra anticipare la distinzione fra piacevole e bello, e il rifiuto di ogni estetica empiristica, sebbene la menzione della «conoscenza» tradisca una inflessione razionalistica. Ma che cosa è bello? Poiché ogni oggetto dei sensi [continua Kant] ha un rapporto con la nostra condizione, anche in ciò che appartiene alla conoscenza, non alla sensazione, ovvero nella comparazione del molteplice e della forma (poi24 Reflexion

672, KgS XV, 298; i corsivi sono miei.

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ché proprio questa comparazione modifica la nostra condizione, in quanto ci è faticosa o lieve, vivifica o impedisce la nostra attività conoscitiva): allora c’è qualcosa in ogni conoscenza, che appartiene alla piacevolezza; ma con ciò l’approvazione non riguarda l’oggetto, e la bellezza non è qualcosa che possa essere conosciuto, ma è solo sentita [empfunden]. Ciò che è forma [Gestalt] nell’oggetto, e che noi consideriamo come una sua proprietà, deve consistere in ciò che vale per ognuno. Ora, i rapporti dello spazio e del tempo valgono per ognuno, qualunque sensazione ci si trovi ad avere. Perciò in tutti i fenomeni la forma [Form] è universalmente valida; questa forma viene conosciuta attraverso regole comuni [gemeinschaftlichen] della coordinazione; ciò che dunque è conforme alla regola della coordinazione nello spazio e nel tempo piace necessariamente a ciascuno ed è bello.

Questa riflessione ci è utile perché la prima parte potrebbe essere sottoscritta tale e quale dal Kant della terza Critica, mentre la seconda, in cui si cerca una comprensione del piacere universale per la forma, costituisce un tentativo poi abbandonato25. Ciò che verrà meno, di tutte queste formule, è proprio l’esplicito riferimento ai «rapporti dello spazio e del tempo», per cui la nozione di forma bella viene schiacciata sui principi di simmetria e armonia delle proporzioni prodotti secondo le forme pure dell’Estetica trascendentale. Nella terza Critica questi tentativi scompaiono dunque per due ragioni: 1) dal punto di vista strettamente estetico, Kant si è reso conto che una simile concezione rischia di risolversi in una ‘matematica del gusto’, ovvero in un suo snaturamento secondo concetti della perfezione, come avveniva nella definizione della musica di Leibniz26 o nei canoni della bellezza come rigida regolarità [§15], quale quella delle stesse figure geometriche27 o dell’«ideale della bellezza» di un oggetto [§17], come in un Ho-

25 Già nella Logik Philippi, del 1772, Kant cerca di definire bello ciò che piace «secondo proposizioni generali della sensibilità» (simmetricamente al buono, che piace secondo principi della ragione e dell’intelletto) (KgS XXIV, 347), secondo una concezione dominata dal concetto di simmetria e proporzione armonica. Ampia documentazione su questo aspetto dell’itinerario kantiano è raccolta in TONELLI, Kant. Dall’estetica metafisica all’estetica psicoempirica. 26 Kant ne trovava una discussione in BAUMGARTEN, Aesthetica, Frankurt a.M. 1750, §54. Cf. KU §53, 329-330. 27 Cf. in proposito SCARAVELLI, Osservazioni, pp. 514ss. 28 Nota generale alla prima sezione dell’analitica, KU 242.

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garth o in un Winckelmann o nei giardini alla francese: «Tutto ciò che è rigidamente conforme a regole (che si avvicina alla conformità matematica a regole) ha in sé qualcosa che è contrario al gusto»28; 2) Dal punto di vista teoretico ciò farebbe del giudizio estetico un giudizio teleologico: la sua funzione di esibire la «conformità a scopi» della natura si ridurrebbe al mostrare esempi per schemi già disponibili. Insomma, dietro la «conformità a scopi» estetica si troverebbe quella conformità a scopi formale delle matematiche che Kant celebra nel § 62 della terza Critica proprio in riferimento all’accordo fra dottrine della geometria antica e loro applicazione nella fisica moderna (per esempio, la teoria delle coniche). Ma poiché la pura geometria, come si è visto particolarmente nel caso della gravitazione, non può mai rendere conto da sé del molteplice dei fenomeni fisici, il problema da essi rappresentato non potrebbe fare alcun passo avanti mediante il riferimento alla sola finalità matematica. Ci si domanda, però, se il problema possa trovare soluzione nella terza Critica, mediante la concezione «libera» del bello. Infatti è pur sempre la forma degli oggetti naturali belli a dover suscitare l’accordo delle facoltà e con esso la giustificazione della legalità speciale della natura. Ma la forma delle bellezze libere, diversamente dalla forma della prima Critica, non può che essere costituita da tratti morfologici della figura visibile. Quale rapporto può esservi, allora, fra questi tratti morfologici (la forma di un fiore, la veduta di una radura), le forme naturali che devono legittimare l’accordo fra intelletto e immaginazione in tutti i casi specifici, e la forma dei fenomeni dinamici, chimici ed organici, nel senso della determinazione logica e matematica che deve condurre alla formulazione di nuove leggi di natura? Ecco il punto debole di tutto il ragionamento kantiano. Le determinazioni morfologiche possono suscitare certamente un’armonia, presentando simmetria e interna regolarità, anche se questa non si riduce (o comunque non viene ricondotta, se si giudica esteticamente) ad un rigido principio strutturale (come poteva avvenire secondo la teoria kantiana degli anni ’70); certamente è in qualcosa come uno «schematizzare libero», di una esperienza estetica priva della guida di concetti precostituiti, che si costituiscono i concetti dell’esperienza comune, come quello di 29 Interessanti sviluppi in tal senso della questione dello schematismo empirico e poi di quello estetico si trovano in C. BRANDI, Teoria generale della critica, Roma 1975,

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‘casa’, a proposito di cui Kant scrive «io traccio, per così dire, la sua forma [Gestalt]» (KrV B 162). Ma se tutto ciò suggerisce importanti sviluppi sul problema del significato29 e sulla genesi empirica dei sistemi classificatori secondo generi e specie (come nell’esempio di Linnée, discusso da Kant), come può una tale armonia suscitare l’idea di un’unità secondo massime razionali dei «fenomeni», tale da venire incontro al problema di una legalità della natura che, intesa in senso rigoroso, è per Kant legalità «meccanica», cioè fisico-matematica? E come può, un tale principio, riguardare la questione della «forma interna di un filo d’erba», che non è la sua forma allungata, ma la sua forma-struttura, la cui ignoranza suscita il concetto di fine (KU § 67)? A quanto pare, un tale passaggio può avvenire solo mediante l’analogia di una tecnica della natura, che fa capo alla rappresentazione di un demiurgo intelligente: Fiori, fioriture, anzi l’intera configurazione di piante, l’eleganza delle più diverse conformazioni di animali, inutile per il proprio uso, ma, per così dire, scelta per il proprio gusto; specialmente la varietà e l’armonica composizione, così attraenti e oggetto di compiacimento per i nostri occhi, dei colori (nel fagiano, nei crostacei, negli insetti, fino ai fiori più comuni), i quali, riguardando semplicemente la superficie, e anche in questa neppure la figura delle creature, che, certo, potrebbe anche essere richiesta per loro scopi interni, sembrano avere per scopo nient’altro che la visione esterna e danno quindi gran peso a un tipo di spiegazione mediante l’assunzione di scopi reali della natura rispetto alla nostra facoltà estetica di giudizio (KU § 58, 347-348, corsivi miei).

Ovvero: se la figura esteriore della natura suscita l’idea di una conformità a scopi in generale, allora ci si potrà aspettare accordo nel caso della sua struttura dinamica (chimica, elettrica ecc.) e organica, che è pur sempre un fenomeno naturale; se c’è ordine là, ci sarà anche qui. Ma la posizione di una tale analogia, secondo la rappresentazione di una «tecnica della natura», è pur sempre quella ipotetica e regolativa dell’Appendice alla Dialettica trascendentale, che fa capo all’idea di un autore intelligente della natura, separandola dalla posizione metafisica tipica della fisico-teologia moderna. Di certo lo studio di fenopp. 5-69; E. GARRONI-H. HOHENEGGER, Introduzione, in KANT, Critica della facoltà di giudizio, Torino 1999, pp. Lss.; GARRONI, Immagine linguaggio figura, Roma/Bari 2005.

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meni non propriamente visibili, come quelli dinamici e chimici, o comunque non univocamente legati alla forma apparente, come quelli organici, non sembra poter trarre a rigore nessun sostegno dalla riflessione sulla forma sensibile. Gli esempi sono fin troppo ovvi30. Ora, Kant è ben consapevole della distinzione di approccio che distingue la considerazione estetica da quella teoretica31. Tuttavia, se la prima deve avere un significato per la seconda, non può essere che attraverso la mediazione di uno schematismo libero, libero gioco delle facoltà in occasione della forma; ma i tratti morfologici di un oggetto non sembrano avere nulla a che fare con la forma trascendentale del «fenomeno» nel senso che Kant elabora in riferimento alla scienza moderna: la forma [Form] e la figura [Gestalt], che Kant identifica nel § 30 citato e in molti altri passi – e che ho sempre segnalato tra parentesi nelle citazioni precedenti32 – sono cose diverse, proprio nei casi pertinenti al problema di Kant. Pare con ciò che tutta l’indagine sulla facoltà di giudizio rimanga al livello dell’inferenza analogica. Proprio in questi anni Kant dedicava all’analogia una maggiore attenzione nei suoi studi logici. L’analogia è definita come l’inferenza in base a cui «se due cose concordano sotto tante determinazioni quante 30 Così, la contemplazione del «cielo stellato» poté suscitare fin dall’antichità un piacere e stimolò la ricerca di armonie e corrispondenze. Ma i massimi progressi dell’astronomia moderna vennero ottenuti solo passando per la graduale e faticosa rottura di questo ordine apparente, infine anche con la rinuncia alla forma “perfetta” della sfera. Ancora più banalmente: un fiore può piacere per la forma, ma ciò non dirà molto sul suo funzionamento come organismo né sulla nostra possibilità di comprenderlo. Una balena, d’altra parte, ha l’aspetto di un pesce, il che susciterebbe, nell’apprensione, l’ipotesi di una sua appartenenza al genere dei pesci. Ma essa è un mammifero. D’altra parte, essa può sollecitare un proliferare indefinito di fantasie, raffigurare il muto correlato oggettivo delle più diverse idee e sentimenti, come avviene splendidamente nel romanzo di Melville: tutto ciò, però, senza che nulla si possa ricavare sulle sue leggi strutturali. Solo una osservazione anatomica e, per esempio, lo studio della struttura genetica potranno fornire informazioni in tal senso (peraltro le parti tassonomiche del Moby Dick non hanno evidentemente una funzione didascalica, e esprimono forse proprio la perfezione cosmica di quell’animale da cui i membri della baleniera traggono tutto, dagli utensili al fuoco al nutrimento). 31 Si pensi all’esempio del botanico: KU § 16, 229. 32 Sulla Gestalt cf. ancora: KU § 61, § 64, § 67. Un altro caso di identificazione Form-Gestalt si ha nella citata Refl. 672. Su questa nozione si veda T.E. UEHLING, The Notion of Form in Kant’s Critique of Aestetic Judgement, The Hague/Paris 1971. 33 Logik Dohna-Wundlacken, KgS XXIV, 772.

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ne ho potute apprendere, allora io inferisco che esse concordano anche nelle altre determinazioni»33. Essa presuppone dunque che si trovino determinazioni concordi fra diverse cose, il che implica proprio quel «mostrarsi in accordo» della rappresentazione e quella «comunicabilità universale» delle conoscenze, di cui Kant, nella terza Critica, indaga l’origine estetica. Nel principio della facoltà di giudizio egli non cerca di nuovo una analogia, bensì il fondamento della legittimità dell’analogia della natura, come risulta da una riflessione degli anni ’80: «Le inferenze della facoltà di giudizio sono inferenze immediate? No, alla base di esse c’è un principio della facoltà di giudizio, che cioè i molti senza fondamento in comune non si armonizzerebbero in uno, che quindi ciò che così a questo spetta sarà necessario a partire da un fondamento in comune (analogia induzione)»34. Ma i molti della figura non coincidono con i molti degli oggetti su cui si riflette, secondo schemi fisico-matematici, così come il corpo percepito non corrisponde all’oggetto fisico, l’unità percepita all’unità della sintesi empirica: per cui la mediazione della forma sensibile è impropria. Il problema del presupposto inconoscibile della conformità a scopi della natura, almeno per come è stato impostato da Kant, sembra allora restare intatto. A questo punto possiamo domandarci: come mai Kant incorrerebbe in una fallacia così flagrante? E poi: tornò sul problema? Riguardo alla prima questione numerose considerazioni contribuiscono ad attenuare la conclusione di un semplice errore logico, e addirittura a restituire interesse al ragionamento kantiano. In primo luogo la specificazione del concetto di forma non è mai indipendente, per Kant, dall’apprensione sensibile. La forma, come puro concetto della riflessione, è la determinazione in generale, e come tale, nel contesto del problema di un ordine logico delle conoscenze, diviene equivalente a ‘concetto’, è cioè forma in un senso prossimo a quello leibniziano-aristotelico, rinvenibile nel concetto kantiano di natura formaliter spectata35. Ma lo stesso concetto non è una mera ‘idea’ considerata a prescindere dalla sua genesi empirica, bensì una regola della sintesi; così non solo la coincidenza tra forma e figura, ma anche il passaggio dalla questione delle leggi empiriche a quello delle diver3200 (1780-89), KgS XVI, 709. i numerosi passi in cui ciò è evidente si veda per Erste Einleitung KgS XX, 215. La stessa legge della continuità delle forme, KrV A 659/B 687ss. appartiene a questa tradizione metafisico-teleologica. 34 Reflexion 35 Tra

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se forze, si giustifica in certa misura considerando che per Kant una forza può essere introdotta oggettivamente solo individuando una legge che permetta di spiegare determinati aspetti sensibili nel fenomeno. Si capisce dunque come mai, almeno in linea di principio, Kant possa far coesistere il principio dell’albero dei generi, ispirato alla tassonomia morfologica, con quello dell’unificazione delle leggi empiriche. Esaminando gli esempi scientifici discussi da Kant si trova che egli tiene certamente presente un momento estetico nella stessa pratica degli scienziati della natura. Si prenda il caso fondamentale dell’astronomia. Il collegamento tra forma legale e «Gestalt» compare anche nell’Appendice alla Dialettica trascendentale, dove introduce proprio l’accordo tra le coniche e le forme dei moti planetari come esempio di «continuità delle forme» rispondente alle esigenze della ragione. Questa esigenza avrebbe ispirato il tentativo di trovare una omogeneità tra moti ellittici dei pianeti e moti parabolici delle comete, coronato dal successo con Newton, che li ricondusse a una sola causa (KrV A 663/ B 691). Occorre sottolineare il nesso tra queste ipotesi e la percezione diretta: i «phaenomena» di Newton corrispondono a osservazioni dirette, come quelle che Tycho Brahe faceva addirittura a occhio nudo, e il gioco fra intelletto e immaginazione, nel tentativo di trarre leggi specifiche dall’apparente e indeterminata armonia della natura, procede anche secondo suggestioni figurative. La stessa situazione si presenta con gli esempi tratti dalle scienze naturali come la Naturbeschreibung di Linnée, la Naturgeschichte di Buffon, la botanica. Anche in casi come questi, per un verso, è lo stesso Kant a distinguere tra suggestioni analogiche, offerte da osservazioni morfologiche, e veri e propri principi razionali. Per esempio nei diversi saggi dedicati in questi anni alla questione delle razze Kant distingue tra una specie o «classe» morfologica e la specie naturale vera e propria, «razza» o «ceppo» (Abstammung), in base a considerazioni sull’ereditarietà, che nulla hanno a che fare con la struttura percettiva dei fenomeni in questione, che al limite può risultare addirittura ingannevole36. Ma l’esempio forse più interessante proprio è quel36 Abbiamo già rimandato al saggio Bestimmung des Begriffs einer Menschenrace, KgS VIII, 89-106, in part. p. 100 e n. 37 KU § 58; cf. Erste Einleitung, KGS XX, 217.

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lo dello studio dei cristalli, che tanto rilievo non a caso avrà per la generazione romantica, nel quale Kant trova effettivamente una dipendenza oggettiva tra figura e struttura legale37. Storicamente, poi, la sovrapposizione Form-Gestalt verrà ripresa e amplificata speculativamente da quell’entusiasta lettore della terza Critica che fu Goethe: importante conferma della ricezione che il tentativo kantiano poteva avere nel suo contesto storico. Si è tentati di collegare questo aspetto della riflessione kantiana con le più recenti acquisizioni di molta storiografia e epistemologia del XX secolo, secondo cui analogie, «modelli» e ipotesi figurative costituirebbero un fattore essenziale dell’euristica scientifica38. Dal punto di vista kantiano, tuttavia, si dovrebbe obiettare che tutto questo rientra

38 Gli studi relativi a modelli e analogie nel pensiero scientifico, sia sul piano storico sia su quello epistemologico, costituiscono ormai un aspetto fondamentale delle ricerche sul sapere scientifico, che è vano cercare si risolvere con poche indicazioni bibliografiche. Tra i bilanci più recenti si può vedere G. HOLTON, Come superare i limiti della scienza. Una prospettiva storica, in P. DONGHI (a cura di), Limiti e frontiere della scienza, Roma/Bari 1999, pp. 3-19, che tocca anche il problema della scoperta scientifica. Su un nesso teorico tra analogie e «logica della scoperta» torna di recente CELLUCCI, Le ragioni della logica, pp. 367-382. 39 Da questo punto di vista epistemologico, dunque, la libera regolarità sensibile nella bellezza, non è propriamente significativa, al punto da poter costituire una qualche “anticipazione” dell’ordine legale della natura, ma è come una libera prefigurazione di un ordine da istituire, si potrebbe forse dire, con Kant, un’“idea estetica”: «La bellezza (sia la bellezza della natura, sia quella dell’arte) può essere detta in genere espressione di idee estetiche» (KU §51, 204). Su una simile funzione di anticipazione dell’esperienza estetica si soffermava già GARRONI, Estetica e epistemologia, p. 89, parlando di «una sorta di inevitabile anticipazione, riscontro, abbreviazione e totalizzazione della conoscenza». Il punto dubbio sta precisamente nell’ipotesi che essa costituisca una vera e propria «anticipazione» della conoscenza, nella misura in cui si è mostrato almeno dubbio che la Stimmung occasionata dalla forma sia «una sorta di condizione preliminare per ogni possibile unificazione (conoscitiva o estetica)». D’altra parte, non è senz’altro preferibile un’interpretazione che distingua, come «due vie» radicalmente diverse, l’atteggiamento estetico e quello scientifico, come suggerisce C. BRANDI, Teoria generale della critica nella sua distinzione fra «astanza» e «semiosi», e in particolare fra venire in luce del «referente» e analisi della «matrice esistenziale». Il ripensamento in tal senso di GARRONI, Immagine, linguaggio figura, che distingue un piano delle «immagini-schema» da quello della conoscenza, articola la questione in maniera più soddisfacente. Nella terza Critica si pone comunque, insieme al problema della articolabilità logica delle sensazioni concrete, anche quello dell’espressione non matematica dei concetti fisici. La questione è se conoscenza scientifica e

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nel campo di quelle analogie di cui egli cercava un fondamento trascendentale, senza contentarsi di un fondamento puramente ipotetico39. Infine è significativo che Kant piuttosto che contentarsi della sua riflessione sulla forma estetica, svolgesse nell’Opus postumum, sugli stessi concetti scientifici (corpi in genere, cristalli, organismi ecc.), una nuova riflessione di carattere logico. Nelle riflessioni sulla fisica e sul sistema della natura, a partire dai fogli più organici sul «sistema elementare», si trova una fondamentale suddivisione tra un momento «soggettivo» e «formale» del sistema della natura, corrispondente al sistema elementare delle forze, e un «momento oggettivo», il cui esempio è proprio Linnée. Per quanto riguarda le stesse proprietà che sovrintendono alla configurazione plastica della materia, e dunque appartengono a questo momento «formale», come abbiamo visto, la ricerca di un nuovo schematismo della facoltà di giudizio non presenta alcun riferimento al principio estetico della terza Critica40. L’indagine sul principio trascendentale dell’armonia, che piacerà a molti tra i primi interpreti, resta separata e indipendente da quella di una nuova logica della scienza della natura, rimasta inedita, che tanti inconsapevoli echi trova nelle ricerche degli epistemologi di orientamento kantiano tra i secoli XIX e XX.

esperienza comune corrispondano a due processi irrimediabilmente inconciliabili; e se dunque nelle equazioni differenziali della fisica matematica stia riposto un senso esprimibile col concorso di immagini e concetti non matematici, o se il mondo della scienza matematica non debba essere colto piuttosto attraverso un salto logico, preparato dallo studio ma incomunicabile e solo impropriamente riferibile attraverso veicoli sensibili. 40 Su questo passaggio si vedano anche le considerazioni di FRIEDMAN, Kant and the Exact Sciences, pp. 316-341 e MATHIEU, L’opus postumum, pp. 288-298.

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Figure

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Figura 2

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Figura 3

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Figura 4

Figura 5

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Figura 6

Figura 7

Figura 8

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Indice bibliografico

L’elenco contiene i testi utilizzati e citati nel libro, senza pretendere di fornire indicazioni esaustive sulle fonti e sull’enorme letteratura dedicata alla filosofia della natura di Kant. I riferimenti nel testo sono sempre alle edizioni in lingua originale. Le traduzioni disponibili, quando utilizzate, sono indicate qui sotto tra parentesi. Fornisco separatamente, in coda, un elenco delle traduzioni di testi filosofici e scientifici che sono servite di riferimento in caso di citazione. Tutte le traduzioni sono state controllate sugli originali e in molti casi modificate. CGW A CLC GM GP EOO KgS

E. CASSIRER, Gesammelte Werke, hrsg. von B. Recki, Hamburg 1998-2009. G.W. LEIBNIZ, Sämtliche Schriften und Briefe, hrsg. von der Akademie der Wissenschaften zu Berlin, Leipzig/Berlin 1923 ss. Correspondance Leibniz-Clarke, présentée d’après les manuscrits originaux des bibliothèques de Hanovre et de Londes per A. Robinet, Paris 1957, 19912. G.W. LEIBNIZ, Mathematische Schriften, hrsg. C.J. Gerhardt, Berlin/Halle 1849-1863, rist. Hildesheim 1963ss. G.W. LEIBNIZ, Die philosophischen Schriften, hrsg. von C.J. Gerhardt, Berlin 1875-1890, rist. Hildesheim/New York 1978. L. EULER, Opera omnia, Leipzig/Berlin/Basel 1911ss. I. KANT, Kants gesammelte Schriften, hrsg. von der Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften (und Nachfolgern), Berlin 1900ss.

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Indice dei nomi

Abbri, 363. Adams, 45, 58, 136. Adickes, XIII, XVIII, 4-5, 154, 157, 167, 174, 253, 350, 371, 403-404, 431, 440, 481, 490, 511, 513, 529, 546, 577, 583, 603, 633, 655, 667-670, 672-674, 685, 695, 702, 707, 710-711, 792. Aepinus, 174. Alessio, 259. Allison, 145. Americks, XIV, 145. Archimede, 364, 628. Aristotele, 57, 218, 556, 652. Arnoldt, 4, 668. Baader, 368, 691. Bacon, 312-313, 316, 360, 377, 776. Barone, 377. Bassura, 660. Baumgarten, 10, 12, 24, 60, 78-79, 90, 99, 103, 121, 128, 162, 180182, 341-342, 428-430, 463, 517, 814. Bayle, 92, 212, 254. Beck L.W., 170, 801. Beck J.S., 36, 158, 268, 577, 677, 682, 727. Beeson, 85. Béguelin, 66.

Beiser, 36. Bellone, 174, 361. Bentley, 43, 493, 551. Berkeley, 43, 60, 71, 152, 212, 214, 246, 255, 268, 790. Bernhard, 34. Bernoulli, Johann, 32, 496. Bernoulli, Johann [III], 27. Bilfinger, 11-12, 66, 83, 496. Black, 690. Blasche, 723. Blumenbach, 237, 283. Blumenberg, 311-313. Boerhaave, 62, 287, 365-366, 710. Boniolo, 170. Bonnet, 287, 800. Bonsiepen, 494. Borowski, 14, 690. Boscovich, 1, 252, 255, 513-515, 517, 521, 527, 529-530, 541, 547, 603, 700, 710. Boyle, 108, 291, 360, 363, 377, 499, 507, 578, 600, 699. Bradley, 21. Brahe, 819. Brandi, 815, 820. Brandt, 269. Bricker, 349, 441. Bridgman, 782. Brittan, 374, 563, 592.

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Bruno, 728. Buchdahl, 31, 170, 240-241, 334, 352, 374-376, 557, 563, 592, 801. Buchenau, 668. Budenz, 44. Büchel, 757. Buffon, 5, 62, 324, 689, 819. Buroker, 119. Burtt, 376. Butts, 334, 352, 374, 563, 609. Caballero Sánchez, 10. Calinger, 21. Campo, 9-10, 76, 106, 177, 182. Canone, 203. Cantor, 685. Capozzi, 95, 155, 166, 203, 566, 649, 692. Carboncini, 66. Carnap, 390, 790. Carrier, 363, 365, 494, 510-511, 552, 558, 596, 609, 723, 747. Casini, 82. Cassirer, XI, XIII, 45, 48, 57, 67, 218219, 276, 352, 371, 377, 403, 474, 493, 528, 612, 642, 651. Castellani, 628. Casula, 10. Cataldi Madonna, 66. Cellucci, 155, 304, 820. Charrak, 108. Châtelet, 20, 32, 48, 295. Chladny, 705. Clairaut, 21. Clarke, 11, 17, 40-41, 44-46, 50-51, 53, 71, 81, 102-103, 129, 133, 140, 295-297, 554, 576, 612-613, 628, 650-651, 660. Cohen H., 31, 218-219, 255, 336. Cohen I.B., 44, 304, 346-347, 493, 510, 544, 554, 600, 616. Conti, 130. Copernico, XII, 310-312, 353, 648, 776.

Cotes, 43, 252, 295-296, 493, 496, 500, 550-551. Coulomb, 174. Couturat, 52. Cover, 53. Cramer, 340, 378, 426, 471. Crawford, 689-691. Crusius, 13, 22, 79-81, 85-86, 95, 113-115, 118, 122, 131, 138, 163, 177, 287, 305, 484, 495. Cudworth, 108. Cusano, XI. D’Alembert, 23, 32, 493, 730. Daval, 776. Debus, 42. De Flaviis, 744. Democrito, 250, 503. De Risi, 45, 57. Des Bosses, 48, 50-51, 53, 55, 5758. Descartes, 41, 56, 107, 142, 152, 218, 250, 291, 327, 377, 404, 426, 455, 473, 476-478, 489, 499-500, 503, 551, 556, 627, 725. Dessoir, 494. De Volder, 48, 53, 55-56. Diderot, 296. Dietrich, 62. Di Giovanni, 744. Dini, 728. Dionigi Areopagita, 728. Di Salle, 349. Donghi, 820. Dorato, 170, 362, 800. Dosch, 474. Duhem, 403, 493, 642. Duncan, 374. Dutens, 58, 66. Eberhard J.A., 36, 47, 288, 361. Eberhard J.P., 352-354, 399, 451, 468, 484. École, 11, 66, 78. Eddington, 612.

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Edwards, 210, 765. Einstein, 21, 276, 350, 445, 617. Emundts, 747. Engfer, 66, 304. Epicuro, 733. Erdmann, 10-11, 32, 206. Erxleben, 352-355, 357, 440, 495, 541, 618, 691. Euclide, 350. Euler, 5-6, 15-16, 20-22, 32, 37, 77, 82-84, 99, 111, 119, 127, 295, 349, 351, 357-358, 362, 366, 377, 400-401, 404, 440-441, 450, 455, 473, 492, 494-496, 499-500, 541, 543, 615, 617-619, 686, 688, 711. Fabbrizi, 266. Falkenburg, 9, 30, 201, 305, 338, 343. Falkenstein, 145, 434. Fechner, 255. Feder, 36, 420. Ferrarin, 790. Ferrini, 692. Fichte, 36, 158, 726-727, 741, 787. Fischer Ch.G., 128. Fischer H.-P., 6. Fischer K., 669, 674. Formey, 16, 250, 255. Förster, XV, 197, 272, 540, 668, 670672, 676-677, 680, 682, 702, 717, 720, 727, 738, 742, 744, 747-748, 768, 771, 786, 792. Foucher, 59, 92, 254. Frege, 201, 350, 389-391. Freind, 77, 252. French, 58. Friedman, XV, XVIII, 9, 31, 98, 117, 170, 172-173, 197, 239, 352, 363, 376-378, 383, 417, 441, 467, 528, 557, 589, 609, 678, 682, 691, 701, 707, 709-711, 738, 747, 756, 769, 796, 801, 821. Fries, 350, 494. Fulda, 738.

Funkenstein, 327. Futch, 53, 92. Gabbey, 42. Galilei, XI-XII, 218, 312-313, 316, 341, 351, 364, 469, 478, 642, 686, 728, 776. Galvani, 571. Garber, 46, 474, 651. Garin, XII-XIII. Garroni, 259, 807, 816, 820. Garve, 7, 36, 675. Gauss, 377, 559. Gehler, 262, 363, 368, 485, 488, 490, 690, 710-711, 722-723, 768. Gent, 45, 67. Gerhardt, 30. Geymonat, 571. Giere, 494. Giusti, 362. Gloy, 165, 378, 426. Goethe, 820. Gottsched, 13, 66, 77-78, 101. ’sGravesande, 108, 359, 495. Gren, 368, 580. Grillenzoni, XVIII, 476. Guericke, 660, 686. Guerlac, 610. Gueroult, XVI, 109, 338, 474, 476477, 479, 483. Guicciardini, 304, 359. Guyer, 31, 145, 170, 266-267, 270, 589, 748, 801. Hagen, 690. Hall, 42. Hamberger, 481, 495. Harman, 374, 494, 528, 611, 618. Harper, 347. Hasse, 670. Hatfield, 790. Hauksbee, 44, 174. Hartmann, 66. Hartz, 53.

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Hegel, 7, 57, 207, 290, 344-345, 350, 494, 612. Heidegger, XIII, 207. Heilbron, 363, 685, 696. Heimann, 293, 494. Hellwag, 629. Helmholtz, 471, 494, 611. Helvetius, 296. Herbart, 529, 792. Herder, 80, 279, 283, 285, 745, 793. Hermann, 447. Herrissone-Kelly, 146. Herschel, 688-689. Hertz, 403. Herz, 727. Hesse, 374, 445. Hilbert, 471. Hobbes, 426. Hodge, 685. Hoffmann, 378. Höfler, 338, 648. Hofmann, 287. Hogarth, 815. Hohenegger, 816. Holbach, 296. Holland, 118, 130. Holton, 820. Holzey, 165, 341. Hooke, 89, 360, 542. Hoppe, 383, 426. Hughes, 349, 441. Hume, 122, 170, 188, 290, 298, 802. Husserl, 240. Hutton, 42. Huygens, 32, 152, 172-173, 351, 448, 464, 482, 554, 633-635, 650-651, 686, 767. Jachmann, 7, 690. Jacobi, 36, 289, 740, 743, 779. Jakob, 136, 150, 158. Jammer, 476, 494, 513, 616-618, 633, 636. Jenisch, 369. Jolley, 48, 293, 474.

Justi, 84. Karsten, 353, 690, 706. Kästner, 23, 142, 353, 357-359, 484, 723, 730, 741. Kaulbach, 417. Keill, 15, 20, 77, 89, 252, 493, 496, 542, 567. Kepler, 172-173, 345, 553, 615-617, 620, 767, 776. Kiesewetter, 7, 369, 675, 793. Kitcher Ph., 374. Knight, 252, 493. Knutzen, 5, 9-11, 13, 15, 32, 77-78, 82, 88, 90, 93, 130. König, 56. Koyré, 6, 17, 41, 347, 551, 554, 560, 700. Krause, 669. Kuehn, 5, 6, 14. Kuhn, XVI, 312, 361, 376, 611. Lakatos, 374. Lambert, 6, 22, 27, 69, 95, 115, 118, 122, 125, 130, 132, 251, 278, 288, 319, 338, 447, 474, 498-499, 501, 541, 591, 643. La Mettrie, 124, 296. Langton, XIV, 150. Lanson, 295. Laplace, 21, 358, 377, 496, 690. Lasswitz, 403. Lauth, 345. Lavoisier, 325, 362-366, 368, 690691, 709-710, 756, 793. Law, 252. Lefèvre, 358. Lehmann, 354, 420, 668, 705, 776. Leibniz, XIV, XVI, XVIII, 10-11, 14, 1619, 23, 32, 37, 39-41, 43, 45-86, 88, 90-93, 102, 105, 108, 115116, 120, 123-124, 127, 129, 133-134, 139-142, 152, 175-176, 179, 211-214, 246, 248, 292-293, 305, 327, 338, 350-351, 358, 377,

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400-401, 448, 473-483, 485-487, 495-497, 501, 506, 508, 512, 514, 517-518, 522, 551, 553-554, 575, 612-613, 615, 621, 627-628, 634, 650-652, 656, 660-661, 741, 792, 800, 803, 814. Leonardo, XI. Le Sage, 345, 495-496. Leucippo, 250. Lichtenberg, 262, 495-496, 691, 742-744, 793. Lind, 352, 355, 495. Linnée, 324, 816, 819, 821. Locke, 122, 251, 290-295, 297-298, 338, 498-499, 554, 699. Longuenesse, 46. Loria, 660. Lotze, 529. Lovejoy, 170. Ludovici, 66. Luporini, 343. Mach, 493, 636-642, 648, 800. Mahnke, 529. Maimon, 727, 740-742. Malebranche, 41, 108, 130, 135, 138, 254. Mamiani, 259, 362. Manteuffel, 66. Marcucci, XVI, 377. Mariotte, 578. Martin, XIV. Massimi, 174, 783. Mathieu, XIV, 217, 309, 668-669, 739, 747, 750, 757, 770, 776, 782, 821. Maupertuis, 16-20, 32, 37, 45, 57, 82, 84-86, 89, 107-109, 112, 123124, 246, 287, 293-295, 297-299, 480, 496, 542, 558, 567. Maxwell, 403, 445. Mayer, 262, 368, 511, 711. McGuire, 42, 293. McRae, 48. Meier, 60.

Mellin, 742. Melville, 817. Mendelssohn, 136, 158, 288, 305, 514, 740. Metzger, 710. More, 40-43, 53, 127, 400, 654, 661, 725, 728. Moretto, 359. Mormino, 51. Morris Engel, 311. Morrison, 174. Most, 474. Mugnai, 150, 176, 650. Musschenbroeck, 108, 359, 495, 503. Newton, XI-XII, XVIII, XXI-XXII, 7, 1415, 17-23, 40, 42-44, 76-77, 85, 94, 108, 113, 115, 120, 127, 129130, 136, 152, 170, 172-173, 214, 234, 258, 286, 291-292, 294-297, 299-302, 304-308, 310, 312, 315317, 343-347, 349-353, 355, 357361, 364-367, 371, 375-376, 400401, 440-441, 450, 454, 464, 474, 481, 487-495, 499-500, 503, 510, 514-515, 518, 525-527, 531, 536, 542-546, 548-553, 555-557, 559560, 570, 575-576, 578-579, 591592, 599-602, 606, 609, 613, 615-620, 622, 633, 637-638, 646648, 650, 652-653, 656, 660, 678, 686-687, 693-694, 700-701, 723, 725, 728, 730, 745, 756-757, 767, 774, 776, 798, 803, 819. Nidditsch, 290. Nordmann, 528. Øersted, 528. Okruhlik, 592, 618. Oldenburg, 360. Olivier, 311. Oresme, 312. Orfeo, 794. Ostwald, 370.

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Palter, 647. Pappo, 304-305. Parsons, 378. Pascal, 546. Pasini, 51. Paton, 309. Pecere, 155, 276. Piro, 51. Plaass, 371, 377-391, 394-395, 398, 426, 467, 558. Platone, 117. Plouquet, 101. Poggi, 345, 368. Pollok, XIX, 197, 307, 310, 368, 378, 403, 420, 450, 459-460, 499, 511, 529, 542, 577, 591, 603, 618, 627. Popper, 374. Priestley, 252. Proust, 337. Puigcerver Zanón, 10. Pulte, 358. Ràbade Romeo, 10. Raphson, 43. Raspe, 66. Rehberg, 266. Reichenbach, 148, 351. Reicke, 668. Reid, 790. Reinhard, 81. Reinhold, 36, 181-182, 200, 279, 288, 309, 400, 740-741, 743, 787. Rémond, 51. Reusch, 13. Ricci, 660. Richter, 706. Ricoeur, 207. Riemann, 471, 792. Righini Monelli, 42. Rink, 711-712. Rømer, 445. Rohault, 627. Rossi, 174, 361, 776. Rudolph, 474.

Russell, 350, 390. Rutherford, 45, 51, 56, 58, 175. Sandifer, 21. Scaravelli, 309, 678, 796, 809-810, 814. Schäfer, 378, 431. Schelling, 5, 7, 207, 344-345, 350, 369, 494, 528, 728, 742, 744. Schlettwein, 742. Schlick, 494. Scholz, 350. Schonfeld, 9, 16, 88. Schroeder, 21. Schütz, 204, 321, 336. Schultz, 306-308, 466, 740-742. Schulze, 36, 141, 268, 740-741, 779780. Schwab, 367, 496, 506. Selle, 792. Shea, 42, 592, 618. Silberschlag, 687. Smith, 44, 304, 347, 616. Sömmerring, 711, 788. Sofia Carlotta, 48. Spinoza, 41, 43, 54, 108, 130, 138139, 203, 275, 289, 377, 426, 739-740, 743-744. Stadler, 371, 403. Stahl, 287, 313, 325, 362-364, 706. Stark, 4, 269, 495. Stillingfeet, 554. Stolzenberg, 738. Suàrez, 10. Swedenborg, 129, 285. Tammy, 42. Teeteto, 780. Teske, 32. Tetens, 288. Thackray, 363, 494, 710. Thomasius, 621. Thomson, 611. Tiedemann, 780. Tiefrunk, 726-727.

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Tonelli, XIV, XVI, 9, 16, 66, 80, 82, 8485, 89, 95, 106, 108, 114, 290, 514, 542, 814. Torretti, 514, 528. Torricelli, 313, 364, 660, 686, 776. Totaro, 692. Tuschling, 210, 262, 368, 374, 563, 571, 667, 672, 677, 680, 702, 720, 738. Uehling, 58, 817. Ullmaier, 513-515. Ulrich, 36, 306-307. Vaihinger, 669. Valente, 692. Vasconi, 691. Vassallo, 362. Virgilio, 794. de Vleeschauwer, 309. Voltaire, 20, 32, 44, 58, 294-295, 613 Vuillemin, XIV, 327, 371, 459, 467, 470-471, 540-541, 542, 599, 636, 649. Walker, 379. Ward, 222. Warda, 41, 283, 294, 357, 359, 447, 450, 495, 542, 690. Warren, 501. Washburn, 206, 378. Waschkies, 5, 76.

Wasianski, 670. Watkins, XIV, 10, 146, 197, 363, 378, 501, 510, 610. Weizsäcker, 387. Westfall, 42, 464, 474, 488, 494, 510, 542, 554, 559, 634. Westman, 42. Westphal, XV, 146, 210, 241, 266, 614. Wettstein, 58. Weyl, 276, 494. Whitman, 44. Wilcke, 690. Williams, 494. Winckelmann, 815. Wolff Ch., 9-12, 19, 23-24, 37, 56, 59-60, 65-83, 98, 101, 108, 115, 116, 142, 161-163, 175-177, 180182, 211, 214, 304, 325, 338, 353-359, 392, 399-401, 455, 481, 484, 486, 495, 517, 634, 731, 741, 782. Wolff M., 410. Wong, 275, 745. Wood, 374, 378. Wright of Durham, 5. Wundt, XIV. Wuttke, 66. Young, 611. Zenone, 75, 254.

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biblioteca filosofica di Quaestio volumi pubblicati

1. L’idea rovesciata Schelling e l’ontoteologia di Giusi Strummiello

2. Il Sé che cambia L’anima nel tardo Neoplatonismo: Giamblico, Damascio e Prisciano di Carlos Steel

3. Una ontologia dialettica Fondamento e autocoscienza in Schleiermacher di Giovanna D’Aniello

4. La controversia sugli indios Bartolomé de Las Casas Juan Ginés de Sepúlveda a cura e con un’Introduzione di Saverio Di Liso

5. Verità e attualità La filosofia dell’intelligenza in Xavier Zubiri di Paolo Ponzio

6. Avicenna e la tradizione aristotelica Introduzione alla lettura delle opere filosofiche di Avicenna di Dimitri Gutas

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7. Dio, la vita, il nulla L’evoluzione creatrice di Henri Bergson a cento anni dalla pubblicazione a cura di Giusi Strummiello

8. Da Giamblico a Eriugena Origine e sviluppo della tradizione pseudo-dionisiana di Stephen Gersh

9. L’educazione del principe cristiano Erasmo da Rotterdam a cura di Davide Canfora

10. La filosofia della natura in Kant di Paolo Pecere

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