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Italian Pages 128 [129] Year 2018
il pensiero e il suo schermo Collana diretta da Giancarlo Chiariglione
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la filosofia nell’epoca della sua riproducibilità cinematografica
In copertina:
Il volto di Django Freeman (Jamie Foxx) in una scena del film Django Unchained, 2012, scritto e diretto da Quentin Tarantino.
Alessandro Alfieri, Dal simulacro alla Storia. Estetica ed etica in Quentin Tarantino
ISBN 978-88-7588-218-1 2018
editrice
petite plaisance
Associazione culturale senza fini di lucro Via di Valdibrana 311 – 51100 Pistoia Tel.: 0573-480013 www.petiteplaisance.it e-mail: [email protected]
Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada. Eraclito
Alessandro Alfieri
Dal simulacro alla Storia Estetica ed etica in Quentin Tarantino
petite plaisance
A Valerio e Ivano e all'eternità della Piccola Abbazia.
Introduzione Il presente volume è dedicato a quella che probabilmente è l’icona più celebre e influente dell’immaginario culturale contemporaneo, oltre che del cinema degli ultimi decenni. Quentin Tarantino infatti, attraverso una manciata di film, è riuscito da un lato a riflettere al meglio le tendenze caratteristiche della postmodernità, dall’altro però la sua grandezza sta nel fatto di essere riuscito a rinnovare il suo stile e la sua poetica in base alle esigenze che la nuova società ha imposto a partire da eventi di impatto gigantesco che hanno stravolto norme e convenzioni dei passati decenni. Tarantino ha infatti attraversato col suo cinema l’instaurarsi di una nuova cultura popolare basata sul consumo massificato e sulla spettacolarizzazione, ma anche l’affermazione dei nuovi strumenti di comunicazione (la diffusione della cultura del web e della serialità narrativa), per non parlare di come il suo cinema si sia rapportato agli attacchi dell’11 settembre e alla crisi economica del 2007. Questo per sottolineare come l’opera del regista non si limiti esclusivamente a riflettere e a restituire un orizzonte già consolidato, ma sia diventata una potente macchina dell’immaginario in grado essa stessa di direzionare e di influenzare la cultura. Un potere perciò riflessivo, ma anche fondativo del mondo che ci troviamo a vivere oggi, immersi in un flusso ininterrotto di messaggi e di stimolazioni audiovisive. Per arrivare a ricoprire questo ruolo, Tarantino ha dovuto in più occasioni mettere in discussione se stesso, tanto da passare dall’essere uno dei cavalieri più significativi del postmodernismo al recupero di una sensibilità tipicamente moderna: se infatti la pratica “citazionistica” della sua estetica simulacrale – simulacrale perché, come vedremo, tautologica nell’invenzione di un universo che si alimenta di cinema e all’interno dei confini del cinema si sviluppa – resta una firma distintiva dell’autore, è anche vero però che la seconda fase della sua produzione testimonia un’esigenza (dettata dalle condizioni socio-politiche attuali) di passare dal simulacro alla Storia, ovvero dal divertissment autoappagante capace di soddisfare le esigenze libidiche dello spettatore, al contenuto di matrice morale 7
Introduzione
e critica. Questo è un passaggio complesso dal momento che non si tratta di fasi contrapposte, ma di un confluire della prima (la dimensione simulacrale) nella seconda (il riferimento alla Storia), offrendo una visione della Storia “simulacrale” in quanto anch’essa da subita intessuta e impregnata dalla finzione cinematografica. Riflettere sul cinema di Tarantino da una prospettiva filosofica significa fare emergere problematiche e tendenze della cultura visuale degli ultimi decenni; la bibliografia critica sul regista di Knoxville infatti, a livello internazionale, è particolarmente nutrita, ma l’esercizio filosofico rappresentato dal presente libro non intende esaurire in maniera compiuta tutte le implicazioni della sua produzione filmica, quanto rileggere e analizzare tale produzione considerandola alla base di una tesi o idea: si tratta dell’esigenza da parte del cinema di infrangere la chiusura autoreferenziale che aveva caratterizzato il postmodernismo, senza però scadere nel didascalismo che, ad oggi, sarebbe completamente inutile e inefficace. Partendo da considerazioni di ordine generale sul significato che categorie basilari quali quelle della violenza esibita e della temporalità frantumata, e attraverso una comprensione del cinema “di genere” degli ultimi anni (così importante per la definizione dello stile tarantiniano), il saggio evidenzia come lo scarto e la svolta sia avvenuta nel 2009, ovvero dopo Kill Bill e Death Proof, rappresentanti ideali del cinema simulacrale già avviato nei film precedenti. Con Inglorious Basterds e Django Unchained, Tarantino “complica” il suo cinema, senza rinnegare il passato: la Storia che irrompe nel suo immaginario passa attraverso quell’estetica del simulacro da lui stesso rappresentata, fondata e potenziata all’estremo. Questo approccio mette in evidenza come il rapporto tra simulacro e Storia, tra godimento e morale, implichi da subito anche il problema, centrale nell’estetica moderna e contemporanea, del rapporto tra arte e vita, tra immagine e realtà. Questo volume perciò intende non tanto offrire un ulteriore contributo critico nell’ambito degli studi su Tarantino, quanto proporre degli spunti di riflessione filosofica a partire dall’opera del regista americano, adottando quest’ultima come un trampolino di lancio verso una comprensione di più ampio respiro della nostra contemporaneità.
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Capitolo I
Violenza, vendetta e alterità dopo l’11 settembre Per comprendere il cinema di Tarantino non può venire trascurato il fatto che, come crocevia delle due differenti stagioni della sua opera, si ponga l’evento assoluto che ha sconvolto la storia contemporanea, ovvero gli attacchi terroristici dell’11 settembre: «L’11 settembre, com’è noto, è considerato un momento spartiacque anche perché sembra rimettere in moto la Storia: l’attentato alle Twin Towers segna “the end of the end of history” e, per quanto riguarda un certo cinema americano, la presa di coscienza dell’irreversibilità della crisi del postmodernismo che ne aveva caratterizzato la produzione di punta da almeno vent’anni»;1 come ho dimostrato esaurientemente altrove,2 in un modo o nell’altro tutto il cinema americano post-11 settembre può venire interpretato come determinata modalità di reazione all’evento, che viene messa in atto in maniere più o meno esplicite (ma il più delle volte, implicitamente). Il passaggio dal simulacro alla storia simulacrale, dal mero godimento all’etica, non sarebbe avvenuto se Tarantino non avesse fatto esperienza dell'accaduto, seppur non si tratti mai in lui di fare riferimento all’evento dell’11 settembre, di tentare di elaborare il trauma o di reagire attraverso l’immaginario in maniera muscolare seppur fantastica. È il caso per esempio di un film cult come 300 (2007): ispirato a una fortunata graphic novel, il film di Zack Snyder ricostruisce le vicende delle Termopili e delle eroiche gesta del re spartano Leonida. Per questa ragione, l’universo narrativo di 300 non è per intero frutto della fantasia e dell’immaginazione dei suoi autori: la fonte è un evento storico realmente accaduto, che ha ispirato l’arte per secoli e che è stato raccontato da alcuni classici della storiografia classica. M. Pollone, Lincoln, Griffith e noi, ovvero: Rinascita di una nazione?, in G. Carluccio (a cura di), America oggi, Kaplan, Torino 2014, p. 103. 2 Cfr. A. Alfieri, Cinema, mass media e la scomparsa della realtà. Immagini e simulacri dell’11 settembre, Alboversorio, Milano 2013. 1
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Capitolo I
Questa storia viene ricostruita assumendo un significato allegorico relativo al nostro presente, anche perché piuttosto che ambientarlo in una ricostruzione scenografica, il regista sfrutta le più sofisticate tecniche digitali per amplificare il senso di stilizzazione fumettistica e di estetismo astratto. I personaggi storici diventano supereroi, in un processo inverso rispetto ai film dove delle creazioni fantastiche, col fine di aumentare il senso di verosimiglianza, si calano nella Storia e si spacciano per personaggi che “sarebbero potuti essere”. Diventa evidente la centralità dell’elemento coreografico e visivo rispetto a quello morale: «La rappresentazione cinematografica della battaglia delle Termopili esemplifica adeguatamente uno scenario simbolico e produttivo sempre più diffuso nel cinema statunitense post-9/11: una chiusura del discorso sui propri componenti intuitivi, una sottomissione ai materiali compositivi»;3 infatti, lo stile iperformalistico ed espressivamente astratto cela una dimensione di significato specifica: «The effect produced is that of “true reality” losing its innocence, appearing as part of a closed artificial universe, which is a perfect figuration of our social-ideological predicament».4 L’orizzonte autoreferenziale di impatto visivo incarna una complessa struttura ideologica che merita attenzione: la storia viene sfruttata e plasmata a piacimento per assumere posizioni rigorose sulla storia presente, e l’eroicizzazione di taluni protagonisti rispetto ad altri partecipa a tale pratica: «Scegliere, tra le tante possibili, una “licenza poetico-storica” non è mai un’azione neutra e innocente».5 A fondamento dello spettacolo visivo e di azione di 300 vi è un chiaro riferimento alle tensioni internazionali derivanti dall’11settembre, per questo il film diventa una pericolosa messa in immagine dell’odio e della repulsione per l’Altro: Sparta è l’America della “War on Terror”, è gli Stati Uniti e quindi, per mezzo di un’altra figura retorica (sineddoche: dire la parte per intendere il tutto), l’intero Occidente minacF. Pitassio, Dopo la correttezza politica? Ovvero: la quantità influenza la qualità, in L. Gandini e A. Bellavita (a cura di), Ventuno per undici. Fare cinema dopo l’11 settembre, Le Mani, Genova 2008, p. 144. 4 S. Žižek, The True Hollywood Left, http://www.lacan.com/zizhollywood.htm. 5 Wu Ming 1, Allegoria e guerra in 300, in «La Valle dell’Eden», Dossier: Americana. Cinema e televisione negli Stati Uniti dopo l’11 settembre, IX, no. 18 (2007), p. 27. 3
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Violenza, vendetta e alterità dopo l’11 settembre
ciato dai mostri. Atene è solo nominata ed è l’Europa. Gli efori – luridi, corrotti, vecchiacci – hanno un ruolo simile a quello dell’ONU, con le sue risoluzioni e i vari “cessate il fuoco” (le Carnee), tutti bastoni tra le ruote degli USA. La Persia è l’islam, è l’Iran, è Al Qaeda, ed è anche la Cina […]: il pericolo è pan-asiatico.6
La grande sacrificata è perciò la Storia, ovvero l’attenzione nei confronti del rispetto di ciò che è realmente accaduto e che le fonti (prima fra tutte le Historiae di Erodoto) ci hanno tramandato. Se le intenzionalità sono di ordine “spettacolare” e politico, allora tutto può essere sacrificato e ricostruito ex novo, dal profilo dei personaggi, alla ricostruzione dei fatti, ai reali contesti e significati morali e storici. Come afferma Pitassio, l’interpretazione diretta e più diffusa del film sembra chiara: Da un lato un sovrano illuminato, esito della meritocrazia spartana, alla testa di un manipolo di coraggiosi prescelti, baluardo nella difesa della democrazia occidentale. Dall’altro un tiranno per diritto divino, a capo di un esercito sterminato costituito da figure fanatiche e sostituibili, invasori di una nazione indipendente per volontà di un sovrano vanitoso e crudele. Da una parte l’Occidente, nelle sue componenti più responsabili e virili. Dall’altra l’Oriente, nei suoi aspetti più irrazionali e passivi.7
Ora, per comprendere a fondo la pellicola, dobbiamo farci carico della dinamica dialettica ad essa intrinseca, perché è effettivamente «limitato lo sforzo di fantasia per leggere nelle armate persiane l’orda islamica».8 Come afferma Žižek, 300 «[...] was attacked as the worst kind of patriotic militarism with clear allusions to the recent tensions with Iran and events in Iraq – are, however, things really so clear? The film should rather be thorougly defended against these accusations».9 D’altronde, ������������������������������������������������������ a invadere un territorio sovrano sono stati gli americani, e le popolazioni del luogo hanno posto resistenza. Ivi, p. 21. F. Pitassio, Dopo la correttezza politica? Ovvero: la quantità influenza la qualità, cit., p. 143. 8 Ibid. 9 S. Žižek, The True Hollywood Left, cit. 6 7
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Capitolo I
Ma soprattutto, il filosofo sloveno ci tiene a sottolineare come 300 faccia emergere il male tipico dell’ideologia americano-occidentale: si tratta di esaltare le gesta di guerrieri valorosi, cavalieri della libertà e della Ragione occidentale, ma tali principi sono espressi in maniera quantomeno ambigua: […] what about the apparent absurdity of the idea of dignity, freedom and Reason, sustained by extreme military discipline, including of the practice of discarding the weak children? This “absurdity” is simply the price of freedom – freedom is not free, as they put it in the film. Freedom is not something given, it is regained through a hard struggle in which one should be ready to risk everything.10
D’altronde, è soprattutto il cinema di genere, punto di riferimento costante di Tarantino, a registrare in maniera evidente l’effetto che sull’immaginario hanno avuto gli attacchi del 2001. Come vedremo, un discorso simile lo faremo a proposito dell’evoluzione e della trasformazione della “forma-western”, ma una digressione merita in questa occasione uno dei generi privilegiati da Tarantino, ovvero quello dell’horror. Tra i generi storicamente più celebri e fortunati dell’industria cinematografica americana, l’horror ricopre una posizione di assoluto rilievo; anche in questo caso, infatti, ci troviamo dinanzi a un genere e a una modalità di narrazione già più che consolidata nel corso del Novecento, e che è stata rilanciata e fomentata dagli attacchi terroristici di New York, assumendo significati metaforici di matrice socio-politica di indubbia efficacia. Questo anche perché il genere horror, che affonda le sue radici più profonde nella cultura gotica e crepuscolare di certo romanticismo letterario, nonché nel culto del mostruoso e del misterioso rintracciabile nella cultura medievale e persino in quella pagano-arcaica, incarna un immaginario simbolico ed espressivo già largamente assimilato dalla società; anche in questo caso, perciò, il racconto dell’evento, e la narrazione delle sue implicazioni e delle trasformazioni di ordine psicologico, sociale e antropologico, passano attraverso formule e logiche classiche, riviste alla luce delle nuove esigenze interpretative. 10
Ibid.
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Appare quanto meno evidente che, nell’epoca del diffuso “orrorismo” nei termini di Adriana Cavarero, il cinema di questo genere esprime al meglio le paranoie, le ansie e le preoccupazioni diffuse nella società civile americana: Oggetto di una distruzione incombente che lo minaccia ovunque e comunque, l’inerme diventa la figura di una vulnerabilità tanto più perfetta quanto più è il caso a fare di esso una vittima esemplare. […] Se non per tutti, per larga parte degli abitanti del globo odierno, con maggiore o minore probabilità a seconda della zona, ogni attimo è ormai l’ora possibile e arbitrari del loro assassinio casuale.11
Non intendiamo soffermarci sul classico dibattito relativo alle ragioni del morboso successo di questo genere, e per quali meccanismi psichici o tendenze antropologiche siamo spesso trascinati dal fascino perverso della morte violenta, del sangue e del mostruoso; piuttosto si tratterà di rintracciare questi elementi nello specifico dell’horror post-11 settembre, spesso spinto fino al parossismo della violenza. A questo proposito, mi sembra necessario fare riferimento a quel sottogenere riconducibile allo splatter se non persino allo snuff movie, che è stato in grado, proprio da dieci anni a questa parte, di abbattere i confini della subculture o dei cosiddetti b-movies, per trionfare inaspettatamente ai botteghini dei cinema di tutto il mondo. Direttamente connessi al culto della visione perversa, sfruttando uno stimolo antropologico che appartiene al lato più terribile delle nostre pulsioni (lo stesso che ci fa rallentare per osservare un incidente stradale, o che nei casi più patologici arriva al sadismo), questi film hanno cavalcato il successo di un certo cinema di Tarantino (ben diverso anche per finezza intellettuale e attenzione estetica), e si sono abbandonati a un mero circo di crudeltà, tra sevizie e torture raccapriccianti. Torna di attualità la distinzione aristotelica tra phoberon, miaron e teratodes, distinzione che Umberto Curi ha già applicato egregiamente all’ambito del cinema di consumo.12 Questi termini, A. Cavarero, Orrorismo. Ovvero della violenza sull’inerme, Feltrinelli, Milano 2007, p. 102. 12 Cfr. U. Curi, Lo schermo del pensiero. Cinema e filosofia, Raffello Cortina, Milano 2000, pp. 92-102. 11
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Capitolo I
adottati da Aristotele, distinguono tre diverse modalità attraverso le quali si manifesta il phobos, ovvero il terrore all’interno di un’opera. Mentre per miaron si intende il “raccapriccio” (tipico del cinema cui stavamo facendo riferimento sopra) e per teratodes il “mostruoso” (caratteristico dell’horror classico, ovvero vampiri, creature terrificanti ecc.), il phoberon si avvale delle modalità con cui è costruita la storia. Il phoberon perciò non sfrutta soluzioni ovvie e banali, come la rappresentazione diretta di mostri o creature terrificanti, oppure scene disgustose; esso trasmette una tensione psicologica allo spettatore per come i fatti vengono narrati. Il phoberon si integra bene con l’idea di “perturbante” teorizzata da Freud, ed è una categoria utilissima per comprendere molto cinema contemporaneo, specie del genere thriller, ma possiamo anche pensare a gran parte della produzione di David Lynch. Ora, come vedremo la posizione del cinema di Tarantino in rapporto a questa distinzione aristotelica è piuttosto complicata: sembra che Tarantino assuma tutte e tre le dimensioni, sacrificando in buona parte quella del teratodes, ma adottando a piene mani tanto il miaron quanto il phoberon: le scene di disgusto, l’eccesso della visione che arriva al raccapriccio, palesando la sua finzionalità, concede l’accettazione morale e la redenzione dalla colpa di sadismo, ovvero dalla possibilità di essere accusati di perversione. Ma a sdoganare il miaron è proprio il phoberon, ovvero il “come” viene messa in scena la violenza e l’orrorifico, dal momento che rifiutando di confondersi col reale esso diventa stratagemma visivo che si dichiara cinema nel momento stesso del suo mostrarsi. D’altronde, con l’11 settembre l’immagine è andata abbondantemente oltre, e il paradossale e perverso gusto per la distruzione (dietro alla superficie della coscienza, che ci vede tutti distrutti dal dolore e in preda al panico) si è ripetuto negli anni successivi nella ricerca da parte del pubblico di immagini violente sempre più radicali, facendo emergere ciò che naturalmente è nostro “già da sempre”, la nostra zona oscura socialmente e culturalmente controllata nel corso della storia dell’umanità. La saga di Saw - L’enigmista (dove «non c’è luce che illumini gli ambienti, non c’è pace che rassicuri i protagonisti»),13 arrivata fino al sesto episodio, cavalca 13
A. Chianese, Il declino dell’impero americano. Cattiva coscienza e cinema dopo l’11 set-
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il lato oscuro della psiche di ognuno, quella parte di noi che fino a qualche tempo fa era tenuta sotto controllo dall’Es e che emergeva in maniera controllata e contenuta; più sottile il discorso per Hostel (2005) e Hostel: Part II (2007), a proposito dei quali sostiene Fontana che si tratta di film che «[...] tentano di esorcizzare con strumenti catartici l’ansia e la paranoia legata alle culture altre, tentando allo stesso tempo di gettare una luce ironica e sarcastica sull’ignoranza etnocentrista dei suoi stessi protagonisti e legando il tema della tortura a un’altra delle grandi conseguenze dell’11/9, ovvero la Guerra in Iraq, i rapimenti di occidentali da parte di estremisti islamici ma anche la extraordinary rendition volute dalla Cia»,14 per non parlare dell’ulteriore catastrofica conseguenza che è la nascita della barbarie dell’Isis e l’incremento planetario del rischio. Quanto è stato sostenuto a proposito di Hostel è vero anche per l’opera di uno dei registi più apprezzati e amati proprio da Tarantino, ovvero Rob Zombie, che condivide col suo stimatore la sagace ironia e la maestria stilistica, elementi che permettono a due opere come La casa dei mille corpi (2003) e La casa del diavolo (2005) di riscattarsi pienamente dall’accusa di perversione e di riduzione al miaron e al teratodes. Alla perversione si consegna invece, come detto, completamente Saw (2004) e tutta una serie di altri prodotti che sono interamente costruiti su l’emersione esplicita e dirompente della visione perversa della sofferenza altrui. Questo piacere terribile si sovrappone anche con lo spirito di vendetta che l’America ha nutrito fin dall’indomani della catastrofe e che alimenta in diverse forme l’orizzonte delle produzioni culturali e cinematografiche. La tortura difatti genera maggiore piacere se le difese dell’Es sono ulteriormente abbassate e disinnescate da una costruzione morale ad hoc (che invece nel Tarantino simulacrale è assente): se assistiamo alle pene di un “colpevole”, di qualcuno che ha commesso qualcosa di terribile per noi e la comunità, allora spesso siamo indotti ad accettarla con minore inquietudine o perplessità. La spudoratezza dell’immagine della violenza inferta a chi non può reagire, ma che è ritenuto colpevole di qualcosa, non può non farci pensare alle immagini delle torture di Abu Graib, ed è ciò che si è diffuso nello spirito della società tembre, Il Foglio, Livorno 2008, p. 292. 14 A. Fontana, Il cinema americano dopo l’11 settembre, Morpheo, Piacenza 2008, p. 185.
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Capitolo I
americana quando ha sostenuto il presidente Bush negli attacchi in Medio Oriente. Questo è anche quanto accade in Saw, dove nella maggior parte dei casi le vittime delle terribili prove/torture sono persone che nella loro vita passata si sono rese responsabili di atti più o meno gravi. Sembrerebbe più legittimo l’approccio del regista James Wan rispetto a quello di Tarantino: il primo infatti gioca con la perversione spettatoriale, ma le vittime nei suoi film sono persone colpevoli, mentre Tarantino, nella storica scena della lametta de Le iene si accanisce contro un povero poliziotto che ha la sola colpa di essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, e che ha tentato di adempiere al suo dovere. Oltretutto, l’empatia per questo personaggio è ancora più forte quando implora pietà sostenendo di essere un padre di famiglia, e in seguito a tutto questo la “spietatezza” di Tarantino lo fa ammazzare in un attimo a sangue freddo. In questa analisi approssimativa però, non si prende in considerazione il phoberon, o per meglio dire non il “cosa” ma il “come” viene raccontato: Tarantino con Le iene dimostra come, in una cornice fumettistica indipendente dalle convenzioni morali, stipulando un determinato “contratto” con lo spettatore disposto a entrare nel suo universo, rende accettabile e perciò godibile anche una somma ingiustizia come quella descritta. Saw, dal canto suo, con la pretesa di moralizzare la tortura e il miaron, scade nella pura ideologia, che non a caso si identifica nella perversione più becera che per autolegittimarsi tenta di garantirsi un beneplacito morale (“tutto sommato, erano colpevoli”). Dedichiamo ancora un po’ di spazio al genere horror, sempre molto apprezzato da Tarantino e per lui fonte di ispirazione; il genere horror, nelle sue molteplici varianti, intercetta spesso il genere catastrofistico, altre volte la commedia o ancora più spesso il thriller; di certo, l’elemento fantastico e soprannaturale decisivo per il genere, senza il quale non potrebbe neppure esistere e che rappresenta una delle ragioni del suo successo, ben si presta alla dimensione metaforica del contenuto: rinunciando espressamente alla dimensione mimetica del cinema, e alla rappresentazione dei fatti del mondo per come sono, tali soluzioni narrative ed espressive interpretano e raccontano il mondo/l’America contemporanea in maniera obliqua e indiretta. È interessante segnalare che, come vedremo, spesso 16
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si tratta di remake adattati ideologicamente alle necessità del nostro presente. [Ci sono] almeno due fenomeni culturali di una certa rilevanza, tra loro intimamente collegati nel post-11 settembre: da una parte, un riaffacciarsi evidente, nell’immaginario collettivo (non solo americano), del topos dell’apocalisse imminente con tutti i suoi elementi tipici, del quale gli zombie si configurano come incarnazione perfetta (con i loro tratti fondanti di collettività e irrazionalità); dall’altra l’onda lunga di un riflusso che coinvolge quel medesimo immaginario, precludendogli vie nuove e imponendogli di ri-frequentare e risuscitare (approssimativamente, in questo caso) il già esistente nella forma conservatrice del remake.15
Un classico del genere horror è la comprensione dell’altro come minaccia, l’alterità riletta come rischio per la conservazione dell’identità “giusta”; per questo, nella sua caratterizzazione di fabula, l’horror (come il fumetto) spesso non può prescindere da una struttura morale dicotomica (Bene vs Male). Se nell’ambito del cinema catastrofista sono le specie aliene a costituire l’antagonista, spesso in grado di mettere a rischio la stessa sopravvivenza della razza umana sul nostro pianeta, nell’horror degli ultimi anni abbiamo assistito a una rinascita del genere “zombie”, i morti viventi che tornano sulla terra diffondendo panico e distruzione ovunque. La connotazione di semi-uomini che assumono queste creature è indicativa del loro significato simbolico: così come per i contagiati dal morbo del film britannico 28 giorni dopo (2002) o per quelli di Io sono leggenda (2007), non si tratta di entità mostruose quanto di figure riconoscibili come umane, spinte però da pulsioni bestiali, irrazionali, che segnano una regressione nei confronti dell’animale sociale: «To watch a zombie film is to watch humans try to kill recognizably human forms, often with more barbaric and brutal tactics than the zombie possesses».16 Questi esseri umani/non-umani R. Moccagatta, L’alba dei morti viventi. Apocalittico, ma integrato, in Ventuno per undici, cit., p. 80. 16 A. Froula, Prolepsis and the “War on Terror”: Zombie Pathology and the Culture of Fear in 28 Days Later…, in J. Birkenstein, A. Froula, K. Randell (a cura di), Reframing 15
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rappresentano una sfida per la civilizzazione umana e per l’identità culturalmente consolidata; la loro forza, che coincide d’altronde col loro potere di fascinazione, è intensificato proprio da questa dialettica di riconoscimento e alterità. Antonio Lucci parla non a caso di «un’epoché spontanea, affettiva, nei confronti della gamma di sentimenti positivi che può essere provata verso un umano o un animale».17 Un’alterità, quest’ultima, compresa come rischiosa e devastante, che nella sua declinazione totalmente selvaggia e “bestiale” si fa allegoria del Male come violenza immotivata e perversa. Intesa in questa prospettiva, tale alterità è una minaccia all’ordine sociale; il Male così rappresentato non potrebbe d’altronde avere giustificazioni, non ammette comprensioni e la violenza bruta di tali esseri giustifica la reazione violenta e l’eliminazione radicale. Se nella Hollywood classica il binomio Bene vs Male ha assunto numerose declinazioni (pensiamo al genere Western col conflitto tra nativi e cowboys), nel cinema horror la connotazione fantastica dell’alterità malvagia non lascia dubbi sulla legittimità della loro eliminazione. Già da queste righe possiamo ben intuire come spesso questo genere di film incarni alla perfezione il sentimento della società civile americana all’indomani degli attentati di New York, ben compreso e incentivato da Bush e utile per le sue campagne militari in Afghanistan e Iraq: «After the attacks on 9/11 and the escalation of the “War on Terror”, it became difficult for any zombie text, be it film, bopok, or videogmae, not to allude to 9/11 in some way».18 D’altronde il terrorista, come lo zombie, è un essere colpevole, incarnazione del Male, e in questo senso sarebbe irrazionale solo supporre di comprenderne il comportamento e le decisioni; in questa prospettiva è comprensibile anche la linea dura del Patriot Act, degenerato fino alle torture sui detenuti-presunti terroristi, nonché la sospensione di alcuni basilari diritti civili. L’equazione, terribile già di per se stessa, ha contaminato la psiche degli americani arrivando alla diffusa 9/11. Film, Popular Culture and the “War on Terror”, Continuum International, New York 2010, p. 196. 17 A. Lucci, La nuda vita e la nuda morte. Lo zombie e il rovescio della communitas nell’immaginario televisivo contemporaneo, in S. Baranzoni, P. Vignola (a cura di), Il senso sociale. Dal social alla polis e ritorno, Kayak, Tricase (LE) 2016, p. 84. 18 T. McSweeney, The Land of the Dead and the Home of the Brave: Romero’s vision of a Post-9/11 America, in Reframing 9/11, cit., p. 108.
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convinzione dell’equivalenza tra musulmano e terrorista; l’“altro”, il musulmano, responsabile della strage e dell’attacco nel cuore dell’Occidente, è nel torto e va eliminato/isolato/diffidato. Questo è ciò che traspare in differenti pellicole del genere horror; è interessante sottolineare come in altro ambito, ma certo non totalmente estraneo al nostro orizzonte di competenza, Primo Levi usasse il termine “musulmano” per descrivere quei detenuti di Auschwitz che avevano abbandonato la loro stessa umanità finendo sommersi dall’orrore. Giorgio Agamben ha dedicato pagine illuminanti a questa figura,19 spiegando la connotazione paradossale del rapporto tra il testimone e chi non è più in grado di testimoniare, coloro che hanno varcato la linea e si sono ridotti a uno stato di passività totale, i mussulmani appunto o semi-uomini, per i quali diviene necessario “testimoniare” visto che non sono più in grado di parlare in prima persona. La connotazione di “quasi umanità” ci riconduce alla figura dello zombie, l’essere senza più memoria, né sentimento, né tanto meno raziocinio. È stato David Simpson a proporre una possibile lettura del mussulmano di Levi nell’ottica dell’odierno dibattito sull’Islam;20 si tratta di un paradosso, perché se ad Auschwitz l’Ebreo è il mussulmano, il musulmano integralista-jihadista condivide col primo la rassegnazione, il rifiuto della convivenza, lo stato di irrazionalità e l’abbandono di ogni sentimento di pietà e compassione. D’altronde, il concetto leviano è solo metaforico e nulla ha a che vedere con la fede islamica; però Simpson coglie nella semi-umanità del mussulmano leviano la stessa condizione del musulmano integralista disposto a sacrificare la sua vita per colpire l’Occidente e seminare morte e terrore. Questa corrispondenza (mussulmano-Ebreo/musulmano-terrorista) può assumere un altro significato: McSweeney infatti ricorda le parole del Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld a proposito dei detenuti di Guantanamo, sospettati di terrorismo: «He asserted that many of the prisoners, althought they ere technically alive, were officially “living dead” as they had been the intenCfr. G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 20 Cfr. D. Simpson, 9/11. The culture of commemoration, The University of Chicago Press, Chicago-London 2006. 19
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ded targets of American boms and could therefore be treated accordingly».21 Lo zombie è tale perché per definizione ha varcato il confine che definisce l’umano, ovvero quello che separa la vita dalla morte; come sostiene Jean Baudrillard,22 dal momento che i terroristi hanno delegato allo stesso istinto di sopravvivenza, si trovano in condizione di netto vantaggio sui loro nemici, ovvero noi “occidentali”. Offrendo la loro morte, lo scarto tra noi e loro diviene incolmabile; per questo i terroristi, morti che camminano che non hanno nulla da perdere, sono imprevedibili e sempre pronti a colpire. I kamikaze condividono con gli zombie l’annullamento del binomio netto vita/ morte, che già la società tardo-capitalistica aveva riconfigurato nel tentativo di annullare l’alterità assoluta rappresentata dalla morte e dal suo valore simbolico, simulacrando la morte stessa. Il nemico terrorista/zombie è perciò un nemico feroce e potente perché svincolato dalle regole dello scambio commerciale del mercato (la morte si sottrae a qualsiasi equivalenza numerica e quantitativa), è simile a noi e perciò ben si confonde nel nostro ambiente quotidiano, e si muove nell’invisibilità (pensiamo a come le tinte scure e le scene notturne siano costanti in questi film, anche perché gli zombie vivono nella notte e non sopportano la luce del sole). Il film L’alba dei morti viventi (2004) sempre di Zack Snyder è un testo esemplare per numerosi degli elementi da noi affrontati; sebbene i titoli di apertura siano consegnati a un montaggio che mette in evidenza i limiti e l’incapacità da parte delle istituzioni di reagire all’invasione degli zombie, per il resto sono costanti i caratteri conservatori che ne fanno, alla luce dell’11 settembre, una pellicola reazionaria, ben diversa del progetto tarantiniano di Grindhouse al quale appartiene lo splatter di Robert Rodriguez Planet Terror, dove infatti il citazionismo e l’ironia, in quanto «superficie estenuata del tutto-costruito»,23 rappresentano una sorta di riscatto estetico al rischio dell’ideologia incarnata dallo sviluppo narrativo. Torniamo T. McSweeney, The Land of the Dead and the Home of the Brave: Romero’s vision of a Post-9/11 America, cit., p. 108. 22 Cfr. J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, Raffello Cortina, Milano 2002. 23 P. Montani, L’intelligenza intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Laterza, Roma-Bari 2010 , p. 17. 21
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a L’alba dei morti viventi di Snyder, il cui conservatorismo rappresenta un destino stravagante per un remake di un celeberrimo titolo di Romero del 1978 che voleva essere un atto di accusa rivolto al consumismo capitalista. Per la protagonista l’orrore si scatena nello spazio della propria abitazione, nello specifico della camera da letto: «il suo risveglio in medias res, con il marito assalito dalla bambina zombie, e di lì a poco anche lui morto vivente, con la casa che si trasforma in una trappola mortale, somiglia molto ad un trauma da attacco terroristico post-11 settembre».24 Il racconto evidenzia subito la condizione di un paese sotto attacco; continua infatti Moccagatta: che il mondo, nel film, cambi improvvisamente e fulmineamente nell’arco di una sola notte, piombando in un caos irreversibile, è un ulteriore, chiaro riferimento alla rinnovata imagerie dell’apocalisse – istantanea e stordente – dopo le Torri Gemelle. […] l’inizio metaforizza subito e in maniera anche diretta il tema dell’America sotto attacco (e, ancora, la main title sequence mette insieme la Casa Bianca sotto assalto e il mondo musulmano che prega).25
Nel film, l’unica risposta efficace all’irrazionalità imperante dell’invasione non può che essere un piano lucido e razionale, basato su un’organizzazione comune, «come a dire: all’assedio/provocazione, dopo l’iniziale smarrimento, non si può che rispondere dandosi una disciplina quasi militare»,26 fino alle immagini di sollievo dove il gruppo, arroccato in un centro commerciale, si rilassa abbandonandosi ai comportamenti tipici dell’American way of life, tra sesso, palestra e videogiochi. È chiara perciò la riproposizione del conflitto tra l’America e l’Altro nelle formule consuete; se è pur vero che il finale sorprende il pubblico perché dichiara il fallimento della missione e l’impossibilità di sopravvivere (vanificando tutti i piani, gli sforzi e i sacrifici del gruppo), è altrettanto vero che un carattere innovativo di questa pellicola è la modalità stilistica e formale con la quale vengono trattati gli zombie. Come anche per 28 R. Moccagatta, L’alba dei morti viventi. Apocalittico, ma integrato, in Ventuno per undici, cit., pp. 83-84. 25 Ibid. 26 Ibid. 24
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giorni dopo, qui i «morti viventi [sono] perfettamente coerenti con l’immaginario apocalittico di questi anni: il film non li rende più sovrapponibili perfettamente ai vivi, […] ma li ritrasforma in qualcosa di estraneo, di esterno al corpo sociale, di lontano dagli spettatori, appunto di altro».27 Se gli zombie classici sono soggetti a «un’inerzia di movimento che li manteneva a lungo nel campo visivo» offrendogli visibilità e chiarezza, quelli di Snyder, invece, sono condannati dalla loro ipercinesi all’invisibilità del fuori campo, sono pressoché impercettibili e indistinti, e al nostro sguardo è impedito di posarsi su di loro e di metterli a fuoco. Si configurano come un’alterità sfocata e minacciosa, in grado di sferrare assalti micidiali e improvvisi, sbucano fuori quando uno meno se lo aspetta, sostituiscono la pensosa voracità del passato con un’aggressività tarantolata e anfetaminica che li fa assomigliare a cani rabbiosi, [...] in evidente continuità con la costruzione di un preciso immaginario sui kamikaze.28
Questa modalità di rappresentazione finisce per coincidere con l’ideologia che metaforicamente sottende l’intera opera: «Su questi zombie è una follia anche soltanto pensare di poter soffermare abbastanza a lungo lo sguardo, figuriamoci tentare una sorta di comunicazione»;29 Fontana è persino più drastico: evidenzia come il riferimento all’Islam nei titoli di apertura seguito dalle immagini di caos e distruzione sia persino “disturbante”, perché è come se esplicitasse l’identificazione allegorica tra zombie e musulmani, responsabili della fine del mondo e del declino americano. Abbiamo detto come il film di Snyder si distingua dalla caratteristica vena di Romero, che non a caso realizza nel 2005, a distanza di un anno dall’altro, La terra dei morti viventi. Qui i riferimenti all’11 settembre sono costanti, e la particolarità di questo film è che si svincola decisamente dalla prospettiva ideologica fin qui esaminata; come accade anche per il coreano The host (2006), a essere messa sotto accusa qui è l’incapacità americana di relazionarsi all’alterità in maniera pacifica. In un futuro distopico dove i morti viventi rapIvi, p. 87. Ivi, pp. 87-88. 29 Ibid. 27 28
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presentano oramai una comunità più che diffusa, una città, Uniontown, che ricorda in tutto New York, è strutturata secondo una divisione classista: tra i grattacieli i ricchi vivono come se non fosse mai successo nulla, mentre nei sobborghi le classi meno agiate devono affrontare quotidianamente l’attacco degli zombie. La novità di questo film, anche rispetto alla produzione precedente dell’autore, è il modo in cui gli zombie sono rappresentati: non le agili e demoniache figure sfuggenti del film di Snyder, bensì un autentico gruppo sociale che per quanto evidentemente anomalo ha persino coscienza di sé e lotta per la propria dignità e sopravvivenza: Romero […] presents an oppressed social and racial underclass and offers a critique of one of the quintessential myths that have long stood at the heart of American identity, that of the classless society. However, the zombies of Uniontown are different than the previous zombies in Romero’s films; thy appear to be evolving, learning, and even developing a consciousness.30
Perciò ancora semi-uomini, ma un passo più vicino all’uomo piuttosto che alla bestia incosciente e furiosa. Questo, ovviamente, per rimettere in discussione la dicotomia semplicistica Noi/Loro, Bene/Male, Uomo/Zombie, alla base della retorica di Bush relativa allo conflitto di civiltà: […] the film explores the fact that the distinction between zombie and human is no longer easy to make, just as the “War on Terror” provoked a reemergences of the discussion as to what constitutes a terrorist act and the morals of ignoring the Geneva Conventions’ provisions.31
A maggior conferma sono presenti nel film differenti riferimenti espliciti: battute nei dialoghi come “Noi non trattiamo coi terroristi”, “Sono tutti morti, spara!” (a voler indicare quel cinismo tipico delle truppe americane) ma soprattutto la volontà del protagonista di evadere per fuggire al nord, in Canada, dove sembra non siano T. McSweeney, The Land of the Dead and the Home of the Brave: Romero’s vision of a Post-9/11 America, cit., p. 109. 31 Ivi, p. 110 30
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presenti comunità di zombie (Canada dove per arrivare dagli Usa, col Patriot Act, è diventato necessario un passaporto e un controllo alla frontiera). Se alla fine anche la roccaforte dei benestanti, che si illudevano di poter vivere come se la catastrofe non fosse mai avvenuta, verrà invasa dagli zombie, è pur vero che come segnala McSweeney «for a film that spends much of its runtime deconstructing cultural myths, it ironically ends by reinforcing one».32 Il film infatti si chiude con la speranza di trovare un posto “senza di loro”, e non auspica alcuna possibile integrazione o incontro: «Once again the boundaries between “Us and Them” continue to be blurred: we see ourselves in the enemy».33 Seppur non degli zombie, le terribili creature di Le colline hanno gli occhi (A. Aja, 2006 – anche questo un remake), condividono con essi la dialettica di alterità e riconoscibilità: si tratta infatti di persone che a causa di alcuni esperimenti nucleari in mezzo al deserto hanno subito terribili mutazioni genetiche che ne fanno in tutto e per tutto dei mostri. Qui si torna decisamente al registro ideologico reazionario: l’opposizione tra “normali” e “diversi” è agghiacciante pensando a come “gli altri”, degli invalidi malformati (solitamente ritenuti delle vittime che richiederebbero quanto meno pietà e compassione), siano dei selvaggi cannibali e stupratori (definiti in americano Rednecks), che agiscono senza ragioni specifiche se non la furia omicida e irrazionale. Oltretutto, la prima vittima di questi “mostri” è il personaggio dichiaratamente repubblicano e conservatore, mentre il giovane democratico (con tanto di barba e occhiali da vista) sarà costretto a impugnare la pistola per andare a recuperare la figlioletta rapita dalla comunità di mostri e vendicare la morte della moglie uccisa sotto i suoi occhi, trasformandosi lui stesso in uno spietato esecutore. Uno dei deformi dichiarerà al protagonista “Voi ci avete trasformato in quello che siamo!”, ribadendo l’opposizione (“Voi”, chi?) e soprattutto attribuendo la responsabilità del conflitto alla comunità “sana”: […] i ripugnanti cannibali che infestano le montagne del deserto sono davvero mutanti in senso letterale, perché trasformati (innocenti?) dalle radiazioni sprigionate dai siti degli
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Ivi, p. 115. Ibid.
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esperimenti atomici del governo. […] sostituire la mostruosità metaforica – ma trasparentemente ed evidentemente allusiva, di luoghi fisici e mentali aberranti dentro la società americana – degli originali con una mostruosità letterale.34
Questa lunga digressione sul genere horror non voleva affatto avere valore di esaustività; si è trattato piuttosto di mettere in luce come il cinema di genere, col quale Tarantino si confronta costantemente, abbia assorbito l’esperienza dell’11 settembre in varie modalità, quando lo stesso Tarantino ha attraversato tale esperienza riversandola nella sua poetica e nella sua attività. Sono infatti due i piani attraverso i quali può essere interpretato il rapporto tra il cinema post-2001 di Tarantino e gli attacchi a New York; il primo livello, quello più immediato e banale di intendere tale rapporto, ricondurrebbe questo cinema nella dimensione della rimozione del lutto, ovvero dell’accettazione della catastrofe attraverso l’immaginario della vendetta. Questo discorso potrebbe essere applicato legittimamente a moltissimo cinema hollywoodiano, per esempio a tantissime produzioni commerciali superomistiche o a tanti disaster movie. La strategia psicologica che è alla base di questa produzione è particolarmente sottile: da un lato, questo cinema rinuncia a fare esplicitamente riferimento all’avvenuto, soprattutto negli anni subito successivi al trauma, perché ciò verrebbe interpretato come un’offesa nei confronti delle vittime (consegnate spudoratamente agli interessi della spettacolarizzazione), ma soprattutto perché il pubblico ha bisogno di una trasfigurazione mitico-fantastica per avere il giusto distacco dall’accaduto e godere della propria sete di riscatto. Nell’analisi specifica dell’opera del regista, si può notare come si possano distinguere due categorie di film post-2001, quelli ancora legati all’estetica del simulacro e quelli segnati dall’irruzione della storia simulacrale; tutti questi film però sono caratterizzati dallo stesso elemento narrativo dominante, ovvero la vendetta. Kill Bill e Death Proof mettono il culto della vendetta al servizio dell’appagamento sensoriale e libidico, senza alcuna problematizzazione di orR. Moccagatta, Redneck manifesto, in«Segnocinema» - «SegnoSpeciale», XXVII, n. 146 (2007), p. 29. 34
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dine morale. Il registro a cui si attiene il regista allora risponderebbe a un’esigenza del pubblico, e il suo simulacro messo al servizio della nevrosi americana. L’appagamento sensoriale infatti è possibile solo con una costruzione simulacrale in grado di occultare e rimuovere il dolore reale, nonché gli interrogativi su quanto è accaduto. Le vendetta di personaggi astorici e stilizzati diventa d’altro canto una macchina di esaudimento libidico per la psiche frustrata dell’orgoglioso popolo americano, che aveva vissuto fino alla fatidica data nella piena adesione simulacrale al sistema americano, che come sostiene Baudrillard si pone come la piena realizzazione dell’utopia.35 Inglorious Basterds e Django Unchained dimostrano invece una fase di maturazione, un passo ulteriore, perché il culto della vendetta si nutre della consapevolezza che la storia abbia fatto irruzione nell’immaginario americano, interrompendo la narcotizzazione dell’utopia e infrangendo duramente lo scrigno del simulacro. Sempre da Baudrillard, sappiamo bene come l’attacco agli USA non è da intendersi come il risultato di un conflitto di civiltà, quanto come l’autoferimento e l’autolesionismo di un sistema giunto a un tale livello di entropia da essere costretto ad autodilaniarsi fino al suicidio. D’altronde, l’evento stesso, in termini ontologici, mantiene dialetticamente entrambe le prospettive di significato: esso infatti si pone per definizione come ciò che è al di là di qualsiasi possibilità di previsione e controllo, ma allo stesso tempo l’assoluta alterità dell’evento presuppone un livello di comprensibilità che conceda alla mente di interrogarsi sull’accaduto (seppur senza mai ottenere risposte esaustive); tale prossimità è garantita dalla stessa ontologia dell’evento, che definendo l’orizzonte nel quale la nostra stessa riflessione si trova a esaminare e comprendere la realtà, esso è già da sempre in anticipo sul nostro pensiero e sulla stessa comprensione dell’evento stesso. La storia non conduce Tarantino a fare un normale cinema di matrice storica, tanto meno a optare per un cinema di dissidenza nei confronti delle autorità politiche ritenute responsabili della catastrofe; egli piuttosto mette in luce, in diverse forme, la continuità paradossale dell’evento, che segna anche il rifiuto di una logica oppositiva tra Oriente e Occidente. 35
Cfr. J. Baudrillard, America, SE, Milano 2009.
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Se infatti la logica binaria “Bene vs Male” resta l’impianto costante di tutta l’opera tarantiniana, seppur il simulacro venga ammantato dalla dimensione storica, questa opposizione non fa riferimento (come potrebbe apparire a uno sguardo poco attentato e malizioso) al “noi” contro “voi”: protagonisti e antagonisti non sono allegorie o trasfigurazioni mitiche del popolo americano, colpito al cuore dall’integralismo islamico ma pronto con orgoglio a replicare al sopruso. Quello che questi film mettono in evidenza è piuttosto la “colpa antica”, ovvero si tratta di risalire al “prima” dell’evento, a fasi lontane storicamente dall’11 settembre (il nazismo e lo schiavismo americano) per mettere a fuoco il Male occidentale prima ancora di quello orientale. Se l’11 settembre è stato il suicidio dell’Occidente, allora diventa evidente come quello stesso Male, seppur sopraggiunto in maniera evenemenziale, fosse stato allevato nel cuore della mentalità e della società occidentali, trovando numerosi e feroci episodi di concretizzazione. Tarantino, regista ideale della logica postmoderna della simulacralità, e perciò stesso dell’America della realizzazione utopica (fondata sulla compattezza, sull’identità, sul soddisfacimento sensoriale), ha perciò dovuto affrontare la frattura del simulacro avvenuta proprio con gli attentati dell’11 settembre: il terrorismo ci ha costretto a un ritorno alla realtà, per quanto Žižek sosterrebbe invece che si tratta pur sempre di una realtà mediata dal monitor e perciò ulteriormente funzionalizzata.36 I terroristi hanno interrotto l’ordine, hanno sabotato la macchina dell’omogeneità integrale, ma quello stesso terrorismo è il risultato di una cultura dell’odio fondata sull’opposizione binaria noi-altri, dove l’alterità è vissuta come una minaccia da assorbire nell’ordine costituito se non da eliminare fisicamente. È quanto la tradizione del western ci ha insegnato attraverso la narrazione epica e la fondazione dei valori nazionali americani, ma è anche quanto è avvenuto durante lo schiavismo dei neri d’Africa e in senso più generale ed evidente si tratta dell’infamia dei tedeschi durante l’epoca nazista. È interessante notare come Tarantino prima rivolga la sua attenzione a un evento epocale, come la Seconda Guerra mondiale, che sembrerebbe avvalorare la tesi che il suo ci36
Cfr. S. Žižek, Il deserto del reale, Meltemi, Roma 2003.
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nema della vendetta intenda appagare il nazionalismo statunitense – dal momento che il gruppo di eroi antinazisti libera il mondo dal nazismo vendicandosi di tutti gli ebrei uccisi; come se fosse cosciente di questa possibile accusa (quando puntare lo sguardo sul nazismo significa puntarlo sulla coscienza eternamente sporca di tutto l’Occidente), il regista ha poi fatto un ulteriore salto temporale nel passato, nell’Ottocento americano, dove gli americani diventano gli aguzzini e l’espressione (come sarebbero stati i nazisti un secolo dopo) del Male. Si potrebbe ipotizzare allora che Django Unchained sia un racconto che sostiene le rivolte antiamericane, e persino quelle terroristiche, ma non è affatto così: a Tarantino premeva dimostrare come il Male subito dagli americani sia il risultato di un Male profondo che caratterizza l’intero Occidente, che è stato capace di atrocità e di violenze tali da richiedere la necessaria risposta di altrettanta violenza. Un Male da sconfiggere con tenacia e radicalità, ma non provenuto da fuori, dal diverso o dall’alterità, bensì nutrito e cresciuto nel cuore stesso della nostra civiltà. Con la svolta avvenuta nell’immaginario americano con l’evento dell’11 settembre, è evidente come lo stesso concetto di vendetta abbia subito una graduale trasformazione nella poetica tarantiniana; il regista infatti, per continuare a sfruttare tutta la carica e la forza trascinante della categoria in questione, una delle più efficaci modalità di immedesimazione spettatoriale perché mezzo per compensare il carico di frustrazione privato, ha dovuto evidentemente far fronte al rischio di direzionare i suoi racconti sul fronte di un inneggiamento all’odio. Nella prima fase, il manicheismo delle forze del bene opposte alle forze del male ha riguardato come sappiamo il cinema simulacrale di Kill Bill e Death Proof: senza riferimenti alla realtà esterna, nella plastificazione estetica volta a garantire una sufficiente dose di astrazione e autonomia dalle tragedie della storia e della cronaca (garanzia pervenuta da un’estetica tautologica basata sulla citazione e la simulazione), in questi film la vendetta viene ammessa perché completamente decontenstualizzata e libera dalle norme morali. Così facendo, l’obiettivo era da un lato quello di non rischiare di sostenere, metaforicamente, gli atti terroristici (perché l’inneggiamento alla vendetta avrebbe potuto significare un soste28
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gno nei confronti di chi voleva vendicarsi dell’ipocrisia e dell’arroganza perpetuate violentemente dal sistema americano), dall’altro lato l’esatto opposto, ovvero di poter alimentare ulteriormente il desiderio di riscatto e vendetta che il popolo americano ha nutrito e che ha trovato una potente concretizzazione ideologica nelle politiche di Bush e nel Patriot Act. Lo schema Bene vs Male diventa così funzionale solo al godimento, tentando di scrollarsi di dosso i messaggi ideologici che gli potevano venire affibbiati; d’altronde, il mantenimento dello schema narrativo tradizionale è tipico dell’opera di un altro rappresentate ideale del cinema americano contemporaneo, ovvero Clint Eastwood. In Eastwood, massimo rappresentante del conservatorismo americano, lo schema bipolare e dualistico (Buoni vs Cattivi) viene mantenuto seppur capovolto, e il mantenimento dello schema è la maggiore dimostrazione dell’ideologia reazionaria dell’autore (che non a caso è stato il fautore delle migliori produzioni di genere e continuatore della longeva tradizione cinematografica americana). In Tarantino, di contro, il cinema finzionale non intende invertire lo schema morale ma escluderlo per intero, lasciando spazio a un cinema basato sul coinvolgimento nervoso e patico delle immagini. La seconda fase diviene più problematica, perché con l’irrompere della Storia diventa più complicato non cedere alle lusinghe dell’ideologismo (conservatore o radicale che sia), ma come vedremo in Inglorious Basterds e in Django Unchained stessi più volte la finzione viene dichiarata, emancipando il racconto dalla deriva partigiana. Resta lo schema Bene vs Male, ma il Male è quello del suicidio dell’Occidente, e la vendetta di Django e dei Bastardi diventa la vendetta degli oppressi nei confronti degli aguzzini ben profilati storicamente, definiti da un parossismo tale da identificarsi pienamente con l’idea di Male. Si tratta, in altri termini, della pratica di “fumetizzazione” della storia, pratica delicata e che rischia in ogni istante di ridursi nel grottesco o in azione immorale nei confronti della dignità della verità storica. Ma l’impegno etico di Tarantino, in questi film, risponde a un’esigenza diffusa che lo stesso Baudrillard aveva colto quando parlava, provocatoriamente, di esaudimento di un desiderio troppo osceno da venire ammesso anche a noi stessi, nel vedere le torri dell’impero crollare; la dimostrazione che il Bene 29
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e il Male nella realtà non sono che due facce della stessa medaglia, e che l’orrore dell’11 settembre non è che il suicidio del delirio di onnipotenza occidentale e non una guerra di civiltà, emerge dal fatto che lo schema binario sussiste in un’immagine che dichiara continuamente la sua profonda distanza rispetto al mondo. In questo modo, anche i film di Tarantino esaudiscono un desiderio, il desiderio di vendetta nei confronti del Male, ovvero la volontà di assistere alla sconfitta del nazismo e della schiavitù: qui si infrange il simulacro, perché non si tratta più di riflettere Bene e Male in un gioco di specchi infinito, ma di fare segno ai mali del mondo attraverso la simulazione di una storia messa finalmente al servizio delle vittime. D’altronde, il funzionamento della storia è sempre simulacrale: lungi dal poter venire definita una scienza esatta, la storia ha dovuto lottare per secoli per garantirsi una dignità epistemologica, dal momento che essa è la disciplina che più di ogni altra subisce il paradosso della verità. Pretende la verità come fine ultimo, nella ricostruzione degli eventi del passato, ma rivolgendosi al passato, per sua stessa definizione ha a che fare con l’ “è stato”, ovvero con ciò che non è più. La storia perciò non potrà mai esimersi da un atto narrativo (più o meno cosciente), che in un modo o nell’altro implica sempre una dimensione morale e perciò ideologica. Così è per la storia ufficiale: l’arte cinematografica di Tarantino sacrifica la categoria della verità perché non gli interessa ricostruire il passato in maniera veritativa, ma preferisce giocare col passato per metterlo al servizio del Bene, ovvero degli umili. La vendetta non è solo esaudimento sensoriale di una richiesta di compensazione cognitiva di un torto subito, ma leggenda morale. Per evitare la mistificazione e l’accusa di travisamento della storia, Tarantino ripudia la storia stessa: sarebbe da pazzi rimproverare ai suoi film che il racconto non coincide con la verità. Ma mentre l’accusa ha un qualche senso se rivolta a La vita è bella di Roberto Benigni (dove la scena della liberazione del campo di sterminio vede l’esercito americano come protagonista, quando è stata l’Armata Russa a irrompere per prima sul fronte orientale e a liberare Auschwitz-Birkenau),37 per quanto A poco serve l’argomento secondo il quale non si fa mai allusione nel corso del film a quale sia il campo dove sono ambientate le vicende narrate, dal momento che il campo liberato dagli Alleati occidentali, Dachau, non era a ben vedere un campo 37
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anche questo sia un film e perciò un’opera artistica, in Tarantino è il film stesso a difendersi da eventuali accuse del genere perché evidenzia l’assurdità e l’irrealtà di quanto racconta, la non-coincidenza con i fatti. Se in Tarantino è proprio questo spazio di noncoincidenza tra narrazione e verità storica a coincidere col valore emancipativo e morale, in Benigni piegare la storia ufficiale alle esigenze della richiesta istituzionale rivela l’interesse spettacolare e la normalizzazione dell’orrore, in vista del successo ai botteghini e presso l’Academy.
di sterminio ma un campo di concentramento, e il film di Benigni invece ci mostra gli ammassi di corpi. Comunque si tratta di una contraddizione non risolvibile da una prospettiva storiografica coerente.
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Capitolo II
Cinema e simulacro: citazionismo e autoreferenzialità nell’opera tarantiniana
Per comprendere meglio la seconda fase del cinema di Tarantino sarà utile ricordare e approfondire gli elementi costitutivi della produzione classica del regista americano, quella che gli ha dato notorietà e che per diverso tempo (e tutt’oggi) si identifica col suo stile e la sua personalità. Questo infatti è l’unico modo per capire realmente la svolta che è avvenuta nel suo immaginario e nella sua stessa idea di cinema. La carriera di Tarantino inizia nel cuore della cultura postmoderna e post-ideologica; la capacità che i suoi film hanno avuto di fare presa sull’immaginario specie giovanilistico coincide con la sintonizzazione nei confronti dei tempi del post-Muro di Berlino, dove le tendenze rivoluzionarie si sono assopite completamente e sono tramontati i codici etici di riferimento, istituzionali o dissidenti che fossero. Come vedremo, questo ha comportato una decisa ridefinizione del valore di alcune categorie, specie in ambito estetico. Il cinema di Tarantino è un metacinema, ovvero un cinema basato sulla pratica del citazionismo costante: il suo esemplare valore postmoderno non sta in una qualche ingenua estetica futuristica o cyberpunk, piuttosto esso si affida a un ordine di tipo anacronico dal momento che spesso il riferimento temporale slitta verso il passato, ovvero verso l’universo immaginifico del cinema del passato che viene riproposto “raddoppiato” nelle sue pellicole. Così viene definito il regista da Vito Zagarrio: Un “ladro di cinema”: così viene considerato, nel bene e nel male, anche Tarantino, un accumulatore di citazioni di cui è divertente e utile scovare gli indizi, un ibridatore di generi e di forme della cultura di massa, dal fumetto alla letteratura
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Capitolo II
pulp, dalla pubblicità al videoclip, dal B movie alla serie TV sino alla volgarizzazione di alcuni classici del cinema d’autore.38
Il cinema di Tarantino così sfrutta il potenziale di fascinazione e il suo valore attrattivo subordinando a essi il concetto di coerenza, ma anche qualsiasi dimensione di ordine etico. Il postmodernismo tarantiniano infatti appare alquanto cinico in questi termini: si tratta di un’immagine, quella dei suoi film, ripiegata su se stessa perché non si riferisce al reale, e nega anche un contenuto morale che possa riferirsi alla realtà. Le assonanze con le teorizzazioni di autori centrali nel dibattito sul postmoderno come Jean Baudrillard e Fredric Jameson è evidente: la “vaporizzazione” del referente, cioè del mondo esterno, e con esso della tradizionale e moderna idea di significazione, determina una dimensione di autoreferenzialità che riflette un’epoca acritica, dove a dominare è la categoria dello spazio e dello slittamento perpetuo del senso piuttosto che quella del tempo, e con essa la memoria e la progettazione del futuro. La costituzione di un inedito regime di realtà, un’iperrealtà fittizia favorita dagli strumenti della tecnologia, è un fenomeno che coinvolge il mondo della comunicazione tanto quanto (e forse in misura persino maggiore) il mondo delle produzioni artistiche ed estetiche; se quello di Tarantino è «un saccheggio ludico e dissacrante all’insegna di una ghignante sensibilità postmoderna […] è una prospettiva che porta a valorizzare le componenti del pastiche, del distacco e dell’ironia gelida, mettendo in disparte qualsiasi atteggiamento di fiducia nei confronti del genere e dei valori che esso implica»,39 l’operazione semiotica del suo cinema però si distingue dalla definizione che Jameson dà di pastiche postmoderno: interpretato in termini regressivi e polemici, il pastiche è il risultato di una pratica finalizzata alla rielaborazione e all’adozione di codici e forme dell’universo finzionale del passato, riattualizzati fino a ridefinire il presente, smarrendo cioè la loro manifestazione autenticamente temporale. In V. Zagarrio, La grande mall dell’immaginario. Il cinema di Quentin Tarantino, in V. Zagarrio (a cura di), Quentin Tarantino, Marsilio, Venezia 2015, p. 9. 39 A. Baratti, Il piacere giubilatorio della reinvenzione in Le Iene e Pulp Fiction, in «Moviement – Quentin Tarantino», Gemma Lanzo, Manduria (TA) 2009, p. 16. 38
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altri termini il pastiche fa “come se” la forma ibrida risultante fosse da sempre esistita, imponendosi alla percezione in termini radicali ed escludendo una qualsiasi prospettiva riflessiva e critica. La preponderanza di un approccio “tattile” all’immagine, piuttosto che “visivo”, conferma la priorità dello shock piuttosto che dell’analisi razionale, e in questi termini il cinema di Tarantino sembra assai vicino al coinvolgimento sensoriale “nervoso” dovuto alla sua specifica estetica, aggressiva e radicale, «perché quello di Tarantino è un cinema di stomaco più che di cervello, dove la violenza, la perversione, il sadismo hanno un ruolo centrale; tanto centrale da diventare “politici”».40 Come afferma Andrew Darley, sulla scorta del pensiero di Jameson, le nuove forme culturali sono caratterizzate da una crescente pratica di imitazione e autoreferenzialità (pastiche); [da] un ridursi dei margini di originalità, di espressione e di significato, evidente nelle pratiche di ripetizione (i remake) e nostalgia di molte forme mediali contemporanee […]. Manca loro la profondità simbolica e la complessità rappresentativa delle forme precedenti; al contrario, esse sembrano funzionare in uno spazio di significazione abbastanza ridotto. Sono dirette e mono-dimensionali, non comunicano quasi nulla, a parte la propria capacità di catturare lo sguardo e gli altri sensi.41
Dalrey si riferisce, non a caso, alle più recenti manifestazioni della cultura dello spettacolo e del divertimento, ovvero agli strumenti tipici dell’edonismo postmoderno, al quale il cinema simulacrale di Tarantino può essere senz’altro ricondotto. Detto questo però, bisogna tener conto di quanto distingue Tarantino dalla definizione di pastiche di Jameson e da quella di simulazione di Darley, non a caso accomunate da quest’ultimo; sostiene Jameson a proposito del pastiche: «il pastiche è, come la parodia, l’adozione di una maschera particolare, il parlare in una lingua morta: ma è la pratica neutra di una tale imitazione, senza alcuna delle altre motivazioni della V. Zagarrio, La grande mall dell’immaginario. Il cinema di Quentin Tarantino, cit., p. 25. 41 A. Darley, Videoculture digitali. Spettacolo e giochi di superficie nei nuovi media, Franco Angeli, Milano 2006, pp. 107, 110. 40
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parodia, amputata di qualsiasi impulso satirico».42 Sono proprio le parole di Jameson a proporci l’opportunità di sottolineare la distinzione da questo piano del cinema di Tarantino: se il pastiche sacrifica l’aspetto riflessivo compromettendo anche categorie forti della tradizione moderna come quelle relative alla riflessione critica, questo è condiviso col cinema del regista dal momento che egli conferma nei suoi film l’assenza della satira intesa come valore polemico e morale da rivolgere contro la società contemporanea; d’altro canto, però, l’esibizione della violenza e l’autoreferenzialità tarantiniana si esplicita e si dichiara grazie alla costante presenza, come vedremo dettagliatamente in seguito, di un’altra categoria propria della modernità, ovvero l’ironia: Tarantino si situa insomma in una zona limbica tra “moderno” e “postmoderno”: moderno è per esempio il ricorrere continuamente a un apparato autoreferenziale e a un background di cultura cinematografica che lo apparenta alla nouvelle vague; moderna è l’ansia di esibire l’apparato filmico e i movimenti della macchina da presa. Postmoderni sono invece il largo impiego della parodia, il riciclaggio di generi e sottogeneri di Hollywood, il prestito e il mescolamento di elementi mitopoietici dell’immaginario contemporaneo, l’ibridazione di gangster, melodramma, horror. Musical, commedia ecc.43
Se c’è una categoria moderna utile per comprendere meglio l’estetica del cinema di Tarantino, nonché di gran parte della produzione culturale e artistica contemporanea, questa è propria quella di “ironia”. Essa non va intesa in senso esclusivamente classico, quasi fosse solo un sinonimo di comicità, seppur anche questo ambito di significato potrebbe addirsi alla dimensione parodistica del cinema del regista americano; il divertimento che emerge dal cinema di Tarantino è infatti una cifra distintiva della sua opera, e il divertimento nonché la comicità emergono dall’irrealtà dell’immagine. Già in questi termini diventa evidente come l’ipersemiotizzazione tarantiniana riesca a trasfigurare, nelle sue opere simulacrali, la vioF. Jameson, cit. in ivi, p. 105. V. Zagarrio, La grande mall dell’immaginario. Il cinema di Quentin Tarantino, cit., p. 30. 42 43
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lenza e la crudeltà emancipandole da una dimensione morale, e così facendo ponendole esclusivamente su un piano estetico suscitando persino il nostro divertimento. L’ironia è perciò la capacità che ha l’opera di far ridere per qualcosa che, se ci trovassimo ad assistergli nell’esperienza concreta, non ci farebbe mai ridere; questa trasfigurazione avviene però tramite un procedimento formale che merita particolare attenzione. Infatti, una maniera più sottile e sofisticata di intendere la categoria dell’ironia è quella offertaci da György Lukács nella Teoria del romanzo;44 l’idea di ironia che emerge in questo importante testo della filosofia del Novecento non è completamente sciolta da vincoli rispetto alla definizione classica, ma il ragionamento del filosofo inquadra innanzitutto l’ironia come facoltà che ha l’opera di dimostrare la coscienza che essa ha di essere opera, ovvero di essere distinta dalla realtà perché finzione. Così facendo, Lukács si rifà a una tradizione propria della letteratura romantico-idealistica, proprio relativa al concetto di ironia. Infatti, tanto per Schlegel, quanto per Fichte e Hegel, ironia è sinonimo di autocoscienza, o meglio ancora del cristallizzarsi dell’autocoscienza autoriale nella forma espressiva. Pirandello a proposito di Schlegel e dei romantici sosteneva: [...] l’ironia consiste nel non fondersi mai del tutto con l’opera propria, nel non perdere, neppure nel momento del patetico, la coscienza della irrealtà delle sue creazioni, nel non essere lo zimbello dei fantasmi da lui stesso evocati, nel sorridere del lettore che si lascerà prendere al giuoco e anche di se stesso che la propria vita consacra a giocare.45
In questa maniera è la forma artistica stessa che comunica ed esprime la coscienza che essa ha di se stessa, ovvero il suo sapersi “finzione” e distinta rispetto alla realtà. L’ironia del romanziere è il carattere specifico del genere romanzo rispetto ad altri generi classici, primo tra tutti l’epica, genere caratteristico di un’epoca nella quale il senso era immanente nel mondo, garantito dagli dei in persoCfr. G. Lukács, Teoria del romanzo, Nuove Pratiche editrice, Parma 1994; cfr. anche G. Di Giacomo, Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 24-57. 45 L. Pirandello, L’umorismo, Garzanti, Milano 2004, pp. 17-18. 44
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na. Nel momento in cui gli dei abbandonano il mondo, lasciandolo “alle sue crepe e a i suoi abissi”, il Senso diventa materia di ricerca, diventa l’ambizione e l’obiettivo dell’eroe; all’interno della forma romanzo, un qualche senso viene raggiunto da parte dell’eroe, ma non si tratta di un senso capace di redimere il reale e di dare senso in maniera definitiva al mondo: si tratta di un senso legato indissolubilmente alle necessità formali del testo, ovvero che il testo debba necessariamente concludersi e che la suo forma testuale debba risultare significativa e ben strutturata. Per non svilire il genere del romanzo però in “letteratura amena”, continua Lukács, il romanziere deve compiere un ulteriore sforzo: proprio lì dove ricostituisce un senso tra i frammenti dispersi nell’universo della forma letteraria, deve “disdire” questo senso nel momento stesso in cui lo afferma, deve “parodiarlo”, ovvero deve fare emergere la frattura insanabile tra l’opera e la realtà.46 In altri termini, attraverso l’ironia, ovvero lo svelamento dell’artificio letterario nel palesamento dell’autore, il romanziere deve sottolineare come il senso perseguito appartenga all’opera e non alla vita, che invece resta irrimediabilmente abbandonata al non-senso; come afferma Bergson, «quel che dovrebbe essere fingendo di credere che esso sia precisamente ciò che è: in ciò consiste l’ironia».47 Per questo il romanziere non ci illude, perché non intende mai convincere il lettore che quanto sta leggendo corrisponde alla realtà, ed è quanto troviamo nello stile parossistico di Tarantino. Tarantino infatti mette in evidenza, come vedremo nel dettaglio nei vari casi specifici dei singoli film, la finzionalità del suo cinema, che non pretende mai di confondersi con il reale; sono innumerevoli i momenti in cui il cinema tarantiniano dichiara la propria falsità e in questo modo si distacca dal reale, rifiutando di confondersi con esso: «l’ esibita autoreferenzialità di Tarantino ha spesso impedito di leggere i suoi film come tracce di un esterno, di un fuori sociale e culturale».48 È proprio questo movimento ironico di distacco che concede alla violenza e alla crudeltà tarantiniane di non degenerare in sadismo, e di assumere persino un legittimo significato morale nella seconda Su questo, cfr. G. Di Giacomo, Estetica e letteratura, cit., pp. 5-57. H. Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Rizzoli, Milano 2001, p. 110. 48 V. Buccheri, Pulp Fiction, in V. Zagarrio (a cura di), Quentin Tarantino, cit., p. 65. 46 47
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fase della sua produzione; anche in Tarantino infatti, lì dove il senso viene raggiunto e dove l’happy end risolve la narrazione a favore dei “buoni”, la ricomposizione immaginifica dell’infranto coincide con l’insistenza della separazione tra la narrazione e la realtà, una realtà che invece non può venire giustificata e dove non vige alcun lieto fine perché abbandonata al non-senso. La giostra plastificata di Tarantino, anche dove tutto assume un preciso significato nel percorso di redenzione degli eroi, potrebbe così esprimere sempre (anche nella fase simulacrale) un implicito e indiretto valore etico, potremmo affermare “in negativo”: l’a-moralismo del suo cinema e il conseguimento del senso volto solo alla soddisfazione del godimento spettatoriale testimoniano la necessità di una morale in una realtà, la nostra e non quella filmica, abbandonata al non-senso. Come se il simulacro di Tarantino, le vendette perseguite e la rivincita degli oppressi, sostenessero senza dirlo “questo è possibile solo qui, non lì”, ovvero non è possibile dall’altra parte dello schermo, nel mondo reale; come vedremo, il discorso si complica quando il simulacro sarà incrinato e infranto dalla Storia stessa, provocando una suggestiva confusione di piani che non può non implicare serie considerazioni sul significato filosofico della vendetta e della violenza. Zagarrio parla perciò di valenza “politica” di questo cinema, una politica “negativa”, perché in absentia, cioè negata dalla sua totale assenza a livello narrativo e contenutistico: [...] quello di Tarantino è un cinema “manierista”, più che neo-barocco, che dietro il patchwork citatorio e la superficie ludica e irridente nasconde inquietudini, violenze, incubi personali e collettivi che possono essere anche “politici”.49
D’altronde, la categoria dell’ironia non va confusa semplicisticamente con quella di “umorismo”; per questa ragione il movimento concettuale dell’opera di Tarantino segue una parabola inversa rispetto alla nota teorizzazione pirandelliana relativa all’umorismo. Mi riferisco all’esempio celebre dell’anziana signora agghindata come una giovane, la quale genera ilarità in chi la guarda fino a quando non viene rivelato che l’anziana è costretta a mettersi in riV. Zagarrio, La grande mall dell’immaginario. Il cinema di Quentin Tarantino, cit., p. 31. 49
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dicolo per non perdere l’uomo che ama, che le impone simile umiliazione; a quel punto, il nostro sorriso beffardo diviene una smorfia di commiserazione e malinconia. Questa teoria presuppone una concezione profondamente psicologica dei personaggi, non a caso caratteristica della letteratura moderna; Tarantino, come vedremo meglio nel capitolo relativo a Kill Bill, si allontana dal romanzo per riappropriarsi di una dimensione mitica caratteristica, nella cultura di massa postmoderna, dell’universo del fumetto: infatti i suoi personaggi sono autentici characters, profili incastonati nel loro stesso destino, che non si sviluppano cronologicamente e non si trasformano a partire dall’esperienza temporale. Questa assenza di livello psicologico fa sì che la ricezione spettatoriale di un film tarantiniano segua appunto una logica inversa a quella romanzesca dell’umorismo: se davanti all’esempio di Pirandello recuperiamo la serietà da un momento di ilarità, al cospetto delle immagini del cinema di Tarantino godiamo e ridiamo per avvenimenti e circostanze che il nostro senso morale, qualora gli assistesse nella vita di tutti i giorni, troverebbe aberranti e terribili. Non si può a ben vedere parlare di un’assenza completa di psicologia nei film di Tarantino, anzi, in diverse occasioni lo spettatore sente di poter immedesimarsi nei confronti di determinati personaggi rispetto ad altri; però il valore stesso della psicologia diventa “prosaico”, ovvero dichiara immediatamente una sorta di artificiosità e riconsegna anche la dimensione psicologica ed emotiva al circuito simulacrale, per il quale tutto è in funzione dell’autoreferenzialità, perché il fine ultimo è quello del godimento. Per queste ragioni Bruce Russell sostiene la tesi di una possibile dimensione morale anche nel primo Tarantino, dove uomini violenti e colpevoli finiscono per essere puniti dal fato, come se intervenisse una superiore giustizia,50 e James H. Spence definisce Le Iene un film “carico di moralità”, alludendo a come Mr. White si prende cura di Mr. Orange.51 In realtà si tratta di una “morale simulacrale”, che Cfr. B. Russell, I film di Tarantino: di cosa parlano e cosa possiamoimparare da loro?, in R. Greene, K. Silem Mohammad, Quentin Tarantino e la filosofia. Come fare filosofia con un paio di pinze e una saldatrice, Mimesis, Milano 2013, pp. 13-21. 51 J. H. Spence, Le vite morali dei Reservoir Dogs, in Quentin Tarantino e la filosofia, cit., pp. 51-61. 50
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non ha niente da insegnare nella concretezza della vita reale: non dà insegnamenti, ma è volta solo alla logica fumettistica del godimento spettatoriale. I personaggi sono figure intercambiabili, e quando hanno una maggiore profondità caratteriale essa è la messa in mostra del cinema stesso, perciò non pretende una qualche veridicità, o meglio la veridicità cui si affida non è quella dell’esperienza quanto quella del cinema stesso. L’unico elemento che pone questo cinema ipersemiotizzato a contatto con l’esperienza reale, instaurando un rapporto con lo spettatore e il suo mondo, è rappresentato dalle dinamiche del thanatos, ovvero dall’attrazione per il male, che viene a costituirsi in maniera sottilmente catartica, perché mediata dall’ironia del parossismo che ne evidenzia continuamente l’irrealtà. Come abbiamo visto, contrariamente a quel nuovo cinema sadico (Saw, Hostel) che troppo frettolosamente è stato ritenuto erede dell’estetica e della poetica di Tarantino, quest’ultimo non alimenta la perversione attraverso la messa in scena realistica della violenza e della tortura, ma trasfigura all’eccesso tali elementi fino a renderli evidentemente fittizi, per questo è lo stesso Tarantino a sostenere che «la violenza è un soggetto del tutto estetico».52 Attraverso tale iperrealtà allora si può godere del male, del sangue e della violenza, perché il parossismo sottolinea a ogni passaggio l’irrealtà di quanto vediamo. Ma il valore dell’attrazione e la fascinazione per l’universo fittizio, che come sappiamo non ha alcun referente esterno al mondo del cinema perché il referente resta all’interno della sfera della settima arte data la pratica del citazionismo, istiga e coinvolge le nostre emozioni addirittura più della realtà stessa, dato che la finalità di questo cinema è quella di coinvolgere o più semplicemente divertire («Non c’è nulla di profanatorio o dissacrante in questa abbuffata cinematografica, soltanto il piacere giubilatorio della reinvenzione»);53 in altri termini si tratta di un cinema che intende soddisfare le richieste cognitive e le pretese dello spettatore, e come vedremo qui si colloca il valore che assume la vendetta ma anche la peculiare ricomprensione della storia: Q. Tarantino, cit. in A. Baratti, Il piacere giubilatorio della reinvenzione in Le Iene e Pulp Fiction, cit., p. 17. 53 Ivi, p. 26. 52
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[...] la citazione non crea nessun senso metaforico o poetico supplementare, ma risponde a una logica ludica e identitaria. Serve a trovare un terreno comune di dialogo con lo spettatore. Questo terreno è la cultura di massa, che da un lato viene data per scontata come patrimonio, dall’altro diventa oggetto di variazione sul tema, di rebus e sfoggio di bravura.54
Alla morale astratta, questo cinema risponde con la soddisfazione visiva delle richieste psichiche di compensazione dei torti subiti. Come vedremo nel capitolo dedicato a Kill Bill, tutto questo può venire ricompreso nietzscheanamente come “giustificazione estetica dei fatti del mondo”, e se molti sono i riferimenti a Nietzsche da parte di diversi interpreti, il modo migliore di mettere in rapporto il filosofo a Tarantino è proprio questa, ovvero la comprensione del cinema, cioè dell’arte, come ambiente della redenzione, possibile solo nella finzione artistica e perciò stessa negata nella vita.55 La «superficialità, anesteticità e (a)moralità di Tarantino»56 è per Buccheri un professionismo esibito, che vuole rispondere all’horror vacui che caratterizza la nostra vita quotidiana e il cinema del maestro americano è come se rispondesse all’esigenza di trovare qualcosa da dire, in un mondo che ha smarrito qualsiasi senso della parola e della comunicazione: Avere qualcosa da dire: se il cinema di Tarantino è impareggiabile nel rendere toni e modi delle conversazioni della vita, di quelle banali, distratte conversazioni fatte solo per passare il tempo, è evidente che il punto rimane quello: avere un contenuto. Che è, in senso autoironico, il nodo del cinema tarantiniano, così vuoto (di senso) e così pieno (di segni), sorta di parodia rovesciata dei temi modernisti del silenzio e dell’incomunicabilità.57
V. Buccheri, Il piacere giubilatorio della reinvenzione in Le Iene e Pulp Fiction, cit., p. 60. 55 Cfr. T. Anderson, Sguinzagliare Nietzsche sull’infrastruttura tragica de Le Iene di Tarantino, in Quentin Tarantino e la filosofia, cit., pp. 31-48. 56 V. Buccheri, Il piacere giubilatorio della reinvenzione in Le Iene e Pulp Fiction, cit., p. 53. 57 Ivi, p. 57. 54
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Per questo in tali opere la dimensione del tempo è quella di un universo chiuso in sé, che non contempla la linearità di fasi in successione quanto un ordine temporale anacronico, aggrovigliato su se stesso, che conferma ulteriormente la sospensione della temporalità che Jameson rintracciava nella cultura postmoderna: questo perché la linearità “paolina” del tempo si affida alla struttura narrativa classica, dove il concatenamento di eventi è regolato da connessioni di causa-effetto, ma quando salta il paradigma di causa-effetto e a esso si sostituisce l’assoluto ed esclusivo valore di attrazione per l’immedesimazione e la costruzione ipersemiotizzata, allora tutto è funzionale al racconto e alla sua efficacia. Come afferma Randall E. Auxier, per esempio, «non c’è niente di fondamentalmente nuovo in Pulp Fiction»,58 dal momento che si tratta di «usare tutti i cliché di Hollywood ma metterli insieme in un modo che il pubblico non aveva mai visto prima»:59 questo è l’effetto che Tarantino tenta di perseguire, ovvero un contatto fisico e nervoso con lo spettatore, uno shock determinato dalla bizzarria dell’inaspettato, ed è anche per questo che la temporalità di Pulp Fiction è paradigmatica, perché contorce la narrazione sopprimendo la linearità classica, dove ciò che conta non è “quale” azione determini “cosa”, ma l’effetto complessivo dell’inaspettato che è prodotto dalla percezione acronica degli eventi. Abbiamo a che fare con una “struttura esplosa” per dirla con Zagarrio: «[...] una sceneggiatura fratta, organizzata per sequenze non cronologiche dove si intersecano e si ibridano episodi, dimensioni, latitudini differenti eppure complementari e intrinsecamente collegate»,60 struttura che porta Leonardo Gandini a definire Le iene «un film postmoderno, forse addirittura il film postmoderno per eccellenza».61 Trattando il problema della temporalità inedita del cinema di Tarantino, ci sembra appropriato fare riferimento a un classico della teoria del cinema contemporaneo, ovvero il volume di Laurent Jullier Il cinema postmoderno. Quella di Jullier è una delle più note
R. E. Auxier, Il pessimo giorno di Vinnie: rovesciare il tempo nella storia di Pulp Fiction, in Quentin Tarantino e la filosofia, cit., p. 127. 59 Ibid. 60 V. Zagarrio, La grande mall dell’immaginario. Il cinema di Quentin Tarantino, cit., p. 22. 61 L. Gandini, Le iene, in V. Zagarrio (a cura di), Quentin Tarantino, cit., p. 33. 58
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teorizzazioni del postmoderno nell’ambito degli studi cinematografici, per quanto, a distanza di decenni, il saggio dell’autore francese presenti oggi dei limiti evidenti, che proveremo a evidenziare partendo proprio dal cinema di Tarantino, che non a caso Jullier elegge a regista esemplare della postmodernità cinematografica (distinguendosi in questo dalla posizione di Zagarrio); come per Darley, l’interpretazione di Jullier è viziata da un assunto moralistico di fondo, che guarda con sospetto e con struggente nostalgia il presente (e il futuro) alla luce di un passato nobile dove il cinema “era veramente cinema”. Tale “vizio” moralistico non esclude totalmente la validità di determinate tesi del teorico, ma sicuramente ne contamina le conclusioni e le considerazioni complessive. Jullier d’altronde assume la categoria di postmodernità in termini prettamente cronologici: tutto il cinema contemporaneo, approssimativamente da Guerre stellari (1977) in poi, si inscrive all’interno della postmodernità, caratterizzando secondo la sua lettura prodotti agli antipodi come 1492 – La conquista del paradiso e Dancer in the Dark, Balla coi lupi e Terminator, i videoclip musicali e per l’appunto Pulp Fiction. Alla base di tutto, Jullier rintraccia una tendenza al recupero (tipico del cinema delle origini, concepito come strumento capace di ammaliare e sorprendere gli spettatori) del “puro piacere” edonistico della visione, in grado di semplificare e ridurre al minimo l’approccio riflessivo, tipico invece della cultura moderna. Per questo, all’interno dell’argomentazione di Jullier, trovano posto non solo i prodotti della videomusica, ma anche le giostre di Disneyland e gli effetti “immersivi” del cinema in 3D. Questo cinema che si compone di “immagini-che-si-sanno-immagini” si distanzia dal concetto di parodia, concetto prettamente moderno: «L’ideale per l’autore postmoderno è quello di far capire che se egli volesse, la sua opera potrebbe rivelare la modernità più radicale […]. Se la parodia è un’arte di secondo grado, si può dire che il contesto postmoderno permette ai film di aspirare al terzo grado»,62 e rincara la dose sostenendo che «[...] spesso l’autore postmoderno amministra la propria opera con il “realismo” freddo di un pubblicitario»63 – e non è un caso che autori come Baudrillard e Perniola insistano sul carattere di cinismo 62 63
L. Jullier, Il cinema postmoderno, Kaplan, Torino 2006, p. 22. Ivi, p. 23.
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nella loro interpretazione della Pop Art di Andy Warhol,64 artista che sicuramente possiede un comune sentire e una vicinanza con Quentin Tarantino. Il sacrificio della Storia come istanza testimoniale ed etica avviene attraverso un’estetica dell’allusione, «sotto forma di strizzatina d’occhio a uno spettatore che l’enunciatore “sa che sa”»;65 si tratta del passaggio dall’ “immagine-traccia” (che caratterizzava il cinema documentario in tutte le sue innumerevoli declinazioni, e che affidava alla macchina-cinema un compito etico di denuncia e di testimonianza delle vicende del mondo) all’“immagine-sensazione”, che esaurisce il suo valore nel mero coinvolgimento nervoso (e questo passaggio è ulteriormente confermato nella teoria di Jullier dal passaggio irreversibile dall’analogico al digitale). Dal momento che «secondo la teoria postmoderna tutti i segni hanno acquisito la propria autonomia e hanno rapporti tra loro e non più con noi o con il mondo»,66 Jullier rintraccia il vero fondatore di questo nuovo scenario estetico-culturale in de Saussure e nella sua posizione relativa alla circolarità della lingua, ovvero nella caratteristica delle parole di rimandare ad altre parole, in maniera tautologica, piuttosto che alle realtà del mondo. In questi termini, come evidente nello stile simulacrale di Tarantino, quello che Theodor W. Adorno definiva “contenuto di verità” – ovvero la facoltà che l’opera d’arte ha di esprimere, seppur negativamente, un qualche significato relativo al mondo in cui viviamo che ci possa concedere di prendere posizione su di esso –, svanisce a vantaggio di un’assoluta autonomia finzionale che alimenta la sua efficacia proprio a partire dalla distanza incolmabile che essa stabilisce con la nostra vita: «i nostri segni non hanno più bisogno di noi, la circolarità è diventata perfetta».67 Di qui il superamento, secondo Jullier, non solo della parodia ma della stessa ironia, categoria che come abbiamo visto caratterizza la modernità: «Di fronte all’ironia, alle impasse concettuali nelle quali è bloccata l’arte moderna e al “tutto è già stato det-
Su questo, cfr. A. Alfieri, Necessità e fallimento della forma. Saggio su Adorno e l’arte contemporanea, Mimesis, Milano 2015, pp. 129-138,e soprattutto A. Alfieri, Il cinismo dei media, Villaggio Maori, Catania 2017. 65 L. Jullier, Il cinema postmoderno, cit., p. 27. 66 Ivi, p. 33. 67 Ivi, p. 34. 64
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to”, alcuni autori postmoderni mirano ad aggirare la ragione dello spettatore per toccarne “direttamente” il sistema sensoriale»;68 alla luce di quanto abbiamo sostenuto, però, appare chiaro come la figura di Tarantino si ponga su un terreno di confine, dal momento che in lui convivono tanto la dimensione dell’ironia (tipicamente moderna), quanto quella del godimento puramente sensoriale, anzi le due dimensioni sono strettamente connesse e nel suo cinema fanno tutt’uno: possiamo godere dei suoi film proprio in funzione dell’atteggiamento ironico, in grado di “disdire” quanto viene mostrato. Sulla scorta della teorizzazione di Richard Allen, che distingueva tre diversi livelli di “credenza al cinema”, Jullier coglie il superamento operato dal cinema contemporaneo, un superamento che paradossalmente sembra una riappropriazione di un livello elementare di percezione; Allen applicava il suo pensiero al film La notte dei morti viventi di George Romero: il “primo livello” è la lettura realistica, dal momento che lo spettatore vede il film come registrazione dei gesti di un attore truccato da zombi (immagine-traccia); il secondo e il terzo livello appartengono invece all’ambito dell’illusione e perciò dell’immaginario: “illusione riproduttiva”, attraverso la quale lo spettatore si convince di assistere a un documentario sugli zombi, creature che esistono effettivamente nella nostra realtà, e “illusione proiettiva”, ovvero la percezione e la consapevolezza di assistere a eventi di un altro mondo nel quale esistono gli zombie. Questo terzo livello caratterizza gran parte delle produzioni cinematografiche, soprattutto quelle finzionali, e garantisce l’efficacia del cinema come “macchina dei sogni” e “macchina di identificazione”: il cinema è un accesso a un universo parallelo, che però (come fa tutta l’arte d’altronde) ci dice qualcosa della nostra realtà, dandoci gli strumenti per comprenderla meglio o in maniera differente. Questo è tipico della modernità, perché la postmodernità compie un ulteriore passo: come evidente con Tarantino, il cinema recupera un elemento del primo livello, ma non per restituire un’immaginetraccia. L’immagine del cinema postmoderno non vuole illudere sulla confusione tra mondo immaginifico e realtà, ma denuncia da subito la sua irrealtà, e soprattutto sottolinea l’impossibilità di messa in comunicazione tra il nostro universo e quello filmico. Se l’illusio68
Ivi, p. 36.
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ne proiettiva caratterizza tutti i film, dal momento che lo spettatore (qualora in possesso di facoltà intellettive e cognitive normali) vive il paradosso di sentirsi coinvolto dagli eventi ai quali assiste (commuovendosi, stupendosi, indignandosi) per quanto cosciente che si tratti di una finzione, il cinema simulacrale postmoderno tematizza questo movimento, lo rende palese, lo esterna, e il piano morale ed emotivo del coinvolgimento lascia il posto a un coinvolgimento ancor più profondo e “fisico”, pre-razionale, legato alla stimolazione sensoriale. Tutto il cinema della postmodernità secondo Jullier è diretto verso il cyberspazio, la totale immersività e l’abolizione dello schermo, evidenziando ancora come si tratti di una lettura troppo generalizzante, perché se questo è vero per la continuità esistente tra i blockbuster hollywoodiani (i “film-concerto”) e le produzioni dei Luna Park (per non parlare del trionfo della tecnologia 3D), proprio questo non può essere sostenuto a proposito di Tarantino e di molti altri registi, che giocano con le categorie del postmoderno mantenendo però un rigore modernista e autoriale. Debole è la posizione anche a proposito di una presunta abolizione della narrazione causale, non perché non è vero che la struttura classica basata sulla consequenzialità logica degli eventi sia saltata in maniera evidente con film come Le iene e Pulp fiction – dove gli eventi determinanti avvengono in maniera improvvisa ed “esplosiva” – ma innanzitutto si tratta di una caratterizzazione già propria della grande tradizione modernista. Basterà pensare a come Bachtin parlasse di “catastrofi” a proposito degli avvenimenti principali che segnano i romanzi di Dostoevskij, ma in ambito cinematografico è sufficiente rifarsi ai grandi autori della modernità come Godard, Altman e Resnais per trovare quel racconto-debole caratteristico dell’immagine-tempo teorizzata da Gilles Deleuze. Jullier tenta di sottolineare la differenza che esiste tra il non-racconto postmoderno e il racconto debole della modernità, dal momento che il primo si porrebbe sotto il segno dell’ “accumulo” e del “fuoco d’artificio”, ovvero si baserebbe sullo stupore per l’effetto speciale e per l’ipertecnologizzazione; ma in questa maniera diventa nuovamente evidente come il fallo del pensatore francese sia sempre quello relativo alla generalizzazione, perché se questo è 47
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vero per molte tendenze del cinema spettacolare tipicamente americano, tale distinzione non è pregnante per il cinema di Tarantino, in questo molto più vicino ai maestri della modernità e al racconto debole. Non solo: se il racconto debole, ovvero la messa in questione della linearità logico-consequenziale, appartiene alle prime opere di Tarantino, lo stesso non può essere detto ad esempio per Kill Bill, che invece si presenta come un flusso di azioni e reazioni molto più affine alla dimensione epica che a quella del romanzo moderno. Potremmo sostenere che Le iene sta all’Amleto, come Kill Bill sta al Macbeth: dal racconto debole segnato dall’inazione, dove ciò che accade di significativo avviene sotto il segno della catastrofe, si passa a una narrazione “forte”, un inevitabile precipitarsi di eventi legati a un destino inesorabile, dove un piano lucido e rigoroso trova compimento nel corso dell’opera. Mentre nel Macbeth il destino è un destino di morte, in Kill Bill (e in questo il suo tono epico) è un destino di trionfo e riscatto. Il punto è che l’adozione di una narrazione classica in Kill Bill avviene in maniera talmente palese e spudorata da non poter essere considerata un’operazione “reazionaria” o ingenua, ma si tratta, come vedremo nel dettaglio in seguito, della messa in evidenza della natura finzionale del racconto, che è un racconto “forte” solo perché è evidentemente un racconto “fittizio”. Altro elemento strettamente connesso a quanto sostenuto da Jullier è che, con la vanificazione della dimensione morale e storica, non c’è da stupirsi che quel cinismo a cui abbiamo fatto riferimento sopra (a proposito della vicinanza “ideologica” tra cinema tarantiniano e Pop Art) si sia diffuso nel cinema contemporaneo anche a livello diegetico, ovvero nella definizione di determinati personaggi che appaiono come assassini e sadici che compiono i loro misfatti senza un ragionevole motivo, oppure nello svuotamento del valore testimoniale ed etico dei riferimenti a determinate tragedie storiche: non a caso Jullier parla della scena in Pulp Fiction relativa alla consegna dell’orologio al piccolo Butch da parte del commilitone del padre scomparso durante la Guerra in Vietnam: se questo evento, rappresentativo della disillusione e della fine del sogno americano, è stato raccontato abbondantemente dal cinema che nel corso dei decenni ne ha messo in luce le atrocità, le contraddizioni, le sofferenze e le ripercussioni sulla società americana, nella scena del film 48
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di Tarantino il racconto diventa beffardo e persino comico. Particolarmente intrigante e significativa è invece la riflessione che il teorico francese fa a proposito del significato che la violenza assume nel cinema postmoderno, riflessione che può esserci molto utile per lo sviluppo del presente lavoro. Afferma Jullier: Il nuovo spettatore è alla ricerca di emozioni forti perché è incessantemente minacciato dall’anedonia, l’incapacità di provare piacere […] Il cinema postmoderno gliela apporta sotto due forme: la prima […] che cerca di indurre ciò che gli psicologi chiamano comportamenti di vertigine a colpi di montaggio fluido, effetto video musicali, e travelling euforizzanti; la seconda […] punta sulla spettacolarizzazione della violenza. La produzione di sensazioni vertiginose richiede […] un impressionante dispiegamento tecnologico, schermi giganti e altoparlanti superpotenti, se non sale costruite all’uopo. Per cercare di competere economicamente con esso, tutta una parte del cinema narrativo di azione ha scelto una via meno costosa. Lottando anch’esso contro questo “prosciugamento” delle immagini, ogni giorno che passa un po’ meno impressionanti rispetto a quelle che le hanno precedute, ha scelto di giocare su un ritorno all’identificazione per suscitare emozioni, tramite quella “novità” che è lo spettacolo integrale della violenza.69
Ora, da un lato Jullier segnala come il film-concerto (ovvero il grande “giocattolone” hollywoodiano che punta tutto sullo shock dell’evento visivo) vada a braccetto con l’esibizione shockante della violenza, e molti film fanno coincidere le due dimensioni: sono infatti entrambi modi per recuperare lo shock, che infatti appartiene al cinema delle origini che “toccava” lo spettatore per l’elemento di novità. Dal momento che tale novità si è perduta, dopo un secolo di assimilazione della grammatica e della tecnica cinematografica, recuperare lo shock significa alzare l’asticella, puntare a un qualche “scandalo visivo” che scardini l’educazione delle convenzioni. L’elemento dello shock, a cui sono rivolte tutte le energie dell’autore, però, è inversamente proporzionale alla dimensione riflessiva, ovvero al pensiero: il cinismo col quale la postmoderna industria 69
Ivi, p. 118.
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del cinema punta indiscriminatamente a questa dimensione di violenza esibita avrebbe per Jullier un preciso valore ideologico, e perciò politico. Ed è a questo punto che Jullier fa riferimento alla celebre scena della tortura de Le iene, colpevole di aver neutralizzato il “fuori campo”, elemento che nutre la riflessione assieme all’immaginazione: nel momento in cui tutto è esibito siamo attratti dal fascino del Male, ma non c’è “spazio” per la riflessione e perciò per la valutazione etica. Se questo tipo di argomentazione ha senza dubbio un nucleo di verità, è anche vero che però lo sviluppo delle posizioni di Jullier peccano poi di ingenuità, nonché di comprensione limitata degli intenti dello stesso Tarantino; sostiene infatti il saggista francese, proprio a proposito della scena della tortura: «La violenza è associata a un gesto enunciativo, a una rivendicazione autoriale: essere più realista, denunciare l’effetto dei pugni e degli spari (cosa che d’altronde è una chimera: non si può denunciare la violenza esibendola)».70 Secondo queste parole, la violenza di Tarantino punterebbe a un effetto di realismo, funzionale alla denuncia della violenza stessa, e vorrebbe approdare a tale risultato con la soppressione del fuori-campo; ben più chiaro è l’autore qualche riga dopo, quando sottolinea come la violenza, nel suo conclamato cinema postmoderno, si ponga sotto il segno del distacco cinico: la violenza esibita e raccontata non è più un’arma ideologica, non è più in funzione di un messaggio morale, ma si pone nel solco della cinica domanda retorica “Perché no?” (un “Perché no?” che inquadra al meglio il cinismo caratteristico della nostra epoca, se pensiamo ai suoi rapporti con la politica e la vita civile). Anche la violenza, svuotata di un referente effettivo e di un significato, diventa perciò elemento estetico funzionale al godimento dello spettatore; ma ci sentiamo di sostenere che Tarantino, a differenza di molti registi che puntano sull’estetica del sadismo, ha di che rispondere all’interrogativo del “Perché no?”: la sua estetica si svincola dall’accusa di sadismo perché mette in scena la violenza negandola, ovvero evidenziando in ogni passo la sua irrealtà, e permettendo così alla coscienza morale degli spettatori di apprezzarne il valore spettacolare. Jullier accusa il rischio della perdita della cre70
Ivi, p. 122.
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denza, ovvero della vanificazione totale della verità delle immagini, che nel cinema postmoderno, e nel cinema di Tarantino, non ha più alcuna importanza; si tratta di una ricezione di tipo “ludico”, ma questa dimensione ludica coincide con quella ironica, che invece, aggiungiamo noi, è completamente assente nel cinema sadico e a maggior ragione negli snuff movies. Quando Jullier analizza la scena del neonato ucciso nella Corazzata Potëmkin, e specifica il valore che qui assumono il fuori-campo (perché non vediamo il bambino nella carrozzina mentre viene squartato) e l’Altro mediatore come istanze che permettono al pensiero e all’immaginazione dello spettatore di valutare quella violenza in maniera critica e così potersi indignare, la contrappone all’estetica tarantiniana, con ragione: l’esibizione di Tarantino infatti vuole manifestare la possibilità che la violenza possa non avere un significato morale, e perciò politico e ideologico. Jullier non arriva a comprendere la violenza e la crudeltà scevre di un portato morale, quasi a confermare il tono malinconico per un cinema “passato” che, senza dirlo, è ritenuto “migliore” e più “artistico” di quello presente. Da un punto di vista prettamente filosofico e concettuale, Jullier non considera tutte le complicazioni che si hanno a trattare sia del tema della violenza, che di quello strettamente connesso della “crudeltà”, che non a caso Lucrezia Ercoli definisce “enigma”. Il paradosso costitutivo della crudeltà infatti è il seguente: Non si tratta più dell’aggressività dell’uomo allo “stato di natura”, di un istinto condizionato biologicamente che si può “sradicare” con la civiltà. La violenza regna nell’universo animale, ma solo la crudeltà si annuncia come volontà di causare deliberatamente sofferenza. L’animale senza coscienza e libero arbitrio non è crudele, non prova piacere nel lacerare la carne e nel far uscire il sangue. La crudeltà è pathos: piacere e, dato il percorso di codificazione che le è proprio, lucida volontà. Si configurano, quindi, due definizioni contrapposte: da un lato crudeltà come regressione alla bestialità, dall’altro crudeltà come desiderio dell’umanità.71 L. Ercoli, Filosofia della crudeltà. Etica ed estetica di un enigma, Mimesis, Milano 2013, p. 13. 71
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Senza dubbio, la crudeltà di Tarantino sembra accogliere tale paradosso, perché si affida alla dimensione sensoriale del godimento puro, ma tramite l’ironia rifiuta la dimensione del mero edonismo euforico per riappropriarsi della dimensione della coscienza; d’altronde, come vedremo meglio in seguito, questo paradosso della crudeltà (che, come sosteneva Antonin Artaud, non è mai istinto irrazionale, ma pianificazione lucida e consapevole) sembra riflettere quello della vendetta, teorizzata da Sloterdijk in contrapposizione all’ira ed esibita in maniera perfetta dal personaggio principale di Kill Bill. Ora, dobbiamo tener comunque ben presente che l’estetica della crudeltà teorizzata e adottata nel corso della sua produzione da Artuad, si distingue nettamente dalla crudeltà esibita nei film di Tarantino, dal momento che, come ricorda Ercoli, alla base dell’arte di Artuad è la convinzione che la performance teatrale si debba offrire come “evento” annullando i confini tra arte e vita. Lo scuotimento e lo sconvolgimento che lo spettatore prova dinanzi all’opera teatrale abbatte ogni possibile distinzione tra arte e vita, facendo confluire l’una nell’altra, e questo è possibile solo a teatro, poiché la continuità spazio-temporale dell’esperienza teatrale garantisce il mantenimento del valore ontologico dell’evento, ovvero che ciò a cui sto assistendo stia accadendo lì in quel preciso momento; questo è quanto, agli inizi del secolo, aveva colto bene Lukács quando sottolineava l’insopprimibile differenza che separa il cinema dal teatro: L’effetto teatrale non ha le sue radici nelle parole o nei gesti dell’attore, e neppure negli avvenimenti del dramma, ma in quel potere che permette ad un uomo, all’intenzione vivente di un uomo vivente, di raggiungere direttamente un pubblico altrettanto vivente, senza la mediazione di un piano preordinato che agisca come freno. Il teatro è presente assoluto.72
Solo in questi termini è possibile parlare di evento a proposito del teatro, e secondo il filosofo ungherese anche di destino; dal canto suo, al cinema mancherebbe proprio la dimensione del “presente” dal momento che per la tecnica cinematografica “tutto è già stato” G. Lukács, Riflessioni per una estetica del cinema, in A. Barbera cura di), Leggere il cinema, Mondadori, Milano 1978, p. 27. 72
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e
R. Turigliatto (a
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e filtrato dalla macchina: «per il teatro, legge connettiva fondamentale è una necessità inesorabile, per il “cinema” una possibilità illimitata […] le figure dello schermo si muovono, ma non hanno anima, e ciò che loro accade è un mero accadimento, non è destino».73 Queste sono le condizioni di base per ritenere il cinema più vicino all’industria del divertimento, e la categoria del godimento come sappiamo è basilare per comprendere pienamente il cinema di Tarantino. Per questo Tarantino si allontana da Artaud: la sua crudeltà non ha finalità nobili e rivoluzionarie, non intende restituire l’umano alla sua dimensione più propria e originaria; rinuncia di fatto alla prospettiva morale opponendosi a essa (in questo vicino ad Artaud), ma col fine di liberare il puro sentimento del godimento e del piacere. In Tarantino, vita e arte restano profondamente distinti, e tale distinzione è evidenziata da quell’ironia che invece è totalmente assente nell’arte evenemenziale della crudeltà artaudiana. Oltretutto Tarantino reintegra anche il piano del destino nel suo cinema: come vedremo in Kill Bill infatti, tutto è già stato deciso e tutto è già avvenuto, e la destrutturazione temporale annulla il “possibile” senza compromettere il gusto dell’azione. In questi termini, la crudeltà tarantiniana (qualora volessimo ancora definirla “crudeltà”) esclude il piano etico su cui Ercoli insiste, dedicandosi completamente all’ambito estetico, recuperando paradossalmente l’etica solo attraverso la più decisa negazione di quest’ultima: La verità è che Tarantino feticizza, idealizza, mitizza (il cinema, le donne, i neri), quindi li colloca in un empireo consolatorio (nonostante la violenza esibita), sganciato dalla realtà e dalla concretezza dei rapporti di forza razziali, sessuali, sociali.74
Buccheri ritiene che Pulp Fiction sia esemplare della pratica di disneyficazione del visibile, ovvero della plasticizzazione simulacrale del reale; assistiamo infatti a un effetto di derealizzazione, con il mondo ridotto a fondale plastificato dove si aggirano personaggi che hanno la consiIvi, p. 29. V. Buccheri, Il piacere giubilatorio della reinvenzione in Le Iene e Pulp Fiction, cit., p. 67. 73 74
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stenza del cartoon. Tutto, in Pulp Fiction, richiama l’estetica dei cartoni animati, a partire dagli ambienti che sembrano contenitori costruiti dai personaggi a loro immagine [...].75
Per questo, nel primo cinema di Tarantino, qualora emerga una prospettiva apparentemente morale, o un’immedesimazione empatica nei confronti di determinati personaggi rispetto ad altri, si tratta sempre di effetti determinati nel circuito chiuso della fruizione spettatoriale, che si nutre della tradizione cinematografica e non ha alcun valore morale e critico nei confronti del mondo; la violenza può così essere accettata, dal momento che il senso morale è disposto a criticare le scene violente anche quando si tratta di infliggerle a persone colpevoli o spregevoli: anzi, un maturo senso etico, che coincide con una evoluta sensibilità civica, si presenta proprio nel ripudio dell’uso della violenza. L’assenza di morale permette l’accettazione della violenza, anche se un interprete come Mark Conard, sottolinea sempre Buccheri, ritiene che Pulp Fiction possieda un sottotesto profondamente morale e critico nei confronti del nichilismo e della nullificazione dei valori di riferimento propri della società americana contemporanea; come sostenevamo prima però, l’assunzione di elementi morali nella costruzione narrativa è più un’esigenza formale, che svuota tali elementi rendendoli categorie esclusivamente estetiche e spettatoriali, infatti Tarantino gioca col cinema come gioca con la morale, simulacrandola, attraverso l’ «autocontraddizione, che pone e nega allo stesso tempo il problema della morale».76 Questo non deve farci dimenticare che il solo scintillio “etico” di questo cinema – che diventerà ben più decisivo e forte nel cinema del secondo Tarantino – emerge nel fondo del più assoluto amoralismo: si tratta di una morale “negativa”, che si fa sentire dalla completa assenza di morale nel film. È l’assenza registrata nel film che può fare emergere il bisogno di un valore morale, in un movimento dialettico che Theodor W. Adorno applicava a gran parte della produzione artistica moderna e che definiva, a proposito della musica dodecafonica di Schönberg, un messaggio talmente difficile 75 76
Ibid. Ivi, p. 70.
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da comprendere da essere un disperato messaggio nella bottiglia, che magari nessuno potrà riuscire a cogliere: […] nel caso di Tarantino è lecito chiedersi se la sua decostruzione divertita non nasconda un incoraggiamento prezioso: a fare tabula rasa, a guardare la realtà senza più schemi, senza pregiudizi. A reinventarla secondo nuove leggi. Lo sguardo naif di Tarantino è lo sguardo di un primitivo che invita a liberarsi delle zavorre per affrontare il mondo che ci aspetta, i doni che il presente ci fa, solo a saperli cogliere.77
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Ivi, p. 71.
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Kill Bill: la vendetta che redime e l’universo finzionale Kill Bill rappresenta l’apice della fase del cinema simulacrale di Tarantino, per maturità stilistica nonché per coerenza concettuale e tematica; la qualità dell’opera di Tarantino, composta da due volumi complementari per quanto diversi tra loro, si registra nel palesamento del livello di autocoscienza che il film possiede, ovvero della consapevolezza che il film sia tale e che appartenga all’universo finzionale del cinema stesso. Kill Bill propone un orizzonte plastificato e autoreferenziale, dove non c’è spazio per la Storia e per la denuncia sociale; si tratta di un universo autosufficiente dove l’immagine filmica non ha mai la presunzione di riferirsi alla realtà, piuttosto esprime l’autonomia della finzione da quest’ultima. L’unico elemento che può assumere la funzione referenziale della finzione filmica è il cinema stesso, perché proprio in Kill Bill, come era stato in precedenza, Tarantino elabora una fitta rete di riferimenti e citazioni al mondo del cinema, determinando un gioco di specchi simulacrale dove evapora un’autentica prospettiva morale. Come vedremo infatti, la vendetta come la violenza non sono funzionali a un valore etico, non trovano giustificazioni ideali, ma devono il loro senso alla loro forza di fascinazione eminentemente finzionale che si giustifica su un piano fisico-nervoso e nell’ambito dell’immaginario: Kill Bill possiede una dimensione ossessiva. Il mondo che Tarantino evoca viene recuperato con una convinzione e una furia senza precedenti. […] Il rapporto col passato è imitativo, certo, ma anche emulativo. […] Il cinema per Tarantino è tutto, e ciò dimostra che – pur all’interno di una forte tendenza metalinguistica e intermediale – si tratta di uno degli ultimi cineasti interessati ancora a lavorare sul linguaggio filmico e sulla narrazione per il grande schermo78. 78
R. Menarini, Kill Bill voll. 1 e 2, cit., p. 107.
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Le vicende di The Bride infatti esprimono un apologo celebrativo evidentemente falso; l’intero film propone in questo senso la determinazione narrativa della costruzione di un “mito”, che in quanto tale è indipendente dalla realtà esterna e dal mondo dell’esperienza, per poi diventare il motore di significato e l’ispirazione per le modalità comportamentali concrete. Il mito perciò influenza il reale solamente per merito della propria energia di autonomizzazione e assolutezza; la costruzione del mito necessita per definizione della costruzione stilizzata e irrealistica per non contaminarsi con le norme morali vigenti nel mondo. Per compiere al meglio l’operazione di costruzione del mito, appare perciò chiaro che la strategia espressiva non possa non essere l’evidenza di falsità, ottenuta attraverso la metatestualità del cinema che diventa “cinema alla seconda”: un cinema che rinuncia alla presunzione di confondersi con la verità, e che invece si dichiara immediatamente irreale nella sua stessa presentazione. Questo è l’unico modo per garantire allo spettatore un “piacere” della visione non vincolato da valutazioni morali, ma specificatamente nervose e muscolari: solo determinando l’assoluto isolamento dell’immagine della carneficina e del sangue dal mondo dell’esperienza è possibile infatti goderne a pieno senza alcuna implicazione morale e sentimentale. Il rischio di Tarantino, e di molto altro cinema simulacrale degli anni Novanta e degli anni Duemila, è stato quello di venire accusato di sadismo, ovvero di voler stimolare le più profonde e inquietanti perversioni legate al godimento del dolore altrui; come abbiamo avuto già modo di vedere, si tratta di un dibattito particolarmente attuale, perché in effetti ciò a cui abbiamo assistito in maniera esponenziale negli ultimissimi anni è stato un “ritorno al reale” legato al piacere di esperire il reale raddoppiato però dallo schermo e perciò dall’immagine, in modo da poter soddisfare il proprio thanatos col giusto distacco; l’operazione di Tarantino è più fine, perché piuttosto che tendere all’imitazione del reale, trasfigura quest’ultimo distorcendolo al punto da palesare la finzione, generando un mito efficace proprio perché irreale. Sono numerose le strategie che Tarantino adotta nei due volumi di Kill Bill per dichiarare la falsità e l’irrealtà di quanto vediamo; la prima consiste nell’adozione di diversificate modalità di rappre58
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sentazione, che spaziano dal cartone animato alla ripresa digitale lo-fi, per arrivare a sofisticati movimenti di macchina in plongée. Si tratta di procedimenti che palesano schiettamente la natura fittizia dell’immagine, e che concedono allo spettatore la consapevolezza di assistere a qualcosa di assolutamente lontano dal proprio mondo, proiettato in un altrove mitico senza luogo. A questo piano appartengono i numerosi stratagemmi tarantiniani, che evidenziano la natura fittizia del film, come è il caso degli sguardi in macchina: Gli sguardi verso la macchina da presa abbondano nel cinema di Tarantino; i suoi personaggi “interpellano” lo spettatore, ammiccano verso la platea, chiedono un misto di coinvolgimento e di estraniamento. Così è all’inizio di Kill Bill Vol. 2, quando Uma Thurman alias Beatrix alias la Sposa non solo guarda in macchina verso il pubblico mentre guida la sua convertibile, ma fa un commento sullo stesso film, alludendone alla pubblicità e agli slogan di “lanciamento”. Questo sguardo verso la macchina da presa è un escamotage retorico ricorrente: Beatrix guarda in macchina prima di partire per il Giappone, e poi sull’aereo; Butch guarda verso la macchina da presa, come a cercare complicità nello spettatore, nella scena del bar in Pulp Fiction, prima di spostare lo sguardo verso Vincent e Marsellus. La Sposa e Vernita guardano verso la macchina da presa, in una reciproca soggettiva, appena si incontrano, davanti alla porta dell’ex assassina, ora madre di famiglia.79
La seconda tecnica consiste nel parossismo della violenza, come appare chiaro nella mattanza degli “88 folli”, dove come vedremo la violenza è portata a un tale livello di manifestazione da perdere qualsiasi possibilità di essere giudicata moralmente. La terza dimensione di evidenza della finzionalità di Kill Bill passa attraverso la concezione dello sviluppo narrativo: la linearità redentiva – che confligge con la destrutturazione temporale del racconto –, il mito del riscatto e l’evidenza salvifica del racconto sono elementi che insistono ulteriormente sull’autonomia simulacrale del film. Come vedremo questo della vendetta sarà un punto V. Zagarrio, La grande mall dell’immaginario. Il cinema di Quentin Tarantino, cit., p. 19. 79
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cruciale per comprendere la svolta dal simulacro alla Storia, ovvero la conversione del potenziale redentivo della vendetta da un piano finzionale a un piano storico-morale. Cominciamo proprio da quest’ultima dimensione. Il progetto di Beatrix è frutto di una lucida e razionale pianificazione dell’ira; non già una delirante brama di riscatto, quanto una traduzione della rabbia in un rigoroso disegno redentivo. La trasfigurazione dell’ira in vendetta compete infatti proprio il contenimento razionale e intellettivo che la ragione impone al proprio statuto emotivo; Peter Sloterdijk lo definisce un “rinvio dell’esplosione”: Il potenziale d’ira si trasforma in un vettore che genera una tensione di tendenza fra l’allora, l’adesso e il poi.80
Come afferma Johnson però, quella della Sposa è una vendetta e non una retribuzione: [...] la vendetta, diversamente dalla retribuzione, è personale, spinta dall’emozione, riguarda un desiderio di vedere soffrire il colpevole e non considera alcun limite alla pena. La retribuzione invece è l’assegnazione di una pena appropriata al criminale. Ma è la vendetta, non la retribuzione, che è al centro […] di molti dei film di Tarantino.81
Infatti, se la retribuzione deve essere totalmente amministrata razionalmente, la seconda, la vendetta, per quanto pianificata con rigore e lucidità, implica sempre il godimento, ovvero l’idea che il colpevole debba soffrire. D’altronde i tentativi di Johnson e di Robison82 di giustificare moralmente la smania vendicativa della protagonista del film sono destinati all’insuccesso, come destinato all’insuccesso è ogni tentativo di giustificare moralmente la vendetta nel momento in cui si presenta come, appunto, un piano razionale e lucido. Quando per esempio Beatrix rifiuta di uccidere la figlioletta di Vernita Green, questo non accade tanto perché la sua vendetta raP. Sloterdijk, Ira e tempo, Meltemi, Roma 2007, p. 75. D. K. Johnson, Vendetta e pietà in Tarantino: la lezione di Ezechiele 25:17, in R. Greene, K. Silem Mohammad (a cura di), Quentin Tarantino e la filosofia, cit., p. 66. 82 Cfr. R. Robison, “Sono una persona cattiva”: la furia e la virtù di Beatrix Kiddo, in Quentin Tarantino e la filosofia, cit. 80 81
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zionale si dimostra essere anche morale, o meglio questo può essere ritenuto vero solo però all’interno dell’orizzonte della logica spettatoriale: l’immedesimazione del fruitore, che coincide col potenziale di godimento del film, ne sarebbe risultato ferito e limitato qualora Beatrix avesse deciso di infierire su un’indifesa, e questo è un punto che ritroveremo nel corso della nostra analisi. Torniamo all’interpretazione del concetto di vendetta: i torti subiti nel passato, e soprattutto la piena consapevolezza della propria innocenza dinanzi alla malvagità altrui, diventano il motore per una costruzione ponderata del proprio presente e la proiezione verso il futuro; la soddisfazione emotiva e psichico-nervosa, piuttosto che esaurirsi in un’esplosione che potrebbe compromettere la propria stessa sopravvivenza, si traduce nella freddezza del logos. In questa maniera, da forza propulsiva e distruttrice che rinnega il futuro perché si esaurisce nell’attimo dell’esplosione, l’ira si traduce in vendetta nella forma progettuale, che dirige l’esistenza, offre ad essa senso regolando l’agire e permettendo le coordinate per ambire a un riscatto. In questo senso, la vendetta si pone come opportunità di redenzione: il torto subito, appartenendo a ciò che è stato, rivendica una qualche riattualizzazione, la possibilità cioè che diventi momentum della costruzione dell’avvenire. Ora, se il pentimento è relativo alla redenzione dinanzi alla consapevolezza delle colpe commesse, redimersi da un oltraggio (che potrebbe coincidere col senso di colpa di non aver fatto abbastanza per evitarlo, di non essere stati in grado di difendere i propri cari, di non aver compreso in tempo il pericolo ecc.) diventa possibile solo attraverso il progetto della vendetta. Il pianto liberatorio che esplode in Beatrix alla fine del suo viaggio di sangue e dopo aver sterminato uno a uno i membri della sua black list, testimonia proprio il compimento di un progetto e la redenzione compiuta di una vita distrutta. La vendetta della guerriera interpretata da Uma Thurman è una vendetta che redime, e redime innanzitutto perché l’eroina ha tutti gli strumenti per poter portare a termine il suo progetto di morte: una spada che potrebbe trapassare Dio, le coincidenze, la sua impressionante imbattibilità ecc., il tutto semplicemente perché lei è l’eroina del film e non potrebbe essere altrimenti. Come afferma Roth, il finale è senz’altro agrodolce perché interrompe l’immagi61
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nario fumettistico che ci ha accompagnato per tutto il film e vi troviamo un momento di tenerezza e di “quasi perdono”: il “Grazie!” sussurrato alla fine segna il conseguimento del senso definitivo, in qualche modo l’uscita dal personaggio plastificato per entrare nella “vita” e questo passaggio porta con sé anche una buona dose di malinconia e di frustrazione. È anche un’ulteriore dimostrazione dell’autocoscienza del film, perché nell’immaginario filmico, a differenza che nella realtà, la vendetta arriva a redimere: “Grazie”. È un’espressione di gratitudine per la speranza di una vita oltre la violenza. È il momento in cui il film riesce a superare i confini e i limiti del proprio genere. […] In un mondo privo di grazia, tutti in Kill Bill alla fine ricevono quello che si meritano. La sorpresa del film tuttavia è che la grazia in qualche modo si fa strada senza sembrare obbligata o innaturale. Quando Beatrix quasi come se stesse pregando, sussurra “grazie”, è la voce tenue e piccola del film.83
Per comprendere il valore del progetto di vendetta di Beatrix è necessario insistere sul piano metatestuale che attraversa tutto il simulacro di Kill Bill: la vendetta è in grado di redimere solo nell’orizzonte finzionale, solo lì infatti è garantito il successo del proprio piano, e tutto può finalmente assumere un senso. Nella mitologia tarantiniana del suo cinema simulacrale – ma questo come vedremo è condiviso anche col Tarantino degli ultimi film –, il Senso è immanente nel mondo, perché la macchina-cinema intesa come forza superiore che regola gli eventi dall’esterno resta ben presente, al servizio della redenzione e del riscatto finale. Come già detto nelle pagine precedenti, continuamente Kill Bill dichiara la propria finzionalità per evidenziare la sua netta separazione rispetto alla vita; si tratta in fondo del medesimo movimento dialettico che Lukàcs rintracciava come momento caratteristico e specifico del romanzo rispetto ad altri generi letterari. Lukàcs la definiva “ironia”, ovvero la dichiarata presenza dell’autore nella narrazione che interrompe la fantasmagoria dell’illusione che confonde finzione e realtà, e che piuttosto insiste sulla distinzione delle due sfere: attraverso l’ironia Cfr. T. D. Roth, Una spada di rettitudine: Kill Bill e l’etica della violenza, in Quentin Tarantino e la filosofia, cit., pp. 100-101. 83
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l’opera dimostra la coscienza che essa ha di se stessa, ovvero la consapevolezza dell’opera di essere opera e perciò altro dalla realtà; in questo modo, l’ironia ribadisce allo spettatore che ciò a cui stiamo assistendo non è la realtà, e che qualora un Senso e una redenzione venissero raggiunti essi sono evidentemente perseguiti nella finzione e mai nella vita. Dialetticamente perciò l’ironia conferma il nostro essere abbandonati – per usare le parole dello stesso Lukàcs – “tra le crepe e gli abissi” del mondo, proprio lì dove ci viene manifestato il raggiungimento di un Senso, immediatamente disdetto però dall’ironia che ne denuncia l’irrealtà. In altri termini, ciò che garantisce una qualità particolare a un film come Kill Bill è che esso non si accontenta di essere un film, ma preferisce ribadirlo dall’inizio alla fine per concedere alla narrazione di vendetta il pieno carattere finzionale e mitico. Altri film, dallo stile narrativo classico, avrebbero fatto leva sulla classica catarsi, illudendo però così lo spettatore sull’effettiva possibilità che possa darsi redenzione (ovvero un qualche senso), che la vendetta possa effettivamente realizzarsi anche nella realtà e che essa, d’altronde, possa effettivamente avere un valore redentivo. Infatti, se il romanzo e il film finiscono, la vita nel suo carattere temporale prosegue al di là della vendetta (a meno che non si ottenga questa con un sacrificio suicida, a quel punto però offrendosi alla narrazione altrui piuttosto che a se stessi), ed è facile constatare come la vendetta non soddisfi in pieno la propria ambizione e non riesca a garantire un senso duraturo all’esistenza. “La leonessa si è ricongiunta al suo cucciolo”, ma questo accade solo nel film, in quel grande circo plastificato che è Kill Bill, e il pianto di Beatrix è un faccia a faccia con uno spettatore abbandonato in un mondo dove gli dei sono assenti, dove non ci sono registi e dove nessun torto verrà riscattato, dal momento che non c’è sceneggiatore o regista. Un confronto potrebbe essere fatto con un’altra paladina della vendetta del cinema contemporaneo, ovvero Grace di Dogville di Lars Von Trier;84 in lei in realtà la vendetta non viene raggiunta attraverso un piano progettuale e razionale, ma l’opportunità arriva come un miracolo che sopraggiunge per mera casualità, ovveSu questo, cfr. A. Alfieri, Dogville. Della mancata redenzione, Caravaggio editore, Vasto 2008. 84
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ro l’arrivo del padre di Grace a Dogville. Qui subentra nella protagonista una lucidità disarmante, e perciò una volontà razionale non esclusivamente dettata dalla rabbia e dalla volontà di vedere i propri aguzzini sterminati. Anche Dogville è un film che dichiara la propria finzionalità in maniera spudorata fin dal primo minuto, attraverso la scenografia stilizzata e l’assenza di pareti che delimitino gli spazi, e anche in Dogville altri elementi come la voce narrante ribadiscono la separazione abissale tra film e realtà. E se nel finale c’è un riscatto, questo riscatto può appartenere solo al film e non già al mondo; detto questo però, la dimensione psicologica e il comportamento della protagonista nel finale tradiscono una dimensione “morale” che nega l’effettiva redenzione e riavvicina la sfera della finzione a quella della realtà, sfere che si separano decisamente nelle vicende di Beatrix. La redenzione di Beatrix è la redenzione di un character, ovvero di un personaggio, che non può non trionfare perché rappresenta la possibilità di vendetta che appaga chiunque di noi nel quadro di una finzione dichiarata, che non presume mai di ingannare lo spettatore. Questo fa di Kill Bill un grande fumetto che si contrappone alla realtà, tradendo in un certo senso la natura eminentemente mimetica del cinema, o forse meglio ancora confermandone la sua essenza finzionale (di contro alla credenza diffusa che la natura chimico-fotografica dell’apparecchio cinematografico sia sempre garanzia di realismo).85 Il carattere ironico, ovvero la coscienza che ha il film di essere tale, e soprattutto la capacità del film di comunicare al pubblico questa coscienza si registra nel dialogo tra Bill e Beatrix a proposito del fumetto, dove sono molti gli elementi per comprendere a pieno il personaggio femminile alla fine della sua peregrinazione e del suo viaggio di sangue. In quanto character, Beatrix non ha un’autentica dimensione psichica, non ha bisogno di evolvere, ma deve solo identificarsi e coincidere con se stessa quanto più possibile. D’altronde, come afferma Umberto Eco, «il personaggio dei fumetti nasce [...] nell’ambito di una civiltà del romanzo»,86 per questo il fumetto condivide col romanzo, come è stato teorizzato a inizio del Novecento Su questo, cfr. P. Bertetto, Lo specchio e il simulacro, Bompiani, Milano 2007. U. Eco, Il mito di Superman, in U. Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano 2005, p. 229. 85 86
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da Lukács, la dimensione ironica; l’interpretazione di Eco relativa al fumetto trova delle intriganti corrispondenze con l’argomentazione di Bill relativa alla figura di Superman. Un “fumetto” come Kill Bill, pur profondamente ironico e perciò metatestuale, è maggiormente assimilabile al mito, e sono numerosi gli elementi anacronici che testimoniano di come, ciò a cui stiamo assistendo, in realtà sia già accaduto. La dimensione mitica è quella di un “passato assoluto”, come sostiene Bachtin,87 mai realmente esperito e distaccato tanto dalla storia privata di ciascuno, quanto soprattutto dalla Storia collettiva. Il mito è fondativo della Storia, ponendosi come strumento di riferimento per la civiltà, non ne è semplicemente la ricostruzione del passato; pensiamo a tale proposito all’operazione estetica che Tim Burton ha compiuto nella trasposizione cinematografica di Batman, dove lo stile e il potenziamento degli elementi visivi proiettano le vicende dell’uomo pipistrello in un luogo e in un tempo completamente scissi e lontani dalla concretezza del reale; l’evoluzione o il fascino della saga del Cavaliere oscuro di Christopher Nolan coincidono anche col suo limite: per rendere drammaticamente più efficaci e coinvolgenti i fatti narrati, Nolan varca la soglia tra immaginariofinzionale e reale-storico, determinando delle tensioni interpretative delicate e problematiche (come risulta chiaro dal terzo episodio e dalle accuse, mosse anche da Žižek, di presentarsi come un film profondamente reazionario). Se in Tim Burton “non c’è mondo fuori da Gotham”, perché è una città mondo, «Nolan in The Dark Knight lo ribalta completamente. Il mondo fuori da Gotham City esiste, ma è identico»,88 per questo il messaggio è persino più tetro e pessimista: la stilizzazione fumettistica dimostra la cupezza di un mondo inventato, in confronto al quale il nostro appare più luminoso, ma quando il film dimostra che quella cupezza invade il mondo al di là di Gotham, allora ci sentiamo sprofondare in esso anche noi, perché viene meno l’operazione chiara di distinzione tra fantasia e realtà. Di qui la differenza profonda tra dimensione del romanzo e quella mitica, alla quale appartiene il film di Tarantino: M. Bachtin, Epos e romanzo, in M. Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 2001, pp. 445-482. 88 M. Pollone, Tutto si tiene, tutto si distrugge. Il superhero movie contemporaneo e il caso di The Dark Knight, in America oggi, cit., p. 268. 87
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Il personaggio del mito incarna una legge, una esigenza universale, e deve in una certa misura essere quindi prevedibile, non può riservarci sorprese; il personaggio del romanzo vuole essere invece un uomo come tutti noi, e quello che potrà accadergli è altrettanto imprevedibile di quello che potrebbe accadere a noi.89
Che è quanto sostiene Conard a proposito dell’assenza di uno sviluppo psicologico e narrativo da parte dei personaggi del film di Tarantino.90 Zagarrio sottolinea un elemento tecnico di non poco conto che conferma ulteriormente questa interpretazione della dimensione narrativa di Kill Bill come dimensione epica: Le angolazioni dal basso sono spesso usate a dare senso epico ai personaggi, anche negativi, come nel caso di O-Ren che, ripresa da sotto, tiene in mano trionfante la testa dello yakuza suo avversario, come fosse un Perseo con la sua Medusa.91
E Menarini rincara la dose: Tutto quel che avviene in Kill Bill presenta caratteri di universalità. Non solo la vendetta è un tema presente nella letteratura epica di sempre, ma la sfera emotiva inglobante dell’universo tarantiniano richiama i grandi miti e le grandi tragedie. Tarantino, a differenza dei colleghi più cinici e opportunisti, ricerca nel cinema di genere la forza degli archetipi, indicandone l’imperterrita validità, e cerca – al contrario esatto di quel che si crede del postmoderno – di ricostruire una credibilità, una tragicità, una forza emotiva per codici narrativi ormai svuotati dall’atteggiamento sdrammatizzante del contemporaneo.92
La saga di Kill Bill e gli eventi che si susseguono hanno un largo margine di prevedibilità: il racconto di vendetta inesorabile che si sviluppa nel corso dei due volumi è guidato da una forza del destiU. Eco, Il mito di Superman, cit., p. 231. Cfr. M. T. Conard, Kill Bill:l’opera edipica di Tarantino, in Quentin Tarantino e la filosofia, cit. 91 V. Zagarrio, La grande mall dell’immaginario. Il cinema di Quentin Tarantino, cit., p. 16. 92 R. Menarini, Kill Bill Voll. 1 e 2, in V. Zagarrio (a cura di), Quentin Tarantino, cit., p. 104. 89 90
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no, un’esigenza quasi divina (o se vogliamo, trascendente nel senso che appartiene all’autore e alla macchina-cinema) che regola gli accadimenti tutelando l’eroina. Per questo, Bill insiste sulla similitudine tra Superman (il suo fumetto preferito) e la sposa vendicatrice: il tentativo di Beatrix infatti di rinnegare la sua vera natura e di costruirsi una vita nella provincia americana, con un lavoro mediocre e un’esistenza piatta, è esattamente sovrapponibile all’operazione di depistaggio che Superman compie per non essere scoperto, dal momento che Superman non diventa Superman, ma “è” Superman: egli, per non farsi riconoscere, deve costruirsi una seconda personalità quanto più confondibile con la massa e simile a tutti gli altri. Clark Kent è la dimostrazione di quanto Superman disprezzi la razza umana e della bassa considerazione che egli ha di tutti noi. D’altronde, come sostiene Eco, Clark Kent impersona in modo abbastanza tipico il lettore medio assillato da complessi e disprezzato dai suoi simili; attraverso un ovvio processo di identificazione, qualsiasi accountant di qualsiasi città americana nutre segretamente la speranza che un giorno, dalle spoglie della sua attuale personalità, possa fiorire un superuomo capace di riscattare anni di mediocrità.93
Ma Superman, al contrario di Beatrix (questo il rimprovero implicito di Bill) fa tutto questo con profonda coscienza, per tutelarsi, mentre l’ingenuità della protagonista del film sarebbe il credere possibile rinnegare se stessi, il proprio passato, per una nuova vita, e inoltre ritenere la nuova vita più degna della precedente.94 D’altronde, il problema morale è la questione più spinosa, tanto per Superman (e per il fumetto in generale) quanto per Kill Bill; il primo sembrerebbe “intriso” di moralità, ma la dimensione fumettistica annuncia quello che sarà il pieno superamento simulacrale della dimensione morale: [...] è chiaro che ciascuno di questi personaggi è profondamente buono, morale, ligio alle leggi naturali ed umane, e 93 94
U. Eco, Il mito di Superman, cit., p. 228. In questo, il film ha notevoli assonanze con History of violence di David Cronenberg.
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quindi è legittimo (ed è bello) che usi i propri poteri solo a fin di bene. In questo senso il messaggio pedagogico di queste storie sarebbe, almeno a livello della letteratura infantile, altamente accettabile, e gli stessi episodi di violenza di cui i vari racconti sono inframmezzati, apparirebbero finalizzati a questa riprovazione terminale del male e al trionfo degli onesti. Ma l’ambiguità dell’insegnamento appare nel momento in cui ci si domanda che cosa sia il Bene.95
Partendo da questa domanda, la dimensione morale vacilla anche in Superman, oltre che ovviamente in Kill Bill, perché è una domanda che è pregnante nel mondo dell’esperienza, ma non in quello della finzione plastificata, dove siamo persino disposti ad accettare il massacro perché ne godiamo esteticamente. Anche in Superman, exemplum di moralità e prototipo del bene, diventano palesi delle contraddizioni che però vengono accettate perché si tratta di un personaggio di fantasia, ma che non sopporteremmo se Superman fosse un personaggio della cronaca: poiché «[...] Superman deve far consistere la virtù in tanti piccoli atti parziali, mai in una presa di coscienza totale»,96 allora non gli si può rimproverare di non partire e andare a salvare milioni di persone ridotte in schiavitù o risolvere il problema della fame in Africa. In Kill Bill, invece, abbiamo la presa di coscienza totale che la vendetta legittima una serie di atti criminali e omicidi, che sopportiamo perché filtrati dalla finzionalità radicale (e che appunto non potremmo sopportare se gli assistessimo nella realtà): la dimensione fumettistica è diversa, perché all’eroismo di Superman, paladino della giustizia collettiva, subentra un piano di riscatto esclusivamente individuale. La dialettica e la copresenza di due dimensioni contrapposte attestano questa irrisolutezza del personaggio, ovvero l’impossibilità di comprenderlo in termini morali. Come altri personaggi dei fumetti, Beatrix deve essere spietata coi cattivi, determinata nel suo obiettivo, ma deve rivelare anche una dimensione umana, con la quale stabilire empatia con lo spettatore; è un punto controverso però, perché sembrerebbe ristabilire un valore etico nel racconto. The Bride è infatti una macchina da guerra perfetta e spietata, e al contempo una madre che pensa continua95 96
Ivi, p. 257. Ivi, p. 260.
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mente alla figlia, una figlia morta che la narrazione le concede di ritrovare; e se la strage nella chiesa di El Paso avviene nel momento in cui Beatrix tenta e si illude di essere un’altra, proprio nel finale torna quell’illusione nel quadretto finale che incornicia una famigliola ideale. Quel quadretto, che dura il tempo di un panino al burro di arachidi, si infrange e non può essere supportato, perché d’altronde è lo stesso Bill ad aver rivelato la verità della sua natura alla sua vecchia amante. La domanda che dovremmo porci è: dal momento che la quotidianità si è infranta nuovamente perché essa non era in grado di contenere la furia omicida di Beatrix e perché non è quella la sua natura, allora cosa può capitare, a lei e alla piccola, nel futuro? Si tratta di una questione di poco conto, perché l’universo fumettistico è chiuso, ruota su se stesso, e non può proiettarsi oltre di sé: in questo anche viene ulteriormente attestata l’assenza del livello morale, che necessita di un rapporto tra passato, presente e futuro. Qui invece tutto si risolve nel lieto fine, nel pianto liberatorio dell’eroina, che sa di aver trionfato ma per la sola ragione che la sua vicenda non appartiene alla realtà ma alla finzione. Questo universo finzionale, dove il senso è immanente e il progetto della vendetta viene perseguito in maniera inesorabile, potrebbe venire avvicinato alla letteratura epica; d’altronde, la modernità della narrazione tarantiniana si registra nella capacità di giocare continuamente con le aspettative spettatoriali, nonché con le facoltà cognitive che si prestano al gioco dell’immedesimazione. In un mondo dove il Senso è immanente e gli dei (il regista) guidano le vicende dell’eroina, il telos è già dato, ovvero il fine è come se fosse già perseguito fin dall’inizio; la messa in evidenza del funzionamento della macchina-cinema e il palesamento della tecnica di fascinazione si mettono in opera nel fatto che allo spettatore non basta sapere che Beatrix Kiddo porterà a compimento il suo disegno vendicativo, perché in fondo questo lo sa già, come sa bene che ciò a cui sta assistendo è un film. In numerosi momenti, Tarantino dimostra la potenza del simulacro dal momento che è lo stesso film a palesarsi anche nella scansione temporale degli eventi; come afferma Menarini: Non solo il racconto procede avanti e indietro, ma all’interno dei vari segmenti vi sono ulteriori voragini cronologiche. […] 69
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dal punto di vista narrativo – Tarantino è interessato a far confliggere due operazioni opposte: quella postmoderna che apparentemente gioca col tempo del racconto semplicemente per rinchiuderlo nei suoi nessi di causa/effetto, e quella moderna, dove il caso e la necessità si prendono molto più spazio di quanto il controllo narrativo non faccia supporre.97
Quando il film apre col primo capitolo intitolato “2”, è ovvio che il secondo capitolo, quello nel quale l’eroina è alle prese con O-Ren, sia una sequenza temporale antecedente; sarebbe scorretto parlare di flashback, dal momento che non c’è effettivamente un presente che possa regolare le altre istanze temporali per consegnarle ordinatamente su un asse temporale. Insomma, se ragionassimo per categorie razionali, lo spettatore non dovrebbe provare alcun brivido e alcuna suspense durante la scena degli 88 folli e del combattimento sulla neve con O-Ren, perché già sa che ne uscirà viva avendo visto all’inizio del film come uccide il secondo membro della sua lista. Tarantino porta all’estremo questo gioco di smarcamento e di evidenziazione della macchina-cinema; mette a nudo in maniera spudorata il paradosso dello spettatore, che riesce imperterrito a provare delle emozioni anche quando sa benissimo come andrà a finire. Provare emozione per un duello o un combattimento rocambolesco implica infatti l’incertezza su come andrà a finire, ma qui è diverso: sappiamo che lei ce la farà, e tuttavia fremiamo per le sue sorti durante i combattimenti. Ciò che perciò ci coinvolge non è tanto la consequenzialità degli eventi, quanto il piacere nervoso e fisico che traiamo dalla strage di Beatrix, a cui è concesso persino il beneplacito della nostra coscienza morale dal momento che l’evidenza finzionale è spudorata. Stessa cosa accade a inizio del secondo volume, quando la protagonista si rivolge a noi (come ulteriore dichiarazione di finzione) dicendoci che sta andando dall’ultimo della lista, da Bill; anche qui, il film prosegue con un episodio logicamente precedente, dove viene raggiunto il punto estremo della condivisione patica. Beatrix infatti viene catturata e sepolta viva in una bara: tutta la scena nella quale si salva distruggendo la bara a pugni riesce a conservare un alto R. Menarini, Kill Bill Voll. 1 e 2, in V. Zagarrio (a cura di), Quentin Tarantino, cit., p. 99. 97
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tasso di suspense seppur dovrebbe esserne effettivamente scarica, perché noi già sappiamo che la protagonista riuscirà a salvarsi; e allo stesso tempo, nessuno rimprovera a Tarantino di averci “rovinato il film” dicendoci implicitamente a inizio del secondo volume che la sua eroina, una volta sepolta viva, sarebbe comunque riuscita a fuggire. Beatrix ritorna sempre dalla morte. Non si riesce a farla fuori. Quando Elle la potrebbe ammazzare, travestita da infermiera, lei è in coma. Ma Bill, che ha un senso dell’onore paradossale, pensa che si debba chiudere il conto quanto Beatrix sarà sveglia, poiché ucciderla così, di soppiatto, è da infami. Ed è proprio la volontà sadica a salvare sempre Beatrix. È il fatto che i suoi nemici vogliono eccedere, esagerare, profanare la sua fine a permettere che lei si salvi, come quando scava dentro la tomba e si riesuma da sola.98
Alla luce di quanto affermato fino a questo punto, un’attenzione specifica al combattimento nella Casa delle Foglie Blu metterà in evidenza in maniera ancora più significativa il “funzionamento retorico” di tutto il film di Tarantino; d’altronde è lo stesso regista americano ad aver dichiarato: «Voglio che questa scena di combattimento diventi per i film di Kung Fu quello che la scena della “Cavalcata delle Walchirie” di Apocalypse Now è diventata per i film di guerra». La sequenza in questione vede contrapposta Beatrix Kiddo agli “88 folli”, ovverosia l’esercito privato di O-Ren. Al di là del vestiario dell’eroina (esplicito omaggio a L’ultimo combattimento di Chen, celebre film di Bruce Lee), a livello formale e registico molte Ivi, p. 102. Come ha messo in luce Paolo Bertetto (cfr. P. Bertetto, L’analisi interpretativa, in Metodologie di analisi del film, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 223-276), alla metà del film Mulholland Drive di David Lynch c’è un’esibizione palese del funzionamento del meccanismo di coinvolgimento spettatoriale, e mi riferisco alla scena del Club Silencio; le parole che si ripetono sono “no hai banda, è tutto registrato”, come dimostra anche il palesamento del playback per il suonatore di tromba e la cantante di flamenco. Eppure, seppur venga palesata la finzionalità, la reazione emotiva delle protagoniste è autentica, la loro partecipazione effettiva “come se” ciò a cui stanno assistendo fosse reale, che in altri termini è una metafora del funzionamento del cinema nella sua totalità. Qualcosa di simile accade con Kill Bill, che afferma di continuo la sua natura di film, incrementando piuttosto che affievolire la sua portata empatica. 98
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sono le soluzioni che collocano la scena all’interno della sensibilità propria del cinema di Kung Fu, come le inquadrature dello sguardo dell’eroina che perlustra lo spazio circostante, espediente costante dei film di azione, nonché dei western di Sergio Leone tanto amati dal regista americano (basti pensare al montaggio alternato dei dettagli degli occhi dei protagonisti di Il buono, il brutto e il cattivo nella storica scena del duello finale). Il movimento di macchina che risale lungo la spada, accompagnato dall’introduzione di una ritmata musica di sottofondo, e che arriva al primo piano della protagonista che di scatto si pone in posizione di combattimento, prosegue in un’inquadratura perpendicolare dall’alto volta a immortalare il cerchio dei nemici con lei al centro. Tutto questo segmento svolge un’opera di mitizzazione della protagonista, che acquisisce fascino soprattutto per merito della costruzione filmica che la incornicia (in maniera molto simile a quanto accadeva negli anni ’60 per Bruce Lee). A fondamento del modo in cui Tarantino fa riferimento al cinema di genere, vi è un’intenzionalità intrigante e complessa: l’universo filmico di Kill Bill è dichiaratamente fittizio, e il cinema inteso come mondo immaginifico si instaura come unica realtà. Qui, il culto del cinema e l’universo filmico fanno tutt'uno, e non è più possibile districarli nettamente; questo è uno degli elementi che rende godibile e accettabile alla percezione dello spettatore la violenza parossistica delle scene. I personaggi sono intenti a effettuare acrobazie improbabili, piroette che non rispettano le regole della fisica, bensì quelle del cinema, o meglio di un “certo” cinema, quello d’azione, caratterizzato, appunto, dal parossismo della visione. Quando Tarantino “cita”, o meglio adotta, le tecniche e gli stilemi della storia di un certo genere, lo fa, a differenza di molti altri, con profonda coscienza. Per questo le sue immagini sono sempre elevate “alla seconda”, e questo si palesa nella scena da noi presa in esame: da un lato la sequenza può essere goduta per la straordinaria tecnica di ripresa, per il montaggio serrato, le inquadrature geniali, che alimentano nello spettatore un fervente coinvolgimento emotivo; dall’altro lato, il film parla soprattutto a quei fruitori “preparati” che appartengono alla stessa cerchia di appassionati a cui appartiene Tarantino. Così facendo, l’immagine si rivela essere una “finzione” in quanto non pretende 72
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di raccontare una “realtà”, bensì una “falsità” dichiarata attraverso il rimando perpetuo ad altri film. Un film di Bruce Lee adotta le stesse soluzioni grammaticali e sintattiche (dal ralenti al montaggio cadenzato), e anche nei film di Bruce Lee si sovvertono le leggi della gravità; ma il film di Bruce Lee non dichiara la sua falsità, al contrario intende spacciarsi come reale e, in questo, acquisisce un fascino particolare nella possibilità offerta allo spettatore di immedesimarsi coi personaggi. Antonella Mascio rifiuta la definizione di metatestualità a proposito del film di Tarantino, in quanto la metatestualità sembra una definizione più adeguata a quelle opere che intendono svolgere una “retrospettiva” del cinema passato. Sostiene sempre Menarini a questo proposito La pratica della citazione è allora una politica della citazione. E la citazione, che nel postmoderno di solito diventa sinonimo di linguaggi di secondo grado e di metalinguaggio, torna a essere per Tarantino […] un luogo dell’autenticità, una promessa di verità, un giuramento intimo. La citazione e i generi, dunque, non ci invitano allo sterile gioco dello “smontaggio” intertestuale nei confronti del giocattolo di Tarantino-registabambino, bensì producono una griglia interpretativa in grado di spiegarci le ragioni profonde del suo cinema e la vera natura di Kill Bill.99
A questo proposito, Mascio preferisce, al termine “citazione”, quello di “allusione”. La natura elevata a potenza dell’immagine consiste nel mantenimento costante di una dialettica: «Da un lato dunque viene a determinarsi una crescita della tensione narrativa e dall’altro viene posto in essere una sorta di gioco cinematografico del riconoscimento, il cui effetto, ogni volta, non può che condurre a una caduta della tensione […]».100 L’intesa che si instaura tra autore e spettatore attraverso lo strumento dell’allusione serve a rendere tollerabile il massacro della sequenza, perché, seppur in modo subliminale, interviene a ricordare R. Menarini, Kill Bill Voll. 1 e 2, in V. Zagarrio (a cura di), Quentin Tarantino, cit., p. 110. 100 C. Demaria, A. Mascio, Kill Bill vol. I: ���������������������������������������������������� migrazioni interculturali e propagazioni extratestuali, in N. Dusi, L. Spaziante (a cura di), Remix-Remake, Meltemi, Roma 2006, p. 316. 99
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insistentemente la matrice irreale e fumettistica di ciò che stiamo guardando. Perciò il ralenti, i dettagli degli sguardi dei contendenti, l’introduzione della musica e il suo azzeramento, i movimenti di macchina lenti e insistiti nei momenti di stasi, ma soprattutto la ripetizione di gesti, mosse, azioni già comparsi nella storia del cinema di genere, sono volti all’instaurazione di uno spazio concettuale condiviso con lo spettatore. Siamo al di là anche dei processi di mitizzazione che la macchina-cinema aveva costruito intorno a Bruce Lee: ripetendo le stesse tecniche volte per quello scopo, non solo Tarantino “mitizza” Beatrix Kiddo, ma dichiara tale mitizzazione come un’operazione di pura finzione, mettendo in evidenza il “cinema”. Per queste ragioni, dal momento che i personaggi di Tarantino parlano, combattono, muoiono, “come” di solito vediamo fare al cinema, nei suoi film vita e finzione si compenetrano, abbattendo il confine che li aveva sempre separati, ma ribadendo al contempo la distanza che separa “quella” vita dalla nostra. Il mondo di Kill Bill è fatto di cinema e, dato il livello di intertestualità dell’opera, non solo di esso (la sequenza del massacro al ristorante è debitrice, ad esempio, delle logiche di rappresentazione proprie del videogame). Tutto contribuisce a fare dell’universo filmico di Kill Bill non un mondo fantastico, quanto un mondo che risponde alle regole e alle leggi del “cinema”; e se ogni film è “cinema”, Kill Bill è perciò “cinema alla seconda”: i personaggi vivono […] una esistenza che è soprattutto cinematografica ma non per questo meno vera. […] in Kill Bill la realtà è film, l’universo del film è film, nel senso che abbraccia le convenzioni cinematografiche in modo quasi feticistico.101
Dinanzi al sincronismo perfetto dei movimenti delle innumerevoli comparse della sequenza, abbiamo subito la sensazione di assistere non (o non solo) a una truce e sanguinolenta lotta di “uno contro tutti”, bensì a una grande danza frenetica, a una messa in scena trionfalistica delle capacità del corpo. Il tema della danza ci consente di addentrarci all’interno del sofisticato problema relativo al ruolo che ha la violenza all’interno della scena e dell’emancipazione della violenza dalla moralità in prospettiva puramente este101
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A. Morsiani, Quentin Tarantino, Gremese, Roma 2004, p. 92.
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tica. L’intera scena, in più occasioni, mostra il debito essenziale nei confronti di un genere classico del cinema americano, ovvero il musical. Le coreografie di Busby Berkeley, in sintonia con le sceneggiature, evidenziavano la centralità del personaggio principale rispetto al gruppo, la cui funzione era quella di incorniciare i gesti del primo o di fargli da interlocutore come accadeva per il coro nelle tragedie greche. Nella nostra sequenza è esattamente quello che accade nelle riprese in plongée, quando — verso l’inizio — il gruppo di determinati guerrieri forma un cerchio attorno a The Bride, “centro giallo” in evidenza. La stessa lotta a sangue, che sembrerebbe quanto di più selvaggio e scomposto si possa pensare, segue delle precise regole di armonizzazione e di ordine, ribadendo ancora una volta come da un lato lo statuto di realtà nel film si componga secondo le leggi della rappresentazione cinematografica, e come dall’altro l’essenza narrativa che fonda le vicende del film si strutturi sul concetto di vendetta nei termini sloterdijkiani che abbiamo già indagato, ovvero come costruzione razionale di senso. Ad un certo punto, The Bride inizia a ruotare su se stessa come una trottola, in un’autentica performance di break dance, mentre con le lame taglia i piedi dei suoi avversari. Ancor più palese diventa il riferimento alla danza (e in particolare al musical) quando vediamo combattere delle silhouettes stagliate su uno sfondo blu: In Kill Bill, violenza, danza e musica si fondono in un corpo unico. I combattimenti, con i ripetuti dettagli sui piedi sono messi in scena come balli in cui la figura principale è il cerchio. La Sposa coreografa i movimenti degli avversari e dà il tempo alla musica, che cresce in corrispondenza del culmine della violenza […].102
Se la danza si confonde col combattimento corpo a corpo, allora ci troviamo ad affrontare la questione più delicata che la sequenza mette in evidenza: il godimento estetico dinanzi alla rappresentazione della violenza (problema che appartiene in toto al cinema di Tarantino). Arti amputati, teste mozzate, sangue che sgorga in S. Brancati, Quentin Tarantino. Asfalto nero e acciaio rosso sangue, Le Mani, Genova 2008, p. 142. 102
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maniera incontrollata, urla di dolore: tutti elementi che emergono all’interno di una costruzione “teatrale”, spudoratamente “falsa” (perché, come abbiamo già detto, nel film decade la distinzione tra realtà del film e cinema). In molti, per spiegare il fascino e il successo della linea-Tarantino (che presumibilmente dovrebbe coinvolgere altri registi e film degli ultimi anni) hanno tirato in ballo in maniera esclusiva la “pulsione di morte” di matrice freudiana: saremmo attratti dalle scene di violenza radicale, in quanto il nostro coinvolgimento varca i limiti del principio di piacere, rivelando una tendenza perversa dello spettatore di apprezzare in maniera sado-masochistica la morte, la sofferenza, la tortura. Questa linea interpretativa – a mio avviso – non funziona con Kill Bill e, ancor più nel nostro caso, con la sequenza della Casa delle Foglie Blu. La pulsione di morte sarebbe sollecitata solo in un film che non dichiarasse espressamente la sua falsità allo spettatore. La palese ed esplicita falsità della scena ci impone di interpretarla attraverso un diverso ordine di analisi: le immagini non ci permettono di restare da esse affascinati e coinvolti in quanto illusione di rappresentazione della vita (principio appartenuto a quasi tutta la storia del cinema, e che è a fondamento dei processi di identificazione divistica), cosa che accade col sadismo di film della linea di The Saw o Hostel. La sequenza qui in discussione non intende in alcun modo spacciarsi come reale: la realtà del film non è la nostra, ma quella del cinema. La scena del combattimento di The Bride concede la possibilità di venire assimilata e accettata, sopportata dalla visione malgrado il carico incredibile di violenza e sangue di cui si caratterizza, in quanto l’ordine logico della sequenza è al di là della morale, e la sua giustificazione è esclusivamente estetica. In questo ordine di problemi, è rilevante fare riferimento al passaggio che il film compie dai colori al bianco e nero. L’elemento centrale di questa lunga sequenza è ovviamente il “sangue”; bastano un paio di fendenti per far esplodere dai petti degli affiliati alla yakuza dei getti impressionanti. In un montaggio frenetico e serrato, caratterizzato da numerose inquadrature inusuali, The Bride cava un occhio ad uno dei suoi avversari; il film passa al b/n, che caratterizzerà la scena per buona parte del suo corso. Su questa scelta sono differenti le interpretazioni: la prima potrebbe essere l’attestazione 76
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da parte del regista che la visione, a questo punto, data l’eccitazione febbrile provocata dal vortice delle immagini, non necessiti del realismo garantito dai colori; la seconda ipotesi (sostenuta da Morsiani) è che il b/n esemplifichi i momenti di difficoltà della protagonista; la terza è di ordine “politico”, ovverosia interpreta la scelta dell’autore come un tentativo di mitigare l’impatto visivo, dati gli innumerevoli litri di sangue che sgorgano da ogni angolo dell’inquadratura. Ne La nascita della tragedia, come abbiamo già detto, Nietzsche afferma che “solo come fenomeni estetici l’esistenza e il mondo sono eternamente giustificati”. Questa proposizione è perfettamente adeguata all’universo filmico di Tarantino, in linea generale a tutta la sua produzione ma nello specifico al trionfo della violenza che caratterizza Kill Bill. La genialità dell’operazione compiuta da Tarantino è stata quella di ripulire il concetto stesso di violenza dalle sue (apparentemente imprescindibili) connotazioni morali; se la lotta è una danza e il film è un mondo a sé, allora mi è concesso godere delle immagini senza sensi di colpa. Tecnicamente e formalmente, questo obiettivo (ovvero quello di elevare l’immagine ripulendola dalle implicazioni di ordine morale) viene perseguito attraverso numerose e argute soluzioni di regia e di montaggio: il turbine di immagini è talmente frenetico che non concede la possibilità di soffermarsi sugli accadimenti: Una personale razionale non vorrebbe vivere in un mondo in cui si deve temere per la propria vita ogniqualvolta si offende qualcuno. […] Quando Beatrix uccide, tratta le sue vittime come mezzo per il suo fine vendicativo. Non solo non le rispetta nelle loro capacità di fare delle scelte autonome, ma le depriva persino di questa abilità.103
Tale sospensione ci avrebbe permesso di prendere coscienza che della gente stesse morendo senza motivo, idea inaccettabile dalla ragione e dalla legge morale di ciascuno. La spettacolarizzazione della strage concede quel distacco che offre al fruitore la possibilità di non essere attratto dal thanatos (che invece richiede coinvolgimento catartico): 103
R. Robison, “Sono una persona cattiva”: la furia e la virtù di Beatrix Kiddo, cit., p. 85.
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La spettacolarità delle azioni e la messinscena teatrale ci aiutano a prendere le distanze dal realismo.[…] l’effetto ralenti dei fotogrammi, la mattanza coreografata in musical, i muri di carta e il palcoscenico che ospita la band musicale che disegnano lo spazio di un teatro Kabuki, ostentano la contraffazione dell’intera sequenza.104
La visione non ha la possibilità, ma soprattutto non ha il “tempo”, di contemplare l’orrore, ovverosia di ragionare seriamente su quanto accade: stanno morendo decine di persone tra atroci sofferenze, molte altre resteranno invalide per tutta la vita, e tutto accade sotto i nostri occhi pieni di ammirazione e di godimento. Come ha fatto Tarantino a mantenere, per tutta la sequenza e poi per il seguito dell’opera, l’aura di positività dell’eroina? Come possiamo simpatizzare con lei dopo aver visto ciò che sta facendo? Abbiamo già detto come in Tarantino la provocazione risieda nel suo rifiuto del regime della moralità, perciò queste stesse domande potrebbero sembrare inconcludenti. Ma il punto interessante riguarda l’interrogativo di come sia possibile, per immagini di questo tipo, attivare un meccanismo di accettazione entusiasta da parte dello spettatore (non il “raccapriccio” di altre realizzazioni, e senza il gusto per la perversione pur presente in altri film di Tarantino, come nella celebre tortura al poliziotto ne Le iene). La stilizzazione degli eventi e degli ambienti coinvolge anche i personaggi minori presenti nel film, le comparse, che si riducono a mere “figure” e sagome che vanno “accoppate” una ad una come in un poligono di tiro. Tarantino si impegna (attraverso l’abbigliamento, la mascherina, la velocità delle immagini) a sottrarre ai membri della massa di guerrieri nipponici ogni principio di identità, sia narrativa, sia psicologica ed esistenziale. Cosa avverrebbe se ragionassimo sul fatto che molte delle vittime dell’assurda carneficina hanno a casa una famiglia e dei bambini che aspettano il papà premuroso per cena? Ovviamente, come già sostenuto, Tarantino fa di tutto per evitare questa impasse, facendo delle vittime degli automi, che in quanto privi di vita sono anche privi della possibilità di morire in maniera autentica. Oltre a Go-go (che infatti muore con maggiore dignità, 104
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S. Brancati, Quentin Tarantino. Asfalto nero e acciaio rosso sangue, cit., p. 95.
Kill Bill: la vendetta che redime e l’universo finzionale
dato il prolungamento del faccia a faccia dovuto alle sue superiori doti tecniche di combattimento), c’è un’eccezione che conferma questa nostra argomentazione: siamo nella scena della “danza di morte” delle ombre indistinte nel buio (dove le vittime hanno perso addirittura la connotazione fisica e le sembianze visive che avrebbero potuto caratterizzarle nella loro singolarità). Alla fine dell’eliminazione la bionda guerriera, sollevando il capo, punta davanti a sé la sua “presunta” prossima vittima. Noi spettatori notiamo subito qualcosa, che ci costringe più o meno inconsciamente a cambiare la nostra posizione: questa prossima vittima sta tremando di terrore. E proprio in questo momento, torna la luce. La scena diviene comica: il ragazzino travolto dal terrore resta immobile con gli occhi puntati dinanzi a lui. Con un sorriso sarcastico, Black Mamba si avvicina e fa a pezzi la sua spada. Lui allora alza le mani implorando pietà. Beatrix agguanta il giovane e lo sculaccia con la sua spada, concedendogli poi la grazia. Questa scena è emblematica ed estremamente significativa per comprendere le tecniche di immedesimazione del pubblico adottate con grande sagacia da Tarantino: nel momento in cui una delle potenziali vittime (non a caso, senza maschera) mostra un accenno di “storia vissuta” e di definizione psicologica (il suo tremare lo rende a tutti gli effetti un “essere umano” in carne e ossa), la macchina da presa si ferma e abbiamo il tempo di simpatizzare con la vittima. Se Beatrix lo avesse ucciso, allora il nostro rapporto di empatia con lei molto probabilmente avrebbe subito una flessione, per questo non è vero, come sostiene Johnson, che l’intera scena della mattanza può assumere un valore morale perché gli 88 folli sono seguaci di ORen. Beatrix conferma di essere dalla parte del giusto concedendo la grazia al ragazzino; e non avrebbe potuto fare altrimenti, dato che, sia per la visione dello spettatore sia per la sua, questo “graziato” è l’unico ad aver mostrato di “essere un uomo” e non una figura “meccanica” e senz’anima come tutti gli altri. La manifestazione della sua paura è un segno di una vita interiore, di una coscienza, di un “sentire” dell’anima, che invece i suoi “colleghi” non possedevano (o che Tarantino è riuscito a velare); la sua morte sarebbe stata autentica, reale, e l’avremmo percepita come un’ingiustizia, reintroducendo quel vincolo morale che con grande impegno il re79
Capitolo III
gista aveva esorcizzato nel corso del susseguirsi di tutte le immagini precedenti. Così, in questa apparentemente banale scena che chiude la sequenza, possiamo rivelare una chiave per comprendere in che modo Tarantino lavori con la violenza, al fine di giustificarla per il suo stesso mostrarsi estetico piuttosto che accusarla o glorificarla in senso morale. Roth non erra quando specifica come le perplessità sulla moralità della protagonista dimostrano che solo il perdono sia l’autentica scelta etica, in quanto interrompe il circolo infinito della violenza, ma questo accade solo per la palesata natura simulacrale e finzionale del film, dove la violenza è legittima come puro atto estetico, e soprattutto perché il film, a differenza della vita, “finisce”, sospendendo la condanna perpetua della vendetta infinita. Ma questa vendetta si legittima solo nella sua distanza dalla realtà, quella realtà dove la moralità assume un senso: Non c’è alcuna punizione etica perché l’universo di Tarantino non è un universo morale religioso. Piuttosto vieni ucciso perché consideri il mondo per quello che è e in modo arrogante non riesci a comprendere i segnali dei pericoli attorno a te.105
T. D. Roth, Una spada di rettitudine: Kill Bill e l’etica della violenza, cit., p. 180.
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Capitolo IV
Death Proof: il metagenere nell’assenza di mondo
Dopo Kill Bill, Tarantino sembra fermo nel suo percorso di creatività simulacrale, persino radicalizzando alcuni elementi alla base del suo stile; Death Proof (ovvero l’episodio di Tarantino del progetto Grindhouse che ha coinvolto l’amico e collega Robert Rodriguez) è infatti l’apice della pratica citazionista tarantiniana, un elogio del simulacro talmente palese da venire esplicitato con forza, in maniera persino più decisa che in Kill Bill. La strategia di riferimento infatti è quella del raddoppiamento semiotico, ovvero l’intero testo è intessuto di una dimensione metatestuale che emancipa il film da qualsiasi tentativo documentativo, o dalla volontà delle immagini di farsi immagini del mondo. Le immagini sono immagini del cinema, e se in fondo così è da sempre, da quando esiste cioè la settima arte, qui Tarantino porta a coscienza ed esplicitezza questo gioco di specchi ermetico, persino tautologico: l’immagine rappresenta altre immagini, e si resta all’interno dello scrigno del cinema. Nell’ambito dell’estetica simulacrale, l’atteggiamento di Tarantino, sicuramente affine in questo all’autore di Planet Terror che ha estremizzato la tendenza maniacale del riferimento al cinema d’exploitation, può essere interpretato come una reazione radicale e a suo modo coerente nei confronti dei tempi che viviamo nell’epoca dello svuotamento di senso postmoderno: È un film di Tarantino, tutto superficie, niente profondità. […] riesce a dire il vuoto in cui siamo con un tutto pieno di azioni, personaggi, ambienti e discorsi che più vuoti non si può.106
Della stessa idea è Zagarrio, che evidenzia come lo svuotamento di senso di Death Proof possa essere interpretato come testimonianB. Fornara, cit. in R. Menarini, Django Unchained: Tarantino come American director, in America oggi, cit., p. 127. 106
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Capitolo IV
za della crisi complessiva del senso nella contemporaneità, nonché della morte delle logiche narrative: È un modo, parodico ma consapevole, di ragionare sull’ellissi, sullo scarto narrativo, sull’impossibilità di un racconto lineare. I “rulli mancanti” di Tarantino indicano una direzione al cinema contemporaneo.107
Questa direzione è quella della distruzione della sceneggiatura che può assumere innumerevoli forme, come ad esempio, sulla linea della teoria di Jullier, quella del film-concerto che concede un’immersione sensoriale trascurando la dimensione riflessiva; però, se il mainstream è già un approccio consapevole nel tentativo di colmare il vuoto e occultarlo, l’importanza della vuotezza di Death Proof sta nel come mette in evidenza una specificità culturale dei nostri tempi, senza prendere posizione e senza sottolineare come tale dispersione del senso sia una difficoltà: Quanto è responsabile la grande rivoluzione tecnologica in atto, quanto ha influenzato la narrazione degli anni duemila un “pensare digitale”, quanto contano l’abitudine al telecomando, all’acquisto e al consumo rapido del fast food e della merce-cultura? La destrutturazione della sceneggiatura è una moda e un “modo” produttivo, o è un bisogno intrinseco di raccontare in modo diverso, e corrisponde all’impossibilità di controllare la narrazione nella sua totalità e di leggere in modo “armonico” il testo?108
Il gioco allusivo e autoreferenziale che il cinema fa con se stesso viene persino amplificato rispetto al passato, tanto che, come fa Anderson, il modo migliore per comprendere un testo del genere è quello di rifarsi direttamente al pensiero di Jean Baudrillard e alla sua teoria dei simulacri; vedremo come, attraverso questa lettura, proprio nel momento di maggiore radicalizzazione stilistica può emergere il contrappunto dialettico che rimette in questione tale posizione. V. Zagarrio, La grande mall dell’immaginario. Il cinema di Quentin Tarantino, cit., p. 21. 108 Ivi, p. 22. 107
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Death Proof: il metagenere nell’assenza di mondo
In un noto saggio il filosofo francese mette in luce come, un tratto tipico della postmodernità, sia la dispersione della storia e la trasformazione della storia in mito; dal momento che «la storia è il nostro referente perduto, vale a dire il nostro mito. E come tale prende il posto dei miti sullo schermo»,109 quest’epoca di dispersione della storia lascia un vuoto che viene colmato dal cinema e dal suo immaginario; la fascinazione per il vintage e il rétro, nonché l’attrazione per le narrazioni storiche, vogliono occultare il vuoto dando l’apparenza di poterlo riempire, sfruttando i rimasugli ideologici e spirituali di un’epoca passata a cui si guarda con nostalgia: Il grande evento di questo periodo, il grande trauma, è questa agonia dei referenti forti, l’agonia del reale e del razionale, che introduce a un’era della simulazione. Se tante generazioni, e in particolare l’ultima, hanno vissuto sull’onda della storia, nella prospettiva, euforica o catastrofica, di una rivoluzione – oggi si ha invece l’impressione che la storia si sia ritirata, lasciando dietro di sé una nebulosa indifferente, traversata da flussi (?), ma svuotata dai suoi referenti. In questo vuoto, rifluiscono i fantasmi di una storia passata […] delle mode rétro […] per resuscitare il tempo in cui, almeno, c’era qualcosa che fosse storia, almeno c’era qualcosa che fosse violenza (sia pure fascista), il tempo in cui, almeno, c’era una posta in gioco di vita o di morte.110
La risposta di Tarantino, nella fase simulacrale del suo cinema, è quella di riempire il vuoto con altro vuoto, e in questa maniera mettere in evidenza la vuotezza piuttosto che occultarla. D’altronde, la citazione di Baudrillard potrebbe essere riferita alla fase “storicopolitica” del secondo Tarantino, che non a caso è definita, come vedremo, “anti” o “post” postmoderna. Ora, nella stagione della completa vaporizzazione del referente storico, il cinema nutre una diffusa “ossessione di una fedeltà storica, di una resa perfetta”, e molti registi si sono sforzati di “animare” il presente restituendo all’immaginario una dimensione storica o valoriale; il risultato è stato che i prodotti confezionati in questa J. Baudrillard, La storia: uno scenario rétro, in J. Baudrillard, Simulacro e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Pgreco edizioni, Milano 2009, p. 21. 110 Ivi, p. 22. 109
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maniera si presentano come simulacri e imposture che pretendono di raccontare la storia: restituzione di un simulacro assoluto del passato o del presente, siamo tutti complici, e si tratta di qualcosa di irreversibile. Poiché il cinema stesso ha contribuito alla scomparsa della storia, e all’avvento dell’archivio. […] Oggi, il cinema può mettere tutto il suo talento, tutta la sua tecnica al servizio della rianimazione di ciò che esso stesso ha contribuito a liquidare; riesce solo a risuscitare dei fantasmi, e vi si perde a sua volta.111
Tarantino non solo risponde al vuoto della contemporaneità, ma col suo cinema risponde anche a quegli autori che tentano di arginare la tendenza simulacrale coi loro tentativi destinati al fallimento: se non c’è niente oltre al cinema, se è la realtà stessa e la storia che si strutturano sull’immaginario della finzionalità diffusa, allora il simulacro va esibito, e ciò a cui esso tautologicamente deve rimandare non è una realtà costruita da esso stesso spacciandola per vera, ma il circolo viene ulteriormente stretto fino a un cinema che parla di cinema. In base a ciò, già Baudrillard distingueva la simulazione dall’impostura: «L’impostura era quella del discorso del senso. Il discorso della simulazione, invece, non è un’impostura. Si accontenta di far giocare la seduzione come simulacro di affetto, simulacro di desiderio e di investimento in un mondo in cui il bisogno si fa crudelmente sentire»;112 il simulacro perciò non è imitazione, né parodia: Si tratta di una sostituzione al reale dei segni del reale, vale a dire di un’operazione di dissuasione rispetto a ogni processo reale attraverso il suo doppio operatorio, macchina segnaletica metastabile, programmatica, impeccabile, che offre tutti i segni del reale, ne cortocircuita tutte le energie.113
Ivi, p. 27. J. Baudrillard, L’orizzonte sacro delle apparenze. Seduzione e impostura, in Simulacri e impostura, cit., p. 55. 113 Ivi, p. 61. 111
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Death Proof: il metagenere nell’assenza di mondo
La simulacralità del cinema di Tarantino sostituisce al referente esemplare della tecnica cinematografica, ovvero il reale, altra finzione, operando un raddoppiamento e un circuito ininterrotto basato sul principio di equivalenza; per questo non possiamo parlare di “rappresentazione”, la quale implica sempre un rimando al di là di sé. Invece, a partire «dalla negazione radicale del segno come valore, […] segno come revisione e messa a morte di ogni referente»,114 il cinema di Tarantino, come evidente in Death Proof, ha come referente il cinema stesso, «ancora una volta cinema, dunque: cinema come prodotto filmico smembrato, spezzettato e ricomposto; cinema come rapporto spettatore-schermo»:115 l’universo della narrazione è immerso nell’immaginario di cui il film stesso fa parte. Per queste ragioni, Anderson sottolinea come in Death Proof, ponendo l’accento al film in quanto film, Tarantino metta in scena una quarta fase di simulazione, diversa dalla citazione: dove finisce la simulazione citazionistica, ovvero l’intesa stabilita con un certo pubblico, e inizia il simulacro realmente compiuto, ovvero la simulazione della simulazione (dal momento che il film, nella sua globalità, si pone sotto il segno della riscrittura metatestuale)?116 Christian Uva mette in evidenza come tale piano simulacrale e tautologico passi attraverso una rilegittimazione anti-postmoderna del dispositivo cinematografico classico rispetto a quello basato sulla digitalizzazione numerica; in questi termini appare chiaro come l’operazione tarantiniana sia più complessa di quanto appaia di primo acchito: se da un lato la simulacralità radicale si pone nei termini di una conferma dell’orizzonte postmoderno (dal momento che il referente ha lasciato il posto a immagini di immagini), dall’altro lato però anche qui è presente il recupero di un approccio tipicamente modernista offerto dall’immissione di un cinema appartenente al passato, all’interno di una cultura che intende negare quel passato: Riflettere, prima ancora che sulla cinefilia, sul dispositivo cinematografico in quanto tale. […] l’esperienza spettatoriale espletata sul “corpo del film” viene posta in primo piano, J. Baudrillard, La processione dei simulacri, in Simulacri e impostura, cit., p. 66. R. Menarini, Django Unchained: Tarantino come American director, cit., p. 126. 116 Cfr. A. C. Anderson, Stuntman Mike, simulazione e sadismo in A prova di morte, in Quentin Tarantino e la filosofia, cit., pp. 23-30. 114 115
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con particolare attenzione a quella modalità di fruizione che fa i conti con la pellicola, con la sua matericità, e quindi con una tipologia d’immagine ancora profondamente analogica. È come se all’improvviso un cinema arcaico e ancestrale irrompesse tra le pieghe dell’attuale scenario postmoderno per riaffermare con forza, contro ogni “tentazione digitale”, la profonda e irrinunciabile matericità del dispositivo, rivendicando in primis l’ “umana” capacità della pellicola di deperire, di trasformarsi, di ferirsi. È così che la scelta di Tarantino si colloca nella direzione di una duchampiana operazione di ready made a partire da materiali selezionati [...].117
Insistere sulla pellicola piuttosto che sul digitale significa fare riferimento a un piano materico, soggetto all’invecchiamento e alle ferite del tempo, ed è come riappropriarsi di un’origine in opposizione ai simulacri digitali; come afferma sempre Uva Contro qualsivoglia deriva simulacrale il cinema riparte così da un proprio punto zero per tornare a configurarsi come “morte al lavoro” sul corpo, umano o filmico che esso sia […]. “Il ritorno al passato” degli anni settanta si configura in tale ottica come la regressione a un’epoca in cui il cinema e la musica si candidano a incarnare quella matericità della vita e della morte che l’era dei simulacri digitali tenderebbe a cancellare e rimuovere in un limbo in cui non pulsando più vera vita, non ha più senso neanche la morte.118
Assistiamo perciò a una paradossalità inestricabile, che in altri termini abbiamo già incontrato nel corso del nostro saggio: l’opposizione alla digitalizzazione, non bisogna sottovalutarlo, passa sempre attraverso la nuova tecnologia, e questo paradosso riflette la dialettica tipica dell’ironia moderna: Quel che colpisce dell’operazione di vintage compiuta dal regista è […] la consapevole, profonda contraddizione su cui essa trova il suo stesso fondamento: l’esibizione dell’analogica matericità dei vecchi standard che in Grindhouse si esplicita C. Uva, Grindhouse- A prova di morte, in V. Zagarrio (a cura di), Quentin Tarantino, cit., p. 114. 118 Ivi, p. 123. 117
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nella celluloide consumata dall’usura e dal tempo è resa possibile unicamente dal ricorso alle nuove tecnologie digitali, in particolare da quei software di postproduzione capaci di ricreare artificialmente i graffi, le rigature, i salti, la grana, le code di montaggio mal tagliate. A dimostrazione della camaleontica capacità del digitale di assumere le sembianze più diverse, facilitando qualsiasi operazione di mascheramento o travestimento estetico (ciò colpisce a maggior ragione in Planet Terror, in cui Robert Rodriguez ricorre già in fase di ripresa allo standard numerico).119
In questo movimento paradossale di affermazione e negazione, tra attitudine moderna e tendenza simulacrale postmoderna, si manifesta l’originalità dell’operazione estetica di Tarantino: «[...] pura esaltazione di un cinema corporeo e anti-digitale che, tuttavia, pur elevando a ennesima potenza il proprio statuto chimico, fotografico, analogico, nulla vuole fissare della realtà, preferendo continuare a costituirsi come puro segno, superficie, simulacro privo di referente».120 La dimensione formale è ovviamente strettamente connessa al contenuto narrativo del film; come sostiene Anderson Tarantino incoraggia il pubblico a ridere e a diventare esso stesso sadico, e questo sadismo è possibile solo nell’orizzonte del simulacro che esclude il piano della morale, perché ha smarrito il referente dell’esperienza concreta della vita; così il finale, in assenza di direttive psicologiche e drammatiche ben definite, si gioca esclusivamente sul piano delle reazioni emotive a ciò a cui assistiamo, ovvero l’inseguimento adrenalinico e il soddisfacimento del desiderio di vendetta. Non è un caso che, come per Kill Bill, anche Grindhouse abbia per protagonista la vendetta: Death Proof, come Kill Bill, è un’ovazione al godimento della vendetta. L’attrazione spettatoriale è definita infatti attraverso il percorso di riscatto che le protagoniste conducono in nome delle vittime di Stuntman Mike, ma non acquisisce alcun significato storico né tantomeno politico. Questa logica della vendetta, che assume la prospettiva redentiva all’interno dei cardini della finzionalità filmica, tende al di fuori del simulacro solo enfaticamen119 120
Ivi, p. 125. Ivi, p. 126.
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te, ovvero instaurando un rapporto di soddisfazione libidica con lo spettatore, priva di qualsiasi dimensione autenticamente morale. Il gioco finzionale, come per tutti i film tarantiniani che pretendono un rapporto emotivo e affettivo con lo spettatore che pretende una soddisfazione libidica, è evidente nell’happy end finale, che è l’esaudimento della vendetta del gruppo di ragazze, e prima ancora dal fatto che Zoë, la Stuntwoman neozelandese, non muoia nell’urto causato dalla crudeltà di Mike ma sopravviva saltellando gioiosamente tra le sterpaglie; d’altronde, il gioco finzionale e l’esaudimento libidico della vendetta, nella complessiva assenza di mondo del simulacro del film, passa per la definizione di un antagonista estremamente cattivo e orribile, alle prese con vittime invece indifese e ben più umane. Il lieto fine è un ulteriore elemento di continuità rispetto ai film di genere e b-movies ai quali Grindhouse è palesemente ispirato, se non fosse che l’ipersemiotizzazione tarantiniana, ovvero il raddoppiamento stilistico dovuto al citazionismo, determina delle specificità particolari: infatti, in più occasioni, e soprattutto nel finale, Death Proof mette in evidenza la natura filmica del testo, e l’operazione metatestuale supera la mera citazione esponendo in numerose occasioni il gioco tarantiniano. In questa grande giostra del metagenere, dove il cinema si palesa e mostra la sua dimensione finzionale numerose volte, la vendetta non è giustizia ma divertimento, e tutta l’operazione tarantiniana è volta a tenere ben distinto il godimento della vendetta dal godimento del male, che avrebbe significato fare del cinema di Tarantino un cinema sadico. In questo, la vendetta di tutto Grindhouse si distingue nettamente da un lato a un altro film, pressoché contemporaneo, dedicato alla vendetta, ovvero V per Vendetta (2006, Larry e Andy Wachowski), dove questa categoria si confonde con la rivoluzione e la sollevazione popolare: qui Vendetta si traduce con giustizia, strumento di rivalsa degli oppressi nei confronti degli oppressori, prospettiva che troverà una corrispondenza in Ingloriuos basterds e in Django Unchained; ma il confronto più significativo dovrebbe essere fatto con un altro film appartenente all’immaginario tarantiniano e diretto dall’amico e collega Rodriguez, come detto non a caso già regista del secondo episodio del progetto Grindhouse, ovvero Planet Terror. 88
Death Proof: il metagenere nell’assenza di mondo
Trattasi di Machete (2010), opera persino più spudorata delle pellicole della produzione tarantiniana, che raggiunge un tale livello di crudezza di immagini da sfociare in un parossismo volontario della violenza al punto da raggiungere l’evidenza dell’irrealtà; se anche in Machete il gioco di stimolazione libidica passa attraverso la vendetta giustificata e sacrosanta dell’eroe sterminatore, dove la polarità Bene vs Male è talmente rigorosa e definita da essere fumettistica, qui però la stilizzazione coinvolge persino la politica e le problematiche morali effettive. Compare infatti il mondo morale, perché la vendetta di Machete diventa la guida della comunità dei latinos e dei messicani, vittime delle angherie dell’ipocrisia americana e pronti a compiere una rivoluzione nei confronti degli sfruttatori; il cortocircuito ideologico è determinato in effetti dall’eccesso di plastificazione di cui il film si compone, che concretizza la dimensione simulacrale a un livello superiore rispetto all’estetica tarantiniana, che arriva a un tale punto di entropia da creparsi e aprirsi dal suo stesso interno fino a rimandare alla realtà storica concreta; tale rimando alle problematiche effettive della geopolitica americana non può a ben vedere riscattare la dimensione simulacrale, anzi il rischio è che anche la denuncia socio-politica finisca immersa e fagocitata dal simulacro, diventando irreale e neutralizzandosi, privandosi così di qualsiasi valore polemico e critico. La dimensione politica viene perciò simulacrata e l’eccessivo livello di finzionalità è dimostrato persino dalla storia di come il film sia stato realizzato: Machete nasce da un finto trailer all’inizio di Grindhouse e a partire dalle immagini montate per il finto trailer è stato costruito poi un film, invertendo una prassi abitudinaria nella storia del cinema. Se il film nasce dal trailer, ovvero dal battage pubblicitario, esso è da subito inserito all’interno del circuito della promozione e dell’industria, prima ancora che il film venga girato: tale appartenenza all’industria conferma la radicalità del gioco finzionale del film.
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Capitolo V
Inglourious Basterds: l’irruzione della Storia e l’infrazione del simulacro Nel 2009 la poetica tarantiniana opera la più significativa svolta della sua carriera; come accade spesso in ogni grande autore, Tarantino non è più soddisfatto delle prerogative che hanno segnato la sua produzione fino a quel punto. È come se, giunto al limite più estremo della pratica citazionista e simulacrale, Tarantino abbia sentito l’esigenza di infrangere il simulacro e finalmente di rivolgersi alla Storia, facendosi carico di una dimensione morale capace di emancipare il concetto di vendetta dalla prospettiva personalistica dell’eroe per aprirsi a un messaggio sociale e collettivo. È in questo quadro che il regista americano realizza Inglourious Basterds, dove violenza e vendetta, orrore e redenzione vengono tradotte in un contesto storico ben definito e oltretutto estremamente significativo, ovvero la persecuzione nazista. Ora gli antagonisti, restando terribili, sono però riconosciuti in profili realmente esistiti; la “fumettizzazione” del reale viene compiuta con la finalità etica di offrire, attraverso l’immaginazione cinematografica, un riscatto alle vittime della barbarie nazista: Per quanto operi secondo canoni ancora manifestamente postmoderni, proprio da Bastardi senza gloria, immettendo il dato storico all’interno di un sistema puramente autoreferenziale come era stato il suo cinema fino a quel momento, Tarantino denuncia in qualche modo la limitatezza del postmoderno come categoria storica prima che stilistica.121
In questo film, la pratica del pastiche lascia lo spazio all’invenzione tipicamente moderna, confermando ancora una volta una dimensione di confluenza tra tendenza postmoderna e approccio modernista: 121
M. Pollone, Lincoln, Griffith e noi, ovvero: Rinascita di una nazione?, cit., p. 105.
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Siamo, in questo caso, ben oltre l’ammiccamento postmoderno, e anzi siamo lontani da un’idea di postmoderno ortodossa: l’invenzione pura diviene strumento anti-postmoderno. Ribadendo che anche questo suo film è invenzione pura e allontanandosi così tanto da ciò che qualsiasi spettatore sa essere accaduto, Tarantino lo riafferma, ne esplicita l’esistenza al di fuori del suo orizzonte di racconto e rappresentazione.122
L’idea del Male non è un’idea ontologica; essa “perviene” alla trascendenza attraverso un processo di ipostatizzazione, ma affonda le sue radici nella Storia, nei fatti che caratterizzano la memoria di un popolo e che lo segnano nel profondo. L’occasione storica che in epoca moderna ha avuto questa funzione più di altre è stata il Nazismo, col suo seguito di campi di sterminio, guerra mondiale, mitologia della razza ecc. Hitler è il Male, ma non in quanto “demone in terra” ma perché, dopo di lui, tutto l’Occidente ha più o meno coscientemente costruito uno schema mentale e un’idea astratta di Male facendo riferimento a lui e al Nazismo; retroattivamente la nostra cultura ha “trascendentalizzato” Hitler identificandolo col Male per assumerlo come referente negativo, essenziale per ogni codice morale. Il Nazismo non è l’“incarnazione” dell’idea di Male, ma è “fondatore” della stessa idea. Tarantino si immerge nel cuore stesso dell’episodio storico che ha fondato l’idea di Male e che ha segnato la nostra storia e la nostra quotidianità negli ultimi 60 anni. L’idea di Male, dalla tendenza antecedente di venire incarnata da profili stilizzati e astratti, si cala nel fenomeno storico da questo punto di vista più eclatante, capace come detto di instaurare nel corso di tutta la storia successiva il referente dell’idea assolutistica di Male. Col Nazismo e con la persecuzione degli ebrei, assistiamo alla piena adesione di astrattezza del concetto e immanenza concreta: i nazisti possono così essere trattati come dei “malvagi” in senso fumettistico, seppur a differenza di prima il simulacro in questione non è altro dalla realtà, ma riguarda l’episodio cruciale della storia moderna mondiale. Il simulacro viene così infranto, ma tale infrazione avviene all’interno del simulacro stesso, ciò a cui 122
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Ivi, pp. 106-107.
Inglourious Basterds: l’irruzione della Storia e l’infrazione del simulacro
assistiamo è infatti una “storia simulacrale”: la vicenda narrativa di Inglourious Basterds è ispirata chiaramente alla storia vera, ma questa viene contaminata dalla costruzione immaginifica in grado di dirigere in maniera alternativa gli eventi stessi. Così l’arte (in maniera specifica il cinema) assume una dimensione pienamente morale, perché l’immaginazione artistica riscatta le vittime della storia offrendo a loro la possibilità di una vendetta, nonché la possibilità di frenare e arrestare la sciagura: l’uccisione di Hitler e lo sterminio dei nazisti nel cinema di Shosanna stanno a indicare proprio questo, ovvero come il cinema in senso metaforico possa assumersi questo ruolo etico e offrire una redenzione: «Con Bastardi senza gloria Tarantino ha preso il volo verso un nuovo livello di effetto speciale: portando al culmine la conflagrazione-massacro, ha trasformato allegoricamente il cinema stesso in un’arma da guerra e di giusta vendetta».123 Per affidarsi a tale ambizione, Tarantino sa bene di non poter correre il rischio dell’ingenuità: la narrazione, attraverso l’ucronia, riscatta la storia, ma per compiere questa operazione è vitale che lo stile di Tarantino non si svilisca nel realismo ma mantenga sempre il parossismo tipico della sua opera (appunto, infrangendo il simulacro all’interno del simulacro stesso). Per questo anche in Inglourious Basterds troviamo gli episodi di interruzione della fascinazione cinematografica, come ad esempio la presentazione dei membri della banda dei Bastardi che avviene quasi fossero supereroi dei fumetti. Lo stile di Tarantino, la sua dichiarata finzionalità, denuncia proprio la dimensione ucronica (ovvero la costruzione immaginifica della storia, sul modello del “come sarebbero andate le cose se...”) e perciò l’irrealtà di quanto si racconta, ed è proprio nella falsità manifestata che il messaggio morale di emancipazione può contrapporsi alla storia ufficiale e assumere un valore morale; come abbiamo avuto modo di specificare, siamo agli antipodi rispetto a quanto per esempio accade ne La vita è bella, sincero omaggio nei confronti delle vittime dei campi di concentramento, ma che cade in fallo in un’irrealtà di ordine diverso. All’interno della cornice realistica, in assenza della volontà di manifestare l’irrealtà del film, il finale dell’arrivo trionfante degli americani e della gioia della madre 123
A. Martin, Un’altra pallottola in testa, in Moviement. Quentin Tarantino, cit., p. 15.
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che riabbraccia il figlio smorza il tono moralistico mistificandolo.124 In altri termini, se il finale è storicamente fasullo, allora può esserlo anche tutto ciò che abbiamo visto prima in due ore di film: atrocità, violenza, persecuzioni ecc. Inglourious Basterds, dal canto suo, è per molti versi un film “benjaminiano”: la temporalità che si sviluppa al suo interno non è storico-lineare, ovvero asservita alla logica del dominio, bensì anacronica, ovvero autentica ed emancipativa. Nelle Tesi di filosofia della storia,125 Walter Benjamin minò alla radice lo schema abitudinario di quello che lui definiva “tempo vuoto”, ovvero il tempo dello storicismo classico, basato sulla linearità logicoconsequenziale che vedeva nel presente il risultato di una catena di eventi passati. Il passato, nella concezione della tradizione storicista, determina il presente, e il compito dello storico è risalire alle ragioni che hanno determinato l’attualità; a questa dimensione appartiene l’idea del tempo storico come “progresso”, ma anche il modernismo tecnocratico e anti-rivoluzionario della social-democrazia, che rinvia la rivoluzione a un futuro indefinito per il quale ciò che ci è concesso di fare nel presente è solo prepararne indefinitivamente le condizioni, rinviando all’infinito felicità e redenzione. Benjamin vede la condizione della redenzione messianica e della felicità sulla terra solo nell’inversione di tale schema temporale: lo storico materialista crede nell’immagine revocabile del passato, rinuncia a un’idea del passato come qualcosa di incontrovertibile, assoluto e fisso. Passato e presente si confondono scambiandosi eternamente le parti: la storia si fa politica quando il presente rivendica il proprio potere utopico annunciando la sua capacità di fondare il passato dal suo stesso interno. Alla linearità temporale, Benjamin sostituisce il vortice temporale e a-cronologico di passatopresente-futuro, dove l’Adesso (Jetztzeit) illumina di senso un passato mai determinato una volta per tutte e mai inquadrabile esternamente. L’Adesso ha il potere di riscattare la Storia, di Per queste ragioni Flavio De Bernardinis insiste sul possibile carattere metatestuale rintracciabile nel film di Benigni: cfr. F. De Bernardis, Ossessioni terminali, Costa & Nolan, Ancona-Milano 1999, pp. 210-218. 125 Cfr. W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Id., Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995. 124
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strappare ai vincitori il senso del tempo per consegnarlo ai vinti e alle vittime della barbarie della cultura: il materialismo storico ha infatti la funzione di interrompere il continuum soffocante della Storia, e di istituire esso stesso la tradizione. Si tratta di una tradizione legata alla cultura socialista e proletaria, che si oppone alla linea ufficiale borghese convinta dell’idea di progresso; questa “svolta copernicana” del tempo, dove presente e passato si invertono le parti, è il nucleo espressivo della “storia alternativa” che Bastardi senza gloria propone, sottolineando come il ruolo redentivo capace di dare voce alle vittime della storia ufficiale dei vincitori sia affidato all’arte, e in questo caso al cinema: «Tarantino realizes that the only way to undo history, if not in reality, is through art and that art, in many ways, does not owe anything to political and historical “reality”».126 Come afferma sempre Srinivisan: «Tarantino lets the two worlds – the “real” reality and the film’s reality – collide and one’s response just depends on how much of a balance one wants to maintain between “what happened” and “what happens”. We can choose to either draw the line between “what-might-have-happened” fiction and “what-couldn’t-have-happened” fiction early on or wait till Tarantino draws it for us in the last chapter».127 Per questo, tutto il film è attraversato dal “cinema” e dalla messa in evidenza della sua efficacia e del suo ruolo nell’ambito dell’immaginario, tanto dalla prospettiva propagandistica sostenuta dai dirigenti nazisti, quanto nella capacità di trasformare il cinema stesso in strumento diretto e concreto di vendetta e giustizia. In questa dimensione, è ovvio come la vendetta, da simulacro, si traduca in strumento di storia dialettica: gli ebrei, da vittime, si trasformano in vendicatori, sempre per mezzo del cinema che conferma una dimensione simulacrale ora funzionale alla nobilitazione delle vittime. La vendetta si compie e risolve la Storia, dimostrando la possibilità di opporsi al Male, se non fosse che questa possibilità, nel momento stesso in cui viene mostrata, viene disdetta S. Srinivisan, The grand illousion, in R. von Dassanowsky (a cura di), Quentin Tarantino’s Inglourious Basterds. A manipulation of metacinema, Continuum, New York 2012, p. 9. 127 Ivi, p. 4. 126
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dalla sua palese falsità: solo negativamente il simulacro assume un carattere etico, ovvero solo nella messa in scena plastificata della sua infrazione, che però è sempre conferma della falsità. A differenza della strage di Beatrix degli 88 folli, le vittime dei bastardi non sono solo figuren, ovvero esseri umani degradati a meri “pupazzi” senza coscienza, ridotti a uno stato di assoluta passività; come abbiamo visto, Primo Levi faceva riferimento ai detenuti dei campi di concentramento sviliti e condotti a tale stato sub-umano con la nozione di “mussulmano”, ovvero persone prostrate alla loro condizione che hanno smarrito persino la coscienza del loro stato e ai quali è rimasta solo l’attesa della fine, completamente in balia degli eventi. Gli 88 folli, da un punto di vista drammaturgico e narrativo, appartengono a questa categoria, così come la maggior parte delle vittime che nella Storia hanno perduto la loro umanità a causa del mostro nazista. Il personaggio interpretato da Roberto Benigni ne La vita è bella non si rassegna, per esempio, alla condizione di mussulmano, ma rivendica in ogni istante della sua detenzione la sua umanità e la sua coscienza; così fanno gli ebrei della banda che decidono di farsi giustizia perseguitando i loro aguzzini. Questa persecuzione perciò non si rivolge a profili deumanizzati, ma ai nazisti intesi come incarnazione del Male: in questo diviene evidente l’emersione di un sostrato morale ben più significativo che in Kill Bill. Le vittime dei vendicatori ebrei infatti non sono intercambiabili, non sono comparse di un film o sagome senz’anima, ma sono uomini in carne ed ossa; la loro eliminazione fisica determina la nostra approvazione a causa delle loro colpe effettive. Questo rende gli omicidi eseguiti dagli ebrei ben più pregnanti di valore e significato, e se il godimento in Kill Bill scaturiva proprio dalla deumanizzazione delle vittime, qui il godimento viene confermato e persino incrementato dalla definizione concreta del profilo delle vittime, che “meritano” (dove il “meritare” presuppone già da subito un valore morale) la loro sorte. Di qui il legame tra la trasfigurazione estetica operata dal cinema e la legittimazione della violenza: questa conclusione […] non soltanto è, come è evidente a tutti, assolutamente ‘antistorica’, totalmente inventata e, per certi aspetti, addirittura grottesca; ma riconduce la ‘violenza’ del 96
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primo capitolo al tema ‘cinematografico’ sotteso dell’intero film. […] Come se il cinema e la violenza dovessero in qualche modo ricongiungersi nella sequenza finale (o prefinale, dato che il film conclude con la ‘marchiatura’ del colonnello Landa) a dimostrazione di una sorta di indissolubile legame tra l’uno e l’altra128.
La maggior pregnanza “psicologica” di queste vittime non è nel film, ma nella valutazione che lo spettatore fa alla luce della sua consapevolezza di cosa i nazisti abbiano rappresentato nella storia, e per questo motivo i personaggi di Tarantino comunque mantengono un loro profilo “fumettistico”: Thankfully, Tarantino’s characters are cartoon-ish themselves, hence justifying the deformation Tarantino bestows upon them and his attempts to reduce intense and delicate power plays to petty mine-is-bigger arguments.129
Tale movimento diventa esplicito e terribilmente evidente nel volto di Hitler bersagliato dai proiettili dei bastardi: lì Hitler si rivela essere una maschera, un pupazzo di plastica, e se tale immagine dovrebbe in teoria scaricare la potenza catartica del film, nel finale questo non accade dal momento che lo spettatore è da subito cosciente della falsità di ciò che sta guardando. Per questo motivo, è impensabile il rischio di una confusione tra realtà e finzione, perché il piano della finzione si evidenzia e si autodenuncia: Concludendo Bastardi senza gloria con l’omicidio di Hitler da parte di un commando fantasma americano, Tarantino crea invece un discrimine troppo ampio tra il racconto finzionale e il reale svolgersi degli eventi, al punto che lo spettatore non solo non potrà sostituire, a livello di immaginario, come spesso accade, la versione cinematografica (o in generale narrativa) di un fatto con la ricostruzione documentata del fatto stesso (si pensi, tra i molti esempi che si possono fare, proprio ai citati film storici di Spielberg degli anni Novanta), ma sarà costretto a prendere atto della differenza tra l’opera filmica e ciò che egli conosce della fine di Hitler e della 128 129
G. Rondolino, L’ultimo Tarantino, in Moviement, cit., p. 56. S. Srinivisan, The grand illousion, cit., p. 5.
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Seconda guerra mondiale, in nessun caso compatibile con ciò che Tarantino propone.130
Non deve sorprendere che Inglourious Basterds abbia sollevato un dibattito relativo alle implicazioni morali di questo tipo di costruzione fantastorica: è solo accettando la finzione in tutti i suoi aspetti filmici che è possibile ‘commuoversi’ di fronte a certe scene e sequenze […] non è difficile rinvenire l’espressione di una forte accusa ‘politica’, che dagli anni del nazismo e della persecuzione degli ebrei si spinge sino ai giorni nostri. [...] Il fatto che egli abbia scelto, come sempre d’altronde, la strada della finzione e dello ‘spettacolo’ porta il suo discorso, paradossalmente, su un piano critico ancor più profondo e aperto a ulteriori approfondimenti. […] è la ‘fantastoria’ del film, cioè la sua dichiarata falsificazione dei fatti e l’incongruenza delle situazioni, a consentire di cogliere appieno tanto il quadro di riferimento storico […] quanto l’attualizzazione della storia, cioè l’allargamento di prospettiva che i fatti narrati e gli ambienti descritti consentono di applicare alla realtà politica e sociale in cui viviamo.131
C’è infatti chi, come Jens Jessen,132 ritiene il film di Tarantino un’operazione scandalosa e controproducente, perché nega un autentico approccio critico che può passare solo attraverso la comprensione dei fatti storici senza manipolazioni o plasmazioni. Ma d’altronde, questa è la pratica dell’arte, che si differenzia dalla storiografia proprio su questo punto: quest’ultima si riferisce all’ “è stato”, il dato incontrovertibile come direbbe Benjamin, mentre l’arte fa riferimento all’immaginario e alle possibilità non-date, soprattutto quando, come in questo caso, non intende imbrogliare o illudere lo spettatore: «‘incoscienza’ non è altro che la chiave di lettura di storie e personaggi che si presentano come tali, cioè appunto storie e personaggi ‘cinematografici’».133 Se l’arte deve M. Pollone, Lincoln, Griffith e noi, ovvero: Rinascita di una nazione?, cit., p. 106. G. Rondolino, L’ultimo Tarantino, cit., p. 62. 132 Cfr. ivi, p. 57. 133 Ivi, p. 57. 130 131
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dare voce alle vittime della storia, perché solo essa ha il potere di opporsi alla storia ufficiale, allora il “cinema” e il “regista” in quanto autore diventano istanze quasi bibliche e divine, che intervengono finalmente compensando, seppur nella fantasia, quell’assenza di Dio che si è manifestata ad Auschwitz. Il mondo svuotato degli dei e della giustizia divina cerca un riscatto attraverso la violenza del cinema: «[...] quella violenza potrebbe essere interpretata come la manifestazione di una sorta di giustizia divina che si abbatte sui persecutori del popolo eletto per difenderne e salvaguardarne l’integrità»;134 significative a questo proposito le parole del rabbino Emilio Jona, che su questo punto insiste sul significato trasfigurato che assume la violenza, anche rispetto ai film precedenti di Tarantino e che verrà confermato nel successivo Django: Il film va quindi guardato come un chiaro rovesciamento di ruoli e poteri, come un sogno di desiderio, lontanissimo dalla verità storica. Debbo dire poi che a differenza di altri film di Tarantino la violenza appare in questo caso in qualche misura più ritualizzata e resa accettabile dalla giustezza della causa, perché è praticata su assassini nazisti; e debbo ammettere onestamente che per questo, almeno ai miei occhi di ebreo, la violenza appare, biblicamente, quasi sopportabile. […] Insomma, è come se Tarantino, che ebreo non è, avesse voluto usare la violenza degli ebrei in chiave ‘biblica’, come giusta risposta alla violenza nazista, cioè secondo la volontà di Dio.135
134 135
Ivi, p. 58. E. Jona, cit. in ivi, pp. 58-59.
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Django Unchained: la nuova dimensione morale della violenza Nella successiva fatica di Tarantino, il piano resta quello storico; non a caso Django Unchained potrebbe a ben vedere comporre con Inglourious Basterds un dittico dove la dimensione della vendetta, dalla stilizzazione mitica del simulacro, si è concessa alla dimensione storica facendo irrompere uno specifico carattere etico e redentivo. Qui per la prima volta Tarantino si cimenta in uno dei suoi generi prediletti, ovvero il cinema western; se già in più di un’occasione il regista americano aveva dimostrato la sua devozione nei confronti del genere americano per eccellenza, attraverso l’adozione delle colonne sonore ad esempio, ma anche con la scelta di determinati stili di regia e montaggio, con Django Tarantino si immerge all’interno del genere per realizzare in toto un film western, che seppur intriso della tradizione non intende mai ridursi a un mero esercizio citazionista: [...] se apparentemente il film è edificato ancora su quel polimorfismo frammentato tipicamente postmoderno, contiene in sé momenti che vanno oltre la rivisitazione ironica e non innocente del passato e si propongono come gesti radicali, che il passato lo sfigurano apertamente.136
Il cinema western americano rappresenta l’unica significativa epopea moderna; gli Stati Uniti d’America sono riusciti, nel corso di una manciata di secoli, ad acquisire una posizione di egemonia culturale, politica ed economica in tutto il mondo. Nel perseguire tale posizione hanno dovuto fondare a posteriori un humus culturale e mitologico al quale poter fare riferimento.137 Da buoni eredi degli M. Pollone, Lincoln, Griffith e noi, ovvero: Rinascita di una nazione?, cit., p. 107. Su questo cfr. A. Alfieri, The American Western in Italy: Sergio Leone’s Dialectic Cinema, in AA.VV, “New Wests and Post-Wests:Literature and Film of the American West”, Cambridge Scholar, Cambridge 2013. 136 137
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europei, gli americani hanno sempre saputo che per lo sviluppo culturale e sociale di una comunità, per l’instaurazione di un ordine di valori condiviso, fosse necessaria una “mitologia”, un sistema di riferimenti “trascendente” che, seppur inizialmente frutto dell’immaginazione e della pratica artistica, avrebbe poi assunto una dimensione autonoma rispetto alle vicende umane. Sterminate e isolate le popolazioni native, gli americani hanno sentito l’esigenza di fondare ex novo qualcosa che fosse esclusivamente loro, legato ai quei territori, che ponesse a fondamento le idee di libertà e di giustizia da assumere come direttrici per la vita di ciascuno. Nacquero così il “mito della frontiera”, il “western”, John Wayne e i capolavori di John Ford, rappresentazioni della dicotomia ben definita di Bene e Male, esegesi del coraggio individuale e dell’affermazione dell’eroe pronto a sacrificarsi, fascinazione per un universo semantico in realtà mai effettivamente esistito (com’è giusto che sia per un’autentica mitologia). L’immaginario simbolico del western classico si compone di numerosi fattori e implicazioni, quali il culto per la conquista e l’insediamento territoriale oltre i confini, la convinzione unilaterale di promuovere il Bene in opposizione al Male, l’eroe maschile inadatto alla vita casalinga e statica e costretto per sua natura ad abbandonare il casolare, l’inquadramento dell’Altro (il selvaggio, l’Apache, il Sioux…) come barbaro al quale è necessario rispondere con la forza. Il consolidamento della fondazione a posteriori di tale mitologia ha vissuto nel corso del XX secolo diverse trasformazioni e plasmazioni, soprattutto in relazione alle vicissitudini storiche, e la frattura più significativa si è avuta con la Guerra del Vietnam. Sono gli anni del “neowestern”, profondamente influenzato dalla cultura della contestazione: ad alimentare questo genere, una leva di nuovi registi non allineati al sistema della Hollywood classica, severamente critici con lo star system e con le istituzioni responsabili della sciagura del Vietnam. Le pellicole di autori come Sam Peckinpah (Il mucchio selvaggio, 1969) e Arthur Penn (Piccolo grande uomo, 1970) segnarono questa trasformazione di immaginario, e questa prima decostruzione del mito fu accompagnata però da una fiducia nei confronti del dissenso politico, e da un’intenzionalità pedagogicoculturale e propagandistica. 102
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Il tema del rapporto con l’alterità si complicò proprio con la guerra del Vietnam, e in questo il cinema di Sergio Leone ricopre un’ulteriore posizione: la categoria degli indiani, dopo essere stata messa in questione nei film del neowestern americano, nel western di Leone scompare totalmente. La privazione della dicotomia culturale tra nativi e americani contribuisce all’orizzonte di senso del cinema di Leone, pressoché spurio dai moralismi propri della “generazione Vietnam”. Infatti, se da un lato era praticamente impossibile riproporre la formula del buon americano che si difende dall’orda vandalica dello “straniero” (uno straniero che paradossalmente aveva maggior diritto di residenza sul suolo americano, essendone l’autentica popolazione autoctona), dall’altro Leone non condivideva la logica dell’inversione schematica della dicotomia (i “buoni” diventano “cattivi”, e viceversa), che presuppone un approccio ideologico e politico. Con Leone si compie un passaggio ulteriore: lo schema cambia completamente, non si tratta solo di invertire i ruoli, ma di far saltare l’intero impianto attraverso l’estremizzazione semiotica. In quegli stessi anni, Leone assorbì le icone mitiche del mondo del western per utilizzarle nella costruzione di un’estetica parossistica che emancipò il genere da qualsivoglia funzione politica o sociale, sia di ordine “positivo” (promozione dei valori americani) sia “negativo” (promozione dei valori di segno opposto). Per quanto sia risaputo l’amore che Tarantino ha sempre avuto per lo Spaghetti western, in realtà Django può venire a tutti gli effetti ricondotto al genere del neowestern: il tema dell’alterità viene ricompreso a partire da una delle pagine più nere della storia della cultura occidentale moderna, ovvero la barbarie rappresentata dallo schiavismo soprattutto negli Stati del Sud fino a Lincoln. In questa maniera, come già i registi della dissidenza, Tarantino capovolge il mito, e dimostra come l’epopea western, classicamente intesa come dimensione di produzione dell’immaginario valoriale dell’identità americana, si fondi su principi di sfruttamento e sul più brutale oltraggio alla dignità umana. Se come abbiamo detto anche il genere western rappresenta una costruzione mitica, e perciò riferita a un’epoca eternamente distante dalla Storia e non corrispondente ad alcun concreto ambito storiografico perché da subito avvolto dalla mitizzazione, allora è 103
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evidente come l’ambito simulacrale resti un fattore costante anche in questo cinema, e di riflesso anche in Django Unchained. Anche il cinema western infatti si pone in termini simulacrali, primo perché per quanto abbia pretese veritative esso non è mai una ricostruzione storica ma una costruzione narrativa immaginifica, secondo perché, come dimostra Bertetto, in un modo o nell’altro tutto il cinema adotta la pratica del simulacro, anche quando pretende di fare il contrario, ovvero di farsi documentazione fedele del reale; non a caso Bertetto, ne Lo specchio e il simulacro, mette in evidenza come anche il cinema western partecipi della dimensione simulacrale del cinema, costruendo attraverso il montaggio spazi mitici che non esistono in natura, come la celebre Monument Valley.138 L’appartenenza di Django al moralismo del neowestern concede a Tarantino di sfruttare il simulacro del western per assumere una chiara posizione etica, per offrire un momento di riscatto alle vittime della Storia, in questa occasione non gli ebrei perseguitati dal nazismo ma i neri d’America condannati alla brutalità e alla violenza bestiale dei bianchi; attraverso la finzionalità, e attraverso uno dei generi più mistificanti della storia del cinema, Tarantino mette in evidenza la vera storia dell’ipocrisia americana. Se il western classico era infatti l’elogio e la promozione dei valori positivi incarnati nel mito della frontiera, proprio attraverso il western Tarantino mette in evidenza come quel mito celi in realtà una storia di depravazione e di sottomissione dell’Altro; il debito nei confronti di Leone torna a livello stilistico e formale, non già sul piano morale. Se infatti Leone si pone sul versante dell’assoluta simulacralità amoralistica (dove la morale è funzionale al godimento della narrazione), Tarantino adotta gli stilemi del suo cinema per ricondurli all’ambito del moralismo del neowestern: l’ipersemiotizazzione tarantiniana, i tomi fumettistici, l’irrealtà palesata nell’eccesso parossistico del film, non sono (come era per la prima parte della sua produzione) esclusivamente funzionali al pathos della narrazione, ma sono mezzi per raggiungere un riscatto ideale e una redenzione immaginifica di chi è stato vittima. Per questo Leone è il referente ideale per il precedente cinema simulacrale di Tarantino, almeno fino a Grindhouse; ora invece il simulacro si infrange e lascia entrare 138
Cfr. P. Bertetto, Lo specchio e il simulacro, cit., pp. 112-130.
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una storia di soprusi e sofferenze che grida vendetta. Così il cinema finzionale diventa lo strumento privilegiato di rivincita delle vittime, l’unica opportunità di recuperare dignità: «[...] la narrazione spettacolare può applicarsi alla più sfrenata fantasia storica […] purché il piacere della vendetta sia commisurato al peso dell’oscenità procurata».139 Il tema storico attorno a cui Django è costruito, come detto, è lo schiavismo americano, seppur non siano assenti riferimenti anacronistici alla barbarie nazista, dal momento che il film è ambientato a metà Ottocento alla vigilia della Guerra Civile. Anche a proposito di Django, così come avevamo fatto con Kill Bill, possiamo accennare un confronto con un film di Lars Von Trier, nello specifico il secondo episodio della sua trilogia sull’America, ovvero il seguito di Dogville dal titolo Manderlay (2005), che non a caso è proprio dedicato alla stagione dello sfruttamento schiavista nelle campagne statunitensi. Ora, se come abbiamo visto il confronto tra Beatrix e Grace segnava una netta distinzione tra Kill Bill e Dogville attorno al tema della vendetta e della pietà, Django e Manderlay sono molto vicini sul piano del loro messaggio, seppur per molti versi il secondo spinga all’estremo il cinismo di determinate posizioni. Il messaggio che i due film condividono è che il fenomeno dello schiavismo sia stato possibile e sia durato tanto perché sostenuto con coscienza o col beneplacito di una parte consistente degli sfruttati; questa condiscendenza trova persino una forma regolamentata e istituzionalizzata in Manderlay, dove nel finale si scopre come tutta la costruzione sociale basata sullo sfruttamento prevedesse un’adesione dei membri a un determinato ruolo. Il cinismo esasperato del film è mitigato, anche qui, dalla dichiarata finzionalità della messa in scena teatralizzata: come in Dogville, in Manderlay le case non hanno muri, e l’impostazione scenica interrompe l’immersione spettatoriale mettendo a nudo la finzionalità del film, che si trasforma in un apologo basato su una sorta di esperimento “sociale”. Il piano di straniamento di Manderlay è condiviso da Django, dove il regista mantiene come in passato (seppur abbia virato verso l’incrinatura del simulacro per l’apertura allo spazio morale) numerosi momenti di palesamento di finzionalità, dove l’immaginazione si dichiara esplicitamente. 139
R. Menarini, Django Unchained:Tarantino come American director, cit., p. 122.
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Dicevamo del cinismo che in entrambi i film insiste sulla responsabilità dei membri della comunità sfruttata, che ha concesso il mantenimento della barbarie del sistema schiavista; in Django, il personaggio che incarna questa prospettiva è Stephen, il capo della servitù della tenuta di Calvin Candie, sconvolto dal fatto che un “negro” possa andare a cavallo, sostenitore fiero dello status quo e convinto della legittimità dell’ordine istituito dai borghesi bianchi suoi padroni. Stephen è la rappresentazione della volontaria sottomissione e subordinazione che il popolo nero avrebbe adottato per una naturale e antropologica tendenza, secondo l’idea deviata e razzista di Candie. D’altronde, la vendetta finale di Django si abbatterà con veemenza proprio sul maggiore responsabile della morte dell’amico Schultz nonché del mantenimento dell’ordine schiavistico. Il carattere che accomuna Manderlay e Django è l’evoluto livello di coscienza di questi personaggi: i negri, in un caso come nell’altro, non sono ridotti tutti all’assoluta deumanizzazione, che coinciderebbe con la peggiore delle morti e con la trasformazione degli uomini in cose, o come le chiamavano i nazisti e come abbiamo avuto modo di vedere figuren. Come gli ebrei di Inglourious Basterds, qui Django è un esemplare d’eccezione della sua classe, perché il suo pensiero è più che vigile, e soprattutto è cosciente del Male che subisce e che, lui sa, non dovrebbe subire. Il medesimo livello di maturazione della coscienza è conseguito pure da Stephen, come dai cittadini neri di Manderlay, se non fosse che loro preferiscono tradurre quel livello di coscienza a una piena adesione allo stato di servilismo per evitare complicazioni e per rifiutare una sovversione dell’ordine. Tale adesione è infatti svolta con piena e lucida coscienza, questo è il messaggio drammatico e scioccante di Manderlay; la coscienza di Django invece brama vendetta, e fin dalle prime immagini noi riconosciamo questo personaggio come una perla rara, una coscienza capace di affiancarsi alla finezza intellettuale e culturale del dott. Schultz; per questo da subito il tedesco arruola Django specificandogli come sarà costretto a interpretare una parte e a diventare un personaggio per confondersi e poter agire al meglio: la recitazione, l’interpretazione di una parte per un fine superiore, necessita sempre di un livello particolarmente evoluto di coscienza. Ed in fondo da un lato, attribuire questo livello 106
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di coscienza al vendicatore degli schiavi, è da subito un omaggio alle vittime della barbarie dello schiavismo, ma dall’altro ripropone la dimensione simulacrale: Django è un eroe, un superiore nello spirito e nelle facoltà fisiche, irreale nella sua idealizzazione come era Beatrix Kiddo con la differenza che mette al servizio questa sua superiorità per combattere non un Male privato ma un Male storico. L’eroismo epico di Django, la sua mitizzazione, è perciò un’ulteriore palesamento simulacrale, e questa passa attraverso il suo livello di coscienza; Django è l’eccezione nei confronti della massa asservita e maltrattata per secoli, ridotta allo stato di animalità passiva. Come in Death Proof, la dimensione simulacrale diventa evidente nell’happy end finale, così come abbiamo visto accadere con l’omicidio di Hitler e la strage dei nazisti in Bastardi senza gloria: qui la violenza e la vendetta tornano ad assumere una prospettiva salvifica, che però oltre a riscattare il singolo personaggio offrono alla voce soffocata di tutti gli umili e dei soppressi la possibilità di una rivincita sanguinolenta. Si tratta come per Kill Bill (e a differenza di Grace di Dogville) di una vendetta che redime,140 oltretutto non più individuale, ma una redenzione dei mali della storia: la violenza perpetrata e l’ingiustizia vengono riscattate da un disegno salvifico che finalmente offre l’opportunità di vendicarsi, di capovolgere i rapporti di forza, di replicare ai torti subiti in nome di una collettività. Questa è la dimensione più mitica e irreale; il finale grottesco, con la strage e la citazione de Il buono, il brutto, il cattivo, nonché l’assurdo balletto che Django compie sul suo puledro, segnano la cornice all’interno della quale il film insiste nel dichiararsi falso, e tuttavia attraverso la trasfigurazione finzionale del film esso offre la possibilità di una dimensione morale di liberazione e rivincita, subito però negata dall’evidente contrapposizione tra immagine e realtà. Miguel Mellino afferma a tal proposito: impossibile dimenticare, impossibile perdonare. È questo forse il senso veicolato dalla scena finale del film: […] CanSimona Brancati esclude che si possa parlare di redenzione per la conclusione di Kill Bill: «Alla fine i nostri sentimenti hanno subito una virata e l’atmosfera del duello si carica di ambiguità: la spietatezza senza ritorno della Sposa quasi disturba e la morte cruenta di Bill forse non è più quello che avremmo voluto vedere» (S. Brancati, op. cit., p. 110). 140
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dyland deve saltare in aria nella sua totalità: non c’è nulla da salvare; non basta fuggire o salvare la donna amata. Si tratta dunque di un film ferocemente anti politically correct, qualcosa che non può sorprendere affatto chi conosce lo stile pop e corrosivo di Tarantino.141
L’operazione compiuta dal cinema del secondo Tarantino a proposito della Storia e del valore etico che essa assume, sembra perfettamente inversa rispetto a quella che viene sviluppata nella serie Game of Thrones, almeno fino alle ultimissime stagioni. Se in Inglouriuos Basterds e Django infatti il regista parte dalla Storia autentica, per passarla al setaccio della narrazione mitizzante e ricondurla sul piano dell’irrealtà dal momento che gli eventi prendono una direzione immaginifica rispetto alla verità, Game of Thrones parte dal fantasy innervandolo di elementi che fanno riferimento alla Storia vera, ma le vicende narrate assumono un realismo paradossale che ne determina anche lo specifico significato etico. Infatti, mentre l’operazione dialettica tarantiniana parte dal vero per arrivare al falso (la fiction) per promuovere il riscatto dei succubi della Storia e la realizzazione della loro sacra vendetta, i personaggi del Trono di spade partono da un universo lontano rispetto al nostro mondo, perciò da una finzionalità esplicita, ma si dirigono a una verità più autentica e profonda di quella tarantiniana, e in genere di gran parte della tradizione drammatica e narrativa classica: la verità è che potrebbe non esserci redenzione, e al di là dei tanti piani la nostra volontà di riscatto e il nostro orgoglio ferito potrebbero benissimo non approdare a niente. Chi ha subito delle offese e brama (e fa bramare allo spettatore) il momento del confronto per ristabilire l’ordine legittimo, potrebbe non vivere mai quel momento: tutto è profondamente caduco, contingente, irrisolto. Per questo ci troviamo dinanzi agli antipodi del significato morale e del rapporto spettatoriale: in Tarantino la narrazione ha il compito di riscattare le vittime della Storia attraverso la riscrittura di quest’ultima, che concede loro una rivincita sui loro aguzzini con l’approvazione dello spettatore che trova soddisfatta la sua stessa ambizione di vendetta; così esso diviene un cinema dell’appagamento nervoso e psichico, compensando quanto invece 141
M. Mellino, cit. in R. Menarini, Django Unchained, cit., p. 122.
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la Storia è solita negare. Tale appagamento passa per la soddisfazione – a suo modo diabolica – del ristabilimento di una giustizia superiore, dove anche le pene di chi ha sofferto trovano una funzione catartica. Tutto questo è reso possibile dal piano di trascendenza garantito dalla metatestualità: se è vero che neanche nel Tarantino della Storia ci sono Dei in grado di garantire il cammino degli eroi, è pur vero che tale piano trascendente e superiore è rappresentato dalla costruzione finzionale stessa, ovvero dalla scrittura del testo come operazione che si pone al di là degli eventi raccontati. L’autore diviene così il Dio del racconto, che regola gli eventi a sua discrezione, per dirigerli verso un compimento morale. Niente di tutto questo invece in Game of Thrones, dove in realtà il piano del fantasy avrebbe potuto farsi garante di un’istanza di esaudimento libidico in senso ancora più pregnante (come accade nel Signore degli anelli): la visione della serie è profondamente frustrante e lo spettatore subisce un perenne scoramento nel vedere slittare indefinitivamente il momento della resa dei conti, l’esaudimento della vendetta. Si è disposti ad accettare la morte dei propri eroi, ma in Game of Thrones questa avviene per vie spesso secondarie, negando la dignità narrativa che noi spettatori ci saremmo aspettati ascoltando i loro dialoghi e assistendo ai loro sguardi carichi di odio. Tutto resta irrisolto, perché paradossalmente è assente qualsiasi piano trascendente che possa regolare gli eventi: seppur vengano invocate spesso le divinità, il mondo del Trono di spade è talmente materialistico che anche la dimensione dell’assoluta alterità diviene immanente e si confonde direttamente con le vicende degli uomini: se i morti camminano sulla terra, allora non c’è alcuno spazio per un intervento esterno in grado di garantire una qualche soddisfazione. In questo movimento, la serie torna più vicino alla realtà di quanto faccia Tarantino, perché mette in scena la crudeltà che vige nel nostro mondo, dove nulla garantisce che il bene possa trionfare sul male, che sarà concessa l’occasione del proprio riscatto e che i torti subiti verranno ripagati. Se svanisce la dimensione trascendente, e tutto si traduce nei meri rapporti di forza, nella casualità e nella violenza bruta, allora anche il piano etico si esaurisce lasciando di sé solo un profondo senso di frustrazione e inappagamento. Questi piani antitetici potrebbero trovare, a un’analisi attenta, l’occasione 109
Capitolo VI
di riconciliarsi quasi a voler chiudere un circolo dialettico: in fondo, il parossismo e l’evidente finzionalità di Tarantino, in negativo, ci stanno in fondo confermando quanto è evidente in Game of Thrones. È vero, Hitler viene ucciso in Francia e Django stermina la famiglia di schiavisti per liberarsi e liberare la sua bella, dando voce a coloro che invece non sono mai stati in grado di trarsi fuori dal Male vigente nel mondo, però questo accade “nel film”, ovvero nel piano finzionale dell’opera: questo piano, sempre costante in Tarantino e dove la dichiarazione metafilmica torna sovente per ribadire, indeterminate volte, che ciò a cui stiamo assistendo non è la Storia ma pur sempre un film, sottolinea come il mondo resti abbandonato alle sue storture e ai suoi orrori. Solo il cinema e perciò l’immaginazione possono farsi carico di un riscatto che la vita e la Storia non concedono. Inoltre, con Django sembra che Tarantino sia rimasto particolarmente legato anche al tema di Auschwitz e della barbarie nazista, anche dopo averlo preso di petto nel film precedente: ambientare il film in una fase nettamente antecedente a quella della Seconda Guerra mondiale e dei campi di sterminio, in più rivolto a quella nazione che si è fatta protagonista della liberazione dell’Europa dal mostro nazista, ha un preciso significato concettuale. Diviene evidente come Auschwitz diventi una figura ideale del Male, un Male però che già è emerso innumerevoli volte nel corso della storia precedente, come ad esempio, nella modernità, in occasione della prolungata economia schiavista degli Stati Uniti; d’altronde gli stessi Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, entrati in contatto col mondo capitalista americano una volta fuggiti dalla Germania nazista, avevano riscontrato la continuità teorica e la medesima matrice logica per due fenomeni storici apparentemente agli antipodi, i campi di concentramento da un lato e il capitalismo dall’altro.142 In entrambi, in azione troviamo l’eliminazione dell’Altro e del diverso, che nell’economia schiavista statunitense significa integrare il diverso nella produzione e asservirlo alle angherie dei padroni, riducendo il “negro” a figura animale. Questo piano, almeno nel film, non riesce a compiersi totalmente, perché la coscienza evoluta di Django dimoCfr. M. Horkheimer, Th. W Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1997. 142
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Django Unchained: la nuova dimensione morale della violenza
stra come l’integralismo deviato del sistema non possa prevedere sempre un livellamento totale e assoluto; inoltre, è evidente come Tarantino metta in luce che la continuità tra Auschwitz e ideologia americana non si gioca solo sulla dicotomia tra violenza esplicita ed eliminazione fisica dell’Altro (ovvero dell’ebreo) e livellamento culturale e assorbimento del differente nel modello dominante (pratica propria del sistema identitario borghese); in realtà Tarantino dimostra come la vicinanza tra il Male dei campi di sterminio e la storia americana sia ben più cogente ed evidente, perché alla fine del XIX secolo, ancora lontani dalla salita al potere di Hitler e del suo disegno perverso di sterminio, in America erano già ben presenti i prodromi della catastrofe, una sorta di anticipazione della sciagura storica che sarebbe divenuta scientifica e metodica in Germania. Tarantino infatti mette in evidenza la continuità spirituale della barbarie: dallo schiavismo americano ai campi di concentramento, seppur in mezzo scorra un oceano nonché almeno 40 anni di storia. Questa continuità è dimostrata nella straziante scena dell’esecuzione di un brano di Beethoven: qui è come se la Germania si riscattasse da una colpa futura, perché il personaggio tedesco non riesce ad ascoltare Beethoven, dimostrazione palese di ciò che la cultura tedesca ottocentesca sia stata in grado di produrre all’apice del suo splendore, splendore che però, come sappiamo da Adorno, si è capovolto in barbarie e oscurità per il suo eccesso di razionalismo. In questo perciò il dr. Schultze rappresenta l’ulteriore coscienza della degenerazione dell’Illuminismo, come una sorta di annuncio di ciò che la Storia sarebbe stata in grado di fare in Europa: si tratta del tema che Michael Haneke affronta nel 2009 con Il nastro bianco, che mostra come fin dalle generazioni precedenti a quella direttamente responsabile della catastrofe, si annidasse il germe del Male. Con altri toni, Tarantino deride in maniera decisa il Ku Klux Klan, con una scena straniante per la sua ironia che rinuncia al livello più didascalico della denuncia, per mantenere il piano della spettacolarizzazione edonistica del divertimento attraverso la derisione: Questa breve scena, inserita nel bel mezzo di un’azione spezzandone il climax, funziona come un inceppamento, una scelta che va manifestamente contro le immagini di Nascita di
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Capitolo VI
una nazione e al loro valore fondativo, contro quel montaggio alternato che simbolicamente sta alla base dell’impianto retorico del cinema americano.143
Forse, in Django Unchained c’è anche un mea culpa da parte del regista: d’altronde, anche lui nel corso della sua carriera ha fatto affidamento alle pulsioni più basse e all’attrazione per il sangue e per la violenza mossa ad altri per diventare un cult nel corso degli anni. A differenza dei suoi colleghi più ingenui però, la modalità simulacrale e citazionista del suo film concedeva a questi ultimi di difendersi dall’accusa di sadismo; ma forse questo non bastava a Tarantino, il quale piuttosto che rinunciare alla violenza e alle scene crude, decide di funzionalizzarle e di metterle al servizio della denuncia. In Django infatti ci sono due scene agghiaccianti di violenza: l’uomo sbranato senza pietà dai cani e il combattimento svoltosi in salotto tra due “mandinghi”. Ebbene, ciò che il regista qui mette in evidenza è la presenza di un pubblico che assiste e la profonda perversione del godimento di questo pubblico: gli spettatori bifolchi, trascinati da un’attrazione oscena, diventano un’autodenuncia, ma anche un’accusa nei confronti del proprio pubblico. Qui la violenza dà fastidio, essa è ingiusta e si trasforma in barbarie, non essendo più mero divertissment plastificato: i cafoni che assistono ridendo come in preda a un delirio al corpo del negro sbranato, potrebbero essere una metafora della dimensione spettatoriale che ha caratterizzato tutto il cinema precedente del regista. Resta il rischio che questo messaggio di denuncia non venga recepito, e le scene di violenza restino confuse sul piano della violenza precedente, rendendole estremamente atroci; ma il tentativo di redenzione di Tarantino è lo stesso che esso offre al suo eroe in nome di chi quella violenza l’ha subita nel corso della storia. Molti degli spunti che abbiamo incontrato in queste pagine sono decisivi per comprendere le sorti del genere western nella contemporaneità post-ideologica; basti pensare al confronto tra il Grinta di Henry Hathaway del 1969 e il remake del 2010 dei fratelli Coen, che più che un remake è una profonda rilettura secondo canoni di disilM. Pollone, Lincoln, Griffith e noi, ovvero: Rinascita di una nazione?, cit., pp. 107108. 143
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Django Unchained: la nuova dimensione morale della violenza
lusione; ma come Menarini evidenzia, se il Grinta, sulla scia de Gli spietati di Eastwood, è una testimonianza del tramonto dei significati mitici assoluti e integralisti seppur manchevole di una dimensione politica (mancanza da sempre rimproverata ai Coen), in Tarantino la negazione serve ad approdare a una nuova riconfigurazione politica e perciò morale.144 Menarini compie un’intrigante analisi del rapporto tra il film e la dimensione politica, insistendo piuttosto sul ruolo che torna ad assumere la finzionalità cinematografica e la macchina-cinema. In controtendenza rispetto alla riemersione del politico di molto cinema americano degli anni Duemila post-11 settembre, Tarantino partirebbe dalla dimensione politica per tornare all’universo che sempre gli è stato proprio, ovvero l’universo simulacrale del cinema: Quello che il regista americano riattiva è un uso politico del cinema di genere dopo le riletture accademiche e cinefile del genere come contenitore ideologico. […] La cultura della riappropriazione, lungi dall’essere una mera strategia ludica e commerciale, ha costituito un elemento energico di rinnovamento, spesso radicale, nei suoni e nelle parole della strada, persino nelle versioni da multinazionale del ghetto, nel rap. Si tratta di atteggiamenti, quelli della riappropriazione nera, popolati e sfacciati, insubordinati alla istituzionalizzazione della “differenza” black.145
Attraverso questa chiave di lettura possono essere comprese le incursioni completamente anacroniche di musiche contemporanee come appunto brani rap. Menarini perciò spiega come il secondo cinema tarantiniano, lungi dall’essere un cinema di contestazione didascalico (che sarebbe ben poco efficace nell’immaginario contemporaneo) sfrutti le specificità dell’universo-cinema per finalità morali e politiche, per questo «per comprendere i suoi film, specie i più attuali, serve modificare l’ottica attraverso la quale siamo abituati a interpretare il suo cinema, quella del postmoderno a oltranza e del gioco autoreferenziale».146 La dimensione simulacrale Cfr. R. Menarini, Django Unchained, cit., p. 122. Ivi, p. 125. 146 Ivi, p. 130. 144 145
113
Capitolo VI
non scompare, ma si infrange, lasciando passare una luce di verità che è luce di contestazione e di polemica nei confronti della Storia e della società; il simulacro non è più mera autoreferenzialità, perché l’autoreferenzialità è da subito denunciata. Per questo, l’operazione di decostruzione immaginifica di Tarantino passa attraverso un’opposizione rispetto a quella tradizione cinematografica partecipe dell’ideologia malsana dello sfruttamento: Per Tarantino […] ciò che in Bastardi senza gloria finiva per essere disgiunto con violenza (la Storia e la finzione cinematografica), qui risulta congiunto al punto che, per affrontare il tema del razzismo, della discriminazione, dello schiavismo, Tarantino sembra volere ridiscutere il modello di racconto che a lui appare inscindibile da un’ideologia razzista e colonialista che da Griffith passerebbe attraverso Ford per arrivare fino a oggi147.
147
M. Pollone, Lincoln, Griffith e noi, ovvero: Rinascita di una nazione?, cit., p. 108.
114
Capitolo VII
Conclusioni. Tarantino e il futuro del cinema Comprendere le varie fasi del cinema di Tarantino, e specialmente le sue più recenti evoluzioni, è assai significativo per capire in che direzione il cinema si sta muovendo, quali sono le sue ambizioni ma soprattutto quali possano essere le sue remote possibilità di sopravvivere in quanto cinema. Mi riferisco in particolar modo al significato che assume all’interno di questa argomentazione l’ultima fatica di Quentin Tarantino, che se da un lato conferma una continuità rispetto a Django, in quanto resta nell’ambito del cinema western, dall’altro però se ne distanzia radicalmente. The Hateful Eight (2016) infatti abbandona la dimensione redentiva della vendetta e del riscatto delle vittime della Storia, e se la Storia compare lo fa in maniera superficiale, funzionale alla narrazione; è interessante notare perciò come Django Unchained e The Hateful Eight si avvicinino per il genere di riferimento (appunto, il western), incarnando però due intenzionalità praticamente agli antipodi, perché il film chiude un cerchio ritornando all’immaginario tarantiniano delle origini, quello più simulacrale e autoreferenziale, recuperando una concezione di cinema come divertissment nonché la riflessione sull’artificio cinematografico stesso. Questo nuovo cambio di approccio e questa nuova virata del regista sono indicativi di un discorso più generale sulle sorti del cinema come linguaggio e coma modalità espressiva ai tempi del dominio globale e incontrastato del web e soprattutto del consolidamento della video-serialità, legata al primo fenomeno da un doppio nodo. Ciò che è in gioco è l’efficacia stessa del prodotto filmico nell’immaginario contemporaneo, e non a caso non solo l’ultimo film di Tarantino ma alcune delle produzioni più significative degli ultimi tempi portano il segno di questa nuova epoca ancora confusa e tutta da interpretare.
115
Capitolo VII
Il contesto di questo dibattito è segnato dal trionfo del linguaggio della serialità, che definire “televisiva” appare quanto mai obsoleto; di fatto, la serialità televisiva ha segnato la cultura popolare degli ultimi decenni, attraverso prodotti che hanno determinato nel profondo l’immaginario sociale come telenovelas, soap opera, telefilm e comedy. Se questi fenomeni si inscrivevano perfettamente nel quadro della cultura televisiva, proponendo una serialità narrativa e formale adeguata alle condizioni socio-culturali dei passati decenni, la nuova video-serialità segna una netta differenziazione dovuta al fatto di non porsi come alternativa al linguaggio cinematografico, ma acquisendo da quest’ultimo competenze, specificità, tecniche capaci di realizzare prodotti confezionati con maggiore attenzione e con un più elevato valore estetico. Il quadro di distribuzione di questi nuovi prodotti resta in prima battuta la televisione, però in particolare i canali satellitari; ma la visione avviene soprattutto (in maniera più o meno lecita) attraverso lo streaming del web. Sceneggiatori e registi che hanno fatto la storia del cinema degli ultimi decenni, così come attori e produttori, sono emigrati in questa nuova forma espressiva, a metà strada tra la serialità televisiva e il prodotto cinematografico, contribuendo fortemente a un ripensamento dell’efficacia e del valore del cinema stesso. Il nuovo orizzonte sociale, segnato dalle difficoltà materiali di ordine professionale, e perciò economico, è frammentario e fortemente precario; dal momento che la crisi sociale ed economica si riflette in tutti gli ambiti, tale crisi si trasmette anche nell’interiorità e nella psicologia degli individui, fin nelle loro strutture cognitive ma anche nella loro anima e nel loro apparato emotivo: vivere un’esistenza precaria e continuamente interrotta è il risultato di una parcellizzazione di esperienze condannate di volta in volta a concludersi lasciando il passo alla prossima. In questo flusso ininterrotto senza stabilità, il tentativo è quello di ricostituirsi un’identità e un riferimento nella cadenza puntuale delle produzioni seriali, se non fosse che la tecnologia del web concede allo spettatore di fagocitare la produzione seriale a prescindere dalla scadenza televisiva settimanale: le attuali serie TV vengono divorate concedendo allo spettatore un’occasione di isolamento rispetto al flusso. Questo è possibile solo attraverso narrazioni e intrecci, complici firme e auto116
Conclusioni. Tarantino e il futuro del cinema
ri di indubbia capacità, basati su personaggi al di sopra delle righe e che sfruttano un apparato tecnico (registico, fotografico, di montaggio) che non ha più nulla da invidiare alle grandi produzioni cinematografiche. Le modalità di narrazione seriale hanno a loro volta sconvolto il rapporto del pubblico col cinema stricto sensu, tanto che, come era stato con la diffusione massiccia della televisione, il cinema ha dovuto adeguarsi alle nuove esigenze dell’immaginario, fallendo il più delle volte. Ne sono testimonianza l’allargamento della durata dei film, che tentano in questo senso di rivaleggiare con l’articolato sviluppo dei personaggi delle serie ma “non hanno il tempo” di restituire tutte le evoluzioni e sfaccettature di una costruzione seriale, e così è anche per l’attenzione per l’universo del fumetto e dei supereroi. Il cinema non riesce più a catalizzare l’attenzione del pubblico, non possiede più un valore di fascinazione tale da definire l’immaginario, perché ormai un film è troppo poco per tale operazione, di qui anche la smania per le produzioni di antologie, con tanto di sequel, prequel e spin-off, anche in rapporto a prodotti di decine di anni fa. La crisi del cinema coincide con la sua trasmigrazione nella forma seriale, non si tratta di un tramonto vero e proprio: a tramontare a ragion veduta è l’idea di cinema come l’abbiamo concepita fino ad oggi. Gli autori più significativi della contemporaneità hanno colto questa crisi, e sono ben coscienti che rivaleggiare col nuovo medium narrativo rappresentato dalle Series non è affatto facile: si tratta allora di comprendere se il cinema voglia abdicare completamente alla serialità, eleggendo quest’ultima suo degno erede e chiudendo così i luoghi preposti al cinema classicamente inteso (festival, sale, case di produzione), o se voglia fare affidamento alle proprie specificità per rivendicare con orgoglio il proprio valore storico e artistico (rischiando in più occasioni di arrancare rispetto al “competitor” delle serie) per procrastinare la propria estinzione, o se magari può tautologicamente fare riferimento a se stesso per “campare di rendita” attraverso fenomeni che continuano a celebrare se stessi. In maniera esemplificativa, per comprendere questo discorso, consideriamo alcune pellicole esemplari di tale presa di coscienza da parte della settima arte, ovvero opere che dimostrano la consapevolezza delle difficoltà che il cinema sta attraversando; pensiamo 117
Capitolo VII
all’opera recente di quello che probabilmente è il regista più quotato e talentuoso della nuova generazione di autori, ovvero Alejandro González Iñárritu. Se per tutta la prima fase il regista messicano si è dedicato a formule di narrazione consolidate, e ha affrontato di petto il tema centrale del rapporto tra visibilità e invisibilità a proposito della testimonianza degli attacchi terroristici dell’11 settembre, con Birdman (2014) e soprattutto con The Revenant (2015) Iñárritu si fa carico della crisi del cinema. Birdman tematizza il problema e lo affronta direttamente, attraverso il racconto altmaniano di un regista e attore teatrale dequalificato e svilito dall’industria cinematografica, che lo ha ridotto a identificarsi completamente con un personaggio fumettistico di grande successo. Il virtuosismo tecnico della pellicola, realizzata con un solo lunghissimo piano sequenza, coincide coi contenuti: il cinema tenta una estrema e disperata difesa della propria specificità, ma è un tentativo appunto disperato che porta al proprio interno la consapevolezza tragica della propria disfatta. Lo sforzo di Iñárritu è titanico, potremmo sostenere persino commovente: ribadire la grandezza del cinema puntando sui mezzi tecnici che ne sono alla base, abdicando alla narrazione che ormai è prerogativa pressoché esclusiva della serialità. In The Revenant infatti la narrazione cede all’impatto fotografico e all’atmosfera, ai virtuosismi registici e a una dimensione spirituale che il regista tenta di dimostrare siano prerogativa esclusiva del cinema. Iñárritu è l’autore che ha maggiore coscienza della crisi definitiva e inesorabile che sta vivendo il cinema. Il suo estremo tentativo di farlo sopravvivere è struggente: lui è l’unico che può assumersi questo compito per talento, capacità tecnica e poetica, ma è un tentativo tragico, che ha inscritto in sé subito il marchio della condanna e del fallimento. Dopo The Revenant infatti, il cinema o abdica definitivamente alla serialità, o quel che gli resta è un afflato nostalgico eternamente rinnovato, perché esso rappresenta lo svuotamento definitivo della forma espressiva filmica. Cosa resta al cinema? Da un lato, snaturarsi e consegnarsi alla serialità, come hanno fatto Soderbergh, Scorsese, ecc., con ottimi risultati. In relazione a ciò, altri prodotti celebrano la fine del cinema nella messa in scena della sua deflagrazione postmoderna: non più l’intimismo virtuosistico e spiritualista di Iñárritu, ma il suo esatto 118
Conclusioni. Tarantino e il futuro del cinema
contrario, ovvero la giostra postmoderna completamente autoreferenziale. In questi termini può essere spiegato non tanto il successo in termini di pubblico del film Mad Max: Fury Road (2015), quanto l’inaspettato e imprevedibile trionfo che il film ha conseguito presso la critica di tutto il mondo, da Cannes all’Academy. Mad Max: Fury Road sottolinea ulteriormente la vanificazione del contenuto narrativo, ma lo compensa con un’estetica dalla maniacale potenza adrenalinica: è il cinema stesso che celebra la sua fine attraverso l’eccesso visionario, perché nel godimento estremo implicitamente evidenzia l’impossibilità di raccontare qualcosa, di comunicare qualcosa, di trasmettere messaggi o di rinnovarsi. Vicino a questa prospettiva radicale si pone The Hateful Eight: Tarantino, lanciato sul versante della narrazione storico-simulacrale che ha riscoperto una dimensione morale, smarca ancora una volta le aspettative e presenta un film basato su un gioco di rimandi simulacrale nei confronti del cinema western classico. Non solo: la messa in difficoltà dell’istanza narrativa è confermata dal fatto che The Hateful Eight sia innanzitutto un film sulla narrazione, sulle menzogne del narrare, menzogne che il cinema può tradurre in immagine, un po’ come era stato per Inglourious Basterds, dove la “menzogna” era subordinata alla vendetta delle vittime e al loro riscatto nei confronti della Storia ufficiale. In TThe Hateful Eight l’interrogativo è sempre relativo a chi stia narrando, se ciò che si sta narrando corrisponda al vero, ma presentandosi come un meccanismo ludico autoreferenziale che soddisfa le ambizioni di coinvolgimento emotivo tali domande non implicano alcuna valutazione critica o morale. Con questa opera, l’autorefenzialità tarantiniana esce persino fuori dal film per imprimersi al personaggio Tarantino: questa è un’altra strada che il cinema sfrutta per rimandare di qualche tempo la sua scomparsa, ovvero affidarsi a quegli autori-star che hanno determinato l’immaginario degli ultimi decenni e che garantiscono all’industria un seguito e un introito economico considerevole. Tarantino coi suoi film promuove non tanto il film, ma se stesso (non a caso la campagna promozionale di The Hateful Eight suonava “L’ottavo film di Tarantino”), e se queste sono le condizioni Tarantino, che non è certo ingenuo, sa bene che è inutile per non dire pericoloso immettere una dimensione morale in un cinema ricondotto a tale 119
Capitolo VII
livello. Se il cinema, per sopravvivere, vuole prodotti simulacrali, diffusi e distribuiti col sigillo degli autori che incarnano il cinema stesso, allora questo è il contributo che egli può dare, ovvero tornare alla dimensione simulacrale che lui stesso ha inaugurato nel cinema postmoderno. Così facendo, si omaggia anche il cinema in maniera malinconica, ammiccando a una storia e a un passato nobilitati soprattutto dalla consapevolezza che la trasformazione in atto è secolare e profonda. A questo punto, anche a Tarantino probabilmente non resta che una via di fuga, se vuole continuare a dare un proprio contributo nella cultura contemporanea piuttosto che adagiarsi sul proprio profilo autoriale consolidato nel corso degli anni: compiere il passo decisivo verso la serialità.
120
Indice dei nomi
A
C
Adorno, T. W. 45, 54, 110, 111 Agamben, G. 19 Alfieri, A. 9, 45, 63, 101 Allen, R. 46 Altman, R. 47 Anderson, A. C. 82, 85 Anderson, T. 42 Aristotele 14 Artaud, A. 52, 53 Auxier, R. E. 43
Carluccio, G. 9 Cavarero, A. 13 Chianese, A. 14 Coen, J. e E. 112, 113 Conard, M. 54 Conard, M. T. 66 Cronenberg, D. 67 Cummings, R. B. (vedi Rob Zombie) 15 Curi, U. 13
B
D
Bachtin, M. 47, 65 Baratti, A. 34, 41 Barbera, A. 52 Baudrillard, J. 20, 26, 29, 34, 44, 83, 84, 85 Bellavita, A. 10 Benigni, R. 30, 96 Benjamin, W. 94 Bergson, H. 38 Berkeley, B. 75 Bertetto, P. 64, 71, 104 Birkenstein, J. 17 Brancati, S. 75, 78, 107 Buccheri, V. 38, 42, 53, 54 Bui, R. (vedi Wu Ming 1) 10 Bush, G. W. 18, 29
Darley, A. 35, 44 Dassanowsky, R. von 95 De Bernardinis, F. 94 Deleuze, G. 47 Demaria, C. 73 De Saussure, F. 45 Di Giacomo, G. 37, 38 Dostoevskij, F. 47 Dusi, N. 73 E Eastwood, C. 29, 113 Eco, U. 64, 66, 67 Ercoli, L. 51, 52, 53 Erodoto 11
121
Indice dei nomi
F
L
Fichte, J. G. 37 Fontana, A. 15, 22 Ford, J. 102, 114 Fornara, B. 81 Freud, S. 14 Froula, A. 17
Lee, B. 72, 73, 74 Leone, S. 72, 103, 104 Leonida, re di Sparta 9 Levi, P. 19, 96 Lucci, A. 18 Lukács, G. 37, 38, 52, 62, 63, 65 Lynch, D. 14, 71
G Gandini, L. 10, 43 Godard, J.-L. 47 Greene, R. 40 Griffith, D. W. 114 H Haneke, M. 111 Hathaway, H. 112 Hegel, G. W. F. 37 Hitler, A. 92, 93, 97, 107, 111 Horkheimer, M. 110 I
M Martin, A. 93 Mascio, A. 73 McSweeney, T. 18, 19, 20, 23 Mellino, M. 107, 108 Menarini, R. 57, 66, 69, 70, 73, 81, 85, 105, 108, 113 Moccagatta, R. 17, 21, 25 Mohammad, K. S. 40, 60 Montani, P. 20 Morsiani, A. 74 N
Iñárritu, A. G. 118
Nietzsche, F. 42, 77 Nolan, C. 65
J
P
Jameson, F. 34, 35, 36 Jessen, J. 98 Johnson, D. K. 60, 79 Jona, E. 99 Jullier, L. 43, 44, 45, 47, 49, 50, 51, 82
Penn, A. 102 Perniola, M. 44 Pirandello, L. 37, 40 Pitassio, F. 10, 11 Pollone, M. 9, 65, 91, 98, 101, 112, 114
122
Indice dei nomi
R Randell, K. 17 Resnais, A. 47 Robison, R. 60, 77 Rob Zombie, pseudonimo di R. B. Cummings 15 Rodriguez, R. 20, 81, 87, 88 Romero, G. A. 21, 22, 46 Rondolino, G. 97, 98 Roth, T. D. 61, 62, 80 Rumsfeld, D. 19 Russell, B. 40 S Schlegel, F. 37 Scorsese, M. 118 Simpson, D. 19 Sloterdijk, P. 52, 60 Snyder, Z. 9, 20, 21, 22, 23 Soderbergh, S. 118 Spaziante, L. 73 Spence, J. H. 40 Spielberg, S. 97 Srinivisan, S. 95, 97
Thurman, U. 61 Trier, L. von 63, 105 Turigliatto, R. 52 U Uva, C. 85, 86 W Wachowski, A. 88 Wachowski, L. 88 Wan, J. 16 Warhol, A. 45 Wayne, J. 102 Wu Ming 1, pseudonimo di R. Bui 10 Z Zagarrio, V. 33, 34, 35, 36, 39, 43, 44, 59, 66, 70, 81, 82, 86 Žižek, S. 10, 11, 27, 65
T Tarantino, Q. 7, 8, 9, 12, 13, 16, 25, 26, 27, 29, 30, 31, 33, 35, 36, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 50, 51, 53, 54, 55, 57, 58, 59, 62, 65, 71, 72, 73, 74, 75, 77, 78, 81, 83, 84, 85, 87, 91, 93, 95, 97, 98, 99, 101, 103, 104, 108, 109, 110, 111, 112, 113, 114, 115, 119, 120 123
Sommario
Introduzione
7
1. Violenza, vendetta e alterità dopo l’11 settembre
9
2. Cinema e simulacro: citazionismo e autoreferenzialità nell’opera tarantiniana
33
3. Kill Bill: la vendetta che redime e l’universo finzionale
57
4. Death Proof: il metagenere nell’assenza di mondo
81
5. Inglourious Basterds: l’irruzione della Storia e l’infrazione del simulacro
91
6. Django Unchained: la nuova dimensione morale della violenza
101
7. Conclusioni. Tarantino e il futuro del cinema
115
Indice dei nomi
121
125
il pensiero e il suo schermo
Giancarlo Chiariglione, Le forme informi della frontiera. Lo sguardo del cinema western sulla storia americana Alessandro Alfieri, Dal simulacro alla Storia. Estetica ed etica in Quentin Tarantino
la filosofia nell’epoca della sua riproducibilità cinematografica