Scritti di semiotica, etica e estetica 9788882328962, 8882328961


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Scritti di semiotica, etica e estetica
 9788882328962, 8882328961

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Charles Morris

Scritti di semiotica, etica e estetica &

a cura di Susan Petrilli

% . V ••

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. Il

17!

il Segno e i suoi

Maestri

collana di Studi linguistici e semiotici

diretta da Cosimo Caputo Susan Petrilli Augusto Ponzio 6

La riflessione sui segni verbali e non verbali e i testi dei Maestri

Comitato di consulenza scientifica Mona Baker University of Manchester, Inghilterra Lisa Block de Behar Universidad de la Rcpublica, Montevideo, Uruguay Paul Cobley Metropolitan University, Londra, Inghilterra Vincent Colaimetro Penn State University, Pennsylvania, Stati Uniti John Df.ely St.Thomas University, Houston, Stati Uniti Daniele Gambarara Università della Calabria, Cosenza Stefano Gensini Università La Sapienza, Roma Frank Nuessel University of Louisville, Kentucky, Stati Uniti Silvano Petrosino Università Cattolica S. Cuore, Milano Roland Posner Tcchnische Università! Berlin, Germania Thomas Szasz State University ofNew York, Syracuse, Stati Uniti Eero Tarasti University of Helsinki, Finlandia

Charles Morris

Scritti di semiotica etica e estetica introduzione, traduzione e cura di Susan Petrilli

Pensa MULTIMEDIA

Charles Morris Scritti di semiotica, etica e estetica In copertina In copertina: Luciano Ponzio, Il senso /ugge (particolare), inchiostri, pigmenti e acquerelli, 2005

L’opera, comprese tutte le sue parti, è tutelata dalla legge sui diritti d'autore. Sono vietate c sanzionate (se non espressamente autorizzate) la riproduzione in ogni modo e forma (comprese le fotocopie, la scansione, la memorizzazione elettronica) e la comunicazione (ivi inclusi a titolo esemplificativo ma non esaustivo: la distribuzione, l'adattamento, la traduzione c la riclahorazione, anche a mezzo di canali digitali interattivi c con qualsiasi modalità attualmente nota od in futuro sviluppata). Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SI AH del compenso previsto dall’art. 68, commi *1 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale, possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata dall’bditore.

ISBN 978-88-8232-896-2 2012© Pensa MultiMedia Editore s.r.l. 73100 Lecce -Via Arturo Maria Caprioli, 8 «Tel. 0832.230435 www.pensamultimedia.it • [email protected]

Indice

Introduzione di Susan Petrilli Una scienza globale dei segni c del loro imprescindibile e articolato rapporto con i valori 1. Comportamentismo morrisiano e pragmatismo pcirceano 2. 3.

Il Morris più noto Segni e valori

4. Come èfatto questo libro Rferimenti hibiografici

9 15 21 26 29

SCRITTI DI SEMIOTICA, ETICA E ESTETICA I. Segni di segni di segni 1. Il problema generale della terminologia 2. Quando una cosa deve essere chiamata un segno? 3. Risposta a Black 4. Il caso di Bentley 5. Interpretante e significatimi 6. Lo status della disposizione a rispondere 7. Logica e semiotica Appendice

39 42 44 47 51 57

64 68 74

II. L’estetica e la teoria dei segni Premessa 1. Approccio generale 2. Semiotica 3. Teoria del valore 4. Il segno estetico 5. La percezione estetica 6. Generalità estetica 7. Analisi estetica 8. Sintassi estetica 9. Semantica estetica 10. Pragmatica estetica 11. Semiotica estetica 12. Giudizio estetico 13. L’estetica e l’unità della scienza

III. Estetica, segni e icone (in collab. con Daniel J. Hamilton) Presentazione

79 79 81 83 85 89 92 96 99 100 102 104 107 109 113

115 115 116 118

1. L’opera d’arte come segno 2. Intorno alla posizione originaria di Morris 2.1. Argomenti contro la considerazione 119 dell’opera d’arte come segno 122 2.2. Problemi relativi all’iconicità 2.3. Altri problemi nell’ambito di una semiotica estetica 127 129 3. Per parlare dell’arte

IV. I simboli dell’uomo cosmo

133

V. Il misticismo e il suo linguaggio

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APPENDICE I. Su alcune questioni post-morrisianc di Ferruccio Rossi-Landi 2. Semiotica efilosofia 3. Segni e valori 4. Charles Morris e la “pratica sociale” 5. Semiosi e significato 6. Comportamento e comunicazione 7. Comportarsi e “andare qua e hi” 8. Conclusione Ilibliografia

155 155 159 164 167 174 183 191 196 198

II. La lettura di Morris in Rossi-Landi di Susan Petrilli

205

III. Sul modo in cui è stata fraintesa la semiotica estetica di Charles Morris di Perniccio Rossi-Landi

215

Opere di Charles Morris

227

1. Introduzione

. ;

Introduzione Una scienza globale dei segni e del loro imprescindibile e articolato rapporto con i valori di Susan Petrilli

Ebbe reverenza per i segni, li coltivava, li amava; eppure cercava ancora di esserne al di sopra... Ma essi la pensavano diversamente. Eglifu così assediato, inzuppato, soffocato, inaridito, protetto, trasformato d’incanto dalla violenza dei segni, clic, senza pena, in silenzio, semplicemente, se ne morì — ras-segnato. (Charles Morris)*

1. Comportamentismo morrisiano e pragmatismo peirceano Pragmatismo ed empirismo logico costituiscono gli orientamenti principali del pensiero americano che Charles Morris (1901-1979) riprende per fonderli in una dottrina che, in un primo tempo, assumendo, secondo il positivismo logico, il pro-

*

C. Morris, “Death of a Semiotician”, in C. Morris, Image, New York, Vantage Press, 1976, trad. it. di M. Pe­ saresi, in T. A. Sebeok, Il gioco delfantasticare, Milano, Spi­ rali, 1984.

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Scritti di semiotica, etica e estetica

getto di una scienza unificata, egli indica come em­ pirismo scientifico. Il comportamentismo di Morris si va delineando e caratterizzando nel corso della sua ricerca a partire da questa prospettiva. La tesi fisicista che sottende il progetto della Unity of Science Movemenc, applicata alla psicologia, trova espressione nel comportamentismo americano, che, in linea di massima, consiste nel respingere le nozioni di mente e coscienza (rifiuto del mentalismo) e nel limitare lo studio ai comportamenti os­ servabili degli organismi. Fin dal suo articolo del 1927 “The Concept of thè Symbol” (The Journal of Philosophy) il problema del segno veniva affron­ tato discutendo le posizioni di mentalismo e com­ portamentismo. Il comportamentismo morrisiano nello studio dei segni va ricondotto, per quanto concerne la sua genesi, al comportamentismo qua­ le risulta in due volumi del 1925 e del 1928 che hanno direttamente influenzato Morris, The Growth of thè Mind (New York) di K. Koffka, e A Theoretical Basis of Human Behavior (Columbus) di A. P. Weiss, e soprattutto in Mead, che già nel 1922 aveva pubblicato un articolo dal titolo “A Behaviorist’s Account of thè Significant Symbol” (Journal of Philosophy). Per l’esame del rapporto di Morris con i prag­ matisti e i comportamentisti americani negli anni della sua formazione, fondamentale è la rassegna delle varie correnti della filosofia americana conte­ nuta nel suo libro che esamina varie posizioni da Platone a Russell e Whitehead riguardo al rappor­ to gnoseologico fra mente e mondo, Six Theories of Mind, del 1932. Qui, fra l’altro, si discute il pragma10

Introduzione di Susan Petrilli

tismo di Pcirce, James e Dewey e si fa riferimento anche al maestro diretto di Morris, George H. Mcad. Per lo stesso scopo, è importante il volumet­ to di Morris, Prqgmatism and Scientiftc Empiricism, del 1937, che raccoglie cinque articoli apparsi fra il 1934 c il 1936, dove il positivismo logico del circo­ lo divienila c altre posizioni della filosofia europea, che egli ha modo di conoscere direttamente nel suo viaggio in Europa del 1935, vengono conside­ rati in rapporto alla tradizione americana. Nello stesso anno in cui viene pubblicato Fotindations, cioè il 1938, appare, oltre a “Scientific Em­ piricism” (anch’esso nella Encyclopedia of Unified Science) di cui abbiamo già detto, il saggio intitola­ to “Pcirce, Mcad, and Pragmatism” (Philosophical Rcvicw). In questo saggio, Morris insiste sulla affi­ nità fra Pcirce e Mcad, ovvero fra il “pragmatismo originario” del primo e quello recente del secon­ do. I punti in comune riguardano l’importanza da­ ta al fattore sociale c alla teoria dei segni, la tesi del­ la inseparabilità di pensiero e semiosi e della con­ nessione di pensiero e azione, l’importanza attri­ buita, nel rapporto mente-mondo, al finalismo, al caso c alla creatività. L’elemento di distinzione fra Mead e Peirce viene fatto consistere nella attribu­ zione a quest’ultimo di una visione metafisica, ben diversa da quella “contestuale o situazionale” di Mead. Ciò perché, secondo Morris, Peirce crede­ rebbe neH’“isomorfismo fra segni e cose”. Non possiamo discutere qui questa interpretazione.Tut­ tavia possiamo fare riferimento alla attuale ripresa, anche in Italia, della filosofia di Peirce e alla sua rilettura, dove questa interpretazione viene in qual11

Scritti

di semiotica, etica e estetica

che modo contraddetta. Ma ci basta rilevare l’ade­ sione di Morris al pragmatismo di Mead e la sua ammissione dei molti punti in comune di tale pragmatismo con quello di Peirce, per indicare co­ me il comportamentismo morrisiano sia un certo particolare comportamentismo, che viene in gran parte a coincidere con il pragmatismo della tradi­ zione peirceana (più che con quello di James, a cui tuttavia Morris riconosce nell’articolo “William James Today” anche il suo debito). Nel saggio “Signs about Signs about Signs” (1948), che è la risposta alle critiche rivolte al suo libro del 1946, Signs, Langtiage, and Bchauior, Mor­ ris tiene a chiarire la derivazione del suo compor­ tamentismo da Mead principalmente ed anche da Tolman e Hull, che, lungi dall’estendere agli uo­ mini una psicologia stabilita nello studio dei ratti, come diceva un suo recensore, tentano di svilup­ pare una teoria generale del comportamento, che potrà rendere conto del comportamento sia degli uomini sia dei ratti,“ma che pure rende conto del­ le loro differenze”. Ma la parte più interessante del saggio del 1948 è costituita dalla risposta alla re­ censione di Bentley che, richiamandosi alla critica rivolta ai Foundations da parte di Dewey, tirava in causa il rapporto fra Morris e Peirce. Dewey accu­ sava Morris di aver “capovolto Peirce”, con riferi­ mento specifico all’uso dei concetti chiave “inter­ prete” e “interpretante”. Morris risponde, citando dal suo stesso libro del 1946, che “per quanto il suo orientamento non sia derivato direttamente da Peirce”, la sua posizione è in effetti “un tenta­ tivo di svolgere in modo risoluto il suo approccio 12

Introduzione di Susan Petrilli

alla semiotica”. Direttamente invece, dice Morris, il suo comportamentismo deriva da Mead, mentre solo in un secondo tempo egli si è occupato di Peirce, come di Ogden e Richards, Carnap, Rus­ sell e successivamente dei comportamentisti Tolman e Hull. Per rispondere a Bendey Morris prende poi in esame la critica di Dewey. La que­ stione riguarda, come si è detto, i concetti di “in­ terprete” e di “interpretante” ripresi da Peirce. De­ wey non si rende conto della stretta connessione fra questi due concetti in Peirce, perché — almeno nel testo dove accusa Morris di aver falsato Peirce — considera il rapporto segno-interpretante come rapporto entro un sistema di segni, prescindendo dal rapporto segno-interpretazione e dunque dal ruolo dell’interprete nel funzionamento di qual­ cosa come segno. Non c’è segno senza interpre­ tante, ma anche senza interprete dato che l’inter­ pretante è l’effetto del segno su un interprete. An­ zi, dato che l’interprete stesso come tale non sus­ siste se non come modificazione in conseguenza del segno in una catena aperta di interpretanti, è esso stesso anche interpretante e quindi esso stes­ so segno. In “Some Consequences of Four Incapacities”, Peirce spiega questa coincidenza di uomo e segno, di interprete e interpretante, che tuttavia non comporta che si debba eliminare uno dei due concetti della coppia, perché l’uno e l’altro evi­ denziano aspetti diversi della stessa cosa (Collected Papers 5.264-317). Un altro punto interessante di questa discus­ sione è l’evidenziazione da parte di Morris del fatto che “interpretante” è usato da Peirce con si13

Scritti di semiotica, etica e estetica

gnifìcati diversi; e, infatti, Peirce stesso distingueva fra interpretante immediato, interpretante dinamico e interpretante logico finale. La critica di Dewey a Morris si basa anche sull’equivoco dovuto al di­ verso modo da parte di Pcirce di intendere l’in­ terpretante, e ciò malgrado il tentativo da parte di Morris di ridurre l’ambiguità del termine inter­ pretante introducendo accanto ad esso quello di significatimi (designatimi, nei Foundations) per indi­ care “le circostanze in cui una persona potrebbe rispondere a causa del segno”. E appunto con l’accezione che Morris attribuisce a signifìcatum che, invece, Dewey adopera il termine “interpre­ tante”, senza rendersi conto che quest’ultimo in Morris sta ad indicare un certo tipo di effetto di un segno su un interprete. Morris stesso fa notare come anche Dewey, tuttavia, in altri contesti, sia d’accordo nel rilevare questo aspetto del concetto di segno, e cita un passo della Logic in cui Dewey parla di disposizione preparatoria ad agire in un certo modo nei confronti del segno. Da tutto questo risulta come il comportamen­ tismo di Morris si differenzi dal comportamenti­ smo di Watson ed anche da quello di autori come Bloomfìeld (che aveva estromesso il concetto di si­ gnificato dal campo dello studio del linguaggio) e da Skinner la cui concezione meccanicistica di Verbal Behavior (1957) offre diversi lati deboli alla critica di Chomsky (1959).

14

Introduzione di Susan Petrilli 2. Il Morris più noto In Italia la notorietà di Morris è soprattutto collega­ ta con la traduzione di due suoi libri: Foundations of thè Iheory of Signs, del 1938 (voi. I, n. 2 de\Y International Encyclopcdia of Unifìed Science, Chicago) e Signs, Languagc, and Behavior, del 1946. Di tali traduzioni apparve prima quella dell’opera più recente, nel 1949, traduttore Silvio Ceccato (Longanesi); mentre quella del testo del 1938, effettuata da Ferruccio Rossi-Laudi e corredati! da un suo saggio introdut­ tivo e da un suo ampio commento, fu pubblicata nel 1954 (Paravia; ora Pensa MultiMedia, 2009). Dei due libri ha avuto più notorietà quello del 1946. Ciò, in qualche maniera, corrispondeva alle aspettative di Morris stesso, che considerava il testo del 1946 più importante e soddisfacente dei Linea­ menti. Ma, in effetti, a parte l’importanza che que­ st’ultimo testo poteva avere da un punto di vista storico per essere stato da parte di Morris il primo tentativo sistematico di una teoria semiotica (però l’interesse per lo studio dei segni, in Morris, è an­ tecedente ad esso: lo si può far risalire al suo saggio del 1927, intitolato “The Concept of thè Symbol”), c’è chi, come Ferruccio Rossi-Landi, ha considera­ to il testo del 1938 quello più valido dei due per­ ché più aperto e più rigoroso. Di Morris sono stati anche tradotti in italiano, ancora ad opera di Ferruccio Rossi-Landi e con una premessa dello stesso Morris alla edizione ita­ liana, due saggi compresi in questo libro,“Esthetics and thè Theory of Signs”, del 1939, e “Aesthetics, Signs, and Icons”, scritto in collaborazione con 15

Scritti di semiotica, etica e estetica

Daniel J. Hamilton, del 1965: essi apparvero nella rivista Nuova Corrente nel 1967 (n. 42-43). Dei limiti dell’interpretazione, in Italia, di Morris, visto come un “filosofo analitico” e accu­ sato di “biologismo”, riferisce lo stesso Rossi-Landi in “On some Post-Morrisian Problems”, del 1978, e in “A Fragment in thè History of Italian Semiotics”, del 1984 (il primo incluso nel presen­ te volume). In ogni caso, anche quando l’analisi del pensiero morrisiano risulta più adeguata c produt­ tiva, generalmente essa resta confinata ai due libri menzionati. C’è anche da dire che, in qualche modo, a riba­ dire l’identificazione del pensiero di Morris con i suoi libri del 1938 e del 1946 ha contribuito la pubblicazione, a cura di Thomas A. Scbeok, degli Writings on thè General Theory of Signs di Morris (Mouton) nel 1971: tale volume, infatti, ripropone­ va i due suddetti libri - che, nella sua premessa al volume, Morris chiamava i suoi scritti principali -, il I capitolo di Signification and Significancc del 1964 e quattro saggi del periodo 1939-57, che dovevano probabilmente servire come esempi di applicazione della teoria morrisiana. Rossi-Landi, nella recensio­ ne a questo volume (1974) lamentava soprattutto l’assenza non solo di una bibliografia degli scritti su Morris, ma anche della bibliografia generale degli scritti dello stesso Morris e affermava che “così co­ me è stato realizzato, il volume dice poco a chi già conosce il pensiero di Morris e, dato il suo ingom­ bro, non sostituisce per lui i volumi originali più fa­ cilmente consultabili, mentre prende alla sprovvista gli studiosi che non conoscono Morris direttamen16

Introduzione di Susan Petrilli

te, soprattutto i giovani che, pur avendone sentito parlare, non ne abbiano mai visto i testi per intero” (Rossi-Landi 1975: 177-178). Inoltre, secondo Rossi-Landi, volendo, invece, presentare una scelta degli scritti di Morris antecedenti e posteriori al libro del 1938 bisognerebbe includervi almeno alcuni di quelli sui valori. Evidentemente Rossi-Landi voleva che il lettore dell’antologia si potesse rendere conto dell’importanza, in Morris, della riflessione sul rap­ porto fra segni e valori e della loro interrelazione. In Italia l’unica monografia su Morris resta quella di Rossi-Landi pubblicata originariamente nel 1953 e ristampata con raggiunta di un saggio nel 1975. La monografia del 1953 venne, nell’edi­ zione del 1975, riprodotta senza alcune modifiche. 11 saggio aggiunto era, con qualche variante e com­ pletamento, la traduzione italiana del sopra citato review article del 1974. Perciò la monografia nell’edi­ zione del 1975 restava, nella prima parte, ferma fi­ no al Morris del 1952 e nella seconda, oltre alle suddette osservazioni sugli Writings on thè General 'Hieory of Signs, ritornava, alla luce degli sviluppi della semiotica novecentesca e della stessa ricerca di Rossi-Landi, a esaminare alcuni concetti fondamentali della teoria morrisiana così come essi risul­ tavano nei due libri di Morris del 1938 e del 1946. Invece la novità che questo volume presentava ai fi­ ni di una più ampia conoscenza della ricerca di Morris era costituita dalla bibliografia completa delle pubblicazioni di questo autore che RossiLandi vi aggiungeva realizzando egli stesso ciò che avrebbe voluto trovare negli Writings. Fra la pubblicazione della monografia del 1953 17

Scritti di semiotica, etica e estetica

e la sua riedizione del 1975 si inseriscono altri due scritti di Rossi-Landi su Morris (oltre all’introdu­ zione alla sua traduzione del libro dei Lineamenti di una teoria dei segni): a) “Universo di discorso e lingua ideale in filo­ sofia” del 1958, ma scritto nel 1956, dedicato al con­ fronto fra Gustav Bergmann c Morris (allo studio del quale erano rivolte le pp. 138-151). Questo sag­ gio restava incentrato sulle due opere morrisiane del 1938 e del 1946 e però preconizzava nuove ricerche morrisiane — evidentemente anche sulla base delle informazioni tratte dalla sua corrispondenza perso­ nale con Morris iniziata nel 1950 (si veda Morris 1992; e Petrilli 1992) - con la fiducia che esse avrebbero offerto qualcosa di nuovo c di genuino rispetto ai lavori noti, c annunciava di imminente pubblicazione in quell’anno (1956), come opera molto attesa ed importante, risultato della “nuova ri­ cerca empirica sui valori, a cui Morris sta lavorando da oltre un decennio”, Varieties of Human Vaine; b) La “presentazione” degli scritti sopra citati di Morris sull’estetica che egli aveva tradotto in italiano per Nuova Corrente nel 1967; essa fu poi ripubblicata nel 1972 nel libro di Rossi-Landi Se­ miotica c ideologia col titolo “Sul modo in cui è sta­ ta fraintesa la semiotica estetica di Charles Mor­ ris”. Torneremo su questo, come sugli altri lavori di Rossi-Landi concernenti Morris, in Appendice li. Qui ci limitiamo a menzionare soltanto il fatto che Rossi-Landi fa ancora una volta riferimento all’importanza che ha in Morris la teoria dei valo­ ri. E ciò, egli fa notare, già nel periodo in cui fìi scritto il fondamentale saggio sulla semiotica este18

Introduzione di Susan Petrilli

tica (1939), periodo in cui Morris distingueva co­ me primari tre tipi di discorso: scientifico, estetico, tecnologico. Infatti, per Morris era tecnologico qualsiasi discorso che ponesse delle valutazioni, e perciò, in quanto giudizio valutativo, la critica estetica richiedeva non soltanto una teoria dei se­ gni (sufficiente all’analisi estetica) ma anche una teoria dei valori. Infine, per ciò che concerne raggiornamento, rispetto alla monografia del 1953, dell’interpretazione di Morris da parte di Rossi-Landi, va ricor­ dato il più recente lavoro di quest’ultimo su Mor­ ris, che è del 1978 in inglese e poi ripubblicato in traduzione tedesca nel 1981. Esso, interessante per lo studio del rapporto fra Rossi-Landi e Morris, tuttavia, in gran parte, riprende il saggio del 1974 e del 1975 approfondendo il concetto di compor­ tamento, considerato da Rossi-Landi sia rispetto a quello di produzione sociale (centrale nella ricer­ ca di Rossi-Landi), sia a quello di comunicazione. Anche in esso, Rossi-Landi sottolinea la centralità della teoria dei valori nella semiotica, sia di quella morrisiana, dato che Morris “si occupò di valori almeno altrettanto quanto si occupò dei segni”, sia di quella che si andava sempre più profilando in quegli anni. In questo saggio troviamo un paragra­ fo esplicitamente intitolato (per la prima volta) “Segni e valori”. Qui dopo aver ricordato di Mor­ ris nuovamente il saggio sull’estetica del 1939 e, dello stesso anno, “Science, Art and Technology” e menzionato i libri di Morris Paths of Life (1942), The Open Self (1948), Varicties of Human Value (1956), Signification and Significance (1964), Rossi-

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Scritti di semiotica, etica e estetica

Landi concludeva: “Morris quindi andava collo­ cando i valori accanto ai segni, mentre si oppone­ va all’idea che il mero studio dei segni potesse da­ re un qualsiasi diritto a formulare giudizi intorno ai valori. Le attuali discussioni sui limiti dello strutturalismo, sulle differenze fra analisi c valuta­ zione e sulle relazioni fra sistemi di segni c sistemi di valori o ideologie tendono ad indicare che nes­ sun sistema semiotico, c a maggior ragione nessun testo, può essere pienamente compreso c adegua­ tamente valutato, senza che anche i valori, da cui necessariamente nasce, e che trasmette, siano presi in considerazione”. Come rilevante sul piano di un progetto col­ lettivo per riesaminare il pensiero di Morris, va ri­ cordato soprattutto il volume del 1981 di autori di diverse nazionalità, a cura di A. Eschbach, Zcicliat iiber Zeichen iibcr Zcichen, contenente quindici stu­ di su Charles Morris tra cui quelli di Apel, Posner, Rossi-Landi, Ponzio e Sebcok. Quest’ultimo prende in esame le opere di poesia di Morris fra cui quelle della raccolta Imago (1976). Sebeok in “The Image of Charles Morris”, ri­ prendendo anche le parole di Max Fisch che com­ memorava Morris nel suo necrologio, osserva che la gran parte dei semiotici pensano a Morris come l’autore delle opere classiche comprese fra il 1938 e il 1964, mentre ignorano il ruolo di Morris este­ ta, studioso della religione e della filosofìa orienta­ le e poeta. Certamente, come lo stesso Sebeok mostra, l’importanza di questo Morris anche ai fi­ ni della comprensione di quello classico è notevo­ le. Bisogna, però, dire pure che, per quanto alme20

Introduzione di Susan Petrilli

no concerne l’Italia, anche la conoscenza del Mor­ ris classico non è completa, se non per altro se si considerano i lavori di traduzione delle sue opere.

3. Segni e valori “Dopo i Foundations of theTUeory of Signs del 1938, le ricerche di Morris prendono due strade. L’una consiste neirapprofondire la nozione di segno e la teoria generale dei segni [...]; l’altra nell’afFrontare il problema del valore’’ (Rossi-Landi 1954: XIX). Que­ ste due strade vengono fatte incontrare in Signijìcation and Signijìcance (1964, trad. it. 1988 e 2000). Si tratta di considerare entrambi i sensi secondo cui può essere intesa l’espressione “avere significa­ to”: cioè quello di valere, essere significativo e quel­ lo di avere una determinata accezione, una deter­ minata significazione. Il termine significato (meaning) si sdoppia in significazione, oggetto della semiotica e significatività, oggetto della assiologia. Il problema che Morris affronta considerando insieme segni e valori è quello di mettere in comunicazione semio­ tica e assiologia in quanto vertenti su due aspetti di­ versi di uno stesso processo, il comportamento, e di ritrovare quella unità del significare che l’ambigui­ tà stessa del termine significato testimonia. Nel fare questo Morris stesso si rende conto di procedere su un terreno precedentemente poco battuto. Lo stesso Peirce, egli osserva, si è occupato della semiotica più nei suoi aspetti logico-cognitivi che in quelli relativi a questioni assiologiche: anche se, per la verità, molti degli scritti di Peirce affron21

Scritti di semiotica, etica e estetica

tano anche la problematica dei valori, per esempio, quelli raccolti nel volume Chance, Love, and Logic. Si potrebbe introdurre il termine semioetica (v. Pe­ trilli c Ponzio 2003, 2010) per riferirsi a questo tipo di indagine sui segni che non si riduce a semiotica co­ gnitiva ma si impegna in problemi di ordine assiologico, etico, estetico, pedagogico, ccc. Sotto questo ri­ guardo è particolarmente interessante il libro del 1948,Tlte Open Self (trad. it. di S. Petrilli, 2002). Mor­ ris si trova sulla stessa via percorsa da autori quali - ol­ tre che, in parte, lo stesso Peirce - Michail liachtin, Victoria Welby, Charles K. Ogden e Ivor A. Richards, Giovanni Vailati, Ferruccio Rossi-Laudi. Vediamo sinteticamente come Morris riesce ad allacciare i fili di questi due tronconi di ricerca, teoria dei segni e studio dei valori, generalmente separati fra le due competenze dei semiotici e dei filosofi. Per quanto riguarda la teoria dei segni, ci sono in Signiftcation and Significatice innovazioni termi­ nologiche relative alla individuazione dei fattori della semiosi. Essi sono cinque: — Segno o meglio veicolo segnico, che è l’oggetto che fa da stimolo nei confronti del comportamen­ to segnico; — Interprete, che è qualsiasi organismo su cui agisce il veicolo segnico. Questa estensione del concetto di interprete sino a comprendere qualsia­ si organismo e quindi a riferirsi a qualsiasi com­ portamento segnico al di là di quello umano, con­ ferisce alla semiotica la possibilità di non ridursi a semiotica del sociale umano, e dunque di andare oltre i limiti della semiologie di matrice saussuriana:

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Introduzione di Susan Petrilli

è questa la direzione che troverà sviluppo e teoriz­ zazione in un diretto discepolo di Morris,Thomas A. Sebeok (v. Sebeok 1976, 2001); — Interpretante, che è la disposizione a risponde­ re, in seguito a uno stimolo segnico, ad un certo tipo di oggetto; — Significazione, che è l’oggetto a cui l’inter­ prete risponde in base all’interpretante, cioè l’og­ getto significato, il quale come tale, precisa Mor­ ris, non può fungere al tempo stesso da stimolo. Qui significazione prende il posto di ciò che Mor­ ris 1938 chiamava denotatum e Morris 1946 significatwn, mentre rimangono costanti i concetti di interprete e interpretante. Che l’oggetto della signi­ ficazione non possa fungere da stimolo, non si­ gnifica, come chiarisce Morris, che non possano essere significate cose che si danno all’esperienza diretta. Solo che di queste cose noi percepiamo direttamente solo una parte. E questa parte è quella che funge da stimolo o da veicolo segnico; mentre quella non completamente percepita, da oggetto significato o significazione. Così quando diciamo “questa è una scrivania’’, lo facciamo sul­ la base di una parte limitata di essa che direttamente percepiamo e che interpretiamo come se­ gno del fatto che si tratta di una scrivania (con il rischio di errore) ipotizzando che vi siano parti che attualmente non vediamo: la parte posterio­ re e sottostante, i cassetti che possono essere estratti, ecc.; — infine il Contesto, che è l’insieme delle circo­ stanze in cui si svolge la semiosi. Un’altra precisazione importante in questa 23

I Scritti di semiotica, etica e estetica

parte dedicata alla ricognizione dei fattori fondamentali della semiosi è quella che riguarda, sia pu­ re non direttamente, il ruolo della definizione nel processo conoscitivo. Morris precisa che egli non si è proposto di dare una definizione di segno, ma di stabilire le situazioni del riconoscimento di qualcosa come segno. Questo atteggiamento di tipo opera­ zionale o pragmatista nei confronti dell’oggetto conoscitivo demistifica il ruolo assegnato general­ mente alla definizione. Non si tratta di definire l’oggetto come condizione della sua conoscibilità ma di poter descrivere le situazioni in cui abbiamo a che fare con esso. Sulla stessa posizione si trova­ no autori come Wclby e Vailati clic criticheranno l’eccessiva fiducia nella portata conoscitiva della defìnizione.Vailati fa notare che la definizione non attesta la conoscenza di qualcosa, dato che noi sia­ mo in difficoltà nel definire proprio ciò che cono­ sciamo meglio e con cui abbiamo una grande fa­ miliarità; si pensi alla difficoltà di definire parole come “caldo”, “freddo”, “nero”, ecc. Per raggiungere il collegamento della dimen­ sione assiologica con quella segnica del comporta­ mento, Morris parte dalla suddivisione della signi­ ficazione in designaiiva, apprezzatiti, prescrittiva, esemplificata rispettivamente dall’uso delle parole “nero”,“buono” e “dovrebbe”. Quindi riprende la distinzione dell’azione, operata da Mead, in azione percettiva, manipolativa e compitiva. Questi tre tipi di azione e i tre tipi di significazione sono tra loro in reciproca corrispondenza nell’ordine dato. Passare attraverso lo studio dell’azione per giungere dalla teoria dei segni alla teoria dei valori è inevitabile, 24

Introduzione di Susan Petrilli

quando i valori vengono considerati, come fa Morris, non come delle entità a sé stanti, assolute, ma come relativi a determinate azioni, al compor­ tamento preferenziale. 1 valori, infatti, sono pro­ prietà oggettivamente relative, vale a dire presenti nell’oggetto ma relativamente ad un comporta­ mento preferenziale. Essi pertanto possono essere distinti, nell’ordine corrispondente a quello della tripartizione della significazione e a quello della tripartizione dell’azione, in valori oggettuali, opera­ tivi e concepiti. Il valore oggettuale è quello di cui si prende atto in una azione percettiva. Il valore ope­ rativo è quello che predomina nelle scelte effetti­ ve nei confronti degli oggetti, vale a dire nell’azio­ ne manipolativa. Il valore concepito è quello che guida o dovrebbe guidare, come ideale, come principio, le nostre scelte effettive, e corrisponde all’azione compitiva. Morris precisa che i valori oggettuali c i valori operativi possono non essere segni, vale a dire oggetto di significazione, mentre i valori concepiti, non sussistendo se non in quan­ to significati, sono necessariamente segni. Inoltre, Morris individua tre dimensioni del valore, distacco, dominio, dipendenza, in corrispon­ denza, rispettivamente, alla ripartizione dell’azione in percettiva, manipolativa e compitiva e alla ripar­ tizione della significazione in designativa, prescrit­ tiva e apprezzativa. Non ci interessa entrare qui nel merito dei contenuti dell’analisi morrisiana, che certamente risulta molto più complessa, articolata e duttile di quanto non appaia in questa presentazione sche­ matica che, tuttavia, può servire a fornire al letto25

Scritti di semiotica, etica e estetica

re una prima indicazione di orientamento. Quel­ lo che ci interessa rilevare è, invece, proprio attra­ verso questa esposizione schematica, come il di­ segno che muove la ricerca morrisiana sul rap­ porto fra segni e valori, sia quello rivolto a indi­ viduare le corrispondenze fra concetti stabiliti in sede di teoria dei segni e concetti stabiliti in se­ de di analisi delazione (Mead) e teoria dei valo­ ri. Si tratta di leggere le corrispondenze che in­ tercorrono fra le due facce di uno stesso proces­ so, come se si guardasse alla corrispondenza fra ciò che è scritto sulle due facce di uno stesso fo­ glio di carta. In effetti la ricerca di Morris è la ri­ cerca su un fatto di comunicazione: la comunica­ zione fra l’ordine dei segni e l’ordine dei valori, e dunque la comunicazione fra gli addetti ai la­ vori dei campi disciplinari relativi a questi due aspetti del comportamento.

4. Come è fatto questo libro Il presente volume comprende una raccolta di scritti di epoche diverse. Essi sono, in ordine di presentazione: “Signs about Signs about Signs”, pubblicato in Philosophy and Phenomenological Research, voi. IX, n. 1, nel 1948; “Esthetics and theTheory of Signs”, apparso in 77he Journal of Unifted Science, voi. Vili, n. 1-3, nel 1939; e “Aesthetics, Signs and Icons”, pubblicato in Philosophy and Phenomenological Research, voi. XXV, n. 3, nel 1965; 26

Introduzione di Susan Petrilli

“Man-Costnos Symbols”, apparso in The New Latidscape, nel 1956; e infine “Mysticism and Its Language”, pubbli­ cato in Language: Ati Inquiry inio Its Mcaning and Function, nel 1957. Nel libro a cura di Thomas A. Scbeok, Writings on thè General Thcory of Signs, del 1971, oltre a Foundations qf thè 7'hcory of Signs e Signs, Language, and Bchauior, rispettivamente parti I e II, c’è una terza parte, Fine Semiotical Studies. Si tratta di una raccolta di cinque studi morrisiani proposti da Sebcok con l’approvazione dello stesso Morris; ed è da qui che è partita la mia scelta degli scritti per il presente volume escludendo “Signs and thè Act”, che corrisponde al primo capitolo di Signification and Significarne, 1964 (per la traduzione italiana si veda Morris 1988 e 2000). Propongo, “Signs about Signs about Signs” per primo essendo esso la risposta, da parte di Morris, alle osservazioni e critiche fatte nei confronti del libro del 1946 e quindi alla sua teoria generale dei segni. In quanto tale, è intimamente legato all'im­ pianto generale anche dello stesso libro del 1964, che infatti ne tiene conto. Seguono i due scritti sull’estetica (Sebeok ave­ va proposto soltanto il saggio di Morris del 1939), che ho voluto riproporre così come erano stati tradotti da Rossi-Landi in Nuova Corrente. Di que­ sti due scritti è importante, nel lavoro di Morris, in particolar modo il saggio del 1939, che è stato generalmente considerato di fondazione alla “se­ miotica estetica” come scienza (si veda in Appen­ dice a questo volume lo scritto di Rossi-Landi, 27

Scritti di semiotica, etica e estetica

“Sul modo in cui è stata fraintesa la semiotica este­ tica di Charles Morris”). Inoltre essi sono direttamente collegati al libro del 1964, di cui il quinto capitolo s’intitola “Arte, segni e valori”. I rima­ nenti due saggi di Morris sono stati collocati alla fine di questa raccolta semplicemente in base al­ l’ordine cronologico. Ho ritenuto opportuno includere sotto forma di appendice Pimportance saggio di Rossi-Landi (apparso in Ars Semeiotica 3, nel 1978),“On Some Post-Morrisian Problems” (“Su alcune questioni post-morrisiane”), presentato per la prima volta in traduzione italiana in un volume che raccoglie al­ cuni scritti di Morris, Segni e valori, del 1988. La sua rilevanza deriva anche dal fatto che esso è l’ul­ timo scritto del principale studioso di Morris in Italia. L’appendice contiene anche una mia analisi sul rapporto fra Morris e Rossi-Landi, “La lettura di Morris in Rossi-Landi”. Segue il testo introdut­ tivo di Rossi-Landi agli scritti di Morris pubblica­ ti in Nuova Corrente. Di Rossi-Landi è anche la bibliografia delle opere di Morris che chiude il volume. Essa è stata da me aggiornata. Fu originariamente pubblicata nella seconda edizione della monografia di RossiLandi su Morris (1975). Alla sua stesura collaborò lo stesso Morris.

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Introduzione di Susan Petrilli

Riferimenti bibliografici* Bergmann, Gustav 1944 “Pure Semantics, Sentences, and Propositions”, Mind, voi. 53, pp. 238-57. Bloomfield, Léonard 1933 Languagc, New York, Rinehart and Winston. Carnap. Rudolph 1937 'lite Logicai Synfax of Language, New York, Harcourt Brace and Company, Sintassi logica del linguag­ gio, trad. it. di L. PasquineUi, Milano, Silva, 1961. Chomsky, Noam 1959 “A Review of B.F. Skinncr’s Verbal Behauior”, in Fodor and Katz, Structure of Language, New Jersey, Englewood Clifi's. 1965 Aspects of thè Theory of Syntax, Cambridge (Mass.), MIT Press; trad. it. di A. De Palma,Torino, Boringhicri, 1970. 1968-1969 Saggi linguistici, 3 voli., prefaz. di G. Lepschy, Torino, Boringhieri. 1975 Reflcctions on Languagc, New York, Pantheoi Books; trad. it. di S. Scalise,Torino, Einaudi, 1981. Dewey, John 1938 Logic, thè Theory of Inquiry, New York, H. Holt and Company. 1939 Theory of Valuation, International Encyclopedia of Unified Science, voi. 2, n. 4, Chicago, University of Chicago Press. Eschbach, Achiin 1981 (a cura di) Zeichen iiber Zeiclten iibcr Zeichen, 15 Studien iiber Charles W. Morris,Tiibingen, Gunter Narr, 1981. *

La bibliografia delle opere di C. Morris è collocata al­ la fine del volume. 29

Scritti di semiotica, etica e estetica

Hull, Clark L. 1952 A Behavior System, New Haven, Yale University Press. Ispano, Pietro 1225? Tractatus, Summule logicales, trad. di A. Ponzio, Ba­ ri, Adriatica, 1985; nuova ed., Trattato di logica. Suttimule logicales, testo latino a fronte, introd., trad., no­ te e apparati di A. Ponzio, Milano, Bompiani, 2004; ed. rivista, 2010. Kofìka, Kurt 1928 The Growtli of Mitici, New York, Harcourt Brace. Mead, George H. 1922 “A Behavioristic Account of thè Significati! Sym­ bol”, Journal of Philosophy, voi. 19, pp. 157-63. 1934 Mitici, Self and Society, Chicago, University of Chi­ cago Press. Ogden, Charles K. e Richards, Ivor A. 1923 The Meaning of Meaning. A Study of thè Injhience of Languagc uponThouglit and of thè Science of Symbolism, London, Kegan Paul; trad. it. L. Pavolini, Il significa­ to del significato, Milano, Il Saggiatore, 1966. Peirce, Charles S. 1931-1958 Collected Papers, Cambridge (Mass.), The Belknap Press of Harvard University Press. 1953 Charles S. Peirce’s Letters to Lady Welby, a cura di Irwin C. Lieb, New Haven, Conn., Whitlocks, Ine. Petrilli, Susan 1987 II contributo di Rossi-Landi allo studio di Charles Morris, Per Ferruccio Rossi-Landi. Il Protagora, 11/12, XXVII, pp. 105-114. 1988 “Introduzione”, pp. 5-28, trad. e cura, Charles Mor­ ris, Segni e valori. Significazione e significatività e altri scritti di semiotica, etica ed estetica, Bari, Adriatica, 1988. 30

i

Introduzione di Susan Petrilli

1992 “Introduzione”, pp. 1-36 e cura di Social Practice, Sctttiolics and thè Sciences of Man: The Correspondence between Morris and Rossi-Laudi. Semiotica, 88. 1999a “Charles Morris s Biosemiotics”, Semiotica, 1271/4, pp. 67-102. 1999b “Introduzione. La bioscmiotica di Morris”, pp. 9-52, c cura di Lineamenti di una teoria dei segni, di Charles Morris, trad. it. c commento di F. RossiLandi, Lecce, Matini, 1999. 2000a “Charles Morris”, in Handhook of Pragnuitics 6, 2002, a cura di J.Vcrschuercn.J.-O. OstamanJ. Blommaert Se C. Bulcacn,pp. 1-26, Amsterdam, John Bcnjamins. 2000b “Introduzione”, pp. V-XXXV, trad. c cura di Si­ gnificazione c significatività. Studio sui rapporti tra segni e valori, di Charles Morris, Bari, Graphis, 2000. 2001 “In thè Sign of Charles Morris”, Charles W. Mor­ ris. RSSI Semiotic Inquiry/Rechcrchcs Scmiotiques, 21, 1-2-3, pp. 163-187. 2002 “Introduzione. Charles Morris c la scienza del­ l’uomo. Conoscenza, libertà, responsabilità”, pp. VIIXXVI, trad. e cura di Charles Morris, L’io aperto. Il soggetto e le sue metamorfosi, Bari, Graphis, 2002. 2004 “From Pragmatic Philosophy to Bchavioral Scmiotics: Charles W. Morris after Charles S. Pcirce”, Idcology, logie, and dialogue in semioethic pcrspective. Semio­ tica, 148-1/4, pp. 277-316. 2005 “La questione dell’io in Victoria Lady Wclby and Ch. Morris,” in Semiotica efenomenologia del sé, a cu­ ra di R. M. Calcaterra, pp. 147-172,Torino, Aragno. 2008 “The Relation with Morris in Rossi-Landi’s and Sebeoks Approach to Signs,” in S. Petrilli, Sign Crossroads iti Global Pcrspective. Essays by Susan Petrilli, 7lh SSA Sebeok Fellow. The American Journal of Semiotics, introd. e cura di J. Deely, voi. 24.4, pp. 89-122. 31

Scritti di semiotica, etica e estetica

2009a “Introduzione. Segno e simbolo nella biosemiotica di Morris”, pp. 9-32, e cura di Lineamenti di una teoria dei segni, di Charles Morris, trad. e commento di F. RossiLaudi, nuova ed., Lecce, Pensa MultiMedia, 2009. 2009b Signifying and Understanding. Reading thè Works of Victoria Welhy and thè Signiftc Movement, Berlin, Mouton De Gruyter. 2010 Le voci: “Charles Morris”, pp. 269-270; “Pragmatism”, pp. 297-298; “Semiotics”, pp. 322-323; “Sign”, pp. 323-324; “Signans”, pp. 324-325; “Signification/Significance”, p. 325; “Significatimi”, pp. 325-326, in The Routledge Cotnpanion to Semiotics, a cura di P. Cobley, Londra, Routledge. 2011 “Charles Morris”, in Philosophical Perspectives for Pragniatics, a cura di M. Sbisà,J.-0. Óstnian, e J.Verschueren, Handbook of Pragmatici, Highlights 10 pp. 180-201, Amsterdam, John Benjainins. Petrilli, Susan e Augusto Ponzio 2003 Semioetica, Roma, Meltemi. 2010 “Semioethics”, in P. Cobley, a cura,The Routled­ ge Companion to Semiotics, pp. 150-162, Londra, Routledge. Ponzio, Augusto 1976 La semiotica in Italia, Bari, Dedalo. 1981 Segni e contraddizioni. Tra Marx e Bachtin, Verona, Bertani. 1985a Per parlare dei segni/Talking about Signs (con M.A. Bonfantini e G. Mininni); trad. ingl. di S. Petrilli, Ba­ ri, Adriatica. 1985b Filosofia del linguaggio, Bari, Adriatica. 1986a “On thè Methodics of Common Speech”, Differentia, 1, 137-166. 1986b“On thè Signs of Rossi-Landi’s Work”, Semiotica, 62-3/4, pp. 207-221.

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Introduzione di Susan Petrilli

1988 Rossi-Laudi e la filosofìa del linguaggio, Bari, Adriatica. 2002 Individuo umano, linguaggio e globalizzazione nella fi­ losofia di Adam Schajf, Milan, Minicsis. 2008 Linguaggio, lavoro e mercato globale, Milano, Mimesis. Ponzio. Augusto e Susan Petrilli 2008 Lineamenti di Semiotica e di filosofia del linguaggio, Bari, Graphis. Rossi-Landi. Ferruccio 1953 Charles Morris, Milano, Bocca. 1954 Introduzione, traduzione e commento di, Linea­ menti di una teoria dei segni (Foundations of thè Theory of Signs) di Charles Morris. Torino, Paravia; nuove ed. a cura di S. Petrilli, Lecce, Manni, 1999; secon­ da ed. rivista e aggiornata a cura di S. Petrilli, con presentazione di A. Ponzio, Lecce, Pensa, MultiMedia, 2009. 1958 “Universo del discorso e lingua ideale in filoso­ fia”. in II pensiero americano contemporanco, saggi di va­ ri autori, Milano, Edizioni di Comunità, 2 volumi, opera diretta da Rossi-Landi sotto il patronato del centro di studi metodologici di Torino; nel volume Filosofia epistemologia logica, pp. 133-182. 1961 Significato, comunicazione e parlare comune, Padova, Marsilio, 21 ediz. 1980 con una introduzione del 1979. 1967 Presentazione di tre scritti di Charles Morris sulla se­ miotica estetica, Nuova Corrente, 42-43, pp. 113-117. 1968 II linguaggio come lavoro c come mercato, Milano, Bom­ piani, nuova ed. 2003; trad. ingl., Languagc as Work & Tradc.A Semciotic Homologyfor Linguistics & Economics, South Hadley, Massachusetts, Bergin & Garvey. 1972 Semiotica e ideologia, Milano, Bompiani, nuova ed. 2011. 1975a “Signs about a Master of Signs”, un articolo re­ censione di Writings on thè General 'flieory of Signs, di Charles Morris, thè Haguc, Mouton, 1971.

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1975b Charles Morris e la semiotica novecentesca, Milano, Feltrinelli-Bocca; contiene la monografia Charles Morris del 1953 e una versione italiana ampliata del titolo precedente. 1978 “On some post-Morrisian problems”, Ars Semeio­ tica, 3, pp. 3-32; versione tedesca di Achilli Esclibach, in Zeichen iiher Zeichcn iihcr Zeiclien, 15 studien iiber Charles W. Morris, a cura di A. Eschbach, Tubingen, Gunter Narr, 1981, pp. 235266; trad. it. di S. Petrilli,“Sii alcune questioni postmorrisiane”, nel presente volume. 1980 “Introduzione” alla 2J ed. di Rossi-Laudi 1961. 1984 “A Fragment in thè History of Italian Semiotics”, relazione al convegno internazionale dell’Associa­ zione di Semiotica, Palermo, 1984; trad. it. di S. Pe­ trilli, in Ponzio, Rossi-Laudi e la filosofìa del linguag­ gio, Bari, Adriatica, 1988, pp. 243-262. 1985 Metodica filosofica c scienza dei segni, Milano, Bom­ piani. Ryle, Gilbert 1949 The Concept of Mimi, London, Hutchinsons, Edi­ zione italiana con tagli e aggiunte a cura di F. Rossi-Landi, Lo spirito come comportamento, Torino, Ei­ naudi, 1955, ristampata nel 1982, Bari, Laterza. Schaff, Adam 1980 Gli stereotipi e l'agire umano, introd. all’edizione it. di G. Mininni, Bari, Adriatica. Sebeok,Thomas A. 1971 (a cura di), Writings of thè General Theory of Signs, The Hague, Mouton. 1976 Contributions to thè Doctrine of Signs, Bloomington, Indiana University Press; trad. it. di M. Pesaresi, Con­ tributi alla dottrina dei segni, Milano, Feltrinelli-Bocca, 1979. 1979 The Signs & lts Masters, Texas, The University of 34

Introduzione di Susan Petrilli

Texas Press; traci, it., introd. e cura di S. Petrilli, Il sc­ atto c i suoi maestri, Bari, Adriatica, 1985. 1981 The Play of Musement, Blooniington, Indiana Uni­ versity Press; trad. it. di M. Pesaresi, Il gioco del fanta­ sticare, Milano, Spirali, 1984. 1991 Semiotics in thè United States, Blooniington, India­ na University Press; trad. it. Sguardo nella semiotica americana. c introd. pp. 1-9, a cura di S. Petrilli, Mi­ lano. Bompiani, 1992. 200la Global Semiotics, Blooniington, Indiana Universi­ ty Press. 200 Ib Signs. Introduci ioti to Semiotics, Toronto, Toronto University Press; ed. it. a cura di S. Petrilli, Segni. Una introduzione alla semiotica, Roma, Carocci, 2003. Skinncr, Burrhus F. 1957 VeritàI Bebahai'ior, New York, University of Minnesota. Vailati, Giovanni 1957 II metodo della filosofia. Sagqi di critica del linguaggio, a cura di F. Rossi-Landi, Bari, Laterza, nuova ed. 1967; nuova ed. a cura di A. Ponzio, Bari, Graphis, 2000. 1971 Fpislolario (1981-1909), a cura di Giorgio Lanaro, introd. di Mario Dal Pra,Torino, Einaudi. 1987 Scritti, a cura di M. Quaranta, Bologna, Forni. Wciss, A.P. 1925 A Theoretical Basis of Human Bebahavior, Columbus, Ohio, RG Adains Co. Welby, Victoria 1903 What is Meaning? Studies in thè Deuelopment of Signiftcance, London, Macmillan & Co, ristampa di questa edizione, con saggio introduttivo di Gerrit Mannoury e prefazione di Achim Eschbach, in Fottndations of Semiotics, Voi. 2,Amsterdam/Philadelphia,John Bcnjamins, 1983. 1911 Significs and Language: The Articulatc Form of Our 35

Scritti di semiotica, etica e estetica

Expressive and Interpretative Resources, London, MacmilJan, ristampa di questa edizione, con monografia introduttiva di H. Walter Schmitz, in Foundations of Semiotics, Voi. 5, Amsterdam/Philadelphia, John Benjamins, 1985. 1985 Significato, metafora e inteprcfazione, introduzione, traduzione e cura di S. Petrilli, Bari, Adriatica. 2007 Senso, significato, significatività, trad. it., cura e introd.,“ll senso e il valore del significare”, pp. vii-ix, di Susan Petrilli, Bari, Graphis. 2009 Signifying and Understanding, v. Petrilli 2009b, con­ tiene un'antologia sia degli scritti di Welby sia dei significisti olandesi. 2010 Interpretare, comprendere, comunicare, introd.,“Le ri­ sorse del significare”, pp. 11-96, trad. e cura di S. Pe­ trilli, Roma, Carocci.

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Scritti di semiotica, etica e estetica

I. Segni di segni di segni

È con qualche esitazione che mi accingo a com­ mentare alcuni dei commenti circa Segni, linguag­ gio e comportamento*. Infatti, i commentari accumu­ lati su commentari trovano una sempre più stretta cerchia di lettori e la scala dei segni diventa sem­ pre più insicura, quanto più si alza. Forse sarebbe più saggio semplicemente appropriarmi in scritti successivi delle intuizioni dei miei critici1. Ma noi

* 1

(I riferimenti alle pagine rimandano alla traduzione italiana (N.d.C.)\. In Philosophy and Phettomenological Research: la recen­ sione di Daniel J. Bronstein, voi. VII, pp. 643-649; “The New ‘Semiotic’”, di Arthur F. Bentley, voi. Vili (1947), pp. 107-131;“An Introduction to thè Phenomenology of Signs”, di John Wild, vol.VIII (1947), pp. 217-233; “Logic and Semiotic”, di Eiaine Graham, voi. IX (1948), pp. 103-114. In altre riviste: “Peirce’s Theory of Linguistic Signs,Thought, and Meaning”, di John Dewey, 77te Journal of Philosophy, voi. XLIII (1946), pp. 85-95; “The Limitations of a Behavioristic Semiotic”, di Max Black, The Philosophical Rcuiew, voi. LVI (1947), pp. 258-272; “The Semiotic of Charles Morris”, di Philip Blair Rrice, The Kenyon Revietv

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filosofi siamo ghiotti di parole e non così saggi quanto i nostri precetti. Per mantenere il nostro orientamento dobbia­ mo rammentare lo scopo di Segni, linguaggio e com­ portamento. L’intento del libro era di sviluppare ul­ teriormente “una scienza dei segni di carattere ge­ nerale e che possa dar frutti”. Il libro doveva essere i prolegomeni ad una scienza naturale dei segni, c non l’effettiva presentazione di tale scienza. Lo svi­ luppo della scienza stessa era previsto come compi­ to di “molti ricercatori specializzati in campi diver­ si e per molte generazioni”. Si pensava che un filo­ sofo avrebbe potuto contribuire a questo sviluppo cercando di chiarire alcune problematiche metodologiche, adoperandosi per una terminologia più precisa, unificando materiali provenienti da campi di studio molto differenti c suggerendo alcuni dei nodi in cui la semiotica potrebbe assumere una grande importanza teoretica c pratica. Quindi il libro è stato scritto per un pubblico misto — per coloro che desiderano partecipare alla costruzione di una scienza sperimentale, per coloro che guardano alla semiotica in riferimento alla pos­ sibile attinenza con i loro stessi vari campi di inte­ resse, per coloro che cercano di sviluppare l’inte­ grazione del sapere. Il tentativo di rispondere ad una tale varietà di esigenze ha influenzato il lin­ guaggio e il contenuto del libro stesso. Per alcuni

(1947),pp. 303-311 .A queste si possono aggiungere le recensioni di David Rynin in Journal of Acsthctics and Art Critichili (1947), pp. 67-70 e di W.K. Wimsatt, Jr. in Quartcrly Rcview of Literaturc (1946), pp. 180-185. 40

1. Segni di segni di segni

lettori è troppo analitico, per altri non abbastanza preciso, per alcuni troppo arido, e per altri ancora troppo speculativo. Nel dire che esso “schizza un programma, più che registrare risultati conclusivi” (p. 237), il libro chiaramente si presenta come qual­ cosa da modificare, ampliare, rettificare e superare. Insisto su questo punto perché alcuni dei suoi critici hanno giudicato il libro sulla base di prete­ se ad esso estranee. Bendey lo bandisce come “un fallimento” perché non soddisfa la pretesa che egli erroneamente mi attribuisce, quella di, per dirla con lui, “costruire un linguaggio scientifico e quindi creare una scienza”. A pagina 238 di Segni, linguaggio e comportamento, si asserisce che “una ter­ minologia... non è una scienza”, e che ulteriori studi “possono anche mostrare desiderabili cam­ biamenti radicali” nella terminologia attuale. Black scrive come se la mia asserzione che “la semiotica tecnica ci deve fornire parole che siano frecce ap­ puntite” fosse una pretesa che questo mio libro non abbia difetti terminologici. Il libro è abbastan­ za esplicito nell’esprimere la speranza “di ridurre per scopi scientifici” la “incertezza e ambiguità” delle distinzioni correnti (p. 14). Che esso sia, nel­ le parole di Black, più “una faretra piena di pie­ tre”, che una serie di frecce appuntite alla perfe­ zione, naturalmente è vero. Ma Davide usò le pie­ tre della sua fionda contro Golia con effetto con­ siderevole. La precisione è una questione di grado, come Black disse nel suo saggio del 1937,“Vagueness”, in Philosophy of Science.

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Scritti

di semiotica, etica e estetica

1. Il problema generale della terminologia E un truismo che ogni indagine sui segni esistenti, oppure ogni proposta per l’uso futuro dei segni, è es­ sa stessa svolta in parte mediante segni che non sono a loro volta analizzati in quella particolare indagine. Distinguiamo queste due classi di segni, relative ad una determinata indagine, con i termini segno analiz­ zato e segno non analizzato. I segni non analizzati di una data indagine potrebbero essere quelli di una de­ terminata scienza, oppure potrebbero essere i termi­ ni del linguaggio ordinario in cui l’indagine viene svolta. Quindi un chimico italiano, nel proporre una terminologia per la chimica, potrebbe usare, senza analizzarli, termini usati nella fisica e parole come ‘esso’, ‘no’, ‘cosa’, ‘diventa’, ‘causa’, ‘produce’, ecc. La questione dell’adeguatezza dei termini non analizzati dipende dallo scopo per cui sono usati. Laddove lo scopo è quello scientifico di ottenere asserzioni sicure, è importante che i termini non analizzati siano tali che coloro che cooperano nel­ la indagine siano ampiamente d’accordo nell’applicare i termini in determinate condizioni. Quin­ di sulla base di tali termini non analizzati vengono analizzati i termini della scienza in questione, o completamente analizzati (“definiti”), come quan­ do sono asserite le necessarie e sufficienti condi­ zioni per la loro applicazione, oppure parzialmen­ te analizzati, quando sono asserite le condizioni sufficienti ma non necessarie per la loro applica­ zione attraverso l’uso dei termini non analizzati. In Segni, linguaggio e comportamento, si propone che i termini scientifici non analizzati della semio42

I. Segni di segni di segni tica siano tratti dalle scienze biologiche e fisiche, e che termini come ‘idea’, ‘mente’, ‘pensiero’ e ‘co­ scienza’ siano esclusi dai termini non analizzati a causa dei noti disaccordi contemporanei circa la lo­ ro applicazione. L’orientamento biologico di Segni, linguaggio e comportamento è perciò primariamente me­ todologico e non comporta una difesa del “comporta­ mentismo” contro il “mentalismo”, considerati l’uno e l’altro come dottrine psicologiche. Né esso implica che si debba iniziare con ratti o cani come alcuni miei critici sembrano insinuare; gli organismi di bambini o di filosofi andrebbero altrettanto bene. Segni, linguaggio e comportamento, quindi, consi­ dera non analizzati termini come‘organismo’,‘rea­ zione’, ‘muscolo’, ‘ghiandola’, ‘organo sensorio’, ‘bi­ sogno’,‘energia’, ecc. Naturalmente nel libro ci so­ no molti altri termini non analizzati: ‘comporta­ mento’, ‘prodotto’, ‘possibile’, ‘condizione’, ‘causa’, ‘influenza’, ‘arte’, ‘religione’, ‘situazione’, ‘lettore’ ecc. Alcuni di quest’ultimi termini sono combinat con i termini non analizzati tratti dalle scienze bio­ logiche e fisiche in modo da analizzare (parzial­ mente o completamente) i termini proposti per la semiotica, ma altri no. Quindi ‘causa’ e ‘condizione’ sono così impiegati; ‘comportamento’ è usato nel­ l’analisi preliminare di ‘segno’ (p. 16) ma non nel tentativo di dare un’analisi più precisa (p. 19). Poiché gli studiosi del comportamento differi­ scono quanto all’uso dei termini ‘stimolo’ e ‘rispo­ sta’, tali termini sono stati definiti (secondo Clark Hull). Altri quattro termini furono definiti:‘stimo­ lo preparatorio’, ‘disposizione a rispondere’, ‘se­ quenza di risposta’, e ‘famiglia di comportamento’ 43

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(‘comportamento’ non è impiegato nella defini­ zione di ‘famiglia di comportamento’). Con l’aiuto di questi termini c stata proposta una termino­ logia semiotica.‘Segno’ è stato analizzato parzial­ mente (ma non definito). Quindi venivano date le definizioni di ‘interprete’,‘interpretante’,‘denota— tum’,‘significatimi’,‘denota’,‘significa’,‘veicolo segnico’, ‘famiglia segnica’, ‘segnale’, ‘simbolo’, ‘lirisegno’, ‘ascrittore’, ‘designatorc’, ‘apprezzatore*• ‘prescrittore’, ‘formatore’, ecc. Schematicamente tale è la struttura terminologica di Segni, linguaggio e comportamento. A me sembra che il metodo impie­ gato per sviluppare questa terminologia sia scien­ tificamente esatto. Alcune delle critiche dirette al­ la terminologia sono fondate su una confusione fra i segni analizzati e i segni non analizzati nella mia descrizione, oppure su una confusione fra i se­ gni che svolgono un ruolo nello sviluppo della terminologia semiotica c quelli, invece, che non svolgono alcun ruolo. Queste confusioni fanno ri­ sultare la mia terminologia più incerta di quanto non autorizzino i fatti. Naturalmente c’c una mi­ riade di problemi legittimi e difficili che l’ulterio­ re sviluppo della semiotica deve affrontare. Lo stes­ so termine ‘segno’ può servire da esempio.

2. Quando una cosa deve essere chiamata un segno? Il nostro compito iniziale nell’analizzare ‘segno’ è asserire un insieme di condizioni secondo le qua­ li chiameremo qualcosa un segno. Se così facendo non procediamo arbitrariamente, ma teniamo un 44

I. Segni di segni di segni occhio aperto su quelli che spesso sono, in effetti, chiamati segni, troviamo che l’analisi diventa diffi­ cile. Le prime formulazioni degli studiosi del comportamento - che un segno è qualsiasi stimo­ lo sostitutivo, oppure che un segno è qualsiasi sti­ molo che influisce sulla risposta a qualche altro sti­ molo — furono considerate troppo semplici. La formulazione in Segni, linguaggio e comportamento incontra alcune delle difficoltà di formulazioni precedenti, ma è essa stessa piuttosto complessa e presenta nuovi problemi. Furono date nel libro due analisi parziali (non definizioni) di ‘segno’, la prima per un orienta­ mento preliminare, la seconda come un tentativo di muoversi verso una maggiore precisione. La prima formulazione (a p. 16) era la seguen­ te: “Se qualcosa, A, guida il comportamento verso un fi­ ne in un modo simile (ma non necessariamente identico) a quello in cui qualche altra cosa, B, guiderebbe il com­ portamento verso quel fine nel caso che B fosse osserva to, allora A è un segno”. Si ritenne che questa formulazione fosse ade­ guata a molti fini, ma che per fini sperimentali una formulazione più precisa sarebbe stata desiderabile in modo da chiarire i termini ‘similarità di compor­ tamento’ e ‘comportamento tendente ad uno sco­ po’. Una seconda formulazione, riconosciuta come probabile, fu proposta (p. 19): “Se qualcosa, A, è uno stimolo preparatorio, che in assenza degli oggetti stimola­ tori che inizino le sequenze di risposte in una certa fami­ glia di comportamenti (behavior-family), concorrendo cer­ te condizioni, dà origine in qualche organismo a una di­ sposizione a rispondere con sequenze di risposte di que45

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sta famiglia di comportamenti, allora A è un segno”. Questa formulazione, elaborata dopo mesi di discussione con Clark Muli, Edward Tolman, e al­ cuni dei loro collaboratori, non fa uso del termi­ ne ‘comportamento’, non richiede che un organi­ smo reagisca ad un segno come fa nei confronti di ciò che il segno denota, non esige identità di rea­ zione nella situazione in cui il segno appare e nel­ la situazione in cui esso non appare, e non richie­ de affatto nel momento stesso in cui qualcosa c un segno che vi sia una risposta (nel senso di reazio­ ni muscolari o ghiandolari). In questo, e in altri modi, a me sembrò, c ancora mi sembra, che segni un sostanziale passo in avanti. Ma il suo prezzo per questo è una complessità diffìcile da controllare. I critici hanno ritenuto che la precisione da essa introdotta in alcuni punti è messa in pericolo dalla mancanza di precisione di termini come ‘disposizione’ c ‘bisogno’ (un termine impiegato nella definizione di ‘sequenza di rispo­ sta’). Due anni di lavoro con la seconda formulazio­ ne mi hanno rivelato la sua inadeguatezza sotto al­ cuni aspetti. Concordo con Philip Blair Rice che forse sarebbe meglio evidenziare di più le reazioni e meno le risposte (quale tipo specifico di reazio­ ne). Sono d’accordo con Max Black che la relazio­ ne fra oggetto stimolatore e segno non è chiara nel­ la seconda formulazione; certamente non vogliamo pretendere che un segno (come ‘nero’) debba signi­ ficare soltanto oggetto stimolatore, e se la mia se­ conda formulazione fa questo, l’espressione ‘se­ quenza di risposta’ ha bisogno di essere modificata facendo cadere il riferimento a oggetti stimolatori 46

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(la prima formulazione certamente non richiede che i segni significhino soltanto oggetti stimolato­ ri). Sono d’accordo con Arthur Bentley che la se­ conda formulazione diventa difficile da controllare. 11 termine ‘segno’ ha chiaramente bisogno di una base migliore di quella che gli ho dato io, o di quel­ la che io sono capace di dargli. 3. Risposta a Black Black, un abile critico, in questa occasione fa un buco nell’acqua. Dunque egli “si stropiccia gli oc­ chi” a causa della vaghezza della parola ‘influire’ nella frase “influisce su una risposta a qualche altro stimolo”, e scocca questa freccia verbale: “Sarebbe assurdo dire che lo stimolo all’iniezione di morfina denoti un coniglio che deve ancora essere presenta­ to al cane o significhi la presenza di cibo. Né c’è la minima difficoltà nel generalizzare il punto: qualsia­ si stimolo che abbia una influenza causale sul com­ portamento successivo dovrà valere, se intendiarm alla lettera la definizione di Morris, come un se gno”. Ma il fatto è semplicemente che la frase “in­ fluisce su una risposta a qualche altro stimolo” è parte della definizione di ‘stimolo preparatorio’ e non una definizione di ‘segno’ in se stesso. Segni, lin­ guaggio e comportamento chiarisce che non tutti gli stimoli preparatori sono segni (p. 18) e usa alla pa­ gina 16 lo stesso esempio che usa Black di una dro­ ga che influisce sulle risposte a stimoli successivi come un motivo per non analizzare un segno come “qualsiasi stimolo che abbia qualche influenza cau­ sale sul comportamento successivo”. 47

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Black fa un gran chiasso intorno alla cosiddet­ ta circolarità e arbitrarietà della mia descrizione. La sua argomentazione è complessa e io non ten­ terò di riportarla in pieno. In sostanza egli asseri­ sce che il mio metodo è difettoso poiché il crite­ rio di significatività che io impiego non c in real­ tà empirico ma dipende da una preferenza nella scelta di un metalinguaggio. Nei termini di Black: Se i denotata associati con un insieme di stimo­ li preparatori sono tutti descrivibili per mezzo di un predicato disponibile nella lingua inglese (o qualsiasi lingua che il semiotico preferisce), gli stimoli saranno “segni”, altrimenti no. Giac­ ché non vi è nessun modo per identificare la “disposizione a rispondere” né la “famiglia di comportamenti”, se non trovando un insieme di denotata associati, la verifica della cosiddetta presentazione di un segno si riduce a quanto se­ gue: A è un segno, se c soltanto se le circostan­ ze che eliminerebbero i bisogni che motivano certe associate sequenze di risposte (oppure, più semplicemente, le circostanze a cui il segno c applicabile) possono essere descritte nella lingua in­ glese. Ma questo ci lascia nella impossibilità di discriminare fra senso e non-senso, oppure fra Pempiricamente significativo e il nonsensorialmentc nonvcrificabile, nel caso di segni apparte­ nenti alla stessa lingua inglese. Proprio nel mo­ mento in cui potremmo aspettarci che la semio­ tica diventi utile, in modi diversi da quello del­ la interpretazione speculativa del significato del­ le risposte di animali agli stimoli condizionati, la circolarità della intera procedura ci porta a fer­ marci (pp. 269-270).

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In questa argomentazione Black ha forse scuoiato un indiano, ma, a meno che le mie dita non mi ingannino, il mio scalpo è ancora intatto. Perché se­ condo la mia descrizione “un segno può significare, naturalmente, anche se non esiste una definizione di ciò che esso significa” (p. 28); io distinguo specifica­ tamente fra un significatimi e un signifìcatum for­ mulato. Forse Black in quanto logico è talmente abi­ tuato a lavorare con segni la cui significazione è già formulata in altri segni, da dimenticare che una teo­ ria dei segni deve fornirci i modi di scoprire empi­ ricamente ciò che un segno significhi. Egli effettivamente dice che, a meno che noi siamo in grado di formulare la significazione di un segno, il segno non può avere significazione — da qui la presunta relatività, del mio criterio di signi­ ficazione, a un metalinguaggio abbastanza ricco d formulare la significazione. E da qui la presur circolarità c arbitrarietà, giacché i segni nel mel linguaggio prescelto non avrebbero significazior, a meno che possiamo, a nostra volta, formulare loro significazione in qualche altro metalinguag­ gio prescelto. Ma secondo la descrizione data in Segni, linguaggio e comportamento, è abbastanza pos­ sibile per un segno avere significazione, senza che noi siamo in grado di formulare la significazione, o perché la nostra lingua non è ricca abbastanza, oppure perché la nostra indagine empirica sulla si­ gnificazione del segno non è andata abbastanza avanti. La procedura delineata ci dà un modo per ricercare la significazione di qualsiasi segno, inclu­ sa la significazione di segni in un dato metalin­ guaggio, purché non tentiamo di formulare la si49

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gnificazione di tutti i segni insieme. Il cosiddetto circolo vizioso si riduce al fatto innocuo che, in qualsiasi momento dell’indagine, vi sono alcune significazioni non analizzate e non formulate. E vero che in Segni, linguaggio e comportamento le “condizioni” svolgono un ruolo cruciale, e non sono analizzate. E anche vero che si farebbe bene ad analizzare questo termine. Ma il fatto che non sia analizzato non significa che sia privo di signifi­ cazione. Black, nella sua stessa descrizione, usa ‘cir­ costanza’ senza battere ciglio: la lingua inglese, che impieghiamo entrambi, spesso adopera entrambi i termini in simili “circostanze”©“condizioni”. Noi possiamo chiedere, e spesso lo facciamo, a quali condizioni e in quali circostanze una persona di­ venta il presidente degli Stati Uniti, o la dinamite esplode, o i filosofi scrivono libri. Non vedo la ra­ gione per cui noi “dobbiamo” analizzare questi termini nel parlare di segni. L’analisi e la ricostruione della nostra lingua inevitabilmente procedo­ no un po’ alla volta. Un’ultima e piuttosto secondaria considera­ zione. Black sostiene che “ ‘sequenze di risposte’ e ‘bisogni’ sono finzioni” — almeno in rapporto ai segni umani. Ma le sequenze di risposte sono am­ messe nell’approccio sia di Tolman sia di Hull. Black parla come se gli psicologi riconoscessero soltanto quei “generici ‘bisogni’ umani come cibo, sesso, gioco, e il resto”. Effettivamente “il resto” è una ampia classe, come mostrerà il riferimento al libro di Murray, Explorations in Personality. E men­ tre sarebbe bene tentare una riformulazione della semiotica in cui ‘bisogno’ non sia un termine ba50

I. Segni di segni di segni silare, è significativo che sia Tolman sia Hull, insi­ stano sull’importanza delle variabili intermedie nella psicologia, e impieghino bisogno come una tale variabile. Persino le elementari leggi dell’apprenderc sono asserite da Hull in rapporto alla ri­ duzione del bisogno. Se le sequenze di risposte e i bisogni sono delle finzioni, io almeno non sono stato responsabile della loro introduzione nello studio del comportamento umano.

4. // caso di Bentley Sebbene non mi sembri che Black abbia giustifi­ cato la sua accusa che il mio metodo sia errato, la sua critica è perlomeno mordace. Di Bentlcy pos­ so soltanto dire che la sua critica è perlomeno pro­ lissa. Mostrerò prima l’inaccuratezza di quello che egli presenta come una “descrizione” di Segni, lin­ guaggio e comportamento, e poi farò dei commenti nella seconda parte di questo scritto, sulle sue os­ servazioni generali. Nella sua seconda nota Bentley dice che userà la parola ‘definire’“casualmente e genericamente” come si dice che abbia fatto io. In Segni, linguaggio e comportamento, ‘definire’ è abbastanza preciso: è si­ nonimo di dare le condizioni necessarie e suffi­ cienti per l’applicazione di un segno;‘segno’ di per sé c detto espressamente non è definito (p. 253). L’uso casuale e generico di ‘definire’ da parte di Bentley è veramente essenziale per la sua strategia: evita la necessità di distinguere fra i termini defi­ niti nel libro, i termini parzialmente analizzati, i

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termini non analizzati presi dalla biologia e dalla fisica, e i termini non analizzati generalmente usa­ ti in inglese. Nell’abbattere questi ostacoli egli ha passato davvero una giornata divertente, eccitante, ma senza risultati. Prendiamo il termine ‘comportamento’. In Se­ gni, linguaggio e comportamento questo termine è par­ te di un vocabolario non analizzato del metalin­ guaggio inglese. Non è un termine analizzato nel linguaggio proposto per la semiotica e non è im­ piegato nel definire alcuni di quelli che Bentley si compiace di chiamare i miei termini “ufficiali” (è usato nella analisi preliminare di ‘segno’ ma non nella seconda analisi parziale di ‘segno’ alla quale Bentley si riferisce principalmente). Bentley offusca questo fatto con una tipica inaccuratezza nel suo ri­ ferimento a Segni, linguaggio e comportamento. Egli 'lice che ‘comportamento’ èy in effetti, usato nelle "finizioni del libro; e alla pagina 115 del suo artiio nella definizione di ‘sequenza di risposta’ egli stituisce arbitrariamente il termine ‘sequenze di ;posta’, con il termine ‘comportamento’. Ciò dà impressione al lettore che ‘comportamento’ sia un termine definito chiave, e che sia limitato alla “azione muscolo-ghiandola”. Questa sua negligen­ za travisa il libro che si dice egli “descriva”. Oppure consideriamo alla pagina 111 del suo articolo come si diverte per il mio uso delle finali di parola ‘ore’ e ‘uni’ (per distinguere ciò che signi­ fica da ciò che è significato). L’esempio che egli usa per illustrare la mia inettitudine è una citazio­ ne completamente erronea del testo: egli dice che secondo me un locatum è un segno, mentre la pa52

I. Segni di segni di segni

gina 72 che egli cita da Segni, linguaggio e comporta­ mento rende chiaro che solo la parafa‘locatum’ è un segno. Questo è lo stesso tipo di confusione che si verrebbe a creare nel dichiarare che qualcuno ha affermato che l’uomo è un sostantivo perché ha detto che il segno ‘uomo’ è un sostantivo. Tali superficiali descrizioni sono presenti in tutto il suo articolo. Alla pagina 125, egli dice che i formatori sono segni di segni; ciò è specificata­ mente negato alla pagina 151 di Segni, linguaggio e comportamento. A pagina 113 egli dà una presunta definizione di ‘reazione’, in riferimento alla pagi­ na 62 del mio libro; ma in questa pagina è defini­ to ‘stimolo’ c non ‘reazione’. A pagina 116 egli di­ ce che l’azione muscolo-ghiandola di per sé è considerata azione deliberata; Segni, linguaggio comportamento non dice niente del genere. A pa na 117 egli afferma che ‘comportamento di fa; glia’ è esso stesso “definito rispetto al compoi mento”; un’occhiata alle pagine 19 e 253 del 1 dimostrerà che ciò non è vero. A pagina 119 eg dice che la distinzione fra ‘segno’ e ‘veicolo segnico’ è “l’antica differenza che intercorre fra ‘signifi­ cato’ e ‘parola’ ribattezzata ma ancora davanti a noi in tutta la sua antica inspiegata grossolanità”; p. 250 di Segni, linguaggio e comportamento indica che la di­ stinzione intesa è quella fatta da Peirce con i ter­ mini ltype’ e ‘ token . Bentley ha altri due espedienti preferiti. Uno è quello di elencare una serie di parole non analizzate impiegate nel libro (‘sostituisci a’,‘a causa di’,‘inizia’, ‘controlla’,‘influisce in qualche modo’,‘determina’, ecc.), e poi dire, senza dare spiegazioni (come a pa53

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gina 122) che queste sono istanze della “insicurezza linguistica” di Segni, linguaggio e comportamento — pre­ sumibilmente perché non sono analizzate. Ma è ve­ ro che la lingua inglese è così insicura? Il secondo e più comune espediente è quello di riproporre il linguaggio del libro in modo tale che sembri comportare una congerie senza fine di entità sconnesse e reificate. Segni, linguaggio e com­ portamento definisce una risposta come una azione di un muscolo o di una ghiandola; poiché è im­ piegata la parola ‘azione’ invece di ‘reazione’, Bentley dice che questo “ha l’effetto di spingerla via in lontananza e di presentarla ‘per conto suo’ piutto­ sto die come una fase del processo semiosico” (p. 114). Poiché si dice degli organismi che essi sono disposti a vari tipi di comportamento, ci vien det­ to che “disposizioni e comportamenti sono quin­ ti messi l’uno contro l’altro” (p. 144). Si dice che faccio del comportamento “un comportamendell’organismo”, che faccio del segno “un de­ atante o significante magicamente trasformato”, le rendo volontari “muscoli e ghiandole che agicono per conto loro” (p. 123). Distorsioni del ge­ nere vengono spacciate come descrizione. Ogni distinzione fatta in Segni, linguaggio e comportamen­ to è vista da Bentley come una reificazione, una moltiplicazione non necessaria di entità sconnesse. Con queste varie strategie Bentley dà al letto­ re l’impressione che Segni, linguaggio e comporta­ mento sia un caos terminologico. Nella seconda parte del suo articolo, così congeniato, egli va al­ l’attacco finale. Il libro è messo all’indice come un’empia alleanza fra “una psicologia tendente ad 54

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uno scopo di livello dei ratti”, messa su “con po­ chi cambiamenti”, e “le ragnatele delle più vecchie logiche e filosofie”, un miscuglio di logore tradi­ zioni della meccanica newtoniana e di formalismi c dualismi filosofici. Quanto al primo membro di questa presunta mostruosità, è difficile vedere come il tentativo di usare ed estendere le analisi comportamentiste di Mead,Tolman c Hull debba impiegare una psicolo­ gia del livello dei ratti: tutti costoro hanno cercato di sviluppare una teoria generale del comporta­ mento che, certo, comprenderà il comportamento dei ratti c degli uomini ma, che pure rende conto delle loro differenze. Quanto a ‘meccanismo’, Segni, linguaggio e comportamento propone una esplicita di­ scussione di libertà (pp. 191, 284). Forse la lettura del libro da parte di Bentley è bloccata dal mero uso dei veicoli segnici ‘stimolo’ e ‘risposta’; forse egli pensa che ogni stimolo “meccanicamente” pro­ vochi una risposta. Ma non è questa la posizione del libro. Secondo la sua terminologia, ci possono essere stimoli senza risposte, e quando c’è una ri­ sposta ad uno stimolo, essa può essere dovuta in parte al modo in cui lo stimolo è stato significato. Perciò possono verificarsi sequenze di risposte che non sono mai apparse prima nel comportamento dell’organismo rispondente. La posizione di Dewey nell’articolo sul concetto di arco riflesso in psicolo­ gia, a cui Bentley fa riferimento come posizione che rende fuori moda il mio punto di vista, non è contraddetto in alcun punto del libro — né dal la­ voro di Tolman né da Hull. Quanto alle “ragnatele delle più vecchie logiche 55

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e filosofie”, la logica simbolica è presumibilmente una logica “più vecchia”, strano uso di termini; ri­ tornerò più tardi alla relazione fra la logica simbo­ lica e una semiotica comportamentista. Si suppone che il libro “sostenga la più vecchia visione mentalistica del pensiero” facendo del segno una terza “cosa” che interviene “fra” l’organismo e il mondo, e quindi “ripristini segretamente proprio ciò di cui si volevano liberare Peirce - ed anche James e De­ wey — che avevano impegnato buona parte della lo­ ro vita a questo fine”. Ora questa pretesa che io “abbia timore di mettere in contatto diretto ogget­ ti e organismi”, e interponga il fantasma delle “idee” fra di loro, è senza fondamento. Il fatto che il modo in cui gli organismi rispondono a qualco­ sa sia a volte, in parte, una funzione del modo in cui quella qualcosa è significata, non implica che si sia mai perso il contatto diretto fra organismo e mon­ do, o che i segni ricorrano sempre, o che, quando i pgni in effetti ricorrono, sia intervenuta una qualte “cosa” mentale o quasi-mentale. Quando il jmportamento è una funzione di una serie di vaabili, nessuna di queste variabili ha bisogno di es~re trasformata in una sostanza mentale frapposta, fra organismo e mondo. E del tutto arbitrario inter­ pretare Segni, linguaggio e comportamento in termini di un attenuato dualismo cartesiano. La mia stessa cosmologia - che non ho difeso nel libro stesso — è una versione del relativismo oggettivo. Ne viene presentata una breve descrizione nell’articolo, “Multiple Self and Multiple Society”, in Freedom and Experience: Essays Presented to Horace M. Kallen (Cornell University Press, 1947, pp. 70-77). 56

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La semiotica oggi è così poco sviluppata che una pluralità di concezioni diverse è auspicabile, anche all’interno di un quadro comportamentista. Io faccio i miei auguri a Bentley per la sua inizia­ tiva. Egli e Dewey hanno scelto di iniziare la loro analisi terminologica da un livello più basso di Se­ gni, linguaggio e comportamento. Ma nelle loro co­ struzioni o dovranno sviluppare una scienza del comportamento alternativa che convinca gli scienziati, oppure dovranno dimostrare come i termini base della teoria del comportamento esi­ stente possano essere definiti nei loro stessi termi­ ni. Nessuna semplice insistenza su “transazione” sarà sufficiente. Che ciò che accade, accade soltan­ to nei contesti, non ci libera dall’obbligo di parla­ re precisamente di ciò che, in effetti, accade nei vari contesti. Quando avranno elaborato la loro nuova semiotica abbastanza da poter trattare li teoria del comportamento già esistente, i segni ne mondo animale, i segni nelle scienze, nella logica, nelle arti e nelle religioni, e i segni nei disturbi della personalità, sarà istruttivo valutare i loro ri­ sultati. Nel frattempo non c’è niente da guadagna­ re da una totale distorsione di Segni, linguaggio e comportamento.

5. Interpretante e significatum Nelle note 57, 60 e 61 del suo articolo, Bentley riassume Dewey per concludere che la mia versio­ ne della semiotica è “un completo capovolgimen­ to di Peirce”. Segni, linguaggio e comportamento, tut57

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tavia, dichiara di essere “un tentativo di svolgere in modo risoluto l’intuizione di Charles Peirce che un segno dà luogo ad un interpretante e che un interpretante è in ultima analisi ‘una modifica del­ le tendenze di una persona verso razione’”. C’è qualcosa che non va. L’articolo in cui Dewey fa la sua accusa (“Peirce s Theory of Linguistic Signs.Thought, and Meaning”, Journal of Philosophy, voi. XLIII [1946], pp. 85-95) trattò soltanto della mia precedente monografia. Per questi e altri motivi non mi sembrava giusto rispondere all’analisi di Dewey nei termini della più completa trattazione di Segni, linguaggio e com­ portamento. Ma giacché la nota di Bentley mostra che Dewey non ha cambiato posizione in seguito Segni, linguaggio e comportamento, e giacché egli ìentley) asserisce che io ho “evaso” la questione allevata da Dewey, non sarebbe fuori posto fare qualche considerazione su Peirce. Ciò potrebbe ;ervire a chiarire in qualche modo ‘interpretante’, e ‘signifìcatum’— termini che, comprensibilmente, hanno dato noia a molti critici. Vorrei chiarire che la posizione sviluppata in Se­ gni, linguaggio e comportamento non partì da Peirce. George H. Mead fu il primo a stimolarmi a pen­ sare intorno ai segni dal punto di vista comporta­ mentistico. Segni, linguaggio e comportamento è sotto molti aspetti uno sviluppo ulteriore del libro di Mead, Mind, Self, and Society. Io non ho mai senti­ to Mead fare riferimento a Peirce durante le sue lezioni o conversazioni. Fu soltanto più tardi che ho incominciato a lavorare seriamente su Peirce, Ogden e Richards, Russell e Carnap, e ancora più 58

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tardi suTolman e Huil. Tutte queste persone han­ no influenzato in vari modi la formulazione di Segni, linguaggio e comportamento.Tuttavia, in prospet­ tiva storica, a me sembra che, per quanto il suo orientamento non sia derivato da Peirce, la posi­ zione di Segni, linguaggio e comportamento sia in ef­ fetti “un tentativo di svolgere in modo risoluto” il suo approccio alla semiotica. Ma Dewey dice di no. La sua argomentazione che io avrei capovolto la posizione di Peirce è in­ centrata sull’uso dei termini ‘interprete’ e ‘inter­ pretante’. Dewey asserisce che il mio errore fon­ damentale c la mia “gratuita introduzione di un interprete” (p. 86), e poi la “traduzione di ‘inter­ pretante’ con utente-persona” (p. 88), vale a dire con interprete. Secondo Dewey l’interpretante per Peirce è un segno che in un processo “fornisce si­ gnificato a quelli precedenti” (p. 89). È forse bene citare Dewey in maniera più esauriente: L’equivoco in questione consiste nel convertire V Interpretante, nel senso di Peirce, in un utentepersona o interprete. Per Peirce, ‘interprete’, se egli impiegò la parola, significherebbe ciò che in­ terpreta, dando con ciò significato ad un segno linguistico. Non credo si possa considerare enorme lo sdegno con cui Peirce tratterebbe la concezione secondo cui ciò che interpreta un determinato segno linguistico potrebbe essere lasciato alla fantasia o al capriccio di coloro a cui capita di usarlo. Ma da questo fatto non conse­ gue che Peirce sostenga che l'interpretante, ciò che interpreta un segio linguistico, sia un “og­ getto” nel senso di una “cosa” esistenziale. Al

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contrario, l’interpretante, nell’uso di Peirce, è sempre e necessariamente un altro segno lingui­ stico — o, meglio, un insieme di tali segni. Il se­ guente brano ne è strettamente rappresentativo: “Tutto sommato, allora, se per significato di un termine, di una proposizione, o di un argomen­ to noi intendiamo tutto l’interpretante general­ mente inteso, allora il significato di un argo­ mento è esplicito. È la sua conclusione; mentre il significato di una proposizione o di un termi­ ne è tutto ciò che quella proposizione o quel termine potrebbero contribuire alla conclusione di un argomento dimostrativo” (p. 87). In Segni, linguaggio e comportamento un interpre­ te è un organismo per il quale qualcosa è un se­ gno, un interpretante è una disposizione in un in­ terprete a rispondere in certi modi a causa di un segno (p. 26), e una disposizione a rispondere è‘‘lo stato di un organismo in un dato momento, tale 'he, concorrendo certe altre condizioni suppleìentari, la risposta abbia luogo” (p. 18). Infine, Quelle condizioni che permetterebbero allargam­ mo di rispondere nel modo in cui è disposto a ri­ fondere a causa del segno, sono la significazione (il significatimi) del segno. La questione ora è se la posizione di Segni, lin­ guaggio e comportamento sia in accordo sostanziale con la dottrina di Peirce oppure è, come sostiene Dewey, una falsificazione della dottrina di Peirce. Per rispondere a ciò dobbiamo chiamare in causa le parole di Peirce. Peirce stesso impiega il termine ‘interprete’. L'interpretante — sia esso emozionale, energetico, o

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logico - è l’effetto di un segno su un interprete. Perciò Peirce indaga su “l’esatta natura dell’effetto essenziale sull’interprete, effetto veicolato dalla se­ miosi del segno e che costituisce l'interpretante logico” (Collected Papers, V § 484). La risposta che egli dà quanto alla natura dell’interpretante logico e la seguente (ibid., § 476): “Diremo forse che questo effetto può essere un pensiero, vale a dire un segno mentale? Senza dub­ bio può essere così; ma, se questo segno fosse di ti­ po intellettuale — come dovrebbe essere —, dovrà a sua volta avere un interpretante logico; cosicché non può essere l’interpretante logico ultimo del concetto. Si può dimostrare che l’unico effetto mentale che può essere prodotto come interpre­ tante logico ultimo (e che non è un segno di nient’altro, se non di una applicazione generale) è un mutamento di abito. S’intende con mutamento di abito la modificazione della tendenza di una per­ sona verso l’azione”. Peirce è in qualche modo in­ fastidito dai termini mentalistici in questa descri­ zione e “per liberare il segno dai suo legami con la mente”, egli osserva che “l’abito non è in alcun modo esclusivamente un fatto mentale” (ibid., § 492). “La disposizione ad agire in un certo modo in date circostanze e per un dato motivo è un abi­ to” (ibid., § 480). Un abito è “la tendenza a com­ portarsi effettivamente in un modo simile in cir­ costanze simili nel futuro”. Egli parla dell’abito persino come una “disposizione a rispondere ad un dato tipo di stimolo in un dato tipo di modo”. L’uomo attraverso “reiterazioni fantastiche” di un tipo di condotta desiderato “produce abiti, esatta61

Scritti di semiotica, etica e estetica

mente come le reiterazioni nel mondo esterno; e questi abiti avranno il potere di influenzare il comporta­ mento effettivo nel mondo esterno” (ibid., § 487). Nei termini di queste citazioni posso soltanto concludere che la posizione di Segni, linguaggio e comportamento è senz’altro molto vicina a quella cJi Peirce piuttosto che essere un capovolgimento della sua posizione. Entrambi parlano degli effet­ ti dei segni sugli interpreti, entrambi descrivono gli interpretanti in termini di tali effetti, entram­ bi considerano l’interpretante come un effetto su un interprete, tale che l’interprete tenda ad agire in un certo modo, ricorrendo certe circostanze, quando è mosso da una determinata necessità. Se­ gni, linguaggio c comportamento usa i veicoli segnici ‘disposizione a rispondere’, ‘rispondere’, ‘condi­ zioni’,‘necessità’; Peirce usa i veicoli segnici ‘ten­ denza ad agire’,‘agire’,‘circostanze’,‘motivo’. En­ trambi usano i termini che Bentley trova così di­ scutibili: ‘persona’, ‘comportarsi’, ‘produrre’, ‘in­ fluenzare’, ‘modificare’, ‘effettuare’, ‘costituire’. Dov’è la differenza essenziale nelle due descrizio­ ni? Dove Segni, linguaggio e comportamento capo­ volge Peirce? E ancora necessario spiegare come Dewey sia stato indotto alla sua interpretazione di Peirce. Pen­ so che un’ambiguità nel termine ‘interpretante’ di Peirce ci dia la spiegazione: a volte, come sopra,‘in­ terpretante’ indica un certo tipo di effetto di un se­ gno su un interprete (una tendenza all’azione), ma spesso significa ciò che ho chiamato la significazio­ ne (significatum) del segno (le circostanze in cui una persona potrebbe rispondere com’essa è dispo62

I. Segni di segni di segni sta a rispondere a causa del segno). È a questo se­ condo uso di ‘interpretante’ che Dewey si riferisce quando egli dice che secondo Peirce l’interpretan­ te non è qualcosa di esistenziale, bensì un insieme di segni. Forse un esempio migliore è questo enun­ ciato di Peirce: “l’interpretante logico è generale nelle sue possibilità di riferimento (cioè si riferisce a, o è in rapporto con, qualsiasi cosa possa corri­ spondere a una descrizione generale definita)’’ (ibid., § 486). Formulare questo “qualsiasi cosa’’ in altri segni, vuol dire dare ciò che Peirce chiama il significato di un particolare “interpretante logico’’ - e questo processo può continuare all’infinito. Dewey, isolando questo aspetto della terminologia di Peirce, scrive che“i segni in quanto tali sono col­ legati soltanto con altri segni”. Non ne consegue nemmeno allora che il riferimento ad un interpre­ te sia “gratuito”, perché se ci si chiede - come fa anche Peirce - qual è l’effetto su un interprete che non è un segno, quando un segno ha una certa si­ gnificazione, si può sostenere senza contraddire Peirce - e d’accordo con Segni, linguaggio e compor­ tamento — che questo effetto è una tendenza di ef­ fettive persone ad agire in un certo modo quando si diano certe condizioni. Dewey stesso ha scritto qualcosa di simile. Nella sua Logic, pp. 48-49, egli dice della lettura di un trattato scientifico: “nella misura in cui si raggiunge un definito e fondato ac­ cordo o disaccordo, si forma un atteggiamento che è una disposizione preparatoria ad agire in un mo­ do rispondente quando le condizioni in questione o altre simili effettivamente si presentino”. La distinzione fra i due usi di Peirce di ‘inter-

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Scritti

di semiotica, etica e estetica

pi-ctante’ è fatta in Segni, linguaggio e comportamento9 nella distinzione fra ‘interpretante’ e ‘significatimi’Ritengo che la descrizione data sopra spieghi — e dissipi mediante spiegazione — la tesi di Dewey che io avrei rifilato una versione posticcia di Peircc ad un pubblico fiducioso. Potrei aggiungere che questa distinzione toglie la forza anche all’accusa piuttosto simile da parte di John Wild che la posizione di Segni, linguaggio e comportamento sia “soggettivistica”. Nella sua anali­ si, Wild dice che “non possiamo significare alcuna cosa che non sia un complesso che comporti le nostre proprie risposte c i nostri propri fini sog­ gettivi”. Ma ciò confonde l’interpretante con il significatum. Segni, linguaggio e comportamento am­ mette che ciascuno “comporti” l’altro (p. 27); Wild riporta ciò erroneamente dicendo che ognuno “appartiene” all’altro. 11 fatto che un segno signifi­ chi soltanto quando vi c una disposizione a ri­ spondere da parte dell’interprete, per cui è un se­ gno, non significa che sia la disposizione (l’inter­ pretante) ad essere significata. Il libro — come a p. 28 — è abbastanza esplicito a riguardo.

6. Lo status della disposizione a rispondere Molte delle critiche mosse nei confronti di Segni, linguaggio e comportamento sono incentrate sul ter­ mine ‘disposizione’. Non ho fatto uso di questo termine in formulazioni precedenti. E stato intro­ dotto per poter dire che una cosa determinata è un segno e ha significazione, anche quando l’orga64

1. Segni di segni di segni nismo non dà nessuna risposta. Supponiamo, per esempio, che un passante mi chieda indicazioni per la stazione di Pennsylvania, e che io gli dica ‘dritto avanti fino alla 32a strada e poi due isole a sinistra’. Nel momento stesso in cui sente queste parole, egli non gira a sinistra, eppure noi normal­ mente diremmo che le parole per lui sono “se­ gni”. Segni, linguaggio e comportamento esprime que­ sta situazione dicendo che il passante “ha la dispo­ sizione a rispondere” in un certo modo a causa delle mie parole, vale a dire che le parole mutano lo stato del suo organismo in modo tale che, data la necessità di arrivare alla stazione della Pennsyl­ vania, egli camminerà dritto avanti e volterà a si­ nistra, quando avrà visto il cartello stradale con so­ pra scritto ‘32-* strada’. La critica comune è duplice: il primo gruppo è incentrato sulla nozione stessa di ‘disposizione’, l’altro sulla questione se sia possibile o meno otte­ nere prove quanto all’esistenza o non esistenza di una disposizione a rispondere. I predicati di disposizione sono naturalmente molto comuni nel linguaggio quotidiano. La carta è infiammabile, le vaccinazioni rendono le perso­ ne immuni da alcune malattie, l’elastico sul tavolo ha elasticità, lo zucchero nella coppa è solubile, la dinamite è esplosiva, una certa persona è flemma­ tica, una certa sbarra di ferro è magnetica, e via di­ cendo. In ciascuno di questi casi si dice che qual­ cosa, in un determinato momento, è in uno stato tale che, date altre condizioni determinate, reagirà in questa o in quella maniera. Non vedo nessuna difficoltà nel distinguere fra ‘la disposizione alla ri65 ì

Scritti di semiotica, etica e estetica

sposta X’ e ‘la risposta X’ che non sia presente nel distinguere fra ‘infiammabile’ e ‘bruciante’. Io cre­ do che nessuno dei miei critici suggerisca di met­ tere da parte tutti i termini disposizionali, e non mi sembra che qualcuno di essi abbia dato un mo­ tivo valido quanto alla ragione per cui il partico­ lare termine disposizionale ‘disposizione a rispon­ dere’ sia discutibile, mentre altri termini disposi­ zionali non lo sono. Se alcuni dei miei lettori aves­ sero qualche generico dubbio circa i termini di­ sposizionali, suggerisco che essi prendano in con­ siderazione l’analisi di Carnap di tali termini in “Testability and Mcaning” (Philosophy of Science, volumi III e IV, 1946 c 1947), l’analisi di Steven­ son di ‘disposizione’ in Lìtica e linquaqgio, c la di­ scussione di Tolman e Hull sulla posizione delle variabili intermedie in psicologia. Occasionalmente c’è qualche protesta sul fatto che io non abbia riferito quale sia lo stato dcll'organismo quando è disposto a rispondere al qual­ cosa a causa di un segno, vale a dire che cosa sia l’interpretante in quanto stato organico. Ho fatto ciò deliberatamente. Io non lo so. Il problema è empirico e la sua soluzione attende lo sviluppo della semiotica come scienza empirica. In ogni modo, ciò non significa che una semiotica scienti­ fica non possa progredire finché non sia risolto questo problema. Passarono secoli di studi fecondi sui magneti prima che fosse data una spiegazione dello stato magnetico molecolare. Chissà che non sia la stessa cosa per la semiotica. Dato che non do una descrizione biologica dello stato di un organismo per cui qualcosa sia un 66

I. Segni di segni di segni segno, non è corretto presumere, come fa Rice, che devo voler intendere con questo stato qualco­ sa di statico. Qualsiasi cosa esso sia, è senz’altro im­ mensamente complesso e dinamico. Secondo Rice potrebbe essere primariamente un processo neurale circolare, una posizione che è stata suggerita da una serie di teorici in questi ultimi anni e su cui ora si sta indagando in un lavoro molto atteso del neurologo e psichiatra Warren S. McCullough. Io sono propenso a credere che questa sia una strada promettente. Ma il problema appartiene alla scien­ za sperimentale, e non sarebbe stato nello spirito del mio libro anticipare la risposta. In questo cam­ po siamo appena agli inizi. E possibile, tuttavia, ottenere prove circa la presenza di interpretanti anche se non li possia­ mo descrivere neurologicamente e fisiologica­ mente — così come il magnetismo è stato studia­ to prima che fosse descritto lo stato magnetico. In Segni, linguaggio e comportamento sono discussi diversi tipi di prove (pp. 22-23), e poiché nessu­ no dei miei critici ha preso in esame specificata­ mente l’analisi lì data, io non mi sento in dovere di riaprire l’argomento. Forse una cosa si può di­ re. Scrive Peirce:“Ma in quale altro modo un abi­ to può essere descritto, se non attraverso una de­ scrizione del tipo di azione a cui esso dà luogo, con la specificazione delle condizioni e del mo­ tivo?” (Collected Papers,V, § 491). Nella misura in cui le cose stanno così, le prove della presenza di un abito si possono trovare osservando se, dati determinati condizioni e motivi, viene eseguito il tipo di azione in questione. Infatti, queste sono le

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prime prove discusse in Segni, linguaggio e compor­ tamento. Ma possiamo andare molto più lontano. Una volta che abbiamo questo genere di prove, possiamo iniziare a studiare lo stato deH’organismo che agisce in tal modo in quelle circostanze, e a mano a mano che raggiungiamo tali cono­ scenze otteniamo una nuova fonte di prove delia presenza di abiti anche nell’assenza di un com­ portamento manifesto. Questo è stato il corso dello sviluppo nello studio del magnetismo, della solubilità c deH’immunità. Non c detto che una semiotica che inizi con risposte manifeste debba rimanere per sempre a quel livello descrittivo. Ma per il momento la descrizione macroscopica è il nostro necessario ancoraggio. 7. Logica c semiotica Lo scritto di Eiaine Graham, “Logic and Scmiotic”, ci servirà da base per alcune osservazioni su uno dei più difficili (e più interessanti) problemi che una semiotica basata sulla biologia deve af­ frontare: essa può comprendere la logica formale o simbolica? Il capitolo VI di Segni, linguaggio e com­ portamento ha suggerito, anche se in maniera di­ chiaratamente sperimentale ed esplorativa, una ri­ sposta positiva. Ciò significa che costanti logiche ed enunciati logici stabiliscono disposizioni a ri­ spondere come fanno i segni non-logici. Natural­ mente, ciò non richiede, come presume la critica di questa posizione da parte di Bronstein, che si debba sempre dare una effettiva risposta nelTinterpretare un segno logico (o non-logico). 68 É

I. Segni di segni di segni Lo scritto di Graham considera in primo luo­ go la relazione fra l’analisi comportamentale di al­ cuni formatori in Segni, linguaggio e comportamento e l’analisi della loro significazione data dalle tavo­ le della verità della logica simbolica. Graham si propone di dimostrare, e penso che ci riesca, che quando siano risolte alcune ambiguità nel libro, le “due formulazioni sono realmente equivalenti”. Il mio unico dubbio in merito è se la sua interpre­ tazione dei formatori in termini di “modellamen­ to della denotazione” (oppure “modellamento de­ gli interpretanti”) possa applicarsi a tutti i forma­ tori (come ‘non’ e ‘alcuni’) o soltanto a connettivi come ‘e’ e ‘o’. La seconda parte del suo saggio tratta il crite­ rio proposto in Segni, linguaggio e comportamento per gli ascrittori formativi (enunciati analitici e con­ traddittori). Questo criterio è stato così formula­ to: “Un ascrittore formativo è un ascrittore compo­ sto, tale che la denotazione di uno o più degli ascrittori componenti (chiamati ascrittori anteceden­ ti) risulti, a causa della significazione dell’ascrittore, una condizione sufficiente per la denotazione o per l’assenza di denotazione dell’ascrittore o degli ascrittori componenti che rimangono (chiamati ascrittori susseguenti) e quindi per la denotazione o assenza di denotazione dello stesso ascrittore com­ posto” (p. 160). Graham dimostra come questa formulazione non sia soddisfacente. Alcune delle difficoltà da lei riscontrate derivano soltanto dall’idea che forse si è fatta del criterio, dove, cioè,‘antecedente’ è inte­ so come ‘prima’ e ‘conseguente’ come ‘dopo’. Di

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conseguenza, Graham sostiene che ‘John è mio fi­ glio ed io sono il padre di John’ sarebbe, secondo questo criterio, un ascrittore formativo analitico, giacché se ‘John è mio figlio’ denota, allora sono soddisfatte le condizioni affinché‘Io sono il padre di John’ possa denotare, e dunque sono soddisfatte anche le condizioni affinché l’enunciato compo­ sto possa denotare — eppure questo enunciato composto non è ciò che s’intende normalmente per enunciato analitico. Se questa maniera d’interpretare ‘antecedente’ e ‘conseguente’ sembra in qualche modo forzata, il criterio, com’era formulato, era certamente difet­ toso in quanto non specificava che la relazione in­ tesa era quella dell’implicazione (v. p. 31 di Segni, linguaggio e comportamento per il termine ‘implicato’ e p. 166-167, per la concezione che gli enunciati nalitici comportano una relazione implicata). In ?ni modo, l’esempio dato nel libro mostra che il ifetto nella formulazione non era accidentale jensì il risultato di un’analisi inadeguata da parte mia. Così questa freccia di Eiaine Graham colpisce un punto vulnerabile. Piuttosto che tentare di affinare il criterio pre­ cedente (pur potendolo fare con successo), penso ora che la via più semplice per uscirne sarebbe quella di assumere i criteri di enunciati analitici e contradditori formulati dai logici simbolici, e ten­ tare di definirne gli aspetti sulla base di termini del­ la semiotica fondati sulla biologia. Se si facesse ciò, tutta la logica simbolica verrebbe fatta rientrare al­ l’interno di una semiotica “comportamentale”. E in ciò, teoricamente, non vedo alcuna difficoltà. Car70

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I. Segni di segni di segni nap, per esempio, in Meaning and Necessity, p. 10, de­ finisce un ‘enunciato L-vero nella lingua S,’ in ter­ mini di ‘regge in ogni descrizione di stato in S,\ Una descrizione di stato è “una classe di enunciati in S, che contiene per ogni enunciato atomico o questo enunciato o la sua negazione, ma non am­ bedue, e non altri enunciati” (p. 9). Quindi egli dà (alla p. 10) le regole per stabilire se un determinato enunciato “regga” in una descrizione di stato. Se potessimo definire‘enunciato’,‘enunciato atomico’, ‘negazione’, e ‘regge’, nel vocabolario di Segni, lin­ guaggio e comportamento, ed identificare ‘L-vero’ con ‘ascrittore formativo analitico’, tutta la terminolo­ gia e il metodo d’analisi di Carnap diventerebbero parte della semiotica così come è stata sviluppata nel libro. Questo ci porta alla terza domanda di Eiaine Graham, se gli ascrittori formativi analitici deno­ tino necessariamente (e siano così necessariamen­ te “veri”). La sua risposta è affermativa; Segni, lin­ guaggio e comportamento ha risposto di no sulla base generale che, per il modo in cui la semiotica è lì costruita, la significazione in quanto tale non comporta mai la denotazione. Ciò che ora appare chiaro è che il problema è di natura terminologi­ ca e dipende da come ‘denotare’ viene definito. Nella costruzione di Graham ‘ascrittori formativi analitici denotano’ è di per sé, come lei ammette, un ascrittore formativo analitico, così come nella terminologia di Carnap ‘un enunciato-L è vero’ è di per sé L-vero. Comunque, nella mia terminolo­ gia, dire ‘X denota’ implica ‘c’è o c’era o ci sarà qualche y tale che...*; di conseguenza ho sostenu71

Scritti di semiotica, etica e estetica

to che ‘x è un ascrittore formativo analitico’ che implica ‘x denota’. Graham mette in dubbio che io abbia ragione a causa del singolare “modellamen­ to di interpretanti” che si presenta negli ascrittori formativi analitici. Potrebbe avere ragione su que­ sto punto. La morale che ne consegue c che dob­ biamo fare attenzione a non confondere le varie costruzioni della semiotica, e, in ogni data costru­ zione, a non confondere gli ascrittori formativi con altri tipi di ascrittori. Questa è la ragione per cui l’assiomatizzazione della semiotica dev’essere svolta con molta più attenzione di quanto non sia in Segni, linguaggio e comportamento. Qui la semioti­ ca ha bisogno dell’aiuto della logica formale. Un punto finale sulla relazione fra logica e se­ miotica. La logica formale non è una teoria della significazione, ma un’analisi di determinate o pro­ poste significazioni. (Ciò non implica natural­ mente che un logico formale non abbia anche una teoria della significazione). In quanto tale, la logica formale è compatibile con varie teorie del­ la significazione — con un’analisi sia platonica sia comportamentale. Il logico formale, quindi, non ha alcunché da temere dai tentativi di definire i termini basilari della logica formale in termini di una semiotica fondata sulla biologia. Lo stesso Peirce era l’erede di una lunga tradizione che concepiva la logica come parte della semiotica. Egli stesso, e giustamente, non vedeva alcun con­ flitto fra il suo lavoro come logico formale e la sua analisi dei segni, incluse le tendenze verso il com­ portamento. E la semiotica, come è stata sviluppa­ ta in Segni, linguaggio e comportamento fornisce una 72

I. Segni di segni di segni

base entro un unico sistema per l’analisi logica delle significazioni dei segni e per la ricerca di ciò che accade a quegli interpreti per i quali i segni hanno significazione. Non cercherò ora di salire ancora più in alto sulla scala semiotica. Avrei voluto dire qualcosa a proposito dell’estetica alla luce dei commenti di Philip Blair Rice, W.K. Wimsatt e David Rynin. E avrei voluto discutere la “fenomenologia” platonica dei segni di John Wild, c la relazione del pragmati­ smo con la semiotica. Ma per il momento c meglio che queste disposizioni a rispondere aspettino. La nostra discussione c stata limitata ai proble­ mi di base. 1 miei critici, nella loro qualità di filo­ sofasi sono giustamente concentrati su questi pro­ blemi, c hanno fatto su Segni, linguaggio e comporta­ mento un’analisi davvero molto attenta. Per questo li ringrazio. Indubbiamente, non ho reso piena giustizia ai loro argomenti nel mio tentativo di di­ fendere la generale validità di Segni, linguaggio e comportamento. Le numerose frecce verbali che ab­ biamo lanciato in attacco e in difesa testimoniano che siamo d’accordo almeno sulla fondamentale importanza della semiotica nella ricostruzione del pensiero contemporanco.

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Appendice

Dopo aver scritto le precedenti considerazioni, ho vi­ sto il manoscritto di L.O. KattsofF“What is Behavior” [Philosophy and Pltenomcnological Research, voi. IX, 1948, pp. 98-102|, e ho letto due analisi che mi erano sfuggite: lo scritto di George Gentry,“Signs, Interpretations, and Significata” [Journal of Philosophy, voi. XLIV, 1947, pp. 318-324], e la recensione di Virgil C. Aldrich nello stesso fascicolo (pp. 324-329). KattsofF sostiene che ammettere “qualcosa all’in­ terno dell’interprete” significa introdurre “idee”. Poiché egli non spiega che cosa intende con ‘idea’, non è chiaro ciò che egli desidera aggiungere con questo termine a ‘interpretante’ così come è definito in Segni, linguaggio e comportamento. La sua pretesa che è soltanto “domandando ad una persona ed ascoltan­ do la sua risposta” che possiamo scoprire se per un ssere umano esiste un interpretante o un’idea, e gli opi per cui qualcuno usa un determinato segno, a ìe sembra sbagliata. E vero che noi usiamo rapporti nerbali come prova della significazione dei segni e degli scopi per cui i segni sono prodotti. Ma le per­ sone possono mentire e possono avere segni la cui si­ gnificazione non possono formulare con esattezza e fanno uso di segni per scopi di cui sono inconsape­ voli; riconoscere questo significa ammettere che esi­ stono prove oltre ai rapporti verbali, attraverso le quali possiamo controllare l’affidabilità dei rapporti verbali stessi. La terza pretesa di KattsofF- che il di­ scorso metafisico è lessicativo e non formativo - non può essere discussa giacché egli non ha precisato ciò che intende con “discorso metafisico”. Le pagine precedenti hanno messo in chiaro che 74

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I. Segni di segni di segni

io non sono, come suggerisce Gentry, “vincolato ad una teoria motoria” dcll’intcrpretantc in opposizio­ ne ad una teoria corticale. Non credo, tuttavia, che sia impossibile il lavoro scientifico nello studio dei segni, finché non si determini qual è lo stato dell’organismo quando qualcosa è un segno; ottimi lavori in linguistica, per esempio, sono stati compiuti senza che si sia data una risposta a quella domanda. La sua seconda tesi principale - che il significatum di un se­ gno c esso stesso un processo corticale — sorge dal suo tentativo di rispondere alle domande “Che tipo di entità c un significatum? A che cosa si riferisce il termine?”. Ritengo che questa formulazione del problema sia fuorviarne. E vero che ho asserito che “un segno deve significare” c che “un segno signifi­ ca un significatum”. Ma questi ascrittori, nel linguag­ gio di Segni, linguaggio e comportamento, sono ascrittori formativi e non lessicativi;“un segno ha significa­ zione un segno significa significatum” sono ascrittori formativi equivalenti. Perciò ricercare un’“entità” a cui “si fa riferimento” neH’ascrittorc “il segno x significa un significatum” — a prescindere dal fatto se l’entità sia o meno un processo corticale - si­ gnifica correre il rischio di confondere aH’intcrno della semiotica stessa il discorso lessicativo con il di­ scorso formativo. Se evitiamo questo pericolo, il pro­ blema è meramente quello di come descrivere ciò che differenzia un dato segno da altri segni. Non cre­ do che si debba dare questa descrizione unicamente nei termini dei processi corticali che hanno luogo. Di conseguenza non vedo la necessità di identificare la significazione di ‘nebula a spirale’ con qualsiasi processo corticale che avviene quando il termine è un segno per qualcuno, o di dire che il termine “si riferisce” a tali processi. È per queste ragioni che non

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ho identificato ‘interpretante’ con ‘significatimi’ (‘si­ gnificazione’). Forse Gentry ha in mente una semio­ tica più semplice in cui sono implicati meno termi­ ni basilari. Una tale semiotica sarebbe benvenuta; non sono stato capace di costruirne una che non sembrasse offuscare importanti distinzioni. Nella sua recensione, Aldrich individua il proble­ ma della differenziazione dei modi di significare. So­ no d’accordo con Aldrich che la mia descrizione la­ scia molto a desiderare, ma non credo che egli abbia toccato le difficoltà principali, né che il suo stesso suggerimento di una distinzione Fondamentale fra segni evocativi e cognitivi fornisca la soluzione. La sua accusa che io non analizzi effettivamente i modi di significare, ma soltanto le diverse cose significate — cosicché resterebbe un solo modo di significare, il designativo - non è convincente per due punti: i modi di significare sono distinti, infatti, in base a tipi differenti di interpretante (cosicché possiamo signifi­ care lo stesso oggetto in modi differenti, designativamente, apprezzativamente, ecc.), e in secondo luogo, Aldrich usa ‘designa’ in un modo più ampio del mio, forse come equivalente del mio termine‘significa’, lo non direi in ‘x è buono’ che ‘buono’ designa x, anche quando x è buono, poiché ‘designa’ è limitato ai se­ gni che significano caratteristiche casualmente effi­ caci di oggetti.‘X è buono’è apprezzativo, soltanto se qualcuno è disposto ad accordare un comportamen­ to preferenziale a X a causa del segno ‘buono’; dire che “a y piace x” non è apprezzativo di x ma desi­ gnativo di y in relazione a x. Così nella mia termino­ logia il modo apprezzativo (e prescrittivo e formati­ vo) di significare non si riduce al designativo. Secon­ do la mia descrizione, c’è, per usare i termini di Al­ drich, un aspetto “evocativo” e “cognitivo” dei segni 76

I. Segni di segni di segni in tutti i modi del significare; separarli e farne la ba­ se per una classificazione dei modi di significare vuol dire, secondo me, ritornare allo stato di analisi rap­ presentato nella vecchia dicotomia di significato “emotivo” e “referenziale”. Certamente la mia de­ scrizione ha bisogno di essere migliorata, ma io cre­ do che essa indichi una direzione in cui gli apprez­ zativi e le prescrizioni hanno un carattere “cogniti­ vo” che è controllabile dalle prove, e che tuttavia ri­ mangono distinti nella significazione e nel controllo empirico dalle affermazioni designativc. Se questa iniziativa può essere sviluppata in modo soddisfacen­ te possiamo mangiare sia la torta offertaci dai prag­ matisti sia quella offerta dagli empiristi logici. Per conto mio, ho abbastanza appetito per desiderarle entrambe.

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IL L’estetica e la teoria dei segni*

Premessa** L’estetica non ha fatto parte dei miei interessi pre­ minenti, ma da essa sono stato periodicamente at­ tratto per evidenti ragioni: la natura e la relazione dei segni e dei valori hanno rappresentato per molti anni il fuoco del mio lavoro filosofico. E poiché l’arte, indubbiamente, è in qualche modo legata sia al significato (nel senso di significazione) sia al valore (nel senso di signifìcanza), essa rappre­ senta un decisivo terreno di prova per una teoria generale dei segni e dei valori. All’estetica ho do­ vuto dunque periodicamente ritornare.

“Esthctics and thè Thcory of Signs”,Journal of Unijìed Scietice,\/\\\, 1939, pp. 131-150. fQui di seguito, le no­ te asteriscatc - tranne nel caso in cui si danno indica­ zioni diverse — sono dell’edizione originale della tra­ duzione di Rossi-Landi, che qui si riproduce, quelle numerate sono dell’Autore (N.d.C.)]. [Questa premessa fu scritta appositamente da Morris per la pubblicazione in italiano in Nuova Corrente, 1967, n. 42-43; traduzione dall’inglese a cura di Ferruccio Rossi-Landi di questo saggio e del seguente (N.d.C.)). 79

Scritti di semiotica, etica e estetica

I due articoli qui tradotti rappresentano il mio pensiero passato e presente sulla natura dell’arte. Il lettore interessato può desiderare di completarsi col capitolo V (“Arte, segni e valori”) del mio volume Signification and Significarne* (pubblicato nel 1964 dal Massachusetts Institute ofTechnology Press). Problema centrale è se un’opera d’artc_p_Q$sa esser vista come segno iconico che significa -cerei valori incorporandoli in se stesso. Il segno iconico è un. segno, avente esso stesso le proprietà che si­ gnifica.. Tale segno significa anche se non denota così il disegno di un centauro significa un anima­ le del tipo rappresentato nel disegno anche se di fatto nessun centauro esiste. Un segno iconico ci presenta dunque una possibilità; e ciò che viene, presentato.iconicamente può esistere o non esistere “nel mondo reale”. Esso è dunque sempre presentativo, anche quando non è rappresentativo di m oggetto o di una situazione effettivi. E se un se­ no iconico significa un valore esso presenta o in)rpora in se stesso il valore significato. Ne deriva he un’opera d’arte, in quanto segno iconico, posiede insieme significato e valore (vale a dire signi­ ficazione e significanza), indipendentemente dal suo denotare o no una qualsiasi esistenza effettiva.

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[Per la traduzione italiana, v. Morris 1988 e 2000 (N.d.C.) ].

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II. L’estetica e la teoria dei segni 1. Approccio generale La teoria dei segni (semiotica) offre un terreno fa­ vorevole per la considerazione e la fondazione di molte discipline, il cui rapporto è da tempo sentito ma le cui relazioni, reciproche e con le scienze na­ turali, non sono state semplici da stabilire; tali disci­ pline comprendono la logica, la matematica, la lin­ guistica e l’estetica. In questo articolo mi propongo di tracciare le linee più vaste di un possibile approc­ cio all’estetica nei tcrmini della teoria dei segni1.

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La formulazione della semiotica adottata in questo saggio e contenuta nella mia monografia l:oundations of thcTIicory of Signs, University of Chicago Press, 1938. Questa monografia costituisce il n. 2, voi. I della Inlcrnatiotiai Encyclopcdia of Unifted Science (trad. it. Lineamenti di una teo­ ria dei segni,Torino: Paravia, 19632 (1954'), pp. XXVII164; la più recente edizione italiana e del 2009, v. Morris 1938c). La posizione assunta nei confronti dclPartc con­ corda in tutti i suoi punti essenziali con la formulazione data da John Dewey in Art as Bxpcricncc (Minton, Baldi and Co., New York City, 1934), specialmente quando la si veda nel contesto della concezione meadiana dcH’“atto” (Georges H. Mead, 77te Philosophy of theAct, Univer­ sity of Chicago Press, 1938). È mia convinzione tuttavia che l’estetica concepita in termini pragmatici (e a questo proposito, oltre alle opere di Dewey e di Mead, si deve ricordare il volume di Stephen C. Peppcr, Aesthetic Quality, Scribners, New York City, 1937) possa ricevere una formulazione molto più precisa (anche se non altrettan­ to gradevole), e che la sua relazione con l’intero edificio della scienza possa esser vista molto più chiaramente, se la si affronta nei termini d’una teoria dei segni. LA. Rjchards, con il suo Priticiples of Literary Critidsm (London, 1924) e con altre opere, e stato un pioniere nello svilup­ po di questo approccio all’arte. 81

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SCR.ITT1 DI SEMIOTICA, ETICA E ESTETICA

Da tale punto di vista l’opera d>arte_yiene.QQD£e.pita come segno che, ad accezione del più semplice caso limite, è esso stesso una struttura di segni. Il pro­ blema diventa allora quello di stabilire la dijjerentia del segno estetico*; tale differenza può trovarsi o nel tipo di cose che funzionano come segni estetici, _o nel tipo di oggetti designati, o (come verrà qui pro­ posto) inuna_^qmbinazione dei due tipi. L’opera d’arte così concepita deve essere distinta dal veicolo che serve come base per la struttura segnica. Dewey usa le espressioni ‘opera d’arte’ e ‘prodotto artistico! per indicare tale distinzione; occasionalmente ricor­ reremo anche noi a queste espressioni; ma quando la precisione è necessaria sono da preferirsi le espressio­ ni ‘segno estetico’ e ‘veicolo segnico estetico’. LLope.ra d’arte in senso stretto (vale a dire il segno esteti­ co) esiste solo in un processo di interpretazione che può essere chiamato percezione estetica; la formulazione del problema centrale dell’estetica può dunque essere, altrettanto. bene, anche questa: che si cerca la _difì'ereji!ia dc\h percezione estetica. Una soluzione generale del problema, qualunque sia la formulazio­ ne prescelta, determinerebbe il dominio dell’arte o dell’esperienza estetica, mentre la delimitazione del­ le varie arti sarebbe definita nei termini di classifica­ zioni operate dentro al campo dei segni estetici. pCanalisi estetica diventa allora un caso speciale del­ l’analisi segnica e il giudjzio_estetico un giudizio_sull’adeguatezza con la quale un certo veicolo segnico *

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Cioè, ciò che caratterizza il segno estetico in quanto diverso da tutti gli altri; ciò che fa sì che il segno este­ tico sia tale.

II. L’estetica c la teoria dei segni compie la funzione caratteristica dd-5j;gRQ„C5tg,ticQ. L'estetica diventa a sua volta la scienza dei segni este­ tici, o, nella formulazione alternativa, la scienza della percezione estetica - percezione_essa_^ssajQrrnuJabile soltanto.in termini di funzionamento segnico. Così l’estetica diventa nella sua. totalitLun_settore della semiotica; e il suo posto nel sistema delle scien­ ze risulta determinato allorché si stabilisce quello della semiotica. Tale è, in breve, il punto di vista che i paragrafi seguenti svilupperanno.

2. Semiotica Sarà utile dare qualche indicazione circa l’uso di alcuni fondamentali termini semiotici che ricorre­ ranno costantemente in questo articolo. Una (Situazione segnici,'o processo 3ì~ seniiosil è qualsiasi situazione in cui una cosa si rende conto di qualcos’altro, che non esercita direttamente mazipne causale, attraverso la mediazione di un terzo qual­ cosa. In tal modo il processo segnico è un processo di “rendersi-conto-mediatamente”*. Un certo fi­ schio induce a reagire come se un treno, altrimenti non percepito, si stesse avvicinando. 11 suono allora significa, per la persona che ode il fischio, un treno che si avvicina, dò. che agisce in qualità di segno Mecliatcd-taking-accoutil-of. Le parole ‘rendersi-contomediatamente’ debbono sempre essere intese come sintagma unitario esprimente il processo segnico, an­ che quando per ragioni stilistiche esse vengono stac­ cate Luna dall’altra. 83

Scritti di semiotica, etica e estetica

(vale a dire funziona in maniera significatoria) viene mediatamente» compiuto dz\Y(fnèrprete^ jnjerjjretantej -g-Ciò-di-CuLsi tiene conto mediatamente, fièsignatum} Per definizione un segno deve designare .(“avere. un designatum”), ma esso può non denotare effettiva­ mente alcunché (“può non avere denotata”). Può avvenire che si tenga conto di un treno che si avvi­ cina (agire come se un treno si avvicinasse) mentre di fatto non vi sono treni in moto; in questo caso il suono udito designa ma non denota (“ha un designatum ma non ha denotata”). Un designatami dun­ que è una classe di oggetti in quanto determinati da certe proprietà definienti; e, come classe, può essere senza membri; i denotata sono i membri, se ce ne so­ no, di tale classe. Le relazioni dei veicoli segnici con ciò che vie­ ne designato o denotato si chiamano dimensione seInaiiltea della semiosit lo studio di questa dimensione\sviiiaiitica',\c relazioni dei veicoli segnici con gli interpreti s| chiamano dimensione i)ragmdfica~~drlktsaniósii e il suo studio,pragmatica', le restanti rclazioni semioticamente importanti, quelle dei veicoli segnici con altri segni, si chiamano dimensione sin­ tattica della semiosi, e lo studio di questa sintattica. La semiotica, quale scienza generale dei segni, com­ prende così le scienze subordinate della sintattica, della semantica e della pragmatica. Un segno è analizzato esaurientemente quan­ do risultano specificati i suoi rapporti con altri se­ gni, con ciò che denota o può denotare e con_i suoi interpreti. La specificazione di tali rapporti in casi concreti di semiosi si chiama analisi segnica. 84

II. L’estetica e la teoria dei segni

Questi argomenti sono discussi più diffusa­ mente nei Foundations of thè Theory of Signs: il dia­ gramma che segue può esser d’aiuto nel fissare questi usi terminologici. SERIOSI DIMENSIONE SINTATTICA DELLA SEMIOSI

DIMENSIONE SEMANTICA DELLA SEMIOSI

Jeiignatum, dcnotanim



«Ieri veicoli

legnici

T A

veicolo icgnico

t

r



DIMENSIONE PRAGMATICA DELLA SEMIOSI

j—►

interpretarne, interprete

SEMIOTICA sintattica

semantica

pragmatica

3. Teoria del valore Se la teoria dei segni è uno dei fondamenti su cui erigere il tipo di estetica propostola teoria del vajprgè fon da men to a 11 retta nto necessario2, dato che sosterremo che i designata dei segni estetici sono valori, o meglio proprietà di valore. Non è questa l’occasione per sviluppare o difendere una teoria del valore; affinché la natura dei soggiacenti pre­ supposti risulti chiara, c però essenziale indicare il tipo di approccio che verrà seguito. Fortunamente lo si potrà fare in forma breve, dato che esiste

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I.A. Richards:“I due pilastri sui quali deve poggiare una teoria della critica sono un’interpretazione del valore e un’interpretazione della comunicazione” (Principia of Litemry Criticistn, Londra, 1924, p. 25). 85

Scritti di semiotica, etica e estetica

VaUjC-S'

una abbondante letteratura che si occupa della teoria de) valore, ^.ome interessamento \imcrest thcory of vaine], ed è questa teoria, in special modo nella forma sviluppata da Dewey c da Mead, che viene qui presupposta3. Sfondo questo approccio generale uiffvnlonjè una proprietà relativa a un interesse di un oggetto o situazione, vale a dire la proprietà di soddisfare o portare a termine un atto che richiede per il proprio compimento un oggetto con tale proprietà. C’è un interesse per il cibo fin quando si dà un’at­ tività che ricerca oggetti che fan cessar la fame. Cercare tali cose significa agire in una maniera che porterà oggetti aventi le proprietà richieste entro il campo della stimolazione diretta. L’oggetto ha valore di cibo solo in rapporto alla fame;‘valore’(co­ me ‘magnetico’) si riferisce a relazioni, nell’ambito di. un sistema e caratterizza proprietà di oggetti rispetto a interessi; il valore non dcye venir-localizzato negli oggetti separati dagli jntercssi e neppure negli interessi (e quindi non negli aspetti “emozio-

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Vedi di R.B. Perry, Generaniieory of Vaine, New York City, 1926, nonché i saggi in International Journal of Etliics, Ì93\, Journal of Pliilosophy, 1931 e Philosophical Rcvicw, 1932; J. Dewey, Essays in Experiniental Logic, Chicago, 1916, pp. 349-389, e 77te Quest for Certainty, New York City, 1929, cap. 10; G.H. Mead, 77/c P/iilosoplty of thcAct, Chicago, 1938. Si può anche fare rife­ rimento alla monografia di prossima pubblicazione, Tlieor)> of Valuation, di J. Dewey, nel secondo volume della International Encyclopedia of Unifted Science, Chica­ go, 1939.

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II. L'estetica e la teoria dei segni

nali” degli interessi durante il processo del soddisfa­ cimento) S£parati_daglLoggetti.che^perniettoxLO_il soddisfacimento degli interessi medesimi. I valori SQno proprietà soddisfattive di oggetti o situazioni • che rispondono al compimento di atti-interessati4. _Parlare in termini di valore, pertanto, è consi­ derare le cose “sotto Paspetto dell’interesse” — per usare l’efficace espressione di R.B. Perry. E le pro­ prietà di cose considerate in tal modo non sono più “soggettive” in senso scientificamente spregia­ tivo di quanto lo siano le proprietà di altro campo o sistema, come colore, forza magnetica, velocità, o perfino massa. E vero che la scienza ricerca co­ noscenze intersoggettive e che molti interessi so-

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Interessanti problemi sono legati alla questione del rapporto fra le teorie dei segni e una siffatta teoria oggettivamente relativistica del valore. Potrebbe esser desiderabile usare ‘segno’ nel definire ‘interesse’; si darebbero in tal modo due sistemi connessi in modo tale che il loro contatto reciproco sia necessario per la sopravvivenza di ognuno di essi; ma difficilmente ciò potrebbe esser descritto in termini di interesse, a meno che il sistema in questione ricercasse altro e conducesse la propria ricerca in termini segnici. La versione deH’“atto” data da Mead e quella dell’in­ teresse” data da Perry comportano ambedue il fun­ zionamento di segni; invero le due concezioni sem­ brano essere in fondo pressocché le stesse. Se è pre­ feribile definire ‘interesse’ in termini di ‘segno’ (e ov­ viamente in altri termini), allora nel sistema delle scienze l’assiologia dipenderebbe dalla semiotica e l'estetica sia dall'assiologia sia dalla semiotica. È solo la seconda dipendenza che qui ci interessa, e non la relazione della semiotica con l’assiologia. 87

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Scritti di semiotica, etica e estetica

no altamente instabili e poco diffusi; ma c anche vero che molti interessi (e quindi valori) sono co­ stanti in alto grado e forse comuni a tutti gli esse­ ri viventi, e che la conoscenza delle peculiarità de­ gli individui può essere intersoggettiva - come di­ mostrano, per esempio, la “psicologia individuale” e la teoria del soggettivo di Mcad. Non vi c nulla in questa teoria oggettivamente relativistica del valore5 che renda impossibile una seie11 za delf as­ siologia; a termini come ‘buono’ o ‘migliore’ si può dare una precisa significazione empirica, tale da_rispondcrc a|le esigenze più rigorose della teoria dei segni e della metodologia della scienza.

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Potremmo osservare che per varie ragioni Dewey preferisce usare il termine ‘valore’ in un senso più ristretto di quanto sia stato fatto qui, e usare termi­ ni quali ‘oggetto di gradimento’ nel senso più vasto (vedi Tltc Quest far Ccrtainty, cap. 10). Così per lui chiamare una cosa buona o apprezzabile non è solo dire che essa è gradita, o che è oggetto di interesse, ma asserire o predicare che essa “risponderà”, servi­ rà per risolvere la situazione problematica in cui c’è conflitto di desideri. Questa è a mio avviso un’ac­ centuazione legittima, congeniale a tutta la filosofia di Dewey; ma non mi sembra che essa comporti una differenza di principio — poiché in ultima analisi quei fattori che risolvono conflitti o desideri (valo­ ri di livello più basso) hanno valore (a un livello più elevato) solo relativamente all’interesse per la solu­ zione di tali conflitti.

II. L’estetica e la teoria dei segni 4. Il segno estetico Lo studio scientifico delle proprietà di valore non è, tuttavia, il traguardo dell’artista, né la teoria generale del valore è di per sé un’estetica. La comprensione dell’arte e l’identificazione dell’estetica richiedono una peculiare fusione del materiale trattato nella teo­ ria dei segni e in quella del valore - peculiare in quanto mentre l’assiologia usa segni per parlare di valori, tali segni non sono essi stessi estetici. Qual è dunque la dHìercntia del segno estetico? A questo problema è possible accostarsi distinoli segn _ guendo li die sono simili a (cioè hanno proprietà in comu­ ne con) ciò che denotano e quelli die. HQlUo sono. Li possiamo chiamare segni iconici ej.cg)iUlOUzicsm/q; i vari tipi di segni non-iconici non riguardano il problema in esame. La regola semantica per l’uso di un segno iconico è che esso denota qualsiasi oggetto che abbia le sue stesse proprietà (in pratica una scelta di esse). Quindi un interprete quando ap­ prende [apprelietnlsy un veicolo segnico iconico, apprende direttamente ciò che viene designato6; in

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Usiamo ‘apprendere’, in corrispondenza ad ‘appren­ sione’, per indicare un processo che non è un mero percepire senza, tuttavia, richiedere il peso filosofico dell’appercepire. Ma forse non tutto il valore di ciò che viene designato, giacché un segno iconico può avere altre fasi di designa­ zione al di là di quelle determinate dal suo carattere ico­ nico. Un uomo dipinto non è pienamente un uomo, e non tutto ciò che il quadro designa è esposto nel quadro 89

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Scritti di semiotica, etica e estetica

questo caso ha luogo un rendersi conto sia media­ to sia non mediato di certe proprietà; per usare al­ tri termini ancora, ogni segno iconico ha il proprio veicolo segoicQ fra i suoi denotata Tali fatti, presi isolatamente, non delimitano il segno estetico, giacché cianografie, fotografie e modelli scientifici sono tutti segni iconici — ma ra­ ramente opere d’arte. Nel caso, tuttavia, in cui il designatum di un segno iconico sia un valore (c naturalmente non tutti i segni iconici designano valori) la .situazione cambia: non si ha ora soltanto la designazione di proprietà di valore (una tale de­ signazione ha luogo anche nelle scienze), né solo il funzionamento di segni..iconici (non occorre che questi, come tali, siano segni estetici); si ha ora la diretta apprensione di proprietà di valore me­ diante la presenza proprio di ciò che possiede csjo stesso il valore che designa7-Tale funzionanienI o segnico risponde a ini carattere sovente osser'ato dcH’csDcrienza estetica; l’opera d’arte viene ^}Drcssa^^i udicAtaxoniel iigmficati vai' o ‘ ‘ sigmfi cante”. e tuttavia questo suo carattere sembra esser contenuto nell’opera - cosicché_ la percezione estetica è legata all’opera e non.se ne serve sempli-

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all’osservazione diretta.Tali considerazioni sono di parti­ colare importanza in letteratura, dove l’aspetto iconico e quello non-iconico del funzionamento segnico sono ambedue così preminenti; esse, collocate qui in secondo piano per ragioni di semplificazione, complicano ma non alternano l’avanzato criterio del segno estetico. La qualificazione della nota precedente è importante anche in questo caso.

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II. L’estetica e la teoria dei segni

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cernente come di un trampolino per l’evocazione di so^mi e ricordi. Questo intero carattere di “si­ gnificato immanente”, di stato “significativo ma non referenziale”, di “interesse disinteressato” — formulazioni che sembrano tanto contraddittorie - si spiega col fatto che nell’apprensione del segno iconico ci si rende conto di certe proprietà sia me­ diatamente sia non mediatamente; e l’uso frequen­ te, anche se confuso, di ‘significato’ in discussioni sull’arte per esprimere sia la significazione sia la significanza* indica che nel caso dei segni estetici (sebbene non nel caso di tutti i segni iconici) le proprietà in questione sono proprietà di valore. -A_CQiifernia della condizione_segnica_ddfope.xa d’arte si può osservare un’altra cosa: l’artista at-tira soventi^ l’attenzione sul veicolo segnico. in mortiL&.le da impedire all’interprete di reagire ad .esso come a un mero oggetto.anzid)é.XOme_a>UD se uno: i quadri vengono incorniciati, parte della tela è a volte lasciata deliberatamente scoperta, la rappresentazione ha luogo su di una scena in cui sono visibili vari accorgimenti tecnici, il musicista esegue di fronte al suo pubblico - tali sono alcuni dei mezzi impiegati per impedire quella forma di illusione per cui il veicolo segnico non viene di­ stinto dai denotata. ~ veicolo segnico (con le qualificazioni già accenna­ te) è uno dei estetica esso deve venir realizzato come tqle: i due

[Ingl. significattce, tradotto in questo volume sia con “significanza” sia con “significatività” (N.d.C'.)].

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Scritti di semiotica, etica e estetica

elementi,_yale_a_dire non devono andar confusi; il valore_devejdsuItare esposto .all’ispezione diretta, e tuttavia anche_iadicaio_da. segni.

5. La percezione estetica Per via del fatto che l’opera d’arte è un segno e come tale esiste solo in un processo di semiosi, c giacché l’interpretazione di un segno è essenziale per quel che genericamente si intende per‘perce­ zione’, a quanto abbiamo appena affermato in ter­ mini di segni possiamo affiancare un altro discor­ so fatto in termini di percezione di segni estetici, cioè di /percezione estetica8. Come premessa si può osservare che, mentre non ogni elemento di un veicolo segnicQ.Jia da essere„un jsegno esso stesso, iié tutti gli aggregati di segni costituiscono un segno unico, quelle combinazioni segniche_chc seguono una regolajJ’uso costruita sulle regole dei, veicoli segnici £Qmponcnti sono esse stesse segni. Nel caso di segni ico­ nici complessi, la struttura scgnica che costituisce il segno iconico può essere o non essere essa stes­ sa composta di segni iconici. Così una struttura matematica, essendo una struttura relazionale, può venir vista come un segno iconico che designa la classe delle strutture simili — e tuttavia nessuno dei singoli veicoli segnici componenti ha da essere

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Dewey usa questo termine in Art as Expcrience; la no­ zione di esperienza estetica come processo percettivo attivo è centrale nella sua posizione.

II. L’estelica e la teoria dei segni iconico, e invero per lo più non lo è. Quando si tratta di un segno estetico a nico per definizione — sembra che alcuni almeno ■dei singoli veicoli segnici componenti debbano essere segni iconici e avere, almeno parzialmente, . Questa —formulazione vaga e generale9 può esser resa un •Polpiù concreta se si considera la.semiosLestetica -complessa nei terni in i dell’ inter:pxe te._peidpi.ente. Quando si osserva un quadro o si ascolta musica o si legge una poesia, so di riferimenti nel quale un aspetto deH’opera ^à_onguie_ad_esigenze e aspettative che vengono soddisfatte, o parzialmente soddisfatte, da altri .asp^iài_qiiali^.a loco .voi ta, operano in modo con­ simile — e in questo processo il carattere del tutto viene costruito in ragione del carattere delle sue parti. Una certa serie di note in svolgimento de­ termina in una qualche misura le note successive;

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È vaga e generale in parte perché siamo ai meri inizi di una teoria semiotica dell’estetica, e in parte perché il suo chiarimento richiederebbe un esame del modo in cui i segni non-iconici funzionano nel discorso estetico, il che a sua volta è connesso ai problema del­ la differenziazione semiotica delle varie arti. Sovente nella formazione dell’icone complesse operano forme secondarie di simbolismo; così le note di una partitu­ ra musicale e le parole di una poesia stampata sono ac­ corgimenti per chiamare in vita il genuino veicolo segnico estetico - toni nel caso della musica e forse to­ ni e interpretanti del simbolismo sussidiario nel caso della poesia. Il ‘forse’ sta ad indicare la complessità dei fenomeni operanti nella semiosi estetica. 93

Scritti di semiotica, etica e estetica

un certo tipo di rima nelle parti iniziali di una poesia dà origine ad aspettative quanto al tipo di tratto da incontrarsi altrove. In tale percezione estetica è operativa una complessa struttura scgnica;e l’interprete (compreso il creatore) svolge una complessa attività percettiva, passando dall’ima al­ l’altra parte dell’oggetto artistico, rispondendo a certe parti come segni di altre e costruendo una risposta totale (e così un oggetto totale di perce­ zione) nei termini di risposte parziali. In questo processo i segni non-iconici giocano la loro parte come in ogni processo percettivo; ciò chcLjdlQkr renzia la percezione estetica .dalle a 1 tre atti vita percettive c il fatto che la percezione c rivolta^ proprietà di valore che sono direttamente incoi*poratc (anche se, forse, incorporate solo parzial­ mente) in taluni dei veicoli segnici iconicijacenti parte del complesso scgnico totale. Ciò di cui ci si rende conto attraverso il segno estetico com­ plesso è quindi una proprietà di valore complessa, parzialmente indicata dalle proprietà di valore dei vari veicoli segnici componenti, mentre altri segni di tipo non-estetico o addirittura non-iconico servono come simbolismo secondario per la for­ mazione del veicolo segnico estetico o per dirige­ re l’attenzione da una parte all’altra di esso in mo­ do tale che l’effetto diventa cumulativo ed emer­ ge l’icona totale. Nella percezione estetica si tiene conto delle proprietà di valore sia mediatamente.sia immediata­ mente: mediatamente in quanto i veicoli segnici usa­ ti incorporano in se stessi, in varie misure, le proprie­ tà di valore che presentano. In tale percezione il vei94

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II. L’estetica e la teoria dei segni colo segnico non è usato semplicemente quale-stru­ mento tzut

me occasione per la sognante contemplazione del -Vaiiiisuiidicaca; la percezione estetica, in quaatLQ..percezione. si concentra su oggetti, e discerne. anche se solo parzialmente, nell’oggetto stesso ciò che esso signilka.Jn questo processo ha luogo un soddisfaciil valore sigmhcato; ma il soddisfacimento è in altro senso inco.mp_k.tQ».giacché è mediato da segni,.e.sp.css£L£kiegni che non sono essi stessi iconici di ciò che signi­ ficano o lo sono solo in parte — e l’opera d’arte co­ me totalità resta tuttavia un segno. La.percezione estetica, presente in una qualche jnisura in tutte luppata; e il reame delle opere d’arte indefinita­ mente esteso. L’artista è la persona capace di fog­ giare oggetti in modo tale che la percezione este­ tica ne sia facilitata, intensificata e perfezionata; ma, in stretto senso, c’è un’opera d’arte ogni qual­ volta un qualcosa sia oggetto di percezione esteti­ ca - e in questo senso non c’è nulla che fino ad un certo punto non possa diventare un’opera d’arte. Non si danno inedia che l’arte non possa utilizza­ re - neppure il processo del vivere. £ quando la vi­ ta stessa diventa un’opera d’arte, è superata l’oppo­ sizione fra arte e vita (fra valori indicati esteticamente e attività mirante al controllo e al possesso diretto di valori).

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Scritti di semiotica, etica e estetica

6. Generalità estetica L’esposizione fatta considera l’opera d’arte alla stregua di un segno singolo che, a parte il banale caso limite*, è composto di segni componenti una complessa struttura segnica. Ma se l’opera d’arte è essa stessa un segno, allora, per definizione ha un desi guatimi. Una tale dottrina sembra imbattersi nelle opposizioni incontrate dalle teorie estetiche della “imitazione” o “rappresentazione”; siccome la così detta “arte astratta” sembra la più lontana dalla posizione suggerita, essa costituisce un luogo utile per la discussione. Dal punto di vista della semiotica, l’arte astrat­ ta è solo un aspetto del fenomeno della generalità segnica10. Un segno può essere generale sotto nu­ merosi aspetti. Un processo di semiosi può essere messo in moto da uno qualsiasi fra un certo nu­ mero di veicoli segnici; i veicoli segnici ammissi­ bili possono venire interpretati da un certo nume­ ro di interpreti con vari processi interpretativi; il processo dell’interpretazione può venir soddisfatto da un certo numero di oggetti o situazioni, di mo­ do che il segno possiede una pluralità di denotata. In tal modo una poesia può essere stampata o let­ ta ripetutamente, e dalla stessa o da più persone; nella vita della stessa persona in momenti diversi,

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In cui il segno c singolo, cioè non decomponibile in parti. 10 Vedi Foundatiotis of the Tficor)' qf Sigtis, sezione 13; e la discussione di Dewey sull’arte astratta in Art as Expcriencc, in particolar modo le pagine 93-94 e 100-101. 96

II. L’cstctiai c la teoria dei segni

o nella vita di diverse persone, ci può essere un certo numero di episodi cui la poesia è riferibile e che sono quindi dei denotata della poesia.Tale ge­ neralità ha vari gradi, e l’arte astratta è semplicemente un caso estremo di alta generalità di riferi­ mento semantico: la generalità dei segni iconici componenti e del segno iconico totale è così ele­ vata, che la loro sfera di possibili denotata è vastis­ sima. Anche se la complessità dell’icona totale è talmente grande che nessun denotatum (all’infuori dello stesso veicolo segnico estetico) è rintrac­ ciabile effettivamente, l’opera d’arte continua a poter essere considerata un segno — giacché si può dare designazione senza denotazione. A questo punto un raffronto dclfartc astratta con la matematica può essere chiarificatore. L’arte astratta ha col linguaggio totale dell’arte un rap­ porto simile a quello della matematica col linguag­ gio totale della scienza. Dato che un sistema mate­ matico viene comunemente considerato puramen­ te formale e sintattico, a prima vista questa tesi sembra dar corda all’opinione che tale arte non ab­ bia dimensione semantica. È vero, naturalmente, che ci si può occupare dell’esposizione della strut­ tura di un sistema linguistico (o possibilmente tale) e non di stabilire quali situazioni, se ne esistono, siano denotata del sistema. Cionondimeno può ben darsi che la struttura del sistema stesso sia sta­ ta in origine suggerita da qualche altra struttura esistente oppure parzialmente modellata su di essa (come il rapporto della geometria euclidea con i corpi solidi della comune esperienza). E anche la struttura formalizzata risultante da ultimo ha carat97

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Scritti di semiotica, etica e estetica

tere semantico, dato che le relazioni fra i suoi ter­ mini limitano la scelta delle regole semantiche adoperabili nell’assegnare significati empirici alle espressioni componenti; il sistema matematico de­ signa la classe delle strutture che gli sono simili e denota qualunque struttura gli sia simile di fatto — sebbene di fatto possa non esserci alcun denotatum aH’infuori dei veicoli segnici del sistema stesso. Allo stesso modo, gli elementi usati nell’arte astratta hanno dimensioni semantiche varie e dif­ fuse: l’opera d’arte presa come un tutto è una strut­ tura segnica che designa la classe degli oggetti o si­ tuazioni aventi le sue stesse caratteristiche — solo che in questo caso le caratteristiche pertinenti so­ no proprietà di valore e l’opera denota qualsiasi soggetto o situazione che ha di fatto tali proprietà; anche qui può avvenire che non vi sia alcun deDtatum all’infuori del veicolo segnico stesso. Ci >no certo delle differenze, per esempio nel fatto che mentre tutti i veicoli segnici componenti del sistema matematico possono essere non-iconici, ta­ luni fra quelli del sistema estetico debbono esserlo; ma in ambedue i casi i sistemi come totalità sono iconici e hanno dei designata — e quindi una di­ mensione semantica - nello stesso senso. Ammettere che si possano costruire segni pri­ vi di denotata (o, nel caso di segni iconici, senza al­ cun denotatum oltre i propri veicoli segnici), si può aggiungere, libera l’artista (e lo scienziato) da quella rappresentazione letterale del mondo effet­ tivo che una siffatta estetica semioticamente fon­ data potrebbe a tutta prima suggerire; la creatività dell’artista è così completamente al riparo. Proprio 98

II. L’estetica e la teoria dei segni

come lo scienziato può sviluppare teorie comples­ se cui manca una contropartita nella realtà, ma che servono a integrare il materiale a disposizione per suggerire nuove ipotesi da sottoporre a prova, co­ sì l’artista può costruire elaborate strutture segniche i cui elementi siano pervasi dei valori di mol­ te cose c che tuttavia come totalità presentano un complesso di valore non realizzato altrove — e que­ sta struttura può non solo servire a integrare valo­ ri esistenti, ma anche suggerire possibilità per l’in­ serimento della struttura di valore che è stata crea­ ta dentro alle situazioni e ai problemi della vita quotidiana.

7. Analisi estetica Se l’opera d’arte viene concepita come segno estetico, segue che l’analisi estetica è un caso par­ ticolare di analisi scenica. E, dato che un segno viene esaurientemente caratterizzato quando se ne danno le componenti e relazioni sintattiche, se­ mantiche e pragmatiche, lo stesso può dirsi per l’analisi dei segni estetici. Entro il campo generale della semiotica distinguiamo l’estetica o semiotica estetica, e in corrispondenza alle suddivisione del­ la semiotica possiamo distinguere la sintattica esteti­ ca, la semantica estetica e la pragmatica estetica; ciascu­ na di esse ha la sua parte pura e descrittiva — cioè la sintattica estetica pura elaborerebbe il linguaggio in cui parlare della dimensione sintattica dei segni estetici, mentre ogni caso effettivo di analisi di questa dimensione di un segno estetico sarebbe un 99

Scritti di semiotica, etica e estetica

esempio di sintattica estetica descrittiva. Poche pa­ role riguardanti ciascuna delle tre suddivisioni principali dell’estetica saranno qui pertinenti, giacché queste, unitamente alle loro interrelazioni, costituiscono il campo della semiotica estetica.

8. Sintassi estetica La sintassi estetica ha per compito l’elaborazione di un linguaggio applicabile alle interrelazioni sin­ tattiche o “formali” dei segni estetici. Essa ha col discorso estetico la relazione che la “sintassi logi­ ca” nel senso di Carnap11 ha col discorso scientifi­ co: sono entrambe suddivisioni del campo ancor :ù vasto della sintattica, che si occupa delle rela­ mi sintattiche di tutte le forme del discorso - e te e la scienza sono solo due di tali forme. Dache la sintassi logica (la sintattica del discorso cientifico) è la parte meglio sviluppata della sin­ tattica, essa offre un fertile campo di proposte per lo sviluppo della sintattica estetica (la sintattica del discorso estetico). Così i concetti della sintassi lo­ gica (quali le regole di formazione e trasformazio­ ne, i termini e gli enunciati primitivi, la relazione di conseguenza, la relazione di probabilità, la di­ mostrazione, la derivazione, il valido, il contro-va-

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R. Carnap, Philosophy and Logicai Syntax, London, 1935; Logicai Syntax of Langttage, Londra, 1937; Foundations of Logic and Mathematics, hit. Enc. of Unifted Science, n. 3, voi. 1,1939.

II. L’estetica e la teoria dei segni lido, la sinonimia) possono esser considerati casi speciali di concetti ancor più generali, che trovano altrettanto bene esemplificazioni speciali in altre forme di discorso (estetico, tecnologico, ecc.). Co­ sì in ogni opera d’arte (diciamo in un brano mu­ sicale) vengono usati soltanto certi veicoli segnici (“termini primitivi”); inizialmente essi vengono combinati solo in certe maniere (“regole di for­ mazione”); da certe combinazioni se ne ottengo­ no altre, il campo delle combinazioni ottenibili es­ sendo almeno limitato sotto certi aspetti (“regole di trasformazione”, “relazione di conseguenza”, “relazione di probabilità”); certe combinazioni so­ no congrue o incongrue con altre (“valide” o “contro-valide”). Determinare con esattezza ciò che qui è stato solo indicato consentirebbe lo svi­ luppo di un linguaggio in cui analizzare questa c quella opera d’arte, in modo molto simile a quan­ to si fa nell’analisi di un sistema matematico o scientifico; le varie opere d’arte verrebbero allora classificate in gruppi più vasti nei termini delle lo­ ro proprietà formali; si potrebbero istituire con­ fronti significativi fra le varie opere singole o fra i gruppi più vasti, prcss’a poco come è oggi possibi­ le confrontare i sistemi matematici o scientifici. Grazie allo sviluppo raggiunto nella sintassi lo­ gica e all’abbondante corpo del materiale di este­ tica pronto per l’interpretazione e l’assimilazione, dovrebbe esser possibile procedere a rapidi passi nello sviluppo della sintassi estetica. Tale sviluppo sarebbe tempestivo grazie all’attuale concentrarsi dell’attenzione sul veicolo segnico estetico e sul­ l’analisi di esso; sarebbe anche importante per il 101

Scritti di semiotica, etica e estetica

più vasto campo della semiotica, in quanto esten­ derebbe l’interesse a campi del funzionamento segnico oggi ignorati o trattati isolatamente. Può av­ venire che le possibilità aperte dalla sintassi esteti­ ca rendano profetiche le parole di Dewey12: “Ver­ rà probabilmente il giorno in cui si riconoscerà universalmente che le differenze fra schemi logici coerenti e strutture artistiche in poesia, musica e arti plastiche non sono differenze di fondo ma tec­ niche e specialistiche”.

9. Semantica estetica Gli studiosi di logica son giunti di recente a rico­ noscere che il potente strumento della sintassi non è sufficiente al raggiungimento dei loro scopi e che un altro strumento di grande potenza è offer­ to dalla semantica. E sperabile che gli studiosi di estetica accettino fino in fondo questa lezione e non trascurino la semantica estetica. In una esposizione sistematica, molte asserzioni fatte nei paragrafi precedenti troverebbero posto nel­ la semantica estetica. La distinzione fra segni iconici e non-iconici e la collocazione del segno estetico fra i primi sono una distinzione e una collocazione se­ mantiche. La caratterizzazione dei designata dei se­ gni estetici come proprietà di valore è anch’essa se­ mantica. Tutte le discussioni sul rapporto dei segni estetici con situazioni oggettive dalle quali essi han-

12 Pliilosophy and Civilization, New York City, 1931, pp. 120-121. 102

II. L‘estetica e la icona dei segni

no origine, sono propriamente svolte nel linguaggio della semantica. La trattazione dell’arte astratta nel paragrafo sulla generalità estetica era una trattazione primariamente semantica. La questione se l’opera d’arte come struttura scgnica sia essa stessa un singo­ lo segno è parzialmente una questione intorno alle condizioni in cui le regole semantiche per segni di­ versi si uniscono c formano una singola regola se­ mantica che definisce un singolo segno. Il problema della “verità estetica” può servire a illustrare la trasformazione cui va soggetto un pro­ blema di estetica quando sia considerato apparte­ nente alla semantica estetica. E forse bene, unr volta distintolo da ‘conoscenza’, considerare ‘veri tà’ come termine semantico. In logica ‘verità’ è u; predicato applicabile solo a certi tipi di segni, vale a dire alle affermazioni, quando il segno possegga i pretesi denotatimi o denotata. Siccome un’affermazione deve dire qualcosa di qualcos’altro, per individuare ciò cui si riferisce essa ha bisogno di segni che sono in definitiva degli “indici” {itidexical signs]. Pertanto un segno iconico isolatamente preso non può essere un’afFermazione; e un’opera d’arte, concepita come segno iconico, non può es­ ser vera nel senso semantico del termine. Ciò ben­ ché l’affermazione che un’opera d’arte è “vera” possa risultare, quando sia analizzata, forma ellitti­ ca di affermazioni sintattiche, semantiche o prag­ matiche. La si potrebbe intendere semanticamente come affermante che l’opera in questione è effet­ tivamente un’icona della struttura di valore d’un certo oggetto o situazione - pretesa di fatto avan­ zata quando un quadro di Jonson viene intitolato 103

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Scritti di semiotica, etica e estetica

Inverno o una composizione di Scriabine Prometeo, giacché in questi casi a un’icona si aggiungono al­ tri segni sufficienti per generare un’affermazione. Tali affermazioni, in senso stretto, non vengono fatte dall’opera d’arte, bensì formulate su di essa al livello della semantica descrittiva; e mentre l’ope­ ra d’arte non è vera essa stessa nel senso semanti­ co del termine, le affermazioni di ordine semanti­ co fatte intorno ad essa sono vere o false nello stes­ so modo in cui lo sono quelle scientifiche — giac­ ché mentre l’opera d’arte è discorso estetico, la se­ mantica è una forma di discorso scientifico. Non vi è dubbio che dal campo della seman­ tica del linguaggio scientifico, in rapido sviluppo, deriveranno indicazioni di grande rilievo per l'alrettanto importante compito di sviluppare la se­ iantica del discorso estetico.

10. Pragmatica estetica A questo campo appartengono problemi legati al. rapporto dei segni estetici coi loro creatori ed in-— terpreti, cioè con tutti i fattori biologici, psicolo­ gici e sociologici presenti nel funzionamento dei segni estetici. La precedente discussione circa Ja__ percezione estetica ha qui il suo posto; altrettanto lo avrebbe una considerazione del processo della creazione estetica o un’analisi delle somiglianze e delle differenze fra creazione estetica e ri-creazio­ ne (“apprezzamento”), o un’indagine circa il gra­ do e la portata della comunicazione raggiunta at­ traverso vari segni estetici. 104

II. L’estetica e la teoria dei segni

Molti problemi in questo campo ruotano in­ torno alla questione della funzione assolta dall’ar­ te per l’individuo e la società; sarà quindi oppor­ tuno scegliere fra tutti questo problema, concen­ trarsi su di esso e illustrarlo. Lo studioso di prag­ matica ha osservato che il tipo riflesso di processo scgnico nasce c funziona nel risolver problemi che impediscono a un atto in sviluppo di raggiungere il suo scopo; in quale senso il ruolo strumentale dei segni è lo stesso, c in quale senso c diverso? Sembra chiaro che Dewey intende estendere la sua dottrina strumcntalistica generale dei segni a ciò che abbiamo chiamato segni estetici13. Un segno si forma quando un’azione subisce un arresto: il sc­ iano permette allora airattore.di rendersi conto d fattori importanti non presentati dall’ambicnt immediatamente dato; l’ipotesi che risulta dalla ri­ flessione dà così fondamento a tm piago d’azione volto a far sì che l’atto interrotto riprenda e pro­ ceda verso il proprio soddisfacimento. Che dite al­ lora del segno estetico? Se un atto muove senza interruzioni verso il suo soddisfacimento, non c’è ragione né forse meccanismo per l’indicazione di tale soddisfaci­ mento mediante segni. Ma se l’atto si blocca, allo­ ra la presentazione dello scopo dell’atto, o dei va­ ri scopi possibili, diventerà tanto importante quan­ to quella delle varie condizioni cui adempiere per raggiungere lo scopo o gli scopi, il segno estetico compie in generale l’importante funzione di ren-

13 Vedi particolarmente Art as Expcriencc, p. 97 e cap. IV.

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Scritti di semiotica, etica e estetica

der disponibili per il controllo dell’atto in svolgi­ mento i valori clic rispondono alla conclusione deiratto, e un particolare veicolo segnico estetico presenta in forma oggettiva la soluzione di un conflitto di valori; esso così, in certo modo, corri­ sponde nel regno dei fini al risultato raggiunto, di­ ciamo, dal motore a benzina nel regno dei mezzi. Vi è tuttavia l’importante differenza che, mentre il motore esiste come mezzo fisico per il raggiungi­ mento di molti fini, il veicolo segnico estetico esiste come mezzo per la realizzazione di un’opera d’arte (come mezzo per produrre percezione estetica). Ne deriva che l’opera d’arte stessa possiede solo il tipo di esistenza posseduto dal segno, ben­ ché il suo veicolo (o i veicoli) segnico abbia lo sta­ tus degli oggetti fisici. E questo fatto - aggiunto al carattere iconico del segno estetico - che getta lu­ ce sul disorientante senso per cui l’arte sembra es­ sere sia appagante sia strumentale. Dato che le pro­ prietà di valore di ciò che viene designato sono, al_meno in parte, incorporate nel veicolo segnico estetico, l’artista ha effettivamente foggiato il mondo in modo di avvicinarlo al suo desiderio e offerto un fondamento per esperienze d’appagamento; ma siccome i valori incorporati-gei veico­ li segnici componenti sono istanze_di_vaLore reperite altrove (anche se il valore della totalità non viene incorporato in altro modo), e dato che nel suo valori mediatamente (come il veicolo_s,egnico li presenta immediatamente), i valori e la soluzione vengono resi coscienti, e nella loro generalità posSQno.com piere un ruolo strumentale in altre situa-

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II. L’estetica e la teoria dei segni

zioni di valore - compresa quella originale che era stata la matrice per la creazione del segno csteti£_o14. E pressocclié inutile aggiungere che l’artista, nel 1’afTrontare il suo problema, può offrire un mo­ dello utile per molti altri problemi, e così può in­ corporare, chiarire c anticipare nella sua opera le strutture di valore di un gruppo o di un’epoca — o, al limite, la struttura di valore dell’uomo in ogni tempo e luogo.

11. Semiotica estetica Mentre per certi scopi è utile e legittimo accen­ tuare questa o quella dimensione del funziona­ mento dei segni estetici e quindi limitarsi alla sin­ tassi, alla semantica o alla pragmatica estetiche, questa restrizione presenta alcuni svantaggi. Così per esempio, le varie scuole di estetica accentuano soprattutto l’una o l’altra delle tre dimensioni, e le loro rivalità apparenti sono sostanzialmente defor­ mazioni che si producono quando varie descrizio­ ni di aspetti di un processo complesso sono prese come resoconti rivali dell’intero processo — distor­ sione che ha gravato in modo notevole nel campo della critica estetica. È quindi necessario accentua­ re il fatto che la semiotica estetica — quale sotto-

14 Si dovrebbe aggiungere che, nella misura in cui esiste un interesse per la percezione estetica in quanto tale, questo interesse può trovare soddisfacimento comple­ to nclfambito dell’arte stessa. 107 1

Scritti

di semiotica, etica e estetica

campo della semiotica generale — è un tutto uni­ tario, e che è soltanto nei termini di questa totali­ tà che le differenziazioni e le interrelazioni delle scienze estetiche subordinate possono esser discus­ se. Qui come altrove l’analisi e la sintesi, la pro­ spettiva del verme e l’occhio dell’aquila, devono aiutarsi vicendevolmente se si intende evitare il duplice pericolo della superficialità e della vacuità. Una volta che l’estetica venga affrontata secondo le vaste vedute fornite dalla semiotica, il carattere del discorso estetico, quale tipo particolare di semiosi, emergerà in maniera più complessa e pre­ cisa. Ove si ottenga un risultato del genere per al­ tre forme di discorso (come quello scientifico, tec­ nologico, filosofico e religioso), risulterà aperta una nuova strada per la chiarificazione delle inter­ relazioni fra le maggiori attività umane nei termipi di un confronto fra le forme di discorso che esì hanno creato e foggiato a loro immagine. E in uesto modo che l’approccio semiotico all’esteti-a è non soltanto significante per l’estetica stessa, ma ha vaste implicazioni per la determinazione del rapporto dell’arte con l'intero campo dell’atti­ vità e della cultura umane. Considerate secondo questa prospettiva, l’arte, la scienza e la tecnologia si presentano come forme complementari e non competitive dell’attività umana (anche se possono competere nella vita dell’individuo), ognuna delle quali alimenta e contempla i compiti svolti dalle altre; l’arte, presentando e rendendo disponibili al controllo consapevole i valori e le possibili rico­ struzioni di valore, la scienza offrendo il sapere che conta per la realizzazione di ogni valore, e la tec-

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II. L’estetica e la teoria dei segni

nologia (includendo sotto questo termine la mo­ ralità) fornendo le tecniche mediante le quali l’uo­ mo può “incidere e scolpire e limare” fino a che “il suo vago sogno imprima il proprio sorriso sul resistente selce”.

12. Giudizio estetico L’analisi di un segno viene svolta nel metalinguag­ gio della semiotica e si risolve in affermazioni in­ torno al segno in questione. Tali affermazioni deb­ bono distinguersi chiaramente da un altro tipo di enunciato, anch’esso nel metalinguaggio, che valu­ ta il segno; è conveniente riservare il termine ‘giu­ dizio estetico’ a quest’ultimo tipo di enunciato. L’analisi estetica e il giudizio estetico insieme com­ prenderebbero allora il campo della critica estetica. E impossibile approfondire ora l’argomentc del giudizio estetico, poiché ciò richiederebbe una elaborata teoria del valore unitamente a una ben sviluppata teoria del discorso tecnologico. Così poche parole soltanto saranno opportune, più per mostrare la natura dei problemi che per risolverli. Il discorso tecnologico è caratterizzato da enuncia­ ti contenenti espressioni come ‘sarebbe tuo dove­ re’,‘non farlo’,‘è da farsi’,‘non deve essere fatto’. Tali enunciati sono caratteristici di tutte le arti ap­ plicate, inclusa la moralità. Essi mirano a provoca­ re una modalità di comportamento che porta alla realizzazione di un certo scopo, sebbene tale sco­ po sia di rado esplicitamente dichiarato. Con l’analisi segnica si trova che il termine ‘dovrebbe’ 109

Scritti di semiotica, etica e estetica

comporta sempre: un riferimento a un fine, l’im­ plicata pretesa che un particolare modo del proce­ dimento sia più efficace di altri nel raggiungere quel fine, e il proposito di indurre la persona cui ci si rivolge ad adottare il procedimento in que­ stione. Qui è necessario notare che termini come ‘buono’,‘cattivo’,‘migliore’ (insieme a molti altri) funzionano sia nel discorso scientifico sia in quel­ lo tecnologico, ed è facile lasciarsi sfuggire la dif­ ferenza di funzione fra l’un caso e l’altro15. Dire che una cosa è cattiva può essere un’affermazione scientifica intesa a stabilire il rapporto di quella co­ sa con un interesse particolare, oppure può signi­ ficare che quella stessa cosa è da disapprovarsi - nel qual caso l’espressione ha carattere tecnologico e mira a produrre un certo atteggiamento e un cer­ to modo del comportamento. Le due espressioni hanno carattere assai diverso, non si può logica­ mente dedurre la seconda dalla prima; in generale non è mai possibile dedurre un enunciato del di­ scorso tecnologico da sole affermazioni scientifi­ che. È solo questo che si può voler dire razional­ mente quando si afferma che “la scienza non si oc­ cupa di valori”. La scienza infatti può benissimo occuparsi di valori in maniera descrittiva, e i dati che essa presenta possono essere usati per indiriz-

15 Un altro caso lo si può trovare nell’uso dei termini modali: si confronti il ‘deve’ in ‘un corpo pesante non sostenuto deve cadere’ e ‘devi essere più gentile verso i tuoi bambini’. È in progetto uno studio particolareg­ giato intorno alla natura del discorso tecnologico c al­ la sua relazione con il discorso scientifico ed estetico. 110

II. L’estetica e la teoria dei segni zare e anche modificare i nostri interessi. Invece il discorso tecnologico comporta un fine accettato e non fa leva su chi non accetta quello stesso fine. Questa analisi, per quanto breve e frammenta­ ria, getta un po’ di luce nell’oscura giungla della critica estetica. La confusione fondamentale è quella fra analisi estetica e critica estetica, sta cioè nel confondere il discorso estetico quale oggetto del discorso scientifico col discorso estetico quale oggetto del discorso tecnologico*. In altri termini, gli enunciati del critico funzionano spesso prima­ riamente nella dimensione pragmatica, mentre dan l’impressione di avere un carattere interamen­ te semantico. Ma anche se si evita questa confusione fonda­ mentale e si riconosce la natura tecnologica di certe critiche, rimangono numerose fonti della confusione resa possibile dal trascurare il fatto che un enunciato nel discorso tecnologico può esser valutato soltanto secondo il fine cui la tecnica in questione è pertinente; e fin tanto che i fini accet­ tati differiscono presso i vari critici senza essere ri­ conosciuti come differenti, i giudizi che ne risul­ tano differiranno l’uno dall’altro e appariranno perfino contraddittori. Di fatto le varie scuole cri­ tiche, come già detto, son prone ad accettare come criterio una qualche dimensione della semiosi estetica e quindi a valutare le opere d’arte a secon-

Ricordiamo che per Morris, in questa fase di svilup­ po delle sue ricerche, le valutazioni d’ogni tipo appar­ tengono al “discorso tecnologico”. Ili

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Scritti di semiotica, etica e estetica

da della misura in cui esse presentano le caratteri­ stiche sintattiche, semantiche o pragmatiche con­ siderate normative secondo il criterio accettato. 11 risultato è deprecabile per quel che riguarda la cri­ tica estetica; forse dalla babele che ne risulta esce un elemento positivo: essa forza inevitabilmente le persone a rispondere al discorso estetico in modo più diretto e ad accostarsi all’arte con libertà e con apertura maggiori di quanto i fanatici dei vari “ismi” siano stati capaci di fare. Una certa chiarezza potrà essere raggiunta se le suddette fonti di confusione verranno riconosciu­ te c ci si renderà conto che il giudizio estetico de­ ve dire chiaramente in quale punto è passato al di­ scorso tecnologico, lasciandosi dietro il discorso scientifico dell’analisi estetica. Il giudizio estetico e un giudizio intorno a segni estetici; può, in ultima analisi, occuparsi soltanto dell’adeguatezza con cui un tale segno adempie alla sua specifica funzione di presentar valori mediante la loro incorporazio­ ne in un veicolo segnico appropriato; e nella ri­ sposta a questa domanda i dati offerti dall’analisi segnica sintattica, semantica e pragmatica sono tutti pertinenti. Solo se il compito di un’opera d’arte è quello di incorporare tutti i valori, o il va­ lore più alto, di una certa scala di valori, è legitti­ mo applicare a un segno un giudizio circa la quan­ tità o il grado del valore designato dal segno stes­ so. E vero che in pratica diventa difficile tracciare la distinzione, in quanto il veicolo segnico esteti­ co, quale icona, incorpora il valore che significa e si presta così a esser giudicato non come segno ma semplicemente come oggetto di valore. Sarebbe 112

II. L’estetica e la teoria dei segni

pedante insistere su tale distinzione, se non fosse per il fatto che la teoria sviluppata dovrebbe ren­ dere il critico d’arte sensibile al fatto che egli de­ ve occuparsi di segni estetici; e che, mentre come persona gli è anche lecito criticare l’arte da vari punti di vista (per esempio da quello morale), è le­ gittimo ritenerlo responsabile di sapere se sta pas­ sando dalla sfera dei giudizi estetici ad altre forme di giudizio ammesse nel campo dei valori. La teoria dei segni, quando sia collegata a una teoria del valore sviluppata in modo adatto, può così non soltanto fornire una teoria sulla natura dell’arte, ma anche dare importanti contributi alla tecnica della critica estetica.

13. L’estetica e l’unità della scienza Per concludere, è solo necessario esplicitare un punto implicito in tutto il corso della discussione. Il carattere specifico del discorso estetico offre la base per differenziare l’arte come forma di attività umana da altre forme di attività quali risultano ri­ flesse nel discorso scientifico e tecnologico; in tal modo, in un’età dominata dalla scienza e dalla tec­ nologia, esso dovrebbe contribuire all’intendimen­ to della natura e dell’importanza dell’arte nonché alla liberazione di forze artistiche creative. L’esteti­ ca però, quale teoria del discorso estetico, rientra nello stesso campo della teoria del discorso scienti­ fico e tecnologico: quale parte della teoria dei segni essa è cioè un settore della scienza, e come tale le compete nel sistema della scienza il posto che vie113

Scritti di semiotica, etica e estetica

ne assegnato alla semiotica, qualunque sia tale po­ sto. L’approccio all’estetica in termini di teoria dei segni, pertanto, ha importanza non solo per l’arte, l’estetica e la semiotica, ma per l’intero programma della scienza unificata. La relazione della semiotica con il sistema delle scienze c la sua posizione stra­ tegica nell’integrazione delle scienze naturali c so­ cio-umanistiche saranno il tema di uno studio suc­ cessivo.

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III. Estetica, segni e icone* in collab. con Daniel J. Hamilton

Presentazione Nel 1939 Charles Morris, coautore di questo scritto, pubblicò due articoli sull’estetica e la teo­ ria dei segni1. Da allora molte furono le osserva­ zioni, le proposte e le critiche apparse, riguardanti in primo luogo l’attuabilità dell’applicazione in estetica d’una teoria dei segni e in secondo luogo il modo in cui una tale teoria, se applicabile, si do­ veva formulare. Per ragioni espositive il presente articolo è di­ viso in tre sezioni principali. La prima espone bre­ vemente i punti più importanti della posizione originaria di Morris; nella seconda vengono indi­ cate e discusse alcune fra le osservazioni e le criti( * 1

“Aesthetics, Signs, and Icons”, Philosophy and Pltenomenological Research, XXV, 3 (marzo 1965), pp. 356-364. [Trad. it. F. Rossi-Landi.Titoli, nelle quadre, miei. (N.d.C.)]. “Esthetics and thè Theory of Signs”, The Journal of Utiified Science, Erkenntnis,Vllì, 1-3,1939, pp. 131-150 e “Science, Art, and Technology”, Kenyon Review, 1, 1939, pp. 409-423. 115

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Scritti di semiotica, etica e estetica

che espresse nei confronti di quella posizione; la terza sezione, infine, tratta della situazione attuale dei rapporti fra estetica e teoria dei segni.

[1. L’opera d’arte come segno] .La posizione originaria di Morris in fatto di esteti­ ca e di teoria dei segni caratterizzava l’opera d’arte come un segno che, ad eccezione dei casi più scmplici, è esso stesso una struttura scgnica. Una situazione segnica veniva formulata come una qualsiasi situazione in cui si rende conto di qualcos’altro, che non esercita direttamente un’azione causale, attraverso la mediazione di un terzo qualcosa. Questo t.exz9_quaIcQsa”_è queiio-chc .opera in qualità di segno. c lo si chiama veicolo seguirò. L’atto del rendersi conto mediatamente, compiuto dall’interprete, venne chiamato interpretante. Ciò di cui ci si rende con_ to mediatamente, desionattwi. Per definizione, un se­ gno deve designare; ma non c’è bisogno che deno­ ti. Per esempio, un certo fischio fa sì che una perso­ na agisca come se un treno, non percepito in altro modo, si stesse avvicinando; il rumore allora, per la persona che ode il fischio, significa un treno che si avvicina e quindi funziona come segno. Ma è possi­ bile rendersi conto di un treno che si avvicina (agi­ re, cioè, come se un treno si stesse avvicinando) an­ che se, di fatto non c’è alcun treno che arriva; in questo caso il fischio designa ma non denota2.

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La formulazione della semiotica qui riassunta è dettaglia-

III. Estetica, segni e icone

_ L’estetica, formulata in termini segnici, diventa un ramo della semiotica, ossia della teoria genera­ le dei segni. Nell’ambito della semiotica, si distin­ gue l’estetica dalle altre attività di funzionamento segnico col considerare il segno estetico come se­ gno di un tipo distinto. In^ primo luogo il segno -tsencD estetico ò(tconicò. Un segno è iconico quando de­ nota un oggetto avente una certa rnl1ezione_di proprietà in comune con esso segno. Inoltre il se­ gno estetico designa ? valori je tali valori sono con­ siderati proprietà, relative_a un interesse, di un og­ getto o di una situazione. Ne deriva che quando im interprete riceve un veicolo segnico estetico, che è per definizione iconico, egli riceve direttamente il valore o i valori significati. Così avviene che ci si rende conto di queste proprietà di valore siajTiediatamente sia non mediatamente. Considerato il fatto che la semiotica accoglie in sé come scienze subordinate la semantica, la sin­ tattica e la pragmatica, l’estetica potrà anche venir caratterizzata come semantica, sintattica e pragma­ tica estetiche. Lo studio della relazione dei segni estetici con ciò che viene designato o denotato può venir chiamato semantica estetica; lo studio del­ le relazioni dei segni estetici con gli interpreti, pragmatica estetica; lo studio infine della relazione dei segni estetici con altri segni estetici, sintattica estetica.

tamente contenuta nella monografia di C.W. Morris, Foutidations of thè Theory of Sigtis, University of Chicago Press, 1938. Questa monografia costituisce il n. 2 del I voi. della International Encyclopedia of Uttified Science. 117

Scritti di semiotica, etica e estetica

Molti particolari della proposta fatta da Morris nel 1939 sono stati esclusi da questo riassunto. Malgrado ciò, i punti principali così come sono stati esposti serviranno quale luogo di riferimento per esaminare le numerose osservazioni c critiche apparse nel corso degli anni in risposta al proget­ to morrisiano di una semiotica estetica.

[2. Intorno alla posizione originaria di Morris] Alcuni dei numerosi saggi e volumi che si sono occupati direttamente o indirettamente della pro­ posta morrisiana di una estetica semiotica possono a un dipresso venir classificati come segue. C’è in primo luogo il gruppo di coloro che si oppongo­ no a una teoria dei segni estetici sostenendo che una teoria del genere, in qualsivoglia modo for­ mulata, non può applicarsi all’arte; oppure in alcu­ ni casi che essa non si applica a certe forme d’ar­ te. Un secondo gruppo di autori, d’altro canto, esprime l’opinione che una teoria dei segni sareb­ be utile per l’analisi delle arti, ma pone in causa certi aspetti della nozione di iconicità in arte. Questo secondo gruppo è quindi fondamental­ mente d’accordo su talune parti della posizione generale di Morris, ma ne differisce circa il modo in cui una tale teoria dei segni dovrebbe formula­ re il ruolo del segno iconico in estetica. Un terzo gruppo è poi quello che muove varie altre critiche all’estetica fondata sulla semiotica. Esamineremo ora ciascuno dei tre gruppi.

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III. Estetica, segni e icone

2.1 Argomenti contro la considerazione dell’opera d’arte come segno L’argoinento più fondamentale .contro _una_te.ocia semiotica ddl’artc è che un’opera.crarxe_ooiuLi.ui segno. Se questo argomento tiene, allora l’applica­ zione di una semiotica nel campo dell’estetica ri­ sulta grandemente ridotta se non addirittura esclusa3. Un autore che argomenta che tutte le teorie semiotiche sono sistematicamente difettose se applicate all’estetica, è Richard Rudner4. Egli sostiene che se un’opera d’arte viene considerata come segno, allora non è possibile caratterizzare l’esperienza estetica come un “rendersi conto di qualcosa” in modo sia immediato sia mediato. Se caratterizziamo l’esperienza estetica come un “rendersi immediato conto di qualcosa”, nel caso appunto l’opera d’arte, allora questa in quel mo­ mento non sta funzionando da segno. Se d’altr canto l’esperienza estetica viene caratterizzata cc me un “rendersi conto mediato di qualcosa”, allo ra Rudner sostiene che non c’è più modo di di­ stinguere l’esperienza estetica da altre esperienze che comportano mediazione. Una via per combinare l’aspetto mediato e 3

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Si potrebbe naturalmente sostenere che l’opera d’arte, anche se non è un segno, è composta di segni; e che quindi una semiotica potrebbe tuttavia trovare qualche applicazione in estetica. “On Semiotic Aesthetics”, The Journal ofAesthetics and Art Criticisnt, settembre 1951, pp. 67-77. Vedi anche Kingley Blake Price, “Is a Work of Art a Symbol?”, Journal of Pltilosophy, L, 1953, pp. 485-503. 119

Scritti di semiotica, etica e estetica

quello immediato dell’esperienza estetica, e quindi per controbattere la critica di Rudncr, sta nclTargomentare che l’opera d’arte comporta sia un veicolo segnico sia il suo funzionamento come se­ gno5. Il segno presenta valorLmediatamentgmcn.Jtr.fi...iLveÌc.Qlo_segnico presenta quegli .stessi valori immediatamente. Questa è la posizione assunta da Morris nei suoi primi articoli: una posizione, co­ munque, che presuppone clic il segno sia iconico, e come vedremo ci sono molti problemi connessi alla nozione di iconicità. Un altro modo per risolvere il problema del­ l’unione di mediazione c immediatezza viene pro­ posto da Charles Stevenson6. Egli asserisce che, se l’interpretante del processo scgnico estetico viene considerato come disposizione a rispondere anzi­ ché come risposta in atto, allora si può sostenere che l’opera d’arte, nella misura in cui chiama in causa un interpretante, funziona come un segno (è mediazionale), ma che al tempo stesso essa non si risolve in alcun successivo comportamento aperto ed è dunque in quella misura un’esperienza im­ mediata. Stevenson presenta questa teoria dell’interpre­ tante come disposizione quando mostra come

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Per un esame supplementare di questo problema vedi Edward G. Ballard,“In Defense ofSymbolic Aesthetics”. 77/e Journal ofAesthetics and Art Critidsm, XII, settembre 1953, pp. 38-43. “Symbolism in thè Rcpresentational Arts”, Languagc, Tliought, and Culture, 2 c.di Paul Henle,Ann Arbor.The University of Michigan Press, 1958, pp. 226-257.

III. Estetica, segni e icone funziona il simbolismo nelle arti rappresentative. Tuttavia in un altro articolo sostiene anche che non occorre considerare le arti non-rappresentative come simboliche7. In tale articolo il suo scopo principale è mostrare che per esaminare le arti non-rappresentativc si può costruire un altro sche­ ma, che non richiede ch’esse vengano trattate co­ me simboliche. In effetti Stevenson limita l’appli­ cazione della semiotica alle arti rappresentative e in tal modo riduce l’arca in cui si può praticamen­ te applicare una semiotica in estetica. Abraham Kaplan, esponendo una teoria del­ l’estetica diversa da quella di Stevenson, cerca egli pure di limitare l’applicazione della semiotica alle arti rappresentative. Kaplan asserisce che tutta l’ar­ te è espressione; e che nelle arti rappresentative gli aspetti riferitivi dell’arte stessa sostengono tale espressione e contribuiscono a essa8. Nelle arti non-rappresenta ti ve, tuttavia, nessun riferimento è presente. Kaplan pertanto tenta anche di spiegare gli aspetti simbolici dell’arte rappresentativa, e al tempo stesso nega che l’arte non-rappresentativa abbia una qualsiasi dimensione simbolica.

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Charles Stevenson, “Symbolism in thè Nonreprescntational Arts”, ibid., pp. 196-225. “Referential Mcaning in thè Arts”, Tlic Journal of Aesthctics and Art Critichi», XII, giugno 1954, pp. 457-474. Un altro esempio di accentuazione dell’espressione in arte lo si trova in “Iconic Signs and Exprcssiveness”, di Isabel C. Hungcrland, in The Problcms of Acsthctics, a cura di E.Vivas e M. Krieger, New York, Rinehart & Co., Ine., 1953, pp. 234-239.

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Scritti

di semiotica, etica e estetica

2.2 Problemi relativi all’iconicità

Molti autori si sono detti d’accordo che una semio­ tica sarebbe utile in estetica, ma hanno posto in causa vari aspetti dell’insistenza di Morris sul segno estetico come segno iconico, e anche il concetto di iconicità in estetica^Bcnbow Ritchie9, per esempio, accetta la nozione di iconicità in arte, ma desidera estendere quella che chiama “iconicità formale”. Nello spiegare ciò che s’intenda per ‘iconicità for­ male’, Ritchie suddivide il valore estetico in valori formali e valori extra-formali. E valore formale quello che soddisfa un interesse destato da qualche aspetto dell’oggetto estetico; è invece valore extraformale quello che soddisfa un interesse recato al­ l’opera d’arte come qualcosa di già fatto. I segni iconici vengono quindi classificati in icone formali ed extra-formali, a seconda che significhino un va­ lore formale o un valore extra-formale. Nella valutazione generale dell’arte Ritchie mette in rilievo i valori formali e attribuisce per­ ciò maggior importanza nell’arte ai segni iconici formali. La semiotica dovrebbe di conseguenza formulare con maggior chiarezza il ruolo delle icone formali di valore dentro un’opera d’arte. Anche Louise Roberts10 considera la funzione del segno iconico nell’esperienza estetica come

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“The Formai Structure of thè Aesthetic Object”, The Problems ofAesthetics, a cura di E.Vivas e M. Krieger, pp. 225-233. 10 “Art as Icon: An Interpretation of C.W. Morris”, Tulane Studia in Philosophy, IV, 1955, pp. 75-83.

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III. Estetica, segni e icone .Importante. Ma non sostiene che una semiotica possa fornire un’analisi completajklLatte. Consi­ dera inoltre la formulazione morrisiana dell’iconi­ cità essenzialmente ambigua in vari luoghi. I pro­ blemi principali si incentrano sul rapporto fra se­ gni convenzionali e segni iconici, nonché sulla di­ stinzione fra segni in quanto funzionanti entro l’opera d’arte e l’opera stessa considerata come se­ gno. Ella scrive: Un’opera d’arte come totalità può essere un se­ gno iconico nel senso semplice dell’imitazio­ ne... Essa c il prodotto delle scelte dell’artista ed è come tale indicativa dei di lui valori... Si ag­ giunga che un’opera d’arte, oltre ad essere un segno iconico, può contenere altri segni iconi­ ci... Nell’organizzazione dei segni entro l’opera d’arte c’è un problema sintattico. Ciò viene complicato dal fatto che taluni di tali segni pos­ sono essere convenzionali, altri possono essere sia convenzionali sia iconici, altri ancora posso­ no essere predominantemente iconici c lieve­ mente convenzionalizzati. È poi anche compli­ cato dalla relazione fra questi segni e la funzio­ ne iconica dell’opera d’arte come totalità". La Roberts arriva alla conclusione che la no­ zione di iconicità è utile in estetica, ma che le complicazioni e i problemi accennati indicano co­ me sia necessaria un’analisi minuta dell’iconicità e della sua funzione in arte. Le questioni sollevate da Ritchie e Roberts in merito alla differenza fra l’opera d’arte come se11 Ibici., p. 82. 123

Scritti di semiotica, etica e estetica

gno iconico e i segni iconici come parti compo­ nenti dell’opera d’arte sono state inoltre dibattute in un articolo di Clifford Amyx12. Amyx sostiene che il concetto di iconicità secondo la formulazio­ ne originale era un concetto semantico: lo era nel­ la misura in cui i denotata di un segno dovevano esser presi in considerazione nel determinare se il segno stesso fosse o no iconico, e le questioni in­ torno al denotare di un segno sono semantiche. Amyx argomenta, allora, che molti autori come Ritchie, nel tentativo di sviluppare una teoria del­ l’iconicità dentro all’opera d’arte, si son trovati a dover considerare la relazione fra i segni iconici in quanto funzionanti quali parti componenti di un’opera d’arte. Questo, secondo Amyx, è un pro­ blema sintattico e non semantico. Potremmo non essere d’accordo sul fatto che questo sia un problema sintattico; ma la discussio­ ne di Amyx mette di nuovo il dito sul problema di formulare con chiarezza la relazione fra l’opera d’arte come segno iconico e segni iconici entro l’opera stessa. Essa indica inoltre che ci vuole altro lavoro per la formulazione dei ruoli della seman­ tica e delle sintassi estetiche nell’ambito di una se­ miotica estetica. jJn ulteriore problema connesso al ruolo dei se­ gni iconici in arte è quello della difficoltà di deter­ minare quali segni si debbono considerare iconici. Secondo la formulazione iniziale di Morris, si ave­ va un segno iconico quando il veicolo segnico pos12 “The Iconic Sign in Aesthetics”, TheJournal o/Aesthetics and Art Criticism, VI, settembre 1947, pp. 54-60. 124

III. Estetica, segni e icone

sedeva certe proprietà in comune con quelle degli oggetti che esso denotava o poteva denotare. 1 pro­ blemi più grossi di questa formulazione sono: pri­ mo, quali siano le proprietà comuni da considerar­ si importanti per l’iconicità e, secondo, quante pro­ prietà si debbano trovare comuni affinché un segno possa esser chiamato iconico. Questi problemi indi­ cano che la distinzione di un segno iconico da un segno non-iconico richiede un certo studio. Un metodo per eludere parzialmente i proble­ mi accennati consisterebbe neH’eliminare la dico­ tomia fra segni iconici c segni non-iconici, sosti­ tuendola con una scala di iconicità. Si tratterebbe di una scala approssimativa, avente a un estremo segni con iconicità poca o nulla e all’altro segni ad un alto grado di iconicità. Fra questi due estre­ mi si potrebbero piazzare i segni a seconda del lo­ ro grado di iconicità. Ciò metterebbe in evidenz: il fatto che l’iconicità di un segno è in vasta misu­ ra una questione di grado, che non obbedisce a una regola rigorosa, inoltre, una scala siffatta elimi­ nerebbe il problema di determinare il numero del­ le proprietà che un veicolo segnico e i suoi deno­ tata debbono avere in comune affinché il segno possa venir chiamato iconico. Purtroppo però una scala di iconicità non eliminerebbe la necessità di determinare quali siano precisamente le proprietà essenziali all’iconicità. Presumibilmente ciò varie­ rebbe col variare delle situazioni segniche, giacché non è detto che proprietà rilevanti per l’iconicità di un veicolo segnico in una certa situazione lo siano anche in una situazione diversa. Stevenson, nell’attaccare il simbolismo nelle ar125

Scritti di semiotica, etica e estetica

ti non-rappresentative, argomenta contro l’iconici­ tà asserendo che secondo una certa interpretazione qualsiasi cosa può esser considerata un segno iconi­ co di se stessa, e che quindi la nozione di un’iconi­ cità neH’ainbito dell’arte è banale. Egli dice: Oltre a ciò, siccome un segno diventa iconico in virtù di una similarità fra sé e il suo designatimi, basta il principio “ogni cosa assomiglia a se stes­ sa” per concludere che un fregio greco può es­ sere segno iconico di se stesso. Si noti che altret­ tanto può dirsi di qualsiasi cosa al mondo, pur­ ché sia percepibile e di interesse sufficiente per attirare un secondo sguardo1'. La difficoltà di distinguere fra un segno iconio e un segno non-iconico è messa in chiara luce «Ila critica di Stevenson. Sembra, inoltre, che essa nda ancor più auspicabile la formulazione di una -ala dell’iconicità. A un ultimo punto interessante si può ancora fare cenno per la sua pertinenza all’iconicità nel­ l’ambito dell’estetica. Come abbiamo già avuto occasione di notare, nella prima formulazione del­ la semiotica fatta da Morris tutti i segni, per defi­ nizione, devono designare, senza però aver bisogno di denotare. Tuttavia si affermava che il segno ico­ nico aveva il proprio veicolo segnico fra i suoi de­ notata. Secondo tale formulazione, un segno ico­ nico denoterà di conseguenza almeno il proprio

13 Stevenson, “Symbolism in thè Nonrepresentational Arts”, p. 200. 126

III. Estetica, segni e icone

veicolo segnico, c questo contraddice la preceden­ te posizione secondo la quale tutti i segni devono designare ma non c’c bisogno che denotino. E ov­ vio che l’intera questione della denotazione dei segni iconici richiede un’indagine accurata.

2.3 Altri problemi nell'ambito di ima semiotica estetica

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Come è stato notato, i principali argomenti por­ tati contro una semiotica dell’estetica hanno cer­ cato di mostrare, primo, che un’opera d’arte non dovrebbe essere considerata segno c, secondo, in qual modo la formulazione di Morris del segno estetico come segno iconico presenti certi proble­ mi. Oltre a queste due principali zone di disaccor­ do, sono stati però sollevati vari altri problemi iso­ lati relativi all’applicazione di una semiotica in estetica. Allan Tate14 ed altri argomentano per esempio che la proposta di una semiotica fatta da Morris non tiene adeguatamente conto del ruolo della co­ gnizione [cagnition] nell’esperienza estetica. Nella sua formulazione Morris sosteneva che le proprie­ tà di valore di un oggetto estetico in un certo sen­ so “spiccano” allo sguardo, sicché il percipiente go­ de d’una loro “apprensione diretta”. La principale critica di Tate è che l’uso di termini come spiccare e apprensione diretta non mostra come l’interprete

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14 Rcasoti in Madness, New York, Putnams Sons, 1941, pp. 20-62. 127

Scritti di semiotica, etica e estetica

“apprenda” proprietà di valore senza compiere un qualche atto cognitivo. La critica di Tate in qualche modo risente del suo uso della parola cognizione, che egli non inter­ preta mai in maniera adeguata. Malgrado ciò la sua critica mette in evidenza talune difficoltà insite nell’uso di termini quali apprensione diretta delle pro­ prietà di valore, e indica la necessità di chiarire ulte­ riormente questo punto, per esempio valendosi di varie istanze tratte dalle arti. Un altro punto in discussione riguarda l’esten­ sione delle suddivisioni della semiotica (sintattica, semantica e pragmatica) al campo dell’estetica. Co­ me si è già detto, in base a tale estensione l’estetica viene caratterizzata in sintattica estetica, semantica estetica e pragmatica estetica. Per esempio, John Ransom15 sostiene che il fattore pragmatico di una ^miotica estetica è di importanza considerevolnente minore che non il fattore semantico. Inoltre, tanto Ransom che Stevenson contestano l’impor­ tanza della sintattica per l’estetica. Ransom dice: Egli [Morris] afferma che l’arte è particolar­ mente interessata alla dimensione sintattica del discorso, ma non si occupa quasi per nulla del modo in cui l’arte ricavi una sintassi della sua mescolanza peculiare di puri simboli e di segni iconici... La sua validità sintattica è forse parago­ nabile a quella della scienza? O alla validità se­ mantica dell’arte stessa?16.

15 The New Criticism, Norfolk, Conn., New Directions, 1941. 16 Ibid., p.298. 128

III. Estetica, segni e icone Stevenson, mettendo in causa lo stesso punto, afferma: Presumibilmente, le regole sintattiche della mu­ sica non sono che quelle dell’armonia e del contrappunto, insieme alle regole più vaste che si riferiscono alla forma della sonata, della fuga, ccc. E non è chiaro che queste discipline fami­ liari, una volta classificate come “sintassi”, abbia­ no abbastanza in comune con la sintassi delle lingue ordinarie, o con la sintassi della logica, per rendere utile la classificazione'7. Queste critiche rendono evidente il fatto che è necessario approfondire il lavoro di caratterizza­ zione della sintattica, della semantica e della prag­ matica estetiche col fine di assicurare l’utilità della distinzione. Benché altre critiche siano state mosse all’ap­ plicazione di una semiotica nell’ambito dell’esteti­ ca, sembra che le più significative siano quelle pre­ scelte per esame in questo paragrafo.Tenendo pre­ senti queste critiche e questi suggerimenti, sarà ora vantaggioso esaminare l’attuale situazione del rap­ porto fra estetica e teoria dei segni.

[3. Per parlare dell’arte] La formulazione originaria di una semiotica per l’estetica può esser considerata come una proposta

17 Stevenson, “Symbolism in thè Nonrepresentational Arts”, p. 201. 129

Scritti di semiotica, etica e estetica

generale di una terminologia per parlare dell’arte; a causa della sua generalità molti aspetti e questio­ ni particolari non vennero allora elaborati. Uno dei modi per determinare la portata di una propo­ sta è forse quello di vedere quante critiche e giu­ dizi essa abbia suscitato, poiché sono proprio i sug­ gerimenti e le critiche successivi a metterne in evidenza i lati deboli nonché i settori che hanno bisogno di un maggior approfondimento. Per tale ragione, il gran numero delle discussioni apparse in seguito ai primi articoli di Morris sulla semio­ tica e l’estetica è lusinghiero. In generale, questo scritto non si è occupato di rispondere alle critiche né di preparare una difesa della semiotica estetica. Inoltre, nella maggioranza dei casi esso non ha offerto nessuno sviluppo alle vessate questioni sollevate nelle varie proposte di Jtri autori. Ciò potrebbe essere oggetto di uno pudio successivo e più esteso. L’esame del materia­ le critico e delle varie proposte fatto nei paragrafi precedenti indica tuttavia talune possibili genera­ lizzazioni. E anzitutto evidente che la misura di applica­ bilità di una semiotica all’estetica è questione aperta. Allo stadio attuale, non si vuole sostenere che l’estetica possa venir esaurientemente analiz­ zata attraverso una semiotica. Risulta però che in arte funzionano segni, e sotto questo aspetto una semiotica aiuterebbe. Oltre a ciò, nella prima formulazione si poneva l’accento sul ruolo del segno iconico nell’arte. Le critiche e le proposte che seguirono hanno reso evidente che alla nozione di iconicità sono connes­ si seri problemi e che ci vuole qui un’analisi più ap130

III. Estetica, segni e icone

profondità. Presentemente riteniamo che il segno iconico funzioni nell’arte in modo significativo, per quanto il grado di tale significatività rimanga anch’esso una questione aperta. Occorre un lavoro più particolareggiato per mostrare il ruolo dei segni in arte. Stevenson, nei suo articolo sul simbolismo nelle arti rappresenta­ tive, ha cercato di elaborare c analizzare in detta­ glio il modo in cui i segni funzionano nell’arte e arricchiscono, inoltre, l’esperienza estetica. I risul­ tati del suo lavoro sono incoraggianti, e si spera che esso proseguirà. In conclusione, l’esigenza essenziale sembra es­ sere oggi quella di riconoscere che la teoria dei se­ gni offre una possibile cornice per l’analisi delle opere d’arte. Il grado di importanza di una tale se­ miotica nel campo dell’estetica è questione che non potrà esser risolta fin tanto che non si saran­ no completate ulteriori ricerche lungo le linee in­ dicate.

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IV. I simboli dell’uomocosmo

La mostra “The New Landscape” al Massachusetts Institute ofTechnology nella primavera del 1951, fu per me l’occasione di un’esperienza particolar­ mente intensa, complessa e completa; destò in me il senso di trovarmi di fronte a qualcosa di perfet­ to che toccava qualcosa nell’io proprio in un mo­ do perfetto al punto da far sentire, pensare e din Questo è perfetto! In quel momento non mi do­ mandai il perché — sentii semplicemente stupore, tensione, espansione, contrazione, completezza. Un anno dopo, avendo visto nuovamente mol­ te delle fotografie e avendo letto il perspicace commento di Gyòrgy Kepes sul loro significato, mi diventò più chiaro il perché dell’esperienza originaria. Per caso eravamo passati per una mostra di pit­ tura contemporanea andando a quella delle foto­ grafie scientifiche. E, significativamente, non si provava alcun senso di shock o di contrasto nel la­ sciare i quadri degli artisti per trovarsi davanti alle fotografie degli scienziati. Diversi quadri e foto­ grafie avrebbero potuto essere scambiati fra le due mostre senza alcuna incongruenza. C’era, per 133

Scritti di semiotica, etica e estetica

esempio, un quadro che avrebbe potuto essere il tracciato di reti capillari di un dito sconosciuto, e una fotografia che, osservò Kepcs, avrebbe potuto essere un quadro di Klee. Opere d’arte e di scien­ za fianco a fianco, e in armonia. Qui c’erano insie­ me due estremi, quello di una modellazione crea­ tiva, gestita dalla persona c non rappresentativa di un mezzo, e il rispecchiamento più letterale, esat­ to e inteso più oggettivamente possibile di proces­ si non umani. Eppure le tessiture e le strutture ri­ sultavano simili. Alcune delle fotografìe che sem­ bravano essere l’impronta di metalli risultavano essere, invece, documenti di piante, c le fotografie che rassomigliavano a piante erano intitolate con i nomi di metalli. Ne risultò il crollo del senso di opposizione fra processi organici e inorganici, e fra la fase umana della natura e la fase della natu­ ra diversa dall’umano. Non c’era, in questa espe­ rienza, nessun accenno a un senso di perdita ma piuttosto di un immenso guadagno. Ancora una volta, l’uomo era nel mondo e il mondo era nel­ l’uomo. Simili processi e simili strutture erano dentro e fuori. Eppure non è un mondo monotono quello ri­ velato dalle fotografie. Perché l’identità non è più evidente della ricchezza, della molteplicità, dello splendore dimostrato in egual misura sia allo sta­ dio del piccolo, sia allo stadio dell’immenso. Se, come chiarisce Kepes, le strutture nelle fotografie vanno viste come emergenti da processi intera­ genti, è anche vero che i processi stessi sono sem­ pre strutturati. In un tale cosmo sono soddisfatti sia il bisogno di stabilità sia il bisogno di novità. 134

IV. / simboli dell’uomo-cosmo

Le fotografie possono contribuire, al tempo stesso, agli scopi della scienza, dell’arte e della reli­ gione. Possono essere lette per ricavarne delle in­ formazioni sul mondo, oppure godute, in quanto tessiture di processi strutturati, o impiegate al fine del ri-orientamento dell’io nel cosmo. In ciascuno di tali usi, qualcosa deve essere fat­ to nei confronti delle fotografie; ci deve essere, nel­ le parole di Kepes, una trasformazione simbolica. Anche così come stanno, le fotografie sono certa­ mente segni, documenti iconici nell’interazione fra la lastra fotografica e altri processi strutturati. Ma non sono simboli finché non vengono trasformate creativamente dall’azione umana. L’assegnazione di didascalie dice che una tale trasformazione è già stata compiuta. Se non si sapesse che una delle fo­ tografie è l’ingrandimento di qualcosa di molto piccolo e un’altra un documento di qualcosa di molto grande, non sarebbero simboli scientifici, né avrebbero portata scientifica. Le parole ad esse asse­ gnate sono indicazioni sia delle condizioni sotto le quali le fotografie furono ottenute, sia di una inter­ pretazione realizzata in termini di una teoria scien­ tifica. Le parole e le fotografie si sono interpenetra­ te, e quello che ora si vede non è più semplicemen­ te una superficie differenziata, bensì la struttura del­ la lingua di una lumaca o quella di un sistema ga­ lattico. In questa misura le fotografie sono già di­ ventate “simboli postlinguistici”, simboli il cui si­ gnificato è in parte determinato dai simboli lingui­ stici impiegati su di essi. Ciò che si vede ora è per­ cepito nei termini di ciò che era stato detto. Analogamente, le fotografie in quanto tali non 135

Scritti di semiotica, etica e estetica

sono opere d’arte, ma sono piuttosto “una base per la costruzione di immagini visive”, strutture da trasformare per mano dell’artista in simboli pieni di significato, compreso in modo che l’impressio­ ne di un intorno diventi un paesaggio percepito e accettato dall’uomo. Infine, le fotografie possono essere impiegate in “esercizi spirituali” nell’incessante compito del­ la creazione dell’uomo, usate al fine di scuotere l’io dalla rigidità che cerca sempre di definirlo, rompendo i suoi confini egocentrici, rinnovando la sua vitalità nel collegarlo a ciò che è vitale, of­ frendogli qualcosa di abbastanza raffinato da allet­ tarlo a perdersi, e perciò a trovarsi. L’uomo contemporanco deve essere capace di muoversi airintcrno di e fra prospettive diverse, prospettive culturali sulla terra, prospettive spaziali e temporali nel cosmo. Deve diventare tanto fles­ sibile da poter incorporare la saggezza orientale nell’ardire occidentale. Deve aprirsi ad un cosmo più ampio per ottenere una visione più ampia e più nitida. Abbastanza stranamente, queste fotogra­ fie provenienti dalla scienza, seppure fatte unica­ mente per i fini delia scienza, possono aiutare l’uo­ mo a vivere in questa dimensione impersonaleeppure-umana occidcntale-eppure-orientale. Un’antica tecnica buddista consisteva nell’immaginarsi tanto piccoli quanto un insetto e vede­ re le cose in questa prospettiva; e poi diventare im­ mediatamente, con la fantasia, tanto grande quan­ to una montagna e osservare l’uomo e l’insetto in quest’altra prospettiva. Le fotografie in questo li­ bro facilitano tali esercizi. Esse ci permettono, in 136

IV. I simboli dell'uomo-cosmo

modo simbolico, di contrapporre gli ordini e le di­ mensioni più diversi del cosmo, di guardare dal basso e dall’alto, di stare dentro e fuori simultanea­ mente. In questo modo esse possono provvedere allo strano ma profondo bisogno dell’uomo di es­ sere grande pur essendo piccolo, e di rimanere piccolo pur diventando grande.

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V. Il misticismo e il suo linguaggio

Incominciamo con parole che hanno un suono fa­ miliare: “Generalmente noi pensiamo che ‘A è A’ sia indiscutibile e che la proposizione ‘A non è A’ oppure ‘A è B’ sia inammissibile. Non siamo mai stati capaci di rompere queste condizioni della comprensione; esse sono state troppo imponenti. Ma... le parole sono parole e niente più. Quando le parole cessano di corrispondere ai fatti, è ora di lasciare le parole e tornare ai fatti”. Certamente non sarebbe difficile immaginare Alfred Korzybski parlare in questo modo contro il “principio di identità”, insistendo che la parola non è la cosa — mentre, con il suo gesto caratteri­ stico, faceva passare una scatola di fiammiferi da una mano all’altra. Ma in realtà le parole riportate sono di Daisetz Teitaro Suzuki, scritte negli anni Venti e ristampate nella sua Introduction to Zen Buddhism, nel 1949. Nel loro atteggiamento verso il linguaggio, il semanticista generale Korzybski e il buddista Zen Suzuki hanno davvero molto in comune. Entram­ bi sono consapevoli delle inadeguatezze e delle trappole della concettualizzazione; entrambi rivol139

Scritti di semiotica, etica e estetica

gono all’uomo l’imperativo di padroneggiare i suoi simboli piuttosto che esserne padroneggiato; entrambi credono che questo atteggiamento verso il linguaggio liberi la spontaneità, l’integrità c la saggezza umana. Tuttavia, c’è una differenza di idioma fra il scmanticista generale e il buddista Zen nell’uso del­ le parole, differenza che è di grande interesse e che merita di essere portata al centro della nostra at­ tenzione. La tendenza di un sostenitore di Korzybski (ed anzi della maggioranza degli studiosi della teoria dei segni) consiste nel preferire i modi di espressione della scienza moderna. Egli considera compito del linguaggio quello di essere una map­ pa del mondo sempre più adeguata, e si rivolge al­ la scienza per fornire questo linguaggio. 11 seman­ ticità generale parla o desidera parlare come uno scienziato e a volte dà l’impressione di credere che tutti gli uomini in ogni momento dovrebbero par­ lare allo stesso modo. L’interesse caratteristico del buddista Zen è molto diverso. Certamente non vi è nessuna oppo­ sizione generale alla scienza o al linguaggio scienti­ fico nello Zen; si considera la scienza come svol­ gente la sua unica e necessaria funzione.Tuttavia, lo Zen sostiene che c’è un importante tipo di espe­ rienza (safari, esperienza Zen) di cui il linguaggio del paradosso e della contraddizione è la forma di espressione naturale, appropriata e necessaria. Co­ me esempio di questo linguaggio, Suzuki, nella sua Introduzione, dà il seguente enunciato Zen, una ap­ prezzata gatha di Shan-huit del sesto secolo;

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V. II misticismo e il suo linguaggio

A inani vuote vado, ed ecco una pala è nelle mie mani; Cammino a piedi, eppure sulla schiena di un bue cavalco; Quando attraverso il ponte, Guarda, l’acqua non scorre, ma il ponte sì.

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Di tale linguaggio, e della sottintesa esperienza che esso esprime, Suzuki scrive quanto segue: “Se il sistema di logica che è stato in circolazione è considerato inadeguato per giustificare l’esperien­ za satori e il mondo che ne è derivato, il filosofo do­ vrà inventare un nuovo sistema di pensiero che si adatti alla esperienza, e non il contrario, vale a di­ re che invalidi i fatti empirici per mezzo della lo­ gica astratta” (Living by Zen, p. 118). È mia convin­ zione che la “nuova logica” richiesta da Suzuki sia fornita dalla teoria generale dei segni (semiotica), e che nei termini di questa teoria anche oggi pos­ siamo farci qualche idea sulla natura del mistici­ smo (almeno nella sua forma Zen) e della sua ca­ ratteristica forma di espressione. I nostri problemi sono i seguenti: perché mai è naturale, a volte, par­ lare in termini di paradosso e contraddizione? Quale esperienza richiede questo modo di espres­ sione? Qual è la relazione del linguaggio del mi­ sticismo col linguaggio della scienza? 11 mistici­ smo, come esperienza e come discorso, normal­ mente, è stato trattato dal punto di vista teologico e filosofico; noi tenteremo di considerarlo come un complesso processo segnico riconducibile al­ l’analisi nei termini di una teoria dei segni. Come preliminare a tale analisi, è necessario ri­ cordare a noi stessi che i segni si trovano a vari li141

Scritti di semiotica, etica e estetica

velli di complessità. In Segni, linguaggio c comporta­ mento l’argomento è trattato dettagliatamente. Per i presenti fini, è sufficiente distinguere tre livelli principali: segni pre-linguistici, segni linguistici e segni post-linguistici. Il linguaggio, come c qui considerato, è un sistema di segni con un nucleo di significazione comune a diversi interpreti, cia­ scuno dei quali può produrre i segni; un segno lin­ guistico è qualsiasi segno in una lingua. Nel caso dei segni linguistici il produttore dei segni è un in­ terprete dei segni così come lo è la persona o le persone a cui il segno è indirizzato. Un segno pre-linguistico è un segno che non è un segno linguistico e che non richiede l’operazionc del linguaggio per ottenere la sua significa­ zione. Il segnale acustico che per un cane signifi­ chi cibo in un certo luogo è un tale segno prc-linguistico. Lo sono anche i segni a cui reagisce un bambino prima di imparare a parlare. Un segno post-linguistico è un segno che non è un segno linguistico, ma che richiede l’operazio­ ne del linguaggio per ottenere la sua significazio­ ne. Un esempio è la percezione di una stella da parte di una persona, vale a dire l’interpretazione di un punto di luce come un vasto corpo incan­ descente molto lontano; questa percezione risulta dal fatto di aver sentito o letto di teorie astrono­ miche sviluppate nella cultura occidentale. Questa distinzione fra segni pre-linguistici e se­ gni post-linguistici è, secondo me, della più grande importanza, e la sua elaborazione potrebbe ben for­ nire uno degli strumenti più importanti per la scienza dei segni. Sono convinto che la nozione di 142

V. Il misticismo e il suo linguaggio

j !

segno post-linguistico sia essenziale per la com­ prensione dell’arte, dei miti, della magia, del totem, della religione, del prestigio, del pregiudizio razzia­ le e dei complessi tipi di percezione. Ma in questa sede non possiamo occuparci né della elaborazione di tale nozione, né della sua diversità di applicazio­ ne. Dobbiamo limitarci alla questione se la conce­ zione del segno post-linguistico possa far luce sull’esperienza del mistico e del suo linguaggio. Abbiamo bisogno di un ulteriore termine tec­ nico. Introduciamo il termine “interpretante” per indicare l’effetto suH’interprete necessario affinché qualcosa possa essere un segno. L’interpretante corrisponde al termine “idea” del parlare quotidia­ no; qui si presumerà che un interpretante sia, r perlomeno implichi un processo neurale di tal natura, che, quando è stimolato l’interprete del se­ gno è disposto a reagire a certi tipi di cose in cer­ ti tipi di modi. La genesi sociale del linguaggio rende possibile (come ha dimostrato George H. Mead in Mitici, Self and Society) un tipo complesso di esperienza che egli ha chiamato “prendere il ruolo dell’altro”. Me­ diante il linguaggio si possono simbolizzare tempi e luoghi diversi dal qui e ora del parlante, e persone e cose diversi dal parlante stesso. Inoltre, uno può significare se stesso al posto di quelle persone e queste cose in tempi e luoghi diversi, e quindi ri­ chiamare in se stesso la tendenza ad agire come es­ si agirebbero. Attraverso una tale assunzione di ruo­ lo, si può persino reagire su se stessi dal punto di vi­ sta di un altro. E in questo modo, sosteneva Mead, che una persona diventa consapevole di se stesso 143

Scritti di semiotica, etica e estetica

come oggetto. Ai nostri fini, tuttavia, il punto su cui dobbiamo insistere è che, in questo processo, social­ mente derivato, deH’assumere il ruolo di un altro si può diventare simbolicamente un oggetto altro ri­ spetto all’io del qui c ora: si può stare simbolicamente in un passato remoto prima che apparisse lo stato attuale del mondo e quasi simultaneamente stare in un futuro remoto quando lo stato attuale del mondo sarà trapassato; si può simbolicamente vagare per le più vaste distanze dello spazio; si può essere simbolicamente un sole, una pietra, un fiore, uno scarabeo, una goccia di acqua e il mare. E, con tutto ciò, per tutto il tempo, si rimane esistenzial­ mente se stessi, nel proprio qui ed ora. Tali complessi processi di assunzione-di-ruolo sembrano essere essenziali all’esperienza mistica. Invero, nessuno di essi preso singolarmente deve necessariamente avere questa qualità: immaginare di stare sulla luna guardando se stessi sulla terra sa­ rà interessante, ma non è affatto mistico. Suppo­ niamo, però, che gli interpretanti di questi proces­ si simbolici siano evocati simultaneamente o qua­ si simultaneamente. Se gli interpretanti dei segni sono (o comportano) vari processi neurali, allora (come ha osservato Kenneth Burke in The Rhetoric of Motives), non sussiste motivo perché gli inter­ pretanti di segni contraddittori non possano esse­ re attivati simultaneamente, per quanto le reazioni corrispondenti non potrebbero avere luogo simul­ taneamente. In questo modo, uno potrebbe essere simbolicamente sia qui che non qui, nel passato e nel futuro; potrebbe essere sia il pesce che nuota, sia il gabbiano che si tuffa. Si propone che questo 144

V. Il misticismo c il suo linguaggio

simultaneo, o quasi simultaneo, risveglio dei com­ plessi e spesso contraddittori processi di assunzio­ ne di ruolo, resi possibile dal linguaggio, costitui­ sca una parte essenziale dell’esperienza mistica. Ciò non significa che al momento dcH’csperienza il mistico parli a voce alta - o nemmeno a se stesso. Qui entra in campo la nozione del sim­ bolo post-linguistico. Perché, come nel caso della percezione di una stella, un evento all'interno di un corpo o un rumore o gesto o posizione o un oggetto nell’ambiente circostante possono essere investiti della significazione di questi complessi processi linguistici di assunzione di ruolo. Le tec­ niche dello yoga, la ripetizione di suoni quali Anni o Namu-Amida-Butsu, la meditazione davanti a un’immagine — questi sono esempi dei modi in cui si potrebbero costruire segni post-linguistici Una volta costruiti, questi segni tendono a destare gli interpretanti di una molteplicità di enunciati linguistici designativi, apprezzativi e prescrittivi avvenuti alla loro presenza. 11 parlare è necessario per il loro sviluppo, ma non per la loro successiva operazione. Quando il parlare cessa, i segni post­ linguistici riverberano i significati che il linguag­ gio ha conferito loro durante la loro formazione. Il mistico, dopo esser passato attraverso la sua esperienza ed “essere tornato in sé”, normalmente continua a parlare. E le parole che egli proferisce portano l’impronta sia della sua esperienza, sia del­ le concettualizzazioni dominanti nella cultura o nella tradizione in cui egli vive. Le sue parole, nella misura in cui provengono dalla sua esperienza, costituiscono ciò che potreb145

Scritti di semiotica, etica e estetica

be essere chiamato il linguaggio primario del mi­ sticismo. Ciò avviene in maniera abbastanza simi­ le da una cultura all’altra e da un periodo all’altro. Ovunque trova impiego un linguaggio del para­ dosso e della contraddizione. Se l’interpretazione simbolica data dalla esperienza mistica è quanto­ meno corretta, allora questo è il linguaggio “natu­ rale” per esprimere e evocare questa esperienza. Perché, se vengono destati interpretanti contrad­ dittori, essi, naturalmente, tendono a richiamare i loro corrispondenti segni contraddittori, li se si desidera evocare un’esperienza che comporti intepretanti contraddittori, niente è più efficace quan­ to i segni contraddittori. E appropriato per il mi­ stico parlare nel modo in cui parla tanto quanto lo è per l’affamato pensare al cibo oppure per lo scienziato cercare di conferire una forma quanti­ tativa ai suoi dati. Il linguaggio secondario del misticismo sorge dal tentativo del mistico di spiegare a se stesso e agli altri la sua esperienza e i suoi segni primari. E a questo punto incominciano le difficoltà. Perché la spiegazione deve essere formulata nei termini di un qualche sistema concettuale, e questo varierà da una cultura all’altra, e da una tradizione all’altra. E uno dei meriti unici dello Zen quello di aver rico­ nosciuto la relatività di questi sistemi concettuali, e di rifiutare di impegnarsi definitivamente con uno qualsiasi di essi. Lo Zen, al meglio di se stesso, non ha nessuna dottrina, né testo autorevole. Gli scritti di Suzuki sono esempi del linguag­ gio secondario del misticismo, e della libertà dello Zen nell’uso dei simboli a questo livello. Nei suoi 146

V. Il misticismo c il suo linguaggio

libri precedenti, egli non ha usato termini dalla tradizione cristiana o del vedanta; in Liuing by Zen sono evidenti simboli di entrambi queste tradizio­ ni. Suzuki qui tiene fede alle parole che io una volta gli sentii proferire:“Quando riconosciamo la inadeguatezza di tutti i simboli - allora siamo libe­ ri di usare tutti i simboli”. Ciò deve essere conces­ so. Ma non dovrebbe essere motivo, per noi, di di­ menticare la distinzione fra il linguaggio primario del misticismo ed i vari linguaggi secondari usati per discutere del linguaggio primario e delle espe­ rienze che esso sottintende. Il rifiuto dello Zen di impegnarsi nei con­ fronti di una qualsiasi delle interpretazioni dottri­ nali della “esperienza Zen” non ha fatto altro che portarlo alla giusta conclusione del diffuso seni della inadeguatezza dei linguaggi secondari c misticismo. Se il linguaggio primario del misti smo è caratterizzato dal paradosso e dalla co! traddizione, il linguaggio secondario è caratteriz zato dall’uso di negazioni. Il mistico tenta di spie­ gare la sua esperienza, cerca di tradurre nuova­ mente nel linguaggio la significazione dei segni post-linguistici che egli ha realizzato. Ma ogni proposizione che egli proferisce è prevista come parziale e inadeguata. Ed è giusto che sia così, giacché la complessa rete di processi simbolici che egli tenta di tradurre include le contraddizio­ ni. Erano state simbolizzate le posizioni nello spazio e nel tempo, ma nessuna singola posizio­ ne; erano stati simbolizzati gli io, ma anche i non­ io; le cose minute, ma anche le cose vaste; le co­ se buone, ma anche le cose terribili. Così tutta 147

Scritti di semiotica, etica e estetica

l’esperienza non è caratterizzabile in termini po­ sitivi non contraddittori. Se si tenta di eliminare la contraddizione di­ cendo che il mistico è esistenzialmente nel qui ed ora e soltanto simbolicamente non qui e non ora (che in effetti è proprio ciò che abbiamo detto), ciò potrebbe essere vero, ma non è una traduzione del linguaggio primario né una descrizione del­ l’esperienza del mistico. Alla fine il mistico ricorre alle negazioni; ciò di cui sta tentando di parlare è detto essere senza nome, di non essere né tempo­ rale né non temporale, né consapevole né inconsa­ pevole, né questo né quello. Ma poiché l’esperien­ za primaria era intensamente positiva, tali negazio­ ni sono simboli insoddisfacenti. E cosi alla fine il mistico confessa le inadeguatezze del suo linguag­ gio secondario e ritorna ai suoi segni e alle sue esperienze primari. È così che deve essere, come soltanto lo Zen aveva chiaramente capito. Il lin­ guaggio primario del misticismo non può essere “tradotto” in altri termini. Nel tentare di elimina­ re le sue contraddizioni rimangono soltanto affer­ mazioni parziali, oppure semplici negazioni. Le precedenti considerazioni non pretendono di essere una esauriente teoria del misticismo; mi­ rano semplicemente a suggerire la rilevanza della teoria dei segni per una tale teoria. Potrebbe esse­ re conveniente, ad ogni modo, indicare diverse di­ rezioni nelle quali il precedente argomento po­ trebbe essere ampliato. Che l’esperienza mistica, perlomeno come es­ sa si presenta nello Zen, comporti processi di as­ sunzioni simboliche di ruolo, viene suggerito dal-

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V. Il misticismo c il suo linguaggio

i

le parole di Shanhui che sono state citate. Ma e an­ che suggerito dal linguaggio secondario del misti­ cismo. Suzuki spesso allude all’attiva “mentazione” implicata in salari. Così egli scrive: “Quando tutte le forme dell’attività mentale sono spazzate com­ pletamente via dal campo della consapevolezza, la­ sciando la mente sgombra come il ciclo dalle nu­ vole, un solo vasto spazio di blu, si dice che Dhyana ha raggiunto la sua perfezione. Ciò può essere chiamato estasi o trance, ma non è lo Zen. Nello Zen ci deve essere salari: ci deve essere un genera­ le cambiamento mentale che distrugga le vecchie accumulazioni intellettive e getti le fondamenta di una nuova vita; ci deve essere il risveglio di un nuovo senso che riveda le cose vecchie da una prospettiva mai sin ora sognata’’ (Introduclion lo Zen Buddhism, p. 97; cfr. Living by Zen, pp. 193-194). Anche il riconoscimento del ruolo dei proces­ si simbolici nella esperienza mistica potrebbe aiu­ tare a spiegare perché il mistico rivendichi, così consistentemente e così confusamente, “verità” e “conoscenza” per la sua esperienza. I simboli sono simboli “di” qualcosa; essi hanno riferimenti; i simboli post-linguistici portano i significati delle proposizioni linguistiche con le quali erano costi­ tuite. Ciò suggerisce che i simboli del mistico, o gli aspetti simbolici dell’esperienza mistica, sono la conoscenza di qualcosa. Eppure questi simboli non portano nella direzione di nessuna specifica predizione, e né possiamo dedurre da essi alcuna proposta scientificamente rilevante. Ciò suggerisce che il mistico non possiede nessuna conoscenza nel senso in cui la possiede lo scienziato. 149

Scritti di semiotica, etica e estetica

La complessità di questa situazione è adombra­ ta da Suzuki come segue: “Salari può essere consi­ derato in un certo senso come una specie di co­ noscenza, perché dà informazioni a proposito di qualcosa. Ma c’è una differenza qualitativa fra setto­ ri e conoscenza, essi sono essenzialmente incom­ mensurabili. La conoscenza dà soltanto un’idea parziale della cosa conosciuta, e questo da un pun­ to di vista esterno, mentre settori è la conoscenza della cosa intera, della cosa nella sua totalità, non come un aggregato di parti, ma come qualcosa di indivisibile, completo in se stesso” (Liuing by Zen, p. 151). lo suggerisco di dire che l’uso da parte del mistico del termine “conoscenza” copre il proces­ so di identificazione implicato nella simbolica as­ sunzione di ruolo, mentre l’uso del termine da parte dello scienziato è limitato al verificato con­ tenuto premonitore dei simboli. I simboli, e così i processi mentali, sono coinvolti in entrambi i casi, ma l’uso è diverso; nel primo si passa compitivamente [cioè secondo un rapporto con i valori apprezzativo e di dipendenza] attraverso una com­ plessa congerie di processi simbolici, mentre nel secondo simboli specifici funzionano predittivamente in forma proposizionale. In ogni modo, nella citazione precedente Suzu­ ki non manca di dire che settori “dà informazioni a proposito di qualcosa”. Che cos’è questo “qualco­ sa”? 11 mistico tenderebbe a dire, informazioni ri­ guardo a Dio,Tao, Brahman, Nirvana, l’Infinito, va­ le a dire a parlare come se l’esperienza mistica aves­ se un “oggetto”. Eppure Suzuki stesso porta la sua testimonianza riguardo al problema che si prospet­

to

V. Il misticismo c il suo linguaggio ta: safari, egli scrive, “non è una singola esperienza che possa essere differenziata dalle altre” (Living by Zen, p. 152). Ciò suggerisce che non vi è un singo­ lo e un unico oggetto, uno fra gli altri, oppure uno che includa tutti gli altri, che venga confrontato nell’esperienza mistica. Pensare altrimenti è forse confondere l’esperienza con il parlarne, rendendo­ la così un “oggetto” di altri processi segnici. Suzuki asserisce che “è la mente come totalità che ha satori; è, indubbiamente, un atto di percezione, ma è una percezione del più alto ordine” (Introduction to Zen BiuUhism, p. 109). Abbiamo visto, tuttavia, che “percezione” è un termine generale e può essere applicato al livello sia dei segni prc-linguistici sia dei segni post-linguistici. La percezione (post-lin­ guistica) di una stella non fa emergere alcun nuovi dato sensorio ma soltanto un processo di simboliz zazione a più alto livello; allo stesso modo è possi­ bile che il mistico non “veda” nessun oggetto nuo­ vo ma percepisca tutte le cose familiari in un mo­ do nuovo. Gran parte della letteratura Zen è certa­ mente compatibile con una tale interpretazione della “intuizione” o della “percezione” mistica. Lasciatemi concludere sottolineando i punti fondamentali di questi commenti frammentari a proposito del misticismo e del suo linguaggio. E stato suggerito che l’esperienza mistica non è una frenesia emotiva né il semplice confronto con un oggetto singolare, ma piuttosto è l’esperienza di un insieme complesso e contraddittorio di proces­ si linguistici di assunzione di ruolo, i quali, infine, sfociano in simboli post-linguistici, portando con essi il significato di questo insieme di simboli. 151

Scritti di semiotica, etica e estetica

Essendosi sottoposta al processo di identifica­ zione simbolica con ogni cosa a sua disposizione, una persona diventa un’altra persona; simbolicamente non è più soltanto un oggetto fra altri og­ getti. Come un oggetto che esiste fra altri oggetti egli è piccolo e fragile, a mani vuote, a piedi, pas­ seggiando su un ponte. Ma essendosi spinto in avanti simbolicamente, egli cavalca il bue cosmico, e scava con la pala cosmica, e, come l’acqua, egli ve­ de il ponte che scorre. Le cose più comuni sono percepite d’ora in avanti sia al livello vecchio sia al livello nuovo: una pala è una pala, l’acqua è l’acqua, e un ponte è un ponte; eppure esse sono di più di ciò che erano, perché ora sono viste attraverso oc­ chi simbolici ampliati dal vagare cosmico. Questa esperienza è liberatoria. Lo ha testimo­ niato Einstein, ed egli ne ha perfino parlato come “la seminatrice di tutta la vera arte e di tutta la ve­ ra scienza”. Lo psicologo A.H. Maslow l’ha rin­ tracciata in qualche misura nelle persone di massi­ ma creatività e “salute psicologica”1. E a disposi­ zione di tutti in varia misura, a prescindere dai lo­ ro impegni scientifici e filosofici. In nessun modo è incompatibile con la scienza, e non prende il po­ sto della scienza. Né può la scienza prendere il suo posto, o negarla. Dal punto di vista semantico è ineccepibile. Infine, dal punto di vista umano è fi­ nemente soddisfacente.

1

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“Self-Actualizing People”, Personality, Symposium, 1, 1950.

Appendice

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I. Su alcune questioni post-morrisiane* di Ferruccio Rossi-Landi

1. Introduzione Giacché questo scritto è un dialogo fra il mio vec­ chio amico e maestro Charles Morris e me stesso (un vero dialogo «iella misura in cui abbiamo vera­ mente scambiato opinioni nel corso di numero!

Circa due terzi di questo scritto c una versione molto ri­ dotta, completamente riorganizzata c riscritta, dell’artico­ lo recensione “Signs about a Master of Signs” che ebbe origine in rapporto alla pubblicazione, nel 1971, di Writings in thè General Thcory of Signs (d’ora in avanti ÌVGTS) e apparve in Semiotica, XIII, 2, 1975, pp. 155-197. La re­ stante terza parte è nuova. Nel 1974 l’articolo recensione fu tradotto in italiano e parzialmente riscritto come la se­ conda parte di Charles Morris e la semiotica novecentesca, 1975, di cui la prima parte c una riproduzione della mia monografia su Morris del 1951-1952 (1953, è fuori stampa da vent’anni). In ciò che segue, i riferimenti sono al volume di Morris del 1971. Parte di questa versione fu letta e discussa all’Univcrsity of Indiana, Bloomington, e alla Texas Tech University, Lubbock, nel marzo del 1975, ricevendo, in entrambi i luoghi, una sana critica. [Tradu­ zione dall’inglese di S. Petrilli]. 155

Scritti di semiotica, etica e estetica

visite), sarebbe bene che io dessi qualche informa­ zione circa il mio interesse per le idee di Morris pri­ ma di iniziare a discutere alcune di esse. Nel 195152 scrissi una monografia in cui esaminavo tutte le pubblicazioni di Morris fino a quella data. Quando apparve nel 1953, una tale monografia forse sembra­ va eccessiva. Ora che il posto di Morris quale rap­ presentante più importante della semiotica del ven­ tesimo secolo è stato generalmente riconosciuto, le cose non stanno più così. La stessa semiotica, che negli anni Cinquanta era ancora considerata un’ap­ pendice della filosofia o una scienza biologica, ha ora acquistato un proprio status scientifico indipen­ dente in quanto principalmente (ma in nessun mo­ do esclusivamente) scienza sociale, è praticata da mi­ gliaia di studiosi in tutto il mondo e, nel 1974, ha celebrato il suo primo congresso internazionale. So­ no tornato ripetutamente a Morris negli anni fra il 1953 e il 1958. Dal 1955 circa in poi, tuttavia, inco­ minciai a tentare di fondere, così come mi sono espresso all’epoca, elementi della teoria del marxi­ smo con elementi della “filosofia linguistica” ©“ana­ litica” (Rossi-Landi 1961,1968 ora 1973*?). In quel periodo Morris, come molti dei suoi colleghi negli Stati Uniti, era ancora considerato, sul continente europeo, come un “filosofo linguistico” o “analiti­ co”, era puntualmente accusato del peccato metafi­ sico del “biologismo”. Inoltre, gran parte delle di­ scussioni intorno a lui consisteva nel collocarlo in questa o quella tendenza della filosofia linguistica o analitica e nel confrontare questa posizione con la posizione di altri filosofi di simile caratterizzazione, comunque, la sua originalità fu presto percepita spe156

I. Su alcune questioni post-morrisiane

eie in Italia, dove Ri prodotta una traduzione di Se­ gni, linguaggio e comportamento ad opera di Silvio Ceccato, nel 1949. In quel periodo furono dedicate alle sue indagini “linguistiche” una serie di pagine, sezioni di libri e recensioni, e ancora oggi vale la pe­ na leggerle dal punto di vista dei rapporti fra semio­ tica generale e filosofia (per limitarmi al periodo iniziale, cfr. Ceccato 1948, 1949, 1951; Vaccarino 1949; Paci 1950; Filiasi Carcano 1953, 1957; Scar­ pelli 1950,1955; Barone 1953; Rossi-Landi 1953 a e b, 1954, 1958; Geymonat 1956, ora in 1960; credo che un’antologia, anche in traduzione inglese, di queste prime reazioni “da un altro mondo”, che a modo loro erano sia ingenue sia sofisticate, sarebbe di grande interesse per i semiotici di oggi). L’interes­ se italiano nei confronti di Morris era favorito da una tradizione locale, di cui i rappresentanti princi­ pali sono Cattaneo, Peano, Vailati, Calderoni, Enri­ ques e Colorili, la maggior parte dei quali si posso­ no ora leggere nelle nuove edizioni elencate nei ri­ ferimenti bibliografici; questa tradizione ha certa­ mente contribuito alla prima formazione della scuola semiotica italiana. E passato molto tempo. La semiotica si è mol­ to diversificata. Essa ora spazia dalla critica lettera­ ria allo studio della comunicazione animale, dalle indagini su ogni sorta di sistema segnico non ver­ bale umano ai nuovi approcci nei confronti delle relazioni fra linguaggio ed economia e di quelle fra i linguaggi ed altri sistemi segnici, da una par­ te, e fra i sistemi di valori e le ideologie, dall’altra. Il mio stesso interesse principale sta nella semioti­ ca umana e la mia tendenza attuale è di collocare la 157

Scritti di semiotica, etica e estetica

semiosi umana nella riproduzione sociale. La riproduzione sociale \gesellschefllidie Rcproduktion] è una nozione originariamente hcgelo-marxiana concernente gli uomini in quanto distinti dagli altri animali. La continuità fra gli uomini e gli altri ani­ mali è conservata o invero materialisticamente as­ serita, ma l’attenzione è incentrata sulle loro diffe­ renze (si veda la sezione quattro, sotto). La ripro­ duzione sociale è la riproduzione delle società umane. Da questo punto di vista, il termine socie­ tà è usato adeguatamente o perlomeno più pre­ gnantemente soltanto per gli uomini e tende ad essere un sinonimo di ‘società umana’. La collocazione della semiosi umana all’inter­ no della riproduzione sociale è una faccenda intri­ cata. Le due linee di tendenza principali consisto­ no nello studiare, da un punto di vista semiotico, (i) le relazioni fra “base economica” (“struttura”, “modi di produzione”) e “sovrastrutture” (“istitu­ zioni”, “ideologie”), e (ii) le relazioni fra produ­ zione, scambio e consumo. Ciò non comporta af­ fatto che ogni studio di tali relazioni debba essere necessariamente semiotico; né si sta affermando che non entrino nella riproduzione sociale fattori non umani. Piuttosto, l’idea è che i sistemi segnici e i messaggi umani — il vero argomento della se­ miotica umana - sono da rintracciare e studiare non soltanto al livello della base economica e al li­ vello delle sovrastrutture dove certamente essi operano in ogni momento, ma anche a un terzo li­ vello relativamente indipendente, intermedio fra la base economica e le sovrastrutture; e, inoltre, che essi sono da rintracciare e studiare per tutto il ci-

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I. Su alcune questioni post-morrisiane ciò della produzione, dello scambio e del consu­ mo. Ora noi sappiamo che il comportamento umano è programmato socialmente. Che esso sia programmato anche biologicamente è ovvio in una serie di modi differenti che sono attualmente oggetto di indagine da parte degli scienziati natu­ rali e che - data la nostra nozione di riproduzione sociale come nozione che pone dei limiti — ri­ guardano più ciò che gli uomini e gli altri anima­ li hanno in comune, che i modi in cui essi differi­ scono. Allora, dal punto di vista della riproduzione sociale il comportamento umano è programmato a tre livelli: base economica, sistemi segnici e sovra­ strutture; ed è anche programmato lungo tutto il ciclo produzione-scambio-consumo. E questo un tentativo di introdurre la semiotica nella teori; storico-materialistica della riproduzione sociale mentre allo stesso tempo, per così dire, circoscri­ viamo la semiosi umana prendendo in considera­ zione tutti gli altri fattori che operano nella ripro­ duzione sociale. Ho trattato alcuni dei problemi che questo approccio comporta sin dalla metà de­ gli anni Sessanta; in inglese cfr. Linguistics and Econotnics (1974; come volume indipendente 1975, 1977). Altri scritti sull’argomento sono apparsi ne­ gli ultimi anni o sono in via di preparazione.

2. Semiotica e filosofia Per introdurre propriamente alcuni problemi post-morrisiani, incominciamo con alcuni proble­ mi morrisiani. Come inizio, voglio dire qualcosa 159

Scritti di semiotica, etica e estetica

circa uno dei modi in cui la semiotica contempo­ ranea si è sviluppata dalla filosofia contemporanca e dalla biologia. Si noti che le scienze umane o so­ ciali, specialmente la linguistica, diedero un con­ tributo relativamente secondario alla formazione della semiotica contemporanea. L’importante no­ me di Ferdinand de Saussure, per esempio, c assen­ te dai lavori di Morris. Prendiamo in esame alcuni dei primi lavori di Morris. Il problema del segno, che era stato affron­ tato da Morris esplicitamente in termini behavioristici già nel 1927 nell’articolo “The Concepì of thè Symbol”, fu ripreso dopo circa dieci anni, quando si era formato nella sua mente un atteg­ giamento sintetico. Nel suo importante volume Six Thcories of Mind, del 1932, era già arrivato alla identificazione della mente con il processo simbo­ lico. Tuttavia, fu soltanto nel 1935 che l'approccio di Morris ai problemi dei segni prese la forma di una teoria generale. Nell’articolo “Philosophy of Science and Science of Philosophy”, Morris ana­ lizzò alcune delle concezioni della filosofia proprie di quegli anni; tale analisi sarà ritrovata negli scrit­ ti successivi, fino a Lineamenti di una teoria dei segni incluso (d’ora in avanti LTS), del 1938. La prima concezione analizzata era la filosofia come logica del­ la scienza, collegata specialmente col nome di Car­ nap. La seconda concezione era la filosofia come chiarimento del significato, presente nel pragmatismo americano e in un’ala del circolo di Vienna (il pri­ mo Wittgenstein, Schlick, Waismann; il secondo Wittgenstein, Moore e i loro sostenitori in Gran Bretagna). E infine, la terza concezione era la filo160

I. Su alarne questioni post-morrisianc

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sofia come assiologia empirica, come in Schlick e spe­ cialmente in Dewey. Se noi accettiamo queste tre concezioni insieme, disse Morris, abbiamo la filo­ sofia come un “linguaggio dei linguaggi” o una teoria generale del simbolismo.Vari aspetti di que­ sta idea furono esaminati — per nominare soltanto alcuni principali articoli i cui titoli già danno qualche indicazione sui loro contenuti — in “The Concept of Meaning in Pragmatism and Logicai Positivism” del 1934 (pubblicato in 1936), “Prag­ matism and Metaphysics” dello stesso anno, “The Relation of thè Formai and Empirical Sciences with Scientific Empiricism” del 1935, “The Rela­ tion of Formai to Instrumental Logic” del 1929. Le relazioni di una teoria del simbolismo col prag­ matismo furono analizzate in “Peirce, Mead, and Pragmatism” del 1938, nelle introduzioni alle ope­ re di Mead, Mind, Self, and Society (1934), e The Pliilosophy of theAct (1938); successivamente, anche in “William James Today” del 1942, e di nuovo in un libro sul movimento pragmatista nella filosofia americana (1970). Una sintesi filosofica chiamata empirismo scientifico fu così sviluppata. Quando noi esaminia­ mo il significato di una espressione dal punto di vi­ sta delle sue relazioni con altre espressioni, con le cose significate e con coloro che ne fanno uso — disse Morris - apriamo la strada alla sua piena de­ terminazione. Nell’empirismo tradizionale si pote­ vano rintracciare tre difetti principali: la scarsa giu­ stizia resa alle scienze formali, l’incapacità di colle­ gare una teoria empirica del significato ad una co­ smologia naturalistica e la tendenza al soggettivi161

Scritti di semiotica, etica e estetica

sino. Un empirismo scientifico trasformato in se­ miotica permette la comprensione di ciascuno di questi tre difetti come risultato della omissione di una di queste tre dimensioni principali dei segni. Nel volumetto Logicai Positivista, Pragmatista, and Scientific Empiricism (1937), sono riuniti cinque dei suddetti scritti. Ritengo che debba essere con­ siderato obbligatorio per i principianti in semioti­ ca. L’articolo “Scientific Empiricism” (1938) c una rielaborazionc del contenuto del volume per YEncyclopcdia of Unifted Science, di cui il progetto era stato sviluppato al “Congress of Philosophical Science” del 1935; infatti, Ll'S apparve nella Ettcyclopedia. E importante, insisteva Morris, abbraccia­ re un empirismo radicale, un razionalismo conte studio di metodo, un pragmatismo critico. Queste sono le tre componenti che corrispondono alle tre dimensioni della semiotica. L’empirismo radicale è investigazione semantica, il razionalismo metodolo­ gico è investigazione sintattica, il pragmatismo cri­ tico è investigazione pragmatica. L’unità della scien­ za è quindi il risultato dell’unità della sua struttu­ ra linguistica, delle relazioni semantiche che riesce a stabilire e degli effetti pratici che produce. Si no­ ti che in questo modo anche i tre campi tradizio­ nali delia filosofia - la logica, la metafisca e la teo­ ria dei valori — erano indirettamente ripresentati in termini semiotici. Tutto questo potrebbe sorprendere chiunque arrivi alla semiotica digiuno di cultura filosoficostorica. Per esempio, si potrebbe oggigiorno accet­ tare, o rifiutare, la tripartizione della semiotica co­ me mero risultato della ricerca oggettiva svolta sui 162

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I. Su alcune questioni post-morrisiane

segni. Invece, tale ricerca “oggettiva” non sarebbe stata possibile senza la descritta confluenza delle differenti correnti di pensiero. La tendenza ideolo­ gica di ciascuna di esse era troppo forte. Ci sono due principali concezioni della semio­ tica che percorrono le opere di Morris: la semio­ tica come erede della filosofia e organo della scienza — espressa specialmente negli scritti prepa­ ratori sopra indicati e successivamente in LTS; e la semiotica come scienza fondamentalmente biolo­ gica, o meglio, come scienza che è comportamen­ tale in un senso biologico — espressa specialmente in Segni, linguaggio e comportamento (d’ora in avanti SLC),dc1 1946. Nel primo caso.il discorso filoso­ fico, purché si mantenga aggiornato riguardo alle scienze sia formali che empiriche, diventa discor­ so semiotico; nel secondo caso, invece, il discorso filosofico è considerato allo stesso livello di altri possibili tipi di discorso, soggetti alla indagine se­ miotica. Entrambe queste posizioni contengono elementi usurati e contingenti insieme a elementi validi, e entrambe sono indubbiamente degne di discussione e di integrazione. Negli anni Cin­ quanta me ne sono occupato accuratamente in una serie di scritti che ora sono superati (RossiLandi 1953 a e b, 1954, 1958). Quanto ai proble­ mi inquietanti delle relazioni fra l’attuale ricerca semiotica e qualsiasi cosa si possa ancora intende­ re come filosofia, essi non possono essere affronta­ ti in questa sede. In ogni modo, non sono a cono­ scenza di qualcuno che abbia le idee compietamente chiare al riguardo. Ciò che invece so è che c’è una cospicua mancanza di profondità filosofica 163

Scritti di semiotica, etica e estetica

nella maggioranza dei linguisti, critici letterari e semiotici, quando ad essi capita di usare termini con uno spessore storico come, per esempio,‘ma­ teriale’, ‘ideale’, ‘naturale’, ‘sociale’, ‘individuale’, e moltissimi altri; essi ne fanno uso come se fossero soggetti a interpretazioni basate sul senso comune, e questo naturalmente è insensato.

3. Segni e valori Un’occhiata alla bibliografia di Morris rende subi­ to evidente che egli si occupò dei valori almeno altrettanto quanto si occupò dei segni. 1 titoli principali sono: Patlts qf Life: Prcfacc lo a World Religion (1942); 77ic Open Seìf (1948); Varieties qf Vaine (1956); Signification and Significance. A Study qf thè Rclations of Signs and Values (1964); e ci sarebbero molti altri saggi da aggiungere a questi volumi. Possiamo utilizzare uno dei suoi saggi come esempio di questo duplice interesse. “Estbetics and thè Theory of Signs”* (1939) è, per comune ac­ cordo, il testo singolo che più ha contribuito alla formazione di una semiotica estetica in senso pro­ prio. E anche uno dei lavori in cui Morris si oc­ cupò espressamente di segni e valori nel corso del­ la stessa discussione. Ciò che Morris proponeva non era una estetica semiotica, o neppure, limitan­ do di più il campo, una estetica semantica, ma piuttosto una semiotica a tre dimensioni, che è

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[Ora in questo volume (N.rf.C.)].

I. Sii alcune questioni post-morrisiane estetica nella misura in cui si applica al campo del­ l’arte. La differenza fra una “semiotica estetica” e una “estetica semiotica”, è che la prima è una ap­ plicazione particolare della scienza dei segni, e in quanto tale è un ponte fra arte e tutto ciò che rientra nei fondamenti della scienza dei segni. Una “estetica semiotica”, invece, potrebbe essere persi­ no una “Estetica Speculativa” come un settore di qualche Super-scienza filosofica; potrebbe accon­ tentarsi dell’uso, di qualche uso, di alcuni strumen­ ti semiotici. Secondo Morris, il campo della critica estetica in senso lato includeva sia l’analisi estetica sia il giudizio estetico, essendo quest’ultimo critica estetica in senso stretto. Entrambe queste discipli­ ne erano considerate metalinguistiche in quanto parlavano di segni. I segni di cui parlavano erano i segni in cui consiste l’opera d’arte. Secondo la ben conosciuta, sebbene embrionale, definizione del segno estetico “quale segno iconico il cui designatum è un valore”, segni e valori sono quindi en­ trambi presenti. Ma mentre l’analisi estetica, quale settore dell’analisi semiotica in generale, faceva parte del discorso scientifico, la critica estetica fa­ ceva parte del discorso “tecnologico”. In quegli anni, per Morris era “tecnologico” qualsiasi di­ scorso in cui avvenissero delle valutazioni, un pun­ to che diventa più chiaro quando si sa che all’epo­ ca egli considerava tre tipi principali di discorso: quello scientifico, quello estetico e quello tecnolo­ gico (specie in “Science, Art, and Technology” [1939]). In “Empiricism, Religion, and Democracy” (1942), i tipi di discorso divennero quattro, se165

Scritti di semiotica, etiCa e estetica

condo le quattro funzioni principali dcj segni. Questo era l’inizio del processo che portò Morris alla tuttora importante e fondante classificazione dei tipi di discorso nel capitolo 5 di SLB. Tuttavia, se il giudizio faceva parte del discor­ so tecnologico, la critica estetica non richiedeva soltanto una teoria dei segni (sufficiente invece al­ l’analisi estetica), ma anche una teoria dei valori (cfr. le sezioni 3 e 12 di “Estetica e la teoria dei se­ gni”). Cosi facendo, la critica estetica comportava valori a due livelli: al livello dell’analisi estetica, per il fatto che i segni estetici sono portatori di valo­ re; e al livello del giudizio estetico, per la necessi­ tà di una teoria dei valori. Morris quindi andava collocando i valori accanto ai segni, mentre si op­ poneva all’idea che il mero studio dei segni potes­ se dare un qualsiasi diritto a formulare giudizi in­ torno ai valori. Le attuali discussioni sui limiti del­ lo strutturalismo, sulle differenze fra analisi e valu­ tazione e sulle relazioni fra sistemi di segni e siste­ mi di valori o ideologie tendono ad indicare che nessun sistema semiotico, e a maggior ragione nes­ sun testo, può essere pienamente compreso e ade­ guatamente valutato, senza che anche i valori da cui necessariamente nasce, e che trasmette, siano presi in considerazione (per dare qualche esempio, cfr. i lavori di Corti, Eco, Kristeva, Rastier, RossiLandi, Segre,Veron e Bachtin-Volosinov).

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1. Sii alarne questioni posbmorrisiane 4. Charles Morris e la “pratica sociale” Una cosa che colpisce i lettori di LTS* un terzo di secolo dopo che fu scritto è l’ampiezza dell’ap­ proccio lì adottato. Me ne sono occupato in un saggio del 1958, dove ho tentato una interpreta­ zione delle due principali fasi della semiotica di Morris sia nei termini dei linguaggi “speciali” (“tecnici”, o “ideali”) deliberatamente costruiti per parlare dei segni in generale, sia nei termini degli universi di discorso in cui gli stessi linguaggi speciali potevano essere inclusi. Qui voglio solo sottolineare che l’ampiezza dell’approccio di LTS può essere considerata in più direzioni. Ne consi­ dererò tre: abiti nell’uso dei segni come pratica so­ ciale, in questa sezione; semiosi e significato, nella sezione cinque. In L'I'S i termini fondamentali introdotti per descrivere la situazione globale della semiosi furo­ no ricondotti, almeno ipoteticamente, a una sin­ gola espressione: “rendersi conto mediatamente di” (ibid. pp. 3-9, 87 e passim [nell’edizione del 2009, pp. 79-83 e passim]). Questo termine primi­ tivo a sua volta doveva essere poi ricondotto, spe­ cialmente in SLC (nota la, p. 268), alla bio-psico­ logia comportamentista. Tuttavia in LTS fu intro­ dotto accanto alla nozione di “abiti comportamen­ tistici” nell’uso di una lingua (come di qualsiasi si­ stema segnico non verbale), e invero finì coll’iden-

*

[I riferimenti alle pagine, sia per LTS, sia per SLC, ri­ mandano alle edizioni in traduzione italiana (N.d.C.)]. 167

Scritti di semiotica, etica e estetica

tificarsi con esso (LTS, pp. 62-76-80, 123-127 [nuova ed. pp. 135-154, 161, 170, 207-216, 221)). Morris fu esplicito: “l’interpretante di un segno è l’abito...”, ecc. (pp. 91-95 [nuova ed. pp. 169-170)). La nozione di abito non era del tutto chiarita da Morris, né avrebbe potuto esserlo in una indagine così breve come LTS. Molta acqua è passata sotto gli innumerevoli ponti della filosofìa e della scienza in quest’ultimi decenni, cosicché la nozione di abi­ to va ora vista nei termini delle discipline che la ri­ cerca contemporanca considera come interconnes­ se in vari gradi. Da ciò che si può desumere da una rilettura di L'/ÌS, la nozione di “abito comporta­ mentistico nell’uso dei segni” può essere riferita a: a) le caratteristiche personali di coloro che usano un sistema segnico; b) i processi bio-psicologici co­ muni a tutti gli individui che hanno quellabito, quando gli individui sono considerati nella loro materialità psico-fisica; c) i fatti c processi sociali, con riferimento alla comunità di cui gli individui fanno parte e di cui (secondo la dottrina che gli in­ dividui sono “prodotti” dalla loro comunità) sono prodotti, o con riferimento a sezioni in riferimen­ to a tratti generali della società umana in senso la­ to; d) le operazioni specifiche, che possono essere formalmente estrapolate e descritte, svolte da colo­ ro che praticano quell’abito, vale a dire le tecniche che chiunque usi un sistema segnico abbia impara­ to, possieda, applichi e trasmetta alle più giovani ge­ nerazioni in una maniera che sia comune ad altri parlanti ed ascoltatori e che si possano applicare in modo più o meno corretto. Morris insistette sui tipo di comportainenti168

1 I. Su alcune questioni posl-morrisianc

smo da lui preferito: non un comportamentismo strettamente biologico della specie watsoniana, clic in termini della storia delle idee è materiali­ smo meccanicistico, ma piuttosto — attraverso il comportamentismo più ampio diTolman e Hull — comportamentismo dichiaratamente sociale come quello di Mead. Perciò a me sembra legittimo avanzare l'interpretazione più favorevole a Morris: egli aveva abbandonato le strette vie del comporta­ mentismo c si era avventurato nel territorio di una comportamentistica (lui stesso usa questo termine) che può finire coH’identificarsi con lo studio della pratica o dcH’azione umana. Poiché l’uomo è uo­ mo soltanto socialmente, l’azione umana avrebbe potuto essere intesa da Morris stesso come pratica sociale. Egli ha persino utilizzato questa espressione nel titolo di un breve articolo del 1940; e nelle no­ stre conversazioni egli accettò questa interpreta­ zione del suo “comportamentismo” come sostan­ zialmente più corretta di molti altri che gli veni­ vano in mente. C’è, naturalmente, una tradizione nell’uso del sintagma ‘prassi sociale’ negli Stati Uniti. Per dare un esempio relativamente remoto, il Presidential Address di John Dewey all’American Psychological Association del 1899 era intitolato “Psychology and Social Practice”, e lo troviamo ripubblica­ to nel 1963 in una raccolta dei primi scritti di De­ wey, a cura di J. Ratner sotto il titolo Philosophy, Psychology, and Social Practice.Tuttavia, introdurre la nozione di una pratica sociale a questo punto, si­ gnifica fare un salto fuori dalla tradizione di pen­ siero di cui Morris o persino Dewey fanno parte. 169

Scarn i DI SEMIOTICA, ETICA e estetica La nozione generalizzata di pratica sociale è il lato attivo della riproduzione sociale e in alcuni conte­ sti diventa quasi il suo sinonimo. In quanto tale è il pilastro centrale della concezione storico-niatcrialistica del mondo. Secondo questa concezione, alcuni animali incominciarono a lavorare insieme su questo pianeta, vale a dire essi incominciarono a sviluppare una pratica quasi sociale nuova e diffe­ rente dalle pratiche di tutte gli altri animali. L’at­ tenzione è qui incentrata su ciò che era e rimane nuovo e differente, e non su ciò che rimane im­ modificato o che ricadeva sul livello originario. L’evoluzione storica in senso lato incominciò a so­ vrapporsi sull’evoluzione biologica anche nella mi­ sura in cui l’animale destinato a diventare uomo stava usando sistemi segnici sempre più specie­ specifici e specie-universali basati fondamentalnente sul lavoro e sullo scambio. Altri animali usa­ no anch’essi sistemi complessi di comunicazione (Sebeok 1972); non c’è nessun tipo principale di segno che sia esclusivamente umano (Sebeok 1976, trad. it. cap. 8); e il campo è possibilmente aperto a scoperte straordinarie. Ma, di nuovo, ciò che ci interessa qui è la misura in cui furono svi­ luppati effettivamente i nuovi sistemi segnici fin­ ché essi divennero infine fondamentalmente spe­ cie-specifici e specie-universali, non la misura in cui vi rimase in essi qualcosa di condiviso da altri animali, o la misura in cui ebbero sviluppi diversi nei vari gruppi umani. Inoltre, ciò che si trova a un certo punto del­ l’evoluzione storica è la esclusiva, specie-specifica e specie-universale, co-presenza di varifattoriì a prescin­

do

I. Su iilfinir questioni post-morrisiane

dere dal fatto se uno di essi sia anche presente in questa o quella specie non umana. L’accumulo quantitativo diede luogo a salti qualitativi. Persino la nozione di territorio che è fondamentale per lo studio di tutti gli animali subisce un cambiamento radicale quando lo usiamo per il mondo umano (v. gli scritti inediti di Vaughan);c così anche la nozio­ ne di aggressione, gerarchia e molte altre. Il collega­ mento col mondo animale non è più diretto quan­ do affermiamo clic ciò di cui si viene a conoscen­ za mediante la ricerca scientifica è anche dovuto al­ la trasformazione della natura operata dall’uomo, e viceversa (cfr. al riguardo, la traduzione attesa da troppo tempo di Kosik 1963 nei Boston Studics in thè Philosophy of Science, 1976). La mancanza di col­ legamento è ancora più profonda quando aggiun­ giamo che sia la ricerca scientifica, sia la trasforma­ zione della natura sono strettamente interconnesse con la produzione del consenso da parte del pote­ re politico all’interno di ciò che Gramsci chiamò “società civile” (cfr. il magnifico indice analitico al­ la fine della edizione critica dei suoi Quaderni del carcere, 1975). Come disse Hegel, “il paradiso è un giardino dove possono rimanere soltanto gli anima­ li” (Philosophie der Geschichte, IX, 391; trad. it., Ili, 241). Alle generazioni successive fu insegnato a co­ struire ed usare nuovi sistemi segnici in modi sem­ pre migliori attraverso la pratica sociale, l’attività comune alle persone. Ciò che è essenziale di que­ sto processo è che i nuovi risultati venivano continua­ mente usati quali nuovi materiali e nuovi strumenti. In­ fatti, il lato più costruttivo della pratica sociale è il 171

Scritti di semiotica, etica e estetica

lavoro, e il lavoro è fondamentale nella formazio­ ne delle più fondamentali unità della cosiddetta produzione materiale. Flints aveva già richiesto operazioni abbastanza complicate che natural­ mente dovevano essere insegnate da esperti (cfr. Leakey 1954: 128-139). Come ho tentato di di­ mostrare sin dal 1965, il lavoro è basilare anche nella formazione di unità elementari come i fone­ mi (Rossi-Landi 1965, ora in 1973a: 61-68, 181221; 1972n; 65-70; 1974, ora in 1977: 32-54, 78108; e cff. il contributo di Prieto alla questione, 1975:53-56,124-127, e passim). Se noi consideras­ simo i fonemi come entità o naturali o mentali, li separeremmo dal lavoro umano, cioè, dal cuore dell’attività comune della gente. Sorgerebbero al­ lora problemi vari. Per esempio, perché mai tali entità, se sono o soltanto naturali o soltanto men­ tali, oppure (riunendo i pezzi recisi) soltanto naturali-e-mentali, sono differenti da una lingua all'al­ tra, da un luogo all’altro, da un tempo all’altro, da un gruppo umano all’altro? La risposta ovvia è che essi sono invece il prodotto della pratica sociale; e la pratica sociale, mentre ha dovunque tratti co­ muni, può variare infinitamente nelle sue manifesta­ zioni. Ciò che importa qui è che, in una data co­ munità, sono eseguite e insegnate ai neonati le stesse operazioni. All’interno della comunità le persone si capiscono come risultato dell'aver im­ parato la stessa pratica sociale, e non viceversa. As­ sumere, al contrario, che la gente può imparare la stessa pratica sociale perché ci si capisce vicende­ volmente significherebbe mettere il carro cartesia­ no di un io preformato davanti al cavallo necessa172

I. Sii alcune questioni post-morrisiane

rio a trascinarlo. I modi differenti in cui la pratica sociale delle varie comunità è distribuita per scopi differenti ci dà accesso a problemi come la com­ plicazione dei linguaggi primitivi in quanto di­ stinti dalla relativa semplicità dei linguaggi delle comunità altamente sviluppate. La pratica sociale continuò a svilupparsi in queste tre forme principali: la lotta per la produ­ zione, che è appropriazione e trasformazione del­ le risorse naturali; la lotta di classe, nel senso am­ pio di distinzione di gruppo, opposizione e sfrut­ tamento all’interno di ogni comunità e fra comu­ nità diverse; e la ricerca scientifica, che permette nuovi sviluppi tecnologici, che a loro volta favori­ scono la lotta per la produzione. Strati comple­ mentari di sistemi comunicativi, sia verbali eh, non verbali, furono sviluppati nelle tre forme. Li pratica sociale produceva anche i miti, le illusioni le tecniche morali e le tecniche di controllo per la formazione del consenso di cui aveva bisogno man mano che procedeva — incluse le differenti conce­ zioni della realtà. Il punto centrale qui è che la stessa concezione della realtà che predomina in un qualsiasi dato momento è una espressione della pratica sociale dominante, e non viceversa. Crede­ re invece che la pratica sociale si fondasse su una data concezione della realtà significa operare una colossale inversione. Ciò non vuol dire, tuttavia, che le concezioni della realtà siano prive della pos­ sibilità di retroagire sulla pratica sociale. Esse, di fatto, retroagiscono per mezzo dei sistemi segnici, modellando in questo modo la pratica sociale fu­ tura — per quanto è nei termini e per mezzo dei si-

i 173

Scritti di semiotica, etica e estetica

sterni segnici che le varie concezioni di realtà so­ no espresse. Mentre questo non è il luogo per continuare la discussione sulla pratica sociale, biso­ gna rilevare che “la sintesi filosofica che conduce alla semiotica” di Morris, era talmente vigorosa che riuscì ad esprimersi anche in nozioni usate soltanto in un modo ristretto ed occasionale all’interno della propria tradizione di pensiero, am­ pliando, per così dire, queste nozioni dall’interno. Queste stesse nozioni, tuttavia, erano state genera­ lizzate, e altrove sono ancora considerate fondamentali.

5. Sentiosi e significato Morris aveva il merito di aver presentato la semio­ si come una situazione globale in cui i termini in­ trodotti come fondamentali — ‘segno’, ‘designa­ timi Vinterpretante’, e ‘interprete’ — “si comporta­ no l’un l’altro, giacché altro non sono che manie­ re di riferirsi a diversi aspetti del processo della se­ miosi” (LTS, p. 12 [nuova ed. p. 80]). Le proprietà di essere segno, designatum [succes­ sivamente chiamato significatimi da Morris stes­ so], interprete, interpretante sono proprietà rela­ zionali, che le cose assumono col partecipare al processo funzionale della semiosi. La semiotica (seiniotic) [più tardi chiamata seniiotics, ma a quanto pare a causa di un errore fatto da un dat­ tilografo intorno agli anni Trenta], pertanto, non si occupa dello studio di un particolare tipo di oggetti, ma di oggetti ordinari in quanto (e solo in

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I. Su alcune questioni post-tnorrìsiane quanto) partecipi alla semiosi (ibid., pp. 13-14; il corsivo è mio |nuova ed. pp. 81-82]). Le proprietà segnichc non sono proprietà “og­ gettive” come il colore, la forma o il peso; ma non sono neppure proprietà soggettive come il sapore, il piacere, il dolore (le cose non sono così sempli­ ci; ma la dicotomia oggettivo-soggettivo c ancora utile). Esse sono proprietà non-oggettiue clic qualsiasi oggetto può acquisire in determinate circostanze. Le cir­ costanza sono quelle che formano la situazione globale della semiosi. Dato un approccio di questo tipo, si possono fare varie osservazioni concernen­ ti in particolare le classi e i sistemi di oggetti deli­ beratamente prodotti per l’uso in quanto segni. 11 carattere specifico di gran parte della produ­ zione segnica sembra essere un argomento contro l’approccio di Morris. Si può sostenere, infatti, che gli oggetti segnici, una volta prodotti, esistono nel­ la realtà all’interno dei loro segni, e che, quindi, non è vero che essi siano proprietà non oggettive. Ma a questo si potrebbe rispondere che gli ogget­ ti prodotti devono essere, in effetti, prodotti, e poi usati, vale a dire che le operazioni umane entrano sempre nella questione; e questo sembra essere un argomento a favore dell’approccio di Morris. L’obiezione suddetta sottolinea a modo suo la se­ parazione fra i prodotti e il processo della produ­ zione e della riproduzione; la risposta sottolinea il legame fra i prodotti, da una parte, e la produzio­ ne, la riproduzione e l’uso, dall’altra. Entrambe hanno la loro validità; e forse si può risolvere il contrasto evitando la confusione fra:

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Scritti di semiotica, etica e estetica

A, il carattere noti oggettivo dei segni in quanto tale, e B, il carattere oggettivo dell’uso dei segni. B, l’uso dei segni organizzati in sistemi, è una realtà sociale; in quanto tale, è oggettivo almeno nel senso che nessun individuo o gruppo di indi­ vidui, può cambiarlo a volontà. Ma non consegue dal carattere oggettivo degli abiti comportamentali di qualsiasi comunità uma­ na o della società nel suo intero (B) che i segni co­ sì impiegati siano essi stessi strumenti oggettivi (/l). Se lo fossero, la demistificazione non sarebbe mai possibile. Che qualsiasi pezzo di demistifica­ zione sia sempre arduo precisamente a causa del carattere oggettivo degli abiti sociali, è un altro aspetto del problema. Per dirla diversamente, la proprietà dell’essere un segno è una proprietà sociale che non ha niente a che fare con le proprietà del sigtians, del signatutn, o cosa significata, specie se consideriamo ognuno di essi isolatamente, prima che entri a far parte della sintesi semiosica. La proprietà dell’essere un segno è il diretto risultato di un dato pezzo della pratica sociale che io chiamo “produzione linguistica” e “lavoro linguistico”. Questo risultato è impiegato come uno strumento le cui proprietà non sono og­ gettive. Ogni istanza della pratica sociale — a meno che per qualche scopo non sia vista essa stessa co­ me il risultato di una pratica sociale precedente o di un livello più alto — è invece quella che è; non la si può cambiare, e quando si crede che la si stia met­ tendo da parte, tutto ciò che si sta facendo, nella maggior parte dei casi, è semplicemente procedere

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I. Si* alcune questioni post-morrisianc

a un'altra istanza nella pratica sociale. È questo il senso in cui gli abiti sociali hanno un carattere og­ gettivo ed è davvero difficile disfarli. Un esempio rudimentale è che non si può usare perro per gatto in una comunità di parlanti di spagnolo; non si può interferire con la pratica sociale nel senso di disfar­ la. Ma si può naturalmente passare ad un’altra co­ munità, “cambiando” in questo modo l’istanza del­ la pratica sociale mediante la mera sostituzione, e trovare per esempio che in una comunità di parlan­ ti di ungherese bisogna usare kutya per cane, e che non lo si può usare per gatto più di quanto si po­ trebbe usare perro. Non c’è niente di oggettivo nei segni linguistici cane, perro o kutya. Ma gli abiti comportamentali, vale a dire le istanze della pratica sociale che li ha attuati usando quei signantia così come sono usati, sono oggettivi. Si noti che se an­ diamo da uno spagnolo e gli diciamo che gli un­ gheresi descrivono i gatti come kutyàk, stiamo im­ piegando il carattere oggettivo della sua produzio­ ne linguistica, sia che riusciamo ad ingannarlo sia che non ci riusciamo. Rimane il fatto che per Morris di LTS qualsia­ si oggetto può in principio diventare un segno, pur­ ché vengono fatte alcune precise azioni sull’uso di ‘oggetti’. Ciò è indubbiamente vero. Effettivamen­ te, è l’approccio più ampio che si possa dare alla semiotica generale, senza cadere nella fallacia idea­ listica dell’asserire che tutto è, e non può fare a me­ no di essere, un segno (ho esaminato altri aspetti di questi problemi in “Signs and bodies”, di prossima pubblicazione) [relazione tenuta al primo con­ gresso mondiale dell'Associazione Internazionale 177

Scritti di semiotica, etica e estetica

di Studi Semiotici, Milano, 2—6 giugno 1974, v. Rossi-Laudi 1979, 1985, 1992)]. Un altro aspetto dell’ampiezza dell’approccio di Morris è la sua concezione di significato. “Nulla è intrinsecamente segno o veicolo segnico”, asserì Morris, “ma diventa e rimane tale solo in quanto permetta che qualcosa si renda conto di qualcos’al­ tro per mezzo della sua mediazione” (p. 116, il cor­ sivo è mio (nuova ed. p. 194|). Ciò è vero anche di significato — per tutti i significati di ‘significato’: I significati non debbono venir localizzati in un qualche posto del processo semiosico, come se fossero degli esistente; vanno, invece, caratteriz­ zati nei termini di questo processo preso nella sua interezza.‘Significato’ è un termine semioti­ co, non un termine della lingua cosale; dire che in natura ci sono dei significati non è affermare che ci sia una classe di entità così come ci sono alberi, rocce, organismi e colori, bensì che ci so­ no oggetti e proprietà funzionanti in processi di semiosi (ibid. (nuova ed. pp. 194-195]). Il significato è quindi esteso all’intera situazio­ ne della semiosi; è un termine semiotico, e non meramente semantico.‘Significato’significa ogni e qualsiasi fase dei processi segnici (lo status di esse­ re segno, l’interpretante, il fatto di denotare, il si­ gnificatimi) (SLC, p. 28): per i fini vastissimi cui servono le lingue d’ogni giorno, non è staro necessario denotare con pre­ cisione i vari fatori della semiosi, e ci si limita ad accennare vagamente al processo con il termine ‘significato’ (LTS, p. 114) [nuova ed. pp. l92). 178

1. Si* alcune qiieslip,,i Posi-ntorrisiane Morris preferiva non usare il termine ‘significa­ to’ in quanto riteneva fosse troppo vago (LTS, pp. 112-127 [nuova ed. pp. 189-207]; SLC, p. 28). Ma egli lo prese in esame, ed è un bene che lo abbia fat­ to. Il termine ha continuato ad essere usato in vari modi da parte di innumerevoli semiotici, linguisti, logici, filosofi, antropologo sociologi, psicologi, psi­ chiatri e altri scienziati (per lasciare da parte miriadi pittoresche di dilettanti). E precisamente perché ‘si­ gnificato’ c un quasi-sinonimo di ‘semiosi’ che nes­ suno riesce a cancellarlo non solo dal linguaggio quotidiano, ma persino dal discorso scientifico. Nella terminologia morrisiana, la dimensione semantica della scmiosi concerne la relazione dei segni con i loro significata e i loro possibili denota­ ta; la dimensione pragmatica concerne la relazione dei segni con i loro interpreti e interpretanti; la di­ mensione sintattica riguarda le relazioni fra segni. Ciascuna di queste tre discipline della semiotica, che corrispondono alle tre dimensioni, si concen­ tra sulla rispettiva dimensione lasciando da parte in qualche misura le altre due. Fu con molta pruden­ za che Morris tornò alla sua tripartizione in SLC (pp. 210-213). Il punto centrale era — ed è — che non si deve credere che ci siano segni semantici, sintattici o pragmatici; questo sarebbe assurdo per­ ché ogni segno per definizione è tutte e tre le co­ se — non abbiamo un segno se non abbiamo la se­ miosi, vale a dire la simultanea presenza delle tre di­ mensioni. E quindi sempre con i segni che le tre sotto discipline della semiotica hanno a che fare. Segni, segni completi erano ciò di cui si occupa­ vano le vane correnti di pensiero confluenti nel-

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Scritti di semiotica, etica e

ESTETICA

l’empirismo scientifico che a sua volta fu identifi­ cato con una teoria generale del simbolismo, vale a dire con la semiotica. Che cosa succederebbe, infatti.se togliessimo la semiosi e tentassimo di analizzare il rimanente? Che cosa ci sarebbe da analizzare? Si potrebbe pensare ad una serie di cose diverse: (i) Tutte le “cose” fisiche, corporali o materiali (in un senso inclusivo di questo termine — il senso in cui le on­ de elettriche ed altre sono anche esse ovviamente materiali) che esistono nel mondo. Ciò che qui ri­ mane da parte è come tali “cose” possono essere messe insieme e usate nei modi complessi che producono la semiosi. (ii) Azioni, prevalentemente quelle svolte dagli organismi umani e animali. Queste azioni sono deliberatamente isolate come azioni non segniche, vale a dire come veri e pro­ pri movimenti di corpi nello spazio e nel tempo (cfr. sezioni 6 e 7 sotto), (iii) Processi, che hanno luogo all’interno degli organismi, o delle macchi­ ne, esaminati da discipline come la fisiologia o l’elettronica, rispettivamente. Anche qui tutte le funzioni che in un modo o che nell’altro sono funzioni segniche sono intenzionalmente lasciate da parte, (iv) Entità non fisiche postulate dal pen­ siero, siano esse riconosciute come prodotti del pensiero stesso oppure ritenute oggetti di speciali “appercezioni”. (L’esistenza del pensiero non segnico è, naturalmente, un problema di per sé; ancora di più è l’esistenza dell’esistenza indipenden­ te di entità non fisiche). Separatamente, secondo le tre dimensioni e avendo eliminato la semiosi: la dimensione sintatti180

I. Sii alcune questioni post-morrisiane

ca diventerebbe lo studio della geometria, o del­ l’acustica, o di altre relazioni fisiche fra i veicoli che erano (o saranno) veicoli segnici; la dimensione se­ mantica diventerebbe lo studio delle relazioni fra oggetti platonici che erano (o saranno) significata, come pure fra oggetti di qualsiasi tipo (fisico o non fisico, azioni, e anche altri segni o altri non segni) che erano (o saranno) denotata; la dimensione prag­ matica, infine, diventerebbe lo studio delle relazio­ ni non sociali fra organismi che erano (o saranno) interpreti e fra le loro azioni, o modificazioni inter­ ne, che erano (o saranno) interpretanti. Riguardo tutto questo ci sono numerosi brani in LTS che consiglierei a qualunque lettore di esaminare atten­ tamente (cfr. per esempio, pp. 114-117 di LTS [nuova ed. pp. 192-197]). Sembrerebbe conseguire dalle precedenti con­ siderazioni che dire ‘segno’, ‘semiosi’, o ‘significa­ to’ è dire quasi la stessa cosa - quasi, perché usare uno di questi tre termini può servire ad accentua­ re questo o quell’aspetto della situazione. In altre parole, i tre termini tendono a sovrapporsi. E da questo punto di vista che dobbiamo giudicare le tre “riduzioni” che hanno generalmente domina­ to il campo: la riduzione di significato alla sola di­ mensione semantica; la riduzione dell’organico (o del mentale, o del sociale) alla sola dimensione pragmatica; e la riduzione del formale alla sola di­ mensione sintattica. Contro queste tre riduzioni, la tesi che ritengo si debba difendere rimane, fondamentalmente, la tesi avanzata da Morris negli anni Trenta. Se una proprietà semioticamente costitutiva appartiene a una 181

Scritti di semiotica, etica e estetica

delle tre dimensioni, allora essa appartiene necessanamente anche alle altre due. Le dimensioni so­ no maniere di astrarre, di lasciare da parte qualco­ sa in modo da concentrarsi su qualcos’altro. La to­ talità da cui si è parzialmente fatta astrazione con­ tinua ad essere presente, c così anche quelle parti da cui provvisionalmente si prescinde. Astrazione di una parte dal resto della totalità a cui appartie­ ne è uno stadio della pratica sociale posteriore al­ lo stadio in cui la totalità fu prodotta. Non si può — dopo essere arrivato alla sintesi chiamata semio­ tica — semplicemente tornare indietro c “costrin­ gere” il formale alla sola sintattica, il significato al­ la sola semantica, e il biologico (o il mentale o il sociale) alla sola pragmatica. Una piena compren­ sione della struttura della semiosi sta precisamente in questo: la semiosi è una rete di relazioni di va­ rio tipo - relazioni formali, significative, biologi­ che, sociali. L’intera struttura della semiosi, una vol­ ta articolata, è quella intera struttura; tutti i suoi pezzi sono tutti i suoi pezzi. La posizione anti-separatistica di Morris era molto chiaramente affer­ mata nel suo stesso lavoro. E, come abbiamo det­ to, nonostante la terminologia che egli era costret­ to ad impiegare all’epoca, il suo approccio quasi coincideva con un approccio basato sulla pratica sociale, vale a dire sull’attività comune eseguita da­ gli uomini come membri di una determinata co­ munità storica.

182

L Su alcune questioni post-nwrrisiane

6. Comportamento e comunicazione La costruzione di SLC era imperniata in larga mi­ sura sulla identificazione e sulla definizione del se­ gno e del comportamento segnico. Il campo fu immediatamente ristretto prendendo in conside­ razione soltanto il comportamento tendente a uno scopo, o certi tipi di comportamento. “E il com­ portamento tendente a uno scopo e influenzato da segni”, disse Morris, “può essere chiamato compor­ tamento segnico1' (p. 177). Fu con molta cautela, e con successive approssimazioni, che egli arrivò al­ la sua ben conosciuta e tuttora fondamentale defi­ nizione di ‘segno’: Se qualcosa, A, è uno stimolo preparatorio che, in as­ senza degli oggetti stimolatori che inizino le sequenze di risposte in una certa famiglia di comportamenti, concor­ rendo certe condizioni, dà origine in qualche organismo a una disposizione a rispondere con sequenze di rispo­ ste di questa famiglia di comportamenti, allora A è un segno (p. 19; il corsivo sta nel testo). Nella mia monografia su Morris del 1953, ave­ vo fatto una critica a questa definizione, che — giu­ sta o errata che fosse — intendeva arrivare alla ra­ dice del pensiero di Morris. Il mio modo di vede­ re consisteva particolarmente in questo: che in re­ altà non era possibile distinguere fra comporta­ mento segnico e comportamento non segnico per mezzo di una bio-psicologia comportamentista. Co­ munque, questo implicava che la distinzione forse sarebbe stata possibile per altra via. Ora vorrei fare qualche osservazione di tipo differente, anche se richiamando, per certi aspetti, 183

Scritti

di semiotica, etica e estetica

la critica di venticinque anni fa. Ora io sostengo che non è possibile distinguere fra il comporta­ mento segnico tout court c il comportamento non segnico tout court per la buona ragione che tutto il comportamento c comportamento segnico: altri­ menti è qualcosa da chiamare ‘andare qua c là’, o forse soltanto ‘processo fisiologico’. Torneremo su questo aspetto nella sezione 7. Qui stiamo discu­ tendo non soltanto del pensiero di Morris, ma del­ la “cosa stessa” (mi prendo la libertà di proferire queste parole sacre soltanto dopo un viaggio a Kònigsberg, ora Kalinengrad, e non senza prestare molta attenzione al problema di Eulero dei sette ponti). La tesi è che qualsiasi pezzo di comporta­ mento — nel senso centrale di questo termine — comunica qualcosa e che, inversamente, nulla può essere comunicato se non per mezzo di qualche pezzo di comportamento. Esaminiamo queste af­ fermazioni. Date le due categorie molto generali, comuni­ cazione e comportamento, vogliamo conoscere la loro relazione di co-presenza e di esclusione. Vi sono quattro possibilità: né comportamento né comunicazione, comunicazione e comportamen­ to, comportamento senza comunicazione, comu­ nicazione senza comportamento. La prima elimi­ na qualsiasi oggetto di indagine. La seconda è ov­ via: non c’è nulla da obiettare al fatto che il com­ portamento e la comunicazione si accompagnano. Rimangono le altre due possibilità. Ci può essere comportamento senza comunicazione? Ci può es­ sere comunicazione senza comportamento? La risposta ad entrambe è ‘no’. 184

I. Sm alcune questi^ posl ,,,0rrisiattc Non ci può essere comportamento senza comuni­ cazione perché non si può concepire che un ani­ male umano, o non umano, che si comporta in qualche maniera, in breve,fa qualcosa, non comu­ nichi proprio niente. Ciò è vero in due sensi: che nessun animale può mai sopravvivere nella sua co­ munità senza codici e senza qualche sorta di pro­ grammazione sociale o perlomeno collettiva del suo comportamento individuale; e che, in ogni modo, si possono sempre ottenere informazioni osservando ciò che l’animale sta facendo o non sta facendo. Se riduciamo la totalità della comunicazio­ ne ad alcuni suoi settori - per esempio, a quelli che sono solitamente definiti consapevoli e/o in­ tenzionali e/o finalistici — possiamo allora credere che stiamo distinguendo fra il comportamento quale comportamento segnico e quindi comuni­ cativo e ogni altro comportamento. Questo “altro comportamento” si dichiara essere non segnico, non comunicativo, perché cade fuori da una zona preselezionata. La riduzione, già presente nella premessa, emerge di nuovo fra due differenti tipi di comportamento segnico, fra due differenti tipi di comunicazione. Non ci vuole molto per dimostrare che c’è comportamento inconsapevole e/o inintenzionale e/o non finalistico (spontaneo, libero, casuale) (e né prova né invalida la dottrina del finalismo della vita in generale). Se io ti parlo, intendo di solito co­ municarti qualcosa e di solito ne sono consapevole. Ma certamente, se mi osservi da vicino mentre parlo, comunic° anche altre cose che possono sfuggire persino alla mia stessa attenzione. Se poi

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E ESTETICA

sto zitto ma mi gratto la testa senza accorganone o faccio un sospiro o un gesto di cui non tengo conto, io comunico lo stesso delle informazioni su me stesso. Lo faccio senza saperlo o senza volerlo sapere, senza l’intenzione, senza uno scopo; c spes­ so accade che ciò che io comunico in questi mo­ di è davvero in contrasto con uno scopo che inve­ ce ho. In breve, il fatto è clic i tipi di comporta­ mento “esclusi” dalla zona pre-selczionata sono anch’essi per così dire “pieni di segni”; non posso­ no essere diversamente perché sono in ogni caso fondati su codici, sono programmati. Devono es­ sere stati imparati, seppure soltanto per imitazione inconsapevole, quindi si prestano all’intcrpretazione. Un uomo che cammina per strada senza pre­ stare la minima attenzione a ciò che sta facendo non è mai un mero corpo che si muove nello spa­ zio e nel tempo: egli è un uomo vestito in una certa maniera, che cammina in un certo modo. lungo una certa strada, e così via. Nessuna di que­ ste cose deriva dalla (mera) natura. Con tutte le specificazioni che l’uomo porta e che Io circonda­ no, egli non può evitare di comunicare ad un os­ servatore una grande quantità di informazioni cir­ ca se stesso e il gruppo sociale a cui appartiene. Non intendiamo negare che per certi scopi molto precisi il comportamento del camminatore possa essere isolato da tutto, o considerato soltan­ to dal punto di vista di ciò che egli sa di se stesso in quel momento, o confrontato a paradigmi pre­ cedentemente preparati di ciò che dev’essere un pezzo di comportamento in modo da essere de­ scritto come comportamento segnico. Perciò, co-

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I. Sii alcune questioni post-morrisiane

me risultato di tutto questo, in determinate circo­ stanze potrebbe apparire appropriato, entro quel contesto speciale, chiamarlo comportamento non segnico. Analogamente, non intendiamo negare che il comportamento (esaminato da Morris) del cane che interpreta il campanello come segno di cibo sia un caso tipico, chiaro e accessibile di com­ portamento segnico, dove l’inizio di un nuovo se­ gno, che era atteso e auspicato, e le conseguenze che ne derivano nel comportamento del cane, so­ no particolarmente evidenti. Ma il fatto è che il camminatore sta seguendo dei codici e program­ mi, anche se non lo sa, e quindi sta comunicando; e il cane fa lo stesso, anche quando non riceve se­ gnali per il cibo (per esempio, potrebbe dare segni di aver fame muovendosi qua e là in maniera agi­ tata o comportandosi in maniera da risultare de­ bole e incapace di reagire).Tanto è vero che inter­ pretiamo molto bene sia il comportamento segnico del camminatore sia il comportamento segnico del cane affamato. Sembrerebbe che si potrebbero usare proprio queste conclusioni per sostenere che, in ogni caso, ci può essere comunicazione senza comportamento. Così come l’uomo che cammina per la strada co­ munica qualcosa anche se non lo sa e persino se non vuole, e altrettanto per il cane, anche un uo­ mo — si potrebbe argomentare - che “non si com­ porta afFatto” comunica qualcosa. Ma che cosa si­ gnifica ‘non comportarsi affatto’? Mi vengono in mente solo due esempi: l’immobilità e la morte. L’immobilità di un essere vivente può essere so­ lo parziale e transitoria. Parziale, perché il suo orga187

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ESTETICA

nismo continua a muoversi internamente, ed è sol­ tanto restringendo il nostro punto di vista che non prendiamo ciò in considerazione. È rispetto a que­ sta restrizione che chiamiamo comportamento sol­ tanto il comportamento macroscopico di un intero organismo, o di una delle sue parti che è facilmen­ te visibile dall'esterno.Tuttavia, sarà sempre un ca­ so momentaneo del non comportamento isolato come una negazione determinata e con ciò rientran­ te nella categoria del comportamento stesso. Poiché precisamente la vita è comportamento continuo, persino una cessazione momentanea del comporta­ mento, di tutto il comportamento, comunica qual­ cosa. In questo modo, per esempio, qualcuno che invece di rispondere ad una domanda rimane in si­ lenzio, sta comunicando qualcosa, per esempio, im­ barazzo. Esiste persino il detto popolare “nessuna nuova buona nuova”. Ma nessuno direbbe che mantenere il silenzio o il non rispondere alle lette­ re siano estranei al comportamento in generale. Con argomenti simili si può negare perfino l’eccezione del morto, circa il quale si può sostene­ re che egli sta comunicando qualcosa con il suo stesso corpo morto. Un morto indubbiamente non fa più niente, non si comporta in nessun modo; ma questo è nient’altro che la conclusione di tutto ciò che quell’organismo ha fatto sino al momento del­ la sua morte. La sua immobilità, questa volta non transitoria, è in contrasto con la mobilità di tutta la sua vita. Un cadavere continua a comunicare qual­ cosa perché vi riconosciamo ciò che rimane di un uomo o di un animale; in questi resti noi scopriamo ancora i segni della sua vita. Quando, come di­ 188

I. Su alcune questioni post-morrisiane ce il poeta, “Dio dimentica il suo volto”, allora su quel volto non vi saranno più i segni della vita pas­ sata. Persino in uno scheletro dissotterrato dopo millenni, sono ancora presenti i segni della socializ­ zazione; e laddove questi non esistono più, perma­ ne ancora una dimensione di segni biologici, inter­ pretabili dagli uomini. In quanto cessazione di tutto il comportamento, la morte è una negazione piena­ mente determinata dal comportamento stesso e de­ v’essere inclusa nella categoria generale del com­ portamento. Questo equivale a dire che la morte esi­ ste soltanto per la vita. Avendo respinto persino il ca­ so estremo della morte, concludiamo che la comu­ nicazione non esiste mai senza il comportamento. Ora, poiché non c’è comunicazione senza se­ gni, la nostra conclusione doppiamente negativa può essere immediatamente tradotta nella affer­ mazione iniziale che non è possibile distinguere fra comportamento segnico e comportamento non segnico in generale. È invece possibile, e ovvia­ mente della più grande importanza, distinguere e classificare vari tipi di comportamento segnico, a vari livelli, e con ogni possibile sovraimposizione, concomitanza, o esclusione. I seguenti sono alcuni delle distinzioni principali: verbale e non verbale, consapevole e inconsapevole, intenzionale e inin­ tenzionale, finalistico e spontaneo (o libero o ca­ suale), fondato su codici complessi o su codici semplici, di tipo digitale o di tipo analogico, dal punto di vista dell’emittente o da quello del rice­ vente, isolato quanto più possibile e considerato in - se stesso o invece proiettato sullo sfondo di conte­ sti concentrici o ex-centrici di varia ampiezza per 189

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la sua significazione immediata o per le conse­ guenze che ne derivano; c così via, si potrebbe quasi dire, all’infinito. La distinzione fra significa­ zione e comunicazione che alcuni linguisti sem­ brano tenere molto in considerazione, appare es­ sere una pila di alcune delle distinzioni di sopra. A parte qualche caso di finzione separatistica, ciò che qui troviamo, di solito, è una definizione per con­ venzione della‘comunicazione umana’come cam­ po d’indagine, di cui i termini basilari sono‘inten­ zione del trasmittente’, ‘consapevolezza del rice­ vente’,‘possesso comune del codice complesso del linguaggio verbale’, ecc. Essendo questo il legitti­ mo interesse di chi ha stabilito la convenzione, tut­ to il resto si ritira sullo sfondo come “mera signi­ ficazione” - a volte è una recessione illegittima. Vale la pena di ripetere che Morris stesso aveva iniziato sistematicamente, in maniera spesso molto acuta e sempre equilibrata, distinzioni e classifica­ zioni dei vari tipi di comportamento segnico e dei loro contesti (nei capitoli IV e V della mia mono­ grafia su Morris del 1953, ora 1975, furono siste­ maticamente antologizzati molti brani importanti da SLC e da altri testi riguardanti tali questioni). Rimane il fatto che la ricerca di un comportamen­ to segnico è efFettivamente la ricerca di un partico­ lare tipo di comportamento segnico, anche se, al­ l’interno di un dato campo, questo può essere un comportamento molto caratteristico e persino ne­ cessario. Immaginare che un comportamento segnico è più segnico degli altri richiamerebbe la famosa fiaba di Orwell della comunità di uguali in cuii alcuni uguali erano più uguali degli altri.

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. Su alcune questioni post-tnorrisiane

7. Comportarsi e “andare qua e là” Vorrei osservare, almeno en passant, che la coinci­ denza di comportamento e di comunicazione non esclude affatto, e in effetti richiede, che vi siano nel mondo “cose non segniche”; il comportamen­ to e la comunicazione, e quindi il comportamen­ to e il segno, si associano in modo che insieme essi possono distinguersi da tutto il resto. Ciò che rimane sullo sfondo di questo approccio è un’interpreta­ zione di comportamento, e quindi anche una de­ finizione o proposta per l’uso del termine ‘com­ portamento’, che io ritengo sia particolarmente utile ai fini della semiotica. Se non c’è comporta­ mento senza comunicazione, vale a dire se tutto il comportamento è comportamento segnico, la se­ miotica può - con i propri strumenti, dal suo pro­ prio punto di vista, e entro i propri limiti — esami­ nare ogni tipo e forma di comportamento. E se non ci sono né segni né comunicazione senza comportamento, l’indagine avrà almeno quest’an­ cora in qualcosa che gli uomini possono trattare in comune. Mentre ci riporta alla nozione di pratica sociale, quest’ultima formulazione conserva anco­ ra un certo sapore morrisiano. E perché non do­ vrebbe essere così? Morris aveva già tentato di passare da un comportamentismo meccanicistico ad un comportamentismo sociale. Abbiamo ac­ cennato sopra in questo scritto, alla stretta somi­ glianza fra le due nozioni di comportamento so­ ciale e pratica sociale. Una fondazione operazionale delle scienze umane nella pratica sociale non solo è possibile, ma è richiesta urgentemente, anche nel 191

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nostro campo. Vogliamo dissipare miti scientifici fondati sull’assunto che si possano localizzare i princìpi delle cose da qualche parte fuori dalla pra­ tica sociale, e che poi le loro conseguenze possano essere trasferite, per mezzo di una sorta di privile­ giata deduzione, da quella zona anonima nella pra­ tica sociale stessa. I princìpi delle cose, invece, so­ no sempre prodotti sociali ad alto livello, e quindi fanno parte essi stessi della pratica sociale altamen­ te sviluppata. D’altra parte, il comportamento è sempre ac­ compagnato da qualcos’altro che non c comporta­ mento giacché, in un animale che agisce e comu­ nica, hanno luogo anche altri processi. Non tutto nel mondo c comportamento. Ciò significa che la semiotica, partendo dalla identificazione metodolo­ gica di comportamento e comunicazione, può for­ se elaborare i suoi stessi limiti con precisione, elimi­ nando alla radice il rischio di una specie di “panlo­ gismo semiotico’’ — un rischio che è tutt’altro che immaginario, e che potrebbe sembrare incospicuo solo a coloro che sono incapaci di fare appello alla dimensione storica nel loro stesso lavoro. Secondo la terminologia e le categorie che ho adottato nella sezione 6, è diffìcile accettare che un animale faccia qualcosa in maniera del tut­ to non segnica. Si direbbe piuttosto che alcuni ti­ pi di comportamento segnico sono privilegiati e che come conseguenza di questa operazione sembra che ci debba essere almeno un altro tipo di comportamento a cui si applicherebbe l’eti­ chetta ‘non segnico’. Presumendo che l’animale agisca in maniera non segnica, sarei costretto a 192

I. Su alcune questioni post-niorrisianc

dire che in realtà esso non si sta comportando, ma sta semplicemente “andando qua e là”, o che il processo che sta compiendo è “soltanto fisiologi­ co”. L’argomento che controbatte questo presup­ posto è che, anche in questi casi, ciò che l’anima­ le fa può essere interpretato in molti modi. La questione, tuttavia, ha un aspetto terminologico che non può essere ignorato. La mia distinzione provvisoria fra “comportamento” e “andare qua e là” sembra corrispondere in parte alla distinzione etologica fra “comportamento sociale” e “mero comportamento” (per un’analisi specificamente etologica di “comportamento sociale” nel mon­ do animale, faccio riferimento particolarmente a l’opera classica di Timbergen, del 1953). O, per­ lomeno, questa corrispondenza sembra reggere entro le zone della realtà che la semiotica gene­ rale e l’etologia hanno in comune. Se agli etolo­ gi piace assimilare il comportamento sociale al comportamento scenico, e chiamare sociale sol­ tanto quel comportamento in cui si presentano segni, questi sono i loro propri affari terminolo­ gici. E anche affar loro spiegare quali siano i se­ gni studiando i quali possono decidere sistemati­ camente che non ci sono segni affatto. Uno scienziato sociale tenderebbe a dire che il “com­ portamento sociale” dell’etologo è “sociale” in un senso sia molto allargato sia molto ristretto, c che tale uso, per quanto possa essere utile nel campo etologico, solleva problemi aggiuntivi e non ne­ cessari in altri campi. Al di sotto della terminologia c’è naturalmen­ te la questione del primo inizio di qualcosa con un 193

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carattere segnico. Per incominciare, qui emerge il problema etologico della formazione di riti ani­ mali, del “passaggio” di un animale dall’“andare qua e là” come attività (= “mero comportamen­ to”) puramente casuale (sporadico, casuale, sol­ tanto fisiologico) al comportamento vero e pro­ prio (= comportamento sociale), vale a dire ad un’azione governata da qualche genere di codifi­ cazione ed interpretabile come segno. Qui biso­ gna fare attenzione a non confondere un rito so­ cialmente indotto con un rito filogeneticamente indotto — una difficoltà che persino Konrad Lo­ renz non era sempre in grado di evitare (cfr. Lo­ renz 1963, trad. inglese 1966). Ora, il pezzo osser­ vabile di comportamento interpretabile come se­ gno dev’essere un signans di qualcos’altro che sta accadendo o che accadrà nell’animale stesso o nell’ambiente che lo circonda (il significatimi di quel signans) e che è o non osservabile in princi­ pio (come lo è una relazione in quanto tale), op­ pure non direttamente osservabile, o semplicemente non osservato o non osservabile in quel momento. Ci sono qui molte questioni sottili collegate alla distinzione fra “transazione” (come essa è proposta specialmente da Dewey e Bentley nel 1949) e “interazione” (come essa emerge dal­ la scoperta di ecosistemi in ecologia), vale a dire questioni concernenti la misura e la maniera in cui un animale forma un’unità con il suo am­ biente o è, invece, qualcosa di discreto rispetto ad esso. In un caso il comportamento emerge all’in­ terno di una transazione, o è una tale transazione; mentre nell’altro caso l’animale si comporta (la­ 194

I. Sm alarne quesito" P°st-ntonìsiane vanti all’ambiente, interagendo con esso (per un’analisi puntuale dell’intera questione, cfr. De Crescenzo 1975). Ora sia il signans sia il signatum devono appartenere all’animale, o all’ambiente, o a entrambi. Ne consegue che il modo in cui noi ci avvicineremo al primo inizio di qualsiasi cosa di significativo, vale a dire il modo in cui si trac la più elementare distinzione fra segno e non se­ gno, c strettamente determinata dalla nostra as­ sunzione di una posizione transazionale, interazionale o composta. Tuttavia, le decisioni elementari, dove le con­ seguenze metodologiche investono interi campi di ricerca, devono essere lasciate ai vari speciali­ sti: nel caso nostro, agli ecologi, agli etologi ai ge­ netisti, agli psicologi dell’età infantile, agli psi­ chiatri, ai paleo-etnologi e agli evoluzionisti. Scelte teoriche e difficoltà di fondo esistono in ogni campo. Quando queste concernono i segni, i semiotici non possono semplicemente ignorar­ le. Ma sarebbe anche bene che i semiotici si te­ nessero alla larga quanto più possibile dalla scioc­ ca pretesa di essere i paladini di qualche superscienza filosofica: la pretesa di dettare legge in ca­ sa altrui. Tale pretesa era, e lo è ancora, indubbia­ mente collegata ad un atteggiamento egemonico e quindi di “classe”. “Sono io che decido, anche se sei tu che lavori”. Questo ha poco a che fare con ciò che giustamente fu chiamato la “demo­ crazia interna” del metodo scientifico. Non solo una super-scienza filosofica non ha niente a che fare con l’interpretazione storico-materialistica del lavoro scientifico stesso, come un gruppo di

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processi, socialmente determinati, fondati sulla pratica sociale, ma essa costituisce, davvero, il suo esatto contrario.

8. Conclusione Quando noi oggi diciamo che tutto il comporta­ mento è comunicazione, o viceversa, lo diciamo dalla posizione di vantaggio degli sviluppi della se­ miotica negli ultimi trent’anni. I codici non verba­ li sono in parte emersi e altri ancora stanno emer­ gendo all’attenzione degli studiosi; i codici verba­ li sono stati studiati in tutti i loro aspetti, inclusi quelli che non avrebbero potuto nemmeno appa­ rire prima della formazione della nozione di codi­ ci non verbali. In breve, oggi noi sappiamo che tutto il comportamento è sempre programmato, vale a dire fondato sui codici. Dovremmo conclu­ dere, allora, che questi sviluppi, incoraggiati e mes­ si in moto da Morris, diminuiscano il valore e la credibilità delle sue intuizioni fondamentali? lo direi proprio il contrario. Fu Morris che unì in modo così stretto, e sistematicamente per la prima volta, la nozione generale di comportamento e la nozione generale di segno. Inoltre, egli stava già proponendo, in un modo ch’era del tutto esplici­ to e non senza articolazioni, una concezione di cultura come insieme di sistemi segnici. Egli non pose dei limiti positivi al suo proprio lavoro nel senso di volerlo difendere; piuttosto invocò egli stesso la necessità di una ricerca nuova e differen­ te. Né egli pose dei limiti negativi a ciò che sareb196

I. Su alcune questioni post-morrisiane

bcro potuti essere, e che infatti successivamente furono, gli sviluppi straordinari dell’approccio che aveva inaugurato. Riprendere i contatti con il suo lavoro oggi significa trovare in esso innumerevoli indizi per ricerche che furono successivamente svolte in molti paesi da studiosi delle più svariate provenienze, a prescindere dal fatto che esse risul­ tino direttamente influenzate o meno dal suo in­ segnamento. Diciamo, piuttosto, che Morris era partito in una direzione che era ancora più feconda di quanto egli stesso avesse immaginato o fosse in grado di prevedere. L’unione delle nozioni di comporta­ mento e di segno conteneva un enorme potenzia­ le. Le circostanze dovevano soltanto permettere i primissimi sviluppi e tutto il panorama delle scien­ ze umane e vitalistichc iniziò a cambiare. I limiti di Morris vanno visti storicamente: erano “soltanto” quelli del suo ambiente, della discussione accademi­ ca negli Stati Uniti, e della cultura nord americana in generale, nel periodo in cui egli era più attivo. Chiunque sia vissuto abbastanza a lungo nel mondo della cultura, cercando di introdurre nuo­ ve idee (anche solo nuove per quella cultura), sa mol­ to bene che si devono combattere non soltanto la mancanza di reazione e di collaborazione, ma an­ che reazioni e persino collaborazioni che non hanno niente a che fare con le idee introdotte. La gran parte delle energie vengono assorbite nel tentativo di spiegare cose che dopo qualche anno o decennio — se tutta l’operazione riesce — saran­ no considerate ovvie. Morris superò l’ambiente in cui gli capitò di vivere. Egli era avanti rispetto alla 197

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propria situazione culturale. Anche se i suoi scritti necessariamente riflettono quella situazione in va­ ri modi, si può dire con certezza che essi sono da­ tati molto di più nella lettera che nello spirito.

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Scritti di semiotica, etica e estetica

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I. Sii alcune questioni post-morrisianc

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Scritti di semiotica, etica e estetica

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II. La lettura di Morris in Rossi-Landi* di Susan Petrilli

Nel libro del 1953, Rossi-Landi metteva in discus­ sione l’impostazione comportamentista di Sigtis, Latiguagc, and Behauior, che aveva portato la semio­ tica di Morris ad essere non soltanto teoria dei se­ gni ma scienza biologica distinta dal filosofare. Rossi-Landi considerava la riduzione della semio­ si al comportamento e quindi lo studio della se­ miotica a studio del comportamento segnico (sigtt behauior) — che, secondo l’accezione del termine americano behauior è limitato ai soli comporta­ menti osservabili - certamente come già impliciti nei Foundations, ma, anche come il limite della se­ miotica morrisiana. Rossi-Landi sintetizzava la sua critica in tre proposizioni: 1) la scienza del com­ portamento è fondata sulla osservazione; 2) non si può osservare l’essere segno come proprietà della cosa fatta segno; 3) non si dà un criterio per distin­ guere univocamente fra comportamento non-segnico e comportamento segnico, fra comporta-

Per questo e per tutti gli altri riferimenti si rinvia al­ la bibliografia della mia introduzione. 205

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Scritti di semiotica, etica e estetica

mento senza segnità e comportamento con segni­ ti. La proposizione 2) veniva dimostrata attraverso tre altre proposizioni: a) la proprietà di essere se­ gno può essere attribuita a qualsiasi cosa; b) si trat­ ta di una proprietà per investitura; c) si tratta di una proprietà a coppia; da tutto ciò emerge che non possiamo spiegare osservativamente che cosa sia segno. Ai tre punti principali della critica a Morris, Rossi-Landi ne faceva seguire altri tre co­ me precisazioni: 4) ciò non significa accettare l’al­ ternativa mentalistica; 5) resta da vedere se sia pos­ sibile una tecnica dell’attività segnica in quanto non osservativa; 6) entro limiti ridotti è possibile svolgere una specie di storia naturale del compor­ tamento segnico su base osservativa. Espressa in maniera più discorsiva, la critica di Rossi-Landi consisteva nel rilevare che la proprietà di essere se­ gno si applica sia a oggetti fisici e alle loro rappre­ sentazioni, sia a cose come un ricordo, un senti­ mento: qualsiasi cosa può essere segno. E questa proprietà dipende dalla instaurazione di una rela­ zione fra una cosa e un significa tuiti, relazione che è perduta di vista da Morris quando articola il comportamento segnico in sequenze di risposte. Anche da questo punto di vista, Rossi-Landi pre­ feriva i Fouudations all’opera del 1946: infatti, nei Foundations, si parlava dei segni come di “proprie­ tà di cose in certe specifiche relazioni funzionali”, e quindi si riconosceva che “nulla è intrinseca­ mente segno” e che la semiotica studia qualsiasi cosa rientri nel processo della semiosi. Nella introduzione alla traduzione italiana dei Fouudations (1954), Rossi-Landi ribadiva fonda; ;

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II. La leitura di Morris nella ricerca di Rossi-Lemdi mentalmente le considerazioni critiche espresse nel libro del 1953. Uno sviluppo dello studio di Morris da parte di Rossi-Landi è rappresentato dal saggio del 1956, pubblicato nel 1958,“Universo di discorso e lingua ideale”. Qui la discussione del pensiero di Morris e il suo raffronto con quello di Gustav Bergmann apre a questioni che troveranno appro­ fondimento teorico nel volume di Rossi-Landi del 1961, Significato, comunicazione e parlare comune. Infatti, il problema del rapporto fra comportamen­ tismo e teoria dei segni viene impostato in riferi­ mento alla questione dei rapporti fra “comune parlare” e “fluire storico del linguaggio”, da una parte e, dall’altra, lingue e linguaggi ideali o tecni­ ci. La semiotica del Morris 1946 è una lingua tec­ nica, che come tale si considera distinta dalla filo­ sofìa. Invece Gustav Bergmann sviluppa una con­ cezione filosofica del linguaggio che ricorda certi aspetti, poi abbandonati, del Morris 1938. I limiti del biologismo di Morris vanno considerati in rapporto alla sua “eccessiva fiducia” nella costru­ zione di una lingua tecnica. Da questo punto di vista, Rossi-Landi, pur ammettendo qui, con Mor­ ris, la non-filosofìcità della semiotica, oppone a Morris la maggiore accortezza e cautela di Berg­ mann, che pone come problema, che è anche pro­ blema filosofico, il rapporto fra “comune parlare” e lingua ideale. Insomma, in questo saggio si tenta un’interpretazione delle due fasi principali della semiotica morrisiana sia nei termini delle lingue “speciali” o “tecniche”, o “ideali”, costruite appo­ sitamente per parlare di segni, sia nei termini del207

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Scritti di semiotica, etica e estetica

l’universo di discorso in cui quelle lingue speciali rientrano. Nella presentazione (ora in appendice a questo volume), del 1967, all’edizione italiana di due scrit­ ti di Morris sull’estetica, con l’aggiunta di una “Premessa” scritta appositamente per l’occasione, nella rivista Nuova Corrente (anche i due scritti di Morris con la nuove premessa sono raccolti in questo volume), Rossi-Laudi prende posizione nei confronti del modo in cui solitamente è stata frain­ tesa la semiotica estetica di Morris. Contro questi fraintendimenti, Rossi-Landi precisa: 1) che è tra­ visante parlare di “estetica semiotica” (e, cosa peg­ giore perché ancora più riduttiva, di “estetica se­ mantica”), e che, invece, bisogna riferirsi a una “se­ miotica estetica”, vale a dire a una teoria dei segni applicata anche all’estetica; 2) che, come abbiamo già anticipato sopra, la critica estetica ha a che fare sia con segni sia con valori c quindi coinvolge en­ trambi i campi di interesse teorizzati da Morris, cioè quello della semiotica e quello della assiolo­ gia; infine, che non si deve credere che la distinzio­ ne, operata da Morris, fra le tre dimensioni della semiosi, cioè sintattica, semantica e pragmatica, sia una distinzione reale: essa, invece, ha solo una fun­ zione nell’analisi e dunque è risultato di astrazione. Quest’ultima precisazione è quella che maggior­ mente risulta ancora importante, se considerata in riferimento a teorie attuali che continuano a cre­ dere nel carattere ontologico di questa distinzione. Nel saggio del 1974 aggiunto alla nuova edizio­ ne del 1975 della monografìa su Morris del ’53, Rossi-Landi insiste sulla matrice storico-filosofica 208

II. la leitura di Morris nello ricerca di Rossi-Laudi

delle tre dimensioni della semiotica teorizzate da Morris. Infatti, se si considera la genesi della semio­ tica morrisiana, dice Rossi-Landi, risalendo perlo­ meno al volumetto del 1937, Logicai Positiuism, Pragmatism, and Scienlific Empiricism, risulta che Morris progettava firnificazione di un razionalismo metodologico, un empirismo radicale e un pragma­ tismo critico: ebbene, queste tre componenti corri­ spondono alle tre dimensioni della semiotica: il ra­ zionalismo metodologico è indagine sintattica, l’empirismo radicale indagine semantica, il pragma­ tismo critico indagine pragmatica. E Rossi-Landi aggiunge:“Tutto ciò può suonare sorprendente per chi giunga oggi alla semiotica digiuno di cultura storico-filosofica, e accetti la ripartizione della se­ miotica quale mero risultato di una indagine ogget­ tiva svolta sui segni. Invece, una tale indagine ‘og­ gettiva’ non sarebbe stata possibile senza il descritto confluire di diverse correnti di pensiero. L’oggetti­ vità è sempre un complesso risultato, anche se poi si presenta come semplice” (1975: 180). Nello stesso saggio del 1974, Rossi-Landi torna sul problema del rapporto fra segno e comporta­ mento. Egli qui propone una sorta di autocritica. Avendo detto nel ’53 che non era possibile distin­ guere fra comportamento segnico e comportamen­ to non-segnico sulla base di una bio-psicologia comportamentistica, Rossi-Landi lasciava presume­ re che questa distinzione fosse tuttavia possibile. Qui invece sostiene che non è possibile distingue­ re fra comportamento segnico tout court e compor­ tamento non-segnico tout court. Ciò fondamental­ mente perché non ci può essere segno senza comu209

Scritti di semiotica, etica e estetica

nicazione. In questo saggio, inoltre, Rossi-Lindi riafferma che il discorso di Morris va ripreso oggi più dai Foundations che da Signs, Languore, and Behavior c che la semiotica, soprattutto in quanto scienza eminentemente sociale, può trovare fonda­ mento nella psico-biologia comportamentistica. Il “dialogo” con Morris viene ripreso da Rossi-Landi nel saggio “Su alcune questioni postmorrisiane”. Qui fondamentalmente si ribadiscono le con­ siderazioni svolte nel saggio precedente. C’è però un punto di particolare importanza che costituisce una novità e che merita particolare attenzione. Es­ so riguarda la re-interpretazione del comporta­ mentismo di Morris in termini di “pratica socia­ le”, che è un concetto elaborato da Rossi-Landi nel corso della sua ricerca. Come tale questo pun­ to va esaminato sia rispetto alla questione del ca­ rattere del comportamentismo di Morris, sia ri­ spetto al ruolo che svolge il pensiero di Morris nella ricerca di Rossi-Landi. Che Morris venga considerato qui soprattutto in rapporto a Rossi-Landi può sembrare una scel­ ta soggettiva solo se non si tenga conto che ogget­ tivamente questo rapporto è inscritto nella storia italiana degli studi semiotici. Infatti il nome di Morris è da una parte collegato con l’inizio di questa storia (nel 1949 viene tradotto in italiano, come abbiamo visto, Signs, Language, and Behavior, ad opera di Ceccato) e dall’altra con Rossi-Landi per la sua monografia del 1953 e per la traduzione del 1954 di Foundations. Perciò è abbastanza strano 210

II. Lui lettura di Morris nella ricerca di Rossi-Landi

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e limitativo che generalmente si faccia iniziare la semiotica in Italia a partire dalla seconda metà de­ gli anni Sessanta, con riferimento alla traduzione di Elementi di Semiologia di Roland Barthes. Dice Rossi-Landi a questo proposito: “Quanto ai fin troppo famosi Elementi di semiologia di Roland Bar­ thes, il cui originale su Communications è del 1964, essi vennero tradotti cinque anni dopo l’apparizio­ ne di SCPC e tredici dopo la monografia su Mor­ ris, nel 1966: sicché mi fa un po’ specie che ci sia oggi chi tenta di datare l’avvento della semiotica in Italia proprio da Barthes” (Rossi-Landi 1980, 1516; si veda anche Ponzio 2008; sulla semiotica in Italia, v. Ponzio 1976 e Ponzio e Petrilli 2008). Vediamo dunque come il pensiero di Morris venga ripreso e sviluppato nei lavori teorici di Rossi-Landi (per la verità gli interessi di RossiLandi per Morris, compresi i suoi studi di autor quali Ryle, Wittgenstein,Vailati, sono stati sempre come egli stesso dice (1984), di ordine teoretico, e i suoi libri e saggi si sono in primo luogo occupa­ ti di problemi). Nel libro del 1961 i riferimenti a Morris sono ricorrenti. In particolare egli riprende le conside­ razioni fatte nel saggio già citato nel 1958 sul con­ cetto di universo di discorso e riferisce di una co­ municazione personale in cui Morris gli precisava i tre sensi in cui la nozione di universo di discor­ so può trovare applicazione: “1. Delimitazione di un’area dell’Universo, della quale si deve parlare. Così potremmo accordarci di parlare di ciò che sta nella stanza A. 2. Delimitazione del linguaggio da usarsi. Così potremmo accordarci di parlare sol211

Scritti di semiotica, etica e estetica

tanto nel linguaggio della fisica classica. 3. Combi­ nazione dei primi due così potremmo accordarci di parlare soltanto di ciò che sta nella stanza A e soltanto nel linguaggio della fisica classica” (Rossi-Landi 1980:65). Rossi-Landi 1961 sviluppa il problema del si­ gnificato proponendosi di andare oltre a quanto Morris riesce a cogliere della fluidità del significa­ re (v. p. 193), ma al tempo stesso riprendendo di Morris due punti fondamentali: 1) che i significa­ ti non sono delle entità staccate dai reali processi di comunicazione e interpretazione (v. p. 177); e 2) che le tre dimensioni morrisiane del processo si­ gnificante o semiosi sono inseparabili. “Insomma, se appena ammettiamo che non c’è un segno se non per un interprete, dobbiamo anche ammettere che non c’è un segno se non con altri segni (una dimensio­ ne sintattica-nulla sarebbe solo un caso dell’avere dimensione sintattica; ma poi, nessuno s’interessa a linguaggi composti da una sola parola), e che non c’è segno se non con una significazione ed eventual­ mente con una denotazione (questi due termini appartengono alla semantica e non vanno confusi con quanto comunemente s’intende per ‘significa­ to’: il significato, come avere senso e voler dire qualcosa, è presente in tutte e tre le dimensioni). In altre parole, se la pragmatica ‘sottende’ le altre due dimensioni, allora queste a loro volta ‘sottendono’ la pragmati­ ca” (p. 171). L importanza teorica di queste precisazioni ri­ sulta evidente. L’interpretazione della semiotica morrisiana diventa qui anche programma di anali­ si del segno.Viene colta la distinzione fra significa212

II. La lettura di Morris nella ricerca di Rossi-Laudi to (meaning) e significazione (signification) in rap­ porto alle tre dimensioni della semiosi, distinzione che può essere rappresentata dal seguente schema: Significato

sintattica

semantica

pragmatica

significazione

+

denotazione eventuale Dopo il completo silenzio su Morris in Lin­ guaggio come lavoro e come mercato (1968), RossiLandi torna ad occuparsi di questo autore nei sag­ gi raccolti nel libro del 1972, Semiotica e ideologia. Qui Morris diventa uno dei punti di riferimento della determinazione del campo della semiotica e del modello di segno, sia quando si tratta di distin­ guere la semiotica dalla sua identificazione con la semantica, sia quando si mostra la validità della in­ terpretazione materiale e dialettica del modello peirceano di segno dicendo che esso è “ripreso e semplificato in maniera feconda da Charles Mor­ ris” (p. 305). In questo libro si guarda anche con interesse al pensiero di Mead, maestro di Morris, sia per riconoscergli il merito di aver studiato le merci in termini comunicativi in Mind, Self, and Society, del 1934, ristampato a cura di Morris nel 1965 (v. p. 116), sia per aver visto che è la mente che va spiegata in termini di segni, anziché spie­ gare i segni in termini di mente antologicamente intesa (v. p. 197). L’aver riproposto il libro del ’53 nella nuova edizione del 1975 dice della ripresa da parte di Rossi-Landi dell’interesse per Morris, che pertan-

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III. Sul modo in cui è stata fraintesa la semiotica estetica di Charles Morris* di Ferruccio Rossi-Landi

Nello scrivere nel 1939 “L’estetica e la teoria dei segni” Charles Morris aveva alle spalle The Meanitig of Meaning (1923) di C. K. Ogden e I.A. Richards, insieme ad altre opere dello stesso Richards, e la Philosophie der symbolischen Formen (1923, 1925, 1929) di Ernst Cassirer (ma in qual misura penetrata in America? e comunque, con quali residui speculativi ottocenteschi, che ne dif­ ferenziano il tono dalle nuove ricerche intorno ai segni?). Non c’è però dubbio che sia suo il meri­ to di aver proposto un approccio globalmente e sistematicamente semiotico all’arte e di aver carat-

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Apparso in Nuova Correlile, 42-43,1967, pp. 113-7, come introduzione a un gruppo di scritti di Charles Morris: una “Premessa” inedita, scritta appositamente, il fondamentale saggio “L’estetica e la teoria dei segni”, del 1939, una rassegna critica redatta nel 1965 in collaborazione con D. J. Hamilton, “Estetica, segni e icone”. [Questi scritti sono ora raccolti nel presente volume. Successiva­ mente al 1967, Rossi-Landi inserì l’introduzione nel suo volume Bompiani del 1972, Semiotica e ideologia (nuova edizione a cura di A. Ponzio, 2011). (N.d.C.)].

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Scritti di semiotica, etica e estetica

terizzato l’oggetto artistico come consistente in “segni iconici” di “proprietà di valore”. Come è noto, si dice iconico un segno legato a ciò che rap­ presenta da un rapporto di similarità: per esempio una fotografia è iconica, mentre la descrizione verbale dell’oggetto fotografato non lo c. Se l’oggetto fotografato è bello, anche la fotografia, almeno in linea di principio, lo sarà. Che ci pos­ sano essere, com’è ovvio, fotografie brutte di oggetti belli e fotografie belle di oggetti brutti, in­ troduce un ulteriore dimensione, della quale non possiamo occuparci qui. Su questo e altri proble­ mi rimandiamo a quanto ne dice lo stesso Morris nel suo scritto del 1939, non senza osservare che una compiuta teoria della iconicità non è stata an­ cora sviluppata. Comunque, è da “L’estetica e la teoria dei segni” che si suole datare l’inizio di una vera e propria semiotica estetica, oggi univer­ salmente diffusa e non più rinunciabile. Di Morris e di semiotica estetica, in Italia come n altri paesi, si è scritto molto e forse perfin trop­ po; ma in un altro senso se ne è scritto troppo poco. Vogliamo dire che alcune idee di lui sono state spesso trattate in modo arbitrario, superficiale e a volte addirittura con faciloneria. Questo feno­ meno ha la sua giustificazione principale nei distur­ bi della crescenza che ha portato l’estetica italiana fuori dal neo-idealismo e dunque nel ribollente in­ contro di ricerche scientifiche e letterarie svolte da studiosi e scrittori di mentalità e preparazione an­ che diversissime. Ha inoltre certo avuto il suo peso, e continua ad averlo, l’interessata confusione fra critica militante, coraggio neo-avanguardistico, in216

IH. Sul modo in cui è stata fraintesa la semiotica estetica di Charles Morris

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tervento attivo, disdegno del grigiore accademico, gusto della semplificazione operativa da un lato, e mero rifiuto di studi seri e circostanziati per sma­ nia di scriver subito c rapidamente sulle questioni alla moda e far rumore intorno a sé, dall’altro. (Val la pena di aggiungere, almeno fra parentesi, che lo studio dell’avanguardia e delle sue numerose im­ plicazioni culturali e sociali dovrebbe sempre pre­ sentarsi come più difficile, e non come più facile, dello studio di forme artistiche precedenti, già ir­ retite in tradizionali categorie che tutti più o meno maneggiano. E proprio nello studio dell’a­ vanguardia, che si richiedono nuove tecniche in­ tellettuali inevitabilmente connesse allo sviluppo globale del sapere). Infine, come si è potuto anco­ ra una volta constatare nell’approntare traduzioni di testi morrisiani, il dettato originario di tali testi presenta notevoli difficoltà di resa: vi sono con­ fluiti l’ardua tradizione stilistica di Peircc e poi di Dewey, solo in parte mitigata dal di poco meno ar­ duo Mead, insieme a una terminologia di tipo sci­ entifico (a volte anche greve di scientismo, appar­ ente o reale che esso risulti poi, di volta in volta, all’analisi) e a un vivo senso delle totalità e dei loro interni rapporti cioè a spunti seriamente dialettici. Vogliamo ricordare qui tre idee fondamentali della semiotica estetica morrisiana, che sono state oggetto di più frequente confusione o errore. E bisogna precisare che, se da una parte si tratta solo di confusioni o errori di interpretazione, tali cioè a pre­ scindere dalle opinioni personali degli interpreti, dalj^ltra parte sembra chiaro che chi trattando di semiestetica si serve della terminologia di Morris, 21*7

Scritti di semiotica, etica e estetica

questa terminologia non farebbe poi male a studi­ arsela fino in fondo: in modo di applicarla con con­ sistenza, padroneggiandone le implicazioni teoriche ed evitando di lasciar credere che quanto va dicendo risulti avallato dall’autore cui si appoggia. (i) Come risulta dall'esame comparativo dei testi, quello che Morris ha sempre proposto non è una estetica che sia semiotica, o ancor più limitatamente solo semantica; bensì è una semiotica, cioè una scienza o teoria generale dei segni, compren­ siva delle tre fondamentali dimensioni della sintat­ tica, della semantica e della pragmatica, la quale sia estetica in quanto si applichi al campo dell'arte. (Che abbia qui giocato addirittura il fatto che, in italiano, i vocaboli sono identici come sostantivi e come aggettivi?). La differenza fra una “semiotica estetica” e una “estetica semiotica” (interpretando questi sintagmi come formati entrambi da un sostantivo seguito da un aggettivo) è che la prima costituisce una specificazione della teoria o scien­ za dei segni, e permette quindi di applicare all’arte tutto ciò che la scienza dei segni comunque ac­ coglie nella propria costituzione; mentre la secon­ da può anche tramandare l’idea di una Estetica e limitarsi a qualificarla precisando che, stavolta, ver­ ranno adoperati anche strumenti semiotici. In al­ tre parole, un semioticista estetico si pone neces­ sariamente al di fuori di certa tradizione nostrana e non può non accogliere gli sviluppi delie scien­ ze dell’uomo, le quali han tutte a che fare con la semiotica; egli deve pertanto studiare tali sviluppi. Estetologo semiotico, invece, può anche essere soltanto un uomo del passato che tenta di ram-

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III. Sul modo in ad è stata fraintesa la semiotica estetica di Charles Morris

modernarsi assumendo estrinsecamente un certo linguaggio - e allora tale linguaggio corre il ris­ chio di degradare in mero gergo non posseduto. Naturalmente, nessuno impedisce di usare le espressioni ‘estetica semiotica’ o ‘estetica semantica’ conte etichetta, per indicare genericamente una ten­ denza. Non per questo si è obbligati a cadere nel­ l’errore di interpretazione ora discusso in riferi­ mento a un determinato autore. Però sembra ab­ bastanza chiaro che, data la distinzione fra semioti­ ca come scienza generale dei segni di qualsiasi tipo e semiologia quale studio di sistemi segnici secon­ di alla lingua (si veda Rossi-Landi 1972, capitolo I), cioè quale strumento della critica letteraria ed es­ tetica, sono i semiologi, e non i scniioticisti, ad attac­ care aggettivi all’estetica anziché alla semiotica. (ii) Il campo della critica estetica in senso lato comprende, secondo Morris, sia l'analisi estetica sia il giudizio estetico (detto anche critica estetica in senso stretto). Entrambe queste discipline sono meta-linguistiche, in quanto parlano di segni, dei segni in cui l’opera d’arte consiste. Ma mentre l’analisi estetica, quale settore dell’analisi semiotica in generale, fa parte del discorso scientifico, la crit­ ica estetica in senso stretto, che è giudizio, fa parte del discorso “tecnologico”. Qui bisogna precisare che negli anni in cui scrisse “L’estetica e la teoria dei segni”, Morris presentava come primari tre tipi di discorso: scientifico, estetico e tecnologico. Era tecnologico qualsiasi discorso in cui avvenis­ sero delle valutazioni (vari tipi di discorso valuta­ tivo e prescrittivo vennero in seguito distinguedosi in e da quello tecnologico; e si giunse al 1946 al219

Scritti di semiotica, etica e estetica

l’articolata classificazione di Signs, Language, and Behauior). Se il giudizio faceva parte del discorso tecnologico, la critica estetica non richiedeva soltanto una teoria dei segni, sufficiente invece al­ l’analisi estetica; essa richiedeva anche una teoria dei valori (si veda, nel saggio del 1939, il § 12). Morris dunque, noto in Europa prevalentemente come studioso di segni, fin dall’inizio poneva con risolutezza accanto ai segni i valori; e si guardava dal favorire l’idea che il mero studio dei primi ci potesse portare a giudicare dei secondi. Giusta o sbagliata che sia questa posizione, è chiaro che chi sostiene la posizione opposta ha da fondarsela per conto proprio, né dovrebbe illudersi che la mera applicazione della semiotica già comporti un qualche giudizio di valore estetico; tutt’al più, essa spiana la via verso di esso. (iii) Il significato [meanittg] è presente in tutte le dimensione della semiotica. Dire, come fa Morris, che si ha semiosi in quanto qualcosa funziona come segno, equivale ad affermare la compresenza di sigtiifiant e signijté (ma, inoltre, anche di un interprete in azione). É comunque sempre di segni, non di meri signifiants, che si parla quando si afferma che la sin­ tattica si occupa dei rapporti dei segni fra di loro: così come quando si afferma che la pragmatica si occupa dei rapporti dei segni coi loro interpreti, non è certo di meri signijtés che si parla. I rapporti dei meri signiftants con altri signifiants sarebbero rap­ porti soltanto geometrici, o acustici, o di altro tipo estraneo alla semiosi; e i rapporti dei meri signijìés con gli interpreti sarebbero anch’essi estranei alla semiosi. Li potremmo chiamare “psicologici” o “so-

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! III. Sul modo in cui è ilota fraintesa la semiotica estetica di Charles Morris

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ciologici”, se questi termini non indicassero anch’essi situazioni che anziché escludere la semiosi in realtà la presuppongono. Diciamo che essi vanno ritrovati dalla parte dcirintcrprcte, dell’intcrpretante e dei rapporti fra gli interpreti c fra i loro interpre­ tanti. Insomma si ha un rapporto semio5Ìco, ogget­ to di studio scmiorico, quando c’è un processo in cui qualcosa (il veicolo scgnico) funziona da segno per un interprete. Un diagramma introdotto da Morris proprio in “L’estetica e la teoria dei segni ”i permette di cogliere a colpo d’occhio la situazione: SEM 1051 DIMENSIONE SINTATTICA DELLA SEMIOSI altri veicoli legnici



DIMENSIONE SEMANTICA DELLA SEMIOSI ▼ A

veicolo scenico

A

:

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I

r

SEMIOTICA sintittica



lemantica

designitum, dcnoiarum

DIMENSIONE PRAGMATICA DELLA SEMIOSI

J—M interpretante, interprete

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pragmatica

Nella parte superiore di questo diagramma ab­ biamo la semiosi, cioè un processo reale in cui qual­ cosa funziona come segno. Il veicolo scgnico (l’ogget­ to che funziona come segno) è in rapporto con un designatimi ed eventualmente con un denotatimi (di­ mensione semantica della semiosi); è anche in rap­ porto con un interprete, che è tale in quanto il se­ gno desta in lui un interpretante (dimensione prag-

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[Ora incluso in questo volume. (N.d.C.)]. 221

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malica della semiosi); ed è, inoltre, in rapporto con altri veicoli segnici (dimensione sintattica della semi­ osi). Nel diagramma appare così anche la dis­ tinzione fra “segno” e “veicolo segnico”, e con­ viene ripetere che è essenziale non confondere le due cose. Il segno è l’intera situazione nel senso che è la somma delle tre dimensioni: dentro a og­ ni segno pienamente inteso c’è un rapporto Ira un veicolo e un designatatii (ed envetualmente un deno­ tatimi), un rapporto fra lo stesso veicolo e altri ve­ icoli (a loro volta centri degli stessi rapporti) e un rapporto fra lo stesso veicolo e un interprcte-conun-itifcrpretante. Nella parte inferiore del diagramma abbiamo la semiotica, cioè una disciplina che si occupa della semiosi (una lingua per parlarne), con le tre branche corrispondenti alle tre dimensioni del processo semiosico2. Ciò che può ingannare nel diagramma è che, avendo bisogno di un punto di riferimento in­ iziale intersoggettivo, Morris pone al centro della

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Sia concesso ricordare che mi ero già affannato a spie­ gare queste cose nella monografia Charles Morris, scrit­ to nel 1952 e pubblicata dagli Editori Bocca di Milano nel 1953 [ora ristampata in Charles Morris e la semiotica novecentesca, Milano: Feltrinelli, 1975, 226 pp.J; come pure nel commento alla traduzione italiana dei Foundations of thè Theory of Signs dello stesso Morris (Linea­ menti di una teoria dei segni, Torino: Paravia, 1954, sec­ onda edizione 1963, xxviii+164 pp. [nuova edizione in preparazione]). [Dopo l’edizione del 1963, Lineamenti di una teoria dei segni è stato riedito con Piero Manni nel 1999, e ancora con Pensa Multimendia, 2009, in entrambi i casi a cura mia. (N.d.C.)].

III. Sul modo in cui è stalafraintesa la semiotica estetica di Charles Morris situazione che il diagramma rappresenta il veicolo scgnico: sicché di primo acchito sembrerebbe trascu­ rato il fatto che si tratta non già di un mero oggetto materiale, bensì appunto di un veicolo segnico. In­ vece egli stesso parla poi indifFcrcntcmcnte dei rap­ porti fra segni o fra veicoli segni, o degli uni e degli altri coi loro interpreti: proprio questo può ingener­ are confusioni. (Chiaramente, i signifiants saussuriani sono la sottospecie verbale dei veicoli segnici; ma si danno fra le due nozioni, anche nella zona del loro sovrapporsi descrittivo, alcune sottili differenze sulle quali ben varrebbe la pena di indagare). La comune riduzione del significato alla sola dimensione semantica è una riduzione che, quan­ do non viene fatta semplicemente ad orecchio, risulta prodotta da profondi movimenti ideologi­ ci. Anche se non c questo il luogo per esaminare tali movimenti, a difesa del livello dialettico già raggiunto dal nostro autore nel 1939, convien dire almeno che quella riduzione comporta, i primo luogo, la degradazione del segno-come-to­ talità a quella sua parte che è il rapporto di desig­ nazione e denotazione; e in secondo luogo la degradazione di quanto così rimane del segno a uno soltanto dei due poli di quel rapporto, cioè al veicolo segnico in quanto portatore di quel rap­ porto (e non di altri). Segno e veicolo segnico vengono pertanto ad assumere uno stato singolare, giacché fuori da quella totalità non sono più nemmeno segni e veicoli segnici; e tuttavia è di segni e di veicoli segnici che si vorrebbe continuare a trattare. Può poi accadere (ma non è nemmeno detto che ci si giunga) che venga tentata una falsa

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ricostituzione della totalità perduta per mezzo dell’ac­ costamento estrinseco del veicolo segnico a qual­ cos’altro cioè a dei “significati” intesi sostantiva­ mente, che sarebbero quindi tali prima ancora di venir significati, come dice il loro nome se inteso verbalmente. Infine, la riduzione del significato al­ la sola dimensione semantica dovrebbe secondo l’assunto escludere tutti i significati che sorgono dai rapporti dei segni fra loro e con gli interpreti; e allora capita che tali significati vengano contrad­ dittoriamente reintrodotti, il che richiede partico­ lari quanto inutili duplicazioni di piani, come l’is­ tituzione d’una semantica della sintattica o d’una semantica della pragmatica. Argomentazioni non dissimili porterebbero a contestare le altre riduzioni alla moda: quella cioè del sociale alla sola dimensione pragmatica e quella del formale alla sola dimensione sintattica - come se sintattica e semantica riguardassero qualcosa di non­ sociale, e rispettivamente come se non ci fossero rapporti formalizzabili fra designata e denotata, o fra nterpreti. Di fronte a tutte queste degradazioni, isogna ribadire che se una proprietà semioticanente costitutiva spetta a una delle tre dimensioni, necessariamente essa spetta anche alle altre due. Le dimensioni, infatti, sono soltanto modi di astrarre da una totalità sempre presente (illuminante a questo proposito il raffronto fra arte astratta e matematica, fatto da Morris nel § 6 di “L’estetica e la teoria dei segni”: dove si può vedere anche il § 11 sull’interre­ lazione delle discipline semiotiche). Per concludere: la diffusa tendenza a ridurre il significato alla sola dimensione semantica, e le altre

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