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Italian Pages 270 Year 2013
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ETEROTOPIE
N. 203 Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna
COMITATO SCIENTIFICO
Pierandrea Amato (Università degli Studi di Messina) Antonio Caronia (NABA) Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi “Insubria” Varese) Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza) Maurizio Guerri (Università degli Studi di Milano) Salvo Vaccaro (Università degli Studi di Palermo) José Luis Villacañas Berlanga (Universidad Complutense de Madrid)
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ETICA ED ESTETICA DEL VOLTO a cura di
Furio Semerari
MIMESIS Eterotopie
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Questo volume è pubblicato con un contributo parziale del Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia, Comunicazione dell’Università degli Studi di Bari.
© 2013 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana Eterotopie, n. 203 Isbn: 9788857517698 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected] Immagine di copertina: J.-A.-Dominique Ingres, Louise de Broglie, Contesse d’Haussonville, 1845 (part.)
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INDICE
PREMESSA di Furio Semerari
9 INVECCHIAMENTO
I. COME FOGLIE INGIALLITE. GEOGRAFIA DEL VOLTO CHE INVECCHIA di Domenica Discipio 1. Narrazione 2. Descrizione 3. Storia 4. Icone 5. Azioni 6. Ruoli 7. Affetti 8. Comicità 9. Bibliografia
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FOLLIA II. LA DIALETTICA DEL VOLTO NELLA DECOSTRUZIONE DELLA PSICHIATRIA. FOLLIA, ISTITUZIONE, SOGGETTIVITÀ di Roberto Mezzina 1. Temi del percorso 1.1. Tutto in un film 1.2. Irriducibilità e inafferrabilità del volto 1.3. Il volto della follia e il volto del nulla 2. Lo sguardo della psichiatria e il volto dell’istituzione 2.1. Scientismo e de-soggettivazione 2.2. Il volto dell’istituzione, un percorso storico
53 53 53 55 57 59 59 60
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2.3. Psicopatologia fenomenologica e volto 2.4. La reificazione 3. Contraddizioni: il tema del doppio e il volto esposto 3.1. Il volto di chi osserva e di chi viene osservato 3.2. Esporsi, resistere e sottrarsi 3.3. Invito alla relazione 4. Il volto dell’espressione e della relazione – o della significazione 4.1. Espressione e comprensione 4.2. Intersoggettività e volto 4.3. Guardare ed essere guardati 4.4. Avvicinamento ed allontanamento, oscillazione 5. Movimenti del volto e del soggetto/dell’essere nel cambio delle psichiatrie 5.1. I volti nella relazione terapeutica 5.2. Cambiare o de-istituzionalizzare la relazione 5.3 Il volto nella crisi 6. Trasformazioni soggettive e istituzionali 6.1. Il volto parlante 6.2. Illuminazione e trasfigurazione 6.3. La deistituzionalizzazione che continua e la “recovery” 6.4. Tutto ciò che mi ri-guarda 6.5. Un altro modo di guardare o di guardar-si: il vero volto o il volto liberato? 7. Bibliografia
62 63 65 65 66 68 70 70 71 72 73 75 75 77 78 79 79 80 82 83 85 86
RICONOSCIMENTO III. IL VOLTO DISCONOSCIBILE. TRA ESPOSIZIONE E MASCHERA di Mario Manfredi 1. L’esponibile 2. Volto vissuto, volto estraneo, ideale del volto 3. Maschere sovrapposte 4. Il volto molteplice 5. Rappresentante dell’io 6. Bibliografia 7. Elenco delle illustrazioni
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POTERE IV. VOLTO DEL POTERE/VOLTI DELLA POTENZA di Alberto Altamura 1. «Le visage est une politique» 2. Potere costituito e potere costituente 3. Il potere costituito: fare-il-volto sovrano 4. Il potere costituente: il volto demoniaco della moltitudine 5. Bibliografia
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RESPONSABILITÀ V. LA RESPONSABILITÀ DEL VOLTO PROPRIO di Furio Semerari 1. Etica del volto proprio 2. Il volto di un uomo in preda all’ira 3. Il proprio volto e gli esseri fragili 4. Il volto, il corpo, la voce e il loro rapporto con gli strati profondi dell’essere umano 5. Parole in forma di grido, pianto, lamento, esclamazione (quando le parole si avvicinano al volto) 6. Mascheramenti e verità del volto 7. Bibliografia
141 141 144 148 154
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FOTOGRAFIA VI. L’IMMAGINE DEL VOLTO IN FOTOGRAFIA. EQUILIBRIO E DISEQUILIBRIO DELLA PERCEZIONE DEL SÉ di Roberta Roca 1. Premessa 2. Dal volto al viso 3. Slittamento verso l’impalpabile 4. La credibilità dell’immagine 5. Bibliografia 6. Elenco delle illustrazioni
169 169 170 178 182 185 186
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TELEVISIONE VII. I MODI DELL’ESSERE VOLTO TRA TELEVISIONE E REALTÀ di Palma Di Gioia 1. Il volto familiare 2. L’alterazione attraverso la chirurgia estetica: la messa in scena del volto maschera 3. Dietro le quinte dello spettacolo: la comparsa dei volti reali 4. Bibliografia
189 190 200 206 209
PUBBLICITÀ VIII. IL VOLTO NELLA PUBBLICITÀ COMMERCIALE E NELLA PUBBLICITÀ SOCIALE
di Angela Martiradonna 1. Premessa 2. Visti e rivisti 3. Belle e affaccendate 4. Poveri noi, anzi, poveri loro 5. La comunicazione sociale 6. Bibliografia
213 213 214 217 218 220 224
MODA IX. IL VOLTO È UN FETICCIO. DESIDERIO E SEDUZIONE NELLA FOTOGRAFIA DI MODA
di Felicia L. Ferrigni 1. Vis-à-vis col feticcio 2. Il volto performativo nella fotografia di moda 3. Bibliografia 4. Elenco delle illustrazioni
NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
227 227 239 257 258
259
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FURIO SEMERARI
PREMESSA
C’è un’estetica del volto e c’è un’etica del volto. C’è un’estetica del volto perché il volto è una forma, percepibile dai sensi (aesthesis), una forma non statica ma variamente mobile, la cui mobilità disegna le cosiddette “espressioni del volto”, manifestazioni di ciò che, per lunga tradizione, si è indicato come ‘anima’, ma che oggi potremmo rappresentare come l’insieme delle intenzioni, dei bisogni, delle aspirazioni, dei desideri, degli stati d’animo, delle emozioni, riferibili a ogni aspetto dell’esistenza e dell’essere dell’uomo: manifestazioni del vissuto personale di ciascuno. Già qui comincia a intravedersi l’altro aspetto, quello etico, del volto. Il proprio volto esercita un’influenza, variabile a seconda dei casi, su coloro che lo guardano. Proprio questa influenza rappresenta o dovrebbe rappresentare, per colui che il proprio volto agli altri mostra (in definitiva per tutti), un problema di natura anche morale. Esiste un’etica dell’estetica del volto, un’etica relativa alla forma ovvero, qui s’intende, alle espressioni o alla espressività del proprio volto in quanto esposto allo sguardo altrui – e, dunque, in quanto rientrante nei più generali e ampi processi comunicativi che intercorrono tra gli uomini (così come, del resto, tra uomini e animali): gli uomini, infatti, comunicano tra loro non solo attraverso le parole, ma anche attraverso il volto e lo sguardo, il movimento del corpo, il tono e la vibrazione della voce, così come attraverso le opere, materiali o spirituali, di qualsiasi genere, da loro prodotte o utilizzate. In questo senso, esiste una responsabilità per il proprio volto ed esiste il problema di un’etica della comunicazione del volto e non solo il problema di un’etica della comunicazione verbale. Ed esiste anche il problema di un’etica del corpo (pensiamo, a questo proposito, per esempio, a qualcosa che potrebbe definirsi in termini di etica del gesto) e di un’etica della voce (del tono e della vibrazione della voce, oltre che, soprattutto con riferimento al nostro tempo, del volume della voce!). Si tratta di etiche (l’etica del volto, l’etica del corpo, l’etica della voce) sulle quali non ci si sofferma, a livello teorico, tanto quanto forse sarebbe necessario, sebbene, nel vissuto delle persone,
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Etica ed estetica del volto
il problema a tali etiche sotteso sia da sempre molto ben presente: accade spesso, se non generalmente, nella quotidiana vita di relazione, di valutare in termini morali espressioni del volto, tono e vibrazione della voce, gesti e movimenti del corpo, che possono essere e vengono in effetti visti, alternativamente, come segni di un atteggiamento, nei confronti degli altri, cordiale, affettuoso, benevolo o, al contrario, di mancanza di rispetto o di attenzione o di cura quando non di vera e propria inimicizia e ostilità. Il problema di un’etica della comunicazione del volto (così come di un’etica della comunicazione verbale, di un’etica del corpo e di un’etica della voce) riguarda non solo le relazioni interpersonali, ma anche i processi relazionali nei quali agiscono soggetti collettivi. Questo aspetto riveste oggi un’importanza particolare con riferimento all’azione di soggetti collettivi (pubblici o privati), come, per esempio, i mezzi di comunicazione di massa, che hanno uno straordinario potere di condizionamento nei confronti della coscienza e della vita delle persone e che molto spesso si muovono al servizio dei poteri economici e politici costituiti. Se, nei confronti dell’altro esiste, come mostrato da Lévinas, una responsabilità ispirata dal volto altrui (il volto dell’altro come appello alla coscienza morale di chi lo guarda), esiste pure una responsabilità per il proprio stesso volto. L’etica come etica del volto (naturalmente l’etica non si riduce a etica del volto) è, nello stesso tempo, etica del volto altrui (impegno etico nei confronti dell’altro ispirato dal volto altrui) ed etica del volto proprio (impegno etico nei confronti dell’altro a partire da e attraverso il proprio stesso volto). C’è così, sul piano morale, una relazione incrociata tra volto che guarda e volto guardato. Il complesso sistema di relazioni, nel quale ciascun uomo da sempre si trova inserito – relazioni con i luoghi in cui vive, con la natura, con l’ambiente sociale e culturale nel quale trascorre la propria esistenza – ha un valore di costituzione e definizione del suo essere e della sua esistenza e, a seconda di come si specifica, quel sistema favorisce o, al contrario, rende difficile o improbabile lo sviluppo dell’essere umano, la possibilità della sua felicità. In particolare, del sistema di relazioni, nel quale ciascun uomo è inserito, fa parte la relazione dell’uno con il volto dell’altro, e viceversa. La relazione con gli altri passa anche attraverso la visione reciproca dei rispettivi volti. Naturalmente, vi sono relazioni con gli altri, che possono essere anche fondamentali, nelle quali gli altri non si vedono mai in volto (anche perché possono non esserci più), com’è il caso delle relazioni nelle quali gli altri si conoscono solo attraverso le loro opere o rapporti puramente epistolari, anche nella forma contemporanea dello scambio di e-mail (in rete c’è in ogni caso, volendo, per i soggetti che fra loro entrano in rela-
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F. Semerari - Premessa
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zione, la possibilità di vedersi l’un l’altro). Nelle relazioni, nelle quali ci si guarda direttamente in volto, si decide, in ogni caso, una parte importante del destino delle persone, che lì si decide proprio perché il volto comunica qualcosa di decisivo relativamente alla verità dell’uomo, anche al di là di quel che le sue parole e persino i suoi stessi comportamenti possono dire. Visibilizzazione tra le più immediate e, alla fine, oggettive del vissuto soggettivo, il volto entra, proprio in quanto tale, come elemento fondamentale nello svolgimento, a tutti i livelli, della dialettica delle relazioni interpersonali e sociali. Il volto registra e porta alla luce le variazioni, anche le più piccole, del vissuto di ciascuno. Nella maggior parte dei casi, in prima battuta è proprio attraverso il volto che agli altri il vissuto soggettivo si rende noto. Non si tratta, qui, soltanto di una priorità temporale, ovvero della circostanza per la quale, prima che qualcuno parli o che in altro modo si venga a sapere qualcosa su di lui, si riesce, già semplicemente guardandone il volto, a comprendere qualcosa su di lui. Si tratta di un fatto più sostanziale, perché, nonostante i tentativi di mascheramento, cui anche con grande frequenza ricorre, il volto riesce in genere solo con molta difficoltà a nascondere intenzioni, bisogni, aspirazioni, desideri, stati d’animo, emozioni, ovvero ciò che si è indicato come il vissuto di ciascuno. Esprimendosi anche sul proprio volto, il vissuto di ciascuno si espone necessariamente alla percezione o visione altrui, giacché le relazioni interpersonali e sociali costringono, in genere, ciascun uomo a mostrare il proprio volto (non è certo, questo, ciò che accade in quegli stati nei quali, ancora oggi, il potere o la tradizione impone a determinate categorie di persone, le donne in particolare, di coprire il volto in pubblico e anche, a volte, semplicemente di fronte ad estranei, pur in situazioni private). E così, non possiamo non mostrare agli altri il nostro essere perché non possiamo non mostrare loro il nostro volto. Mostrando, nelle comuni circostanze della vita di relazione (dalle persone che si incrociano camminando per strada agli incontri sul luogo di lavoro, ecc.), il nostro volto, sveliamo, proprio per questo, anche, in misura varia, il nostro essere più intimo e profondo. Anche nei luoghi più pubblici ed esposti non si può nascondere del tutto la dimensione più privata e intima del proprio essere. Esiste una necessaria espressione, sul volto, dell’essere di ciascuno. I casi in cui ciò non avviene o, in realtà, avviene con una intensità molto modesta sono quelli nei quali il grado di vitalità dell’essere umano, per ragioni varie, si è abbassato fino, a volte, a spegnersi quasi del tutto. Attraverso il volto, la vita di un uomo inevitabilmente comunica, anche al di là di ogni sua volontà contraria e dei mascheramenti cui, di conseguenza, il volto ricorre. A dispetto dell’eventuale volontà contraria dell’uomo, il volto par-
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Etica ed estetica del volto
la e non può non parlare, rivelando livelli profondi o inconsci dell’essere umano che non appaiono attraverso il linguaggio verbale (manifestandosi tuttavia nella voce: nel tono o nella vibrazione della voce), che ha un rapporto più forte, rispetto al volto (e alla voce), con la coscienza (e il suo potere di controllo) sulla quale agiscono spesso molto efficacemente censure varie, storicamente determinate (censure che vengono interiorizzate fino a diventare esse stesse inconsapevoli). Se non si vuole che gli altri colgano le “parole” del nostro volto, quel che il nostro volto dice relativamente al nostro essere, non rimane che chiuderci in casa e non vedere, anzi non farci vedere da nessuno. Ma se l’altro vede il mio volto, vede anche qualcosa del mio essere. D’altra parte, la speciale espressività del volto fa sì che, guardando il volto di un uomo, si riesca a scoprire, talora, molto e, al limite, tutto (tutto quel che è decisivo) del suo essere. Una parte fondamentale, ed estremamente estesa, della dialettica delle relazioni con gli altri, nelle sue molteplici e opposte manifestazioni, si sviluppa passando attraverso il volto. Attraverso il volto si comunica approvazione, simpatia, amore, tenerezza, gioia, felicità, ecc. o i loro contrari, disapprovazione, antipatia, odio, tristezza, infelicità, ecc., e tutte le variazioni possibili di ciascuno di questi sentimenti o stati emotivi o valutazioni. Gli incontri fra persone sono, generalmente, in prima battuta, incontri di volti. Quando ci si incontra per la prima volta, guardando il volto dell’altro, si comincia a capire qualcosa di lui, a ‘farsi un’idea’. Anche il rivedersi è ritrovare innanzitutto un volto, certe sue caratteristiche espressioni, un sorriso o un tratto malinconico o un atteggiamento riflessivo o distratto, ecc. (caratteristici del volto di quella determinata persona), espressioni che ci possono piacere o no, che possiamo trovare interessanti o no, ma che in ogni caso ci sintonizzano in maniera immediata con la particolare soggettività da noi già conosciuta dell’altro. Nella comuni relazioni interpersonali o sociali ricorrono determinate situazioni che, nella loro reciproca diversità al limite della opposizione, sono, in ogni caso, tutte segno del carattere di speciale espressività del volto in rapporto alla soggettività di ciascuno: vi sono volti che non si vogliono vedere perché esprimono e rimandano direttamente a una soggettività che, per i motivi più diversi, non piace e non si accetta in nessun modo; vi sono persone alle quali non si vuole mostrare il proprio volto (situazione opposta alla precedente): non si vuole che il proprio volto sia visto da determinati altri, per un eventuale senso di vergogna che si prova nei loro confronti o perché non si vuole che sul proprio volto si possa leggere, da parte degli altri, qualcosa che rimanda alla propria soggettività e che, per
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F. Semerari - Premessa
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qualche ragione, non si vuole che essi conoscano o riconoscano. Un caso particolare di volto che non vuol essere guardato è il volto del condannato, il volto di colui che ha subito una condanna da parte dei sistemi di giudizio stabiliti dalla società, non solo quelli istituzionali ma anche quelli dell’opinione pubblica: il volto del condannato – del condannato dai tribunali istituzionali o dal tribunale dell’opinione pubblica – deve affrontare il giudizio della comunità di cui fa parte. In questo caso, ogni qual volta s’incontra lo sguardo altrui, è come se il proprio volto fosse trafitto da una freccia, la freccia del giudizio di riprovazione morale che la comunità esprime. Il condannato non vuol mostrare il proprio volto agli altri, che, dal canto loro, cercheranno in ogni modo di guardarlo per ribadire la loro condanna. C’è molta violenza in tutto questo. Si vorrebbe nascondere il proprio volto, non mostrarlo a nessuno. Ma non sempre questo è possibile. E allora si china il volto e si cerca di andare avanti. Come, secondo Canetti, c’è nell’uomo la paura di essere toccato (esordio di Massa e potere: «Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto. […] Tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati») così nell’uomo c’è, in determinati casi, la paura o comunque la volontà di non essere guardato in volto da determinati altri: paura di essere toccati e paura di essere guardati in volto possono essere visti come sistemi di autodifesa personale adottati in diverse circostanze della vita; vi sono situazioni nelle quali si vuole che il proprio volto sia guardato dagli altri. Si vuole che il proprio volto sia guardato dall’altro perché l’altro deve comprendere, proprio guardandoci in volto, la realtà precisa e vera del nostro sentimento, del nostro desiderio, delle nostre intenzioni, del nostro pensiero: il nostro volto sarà la prova di quel che effettivamente sentiamo, desideriamo, delle intenzioni o dei pensieri che realmente abbiamo; vi sono volti che si vogliono assolutamente vedere per verificare la sincerità di quel che gli altri dicono o sentono o pensano (è la situazione reciproca alla precedente): si scruta il volto dell’altro per studiarne ogni più piccolo movimento o espressione, dallo sguardo al movimento delle labbra, che potrebbe essere in contraddizione con le parole che l’altro dice o con altre espressioni del volto (come nota Eugenio Borgna, può esservi una contraddizione, in particolare, fra espressione degli occhi ed espressione delle altre parti del volto). vi sono volti che non si possono non guardare. Siamo alla situazione dell’innamoramento di una persona nei confronti di un’altra e, in generale, della seduttività o attrattività che (per qualsiasi ragione) una persona esercita su un’altra e che anche proprio nel volto ha una sua forma particolarmente importante, anzi fondamentale, di realizzazione. Si è qui attirati non
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Etica ed estetica del volto
solo o non tanto dal volto considerato nella sua pura esteriorità, ma anche e soprattutto da quel che il volto dice o lascia intendere riguardo all’essere generale di colui dal cui volto ci si sente irresistibilmente attratti; vi sono volti che si cerca assolutamente di vedere perché sono volti di persone considerate particolarmente importanti e significative (e si pensa dunque che tale importanza e significatività traspaia anche dal volto). In Aut-Aut, Kierkegaard osserva che «v’è molta gente che ci tiene moltissimo ad aver visto di persona questa o quella personalità straordinaria della storia», aggiungendo che, per quanto, attraverso questa visione, gli uomini possano ricevere una «immagine ideale che nobilita il loro essere», e «per quanto significativo possa essere» questo istante, esso «è nulla in confronto al momento della scelta», ovvero in confronto al momento più elevato della vita etica. Nella nostra società in particolare, che trasforma frequentemente in idoli per la massa determinati personaggi, vi sono volti che vengono continuamente osservati e ricercati e che masse intere di persone cercano di vedere e rivedere. Si è detto che il volto ha una espressività non del tutto controllabile. Almeno in parte, tuttavia, il volto può essere oggetto di controllo. Il controllo del volto può essere espressione dell’esercizio di una responsabilità individuale che tiene conto di determinati criteri morali nella relazione con gli altri. Spesso, tuttavia, il controllo prende la forma (come accennato) di una censura, anche qui storicamente condizionata e differenziata, imposta, a livello sociale, dai poteri costituiti, dall’opinione pubblica, o, a livello interpersonale, dall’influenza psicologica o dall’autorità di certe persone nei confronti di altre – una censura, che, interiorizzandosi, diventa autocensura. La censura, infatti, riguarda non solo il linguaggio verbale, ma anche il linguaggio del volto e, in generale, il linguaggio del corpo e la stessa voce. Attraverso l’intervento censorio, si ha un irrigidimento del rapporto volto-soggettività per il quale la soggettività viene ostacolata o impedita a tradursi liberamente in determinate espressioni del volto. I volti, così intimamente e inevitabilmente legati alla soggettività di ciascuno, per significativi aspetti finiscono per piegarsi e modellarsi sulla base di determinati codici sociali o estetici (che valgono come altrettanti codici sociali) e per reprimere quel che su di essi tenderebbe spontaneamente ad emergere. Come ha notato James Hillman nel cap. «La forza della faccia» de La forza del carattere, nelle «culture altamente formalizzate» la faccia è oggetto di un disciplinamento per il quale, in particolare, essa è portata a nascondere molte cose: l’uomo si abitua a non lasciar trasparire dal volto le parti che la società considera «malvagie e bestiali o quantomeno incivili». Quel che Kristin Linklater osserva a proposito delle censure imposte dalle società
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F. Semerari - Premessa
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umane per quanto riguarda la voce, che non deve tradire le emozioni che si provano, si potrebbe allora ripetere per quel che riguarda il volto dell’uomo. Linklater distingue la «voce naturale» dalla «voce familiare». La voce naturale è la voce che ogni uomo possiede appunto naturalmente e che esprime in maniera diretta e spontanea emozioni, stati d’animo, pensieri in tutte le loro particolarità e sfumature: chi si esprime secondo la voce naturale offre all’altro non solo la propria voce, ma, attraverso di essa, osserva Kristin Linklater, la propria stessa persona (la propria stessa persona quale è con le sue reali intenzioni ed emozioni). Per finalità di controllo dei comportamenti individuali, le società tendono a inibire la voce naturale. Non è opportuno e può essere pericoloso far capire all’altro, anche attraverso la voce, quel che intimamente si sente o si pensa: la voce familiare (familiare perché è la voce che si è abituati a usare e ascoltare) è quella che risulta dalle censure dei sistemi sociali e dalle tensioni che si accumulano vivendo al loro interno. In analogia con la distinzione posta da Linklater fra i due tipi di voce, si potrebbero allora distinguere, per quanto riguarda il volto, un volto naturale e un volto familiare, un volto che, libero o liberatosi da imposizioni o condizionamenti di carattere sociale o interpersonale, esprime in maniera libera e diretta il vissuto del soggetto, da un lato, e un volto che, vittima di condizionamenti e imposizioni sociali, questa espressione tende invece a inibire o limitare, dall’altro. Ancora analogamente, di conseguenza, come nel caso della voce naturale è la propria persona nella sua effettiva realtà e non soltanto la propria voce che si offre all’altro, così nel caso del volto naturale è la propria persona nella sua effettiva realtà che agli altri viene offerta e non soltanto la propria voce. Per varie ragioni che riguardano l’assetto dei valori socialmente riconosciuti o strategie personali nei confronti degli altri, non si mostrano le proprie emozioni o intenzioni, o certe proprie emozioni o intenzioni, sebbene comunque qualcosa della soggettività finisca per trasparire sul volto. In questi casi il legame necessario tra vissuto soggettivo ed espressione facciale viene disturbato. Il volto vive forse di un paradosso: quello per il quale, da un lato, è qualcosa di molto costruito pedagogicamente e culturalmente, sottoposto a processi spesso molto severi e dettagliati di educazione e disciplinamento sociale e, dunque, anche, a divieti e censure, dall’altro, per il contatto stretto che mantiene con le forze istintive dell’uomo, lascia intravvedere, attraverso e al di là della sua costruzione pedagogica e culturale, delle censure cui è sottoposto, verità profonde riguardanti la soggettività di ciascuno che si lasciano difficilmente governare e ridurre al silenzio. Un caso, oggi particolarmente rilevante, di censura esercitata sul volto è la conseguenza dell’imposizione, all’interno delle società postmoder-
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Etica ed estetica del volto
ne, di determinati modelli di bellezza del volto. La capacità del volto di esprimere il vissuto di ciascun essere è variamente compromessa dallo sforzo dei singoli di adeguare il proprio volto a tali modelli, che del resto racchiudono, in maniera più o meno esplicita o implicita, elaborata o elementare, una determinata concezione del mondo o ideologia (una particolare visione di come impostare la relazione con se stessi e con gli altri). Per rendere il volto (analogo discorso vale per il corpo in generale) il più possibile somigliante al modello di bellezza prevalente nella società in un determinato momento storico (i modelli mutano nel tempo e ciò è vero particolarmente nel nostro tempo nel quale le mode relative anche alla ‘acconciatura’ del volto si susseguono l’un l’altra con grandissima rapidità), e alla connessa visione del mondo, e superare la frustrazione di non avere un volto (e un corpo) corrispondente a quel modello, si interviene su di esso con interventi vari di cosmesi e, soprattutto ai nostri giorni, di chirurgia estetica. Gli interventi di chirurgia estetica hanno però l’effetto, almeno quelli più radicali, di irrigidire il volto al punto che esso non riesce più o riesce in maniera molto limitata a manifestare emozioni e stati d’animo. Si crea così una distanza, una estraneità e non corrispondenza fra volto e soggettività, fra ‘interno’ ed ‘esterno’ dell’uomo, nonché una difficoltà nella comunicazione reciproca degli esseri: da un lato, il volto che è stato sottoposto a intervento chirurgico o a certi tipi di intervento chirurgico non riesce più a comunicare in maniera libera ed efficace il vissuto di una persona, dall’altro, colui che tale volto guarda e con tale volto entra in comunicazione, non riconoscendo o non riconoscendo in maniera chiara su di esso i segni esteriori del vissuto altrui, non riesce più a comprendere dal volto quali siano le emozioni, lo stato d’animo, ecc., appunto il vissuto, dell’altro. D’altra parte, il fatto stesso che il volto non riesca più a manifestare i segni delle emozioni che si provano, dello stato d’animo in cui ci si trova, può portare a un progressivo illanguidirsi della propria vita emotiva e affettiva, molti aspetti della quale (se non tutti) hanno carattere sociale e nella possibilità di socializzarsi, di farsi conoscere, di mostrarsi all’altro, trovano una parte fondamentale del loro senso o, senz’altro, il loro senso come tale. Che cosa ne sarebbe di tante relazioni interpersonali, nelle quali è fondamentale manifestare, esteriorizzare, comunicare, le proprie emozioni o fondamentale è, anzi, la loro visibilità e conoscibilità immediata da parte degli altri? Che cosa succede nell’uomo, sul piano psicologico, a quale destino va incontro la sua vita interiore, la sua vita emotiva e affettiva, se sa che, nella relazione faccia a faccia con altri, non riuscirà a far apparire sul volto le proprie emozioni, nelle loro differenti e mutevoli possibilità e sfumature, avendo l’intervento chirurgico creato
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F. Semerari - Premessa
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le condizioni (pur non essendo questa la sua finalità) perché ciò non fosse più possibile o incontrasse gravi limitazioni? Si può pensare che, sapendo di non poter esteriorizzare sul volto le proprie emozioni e il proprio stato d’animo, sapendo di incontrare seri limiti nella comunicazione e socializzazione di emozioni e stati d’animo, l’uomo, più o meno inconsapevolmente, si risolva a non coltivare e sviluppare più, in maniera particolare, la sfera delle emozioni e dell’affettività, che diverrebbe così sempre più arida. Troppe difficoltà e troppi e troppo gravi limiti potrebbero esservi nella comunicazione emotiva e affettiva con l’altro. Certo la voce (il tono e la vibrazione della voce) può assolvere una funzione importante in una situazione di questo tipo. E anche lo sguardo, se gli occhi non sono stati toccati dall’intervento chirurgico, possono svolgere la loro funzione di trasmettitori o comunicatori di emozioni. Si sorriderà con gli occhi, non anche con il resto del volto. Rimane il senso di una limitazione nella comunicazione emotiva ed affettiva. La relazione strettissima tra volto e soggettività viene così disturbata, ostacolata, dall’azione esercitata dai codici estetici e sociali dominanti all’interno di una determinata comunità umana. Si sa l’importanza che hanno in generale i codici sociali e anche quelli più propriamente estetici nel determinare il comportamento individuale. La loro azione può svilupparsi in senso fortemente repressivo nei confronti della libertà degli individui, che da tale azione possono essere indotti ad adeguare il proprio comportamento a quanto stabilito dai codici rinunciando a qualsiasi forma di autonomia. Ci sono codici sociali o estetico-sociali che si manifestano in una certa idea, per esempio, dell’arredamento della casa o della scelta dell’abbigliamento, ma anche della forma da dare al proprio corpo e dei tratti, della fisionomia e anche dell’espressione da conferire al proprio volto. Nel nostro tempo, la televisione, ma anche i periodici specializzati di moda o spettacolo, hanno giocato e tuttora giocano un ruolo decisivo nell’imporre determinati modelli di bellezza del volto (e del corpo e, ancora, di comportamento esteriore in generale, di modi in generale di atteggiarsi nel mondo). Si ha a volte l’impressione che i volti che si vedono in televisione o sulle pagine delle riviste siano tutti uguali. Vedere un volto equivale ad averli visti tutti. Per quel che si diceva (impossibilità di nascondere il proprio volto), chi ha un volto lontano da quanto socialmente stabilito e comunemente piace, è costretto a mostrare un volto che egli sa non piacere e, se può, a correre ai ripari. Ma il risultato non è garantito e rimane così il rischio di un rifiuto e di una svalutazione continui di sé da parte degli altri. Nella misura in cui si vive in una dimensione pubblica, si è detto, non si può non mostrare il proprio volto agli altri perché la società impone che, in
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Etica ed estetica del volto
pubblico, ognuno si presenti con il proprio volto, sebbene poi la stessa società, come si è accennato, eserciti un pesante condizionamento affinché i volti, nella maniera che è loro propria, non dicano, non solo nella dimensione più propriamente pubblica, ma spesso anche nei rapporti interpersonali di carattere più intimo e familiare, tutto quel che intimamente si sente e si pensa. D’altra parte, la stessa società, che esige che ognuno pubblicamente si presenti con il proprio volto, tende a nascondere determinati volti, a fare in modo che certi volti non si presentino mai pubblicamente e mai vengano visti. Vi sono volti ghettizzati. Vi sono volti che non devono circolare e non si devono vedere perché rappresentano qualcosa che rischia di turbare la coscienza e di compromettere la stabilità e la solidità del sistema costituito dei valori. Sono i volti di coloro che non rispondono ai criteri estetici e ai valori in senso generale nei quali la società crede e sulla cui base funziona e che in tali criteri e valori crede in quanto condizionata da una ideologia prodotta e diffusa da soggetti economico-sociali particolarmente potenti che hanno la forza di costruire l’opinione pubblica, disponendo a proprio piacimento dei mezzi di comunicazione sociale. Una società che, come in particolare quella postmoderna, coltiva i miti della produttività, dell’efficienza, della velocità, della ricchezza, del benessere, della giovinezza, della salute, del corpo atletico, tenderà, con consapevole o inconsapevole razzismo, ad escludere da sé quelli che non corrispondono o si ritiene non possano corrispondere a questi criteri o valori o ad alcuni di essi, dunque chi non regge il passo con la mentalità e l’operatività produttivistiche ed efficientistiche, colui che non è stato capace di arricchirsi o comunque non si è arricchito, a maggior ragione il povero, l’estremamente povero, e ancora l’anziano, reo di non essere giovane o almeno adulto, ancora il sofferente nel corpo e nello spirito. Oppure tenderà a includerli e dunque a mostrarli solo come occasione di derisione o irrisione (per esempio si mostreranno gli anziani, come accade in alcune trasmissioni televisive nelle quali essi, apparentemente rivestendo il ruolo di protagonisti, sono in realtà fatti oggetto di un atteggiamento di derisione e presunta superiorità da parte del conduttore, che chiede in ciò, sapendo di poterla ottenere, la complicità di una parte del pubblico televisivo) o di spettacolo o intrattenimento (così, ancora in televisione, vengono presentate – in contesti che hanno spesso il carattere di una estetica della sofferenza e nei quali la curiosità morbosa dello spettatore s’intreccia, fino a volte a sostituirlo, con un sentimento, che pure nello spettatore può esservi, di empatia – situazioni varie di sofferenza al di là di qualsiasi interrogazione radicale sulla sofferenza stessa che viene presentata e sulle possibili soluzioni ai problemi, spesso tragici, che essa rappresenta). Si cercherà, perciò, di non mostrare determinate figure
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F. Semerari - Premessa
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e determinati volti. Il mondo di quelli che ‘vanno bene’ si ferma a un certo punto oltre il quale vi sono i reietti. È il caso degli anziani, dei sofferenti, degli immigrati, ecc. Negli ultimi decenni la televisione ha mostrato sempre più accentuatamente la tendenza – in ciò riflettendo un atteggiamento diffuso e volendo anche corrispondere a quella che si è pensato fosse una altrettanto diffusa aspettativa degli spettatori, ma anche ed essenzialmente, a sua volta, dando essa un decisivo contributo a costruire tale aspettativa da parte del pubblico –, per quanto riguarda i conduttori e presentatori di programmi o gli speaker di telegiornali, insomma gli operatori della televisione che vanno in video, a non impiegare persone anziane e a non presentare dunque volti di anziani e, soprattutto, di donne anziane. Il volto che conta oggi è il volto giovane e, se non si è più tanto giovani, il volto ringiovanito attraverso interventi di chirurgia estetica. Il volto che la televisione preferisce offrire al pubblico non è, del resto, solo quello giovane, ma anche quello rispondente a determinati canoni di bellezza ossia ai canoni dominanti di bellezza, che la stessa televisione contribuisce a diffondere. E non solo giovane e bello deve preferibilmente essere il volto da mostrare in televisione, ma anche rassicurante. Esiste così oggi una gestione dei volti da parte della televisione: una gestione che riguarda non solo coloro che lavorano in televisione, ma anche i telespettatori in quanto condizionati dai modelli di bellezza esaltati dalla televisione stessa. Una gestione dei volti, quella realizzata da parte della televisione, che per aspetti essenziali s’intreccia con la gestione dei volti da parte dell’industria della moda e dello spettacolo le cui ‘proposte’ vengono dalla televisione ampiamente pubblicizzate. Si potrebbe pensare a una televisione che mandi regolarmente in onda, ogni giorno, in particolare nelle ore di maggiore ascolto dei programmi, anziché la solita pubblicità commerciale, volti, anche senza commento verbale, di bambini ridotti pelle e ossa per denutrizione in varie parti del mondo dove si muore di fame, volti di malati che soprattutto nei paesi più poveri del mondo non hanno la possibilità di curarsi, volti di anziani abbandonati o costretti a una vita di stenti fisici e morali, volti di morti e feriti delle diverse guerre in corso (di molte delle quali nessuno parla), volti di persone in fila per mangiare in qualche centro di accoglienza, volti di gente che dorme sui marciapiedi delle stazioni, volti di animali che attendono, sapendolo, la morte che trovano nei macelli collocati nelle periferie delle nostre città. Si potrebbe pensare a una televisione del genere e a che cosa accadrebbe se una televisione del genere ci fosse. Ma questa televisione non c’è. E, se la televisione che c’è non mostra regolarmente ogni giorno, soprattutto nelle ore di maggiore ascolto, questi volti, se
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Etica ed estetica del volto
anzi non li trasmette quasi mai o senz’altro mai, e trasmette invece pubblicità commerciale, non è solo per ragioni immediatamente economiche. Immaginiamo (un esercizio di pura immaginazione) una televisione che non avesse problemi di natura economica per risolvere i quali ha bisogno di trasmettere pubblicità commerciale. Questa televisione egualmente non trasmetterebbe quelle immagini perché quelle immagini metterebbero in discussione il sistema costituito dei valori, risveglierebbero la coscienza critica e aprirebbero casi di coscienza con effetti, alla lunga, pericolosi per la stabilità del sistema sociale esistente. Il presente volume raccoglie nove saggi intorno al volto, ciascuno affrontando un aspetto particolare del tema anche, in particolare, con riferimento alla condizione dell’uomo del nostro tempo: invecchiamento, follia, riconoscimento, potere, responsabilità, fotografia, televisione, pubblicità, moda. Il volto, di cui nel libro si parla, è il volto dell’uomo. Ciò non è da mettere in alcun modo in relazione all’idea di una presunta superiorità del volto dell’uomo rispetto a quello degli animali, ma, tutt’al contrario, al fatto che, proprio perché l’analisi del volto degli animali è almeno egualmente importante e interessante di quella del volto umano, essa meriterebbe una almeno eguale attenzione rispetto a quella dedicata al volto umano, attenzione che, in questa circostanza, non era possibile offrire: l’analisi del volto degli animali rimane un compito di ricerca, forse anche più impegnativo e problematico di quello relativo al volto dell’uomo perché, nelle nostre società e nelle nostre città di umani sostanzialmente separati dagli animali, vediamo abitualmente e siamo abituati a conoscere il volto degli umani più che il volto degli animali. Dell’uomo, nei Fratelli Karamazov, Ivan dice che non si può amarlo se si guarda da vicino il suo volto. Ciò viene detto nelle prime pagine di un capitolo (“Ribellione”, parte II, libro V) in cui si mostra la crudeltà dell’uomo, definito da Ivan artista della crudeltà. Nell’uomo vi sono cose troppo brutte perché si possa guardarne da vicino il volto, un volto dal quale quelle bruttezze traspaiono. Solo da lontano, quando i contorni si sfumano, si può guardare il volto di un uomo e amare (astrattamente) l’uomo stesso. Si può amare il volto dell’uomo quando in realtà non si riesce a vederlo. Una bruttezza del volto come riflesso di una bruttezza morale Nietzsche avrebbe riconosciuto nel volto di Socrate. Se l’anima è brutta, questa bruttezza si riflette sul volto. “Monstrum in fronte, monstrum in animo”, egli ricorda. E a proposito del filosofo greco riporta il seguente episodio: «Uno straniero che si intendeva di volti, allorché venne ad Atene, disse in faccia a Socrate che egli era un monstrum – che nascondeva in sé tutti vizi e le bramosie peggiori. E Socrate si limitò a rispondere:
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F. Semerari - Premessa
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“Lei mi conosce, signore!”». E in effetti in Socrate, nell’interpretazione nietzscheana, si agitava il risentimento dell’uomo del popolo nei confronti degli aristocratici dell’Atene del tempo. La dialettica, con la quale egli inchiodava i suoi interlocutori-avversari alle loro contraddizioni e ai loro limiti e insufficienze analitiche, fu lo strumento della vendetta da Socrate consumata nei confronti degli aristocratici suoi contemporanei. Quale che sia la verità della tesi di Ivan, certo essa in nessun caso potrebbe essere riferita al volto e allo sguardo degli animali, volto e sguardo sui quali Ivan stesso, citando il poeta Nekrasov, si sofferma in una contrapposizione, di grande significato morale, tra uomo e animali, l’uno crudele, l’altro alla crudeltà estraneo. Una crudeltà, quella dell’uomo, che si dipinge sul suo volto e nel suo sguardo e che traspare anche, in particolare, sul volto e nello sguardo che esprimono condanne, rimproveri, colpevolizzazione nei confronti degli altri o di determinati altri. A volte (nelle fiabe, nei cartoni animati) si umanizzano gli animali facendoli parlare o pensare o comportarsi o acconciarsi come gli umani. Si può provare a fare l’inverso, come a volte si è fatto nella mitologia, nell’arte e nella letteratura: si può provare ad animalizzare l’uomo (che del resto è egli stesso animale, sia pure, come notava Nietzsche, un animale malato e degenerato), immaginando, in particolare, la figura umana con il volto o anche solo con gli occhi di un animale: per esempio, visto che è l’animale con cui si ha in genere maggiore familiarità (a parte quelli con cui molti umani hanno familiarità in quanto non più vivi: gli animali di cui si nutrono a tavola), si può immaginare un uomo con il suo volto (il volto di umano) e gli occhi di un cane. Perderebbe forse l’uomo qualcosa in questa sostituzione, grazie alla quale l’innocenza si dipingerebbe sul suo volto e ogni traccia di crudeltà e, si può aggiungere, di arroganza dal suo volto, di colpo, sparirebbe? Non acquisterebbe il volto e lo sguardo dell’uomo qualcosa di finalmente puro? Non diventerebbe l’uomo finalmente – divino, se ammettiamo che divino possa definirsi ciò che, vivendo, vive distante ed estraneo alla crudeltà e in una condizione di piena innocenza? Il mondo non si popolerebbe di altri esseri divini, oltre gli animali non umani? A parte ciò, contrariamente a quel che a volte si pensa, il volto e lo sguardo degli animali presentano forme di espressività molto intensa e ricca di sfumature. C’è una ricchezza interiore di sentimenti, emozioni, pensieri, che si riflette sul volto dell’animale. C’è una estrema profondità nello sguardo di un animale che non può sfuggire e che forse è dovuta all’essere l’animale in diretto rapporto con le forze essenziali della vita, a differenza dell’uomo la cui vita molto spesso è solo un trastullarsi anche tragico in attività e obiettivi senza senso e un frequente ondeggiare e cincischiare della coscienza in meditazioni e argomentazioni
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Etica ed estetica del volto
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secondarie che allontanano dall’essenziale. Il miglior apprezzamento che si potrebbe fare di un uomo è che ha lo sguardo di un animale.
Nota bibliografica I riferimenti contenuti nella Premessa sono relativi, nell’ordine, alle seguenti opere: Elias Canetti, Masse und Macht, Claassen Verlag, Hamburg 1960; Massa e potere, tr. it. di F. Jesi, Adelphi 2010 (I ed. 1981), p. 17. Eugenio Borgna, L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano 2011 (I ed. 2001), p. 77. Søren Kierkegaard, Enten-Eller (1843); Aut-Aut. Estetica ed etica nella formazione della personalità, tr. it. di K. M. Guldbrandsen e R. Cantoni, intr. di R. Cantoni, Mondadori, Milano 2009, p. 27. James Hillman, The Force of Character. And the Lasting Life, Random House Publishing, 2012; La forza del carattere. La vita che dura, tr. it. di A. Bottini, Adelphi, Milano 2007. Kristin Linklater, Freeing the Natural Voice (2006); La voce naturale. Immagini e pratiche per un uso efficace della voce e del linguaggio, tr. it. e pref. di A. Fabrizi, Elliot, Roma 2011 (I ed. 2008), pp. 19-20. Fëdor Michajlovic Dostoevskij, Brat’ja Karamazovj (1879-1880); I fratelli Karamazov, tr. it. di M. R. Fasanelli, intr. di F. Malcovati, Garzanti, Milano 1992, 2 voll., vol. I, parte II, libro V, pp. 327-328. Friedrich Nietzsche, Götzen-Dämmerung oder wie man mit dem Hammer philosophirt (1888), in Nietzsche-Werke. Kritische Gesamtausgabe, hrsg. von G. Colli und M. Montinari, Walter de Gruyten, Berlin New York 1967 e sgg., Walter de Gruyter, Abt. VI, Bd. III, 1969; Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello, tr. it. di F. Masini, in Opere di Friedrich Nietzsche, ed. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964 e sgg., vol. Vi, t. III, 1975, cap. «Il problema Socrate», par. 3.
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INVECCHIAMENTO
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DOMENICA DISCIPIO
COME FOGLIE INGIALLITE Geografia del volto che invecchia
1. Narrazione Finché rimarrà in vita, mia madre mi accompagnerà col suo volto reale, l’ultimo volto, quello che non si trasforma più e si mostra agli altri fino alla fine dei suoi giorni: il volto della vecchiaia. Alzando a tratti gli occhi dal mio libro, per riposare la vista, guardo tutt’intorno la stanza, finché incontro quel volto, mentre lei, distesa sul divano, dorme, onorando il suo sacrosanto riposo quotidiano. Mi riscopro, così, a farne una sorta di descrizione anatomica: un mento un po’ sporgente a causa di una bocca ormai sdentata ma non ancora del tutto deforme; labbra ancora rosee e lisce, ma più sottili, rientranti; capelli disordinati fra l’argento e il bianco definitivo, ma, soprattutto, una pelle non completamente rugosa, non ancora del tutto insultata dal tempo, un po’ tesa e delicata, pallida, sotto la quale vene e capillari continuano a pulsare, ma più lente e stanche. Tuttavia, tra tutte queste parti, sono gli occhi ad inquietarmi, che, appena socchiusi, sembrano guardarmi, ma, in realtà, fissano, dalle palpebre semiaperte, un indeterminato punto della stanza, attraversandomi come se fossi un corpo trasparente. Allora le chiedo qualcosa, per verificare se è sveglia, per dirigere quello sguardo su di me, ma mi accorgo che, pur avendo l’impressione che mi guardi, in realtà lei ha già proiettato quello sguardo verso uno spazio e un tempo indefiniti. Sensazioni di spaesamento, le mie, che ho cominciato a provare da quando mia madre, alla veneranda età di novant’anni, ha rimesso in moto il suo orologio biologico1, che pareva essersi fermato in un presente – sep1
È abbastanza frequente trovare, in ambito scientifico, l’espressione “orologio biologico”, quando si paragona il ritmo cadenzato della temporalità umana con un meccanismo di precisione come l’orologio, strumento finalizzato all’esatta misurazione del tempo. Quando questo “orologio biologico”, o orologio della vita, scandisce bene il ritmo vitale, si assiste ad una normale crescita ed evoluzione della biologia e della fisiologia di un organismo. Quando, invece, ciò non accade,
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Etica ed estetica del volto
pur vecchio – ancora efficace, ancora intelligente, saggio della saggezza che tanto si onora e si elogia nel vecchio, per entrare in un nuovo, incerto presente, diretto verso nuovi lidi, verso le sponde di quel “tutt’altro ordine”, con cui il filosofo Vladimir Jankélévitch ha definito i non-luoghi ove si approda con la morte. Rimesso in movimento, il tempo ha ripreso a scorrere rapido, sebbene la sua corsa sembri aver salvaguardato il volto, sul quale, ancora oggi, l’età non è del tutto leggibile, anche se lo è sul resto del corpo, per la graduale disfunzionalità di certi organi interni o a causa di un’anchilosi degli arti, il cui movimento prima rallenta, poi tremola, infine si immobilizza, perdendo definitivamente la scioltezza e il dinamismo originari. La pelle, si sa, è un tessuto connettivo e, se non è sciupata da specifiche malattie, tiene ancora insieme parti del corpo ormai in preda a forze centrifughe e in via di disattivazione: Tipico della vecchiaia è l’assottigliarsi dei tegumenti, il calo del tono muscolare e l’aggrinzirsi della pelle per un naturale processo di disidratazione e mancanza di collagene2.
Forse è questa la ragione per la quale il volto, che, nella pelle, ossia nella sua superficie tangibile, ha il tramite più eloquente, è anche il messaggero più significativo. Mia madre è stata fortunata: il tempo ha concesso alla
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ci si trova di fronte a disfunzioni, le cui cause non sono state ancora del tutto individuate dalla scienza, sia che si tratti di un arresto, sia che si tratti di un’accelerazione della scansione temporale all’interno dell’organismo in questione. Un fenomeno di disfunzione in direzione dell’invecchiamento è descritto, con termini enigmatici e affascinanti dall’antropologo e naturalista americano Loren Eiseley: «Spesso, tra milioni di persone umane, un bambino di sei anni o un ragazzo di dieci muoiono di vecchiaia. La causa di questa strana malattia, nota come progeria, o vecchiaia prematura, è del tutto sconosciuta. Sono riportati casi clinici di completa calvizie, pelle rugosa e flaccida, con modificazioni senili nel cuore e nei vasi sanguigni. La scienza medica ha osservato, in questi rari casi, un enorme incremento nella velocità di invecchiamento, ma il meccanismo coinvolto rimane tuttora nascosto, sebbene la causa potrebbe essere altrove, tra ghiandole prive di canali. L’afflizione, per quanto rara sia, rivela la presenza di un misterioso orologio nel corpo, un orologio capace di correre lento o veloce, accorciando la vita o allungandola (corsivo mio) e, come le parti più visibili della nostra anatomia, di essere soggetto alla selezione naturale. Questo orologio, comunque, possiede un aspetto ancor più curioso: può influenzare il coefficiente di crescita di organi particolari». Cfr. L. Eiseley, The Immense Journey (1946), Vintage Books Edition USA, 1959, pp. 108-109 (la traduzione di questo passo è mia). Cfr. M. Bussagli, Il corpo umano. Anatomia e significati simbolici, Mondadori Electa, Milano 2005, p. 207.
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D. Discipio - Come foglie ingiallite
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pelle del suo volto di non corrugarsi totalmente, e quel volto è ancora altamente espressivo, significativo, nel dolore e nella gioia, nel pianto e nel riso, nella salute e nella malattia, nella malinconia e nell’allegria: situazioni indimenticabili, che ora si stanno imprimendo sulle mie retine e vi resteranno finché il graduale svanire della memoria non oscurerà anche i miei ricordi e le mie emozioni. Il volto dei vecchi è il volto del tempo che si fa carne, da esso solcata come un aratro solca la terra, solchi profondi, ferite aperte, bocche che parlano e narrano cose avvenute. Il volto dei vecchi è la manifestazione di una strana sapienza, ambigua e paradossale, perché esso non mentirebbe su se stesso neppure se indossasse una maschera, è un volto che non si autocensura più e si lascia andare al riso, al pianto e al dolore in un dispiegamento totale di emozioni non più rimosse, ma vissute fino in fondo. Il volto dei vecchi, in definitiva, può essere amato disinteressatamente, gratuitamente, con pietà, misericordia o passione, senza il rischio di essere fraintesi.
2. Descrizione Dal parrucchiere. Un grande specchio a tutta parete riflette il mio volto, mentre mi appresto a sottopormi ad una messa in piega. Il silenzio è rotto solo dal rapido sforbiciare sui capelli. Ma il mio sguardo cade sul volto riflesso nello specchio: sì, è proprio il mio. Immobilizzata da un’ampia mantella che nasconde interamente il corpo, osservo solo la testa e il collo. Atto primo: riconoscimento. Mi riconosco, ma non posso fare a meno di innescare un’indagine autoptica, spietata, implacabile, come spietata e implacabile sta lavorando la mano del tempo sul mio volto. Una piccola ruga, profonda, tra le arcate sopraccigliari, solo a sinistra, testimonianza di momenti corrucciati, problematici o rabbiosi. Poi le palpebre, un po’ più cascanti, hanno modificato lo sguardo. Se le sollevassi, non riconoscerei comunque lo sguardo originario, che, ora, non so più descrivere. Invecchio. Due solchi profondi, ai lati del naso fino alla bocca hanno da sempre caratterizzato il mio volto: una poco piacevole eredità materna. Ma eccoli, adesso, ancor più approfonditi, accompagnati da guance troppo rilassate, che mostrano due piccole sacche ai lati del mento. Se sorrido, quasi scompaiono e mi illudo di non averle. Intanto, invecchio. Tagli, piccoli tagli sul contorno delle labbra: mai visti prima d’ora. Panico. Colorito spento, nessun trucco, nessun coadiuvante per la luminosità del viso, solo un leggero strato di crema idratante per evitare che, d’inverno, la pelle tiri e bruci dal freddo. E, finalmente, numerosi
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Etica ed estetica del volto
capelli argentei, fili scomposti sulla fronte, crespi, innaturali, estranei, oppongono resistenza al getto incandescente del phon e si rizzano, si attorcigliano, si elettrizzano indomiti: anche i capelli invecchiano, e non solo scolorendo, ma modificandosi nella loro stessa struttura. La testa che fuoriesce dalla mantella sta rivelando la sua verità, da tempo paventata, del mio invecchiamento. Questa volta, non di una persona qualsiasi, ma è di me che si tratta, e i verbi vanno ora coniugati in prima persona3. Il tempo che scorre lascia ogni volta, dietro di sé, segni nuovi: cedimento delle forze, artriti e reumatismi, appesantimento e rallentamento dei movimenti, malattie più frequenti e più tenaci, alterazioni ormonali e circolatorie – per le donne, graduale passaggio dal corpo mestruato a quello in menopausa, dalla viva sessualità all’affievolimento fino a totale scomparsa del piacere, e, a poco a poco, modificazione dello status esistenziale da figlia a mamma, da mamma a nonna, dalle foto ricordo al ritratto sulla lapide di marmo. Ascoltiamo Jankélévitch: L’invecchiamento è una decadenza che accade una sola volta nella vita, e una sola volta per vita e non conosce, al contrario della fatica, nessuna ripresa, nessun recupero di nessun tipo. […] la senescenza, infatti, così come rallenta la cicatrizzazione e la rigenerazione dei tessuti, rende anche più incompleta la riparazione delle perdite che l’organismo viene a subire. L’età accentua il deficit biologico, la totalità si ricostituisce, ma su un piano inferiore, come dopo un’emorragia cerebrale: in fin dei conti, e per un organismo ridotto alla difensiva, ogni accidente si conclude con una perdita o un arretramento4.
Humour nero, negritudine dell’umore, malinconia passeggera o vera e propria angoscia? “Geotropismo”5 Jankélévitch definisce questo decadimento bio-fisiologico dell’essere, ovverosia crescita della terrosità, avvicinamento alla terra, curvatura di tutto il corpo verso il basso come emblema della ricaduta nel nulla: La senescenza non consiste in nient’altro che nell’orientamento e nell’irreversibilità del divenire. La coscienza che pende in avanti non si aggrinzisce 3
4 5
Cfr. V. Jankélévitch, La morte, tr. it. di L. Boella, Einaudi, Torino 2011, pp. 23 e sgg. Lo scritto dedica un’importante paragrafo a “La morte in terza, in seconda, in prima persona”. Ritengo che questa espressione possa valere anche per la descrizione della vecchiaia, cui Jankélevitch non manca di consacrare una dettagliata e straordinaria sezione nel IV capitolo, intitolato «L’invecchiamento». Ivi, p. 184. V. Jankélévitch, Austérité et Décadence, cap. 1 de L’Austérité et la vie morale (1956), in Id., Philosophie morale, edition établie par Françoise Schwab, Flammarion, Paris 1998, p. 408 (la traduzione dei passi citati da quest’opera è mia).
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come la pelle di zigrino, ma mostra sintomi di stanchezza crescente. Meno slancio, meno agilità, meno fiducia. L’inesorabile sclerosi dei tessuti è come il versante essoterico di questa fatica dell’anima; inoltre, come l’organismo si riadatta sempre più laboriosamente, e convalescenza e cicatrizzazione si fanno sempre più difficoltose, così la coscienza non cessa di perdere in energia ed elasticità. Non è questione di volume, ma di tono. Questa modificazione del modo d’essere è tipica, per Psyche come per Zoé, della finitudine del nostro destino e del posto che la nostra età ci assegna in questo destino: la memoria diventa sempre più ampia della speranza; sempre più ricordi dietro di sé, sempre meno cose attese dinnanzi. La durata, nient’altro che durando, si fabbrica da sé un passato che va sempre più smorzandosi, la futurizione rimuove e deposita dietro di sé il passato, cioè: fa passato con il futuro. La futurizione è una calcificazione. La coscienza, sbilanciata da questa pesantezza, inclina verso il basso che è il luogo della materialità; si direbbe che il peso del passato, per una sorta di geotropismo senile, prefiguri già, per la vecchiaia, la discesa nella tomba6.
“Pulves es et in pulverem reverteris”, rammentavano, da parte loro, le Sacre Scritture, riferendosi alla morte presagita nella condizione della vecchiaia, che della morte è, naturalmente, l’anticamera. La coscienza dell’invecchiamento afferra l’uomo con una stretta al cuore, e, prima di ogni cosa, lo fa servendosi dello sguardo, del volto e della visione che di esso si ha, perché, più di qualsiasi altra parte del corpo, il volto mostra tutti i compromessi e le rese alla discesa: rughe, occhi spenti e umidi, palpebre pesanti, perdita di tono e di elasticità, collo flaccido, zampe di gallina, denti ingialliti, presenza di protesi, sorriso sdentato e stentato. La materia e la carne, con la vecchiaia, predominano inesorabilmente sullo spirito e ne condizionano lo stato. La vecchiaia – vecchia strega! – ci incatena e danza attorno a noi, sue vittime, la sua danza macabra. L’arte – dalla pittura alla scultura, dalla letteratura alla poesia – ne ha dato infinite raffigurazioni e descrizioni, accentuandone l’aspetto orrido o esaltandone la sublimazione spirituale e culturale: Dal punto di vista artistico, però, la figura dell’uomo vecchio o della donna vecchia hanno sempre esercitato un grande fascino su scultori e pittori… Il mezzobusto, allora, assume subito un carattere moraleggiante perché invita gli uomini a non lasciarsi frastornare dalle sirene della bellezza e della gioventù, dal momento che, per quanto formosa e attraente, ogni donna si trasformerà, “col tempo”, nella vecchia sdentata che abbiamo davanti7.
6 7
Ivi, pp. 407-8. M. Bussagli, Il corpo umano, cit., p. 206.
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Etica ed estetica del volto
Ma non sarà che una spalmata di fondotinta, una spolveratina di blash e un po’ di lipgloss, per noi donne, o una bella rasatura del volto, con un consistente strato di crema idratante, per gli uomini, possano venire in aiuto, in extremis, di una faccia che non si “fa” più, che non si costruisce più, ma che ha imboccato la china del “dis-faci-mento”? Altrove è già stato rilevato un collegamento tra il sostantivo “faccia” e il verbo fare, come se nella faccia vi fosse qualcosa che ha a che fare, in modo costitutivo, con ciò che si fa, che si fabbrica, come la “facciata” di una casa, quella dalla quale la casa è riconoscibile e che, per quanto costruita in modo seriale, riesce a risultare sempre diversa dalle altre per qualcosa. La faccia, dunque, è la “facciata” di un individuo, è ciò che lo identifica e da cui lo si riconosce, perché essa costituisce la continuità in costante evoluzione. Proviamo a togliere la faccia da un corpo8, a coprirla, anche solo con un velo o una striscia nera sugli occhi, e già quel corpo diventa irriconoscibile. Vi sono circostanze tristi nella vita, nelle quali occorre riconoscere una persona: ebbene solo il volto ci dà la possibilità più certa del riconoscimento, a parte qualche altro variabile dettaglio corporeo. Se il volto è disfatto, il riconoscimento sarà parziale o, addirittura, non ci sarà affatto riconoscimento: nell’irriconoscibilità del volto è racchiusa, infatti, la tragedia del “milite ignoto” e delle sepolture di massa. Nella modernità, invece, il “documento di riconoscimento” (che va a sostituire la ritrattistica del passato, destinata, peraltro, solo ai nobili, ai ricchi e agli ecclesiastici, come prerogativa di una memoria storica negata, invece, alle popolazioni prive di riconoscimento storico) richiede obbligatoriamente una fotografia e solo secondariamente la denuncia degli altri tratti caratteristici del corpo, come l’altezza, i segni particolari o la data di nascita, oltre al nome e al cognome. Esibiamo questo documento a chi ce lo richiede per avere informazioni su di noi e per verificare, nel nostro volto, chi veramente siamo, per accertare se il volto reale coincide col volto riportato nella fotografia di quel documento. Questa è anche una delle ragioni per le quali esso va rinnovato periodicamente, perché se la fotografia scattata in un certo momento è ciò che consente un riconoscimento immediato, e il nostro volto è, intanto, cambiato o invecchiato, è necessario che il documento venga aggiornato. Assisto, dunque, impotente, all’invecchiamento del mio volto, che avviene più o meno rapidamente o lentamente a seconda delle circostanze, dei periodi della vita, delle esperienze, ma, soprattutto, quasi a mia insapu8
Cfr. J. Kristeva, La testa senza il corpo. Il viso e l’invisibile nell’immaginario dell’Occidente, Donzelli, Milano 2009.
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ta. Contemporaneamente, però, sorge una strana quanto paradossale sensazione che il mio spirito non si accordi del tutto con questo invecchiamento. “Sentirsi giovani interiormente”, pur invecchiando nel corpo, è un’espressione che ricorre frequentemente, anche se, a dire il vero, vale anche il suo contrario, sentirsi vecchi pur essendo ancora giovani: La sintesi infanzia-vecchiaia appare in primo luogo appannaggio delle figure divine, quale simbolo della loro straordinarietà, capace di coniugare gli opposti. Uno dei più antichi appartenenti alla categoria del puer senex, escludendo l’incredibile Ermes dell’Inno omerico che lo vede protagonista, potrebbe essere il dio etrusco Tages, dall’aspetto di bambino e dal senno di un vecchio […]. L’asceta vive nel suo corpo come se non lo avesse, lo spirito domina la carne, addirittura ne annulla le pulsioni. Vengono sconfitti i sensi, viene dominata la materia. Il giovane diventa vecchio perché trascende il tempo9.
C’è incoscienza del proprio corpo e del proprio volto quando si è profondamente impegnati nelle situazioni della vita quotidiana. La coscienza di sé come totalità rimane sullo sfondo sottoforma di traccia mnestica assopita che in qualsiasi momento può attivarsi. Intanto il tempo vola via ed è per una giovane ostinazione, per un capriccio infantile, che si indietreggia inorriditi di fronte alla possibilità-realtà che quel volto con qualche anno in più, che in quel momento sta pensando, parlando, scrivendo, sia proprio il nostro. A rinforzare l’ostinazione giovanile e la capricciosità infantile interviene la tentazione di molti di sottoporsi ad interventi riparatori: massaggi, maschere tonificanti, alliscianti e ammorbidenti, trucco, maquillage, e, là dove la situazione è più grave, lifting, tiraggi, stiramenti, assottigliamenti e rigonfiamenti: fatti e rifatti, ricostruiti e rinvigoriti, e, sebbene quasi irriconoscibili, belli e brutti al tempo stesso, grotteschi e irreali, quantomeno ringiovaniti: …ella combatte; ma tinture, peeling, operazioni estetiche non serviranno che a prolungare la sua agonizzante giovinezza. Almeno può giocare d’astuzia con lo specchio. Ma quando ha inizio il processo fatale, irrevocabile, che distruggerà in lei tutto l’edificio costruito durante la pubertà, ha la sensazione di essere raggiunta dalla fatalità della morte stessa10.
9 10
E. Giannarelli, Lo specchio e il ritratto. Scansioni dell’età, topoi e modelli femminili fra paganesimo e cristianesimo, in «Storia delle donne», 2006, 2, pp. 171 e 174. S. de Beauvoir, Il secondo sesso, a cura di R. Cantini e M. Andreose, pref. di R. Siebert, Il Saggiatore, Milano 2002, p. 672.
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Etica ed estetica del volto
D’altra parte è vera anche la condizione opposta: se ogni ruga, ogni segno, ogni traccia sul volto racconta storie, eventi, esperienze, allora il volto che invecchia non ci spaventa e non ci angoscia più, diventa un dato malleabile che procede, più o meno lentamente, verso una disfatta “naturale”, nella quale non ci sono vincitori né vinti e non ci si sente del tutto atterrati, se si diventa portatori di una diversa ricchezza, quella, cioè, che si raccoglie nel complesso di una vita e nell’insieme degli eventi che l’hanno segnata nell’anima e, quindi, nel volto.
3. Storia «Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?» La regina si era ormai abituata a una risposta tranquillizzante. «Tu», rispondeva ogni volta lo specchio, «Regina, la più bella sei tu» - fino a quel giorno terribile in cui lo specchio disse un’altra verità: «Ma Biancaneve lo è molto di più». È quanto avviene inevitabilmente alle regine che invecchiano11.
Da quando lo specchio ha riflesso l’immagine di un’altra donna più giovane, è lei, adesso, la più bella. Più bella perché più giovane? Ma una più giovane può anche essere meno bella di una più vecchia! Non mi è più concesso di essere la più bella solo perché sto invecchiando? Si può essere ancora belli mentre si invecchia? Può la vecchiezza avere una sua bellezza? Ai vecchi, in realtà, è concessa la bellezza dell’“invecchiare bene”, una bellezza peculiare e sublime e, come sublime è la tempesta kantiana, altrettanto sublime è il volto del vecchio, dove si intravvedono, nella lontananza della trascorsa età giovanile, la tempesta e la quiete, l’avventura e il riposo, le passioni e le ragioni, i sentimenti e le azioni. Ci sono più modi di vivere e intendere la vecchiaia. Uno è quello secondo il quale essa è il momento in cui si raggiunge la più autentica realizzazione e compiutezza di sé, del proprio essere, accompagnate da maturità e saggezza e si diventa, grazie ad un processo di naturale trasformazione, degni di rispetto e di venerazione. È il ruolo, ad esempio, dei nonni che invecchiano bene, e che, nell’immaginario collettivo, sono quelli che collaborano con la famiglia a tirar su i nipoti, quando i genitori lavorano, o, addirittura – come sta accadendo soprattutto nella nostra epoca caratterizzata da crisi economica –, aiutano, con la loro pensione, a sostenere le spese familiari. Oppure è il ruolo dei capi, dei dirigenti, degli alti funzionari, che 11
S. Brownmiller, Femminilità, tr. it. di A.M. Brioni, Feltrinelli, Milano 1985, p. 116.
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cedono lo scettro del governo delle cose ai loro successori senza grossi traumi e con discrezione, accettando dignitosamente il ridimensionamento della posizione fino a quel momento occupata. Da questo atteggiamento deriva quella che James Hillman ha definito «forza della “gravitas”», ossia il singolare sembiante di certi vecchi, che racchiude un’autentica forza morale e culturale altamente influente sullo sviluppo sociale ed etico di un’intera comunità: I vecchi hanno gravitas quando il loro sguardo interiore arriva al cuore invisibile delle cose, a ciò che è nascosto e sepolto. […] tale saggezza è esposta e ben visibile nelle deformazioni del loro corpo, purché si legga attraverso la psicologia dell’immaginazione anziché attraverso la fisiologia della geriatria. La vecchiaia rende la biologia una metafora. I cambiamenti fisici sono una forma di linguaggio poetico che riscrive la personalità trasformandola in carattere12.
Questi vecchi, di qualsiasi estrazione sociale essi siano, invecchiando bene, esibiscono senza alcun pudore i loro volti rugosi, anche deformati dalla vecchiaia, le loro teste canute, o le membra fiacche e tremolanti, usando questo loro aspetto come una nuova carta di identità che li accompagnerà fino alla fine. È la loro psiche che asseconda, senza tante bestemmie, la modificazione in senso degenerativo del corpo, rendendolo, pur tuttavia, ancora fascinoso e oggetto di stima. D’altra parte, a voler tener conto della differenza di genere, nella vecchiaia «il maschio “tiene” meglio», sostiene Barbara Alberti: Per cultura non si bada alle sue rughe. Lei, carampana. Lui, interessante. E poi a noi ci casca il collo, loro si fanno crescere la barba. Che fortuna!13.
Altra cosa è, invece, invecchiare male. In tal caso, è difficile che il vecchio si senta portatore di una dimensione “sublime”, né il suo volto invecchiato, decrepito, solcato dai segni profondi lasciati da una vita problematica, fatta di sofferenze e patimenti, gli è di grande aiuto, anzi, esso è la cosa che avverte come la più odiosa e ostile. Così il suo corpo ormai non corrisponde più ai desideri e alle aspirazioni, che pure ad una certa età continuano a tormentare lo spirito. In questi individui la vecchiaia è vissuta come una malattia, una grave malattia, dalla quale essi sentono, con
12 13
J. Hillman, La forza del carattere. La vita che dura, tr. it. di A. Bottini, Adelphi, Milano 2007, p. 118. B. Alberti, Riprendetevi la faccia, Mondadori, Milano 2010, p. 49.
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Etica ed estetica del volto
un forte senso di angoscia, di non poter guarire più. La vecchiaia diventa, allora, l’età di una strana turpitudine, mai vissuta prima, che trasforma le emozioni e i sentimenti in brame lascive e umilianti, in eccitazioni senza sfogo, in rabbia incontenibile e in sofferenza penosa. Il vecchio sente di non essere più se stesso, la sua vita passata è lontanissima da quella presente, gli odori del suo corpo, i movimenti delle sue membra e i lineamenti del suo volto gli si mostrano in tutta la loro oscenità, perché mai, come in questo momento, pur non avendo più censure e pur godendo di maggiore libertà di azione e di espressione, egli avverte di essere stretto in una morsa, in un aspetto che non gli si addice, sente di essere tutt’altro rispetto a ciò che avrebbe voluto essere: La vecchiaia non è mai stata così brutta come da quando si cerca di nasconderla. […]. Alla donna non si perdona la vecchiaia. Non se la perdona nemmeno lei, e accetta la farsa della giovinezza obbligatoria14.
La vecchiaia è, dunque, testimonianza della contingenza più pura, della temporaneità e della precarietà della vita e porta nei volti questa testimonianza. Se il tempo ha un volto, esso è concretamente visibile proprio nel volto vecchio. Inafferrabile, incoercibile, immateriale, inimmaginabile, il tempo è scolpito nel volto umano che invecchia, rovina di un tempio una volta abitato dagli dèi, nell’ingrossamento o nello smagrimento dei suoi lineamenti e delle parti che lo compongono. Insomma, le “età del mondo” sono leggibili nei volti dei viventi, nelle storie di milioni di volti umani, maschere poste in cima a corpi che del tempo non conoscono pause o arresti e che esso plasma loro malgrado.
4. Icone La storia individuale dell’uomo ha mostrato che, appena egli nasce, la prima cosa che gli compare dinanzi è un volto: quello della madre, il primo, non solo a mostrarsi, ma anche a mantenersi il più costante e frequente nella presenza, quello che gli si imprimerà nella mente e nel cuore, anche quando esso sarà completamente trasformato e deformato dalla decrepitezza della vecchiaia o trasfigurato dalla morte (beninteso, quel volto può anche non essere esattamente della madre che lo ha generato, ma di chiunque corrisponda a caratteristiche simili). 14
Ivi, p. 15.
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Nel suo studio sull’iconografia antica, Elena Giannarelli sostiene, ad esempio, che la vecchia non appare necessariamente come una figura negativa – maga, strega, suocera, matrigna – ma anche come immagine positiva – «le anziane nutrici, come l’omerica Euriclea, che riconosce Odisseo, o le “tate” della poesia elegiaca, che stanno accanto alle loro fanciulle…»15. Tuttavia, la vecchiaia è vissuta come età negativa, dalla quale occorre riscattarsi. Per questo, le dee sono eternamente giovani, splendenti (Afrodite-Venere), forti e sagge (Atena-Minerva o Artemide-Diana): appaiono in sembiante di anziane quando calano sulla terra, per apparire ai mortali, e per muoversi più liberamente, posto che le vecchie godono di una speciale libertà. Nell’immaginario collettivo antico anziana è la madre, soprattutto quando sia piangente, addolorata per i figli. …Ecuba… la biblica Rachele …Maria in lacrime sotto la croce16.
L’uomo, inoltre, comincia sin dall’antichità a dare spontaneamente un volto alle divinità, sotto sembianze sia giovani che vecchie: Le divinità pagane erano spesso descritte con caratteristiche tipiche del giovane e del vecchio; anche il Dio dei cristiani appare nel sogno del martire Saturo quale «uomo canuto, con i capelli bianchi come la neve ed il volto da giovane». Frequente è anche l’attribuzione della canizie a Cristo che, morto a trentatre anni, è tuttavia rappresentato in Apocalisse 1, 14 con il capo ed i capelli bianchi come lana del candor della neve17.
L’iconografia religiosa raffigura Dio col volto di un vecchio con la barba bianca, come se la divinità potesse essere rappresentabile più efficacemente attraverso l’immagine di una “persona” di età avanzata. Da ciò si comprende quanto sia potente, nell’uomo, la facoltà immaginativa e raffigurativa, al punto da riuscire a dare un “volto” anche a chi un volto non dovrebbe averlo: I mistici ebrei affermano che Dio nasconde la sua faccia perché la forza diretta della sua gloria brucerebbe il creato. Egli deve rimanere nascosto (deus absconditus) e inconoscibile, deve contrarsi (tsimtsum) per lasciare spazio al creato18.
15 16 17 18
E. Giannarelli, Lo specchio e il ritratto. Scansioni dell’età, topoi e modelli femminili fra paganesimo e cristianesimo, cit., p. 181. Ivi, p. 184. Ivi, pp. 175-6. J. Hillman, La forza del carattere. La vita che dura, cit., p. 205.
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Etica ed estetica del volto
L’iconoclastia è il disprezzo, l’orrore e la rimozione di tutti i volti conferiti alla divinità, perché l’iconoclasta, nel suo purismo ad oltranza, non accetta che Dio si incarni in un corpo e, soprattutto, in un volto, per giunta vecchio. Se il volto, infatti, può essere considerato il perfetto corrispettivo, in termini di unicità, delle impronte digitali, che sono soltanto mie e di nessun altro, se esso è un elemento irripetibile e la sola idea di un “doppio” ci inquieta e ci angoscia, allora ha ragione l’iconoclasta a distruggere qualsivoglia tipo di raffigurazione, qualsiasi immagine o icona possa raffigurare il divino. Ma l’iconoclasta, accecato dal suo purismo e dalla sua intransigenza, uomo di molta fede, ma di scarsa immaginazione, non arriva a pensare che, in realtà, il volto di un Dio Padre o quello di una Dea Madre sono, in realtà, i volti che l’uomo porta impressi sulle sue retine e che, da queste, migrano, sostanzializzati in immagini, nella sua mente e nel suo cuore, e sono, appunto, i volti, giovani o vecchi, che incontra nel corso della sua vita e con i quali stabilisce relazioni particolari. Ma perché Dio ha le fattezze di un vecchio? Perché già i Greci avevano raffigurato, prima Saturno, poi Zeus come le divinità più vecchie? Le altre divinità, come già detto, o gli eroi e le eroine, avevano sembianze per lo più belle, giovanili e prestanti, come le immagini che la poesia, l’arte e i racconti epici greci ci hanno tramandato. In verità, la raffigurazione delle divinità è strettamente legata all’arte pittorica e scultorea: il pittore e lo scultore scelgono tra i volti umani quelli più adatti a rappresentare, degli dèi, le loro personalità, i loro difetti e i loro poteri, grazie ad una forte influenza dell’antropomorfismo figurativo, a sua volta arricchito da una spiccata facoltà immaginativa, che opera in piena libertà creativa. L’artista “sente”, “immagina” e “vede” la divinità paterna (Zeus o Dio Padre o la Dea Madre) non solo sotto sembianze umane, ma, soprattutto, come vecchi, onorabilissimi e potenti vecchi. Nel vecchio, infatti, è come se il tempo fosse già stato superato, perché il vecchio è al di là del tempo, è colui che più volte è giunto faccia a faccia con la morte senza lasciarsene annientare, l’ha rinviata proprio attraverso il permanere in una vecchiaia interminabile. Nel pericoloso gioco con il tempo, il vecchio è colui che vince il tempo, perché, per lui, la morte, in qualsiasi momento arrivi, arriva sempre quando ormai è tempo di arrivare, quando, cioè, tutte le possibilità sembrano essersi realizzate. Questa è anche la ragione per la quale il vecchio invoca la morte come ultimo atto di una vita giunta al suo culmine, quando sente che i tempi sono maturi, che il suo tempo si è esaurito e che è tempo di far posto agli altri. Il vecchio al quale si impedisce di morire, ritardando il suo istante fatale, viaggia in direzione contraria a quella del tempo irreversibile, è contronatura, così come il vecchio che rifiuta di morire è un contro-
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senso dell’esistenza umana, perché sembra che, in lui, la carne e l’anima, non coincidendo più, non più sincronizzandosi, lo confondono circa il suo essere attuale e gli fanno ancora nutrire la speranza di poter spremere ancora un po’ di succo dalla vita. Nell’Alcesti di Euripide, i vecchi genitori si ritraggono inorriditi di fronte al dio Ade che è venuto a prendersi Admeto e lo fanno per una duplice ragione: una, perché il dio degli Inferi vuole immolare a sé il loro figlio ancora giovane; un’altra, perché Admeto, rifiutandosi di pagare il suo debito verso gli dèi offesi, con un ironico rovesciamento dei fatti, offre i vecchi genitori alla morte in cambio di se stesso, per essere ancora sposo di Alcesti. Ma i vecchi genitori, legati ancora alla vita, si liberano spaventati dalla morsa egoista e fatale del figlio, lasciando che la tragedia si compia allorché ad andar via, cioè a morire, è il personaggio meno prevedibile, ossia proprio Alcesti, la sposa giovane e bella. E tutto avviene contro ogni aspettativa naturale, che vuole, invece, che siano i vecchi a morire, avendo essi consumato le loro possibilità vitali: ALCESTI: […] Ma l’uomo che ti generò e la donna che ti partorì si sono tirati indietro: e sarebbe stato bello, per loro, morire all’età che hanno raggiunto, sarebbe stato bello salvare un figlio e morire con gloria19.
La cultura greca elabora un rapporto “eroico” con la morte e “venerando” con l’invecchiamento dell’uomo. Scrive Giuseppe Zanetto nella Introduzione all’Alcesti: …Ferete [suocero di Alcesti, nonché padre di Admeto] è figura straordinariamente complessa e “moderna”. […] Nella rappresentazione della vecchiaia la letteratura greca oscilla fra due estremi. Nella concezione omerica l’anziano è membro importante della comunità patriarcale, alla quale può assicurare il suo contributo di saggezza e di conoscenza. […] Il Ferete dell’Alcesti è una singolare commistione: è un impudente vegliardo che non rinuncia alle gioie della vita, che si sottrae all’obbligo della saggezza. […] Euripide sa bene che il sacrificio della vita può essere assai più doloroso per un vecchio che per un giovane, proprio per l’angoscia e l’alterazione emotiva che alla vecchiaia spesso si accompagnano20.
Nella sua graduale evoluzione storica, la cultura occidentale ha sviluppato una peculiare relazione con la vecchiaia, innanzitutto facendola rientrare in una scansione biologico-temporale, che prevede una prima età, che va 19 20
Euripide, Alcesti; Eraclidi, tr. it. di N. Russello, intr. di G. Zanetto, Mondadori, Milano 1995, p. 27. G. Zanetto, Introduzione a Euripide, Alcesti; Eraclidi, cit., p. XIV.
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dalla nascita e si estende per tutta l’infanzia, una seconda età, che va dall’adolescenza alla giovinezza, e una terza età, che va dalla maturità alla vecchiaia. Questa scansione abbastanza generale, a sua volta, prevede periodizzazioni di vario tipo, a seconda del punto di partenza da cui si prendono le mosse nel computo della temporalità riguardante la vita umana. Tuttavia, ciò che accomuna tutte queste periodizzazioni è il loro essere caratterizzate da immagini, icone e virtualità visive, con le quali si è portati a dare volti diversi a ciascuna età della vita, fino al paradosso attuale, nel quale si sta verificando una forte tendenza a scambiare il reale con l’immaginale. Il peggior immaginale, però, ossia non quello che si aggancia all’estetica del simbolismo e dell’arte, o che si impegna nell’elaborazione e nella messa in opera di specifiche terapeutiche dell’età senile o di rivalutazione della vecchiaia nelle possibilità significanti che essa può ancora offrire ai singoli e alle comunità, ma quello che si accanisce, con ansia compulsiva e quasi esclusiva, a curare esteticamente volti e corpi, al fine di sottrarli al naturale e graduale decadimento riservato ai viventi. Ed è così che, anziché invecchiare spontaneamente e ispirare fiducia, conforto e dignitoso rispetto, gran parte delle persone, quelle appartenenti al mondo dello spettacolo, ma anche quelle che vivono una vita di normale amministrazione, sentono di avere, con gli enormi sviluppi della chirurgia estetica e dello sport e con i colossali investimenti delle più grandi aziende cosmetiche, nutrizionistiche e della moda, opportunità senza pari nel sottoporsi ad interventi di varia natura – cosmesi, diete, ginnastiche specifiche – con le quali concretizzare il grande sogno dell’“eterna giovinezza”. Nel migliore dei casi si tratta di applicazioni di fanghi, impiastri e miscele ringiovanenti, nel peggiore, di invasivi interventi chirurgici aventi il potere di provocare, per un ironico effetto di rimbalzo, anche risultati devastanti compromettendo o distruggendo proprio ciò che si era voluto correggere o ricostruire. Sono scelte motivate da un non so che di diabolico, il cui esito oscilla tra l’artificiale e il grottesco, tra l’effetto “mummia” e l’effetto “uomo bicentenario”. Il volto che invecchia è, attualmente, il ‘luogo figurato’ sul quale si sta consumando gran parte dei crimini del bisturi postmoderno, il volto da esorcizzare con l’imposizione delle mani da parte di fantomatici pranoterapeuti o con l’assunzione di pasticche e intrugli vari aventi lo scopo di ritardare il più possibile i danni della senescenza. Solo un grande coraggio o un adeguato distacco del cuore può nutrire la speranza ‘metafisica’ di far sopravvivere la giovinezza senza il supporto di orpelli e artifici. È uno stile di vita, che si sceglie di condurre quando la vecchiaia si rivela spietata e ci si scopre, di rimando, codardi e paurosi di fronte ad essa. È faccenda soggettiva e oggettiva al tempo stesso: invecchiare mi riguarda, sì, in prima persona,
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ma riguarda anche la comunità cui appartengo. La nostra cultura, che fa la navetta tra le scissioni io/mondo, natura/cultura, dentro/fuori, nascita/ morte, giovinezza/vecchiaia, si muove, in realtà, all’interno di coordinate spazio/temporali ben determinate. Basta andare altrove, un po’ oltre l’orizzonte del nostro sguardo, che i dualismi appena citati, insieme a tanti altri, non sono né pensati né vissuti, ragion per cui la vecchiaia – così come la sua naturale conseguenza, che è la morte – è intesa e vissuta come appartenente all’ordine delle cose, nel quale il singolo e la sua stessa comunità si inseriscono a pieno titolo, senza forzare il flusso coerente e continuo degli eventi. L’uomo occidentale, invece, mantiene un rapporto complesso e ambivalente con il mondo che lo circonda e con se stesso, è da sempre abituato a separare le parti, a dividerle, a considerarle per sé stanti e questo atteggiamento lo rende più vulnerabile ai colpi inferti dal tempo, ai traumi del passaggio dalla condizione della giovinezza a quella della vecchiaia, dallo stato di salute a quello di malattia, dalla crescita alla decrescita, dallo sviluppo all’involuzione. È nell’antichissima epopea di Gilgameš che si narra poeticamente il dramma della scoperta, da parte dell’uomo, della propria finitezza, la cocente delusione dell’invecchiamento, al punto da spingere l’eroe a cercare la pianta dell’immortalità pur di fronteggiare le ingiurie del tempo e l’ultimo passaggio verso la fine: Così Utnapištim parlò e Gilgameš prese una pertica e ricondusse il battello a riva. «Gilgameš, sei giunto qui come un uomo esausto, sei spossato; che cosa ti darò da portare al tuo paese? Gilgameš, io ti rivelerò una cosa segreta, è un mistero degli dèi ciò che ti dirò. C’è una pianta che cresce sott’acqua, ha spine come il rovo, come la rosa; ferirà le tue mani, ma se riuscirai a prenderla, allora nelle tue mani ci sarà ciò che ridà a un uomo la gioventù perduta». Quando ebbe udito ciò, Gilgameš aprì le chiuse così che una corrente di acqua dolce lo portasse al canale più profondo; si legò ai piedi pietre pesanti e queste lo trascinarono giù sul fondo. Vide che lì cresceva la pianta; benché lo pungesse la afferrò; poi tagliò via dai suoi piedi le pietre pesanti e il mare lo prese e lo gettò sulla riva. Gilgameš disse a Uršanabi, al barcaiolo: «Vieni a vedere questa pianta meravigliosa. Per sua virtù un uomo può ricuperare tutta la forza di prima. La porterò a Uruk dalle forti mura, lì la darò da mangiare ai vecchi. Il suo nome sarà “I vecchi sono di nuovo giovani”; infine, ne mangerò io stesso e riavrò la perduta gioventù». […] Gilgameš vide un pozzo di acqua fresca, scese e vi si bagnò; ma nel profondo dello stagno giaceva un serpente, e il serpente sentì la dolcezza del fiore. Esso uscì dall’acqua e lo ghermì, e subito si spogliò della pelle e ritornò nel pozzo. Allora Gilgameš si sedette e pianse…21. 21
N.K. Sandars (a cura di), L’epopea di Gilgameš, tr. it. di A. Passi, Adelphi, Milano 2009, pp. 149-150.
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Etica ed estetica del volto
L’uomo è, più o meno consapevolmente, ma sempre, alla ricerca di una pianta della giovinezza e dell’immortalità, perché non accetta, neppure per un istante, l’idea del proprio disfacimento, della decadenza e della fine della propria vita e di quella di chi più ama. Nasce, così, già agli albori della civiltà, il bisogno di procacciarsi i mezzi per rallentare l’invecchiamento e, dunque, per allontanare il più possibile – se non definitivamente – la morte. Tutte le tecniche realizzate dall’umanità hanno questo fine, sempre presente, anche sotto mentite spoglie, se non esplicitamente manifesto. Oggi questa ricerca è diventata ancor più frenetica e il suo ritmo è proporzionale al valore che l’uomo dà ad ogni età della propria vita: più si è giovani e meno intenso è questo valore, come testimoniano le “vite bruciate”, i voli pindarici e le morti del sabato sera, la malinconica aura di senectute che aleggia nelle anime di pueri aeterni; più si diventa vecchi, invece, e più ci si arrampica alla vita, al suo dinamismo, si cerca di mantenerlo a livelli costanti con corse mattutine, footing, jogging, body building, ginnastiche dolci, danze di tutti i tipi per tonificare i muscoli e mantenersi in forma. Oppure ricorrendo ad “apotropaiche” maschere di bellezza, maquillage di esperti estetisti e parrucchieri, i cui laboratori, come pure le cliniche estetiche e di chirurgia plastica, sono di certo i centri maggiormente frequentati, sia dai giovani che dai vecchi. E i volti di questi ultimi, con le loro peculiari rivelazioni, incarnazioni e manifestazioni, con i loro ospiti inaspettati e sgraditi – rughe, protesi, incanutimento – ne sono la più tangibile e toccante espressione.
5. Azioni Rugoso, incartapecorito, stanco e opaco, il volto vecchio si rattrappisce ad ogni istante che passa, lotta strenuamente, cerca in tutti i modi di difendersi contro i solchi tracciati dal tempo che lo rendono sempre più irriconoscibile, ma è un’inane lotta senza fine e l’azione corrosiva riesce, in definitiva, ad avere la meglio. Chi può, cerca si spianare o di riempire le parti che si sono spiegazzate come un vecchio tessuto o si sono svuotate della carne che ne dava il tono e l’espressione. Ma non c’è sostegno che tenga fino in fondo. Bellezza e giovinezza sono due attributi del volto e del corpo umano, destinati, tuttavia, a generare il sentimento della delusione, di quella che Jankélévitch definisce, come nell’omonimo suo scritto22, la 22
Cfr. V. Jankélévitch, La déception (1947), in Traité des vertus, Bordas, Paris 1949.
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déception, ossia la sensazione di una caduta dall’alto, il senso di angustia e sprofondamento provato dinanzi alla scoperta dell’invecchiamento, del più o meno lento disfacimento dell’organismo in tutte le sue parti e, nella fattispecie, in quella parte più nuda e vulnerabile qual è il volto. Giacché nel volto giovane e, per giunta, bello, è racchiuso tutto il mistero vitale dell’essere umano, ma tale mistero ha il suo correlato ed opposto nell’altro termine dell’alternativa, quello della vecchiezza e della morte. Il volto bello di Elena, dice Jankélévitch, è come un fuoco d’artificio, lanciato nel cielo per accendersi, ma destinato a ricadere, in terra, sottoforma di cenere, fumo e carta bruciata. E l’uomo, accecato dal mistero della bellezza di un volto, non coglie, in esso, il suo corrispettivo retrostante, ciò che giace sotto la vellutata pelle, le simmetrie degli organi e l’armonia delle parti: raggrinzimento, deformazione e disarmonia del volto vecchio, fino al teschio glabro, freddo e privo di vita della morte. L’arte pittorica e scultorea hanno saputo cogliere la scena e il retroscena della giovinezza e della bellezza anche nel gusto per la raffigurazione del carattere orrido, osceno e ripugnante della vecchiaia e della morte. Facebook è, nel world wide web, il “libro delle facce”, il postmoderno luogo di incontro dei volti umani, incontri virtuali, artificiali, dove il faccia a faccia è mediato – “interfacciato” – da un computer o da una webcam, una videocamera che proietta e rende visibile il proprio volto in qualsiasi parte del mondo, permettendoci di comunicare con chi vogliamo. È un sogno, un prodigio della tecnica, che salda il desiderio della visibilità con quello della intangibilità, il bisogno di comunicare con la possibilità di rimanere anonimi o di mantenere la distanza dal proprio interlocutore, così come il telefono costituisce il mezzo di comunicazione che ci permette di mettere in comune fatti, informazioni, pettegolezzi ed emozioni senza essere visti, lasciando passare solo la voce, bella o brutta che sia. La prossimità concreta e reale, dunque, con tutte le problematiche ad essa connesse, viene scavalcata e disinvoltamente sostituita da una lontananza priva di frustrazioni e nostalgie, ma ugualmente appagante, perché annullata dal medium. Esso ci permette di mantenere l’anonimato pur mostrando il nostro aspetto reale, o non mostrandolo affatto se il nostro volto è vecchio o inaccettabile. Ma a fronte di questa straordinaria possibilità di restare invisibili o nascosti dietro aspetti e volti diversi, si sviluppa una spinta forte a realizzare incontri concreti, abboccamenti, rapporti “vis à vis”, “face to face”, quelle relazioni “faccia a faccia”, cioè, nelle quali si ha ancora la possibilità di guardare direttamente negli occhi il proprio interlocutore, amico o nemico, di osservarlo dalla testa ai piedi, di stringergli la mano, abbracciarlo o, al contrario, sputargli in faccia, schiaffeggiarlo o sferrargli un pugno. Se accettiamo per
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Etica ed estetica del volto
vera l’idea che il volto è immagine, specchio o emblema dell’anima, allora andrebbero rimesse in questione tutte quelle forme di comunicazione che, invece, escludendo l’incontro dei volti o permettendolo solo parzialmente attraverso il filtro di un medium, non tengono conto del fatto che è proprio in esso che si consumano, come sulla punta fine di una totalità di elementi che compongono la corporeità, tutti i drammi, le tragedie, le gioie, i dolori e le sofferenze che quella corporeità ha vissuto, vive e sta vivendo e le lascia esprimere o trasparire, appunto, nella straordinaria espressività che lo caratterizza. Non è un caso che, tra tutte le violenze, quella inferta al volto è, sicuramente, la più straziante, perché umilia e segna negativamente la profondità dell’essere. L’animale uomo riesce, seppure molto a stento e dopo svariati e difficili accomodamenti, ad accettare orrende mutilazioni e negative modificazioni del corpo. Quelle stesse mutilazioni e modificazioni, inflitte sul volto, sono sentite come segni di un male senza fine, un male d’assurdo, che la creatura non riesce a riassorbire e a far rientrare nell’ordine delle cose. Tumefazioni, escrescenze, cecità, deformità, perdita di organi significano, per l’individuo, profonde compromissioni della propria identità, che, come si è già detto, trova nel volto la sua precisa, unica ed irripetibile connotazione, come uniche di quell’individuo e quell’individuo soltanto sono le sue impronte digitali. Orbene, la vecchiaia, con le tumefazioni, le deformità e le metamorfosi che incide sul volto in forza del carattere temporale della biologia e della fisiologia di tutto ciò che vive, può rientrare a buon titolo in questo genere di violenza, sebbene si tratti di un’azione di corrompimento oggettiva, attenuata e diluita dalla lentezza con cui i cambiamenti generalmente avvengono. L’invecchiamento compromette seriamente la stabilità identificativa di ciascuno di noi. Pur tuttavia non la si può scansare né ritardare né annientare. V’era l’uso, nell’età antica, di scolpire su metalli pregiati il proprio volto, come fece Agamennone, lasciando in eredità – si presume – la sua maschera. Lo si faceva finché si era in vita o in prossimità di eventi che avrebbero potuto comportare la morte, o a morte avvenuta e quest’atto accordava al futuro un’importanza senza pari, sebbene esso fosse consentito solo ai re, ai capi, agli eroi, a chi, in quella maschera, poteva tracciare un’impronta indelebile della propria vita passata. Beati coloro – ricchi, potenti, imperatori, re, papi, santi – che hanno potuto lasciare un segno della loro potenza, anche con una vecchiaia esemplare e memorabile. Quanto a noi, gente comune, non sono concessi volti memorabili, maschere immortali o apotropaiche, né tracce di gloria o resoconti storici di ciò che abbiamo fatto. A noi, il volto – se nulla o nessuno ha abusato di esso – si lascia plasmare, nostro malgrado, solo dal tempo e, sollevando a poco a poco il velo della età giovanile, si mostra sempre
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di più nella sua inerme nudità, o suscitando ripugnanza mista a pietà o ispirando benevola comprensione mista a contemplazione. Se tanti sono i sentimenti verso esso, unico, tuttavia, esso resta, irripetibile e immutato negli occhi e nel cuore di chi ci ama.
6. Ruoli C’è, dunque, un bizzarro paradosso che riguarda il volto che invecchia: da un lato, ripugna e fa paura, per le ragioni che sin qui abbiamo spiegato; dall’altro, è insignito di dignità e onorabilità. I capi delle tribù, gli sciamani, i re, gli imperatori, sono stati scelti per lo più tra gli anziani delle comunità, perché vecchiezza, rughe e canizie erano gli indici di una vita intensamente, dignitosamente e onorevolmente vissuta. Anche se non mancavano i giovani volti degli eroi tra le cariche più importanti, tuttavia i ruoli di comando, di governo e di amministrazione delle comunità, grandi o piccole, erano sempre affidati ai più anziani: il “senato” aveva funzioni decisionali di estrema importanza nel diritto e nella politica del mondo greco e romano, funzioni e poteri che, talvolta, superavano anche quelli del sovrano o dell’imperatore. Il vecchio, dunque, è sempre stato, in tutte le comunità umane (e, in senso lato, anche in quelle animali, perché, a dire il vero, l’etologia ci insegna che è dalla natura animale, più che da quella culturale, che l’uomo ha tratto l’esempio di conferire ai più vecchi il potere sugli altri membri della comunità), la figura più rappresentativa e dignitaria cui affidare le decisioni ultime e dalla quale attingere tutta la sapienza possibile. Se il vecchio è colui sul quale il tempo si è più e meglio esercitato, allora è a lui che dobbiamo ricorrere per ottenere consigli, suggerimenti, esempi per meglio regolare le nostre azioni. Il vecchio porta, nel corpo e nel volto, l’incarnazione della vita esperita, e i segni dei successi e dei fallimenti sono da lui indossati come l’abito più importante e più costitutivo del suo essere. Nel volto, soprattutto, egli mostra le idee, le opinioni, i giudizi, le emozioni, i desideri, i comandi e le risposte e ogni atto ha corrispondenza in una espressione o in un cipiglio peculiari legati al messaggio che intende trasmettere. Le posture del corpo coadiuvano la comunicazione espressiva del volto, lasciandola agire con tutta l’efficacia di cui essa è capace. Uno sguardo, un sopracciglio alzato, un ghigno o un sorriso, una risata, una lacrima che scende o qualsiasi altro movimento facciale o smorfia, dicono molto di più di una voce o di un dito alzato, di una mano levata o di una contorsione del corpo. Le smorfie fatte da Jean-Paul Sartre bambino davanti allo specchio e descritte nel romanzo filosofico au-
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Etica ed estetica del volto
tobiografico Le parole23 rappresentano tentativi di un riconoscimento di sé perseguito attraverso molteplici deformazioni del volto, come se la propria vera faccia non fosse quella e quella soltanto, ma tante, tutte potenzialmente realizzabili e tra le quali scegliere, volta per volta, quella da indossare nella situazione che ci si trova a vivere. Il volto invecchiato, invece, ha perso questa potenzialità camaleontica, essendosi irrigidito su un’unica forma, quella vecchia, appunto, che, priva ormai di elasticità, si fissa su un’unica sola smorfia indeformabile, che si presenta ora come la totalità compiuta di quel volto. E ogni volto invecchia a modo suo, ognuno con una propria smorfia, pur lasciando, sotteso, il volto originario, quello con cui siamo nati e che ci accompagna, pur deformandosi, per tutta la vita. Quel volto originario ci consente di riconoscerci anche da vecchi e di trovare ancora vaghe somiglianze col volto passato, soprattutto quando rivediamo fotografie-ricordo o ritratti. Insomma, invecchiare è, prima di tutto, una questione vitale, sulla quale si esercitano tutte le forme del sapere che fino ad ora l’uomo ha elaborato, al fine di trovare risposta all’interrogativo sulla destinazione della propria vita fisica e della propria esistenza spirituale. La vecchiaia, inoltre, va a braccetto con la solitudine del vivente, sia come scelta libera e consapevole sia come condizione forzata o voluta da altri. Gli animali che invecchiano scelgono di andare a morire lontano, da soli, oppure di tornare in un luogo, presunto originario, dove consumare gli ultimi istanti del loro soffio vitale. Nel volto visibilmente invecchiato della mia ultima gatta, Buba, che aveva raggiunto la venerabile età di diciotto anni, ho letto gli stessi segni di invecchiamento che avrei potuto cogliere sul volto di un essere umano: occhi umidi, intristiti, incanutimento del pelo e suo diradamento con macchie amorfe e di colore scuro, movimenti nervosi e malsicuri, espressione del muso dolorante e miagolio prolungato, lamentoso. Nell’invecchiamento, ancor più che nella morte, tutti gli esseri, anche quelli inanimati, sembrano assomigliarsi, vanno ad eguagliarsi in un unico aspetto, un’unica facie, quella dell’affievolimento, dell’assottigliamento e della decadenza dello “slancio vitale”. Uomini, animali e cose soggiacciono, lo ripetiamo, ad un’unica legge – semplice quanto inesorabile – la legge del tempo e conoscono l’avvicendarsi irreversibile delle stagioni della loro vita. Ritornano, qui, ancora efficaci, le straordinarie metafore di Austérité et Décadence di Jankélévitch: L’individuo invecchia, la specie degenera e le belle arti vanno in rovina: una medesima legge presiede, dunque, alla senescenza, alla degenerazione e alla
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Cfr. J.-P. Sartre, Le parole, tr. it. di L. De Nardis, Il Saggiatore, Milano 2011.
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decadenza – una legge panbiologica di usura e di avvizzimento…La decadenza non sarà, forse, nient’altro che una metafora?24
Jankélévitch ci dice che le stagioni dei viventi sono altrettante stagioni delle cose della terra, ognuna con un suo diverso scorrimento temporale, più rapido o più lento secondo la materia di cui son fatti gli esseri, così come esistono stagioni per le civiltà e per tutte le produzioni umane: La decadenza è la preoccupazione e il dramma dell’uomo trasposti nella natura attraverso quel medium che si chiama civiltà: la civiltà, in quanto fenomeno storico, regge contemporaneamente l’umano e il fisico; come la persona essa sembra invecchiare, come la natura, rinasce instancabilmente dalle proprie rovine… Una volta precipitati, come possiamo precipitare ancora? Si può scendere più in basso del Basso? […] La decadenza è il mistero dell’uomo che invecchia intessendo il mistero primaverile25.
Il volto di ciascuna cosa, ossia la sua parte più esteriore, la più espressiva e significativa, ma anche la più vulnerabile, racconta la storia del mistero metaempirico dell’alternanza delle stagioni, e la racconta finché c’è storia e finché l’uomo la può narrare. 7. Affetti Uno dei gesti più belli che l’uomo possa compiere verso ciò che lo circonda e, nella fattispecie, verso il prossimo, è la carezza, l’uso della mano per esprimere un sentimento di affetto, di amore. Il sentimento che parte dal cuore mobilita la sensazione tattile e plana, per lo più, sul volto dell’altro, per sentire e far sentire il contatto e trasmettere, così, l’intenzione sottesa al sentimento. Il volto è, dunque, la prima e più immediata destinazione di un gesto straordinario, delicato, che, peraltro, non è prerogativa dell’uomo ma del vivente in generale, giacché anche gli animali si accarezzano e ci accarezzano. Lo fanno persino – figurativamente e realmente – le piante, delle quali gli studi di botanica hanno da tempo accertato le capacità percettive, allorché sfioriamo foglie, petali di fiori, tronchi di alberi o piante millenarie. Animali e piante, a loro volta, ci restituiscono le loro “carezze”, provocando in noi un effetto di straordinario e singolare piacere, quale, ad esempio, quello che proviamo quando, qualche volta, 24 25
V. Jankélévitch, Austérité ed Décadence, cit., p. 388. Ivi, p. 417.
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Etica ed estetica del volto
per esprimerci fiducia e affetto, un gatto o un cane appoggiano, con inaspettata e delicatissima maestria, sul nostro volto, la loro zampa, oppure quando, seduti sulla panchina di un giardino, in una giornata ventosa, ci sentiamo all’improvviso sfiorati dal ramo di un salice o da una foglia svolazzante. Così avviene anche nella carezza tra umani (ed escludiamo, qui, per ragioni argomentative, la carezza erotica, che di per sé ha implicazioni ancora più profonde): l’accarezzare il volto dell’altro anche solo per ragioni puramente affettive è un moto dell’anima che genera un’ampia gamma di sentimenti, che vanno dall’amore alla carità, dalla pietà alla simpatia, dalla gioia al dolore. D’altra parte va rilevato che la carezza sul volto di un bambino è mossa da un’intenzionalità diversa da quella fatta sul volto di un vecchio, e altrettanto diverso è il sentimento che ne scaturisce. Le sensazioni fisiologiche, le stimolazioni nervose messe in moto dalla pelle di un volto giovanissimo sono lontane da quelle scatenate dalla carezza sulla pelle di un volto vecchio, perché diverse sono le contingenze: aspettative di futuro nel primo, incancellabili tracce di passato nel secondo. Anzi, a dirla tutta, la carezza sul volto vecchio non sempre genera sensazioni positive, giacché la sua rugosità, la maggiore durezza e minore elasticità, provocano piuttosto inquietudine e angoscia di fronte all’aspetto e al pensiero di una vita fatta e ‘di-sfatta’. Il gesto può ben avere le stesse intenzioni per i volti delle due età, ma l’esito di quel gesto è emotivamente differenziato. È ciò che ho provato quando, attonita, accarezzai, per la prima e l’ultima volta, il volto di mio padre settantacinquenne, disteso su un tavolo di obitorio. Piangendo, scorsi, su quel volto ora così vicino, ma ormai anche così lontano, una lacrima ancora tiepida, scorrere dall’occhio lungo la tempia verso l’orecchio – segno di una vita abbandonata da poco. Solo il volto, che mai avevo amato come in quel momento, mi si rivelava in tutta la sua nudità, e l’oscenità della morte prendeva corpo in quel corpo, che ora suscitava in me la pietà e la rabbia di un eros mancato. Nello stesso tempo, la mente riandava rapida al ricordo di quando lui si sbarbava ed io, bambina, mi divertivo a veder apparire sul suo volto strane smorfie, rigonfiamenti e alteranti storcimenti della faccia, affinché il rasoio potesse scivolare sulla pelle senza incidenti. Allora coglievo le rughe che già abitavano quel volto, perché ho avuto un padre sempre vecchio, del quale ho conosciuto la giovinezza e il volto liscio, glabro e pieno solo attraverso sparute fotografie di un passato in cui io non esistevo ancora. Adesso lì, sotto la mia mano, che appena osava sfiorarlo con una carezza filiale e con tutto l’amore di figlia che solo ora mi era liberamente consentito, sentivo la sua vecchiezza e il freddo della morte sopraggiunto inesorabilmente. Con quella carezza ho sperato, per un istante, di annullare il tempo e ridargli la vita. Ma l’amore,
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per quanto forte sia, cede il passo alla forza della morte, in un rimando infinito26 e in un infinito dolore. Così al mattino, lavando il viso di mia madre invecchiata, sento sotto le dita una pelle che alterna in modo sempre più smorzato parti molli e parti indurite, che rivelano un progressivo suo cheratinizzarsi. Il volto e le mani sono i luoghi che la sclerosi della pelle privilegia, perché è in essi che la vecchiaia si insedia subito comodamente e lavora con maggiore accanimento. Che strano destino quello del nostro volto: il luogo dove immediatamente si impone la nostra identità e si rapprende la nostra esistenza, diventa, con la vecchiaia, la parte di noi dalla quale più velocemente si ritira la vitalità e la possibilità di un riconoscimento, restituendoci soltanto l’essenza più raccolta del tempo, la sua massima distillazione.
8. Comicità Certo, occorre distinguere tra “ritornare all’infanzia” e “ricadere nell’infanzia”, tra “ridiventare bambino” e “fare il bambino”: il primo di questi due stili è quello del ringiovanimento, l’altro quello del rimbambimento27.
Il dramma inconsolabile dell’invecchiamento, oltre ad essere preludio angoscioso alla tragedia della morte, non ha mai mancato di essere, anche, fonte di umorismo ed ironia. La vita quotidiana registra, insieme ad un prevalente sentimento d’angoscia, un senso di comicità che il volto vecchio può ispirare: bocca sdentata, mento sporgente, labbra che si richiudono su se stesse, orecchie ingrandite, naso ingigantito e bitorzoluto, capelli radi e spettinati, pelle completamente rigata. L’esorcismo esercitato contro l’invecchiamento non solo consiste nei molteplici e svariati tentativi di arrestarlo o piegarne il corso per mezzo di tecniche ed interventi che lo rallentino il più possibile, ma assumono il volto che invecchia ad oggetto di ilarità, tanto il tempo lo ha reso irriconoscibile e grottescamente ridicolo. Letteratura e cinematografia hanno dato fama a volti di personaggi vecchi che, mostrando senza inibizioni e pregiudizi la loro vecchiezza, hanno divertito e divertono ancora, sia il pubblico infantile che quello adulto: i vecchi lenoni delle commedie plautine, i Sette Nani, Mastro Geppetto e Mastro Ciliegia di Pinocchio, Nonna Abelarda, l’Avaro di Molière, sono volti più o meno vecchi, la cui vecchiaia non spaventa, ma i cui sorrisi – sdentati 26 27
Cfr. V. Jankélévitch, Il paradosso della morale, tr. it. di R. Guarini, Hopefulmoster, Firenze 1987, pp. 155 e sgg. V. Jankélévitch, Austérité et decadence, cit., p. 410.
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Etica ed estetica del volto
e sornioni, le azioni – sorprendenti per la loro età avanzata, l’aspetto – trasandato e malsicuro, la semifollia unita alla furbizia, il rimbambimento associato all’inflessibile memoria del passato, costituiscono le componenti inusuali, ma anche di vita quotidiana, che caratterizzano vecchi ciarlieri, avari, saggi, affettuosi nonnini entrati nel vasto mondo articolato della letteratura e della poesia. Un volto vecchio che, ridendo, strizza gli occhi, aggiungendo altre rughe a quelle già esistenti, o che mostra una bocca sdentata, che arriccia il naso e, parlando, fa fischiare le parole o deforma il linguaggio, è, di certo, uno spettacolo divertente, coinvolgente, di fronte al quale non si può rimanere indifferenti e non lasciarsi prendere dal sorriso. Vecchietti con la cornetta per sentire meglio, che camminano con il bastone a piccoli passi, a braccetto con signore o badanti straniere, che aguzzano la vista o fanno la “mano morta”, vecchi ferocemente saggi e vecchi astuti come volpi, vecchi sessualmente attivi e voyeur, vecchie imbellettate e vecchiette tuttofare, vecchie bigotte e moraliste, vecchie battone e vecchie signore distinte, sono tutte figure sulle quali l’arte, la letteratura, la poesia, il teatro hanno costruito personaggi indimenticabili, per i quali la vecchiaia è una spiaggia su cui si approda anche con sapiente autoironia e con divertita rassegnazione. Attori italiani come Totò, Peppino ed Eduardo de Filippo, Alberto Sordi, Paolo Villaggio, Gigi Proietti, Enrico Montesano e Pippo Franco, comici d’elezione, hanno dato, al loro volto da vecchi, la straordinaria continuità del riso, del saper sorridere delle cose della vita, non solo quando si ha la forza e l’energia della giovane vena comica, ma anche quando quella vena resta costante fino all’età avanzata, e il volto, soprattutto, accentuando i difetti e le smorfie su cui si rideva in gioventù, li mostra, poi, trasfigurati in un altro volto dalla nuova e diversa comicità. La comicità espressa da un volto vecchio è, forse, paradossalmente, più “naturale” di quella di un volto giovane: quest’ultimo ha bisogno di trucchi e mascheramenti, di smorfie e battute forti per far ridere, e fa ridere con la sua mimica facciale, per l’enorme plasticità e capacità di adattarsi a infiniti volti imitati. Il volto vecchio, invece, sembra essere comico in modo spontaneo e immediato, giacché, se assumiamo l’idea del comico come ce la prospetta Henri Bergson ne Il riso, ossia come prodotto della fissità dei lineamenti facciali e della rigidità dei movimenti corporei in determinate situazioni, allora il volto del vecchio è proprio quello che si è bloccato nella fissità della vecchiezza, non attende altre trasformazioni, si è irrigidito nella smorfia rugosa che ormai conosciamo e con essa può anche creare situazioni comiche: Aggraviamo dunque il brutto, spingiamolo fino alla difformità, e vediamo come si passa dal difforme al ridicolo. […] Un viso è tanto più comico quanto
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D. Discipio - Come foglie ingiallite
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meglio ci suggerisce l’idea di qualche azione semplice, meccanica, in cui la personalità sia sempre assorbita. […] L’arte del caricaturista […] ha qualcosa di diabolico, richiama in vita il demone che l’angelo ha atterrato28.
È il destino del clown, che, dietro il trucco, fissa il suo volto su un larghissimo riso, che va da una guancia all’altra, mostrando allegria e comicità anche quando il volto reale che si muove sotto non ride. La vecchiaia, stendendo sui nostri volti il suo trucco, il cerone dei tanti spettacoli della nostra vita, ci fa apparire ridenti e comici anche quando una lacrima sta già scendendo lungo la guancia, segno inesorabile di una vita che si sta congedando dal mondo. Sta a noi, ora, scegliere se rendere il volto della nostra vecchiaia, presente o futura, la dolce e nostalgica maschera di un clown che fa ridere bambini e adulti o la faccia rigida e arcigna di una vita che attende solo di finire. Forse, il volto del Grande Vecchio sta proprio al centro di questa alternativa e, un po’ sorridendo, un po’ piangendo di nostalgia, lasciamo che si congedi dal mondo con una stretta al cuore. Giacché noi i nostri vecchi li amiamo comunque perché ne scolpiamo, nei nostri cuori, i loro volti, quelli che, nella generale appartenenza alla Natura, assomigliano sempre di più alle foglie ingiallite, che in autunno cadono al suolo con un dolce volo planare. È questo sonetto di Shakespeare che dà Voce ai Volti dei Vecchi, a queste “foglie ingiallite” che sono l’immagine più toccante dell’autunno della vita: In me tu ora puoi vedere quel tempo quando foglie gialle, o nessuna o poche, pendono su quei rami che ora tremano contro il freddo, cori spogli e in rovina, dove prima cantarono dolci uccelli. In me tu vedi il crepuscolo di un giorno che al tramonto svanisce a occidente e sarà presto avvolto dall’oscura notte, seconda morte che tutti sigilla nel riposo. In me tu vedi i bagliori di quel fuoco che aleggia sulle ceneri della sua gioventù, sul cui letto di morte dovrà soccombere, consunto da ciò che lo nutrì. Questo tu vedi, il che rende il tuo amore [ancora più forte, perché vuoi bene a uno che presto ti lascerà29.
28 29
H. Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, a cura di A. Cervesato e C. Gallo, pref. di B. Placido, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 16-18. W. Shakespeare, Sonetti, tr. it. di G. Cecchin, intr. di A.L. Zazo, con uno scritto di Oscar Wilde, Oscar Mondadori, Milano 2010, sonetto 73.
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Etica ed estetica del volto
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9. Bibliografia Barbara Alberti, Riprendetevi la faccia, Mondadori, Milano 2010. Simone de Beauvoir, Le deuxième sexe, Gallimard, Paris 1949; Il secondo sesso, tr. it. di R. Cantini e M. Andreose, pref. di R. Siebert, Il Saggiatore, Milano 2002. Henri Bergson, Le rire. Essai sur la signification du comique, Éditions Alcan, Paris 1924; Il riso. Saggio sul significato del comico, a cura di A. Cervesato e C. Gallo, pref. di B. Placido, Laterza, Roma-Bari 2007. Susan Brownmiller, Femininity, Linden Press/Simon & Schuster, New York, 1984; Femminilità, tr. it. di A.M. Brioni, Feltrinelli, Milano 1985. Mario Bussagli, Il corpo umano. Anatomia e significati simbolici, Mondadori Electa, Milano 2005. Loren Eiseley, The immense Journey (1946), Vintage Books Edition, New York 1959. Euripide, Alcesti; Eraclidi, tr. it. di N. Russello, intr. di G. Zanetto, Mondadori, Milano 1995. Elena Giannarelli, Lo specchio e il ritratto. Scansioni dell’età, topoi e modelli femminili fra paganesimo e cristianesimo, in “Storia delle donne”, 2006, n.2 pp. 159-187. James Hillman, The Force of Character. And the Lasting Life, Random House Publishing, 2012; La forza del carattere. La vita che dura, tr. it. di A. Bottini, Adelphi, Milano 2007. Vladimir Jankélévitch, Austérité et Décadénce, cap. I de L’austérité et la vie morale, in Id., Philosophie morale, Flammarion, Paris 1998. Id., La déception (1947), in Traité des vertus, Bordas, Paris 1949. Id., Le paradoxe de la morale, Seuil, Paris 1965; Il paradosso della morale, tr. it. di R. Guarini, Hopefulmoster, Firenze 1987. Id., La mort, Flammarion, Paris 1977; La morte, tr. it. di L. Boella, Einaudi, Torino 2011. Julia Kristeva, La testa senza il corpo. Il viso e l’invisibile nell’immaginario dell’Occidente, Donzelli, Roma 2009. N.K. Sandars (a cura di), L’epopea di Gilgameš, tr. it. di A. Passi, Adelphi, Milano 2009. Jean-Paul Sartre, Le mots, Gallimard, Paris 1964; Le parole, tr. it. di L. De Nardis, Il Saggiatore, Milano 2011. William Shakespeare, Sonnets, At London, by G. Held for T.T. and are to be folde by William Aspley, 1609; Sonetti, tr. it. di G. Cecchin; intr. di A.L. Zazo, con uno scritto di Oscar Wilde.
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FOLLIA
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ROBERTO MEZZINA
LA DIALETTICA DEL VOLTO NELLA DECOSTRUZIONE DELLA PSICHIATRIA Follia, istituzione, soggettività
1. Temi del percorso 1.1. Tutto in un film Nel film di Ingmar Bergman “Il volto”, l’illusionista e ipnotista Albert Vogler si finge muto per esaltare la forza del suo volto, che trasforma grazie alla barba, ai capelli posticci, al trucco pesante degli occhi. Il volto come arma di seduzione, ipnotismo e magia: eros e mistero del volto si confondono. Nella sua “Compagnia medico-ipnotica”, d’altronde, tutti si travestono. «I loro volti hanno qualcosa d’insondabile», riconoscono i maggiorenti del paese, che pure li accolgono e vogliono sfidare i loro trucchi e magie. Il professor Vergerus, scettico medico positivista, che intende fornire elementi scientifici per confutare i “prodigi” di Vogler, si rifiuta di «ammettere l’inespicabile», perché ciò è contrario alla scienza, che altrimenti dovrebbe ammettere l’esistenza di un dio. Egli afferma: «Voglio solo scoprire la verità» e ispeziona il volto di Vogler con la lampada, gli fa aprire la bocca e mostrare la lingua, per poi dire «la vostra infermità è inspiegabile [...] vorrei tanto farvi l’autopsia [...] sezionarvi gli occhi». La sua critica è alla fine un tentativo di smascheramento di quel volto e della sua finzione. La domanda «Voi chi siete in realtà?» echeggia nel film e ne è il sottotesto. E quando Vogler, alla fine della rappresentazione, si mostra senza trucchi, la donna che si è invaghita di lui dice: «chi siete, non vi conosco, non vi ho mai veduto…». E lo stesso Vergerus: «Ma ora siete convinto di essere Vogler […]. E non l’attore […] o una terza, forse una quarta persona? Preferisco il suo volto […] molto più del vostro. Mettetevi barba e sopracciglia. Mascheratevi perché vi riconosca». Tutto qui è sospeso nel dubbio: tra verità e finzione, superstizione e scienza. I fenomeni non lasciano filtrare l’essere: «Io vedo quello che vedo e conosco quello che conosco», dice la vecchia maga, che pur evocando il soprannaturale quasi si dichiara agnostica. La morte resta la sola veri-
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Etica ed estetica del volto
tà: «Arriva per tutti il giorno in cui uno deve spogliarsi da ogni messa in scena». A fianco di questa angoscia primaria, il tema della follia compare ovunque: la follia della vecchia maga, che è veggente o forse allucinata; la follia di Vogler che si finge potentissimo ed è inerme, non può esprimere la rabbia e il risentimento se non con l’atto perché la finzione gli inibisce la parola; il voler indurre la pazzia in Vergerus che finisce per fare l’autopsia ad una altro cadavere e non a Vogler, che invece ricompare con il suo vero volto. Anche l’ironia della sorte, il destino, che sembra avverso, alla fine premia beffardo gli illusionisti-attori-saltimbanchi senza onore che vengono addirittura invitati a corte. A partire dalla suggestione cinematica, e ripensando alle storie di volti incontrati sul terreno delle pratiche, proviamo qui a chiederci che cosa c’è di specifico e di irriducibile nel tema del volto per la psichiatria. Ha scritto Eugenio Borgna: Il tema del volto e dello sguardo non è […] estraneo ad una psichiatria che abbia come suo oggetto la vita interiore dell’altro-da-noi e che si sottragga alle rigide maglie della indifferenza emozionale e della distanza, delle incrostazioni gergali e delle generalizzazioni astratte del discorso clinico1.
Ci chiediamo allora: può il volto in sé essere un medium di conoscenza interumana? Che cosa esso rivela nelle condizioni di sofferenza? In che modo è un tramite di comunicazione e di relazione? E che cosa ci indica di noi, e del soggetto che abbiamo di fronte, se intendiamo il volto come metafora della soggettività che ci rappresenta? Soprattutto come esso si piega a testimoniare le forme estreme dell’esperienza umana, che si costituiscono come follia? Come esso segnala il percorso di ri-soggettivazione e di guarigione? Proponiamo qui un itinerario necessariamente accidentato, erratico e disorganico, che ci è parso l’unico modo per tentare di cogliere la dialettica che il volto manifesta tra l’oggettivazione del sapere psichiatrico e la soggettività, così come essa emerge dalle pratiche della salute mentale oggi. Il concetto di dialettica implica in sé una sintesi trasformativa. Di fatto le stesse pratiche, e la nostra esperienza come operatori che hanno compiuto una trasformazione istituzionale, cercando di cambiare la psichiatria, sono il filo rosso di questo percorso. Nel cercare punti di repere e d’aggancio per la comprensione di un processo che oggi ha certamente permesso modi diversi della soggettività per le persone sof-
1
E. Borgna, Il volto senza fine, Le Lettere, Firenze 2005, p. 121.
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R. Mezzina - La dialettica del volto nella decostruzione della psichiatria
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ferenti, ci aggireremo nei dintorni di Lévinas, senza pretendere neppure di sfiorarne l’abissalità, ma assumendone i testi come spunti di riflessione; e così faremo con alcune grandi opere di Sartre, Foucault, Lacan, attingendo di volta in volta a Basaglia, Borgna e ad altri. Partendo dalle psichiatrie, staremo in un equilibrio e in un’oscillazione dentro e fuori le filosofie, senza abbandonare la suggestione di Ingmar Bergman con cui si è aperto. Tentando di offrire solo alcune suggestioni, per così dire consapevoli della nostra totale incoscienza, non saremo in grado perciò di formulare tesi, né di tracciare conclusioni, ma solo di dare alcuni elementi, un’impressione della trasformazione che è accaduta e che sta accadendo ancora in salute mentale. Dietro il volto, vorremmo insomma intravvedere, di sbieco, un indice di possibili approfondimenti, e un percorso di ricerca su saperi e istituzioni, ma anche sulle esperienze di persone che attraversano il mondo reale dei servizi. 1.2. Irriducibilità e inafferrabilità del volto Indubbiamente il volto entra a far parte del tema più ampio del corpo, nella dialettica husserliana tra corpo vissuto (Leib) e corpo organico (Kõrper)2. «Corpo (Leib) e corporeità (Leiblichkeit), suona quasi come un gioco di parole, analogamente a corpo (Leib) e vita (Leben), e proprio per questo l’espressione acquista il carattere di una presenza magica, in quanto illustra l’assoluta indivisibilità del corpo dalla vita»3. Ma il volto non è solo corpo, non è solo sguardo. Vedremo inoltre che non è solo espressione, non è solo esteriorità, non è solo maschera; come non è solo interiorità, e non è immediatamente un’esposizione – dell’ “essere” o del “soggetto”. Comunque irrinunciabile, l’analisi del volto «è il presupposto di tutte le relazioni umane»4. Il senso di irriducibilità del volto pervade l’opera di Lévinas, che chiama volto «il modo in cui si presenta l’Altro», ma aggiungendo che esso non si riduce all’insieme di qualità che formano un’immagine: «il volto d’Altri
2 3 4
E. Husserl, Meditazioni cartesiane, tr. it. di F. Costa, Bompiani, Milano 1960, p. 44. H. G. Gadamer, Dove si nasconde la salute, tr. it. di M. L. Donati e M. E. Ponzo, Raffaello Cortina, MiIano 1994, p. 80. E. Lévinas, Etica e infinito, tr. it. di E. Baccarini, Città Nuova, Roma 1984, p. 104.
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Etica ed estetica del volto
distrugge ad ogni istante e oltrepassa l’immagine plastica che mi lascia»5. Egli si domanda se il volto sia in realtà dato alla vista e in che senso l’epifania del volto segni «un rapporto diverso da quello che caratterizza ogni altra nostra esperienza sensibile»6. Nel corso di un’intervista precisa con grande immediatezza: Quando lei vede un naso, degli occhi, una fronte, un mento, lei può descriverli, si rivolge verso gli altri come verso un oggetto. La maniera migliore di incontrare gli altri è di non notare neppure il colore degli occhi! Quando si osserva il colore degli occhi non si è in relazione sociale con altri. La relazione con il volto può certo essere dominata dalla percezione, ma ciò che è specificamente volto è ciò che non vi si riduce7.
In altre parole Lévinas nega la stessa possibilità che si possa parlare di “fenomenologia” del volto, poiché la fenomenologia descrive ciò che appare. «Il volto in cui altri si volta verso di me, non si riassorbe nella rappresentazione del volto»8. Altrove chiarisce: «Tu, sei tu. In questo senso si può dire che il volto non è ‘visto’. Esso è ciò che non può divenire un contenuto afferrabile dal pensiero; è l’incontenibile, ti conduce al di là»9. Il volto è dunque, per sua costituzione, inafferrabile e incontenibile, e rimanda a un altrove, all’infinito. È caratterizzato da un rifiuto di essere contenuto, e quindi compreso, inglobato, visto, toccato10. La sua percezione sembra destinata all’effimero, perché rifratta dalla molteplicità del vissuto e dell’espressione, e dalla stessa temporalità, che non permettono di fissarlo in un’immagine unica. La visione stessa non è capace di appropriarsene e di coglierlo: Il volto, nel momento stesso in cui viene visto e percepito, si dissolve e si trasforma in ricordo. Non sei più tu, non è più il tuo volto, che sto guardando ma è già la memoria del tuo volto e del tuo io [... ]. Questi occhi, questi tuoi occhi che mi guardano, e che nello stesso momento si allontanano, non sono che memoria e nostalgia11.
5 6 7 8 9 10 11
Id., Totalità e infinito, cit., p. 48. Ivi, p. 191. Id., Etica e infinito, cit., p. 99. Id., Totalità e infinito, cit., p. 220. Id., Etica e infinito, cit., p. 101. «…poiché nella sensazione visiva o tattile, l’identità dell’io nasconde l’alterità dell’oggetto che appunto diventa contenuto» (Id., Totalità e infinito, cit., p. 199). E. Borgna, Il volto senza fine, cit., p. 124.
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1.3. Il volto della follia e il volto del nulla Si può dire che, a maggior ragione, il volto della follia non è visto e neppure percepibile. È forse l’espressione sfuggente dell’esperienza del folle che terrorizza, il suo definitivo non-guardare-per-non-esser-guardati? Nel suo vissuto, l’angoscia dell’essere preso, catturato, come l’immagine ferma su di una pellicola o una foto per i popoli primitivi, per i quali l’anima veniva così tratta in cattività, corrisponde all’entrata nel dominio dell’altro. La follia si manifesta come la fuga di un Sé che non è riuscito a trovare le condizioni basiche per stare nelle relazioni umane, senza temere di esserne inghiottito e di sparire. Essa è in fondo timore, angoscia di scomparire nel dominio del mondo delle cose. ‘Cosa’ teme di essere o diventare il soggetto, che prova, assaggia, tenta questa disperata fuga, certo come possibilità dell’umano e come unica strada per sopravvivere nel mondo dei suoi simili e dei significati che essi condividono (il Medesimo di Lévinas). Nel cercarla si perde, perde il sé, si limita a essere senza essere, perdendo la comunità dei simboli del mondo-della-vita. Si è parlato di “presenza vuota” della schizofrenia12, o di perdita della presenza in alcuni stati di trance13, sempre alludendo ad una soggettività che si affaccia, sporge nell’espressività di un corpo, di un gesto o di un volto. Tuttavia lo sguardo senza parola che la follia spesso pone davanti all’interlocutore, che vuole questo stesso interlocutore, insieme al soggetto sofferente, interdetto, muto e in un certo senso denudato, allude ad un indicibile, che è quello che apre al vuoto, al perdersi del Sé dentro il non-Sé, nel mondo oggettuale o nell’Altro che ne fa parte, altra Cosa. Ancora Borgna dice: In alcune esperienze psicopatologiche, che possono del resto sfiorare la nostra esistenza (al di là della presenza, o dell’assenza, della malattia), lo sguardo non è più capace di relazione, di trascendenza in senso fenomenologico, e cioè di intersoggettività: non è più capace di essere un ponte che colmi la distanza fra l’io e il tu; ma questo solo quando l’alta tensione dell’angoscia abbia a tracciare in noi i suoi confini invalicabili: trasformandoci almeno temporaneamente in monadi senza finestre14.
Lo sguardo, l’occhio perso, opacizzato dal vissuto sofferente, sfugge dunque il contatto, anche se la sofferenza trasmette anche una disperata 12 13 14
Cfr. U. Galimberti, Psichiatria e Fenomenologia, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 286-301. Ci riferiamo qui all’opera di Ernesto De Martino. E. Borgna, Il volto senza fine, cit., pp. 123-4.
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Etica ed estetica del volto
esigenza di ritrovare almeno la speranza o l’illusione della comunicazione. Sguardi imploranti, feriti, ammutoliti, sfiduciati del rapporto interumano – prima ancora che interpersonale – ci incrociano nei primi approcci alla conoscenza reciproca. Ci sono sguardi che si illuminano, che si accompagnano ad una assoluta trasparenza, e ad una vertiginosa trascendenza, anche quando i volti (dai quali nascono e si irradiano) siano divorati dall’angoscia e dallo smarrimento, o dalla disperazione e dalla desolazione. Sono sguardi, questi, che sfuggono al silenzio e alla torturazione dei volti; testimoniando di una speranza che sopravvive ad ogni angoscia. Ci sono sguardi che implorano aiuto, e che fiammeggiano, in volti apparentemente aridi e ghiacciati, impassibili e nondimeno ardenti. Ci sono, insomma, sguardi che si armonizzano con la Stimmung (con il timbro emozionale) dei volti dai quali riemergono; e ci sono sguardi in dissonanza profonda con i volti15.
E se nel volto non vediamo nulla, o percepiamo “il” nulla? Tornando al film, ha scritto Deleuze che Bergman «ha spinto il più lontano possibile il nichilismo del volto, cioè il suo rapporto nella paura con il vuoto o l’assenza, la paura del volto di fronte al proprio nulla»16. Vogler l’illusionista, sempre camuffato da una parrucca, scopre la verità solo nel volto di un attore morente che gli si mostra per com’è, che gli dice: «Volete cogliere il momento supremo? Cercherò di aprire il mio volto alla vostra curiosità». È stato affermato che questa interrogazione del volto cerca di cogliere ciò che «può rivelare quando si trova a cospetto del nulla. E al contempo in un’interrogazione del nulla, di ciò che del nulla si può rivelare, quando si legge negli occhi di un volto»17. Il volto traduce questo nulla e, trasmettendo l’angoscia, ne è testimone. Ma c’è solo il volto sfigurato dalla sofferenza e dalla follia, il volto al negativo, che testimonia di come essa sia al tempo stesso un archetipo umano non-umano? Spesso lo sguardo folle è invece uno sguardo che oltrepassa, che guarda al di là del volto dell’altro che gli si pone di fronte, della stessa comunicazione verbale; dentro e oltre quel volto. E in ciò allude ad una infinizione, nel senso di Lévinas.
15 16 17
Ivi, p. 122. G. Deleuze, L’immagine-movimento, tr. it. di J.-P. Manganaro, UBU Libri, Milano 1984, cit. in M. Adinolfi, Ingmar Bergman. Il volto e il nulla, Left Wing, Cultura, 1 agosto 2007: http://www.leftwing.it. M. Adinolfi, Ingmar Bergman. Il volto e il nulla, cit.
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2. Lo sguardo della psichiatria e il volto dell’istituzione 2.1. Scientismo e de-soggettivazione Se ci poniamo ora dal punto di vista dei saperi disciplinari della psichiatria, e affrontiamo la questione di come lo scientismo abbia trattato le forme di soggettività che si esprimono nel volto, facilmente dovremo riconoscere che esso ha di fatto incluso tra gli oggetti di studio il corpo umano, che risulta “degradato” dai metodi di oggettivazione impiegati18. La contraddizione è se possibile ancor più drammatica proprio sul tema del volto. Esso non può porsi se non in una relazione o come tramite di relazioni. Saranno di volta in volta relazioni dentro un codice, o dentro un insieme di regole istituzionali, di norme e di apparati volti al controllo. Similmente a come il concetto di malattia storicamente ha preso il posto e riassorbito in un sapere tecnico la follia (v. a questo proposito il dibattito tra Foucault e Derrida19), non ha senso parlare allora del volto della follia in sé stessa, ma di ciò che ne ha fatto la psichiatria. La tematica dell’occhio che guarda – dietro una porta chiusa, uno spioncino e una finestra – permea il volto stesso della follia. Quest’occhio non appartiene – a sua volta – ad un volto, se non incidentalmente, nel senso che esso interpreta invariabilmente l’occhio impersonale della psichiatria come disciplina. Lo sguardo della psichiatria è infatti teso a stabilire una relazione oggettivante, che tramite la ricerca dei segni dell’oggetto-malattia reifica, rende cosa il soggetto sofferente. Lo osserva e lo cataloga, lo riporta a classificazioni di sintomi, di sindromi e di malattie. In questo senso, il volto della follia, che – come s’è detto – in realtà “non è visto”, viene piuttosto esorcizzato e dominato dentro un codice “scientifico”, comunque osservazionale, che lo ricolloca nel campo della psicopatologia e ne fa oggetto di studio, attraverso il processo che viene sintetizzato come la codificazione della follia nelle classificazioni della malattia mentale20. Vedremo che questa tematica pone un’ampia serie di implicazioni che rappresentano altrettante contraddizioni, come ad esempio: 18 19
20
Cfr. U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, cit. Cfr. M. Foucault, «La follia o l’assenza d’opera», in Id., Storia della follia nell’età classica, tr. it. di F. Ferrucci, Rizzoli, Milano 1981 (I ed. 1963), pp. 626-636; J. Derrida, Cogito e storia della follia, in Id., La scrittura e la differenza, tr. it. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 1971 e 1990, pp. 39-79. Ivi.
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Etica ed estetica del volto
− tra l’oggettivazione come metodo e il processo di soggettivazione che invece si richiederebbe per il sofferente; − tra i segni e i sintomi da un lato e dall’altro l’alterità irriducibile che sta dietro il paradigma della clinica21; − tra essere e apparire, tra essenza e fenomeno nel campo della relazione istituzionale, terapeutica e di dominio dell’oggetto; − tra prossimità e distanza, nella relazione e nella non-relazione. Non crediamo pertanto che la psichiatria, in quanto tale determinatasi storicamente, sia in grado di dire qualcosa circa il presunto vero volto della follia, in quanto ricerca e infine trova solo quello della malattia mentale, che intende discernere, nelle sue forme che vengono al tempo stesso istituzionalizzate. Qui mostreremo come non si possa parlare della follia, e quindi del suo volto, se non nel rapporto con un osservante, che costituisce un sistema complesso con l’osservato, sottoposto ad una trasformazione all’interno di una dialettica. In questo senso ciò che è avvenuto nell’ultimo mezzo secolo rappresenta un cambio paradigmatico rispetto alla concezione della malattia come fatto biologico, deterministico, organico, riduzionista, verso una visione della complessità. Se da una lato la malattia è stata umanizzata, resa comprensibile, e decostruiti i pre-giudizi di inguaribilità, incapacità, pericolosità, improduttività, dall’altro si è riscoperta la centralità della persona e reclamata una posizione del soggetto – e della soggettività – come agente potente di direzionamento di decorso ed esito, verso la guarigione e l’inclusione sociale. Il che comprende l’emancipazione dalla malattia e dallo svantaggio che essa comporta, e il recupero di un livello di potere del soggetto stesso nelle relazioni sociali22. 2.2. Il volto dell’istituzione, un percorso storico L’occhio severo dello psichiatra manifestava sin dai suoi albori, nel XVIII secolo, un potere from his office, per la sua funzione d’autorità, per 21 22
Cfr. M. Foucault, Nascita della clinica. Il ruolo della medicina nella costituzione delle scienze umane, tr. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 1969, in particolare alle pp. 106-125. «Il cambio di paradigma che sembra pur confusamente delinearsi è il passaggio dal modello medico biologico di trattamento della malattia al modello di risposta ai bisogni concreti, e quindi anche psicologici ed altamente soggettivi (o, secondo i sociologi, post-materialistici), dell’uomo sofferente, aiutandone il percorso personale, spesso lungo e difficile, di ripresa e talvolta di necessaria emancipazione» (R. Mezzina, Il cambio paradigmatico tra sistemi globali e soggetti, in Quarant’anni di Fogli d’informazione, psichiatria, psicoterapia, istituzioni, a cura di P. Tranchina e M. P. Teodori, Ed. Periferie al Centro ONLUS, Firenze 2012, p. 232).
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un ruolo dunque istituzionale che ricopre, secondo William Tuke23. Con Pinel, il padre della psichiatria moderna, lo sguardo del clinico intende trovare l’invariante nell’indicibile, non ricerca il quid della soggettività, ma l’oggettività del segno o del sintomo24. Cerca la malattia, non il malato. Sin qui ciò che si intravede all’orizzonte è solo la possibilità della diagnosi che giustifica “naturalmente” l’esclusione del malato dal contratto sociale. La malattia necessita dell’elemento del visibile per essere enunciabile, ovvero, secondo le parole di Foucault, «essere visto ed essere parlato»25. I sintomi esprimeranno allora, senza residui, il senso. Il sintomo diviene dunque segno sotto lo sguardo medico, che lo classifica attraverso similitudini e differenze. Nasce il metodo clinico, che aspira alla descrivibilità totale della natura del fatto patologico. Così anche quando per Esquirol, allievo prediletto di Pinel, la follia si manifesta come eccesso di passione, il metodo sarà il gioco della fisionomia, ovvero il dialogo del medico col paziente attraverso l’espressione del viso, i mutamenti dello sguardo e degli stati d’animo che per esso si manifestano. Ciò che qui in realtà interessa sono gli effetti organici della passione che, insieme ai tratti fisiognomici, costituiscono “il corpo” della follia. La fisiognomica con Esquirol entra nel bagaglio tecnico dello psichiatra, studiando «l’influenza delle Passioni sull’economia vivente»26. Si sviluppa al tempo stesso l’iconografia manicomiale, attraverso la collaborazioni di clinici e pittori come tra Georget e Géricault, il quale raffigura la serie dei folli e le loro “monomanie”, fino al capolavoro della Sonnambula di Courbet, che almeno elude il determinismo organicista nel suo essere quasi senza materia, distruggendo i precedenti “personaggi”27. Gradualmente, la fisiognomica diventa Patognomonica, incorpora la Frenologia di Gall, e sfocia nell’Antropologia criminale. Si indaga quindi sempre più la base organica e materiale dello psichismo, nell’impeto dell’affermazione delle scienze positive. Qui si colloca Lombroso, poligrafo e ricercatore, che cercherà attraverso la fisiognomica la base materiale dell’irresponsabilità del folle criminale. A breve ci sarà la svolta della psichiatria dinamica, con Janet e soprattutto con Charcot, il
23 24 25 26 27
Cit. in K. Dörner, Il borghese e il folle. Storia sociale della psichiatria, tr. it. di F. Giacanelli, Laterza, Bari 1980, p. 110. Cfr. M. Foucault, Nascita della clinica, cit. Ivi, p. 114. F. Caroli, Storia della fisiogomica. Arte e psicologia da Leonardo a Freud, Mondadori Electa, Milano 1995, p. 185. Ivi, pp. 194 e sgg.
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Etica ed estetica del volto
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quale, prima di Freud, passando attraverso l’ipnotismo, anticiperà la rottura con il positivismo. 2.3. Psicopatologia fenomenologica e volto Nella sistematizzazione che più tardi ne farà Jaspers, la fisiognomica diventa la scienza delle forme stabili del viso e del corpo, che possono essere comprese come espressione di un elemento psichico che vi si manifesta; distinta da essa la mimica, scienza dei movimenti attuali del viso e del corpo, che sono espressione dei processi psichici che insorgono e scompaiono rapidamente28. La mimica si riferisce ad una corrispondenza tra un’attività interiore ed un adeguato movimento simbolico. Nella fisiognomica è possibile trovare ancora una mimica, seppur irrigidita, ma se l’aspetto si cristallizza in un habitus, questo non appartiene all’espressione in quanto viene interpretato come processo somatico29. Tuttavia tratti singoli sono considerati come sintomi del carattere e da essi, in quanto segni, si traggono deduzioni sulla natura dell’individuo. In campo francamente psicopatologico, seguendo Jaspers, la mimica si inscrive in una durevole fisiognomica: avremo i tratti allegri del maniaco, l’allegria innaturale dell’ebefrenico, il malumore doloroso del ciclotimico, l’espressione rassegnata del melanconico; i tratti stravolti dell’angoscia, l’espressione sognante dell’offuscamento di coscienza, l’espressione vuota degli stati crepuscolari. E ancora l’inespressività del demente, il tranquillo disprezzo e l’espressione di superiorità del paranoico (col suo sguardo penetrante diffidente e irritato), lo sguardo irrequieto del nevrastenico30; fino al coinvolgimento del corpo nelle stereotipie. Quel che possiamo notare è che lo sforzo delle psicopatologie, descrittive o comprensivo-fenomenologiche à-la-Jaspers, poco aiuta la comprensione del tema del volto della follia, o della malattia, o della sofferenza tout court. Non si riesce ad eludere la ricerca di invarianti che frustreranno sempre la ricerca della soggettività irriducibile che nel volto, dietro il volto, al di là del volto si esprime, come infinito. Sempre lo sguardo rinvierà alla “presenza vuota”; o sarà sbarrato, aperto sull’antimondo dell’allucinazione; avremo lo sguardo rivolto/dentro del depresso, piuttosto che l’omega disegnata dalla fronte corrugata.
28 29 30
K. Jaspers, Psicopatologia generale, tr. it. di R. Priori, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 1964, p. 283. Ivi, p. 284. Ivi, pp. 296-297.
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Il déjà vu, i falsi riconoscimenti, l’illusione del sosia, le paraeidolie, le illusioni e le stesse allucinazioni visive in forme umane sono fenomeni percettivi correlati al tema del volto. Come queste, sono legate anche al tema della distanza e della vicinanza estreme, in cui cade o collassa l’Io. Uno dei disturbi della percezione più frequenti riguarda i volti altrui che paiono cambiare in forme mostruose, disumane, distorte, segnate da ombre profonde; o viceversa in forme assurdamente e inspiegabilmente familiari, prossime. I volti che compaiono nell’allucinazione visiva sono inafferrabili: «volti che si vedono ma non si possono guardare»31, come ha affermato Sartre. L’evento allucinatorio si presenta sempre in assenza del soggetto, come una memoria. Esso richiede un brusco annullamento della realtà percepita, che esclude il mondo reale. Infine, dopo questo crollo provvisorio della percezione, il mondo stesso riappare32. 2.4. La reificazione Nei suoi primi scritti di matrice fenomenologica, Basaglia ha ripreso le analisi di Sartre, e soprattutto di Merleau-Ponty33, all’interno dell’istituzione e del suo campo di non-relazione. Lo sguardo dell’istituzione reifica, rende cosa il malato, puro Körper, corpo-per-altri. È nel silenzio di questi sguardi che egli si sente posseduto, perduto nel suo corpo, alienato, ristretto nelle sue strutture temporali, impedito di ogni coscienza intenzionale. Egli non ha più in sé alcun intervallo: non c’è distanza fra lui e lo sguardo d’altri, egli è oggetto per altri tanto da arrivare ad essere una composizione a più piani di sé, posseduto dall’altro «in tutti i piani possibili del suo volto e in tutte le possibili immagini che di volta in volta possono derivare dai vari atteggiamenti che si possono cogliere»34.
31 32 33 34
J.-P. Sartre, L’immaginario. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione, tr. it. di R. Kirchmayr, Einaudi, Torino 2007, p. 236. Ivi, p. 226. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, tr. it. di A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano 1980. F. Basaglia, Corpo, sguardo e silenzio (L’enigma della soggettività in psichiatria), 1965, in Id., Scritti I. 1953-1968. Dalla psichiatria fenomenologica all’esperienza di Gorizia, a cura di F. Ongaro Basaglia, Einaudi, Torino 1981, p. 305. Il brano riportato da Basaglia è di Merleau-Ponty, tratto dall’opera citata (v. nota 33).
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Etica ed estetica del volto
La psichiatria dunque addestra a vedere, o a credere di vedere, e a riconoscere come segni e sintomi, quanto la nosografia ha enumerato e classificato dentro le sindromi. La semeiotica, la psicopatologia, tentano di impadronirsi del volto come sistema di segni: mimica, sguardo, espressione. E ancora la fonazione, l’articolazione della parola, il linguaggio e il contenuto formale del pensiero diventano oggetti da osservare e valutare, alla ricerca di corrispondenze e conferme astratte con le classificazioni delle malattie e delle sindromi, dalla cui inquieta evoluzione la storia della disciplina è costantemente marcata. Nella malattia istituzionale descritta da Goffman35 e prima ancora da Russel Burton36, e ripresa da Basaglia37, essa si riproduce in un suo doppio, che qui è il comportamento e il corpo dell’istituzione. L’espressione del volto nell’istituzione diventa spenta, rassegnata nei comportamenti descritti in modo particolare dai due autori anglosassoni. La dialettica dell’oggettivazione – l’alter che diventa alienus – viene in definitiva paradossalmente riproposta dal malato stesso. L’occhio e la cosa: l’uomo diviene mera res extensa, corpo-per altri. Per il potere di reificazione, l’‘esso’ annichilito non esiste e si oggettiva, si allontana mentre lo scruti. Se il sembiante può essere oggetto di violenza fisica e psichica, di mortificazione e di umiliazione, di sfregio e di lesione, il vero volto si ritira. Semplicemente, «per il malato diventa troppo difficile agire sotto lo sguardo degli altri»38. Nel volto c’è una povertà essenziale, che si cerca di mascherare assumendo delle pose, dandosi un contegno39. Non è difficile qui riconoscere che il concetto di totalità, proposto da Lévinas a partire da Cartesio, ben si attaglia al campo istituzionale della psichiatria: «Il volto dell’essere […] si fissa nel concetto di totalità che domina la filosofia occidentale. In essa gli individui sono ridotti ad essere i portatori di forze che li comandano a loro insaputa. Gli individui traggono da questa totalità il loro senso (invisibile al di fuori di questa totalità stessa)»40.
35 36 37 38 39 40
E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali, tr. it. di F. Basaglia, Einuadi, Torino 1968. Cfr. R. Barton, The Institutional Neurosys (1959), cit. da Goffman e Basaglia. F. Basaglia e F. Basaglia Ongaro, La malattia e il suo doppio, in Id., La maggioranza deviante, Einaudi, Torino 1971, pp. 131-139. M. Foucault, Malattia mentale e psicologia, tr. it. di F. Polidori, Raffaello Cortina, Milano 1997, p. 27. E. Lévinas, Etica e infinito, cit., p. 100. Id., Totalità e infinito, cit., p. 20.
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3. Contraddizioni: il tema del doppio e il volto esposto 3.1. Il volto di chi osserva e di chi viene osservato Da queste premesse si dipartono le pratiche istituzionali, ove «ogni teoria tace o svanisce sempre al capezzale del malato»41. Le formazioni discorsive diventano ambiti non discorsivi: istituzioni, pratiche42. Da un lato il volto scrutato, attentamente osservato da uno sguardo «muto e senza gesto», che si guarda dall’intervenire43, contribuisce alla ricerca di un’oggettività della malattia. Ma altrove avverte Foucault: La liquidazione della crisi medica – che la medicina poteva permettersi per via dell’avvento dell’anatomia patologica – non è stata invece possibile nell’ambito della psichiatria. Il problema di quel tipo di psichiatria, di conseguenza, sarà quello di costruire, instaurare una prova – o una serie di prove – tale da consentirle di rispondere all’esigenza di una diagnosi assoluta, vale a dire una prova capace di conferire realtà o irrealtà, in grado di iscrivere nel campo della realtà o invece di squalificare come irreale ciò che si suppone sia la follia44.
Ciò che egli definisce come “l’organizzazione della confessione centrale”45 è allora uno smascheramento: l’interrogante, o l’inquisitore – psichiatra – incalza il paziente fino alla “confessione” della malattia, del delirio, dell’allucinazione, in cui cade in modo drammatico la maschera di normalità sostenuta a fatica. L’interrogatorio psichiatrico ha la finalità di ottenere che «il soggetto interrogato non solo riconosca l’esistenza di questo nucleo delirante, ma lo attualizzi di fatto all’interno dell’interrogatorio»46. Ovvero cerca la realizzazione della crisi stessa, provocando e suscitando l’allucinazione o la crisi isterica. È dunque il volto del malato in quanto tale a rivelarsi? Una forma di esplicita violenza sottende questo “piegare la malattia”, che diventa invece “piegare il malato”. Fin qui dunque il volto del soggetto osservato e percepito come oggetto – osservato in quanto deve essere appunto oggettivato, 41 42 43 44 45 46
Corvisart, cit. in M. Foucault, Nascita della clinica, cit, p. 126. Cfr. G. Deleuze, Foucault, tr. it. di P. A. Rovatti e F. Sossi, Feltrinelli, Milano 1987, p. 39. M. Foucault, Nascita della clinica, cit, p. 126. Id., Il potere psichiatrico. Corso al Collége de France 1973-1974, tr. it. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2004, p. 231. Ivi, p. 238. Ibidem.
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Etica ed estetica del volto
catalogato, decifrato secondo i segni della malattia. C’è massima distanza dunque, dal punto di vista dell’autenticità della relazione, e massima strumentalità della medesima, in quanto i ruoli e i poteri istituzionali vi si giocano, venendone celebrati e riconfermati. Lo psichiatra esprime esplicitamente un potere ed un’intenzione di dominazione in forza di quella Ragione che ritiene di incarnare e di interpretare. L’occhio della ragione e del nomos, del verbo stanno quindi dall’altra parte del segmento della relazione – detta comunque e senza eccezioni terapeutica47. Come in ogni relazione il volto si definisce nell’alterità, nello specchio48. In questo caso il volto della follia – o meglio della malattia – si definisce in una dualità con la psichiatria, ma senza mai incontrarsi davvero con lo sguardo – ben differente – dello psichiatra come soggetto ed essere umano, ma solo dentro il gioco dei volti permesso dall’istituzione. D’altro canto lo psichiatra istituzionale non espone mai il suo volto se non lo rende intenzionalmente privo di espressione, afono, non risuonante emotivamente. Non indifferente ma inerte, tale da non condurre emozioni che turbino l’osservazione ed il rispecchiamento. Egli paradossalmente fa dell’inautenticità dell’espressione uno degli strumenti della relazione obiettivante, fondata sul codice e sul registro medico-clinico. Il volto del potere si profila, ma non come un Moloch: solo nel suo declinarsi nel piccolo e nel quotidiano delle violazioni di diritto, impersonale e imperscrutabile, autolegittimato e sordo a qualsiasi atteggiamento di autoriflessione o a qualsivoglia dialettica. Siamo dunque in un ambito totalitario, organizzato in saperi e pratiche, ciò che Foucault direbbe un dispositivo, che si ipostatizza nell’istituzione totale-manicomio come massima esemplificazione di esso. 3.2. Esporsi, resistere e sottrarsi In questo modo, attraverso il volto e in particolare lo sguardo, si definisce una relazione col corpo cui appartiene il volto, con le sue posture, e per il suo tramite con l’istituzione che se ne impossessa e lo gestisce. Ciò
47
48
Afferma Deleuze a proposito di Foucault che nella sua opera, a partire da Sorvegliare e punire, si afferma sempre più «il primato dei regimi di enunciato sui modi di vedere o di percepire», andando oltre Nascita della clinica, il cui sottotitolo è “Archeologia dello sguardo” (G. Deleuze, Foucault, cit., p. 57). Ci riferiamo qui all’interazionismo simbolico americano, e in particolare alla teoria del “looking glass self” o del “sé riflesso” di Charles Horton Cooley.
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rinvia all’idea della dialettica dei volti, che ritroviamo poi nei passaggi della terapia e della trasformazione. Il volto del paziente, diventato la maschera che gli è stata data dall’istituzione, appare, raramente, senza quella maschera, senza difesa, nudo. Quel volto secondo Lévinas è esposto, minacciato come se invitasse ad un atto di violenza. Al tempo stesso, il volto è ciò che ci vieta di uccidere, che «non è dominare ma annientare, rinunciare assolutamente alla comprensione»49, ossia operare una negazione totale. Certo la contenzione, l’isolamento, la reclusione, la disumanizzazione, la spersonalizzazione, agiscono non tanto e non solo sulla malattia che pretendono di dominare, ovvero sul dato biologico, ma sull’oggetto-malato, ovvero sul malato in quanto oggetto, ostaggio dell’istituzione. Eppure le tante forme di morti-ficazione, di violenza istituzionale, trovano sempre davanti a sé, se ci si pensa bene, quel nudo volto che si para davanti come elemento di resistenza. Il volto si sottrae al possesso, al potere, attraverso la sua stessa espressione che introduce nel mondo50. La presenza di un essere che oltrepassa la sfera del Medesimo «fissa il suo statuto ‘di infinito’»51. Il porsi di fronte, l’opposizione per eccellenza, è possibile solo come messa in causa morale. Questo movimento parte dall’Altro. L’idea dell’infinito, l’infinitamente di più contenuto nel meno, si produce concretamente sotto le specie di una relazione con il volto52.
Pur ingabbiato nella fissità del ruolo istituzionale del paziente, il volto guarda e ri-guarda, sfuggendo alla sua stessa rappresentazione nell’altro. L’infinito si presenta attraverso il volto, nella resistenza che paralizza il (mio) potere; «non mi fa violenza, non agisce negativamente; ha una struttura positiva: etica». Tale ‘resistenza etica’ «si erge dura ed assoluta dal fondo degli occhi senza difesa nella sua nudità e nella sua miseria»53. E allora, in ogni forma in cui riusciamo a sfuggire a questa violenza primitiva asilare, connaturata all’istituzione totale, la resistenza del volto sarà pre-condizione di una dialettica possibile, fondata sull’accoglienza della sua alterità assoluta. È appunto nella socialità, nell’opposizione del discorso, secondo Lévinas, che si determina l’idea di infinito54. 49 50 51 52 53 54
E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 203. Ivi, p. 203. Ivi, p. 201. Ibidem. Ivi, p. 205. Ivi, p. 202.
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Etica ed estetica del volto
Possiamo certamente affermare che questa dialettica del volto va ad agire soprattutto dentro le relazioni e le storie, in cui si situano volti; e che le storie delle persone sono anche le storie dei loro volti. Non sono solo storie biologiche, determinate dal tempo cronologico: i volti, in quanto mappe umane, segnalano invece vissuti attraverso tracce visibili, espressioni o pieghe che celano emozioni e sentimenti, o rinviano ad altro da sé. E ci interrogano sul nostro ruolo nei servizi e nelle istituzioni ancor oggi. L’accesso al volto resta sempre, immediatamente etico55. Prima storia di un volto Alba aveva trasceso la semplicità della sua famiglia studiando l’Egitto e l’India, si sentiva la reincarnazione di dee e regine, ma come segnate dal destino. Il suo sguardo incrociava quello dell’altro ma senza mai fissarlo, per finire sempre da un’altra parte. A diciotto anni ebbe un’esperienza psicotica a sfondo mistico, fu accolta al Centro. Ne riemerse, stette male ancora. La sua guarigione la fece maturare come donna e come artista, con profonde consapevolezze e sensibilità. Il suo sguardo ti inquadra ancora di sbieco, per trascenderti finendo in un altrove indefinito, e forse puntando all’infinito. Il suo volto “non è dato alla vista”.
3.3. Invito alla relazione Si aprono dunque crepe e linee di frattura tra i saperi, con i loro modi di guardare e di rappresentare, e l’oggetto-follia. In particolare il volto della follia - oggettivata in malattia - non è il volto del folle come individuo, ma la sua ipostasi storica, che si stratifica e si deposita su individui reali, su persone. Qui sembra profilarsi una contraddizione. Da un lato il volto è, come s’è detto con Lévinas, significazione senza contesto, non ha bisogno di ruoli e di personaggi, è senso soltanto per sé56. Dall’altro è proprio il volto che inizia e rende possibile ogni discorso, quindi esso è il presupposto di tutte le relazioni umane, e dunque anche a partire dal rapporto reificante, oggettivante finora descritto. Il volto che mi parla, mi invita ad una relazione in ogni caso incommensurabile con qualsiasi potere. Pur se il volto è stato incluso all’interno del paradigma dell’istituzione, si apre tuttavia la possibilità che quest’ultimo si spacchi, e si dia una trasformazione, attraverso esperienze umane che esso rappresenta, ed emozioni che trovano modalità di manifestazione. Ci si avvia ad assistere alla
55 56
E. Lévinas, Etica e infinito, cit., p. 101. Ibidem.
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scena della partecipazione, pur nella asimmetria che riconosce Lévinas, del terapeuta e del malato, che è comune metamorfosi. La trasformazione dei volti non ha fine: dei nostri volti e di quelli degli altri; ma per cogliere queste trasformazioni, questi cambiamenti, che sono sempre modificazioni espressive correlate con modificazioni interiori (nella vertiginosa sovrapposizione di interiorità e di esteriorità e di sconfinamenti dell’una nell’altra), è necessario essere dotati di intuizione e di percezione intuitiva delle realtà e delle metarealtà emozionali [...]. Nell’alternarsi e nel sovrapporsi di stati d’animo e di emozioni sulle linee zigzaganti del volto, e sull’indicibile inconsistenza materica degli sguardi, si manifestano e si nascondono i linguaggi dell’anima57.
La maschera, o le maschere, che tutti abbiamo calate sul volto, in che modo ci rappresentano e ci esauriscono? «Il volto è la persona, ma al tempo stesso non lo è. Se il volto coincidesse con la persona, se ognuno di noi aderisse perfettamente alla propria sempre identica espressione, la vita uscirebbe da lui»58. La follia spezza questo vincolo e rompe il gioco sociale del ruolo e delle maschere; ma, come s’è visto, a sua volta finisce con l’assumere una maschera rigida che copre e difende, e al tempo stesso rappresenta esteriormente, il soggetto sofferente come folle o come malato, come maschera dell’alienus. Almeno fino alla rottura epistemologica operata da Franco Basaglia. Seconda storia di un volto Marta, dimessa dal manicomio, frequentava ogni giorno il Centro di Salute Mentale. Benché il suo volto fosse segnato dagli anni e dalle sofferenze, i capelli crespi e lunghi non sempre in ordine, gli abiti a volte trasandati, “da matta”, il suo volto celava un mistero. Ogni giorno, dopo aver pranzato alla mensa del Centro, portava via una busta di pane avanzato. I vicini segnalarono. Il servizio bussò alla sua porta, che lei aprì dopo molte insistenze tenendola socchiusa. Il volto tradiva il senso di essere stata scoperta, la vergogna di svelare quanto la casa conteneva. Ci fece entrare, passando nel corridoio di pane dove le buste ricoprivano le pareti fino al soffitto. Ci mostrò due antiche foto incorniciate, la sua di giovane donna nella città occupata dagli alleati, e quella di un ufficiale americano. Avevano ballato e si erano amati, lui aveva promesso di sposarla. Con il ritorno della città all’Italia tutto finì, e Marta entrò in manicomio. Così, mentre raccontava la storia segreta della sua illusione e della sua delusione, il mutare del volto ripercorse la sua vita. Cantò ‘You belong to my heart’, e pianse.
57 58
E. Borgna, Il volto senza fine, cit, p. 126. M. Adinolfi, Ingmar Bergmann. Il volto e il nulla, cit.
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Etica ed estetica del volto
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4. Il volto dell’espressione e della relazione – o della significazione 4.1. Espressione e comprensione Viene suggerito, da chi inizia a porre in termini critici il discorso della psichiatria organicista come Jaspers, di entrare in una dimensione di comprensione dell’espressione, cercando di afferrare quali manifestazioni siano indicative di una “vera vita psichica”: «Noi vediamo ogni forma ed ogni movimento nel mondo come direttamente prodotti da uno stato d’animo, da un significato, come un’essenza che non è soltanto quantità matematicamente misurabile, né qualità appartenente ai sensi»59. Un fenomeno classico come l’arrossire sembra collocarsi al limite di questo svelamento dell’emozione che avviene, attraverso un segno, esteriorizzandola. Heidegger parla del «fraintendimento basato sull’espressione», a proposito di questo fenomeno tipico del volto, e si chiede: Ma che cosa è insito nell’arrossire stesso? Anch’esso è un com-portamento, in quanto colui che arrossisce è rapportato agli altri uomini, allo stesso modo in cui il fenomeno del corpo sta nell’essere rapportato all’altro uomo. L’espressione è pertanto accessibile attraverso le comunicazioni fatte con il linguaggio o in altro modo, e riferendo ogni singolo fatto a un tutto, potremmo dire ‘dentro un contesto’60.
Ma ci sfida ancora, e in modo radicale e affatto opposto, Emmanuel Lévinas: «Il volto è significazione e significazione senza contesto. Voglio dire che altri, nella rettitudine del suo volto, non è un personaggio in un contesto»61. Che ciò accada dentro o fuori la dialettica delle maschere della follia, della malattia, dell’istituzione, dei ruoli sociali stessi, è allora alla fine ininfluente? Concordiamo con Lévinas quando afferma che l’espressione non ci mette immediatamente a disposizione l’interiorità d’Altri, perché Altri non si dà, tanto che conserva la libertà di mentire. «La presentazione del volto – l’espressione – non svela un mondo interiore, preliminarmente chiuso, e che aggiunge così una nuova regione da comprendere o da prendere. Mi chiama, al contrario, al di sopra del dato che la parola ha già messo in comune tra di noi»62. 59 60 61 62
K. Jaspers, Psicopatologia generale, cit., p. 280. M. Heidegger, Seminari di Zollikon, tr. it. di A. Giugliano, Guida, Napoli 1991. E. Lévinas, Etica e infinito, cit., p. 100. Id., Totalità e infinito, cit., p. 217.
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4.2. Intersoggettività e volto Ma come eludere l’oggettivazione, per passare ad una soggettivazione? Forse attraverso il riconoscimento di un’intersoggettività, tra il malato e noi, tra chi cura e chi è curato, tra chi accoglie e chi è accolto, ma soprattutto tra chi entra nello scambio sociale, in ogni sua forma. Il volto non è certo immutabile, ma si muove e si allontana dalla reificazione della malattia come è stata concepita, congelata in un insieme di segni e di sintomi, dunque di “dati”, se nella dialettica della relazione istituzionale questa stessa muta la sua finalità, fino a rivolgersi primariamente alla persona umana nelle sue condizioni di esistenza, e non più all’astrattezza scientista dell’oggetto-malattia isolato dal vivente. C’è dunque il volto che non solo comunica stati d’animo ed emozioni decifrabili o meno, che “esprime e si esprime”, ma anche e soprattutto che “risuona” nell’altro, nella dualità della relazione, e qui ci riferiamo in particolare alla relazione terapeutica. Attraverso lo sguardo d’altri faccio l’esperienza concreta che c’è un al-di-là del mondo, una trascendenza63. Essa non è sondabile se non con un’immersione partecipante negli stati d’animo del sofferente, che sappia «ascoltare (decifrare) le apparenze e le sembianze, le immagini sperdute e le tracce effimere delle speranze ferite»64. Aggiungeremmo che più che un guardare occorre un guardar-si, che implica e pretende una (auto)osservazione, una (auto)comprensione, una consapevolezza di sé e del proprio ruolo e potere, prima e nel mentre incontro altri. È il sentirsi osservati e percepiti dall’altro – come altro e simile al tempo stesso – la pre-condizione della relazione autentica. In un volto che ti interroga e ti chiede, cerchiamo la somiglianza con qualcuno a noi noto, e con noi stessi. L’attribuzione del sentimento di familiarità è un movimento a volte preliminare o pre-conscio, che emerge alla coscienza solo quando sembra avvicinarsi ad un esito, all’evento di un incontro. In Lévinas l’incontro faccia a faccia con un altro essere umano è sempre un fenomeno privilegiato, che contiene la contraddizione tra prossimità e distanza. Il volto esprime e si esprime; ma la sua fenomenologia non si esaurisce nel suo essere veicolo di comunicazione extraverbale, nella dimensione relazionale, né è solo un segno.
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Cfr. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, tr. it. di G. Del Bo, Il Saggiatore, Milano 2008. E. Borgna, Il volto senza fine, cit., pp. 121-122.
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Etica ed estetica del volto
Il volto in apparenza “appartiene a”, manifesta il soggetto. Ma questo soggetto non si può cogliere e catturare nella datità del volto. Il volto sempre si sottrae al mio possesso, al mio potere. 4.3. Guardare ed essere guardati La visione in sé perciò nulla coglie della relazione autentica con altri, e l’incontro con gli esseri, mediato dal vedere, esercita su di loro un potere, li domina, secondo Lévinas.65 Guardando ad altri riferimenti filosofici, se il riconoscimento dell’altro in Hegel realizza l’esistenza, per Heidegger e Sartre l’esistenza stessa è esposizione all’altro, progetto aperto sull’altro66. Ci pare allora necessario riferirci in particolare alla lezione sartriana sull’intersoggettività. Mentre Lévinas nell’isolare lo sguardo si domanda se si possa «parlare di uno sguardo rivolto al volto, dato che lo sguardo è conoscenza, percezione»67, per Sartre ogni sguardo è rivelatore della nostra esistenza per tutti gli esseri viventi. Ovunque io sia, mi si guarda. «Lo sguardo che gli occhi, di qualunque natura essi siano, rivelano mi rimanda puramente a me stesso»68. Dunque io mi vedo perché mi si vede; altrimenti perfino il mio essere mi sfugge, e io non sono niente. Il me è coscienza irriflessa, coscienza del mondo, che mi fa esistere in quanto oggetto per altri. Il mio ego mi sfugge per principio e non mi apparterrà mai. Reciprocamente, Altri è oggetto per me, che vede ciò che io vedo, e allora il mio legame con altri-soggetto sta nella reciproca possibilità di essere visti. L’ “essere-visto-da-altri” è la verità del “vedere-altri”, mentre «percepire è guardare», così come «cogliere uno sguardo è accorgersi di essere guardati»69. Attraverso la nostra vergogna, che si manifesta sempre davanti a qualcuno, noi conferiamo ad altri una presenza indubbia. Non ci sono mai degli occhi che ci guardano: è l’altro come soggetto. Il suo sguardo indagatore è l’arma puntata su di me, ed io sono nell’angolo, per cui posso essere smascherato, identificato. La situazione mi sfugge, io non sono più padrone di
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E. Lévinas, Totalità e infinito, cit. p. 199. M. Recalcati, Jacques Lacan. vol. I Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffaello Cortina, Milano 2012, p. 21. E. Lévinas, Etica e infinito, cit., p. 99. Cfr. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, cit., p. 311. Ivi, p. 310.
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R. Mezzina - La dialettica del volto nella decostruzione della psichiatria
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essa. Come diranno più tardi i Basaglia, riprendendo Freud: «L’io non è più padrone in casa sua»70. La mia fatticità non esclude però la mia libertà, ne è anzi la condizione di possibilità. Il mio essere è un limite alla mia libertà, si proietta come un’ombra su una materia in movimento, e in definitiva si determina in e per mezzo della libertà d’altri. Dal canto suo Lacan sostiene che il soggetto accade nel mondo come desiderio dell’Altro, per il desiderio dell’Altro71. L’Altro, che è “già lì”, costituisce il soggetto, il cui processo di soggettivazione sarà dunque la ripresa da questo assoggettamento primordiale all’Altro. L’uomo non può mai identificarsi completamente col suo corpo, e dunque si pone sempre uno scarto tra l’essere e l’apparire. L’identificazione da parte del bambino nel proprio corpo visto nello specchio, si è potuta determinare solo attraverso l’immagine dell’altro, che mostra la propria immagine – e quindi attraverso la mediazione dello sguardo dell’altro. C’è una dipendenza costitutiva dell’Io dall’esteriorità dell’immagine; ma l’immagine, che istituisce l’Io, pure lo separa da sé72. Il non riconoscere il proprio stesso volto nell’esperienza di follia, ad esempio vedere cambiata la propria immagine nello specchio, è ciò che viene definito delirio di trasformazione corporea. L’identità che si frantuma e che non si ritrova in un Sé unico si mostra attraverso rappresentazioni corporee alienate. Nella follia il volto stesso, quello proprio o del Medesimo, diventa un sistema di segni complesso da decifrare, pieno di allusioni e ammiccamenti, di riferimenti ad un mondo di significati che restano nell’alveo dell’idios. 4.4. Avvicinamento ed allontanamento, oscillazione Tornando a quanto ha scritto Franco Basaglia, ci interessa qui sottolineare in che modo la problematica del corpo e dell’istituzione si intreccino con la lezione del primo Sartre:
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F. Ongaro Basaglia, Follia/Delirio (in collaborazione con Franco Basaglia), in Enciclopedia Einuadi, vol. VI, Einaudi, Torino 1979, pp. 267-287; ripubbl. in F. Ongaro Basaglia, Salute/malattia. Le parole della medicina, a cura di M. G. Giannichedda, 180 - Archivio Critico della Salute Mentale, Alphabeta Verlag, Merano 2012, p. 139. M. Recalcati, Jacques Lacan, cit., p. 343. Per Lacan il soggetto è forcluso dal campo dell’Altro, accade nel mondo come oggetto del desiderio dell’Altro. Dunque la soggettività lacaniana è determinata dall’altro (“soggetto come assoggetto” ai significati dell’altro) e insieme eccedente tale determinazione (cfr. M. Recalcati, Jacques Lacan, cit.).
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Etica ed estetica del volto
Il corpo perché sia vissuto è dunque nella relazione di una particolare distanza dagli altri, distanza che può essere annullata o aumentata a seconda della nostra capacità di opporsi. Noi desideriamo che il nostro corpo sia rispettato; tracciamo dei limiti che corrispondono alle nostre esigenze, costruiamo un’abitazione al nostro corpo73.
Allora, osserviamo che la distanza può restringersi o aumentare: tra non accettare la propria fattità (alienità) e cogliere la propria stessa alterità, che significa accogliere contemporaneamente la propria e altrui fattità. Basaglia sostiene che la riflessione su di sé avviene comunque attraverso la sguardo altrui, che – citando Sartre – è l’«intermediario che mi rimanda da me a me stesso», che mi rende cosciente di me, perché solo attraverso lo sguardo d’altri io posso essere la mia oggettività, avvertendo contemporaneamente la soggettività dell’altro che mi determina e mi domina74. Avvicinarmi e allontanarmi, o comunque “oscillare”, è peraltro sempre stabilire distanze, aprire strade con altri-oggetto, all’interno del mio essere-per-altri. Lo sguardo altrui pone non solo la spazialità (“Io sono guardato da un mondo guardato”) ma anche la temporalità: «L’apparizione dello sguardo altrui si manifesta per me come una Erlebnis, che mi era impossibile, per principio, acquistare nella solitudine: l’esperienza della simultaneità»75. Alla fine lo sguardo altrui sarà veicolo di trasformazione: non solo di me stesso, ma dell’altro e, ancora oltre, di una metamorfosi totale del mondo. Il momento dell’incontro con l’altro non si realizza come puro riconoscimento di una materialità costitutiva di me stesso, ma come rispecchiamento di un me stesso, punto di partenza di un io fungente: io riconosco nell’essere là dell’altro un’esperienza coesistente al mio essere qui76. Se Altri è l’essere per cui io sono oggetto, per mezzo del quale ottengo la mia oggettità, la quale resta però sempre fuori portata, mentre sperimento
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F. Basaglia, Corpo, sguardo e silenzio (L’enigma della soggettività in psichiatria), 1965, in Id., Scritti I. 1953-1968. Dalla psichiatria fenomenologica all’esperienza di Gorizia, cit., p. 305. Ivi, p. 299. Di seguito Basaglia porta l’esempio del nevrotico che non accetta la propria fattità, la propria contingenza, e subisce il proprio corpo come espropriato; mancando di una presa di posizione nel mondo, è costantemente nell’ansia e nella vergogna, non potendo opporsi all’altro. Lo psicotico invece prova la devastazione nel suo corpo ad opera dello sguardo dell’altro, che lo reifica, lo condensa, l’annulla. In entrambi, secondo Basaglia, si perde la reciprocità dell’incontro, attraverso la perdita della distanza, e non si realizza alcuna intersoggettività. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, cit., p. 320. F. Basaglia, Corpo, sguardo e silenzio, cit., p. 296.
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R. Mezzina - La dialettica del volto nella decostruzione della psichiatria
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l’impercettibile soggettività dell’altro, la sua libertà infinita, c’è poi il secondo momento del mio rapporto con l’altro. Altri-oggetto è come un’apparizione, relativa alla conquista della mia soggettività. In tutto ciò, l’irriducibile alterità del volto sarà garanzia di una discontinuità di rapporto, che si sottrae certo a qualsiasi fusione, ma che non elude la domanda dell’altro77. E tuttavia, ancora fin qui resta inevasa la domanda urgente, posta dalla sofferenza, di possibile soggettivazione.
5. Movimenti del volto e del soggetto/dell’essere nel cambio delle psichiatrie 5.1. I volti nella relazione terapeutica L’esteriorità del volto, come abbiamo detto fin qui, è stata in psichiatria percepita come segno, mentre l’interiorità, come abbiamo visto, si cela o si intuisce o si ipotizza, mai si svela, fino ad un momenti di verità che possono essere di svelamento dell’inghippo, dell’imbroglio istituzionale che vuole escludere malato e malattia. Questa è la strada tentata dall’approccio fenomenologico quando si è declinato nella prassi istituzionale, come esemplarmente ci indica Borgna: Nel modo straziato di essere del volto e dello sguardo nella malinconia mi è possibile cogliere immediatamente la dimensione della sofferenza e della desolazione ma anche la nostalgia e l’attesa degli sguardi degli altri: del nostro sguardo e del mio sguardo che sappiano raccogliere la sfida del silenzio e del deserto (apparente) e sappiano testimoniare di un ascolto e di una accettazione capaci di sottrarsi a ogni giudizio e a ogni freddezza78.
Certo la psichiatria sociale ha valutato che il contatto continuo faccia-afaccia, giocato nel chiuso delle relazioni, tra soggetti altamente coinvolti nella storia familiare, nel trasmettere emozioni dolorose le riversa addosso ai soggetti vulnerabili, portando a un effetto sia pure deterministicamente interpretato come patogeno79. In questo senso solo il distacco da tale contatto, allontanando il malato dal suo contesto, può ricreare la distanza, l’intervallo minimo di cui parlava Basaglia. 77 78 79
E. Lévinas, Totalità e infinito, cit. p. 208. E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, 2010 (I ed. 2001), p. 87 Cfr. qui gli studi ormai trentennali sulle c.d. Emozioni Espresse di Brown, Leff, Vaughn e altri ben noti in ambito di psichiatria sociale.
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Etica ed estetica del volto
Il faccia-a-faccia fonda il linguaggio, e il volto addirittura per Lévinas instaura la significazione dell’essere80. Spesso l’inizio della relazione terapeutica non si accontenta dello “stare di tre quarti” delle psicoterapie umanistiche, o dell’evitare il contatto visivo come vuole l’analisi, ma pretende il faccia a faccia. Questo è momento iniziale di assoluta verifica, a volte nella dimensione di sfida del malato e di accoglienza della proiezione e della scissione dell’esperienza di follia. E comunque, il contatto oculare è visto in molte modalità di approccio quale strumento privilegiato di comunicazione empatica, dove il calore, l’interesse umano, l’attenzione all’altro, l’autenticità sono limiti verso i quali tendere per la costruzione dell’alleanza terapeutica. Entrare nel mondo del paziente significa anche vederlo con i suoi occhi81. Non convincere, ma condividere ne è l’imperativo umano. Recedere dalla sua posizione di resistenza è per lui doloroso, in quanto è rischiare di tornare all’intrappolamento cui la malattia tenta di sottrarre il soggetto; ma è anche riprendere il cammino della responsabilità, e re-innescare il meccanismo del libero arbitrio, della scelta. «C’è bisogno di intuizione, di una ininterrotta logica del cuore, di una impalpabile leggerezza dell’essere: se ci si vuole avvicinare (accostare) al mistero del guardare», scrive invece Borgna82. In questo senso un’ermeneutica del volto, fondata su una pre-comprensione empatica, pare essere una delle vie maestre all’incontro: La decifrazione ermeneutica dei volti e degli sguardi, dei loro segni e delle loro sembianze, delle loro allusioni e delle loro metamorfosi, consente di conoscere qualcosa (che resta invece nascosto al linguaggio della parola) della vita interiore degli altri, e di avvicinarci così ai segreti dei cuori, e consente anche di ri-conoscere e di ri-sentire il timbro intenso e doloroso della tristezza e dell’angoscia, e quello lacerante della dissociazione psicotica83.
Ma Lévinas poco crede al «circolo della comprensione» ermeneutico84, e sostiene che, proprio in quanto la relazione con Altri «introduce in me ciò che non era in me», essa apre alla Ragione85. Questo rispetto di un’alterità 80 81 82 83 84
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E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 212. L’affermazione è di A. T. Beck, tra i primi a teorizzare le terapie cognitive. E. Borgna, Il volto senza fine, cit., p. 122. Ivi, p.127. «L’espressione non si produce come la manifestazione di una forma intellegibile che legherebbe dei termini tra di loro per stabilire, attraverso la distanza, l’affiancamento delle parti in una totalità, nella quale i termini che si affrontano derivano già il loro senso dalla situazione creata dalla loro comunità che, a sua volta, deve il proprio senso ai termini riuniti». (E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., pp. 206-207). Ivi, p. 209.
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R. Mezzina - La dialettica del volto nella decostruzione della psichiatria
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come assoluta e dirompente ci convince, mentre sottolineiamo che un rischio è presente anche nelle migliori intenzioni della psichiatria, se solo di guardare in modo diverso si tratta, e non di agire trasformando la (nostra) comune realtà dove viviamo, in quanto “curanti” e “curati”, e in quanto cittadini. 5.2. Cambiare o de-istituzionalizzare la relazione Vogliamo rimarcare che al centro di questi processi, condizione di possibilità di qualunque terapia, sta la trasformazione istituzionale che è accaduta e che non è un esito, bensì resta un dato processuale, sempre in una dinamica tra progresso e regresso. Il recupero di una vita possibile, che avviene ora nel tessuto di relazioni di una comunità, è potuto accadere proprio a partire dalla critica radicale e definitiva di una psichiatria come quella descritta, che è stata la psichiatria dei manicomi, verso il cambio paradigmatico che abbiamo prima enunciato. Lo smontaggio dell’istituzione ha permesso la decostruzione di una psichiatria che aveva validato l’esclusione sociale del malato nelle sue istituzioni totali, fuori dal contratto sociale, e ha quindi aperto alla deistituzionalizzazione della malattia86 come enunciato. Uno degli strumenti fondamentali ne è stata la decostruzione della stessa relazione istituzionale, che ha implicato un ri-conoscersi tra curante e curato fuori dai codici e dalle classificazioni tassonomiche utili alla diagnostica. Il cambio paradigmatico ha quindi dislocato completamente la relazione con le psichiatrie e con i suoi attori totalizzati. La presa in carico della sofferenza nelle condizioni reali di esistenza richiede invece la storicizzazione di persone, che come tali vengono riconosciute e tornano ad avere un respiro, un’opportunità umana. Come si giocano prossimità e distanza nella sfera del terapeutico, o meglio del rapporto istituzionale o ‘di servizio’, secondo la definizione di Goffman87? Si tratta di passaggi che spesso impongono un lavoro sulla propria identità e sul proprio ruolo come esso viene codificato in termini istituzionali. La contraddizione principale è che la soggettivazione del terapeuta avviene accogliendo l’altro, e al tempo stesso l’oggettività del mondo, e mediandosi a partire da un dislivello di potere originario. Ciò 86 87
Cfr. F. Rotelli, Modelli scientifici e complessità (1990), in Id., Per la normalità. Taccuino di uno psichiatra negli anni della grande riforma, Asterios, Trieste 1999, pp. 70-73. Ci riferiamo ad E. Goffman, Asylums, cit., in particolare nel capitolo su «Il modello medico e il ricovero psichiatrico. Note sul lavoro di riparazione», pp. 337 e sgg.
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Etica ed estetica del volto
implica modificare al tempo stesso il campo del pratico-inerte (posto da Sartre) – che per noi è il campo dell’istituzione88. Ma che cosa accade nella dialettica tra le soggettività diverse nella trasformazione istituzionale, nella deistituzionalizzazione della relazione? Lo psichiatra, lo psicologo, l’operatore in quanto consapevole del ruolo terapeutico può avvicinarsi solo accettando il rischio della perdita proprio di quel genere di Sé che propone al rapporto col malato. Un sé fondato sul ruolo, sull’ipostasi di un sapere incerto, e su un potere certo perché etero-legittimato, fondato da fuori, dal mandato che impersona, dalle richieste che deve mediare. Non solo occorre essere consapevoli dei rischi di oggettivazione che la semeiotica, la psicopatologia, la nosografia pongono, ma del problema della fondamentale irriducibilità del soggetto all’istituzione, della sua resistenza a questa forma di ‘biopotere’, secondo la nota definzione foucaultiana. Occorre de-soggettivarsi almeno un poco, provare uno spaesamento, perdersi con l’altro e nell’altro – altrimenti il volto non è conoscibile né intelligibile. Una possibilità allora è fare davvero dia-gnosis, un conoscere o un guardare ‘attraverso’89. Puoi guardare la malattia solo se stai facendo un tragitto che la attraversa per cercare altro, o meglio l’altro. In tale limite puoi accettare la sfida del non senso che essa ti propone e che ti terrorizza. E se, come ha affermato Sartre, io esisto nello sguardo dell’altro, l’affettività nel processo terapeutico sarà un dato ineliminabile, o forse il prodotto di un processo in cui si sperimentano forme di libertà, in una parificazione tendenziale del dislivello di potere. La riduzione di quel dislivello di potere nella relazione prelude allora ad un riconoscimento, che è fondato sulla reciprocità, pur nella comprensione del meccanismo istituzionale in cui siamo de-situati, come “curanti” e come “curati”. Proprio perché io mi pongo come terapeuta, sono visto, scrutato dall’altro in quanto paziente, ed è a lui che devo rispondere su un piano di fondamentale eguaglianza; anche se il potere, il mio stesso potere, può ignorare, smentire, giocare, eludere, o peggio schiacciare questa eguaglianza che si pone in partenza. 5.3. Il volto nella crisi È nelle situazioni di massimo rischio per il soggetto, come nella sfida della crisi e dell’acuzie, che si giocano o meglio letteralmente “si fronteg-
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Cfr. F. Rotelli, L’uomo e la cosa (1983), in Id., Per la normalità. Taccuino di uno psichiatra negli anni della grande riforma, Asterios, Trieste 1999, pp. 44-45. Cfr. R. D. Laing, La politica della famiglia. Le dinamiche del gruppo familiare nella nostra società, tr. it. di L. Bulgheroni-Spallino, Einaudi, Torino 1973, p. 45.
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giano”, vis-à-vis, il potere e il contropotere, dell’istituzione e del malato. Come nel film di Bergman, quando Vogler mostra il suo vero volto al culmine della finzione in cui riesce a suggestionare Vergerus, ed è un’apparizione terribile che emerge dall’ombra. Affrontare la crisi è di fatto una delle situazioni-limite che forzano la psichiatria che si pratica nel territorio a cambiare linguaggio, pratica e mandato. Il fronteggiamento di essa reclama l’entrare in gioco in modo incondizionato; questa intenzione precede l’incontro, e prevede anche il rischio di scontro con l’irriducibilità del soggetto. Con-tenere l’angoscia dell’altro è al centro del lavoro terapeutico nella crisi. Questa è la “presa in carico (dell’altro)”, intesa come assunzione del dolore e della sofferenza, cui segue l’entrata nel gioco della relazione. Tali movimenti in ogni caso richiedono un disporsi dei soggetti interagenti, l’uno di faccia all’altro, o almeno fianco a fianco. I volti devono allora piegarsi l’uno verso l’altro per cercare un medium, sia esso il linguaggio, sia esso il gesto, che faccia ritrovare le ragioni di un agire comunicativo, al di fuori di ogni strumentalità, di ogni agire strategico90. La tensione che si crea, e l’effetto di torsione che si imprime, forzano i volti dentro una dialettica che ne prevede il mutamento, con la rottura della distanza cosiddetta terapeutica, l’iniziale perdita di una dimensione alienata di relazione; e il successivo riacquisto di intersoggettività, verso una possibile reciprocità. La responsabilità per altri è peraltro riconosciuta come la struttura essenziale della soggettività da Lévinas, ossia è un dato, una pre-condizione. Essa infatti dipende direttamente dalla « ‘congiuntura Io-Altri’, come orientamento inevitabile dell’essere ‘a partire da sé’ verso ‘Altri’»91. La soggettività qui è intesa «come ciò che accoglie Altri, come ospitalità».92
6. Trasformazioni soggettive e istituzionali 6.1. Il volto parlante Ha affermato Lévinas che «volto e discorso sono legati. Il volto parla. Parla in quanto è lui che rende possibile e inizia ogni discorso»93.
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La terminologia è tratta dall’opera di J. Habermas, e in particolare dal monumentale testo Teoria dell’agire comunicativo, tr. it. di P. Rinaudo, Il Mulino, Bologna 1986. E. Lévinas, Totalità e infinito, cit, p. 220. Ivi, p. 25. Id., Etica e infinito, cit., p. 102.
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Etica ed estetica del volto
Una prima schiusa del volto, un cambio dell’espressione, una distensione empatica che esprime il sentirsi più sicuri nella relazione, coinciderà con l’apertura della parola di due o più parlanti, ovvero l’inizio del discorso come dia-logo. Così si può dare la condivisione del vissuto attraverso la narrazione - che è anche la resa, il ritrarsi del soggetto-terapeuta a fronte del soggetto-paziente che emerge nel suo soggettivarsi. In termini metaforici, si parla di “svolta” della crisi, o di “svolta” verso la guarigione in presenza di fatti fondamentali che cambiano la vita in modo irreversibile e spingono al cambiamento, anche nel rapporto con la propria sofferenza e/o malattia. Il voltarsi indietro, o il ri-voltarsi contro, sono parte di questa fenomenica. Si “volta” comunque pagina, dopo la crisi. Nel processo di soggettivazione e risoggettivazione, la vita di ognuno si storicizza a partire dal senso, che viene riscritto di continuo94. La domanda di ricerca di senso del soggetto sofferente, di un senso del suo star male, della crisi, della rinuncia, della sfida, della trasgressione, del sintomo e dell’esistenza stessa, come problema, al di là di esso, è il nocciolo del lavoro psichiatrico. Trovare un senso, anche come operazione temporanea e precaria, basata su un’attribuzione momentanea che può in qualsiasi momento successivo essere superata, è un punto di repere fondamentale del curare, perché rende possibile l’incontro e l’agire basato sull’intesa. Se la frattura di senso della malattia tende allora a ricomporsi, quel senso dischiude il volto, lo apre ad una comprensione che è già tappa del processo di ripresa e guarigione. Possiamo dire che il volto traduce questa storia nei segni e nelle espressioni che vi si imprimono. Attraverso questa operazione si gioca il riconoscer-si, che è reciproca responsabilità, ammissione tacita di un non-più-come-prima. Per Lévinas il discorso e, più esattamente, la risposta e la responsabilità, costituiscono la relazione autentica. «Il dire è il fatto che davanti al volto io non resto semplicemente là a contemplarlo, gli rispondo [...]. Davanti a qualcuno è difficile tacere»95. 6.2. Illuminazione e trasfigurazione C’è in definitiva, secondo quanto la pratica ci fa esperire, un movimento di spersonalizzazione e di ripersonalizzazione dietro il possibile ri-comporsi del volto. «Ogni volto, del resto, ha un tempo interiore che lo segna
94 95
Cfr. R. Mezzina, La soggettività e l’intervento. Il senso della crisi all’intersezione col servizio, in Id. (a cura di), Crisi e sistemi sanitari. Una ricerca italiana, Asterios, Trieste 2005, pp. 191-215. E. Lévinas, Etica e infinito, cit., pp. 102-103.
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R. Mezzina - La dialettica del volto nella decostruzione della psichiatria
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[…] il tempo soggettivo, il tempo vissuto, scandisce i significati della vita, e dal tempo vissuto i volti e gli sguardi sono alimentati e ritrasfigurati»96. Il volto decomposto, a volte s-figurato, deformato dalla sofferenza di cui s’è detto può diventare – o tornare ad essere – altro. In questo senso l’illuminazione, forse anche la trasfigurazione, sono altre figure – mitiche – da considerare nella dialettica del volto. Il cambiamento progressivo e improvviso dell’espressione in generale, e del volto in particolare, segnala il cambiamento. Dopo l’esperienza drammatica della crisi e della sofferenza acuta, l’illuminazione,97 a volte come vera trasfigurazione, accade. Essa è segnale di un ri-comporsi non solo di sé ma con altri, che conduce al ritrovarsi, al riaversi, forse al riappacificarsi, almeno parziale, nel mondo-della-vita. Dunque, ancora, soggettività come accoglienza dell’Altro. Terza storia di un volto Giovanni si era tatuato il volto metà in nero e metà in rosso, con una profonda sottolineatura della bocca, come The Joker, il nemico di Batman. Aveva da adolescente compiuto un delitto terribile in famiglia, in crisi psicotica, e non era mai andato in carcere, restando invece dentro il circuito del terapeutico e dei servizi. La sua colpa non era espiata. Il tatuaggio, quindici anni più tardi, segnalava la necessità di celare il volto dietro l’identità immaginaria di un personaggio negativo dei fumetti, qualcuno che aveva sostituito il suo Io e la sua volontà. Dopo il carcere e il manicomio, i tentativi di approccio ottennero la sua adesione, e accettò un lento e doloroso percorso di ablazione del tatuaggio. Dimesso con un progetto speciale, tornò nella sua città, e tra coloro che lo assistevano trovò l’amore di una donna, che gli diede un figlio. Ebbe una casa e un lavoro in una cooperativa sociale. Aveva assunto infine la responsabilità del suo volto, che tornò ad essere quello del giovane, timido e schivo, che mai avevamo conosciuto.
L’accettazione di sé e degli altri è riportata dalle persone come passaggio fondamentale della propria ripresa-guarigione98. Qui l’apertura del cuore va insieme con quella del volto, nell’amore percepito e co96 97
98
E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, cit., p. 80. Nel “teatro povero” di Grotowski, l’attore intraprende un percorso di purificazione-liberazione del corpo verso un’ illuminazione, che diviene quasi-visibile al pubblico (cfr. Jerzy Grotowski, Per un teatro povero, tr. it. di M. O. Marotti, Bulzoni, Roma 1970). Cfr. R. Mezzina, Che cos’è guarigione? L’oggetto oscuro della nostra (e vostra) ricerca, Introduzione a Izabel Marin - Silva Bon, Guarire si può. Persone e disturbo mentale, 180 – Archivio Critico della Salute Mentale, ed. Alphabeta Verlag, Merano 2012, pp. 7-23.
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Etica ed estetica del volto
municato ad altri, come ci dice Lévinas. Sarà comune esperienza del terapeutico il fatto che, se il volto illumina il Sé, ci sarà un volto che a volte trasfigurandosi si ricompone e che (si) ri-accende – e alimenta la speranza. L’illuminazione e la trasfigurazione di quel volto ne saranno i dati fenomenici. 6.3. La deistituzionalizzazione che continua e la “recovery” Ogni giorno la sfida della deistituzionalizzazione si rinnova dentro le psichiatrie del territorio, laddove i modelli riduzionisti, medicalizzanti, biologico-centrici tendono a denegare la complessa “sfaccettatura” del volto umano della sofferenza. La trasformazione ancora oggi si determina nella rottura della specularità del rapporto istituzionale tra soggetto/i curante/i (l’equipe, il servizio) e soggetto/i curato/i (la persona e gli altri significativi che con essa condividono la sofferenza e l’incastro della malattia). All’interno di questa rottura nascono e si determinano nuove possibilità di alleanza, di relazione fiduciaria, di autenticità anche al livello essenziale delle emozioni e degli affetti. Esse si traducono in pratiche terapeutiche e non solo: sono pratiche di reintegrazione di un sé sociale, di inclusione nel tessuto comunitario, di restituzione o di riconquista di diritti umani e di diritti sociali. La salute mentale ha al centro la persona da accogliere nella sua dimensione umana autentica, con la sua complessità e con l’universo dei bisogni possibili, e non la malattia da scrutare, catalogare, eradicare da un soggetto passivo che tale resta anche dopo una remissione del dato sintomatologico. Diversamente, la ripresa (recovery) dalla malattia richiede un soggetto che ‘va a riprender-si’. Questo passaggio è uno dei modi del potere, ma questa volta di un potere del soggetto su di sé, in termini di riappropriazione del vissuto, del valore della sofferenza stessa, ossia del valore della propria, unica esistenza. Come si è anticipato, ‘ri-voltarsi’ contro la propria condizione, non accettarla e volerla cambiare, porre un limite alla sofferenza è alle fondamenta della svolta della crisi e di questo riprendersi. Spesso questo movimento comporta il lottare per la propria autoaffermazione anche contro la psichiatria: ed anche il malato “che si mette di traverso” al servizio rappresenta questa posizione in modo esemplare. Occorre in tal caso accogliere in conflitto come elemento di trasformazione, capire e negoziare, trovare altre strade; non sempre i modelli di normalità e di normalizzazione che proponiamo sono accettati – siamo tutti diversi!
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Se la terminologia etrusca di maschera – phersua – è la radice della parola ‘persona’, noi non vogliamo sostenere che guarire è solo un gioco di nuove maschere da indossare, ma certo esso ha a che fare con un senso di sé rinnovato, che si manifesta nell’espressione e nel volto e nei modi della relazione. Un potersi guardare o specchiare di nuovo ed in modo diverso, e diversamente ri-conoscersi sta nel registro del guarire e ne è indicatore potente, quasi osservabile da fuori. Guardarsi significa accettarsi - come principio del “vedersi di nuovo nel mondo”. ‘Voltarsi’ di nuovo verso l’altro ne è la conseguenza. Speranza, fiducia, uguaglianza e reciprocità sono caratteristiche di una relazione, nel senso che in essa emerge il soggetto, proprio laddove si vede la persona e si assottiglia la malattia e quindi la psichiatria. Nel passaggio dal rapporto di dominio/controllo, all’assistenza, alla relazione terapeutica si è assistito, in definitiva, al cambiamento dei poteri, alla reciprocazione invece che all’oggettivazione, alla riscoperta della globalità della persona (del soggetto). Una relazione ispirata al coinvolgimento e alla personalizzazione, nel cercare insieme un senso di quanto accade, e non alla distanza “terapeutica” come valore in sé; al dare fiducia, al “rischiare” insieme e quindi al mantenere un’apertura sul possibile. Il che vuol dire offrire speranza e aspettative, ma anche saper riconoscere la salute nella malattia, ovvero le competenze e le abilità, i desideri e i valori99. 6.4. Tutto ciò che mi ri-guarda Nel superare le modalità del pensiero e della pratica psichiatrica storica, che annientano l’altro in una presa totalitaria, in tal modo da renderlo cosa, va riconosciuta l’ alterità irriducibile del soggetto, che sorge dal volto. Perché il soggetto stesso emerga, occorre dunque che, in una possibile tendenza alla reciprocità, Altri si metta in gioco, ed in particolare si metta in discussione il terapeuta, con le sue certezze che altrimenti ne sur-determinano il campo in senso pratico-inerte. Va qui ri-considerato che il tema del doppio può essere superato anche dal movimento verso il fuori, innescato dal processo di trasformazione. Con Franco Basaglia abbiamo sostenuto che per poter affrontare la malattia dovremmo poterlo fare fuori dalle istituzioni, nel rapporto faccia-a-faccia, uomo-a-uomo100.
99 Cfr. R. Mezzina, Che cos’è guarigione?, cit. 100 F. Basaglia, Lezione-conversazione con gli infermieri, in G. Gallio - M. G. Giannichedda - O. De Leonardis - D. Mauri, La libertà è terapeutica. L’esperienza psichiatrica di Trieste, Feltrinelli, Milano 1984, pp. 41-47.
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Etica ed estetica del volto
Qui si propone ancora una vicinanza tra Basaglia e Lévinas attraverso il divenire “ostaggio” dell’altro, all’interno di una responsabilità vincolante che si pone come immediatamente etica. Basaglia ha parimenti sostenuto che, quando il malato è recluso, il medico è libero, mentre avviene il contrario se il malato è finalmente libero – anche se non liberato101. Similmente, il volto altrui non solo si sottrae al mio possesso ma mi coinvolge, mi pone in questione, e mi rende immediatamente responsabile, imponendomi un atteggiamento etico, accettando una relazione che pur resta costantemente asimmetrica. Comprendere la miseria che grida giustizia non consiste nel rappresentarsi un’immagine, ma nel porsi come responsabile, ad un tempo come maggiore e come minore dell’essere che si presenta nel volto. Minore, perché il volto mi richiama ai miei obblighi e mi giudica. L’essere che si presenta in esso viene da una dimensione di maestosità, dimensione della trascendenza in cui può presentarsi come straniero, senza oppormisi, come ostacolo o nemico. Maggiore, perché la mia posizione di io consiste nel poter rispondere a questa miseria essenziale d’altri, nel trovarmi delle risorse102.
Secondo Levinas, questa relazione con Altri conduce verso l’uguaglianza, perché il tu rimanda ad un terzo, a un noi, ad un comune umano, proprio rappresentato dalla nuda maestosità del volto che appartiene allo straniero da accogliere103. Questo implica instaurare la Ragione, ossia un Io capace di società104. Ma che cos’è allora per noi il fuori? Non possiamo non chiederci in quale scenario tutto ciò avviene, pena restare intrappolati da una dimensione speculativa astratta che non coglie appieno le condizioni storiche della trasformazione istituzionale in psichiatria. Lo sfondo della dialettica del volto che abbiamo fin qui cercato di delineare non risulta indifferente ad esse, ma vi entra a pieno, nella sua totalità.
101 F. Basaglia, Conferenze brasiliane, a cura di F. Ongaro Basaglia e M. G. Giannichedda, Raffaello Cortina, Milano 2000, p.11. 102 Ivi, p. 220. 103 Citando Lévinas: «L’epifania del volto come volto apre l’umanità. Il volto nella sua nudità di volto mi presenta la miseria del povero e dello straniero […]. Il tu si pone di fronte ad un noi [...]. La presenza del volto – l’infinito dell’Altro – è miseria, presenza del terzo (cioè di tutta l’umanità che ci guarda)» (ivi, p. 218). E ancora: «In questa accoglienza del volto (accoglienza che è già la mia responsabilità nei suoi confronti e nella quale, quindi, esso mi viene incontro a partire da una dimensione di maestosità e mi domina), si instaura l’uguaglianza» (ivi, p. 219). 104 Ivi, p. 214.
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R. Mezzina - La dialettica del volto nella decostruzione della psichiatria
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Non sta forse dentro l’occhio, dentro la sua pupilla, il riflesso del mondo circostante, il bianco di un reparto o i colori della strada, il grigiore di una casa disabitata o il calor bianco e la violenza a volte delle relazioni familiari? Tutto questo entra nello sguardo, ma solo se il gioco terapeutico e re-inclusivo lo prevede nei suoi dispositivi e paradigmi, e se l’intenzione di un servizio lo conferma. Altri sguardi potranno cercare di vedere e di essere visti per poi dire e contare, ma questa è già la dialettica della vita. Parliamo soprattutto dei familiari e di coloro che hanno relazioni significative. Gli incroci di altri volti e di altri sguardi sono il fondamento di una più ampia intersoggettività, la sfida di un terapeutico agito nel mondo reale. Il volto si inserisce allora e si ricompone esso stesso in un paesaggio umano, come parte del mondo-della-vita. I mille volti del quotidiano attraversano allora il volto del malato e dell’operatore. Entrano i volti di queste altre persone, e le espressioni del volto – nella varietà umana delle tante emozioni possibili – tornano a segnalare la dialettica dell’esperienza del ritorno a vivere, e vanno oltre le stereotipie della malattia. Le fisiognomiche prima accennate, e le problematiche patognomoniche, si frantumano con più certezza, mentre un nuovo Sé emerge, e forse una soggettivazione si delinea. 6.5. Un altro modo di guardare o di guardar-si: il vero volto o il volto liberato? Oggi, più che uno sguardo diverso dello psichiatra, che poco ci importa in fondo se resta interno ad essa (in questo non condividiamo la retorica della bene-volenza dello sguardo che si umanizza), si impone un modo diverso di guardar-si, nella reciprocità di una relazione, o di un insieme di relazioni, che tendono a perdere la loro drammatica asimmetria e a diventare paritarie. Cerchiamo allora una soggettività che ri-guarda e ri-conosce l’altro, che riconosca al tempo stesso l’alterità e la somiglianza dell’umano nel volto che si incontra, alla fine. La persona è la sola portatrice del volto, che ha un valore e che si impone come irriducibile, inalienabile diritto al sé. Una diversa psichiatria può essere allora ricerca del contatto che la persona ha perduto col mondo, attraverso molte forme di comunicazione non verbale, analogica, perché si giunga ad un ritrovarsi comune che è il senso dell’umano che condividiamo e che abitiamo – tutti. Oggi dentro i servizi del territorio si accolgono, e si incontrano, persone reali, prima ancora che la malattia le abbia piegate o stravolte; i loro volti popolano spazi e quartieri, luoghi privati, micro-habitat sociali, spesso ri-
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Etica ed estetica del volto
vendicando orgogliosamente un ruolo da protagonisti, della propria vita e delle pratiche di salute mentale. La dialettica tra le soggettività, e dunque l’intersoggettività che nasce dalla comunicazione e dalla comprensione, è anche una dialettica di volti che si sfiorano e a volte o non riescono ad incrociarsi nel cerchio del terapeutico, ma che anche al di fuori di esso sempre chiederanno di essere riconosciuti attraverso possibili trasformazioni di istituti, di saperi e di destini individuali. Incredibile vedere di nuovo il volto di un uomo, di una donna, e su di esso tracce di seduzione, di affetti, di umanità. Ci pare a volte che questo sia un volto rivelato, o per meglio dire liberato. Accettare la sfida che pone oggi un volto liberato è ormai condizione irrinunciabile sia della comprensione che dell’inclusione del soggetto in un ambito di socialità; e ciò accade anche e soprattutto attraverso un recupero di potere. La verità del volto non sarà allora quella che è stata decodificata dal dialogo terapeutico, ma quella che il volto avrà rivelato per sé, perché sarà stato messo nelle condizioni di poterlo fare. Questa è la vera restituzione che ci aspettiamo.
7. Bibliografia Massimo Adinolfi, Ingmar Bergman, il volto e il nulla, Left Wing, Cultura, 1 agosto 2007: http://www.leftwing.it. Franco Basaglia, Corpo, sguardo e silenzio (L’enigma della soggettività in psichiatria) (1965), in Id., Scritti I, 1953-1968. Dalla psichiatria fenomenologica all’esperienza di Gorizia, a cura di F. Ongaro Basaglia, Einaudi, Torino 1981, pp. 294-308. Id., Lezione-conversazione con gli infermieri, in G. Gallio - M. G. Giannichedda O. De Leonardis - D. Mauri, La libertà è terapeutica. L’esperienza psichiatrica di Trieste, Feltrinelli, Milano 1984, pp. 41-47. Id., Conferenze Brasiliane, a cura di F. Ongaro Basaglia e M. G. Giannichedda, Raffaello Cortina, Milano 2000. Franco Basaglia - Franca Basaglia Ongaro, La malattia e il suo doppio, in Id., La maggioranza deviante, Einaudi, Torino 1971. Eugenio Borgna, Il volto senza fine, Le Lettere, Firenze 2005. Id., L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano 2010 (I ed. 2001). Flavio Caroli, Storia della Fisiogomica. Arte e psicologia da Leonardo a Freud, Mondadori Electa, Milano 1995. Gilles Deleuze, L’image-mouvement, Les Editions de Minuit, 1983; L’immaginemovimento, tr. it. di J.- P. Manganaro, UBU libri, Milano 1984. Gilles Deleuze, Foucault, Les Editions de Minuit, Paris 1986; Foucault, tr. it. di P. A. Rovatti e F. Sossi, Feltrinelli, Milano 1987.
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R. Mezzina - La dialettica del volto nella decostruzione della psichiatria
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Etica ed estetica del volto
Maurice Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1965; Fenomenologia della percezione, tr. it. di A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano 1980. Roberto Mezzina, La soggettività e l’intervento. Il senso della crisi all’intersezione col servizio, in Id. (a cura di), Crisi e sistemi sanitari. Una ricerca italiana, Asterios, Trieste 2005, pp. 191-215. Id., Che cos’è guarigione? L’oggetto oscuro della nostra (e vostra) ricerca, Introduzione a Izabel Marin - Silva Bon, Guarire si può. Persone e disturbo mentale, 180 - Archivio Critico della Salute Mentale, Alphabeta Verlag, Merano 2012, pp. 7-23. Id., Il cambio paradigmatico tra sistemi globali e soggetti, in Quarant’anni di Fogli d’informazione, psichiatria, psicoterapia, istituzioni, a cura di Paolo Tranchina e Maria Pia Teodori, Ed. Periferie al Centro ONLUS, Firenze 2012, pp. 231-237. Franco Ongaro Basaglia, Follia/Delirio, (in collaborazione con Franco Basaglia), in Enciclopedia Einuadi, vol. VI, Einaudi, Torino 1979, pp. 267-287; ripubbl. in Franca Ongaro Basaglia, Salute/malattia. Le parole della medicina, a cura di a cura di Maria Grazia Giannichedda, 180 - Archivio Critico della Salute Mentale, Alphabeta Verlag, Merano 2012, pp. 119-147. Massimo Recalcati, Jacques Lacan. vol. I Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffaello Cortina, Milano 2012. Franco Rotelli, L’uomo e la cosa (1983), in Id., Per la normalità. Taccuino di uno psichiatra negli anni della grande riforma (v. in questa Bibliografia), pp. 3947. Id., Modelli scientifici e complessità (1990), in Id., Per la normalità. Taccuino di uno psichiatra negli anni della grande riforma (v. in questa Bibliografia), pp. 70-73. Id., Per la normalità. Taccuino di uno psichiatra negli anni della grande riforma, Asterios, Trieste 1999. Jean-Paul Sartre, L’imaginaire. Psychologie phénoménologique de l’imagination, Gallimard, Paris 1940; L’immaginario. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione, tr. it. di R. Kirchmayr, Einaudi, Torino 2007. Id., L’etre et le néant, Librairie Gallimard, Paris 1943; L’essere e il nulla. La condizione umana secondo l’esistenzialismo, tr. it. di G. Del Bo, Il Saggiatore, Milano 2008.
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MARIO MANFREDI
IL VOLTO DISCONOSCIBILE Tra esposizione e maschera
1. L’esponibile Il corpo è l’oggetto primario del riconoscimento, e nel corpo si espone per lo più e anzitutto il volto. Che il volto sia “esposto” corrisponde al suo essere primariamente il rappresentante dell’identità personale. Nei documenti di identificazione troviamo il volto, nient’altro che il volto. Come fisionomia, esso s’incarica di rappresentare l’identità, tutta l’identità corporea, anche per effetto del fatto che i costumi civili hanno coperto con indumenti quasi tutto il resto del corpo. Per secoli, l’espressività corporea è stata, se non monopolizzata, gestita prevalentemente attraverso il volto. Per secoli, per esempio, l’esercizio della seduzione femminile è rimasto affidato in massima parte al volto, che, insieme con le mani e il décolleté, era la parte “esponibile” del corpo. Ma il volto riassume l’identità perché è espressivo, allude cioè a quell’altra identità, non corporea, che si traduce poi nelle parole e nelle azioni. Il volto gestisce il passaggio tra le due identità, le mette in comunicazione e le tiene insieme. La relazione tra dati fisionomici e vita interiore fa del volto una vetrina di fattezze vissute. Come oggetto del riconoscimento, il volto è a un tempo realtà e metafora. Il volto umano è massimamente “plastico”. In un certo senso, esso riassume il carattere proprio della natura dell’uomo come essere “non specializzato”, adattabile e multiforme: con le parole di Pico della Mirandola, plastes et fictor.1 Darwin ha mostrato la continuità espressiva del volto umano con volti animali, ma anche la sua specificità2. Al volto umano basta pochissimo – come movimenti appena percettibili degli occhi e della bocca – per lanciare messaggi; inoltre, si avvale del riso e del pianto. In senso 1 2
G. Pico della Mirandola, La dignità dell’uomo, in De hominis dignitate. Eptaplus. De ente et uno e scritti vari, tr. it. di E. Garin, Vallecchi, Firenze 1942, p. 107. Ch. Darwin, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, alle pp. 111420 in Id., L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali. Due taccuini. Profilo d’un bambino, tr. it. di F. Bianchi Bandinelli, Boringhieri, Torino 1982.
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Etica ed estetica del volto
connotativo, il volto è umano in quanto è il contrario di ‘disumano’. Allora invocare o segnalare l’umanità del volto significa riportarlo all’umanità come valore, come quando parliamo di ‘capitalismo dal volto umano’ o ‘comunismo dal volto umano’. Il volto è l’“esponibile” per eccellenza, ciò che – pressoché inevitabilmente – si mostra, tanto che chi lo nasconde appare per ciò stesso sospetto. E l’esponibilità empirica è tanto evidente, tanto pregnante che si presta alla traslazione nell’esponibilità trascendentale, nella quale si rappresenta l’essenza dell’esposizione, il suo significato e il suo valore per gli altri. Perché la disponibilità a esporsi, l’apertura al mondo e l’accettazione delle sue sfide trovano espressione in una metafora che fa ricorso al volto? “Metterci la faccia” è un richiamo alla dignità o all’orgoglio o al dovere, ma anche al rischio e alla responsabilità3. “Ci metto la faccia” perché ho una faccia da esporre. Se ciò per cui ho messo la faccia risulta, alla fine, sbagliato, fuori luogo, fallito, un’altra metafora – opposta e simmetrica – me ne dà conto, e mi dice che “ho perso la faccia”. Ma posso prevenire questa possibilità, mettermi al riparo da essa, rifiutandomi di “metterci la faccia” o, ancor più, decidendo di “togliere la faccia”: nel linguaggio di una conduttrice di telegiornale, che non condivide più la linea della testata, l’espressione – caso forse unico – contiene insieme senso letterale e senso metaforico4. Il volto è ciò che primariamente compare, si manifesta, si rappresenta e, perciò, è un assoluto simbolico. Sono il mio volto, ma siccome so che gli altri mi identificano con esso, il volto mi serve anche per sembrare quello che non sono o per non sembrare quello che sono: insomma, per simulare e dissimulare. Si cura l’immagine del volto, la sua presentazione, per ottenere un riconoscimento superiore a quello che la sua realtà, “al naturale”, consentirebbe di riscuotere. Perciò, il leader politico “taglia” la propria foto sul manifesto elettorale in modo da lasciar fuori il cranio reso lucido dalla calvizie; l’“inquadramento” ha lo scopo di evitare il disconoscimento reso possibile da una cattiva impressione estetica. A livello elementare, questo volto si rifiuta di rendersi disconoscibile. Qui non entrano in gioco i significati essenziali della metafora; non c’entrano né il coraggio di 3
4
Un caso recente è quello del linguaggio usato dal capo della Protezione civile italiana: “chi si assume delle responsabilità, chi mette la faccia dentro i problemi di questo Paese viene immediatamente penalizzato”. Vedi G. Caporale, Sottovalutarono il pericolo-terremoto, «la Repubblica», 4 giugno 2010, p. 4. Si trova nella lettera della giornalista Maria Luisa Busi al Direttore del TG1: «Un giornalista ha un unico strumento per difendere le proprie convinzioni professionali: levare al pezzo la propria firma. Un conduttore, una conduttrice, può soltanto levare la propria faccia, a questo punto». ANSA, 21 maggio 2010.
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M. Manfredi - Il volto disconoscibile
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“metterci la faccia”, né il timore di “perder la faccia”. Si gioca molto più in basso, dove la cura di sé assume come oggetto l’apparenza più conveniente, e la reputazione è legata alla proiezione che gli altri fanno del proprio ideale dell’io nella figura del leader: se l’immagine non è sufficientemente levigata, la proiezione rischia di non funzionare. Così, per non perdere il riconoscimento, questo volto si presta all’inautenticità, si irrigidisce come un artefatto: il volto “plastico” diventa un volto di plastica.
2. Volto vissuto, volto estraneo, ideale del volto Il volto, dunque, è la prima sede dell’identificazione e del riconoscimento. Segno e simbolo di me stesso, che io porto in giro e offro alla consueta e consolidata percezione altrui di me, esso è il documento che certifica il mio essere me agli occhi d’altri. Il volto è il symbolon di me stesso in senso platonico, l’oggetto-pegno della mia identità, che io ho una volta consegnato alla memoria altrui perché altri potesse, ogni volta, rinnovare il riconoscimento: l’identità risiede in questo suo simbolo costante, coincide con ciò che la prova5. Peraltro, può succedere, in casi particolari, che il volto altrui sia specchio del mio, per effetto di una condizione comune, onde io ritrovo nell’altro l’immagine di me che direttamente mi manca. Così, il conte Ugolino misura gli effetti tragici della fame quando deduce il proprio aspetto da quello che percepisce nel volto dei figli: Come un poco di raggio si fu messo nel doloroso carcere ed io scorsi per quattro visi il mio aspetto istesso ambo le man per lo dolor mi morsi6.
In generale, l’esser veicolo primario del riconoscimento ha un risvolto, ed è che il viso è anche un portatore privilegiato della disconoscibilità dell’io. Sicuramente, esso è la prima frontiera del disconoscimento, poiché ricade sul terreno dell’apparire, e della relazione problematica tra l’apparire a sé e l’apparire ad altri. Per me, il mio volto è una sembianza convenuta con me stesso, che può non collimare con la sembianza attraverso la quale altri mi riconosce. Io posso patire questa non coincidenza come un disconoscimento, nella forma di una crisi sconvolgente della mia immagine di me stesso. Occorrenza 5 6
Platone, Simposio, 191D, alle pp. 481-534 in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1991, p. 501. Inferno, Canto XXXIII, vv. 55-58.
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Etica ed estetica del volto
compiutamente descritta in Uno, nessuno, centomila. Il protagonista, Moscarda, scopre improvvisamente che il naso gli pende verso destra, che le sopracciglia sembrano due accenti circonflessi sugli occhi, che le orecchie sono attaccate male. Glielo fa notare la moglie, in un’occasionale rivelazione dal tono naturale e disinvolto, che Moscarda vive però come brutale. I difetti non sono solo nel volto, anche nelle mani e nelle gambe, ma la successiva elaborazione che Moscarda fa della sua scoperta induce pensare che le alterazioni del volto siano, per lui, di gran lunga più impressionanti delle altre. Il terreno psicologico su cui cade la scoperta (confermata da una successiva attenta osservazione) è quello di una tranquilla accettazione del proprio aspetto, ritenuto, se non bello, «almeno molto decente»7. A questa coscienza si univa la saggia convinzione secondo la quale «sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze»8. Altrettanto saggia – e convenzionale – è la consolatoria riflessione con la quale Moscarda avrebbe potuto riassorbire gli effetti dirompenti della rivelazione: il suo caso «provava ancora una volta un fatto risaputissimo, cioè che notiamo facilmente i difetti altrui e non ci accorgiamo dei nostri»9. E invece, l’episodio favorisce il radicamento di un pensiero destinato ad aprire una crisi profonda e una riflessione irrisolta sull’identità: «il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m’ero figurato d’essere»10. Gli sviluppi della crisi portano lontano, ma tutto ha origine da ciò, che il volto è la sede nella quale, in prima istanza, si gioca la partita del riconoscimento e del disconoscimento. Si può dire che il volto attraverso il quale gli altri identificano Moscarda è una variante “corretta” in peggio dell’immagine che Moscarda ha del proprio volto; oppure che l’immagine che Moscarda ha del proprio volto è una variante “corretta” in meglio dell’immagine che ne hanno gli altri. In entrambe le visioni, quell’immagine è un volto in sé, l’obbiettività del volto. E non si può escludere, naturalmente, che i riconoscimenti altrui avvengano in base a immagini diverse tra di loro, oltre che diverse rispetto alla percezione che Moscarda ha del proprio volto. Ma quale che sia l’immagine del volto di Moscarda per gli altri, essa è la sede primaria del riconoscimento che essi fanno di lui. Riconoscimento fisionomico, anzitutto, identificazione, ma anche via d’accesso all’identità personale come interiorità. Moscarda dà per scontato che questa vetrina dell’identità appaia agli altri come appare a lui, avendola egli stesso, senza saperlo, apparecchiata in un certo modo. Egli s’immagina che il riconoscimento altrui avvenga in base alla stesse sembian7 8 9 10
L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, alle pp. 810-891 in Id., Tutti i romanzi, Newton Compton, Roma 1994, p. 810. Ibidem. Ivi, p. 812. Ibidem.
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ze di sé che ha convenuto con se stesso. Quando si accorge che non è così, quando gli altri gli rivelano la loro immagine del suo viso, ne resta sconvolto. Il riconoscimento che gli altri operano in base a un’immagine che lui non condivide è per lui un disconoscimento. Il quale dunque consiste non in una percezione originariamente deformata del volto di Moscarda, né in una malevolenza o in una mala fede che abbiano intenzionalmente svalutato quel volto, ma semplicemente in una non coincidenza tra due rappresentazioni, quella che del suo volto ha Moscarda e quella che ne hanno gli altri. Egli vive questa diversità come disconoscimento. In questo senso, la crisi ha origine da una discrepanza relativa al potere dello sguardo altrui. Esso è, in sé, costitutivo del volto di Moscarda, della sua identità fisionomica. Ma in quanto il suo oggetto non corrisponde all’oggetto dello sguardo che Moscarda rivolge a se stesso, esso è per lui decostruttivo, disconoscente. Quello che, dunque, disorienta Moscarda è che l’immagine che gli altri hanno del suo volto è diversa dall’immagine che ne ha lui. Ma questa diversità è per lui “sconveniente” perché costituisce una correzione in peius della propria sembianza convenuta con se stesso. Esibendo agli altri il naso storto, le sopracciglia circonflesse, le orecchie irregolari, il suo volto lo tradisce, perché lo rappresenta mediante particolari non contemplati nel proprio volto vissuto. E sono proprio quei particolari che gli procurano un riconoscimento inferiore a quello che egli presupponeva di ottenere; in altri termini, lo espongono al disconoscimento altrui. Sicché, la scoperta che gli altri percepiscono nel suo volto difetti che a lui sfuggivano è anche la scoperta di avere un volto inevitabilmente disconoscibile, cioè esposto, nel bene e nel male, nel bello e nel brutto, alla qualificazione connessa con il riconoscimento altrui. La pretesa che gli altri abbiano un’immagine del mio volto – uno “schema” di esso – corrispondente al mio volto vissuto è anche il rifiuto del disconoscimento collegato con la diversità di quell’immagine, specialmente in quanto corretta in peius. Poco dopo la scoperta di avere un volto estraneo, diverso da quello proprio, Moscarda, passeggiando con un amico, “sorprende” per un attimo la propria immagine in uno specchio e si sgomenta al pensiero che deve essere quello – quell’immagine di sé intravista come attraverso lo sguardo d’altri – ciò che gli altri percepiscono di lui: Era proprio la mia quell’immagine percepita in un lampo? Sono proprio così, io, di fuori, quando – vivendo – non mi penso? Dunque per gli altri sono quell’estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già io quale mi conosco: quell’uno lì che io stesso in prima, scorgendolo, non ho riconosciuto11.
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Ivi, p. 815.
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Etica ed estetica del volto
Questo essere esposto o gettato senza ripari né controllo né mediazione alla mercé dello sguardo altrui è una radicale disconoscibilità, tanto radicale quanto intollerabile. Il volto irriconoscibile da se stesso è insieme disconoscibile dagli altri. In fondo, il problema di Moscarda sta nella sua difficoltà ad accettare il fatto che il suo volto possa essere riconosciuto in modo diverso da come lo riconosce egli stesso. Gli sembra che il riconoscimento altrui sia falso, e dunque equivalga a un disconoscimento. Nello stesso tempo, però, si rende conto che anche il proprio riconoscimento di sé è una convenzione sottoscritta con se stesso, e dunque altrettanto falso. Infatti Moscarda non nega, dopo opportuna verifica, che i difetti che gli sono stati segnalati – e di cui non s’era mai accorto – siano reali. Dunque, c’era una deformazione nella propria immagine di sé. A ben vedere, la scoperta che abbiamo di noi un’immagine adattata è più perturbante dell’idea che gli altri avrebbero un’immagine scorretta di noi. Ma poiché la “correzione” ci viene proprio dagli altri, il gioco diventa complesso: siamo indotti dal disconoscimento altrui a rinnegare il nostro autoriconoscimento e a riformare la nostra immagine in modo da renderla meritevole del riconoscimento che vorremmo avere dagli altri. Senonché anche questo riconoscimento è qualcosa che ci figuriamo, e a cui può non corrispondere il riconoscimento reale che ci verrà concesso. È quello che capita a chi interviene – specialmente – sul proprio volto, o con un trucco costante e fortemente “correttivo” o, a un altro livello, con la chirurgia estetica. Il criterio regolatore di questi interventi è di solito un malinteso: chi li compie, infatti, confonde l’immagine – piuttosto precisa – che ha di sé, con l’immagine – necessariamente indeterminata – che gli altri hanno di lui; la correzione viene effettuata in base alla prima, e non ha effetti prevedibili né necessariamente positivi per la seconda. Sicché gli interventi in questione hanno, di solito, l’unico – ma non irrilevante – effetto di mettere chi li compie in pace con se stesso. Ciò elude il problema della disconoscibilità o, quanto meno, lo pone in maniera deviata. Gli interventi sul volto, resi più facili e più sofisticati dal progresso delle tecniche chirurgiche, dai materiali e dalle sostanze disponibili, esaltano il tema già emerso della “plasticità” del volto umano. La chirurgia plastica si esercita su un terreno che è originariamente “plastico”. Ma il bisogno di modificare l’immagine del volto, e il ricorso alle tecniche che lo consentono, pone un problema che bisogna approfondire. La narrazione pirandelliana ha fatto emergere due “figure” ermeneutiche: da una parte il volto proprio o vissuto, vale a dire l’immagine che ho del mio volto, dall’altra il volto che gli altri mi attribuiscono, l’immagine o le immagini che essi si
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M. Manfredi - Il volto disconoscibile
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fanno del mio volto, che possiamo definire il “volto estraneo”. Nel caso di Moscarda, il volto estraneo è l’immagine del volto che gli altri gli rinviano, e nella quale egli si sente disconosciuto. Esso si contrappone al volto proprio, al volto vissuto attraverso l’autoriconoscimento, alla sembianza convenuta con se stesso. Accettare l’esistenza del volto estraneo implica riconoscere la disconoscibilità del proprio volto. Il che significa anche accettare l’idea che il volto è una realtà aperta al mondo, esposta a esso, alle impressioni e alle significazioni che vengono dal mondo. La più visibile vetrina dell’identità personale racchiude simbolicamente le condizioni e le circostanze che fanno dell’identità personale un oggetto disconoscibile. Espressioni come “faccia tosta”, “faccia di bronzo” – oltre quelle già ricordate e altre più colorite – denotano la varietà delle forme in cui il disconoscimento viene esercitato, ma misurano anche la disponibilità a vivere il proprio volto come realtà disconoscibile. Il volto è, nello stesso tempo, il simbolo privilegiato e la prima frontiera della disconoscibilità dell’io. Il “volto estraneo” è qualcosa con cui ci si confronta problematicamente. Esso costringe a ripensare e a riformare l’immagine del “volto vissuto”. Moscarda era abbastanza soddisfatto del suo volto vissuto, che credeva essere il volto tout court. Ma la scoperta di un volto estraneo può mettere in crisi il rapporto con il volto vissuto, rompere l’equilibrio tra l’io e il suo volto, mettere fine alla pacifica accettazione del volto. Nel caso di Moscarda, la scoperta del volto estraneo apre un’interrogazione sull’identità come essere-per-gli-altri e sul suo rapporto con l’identità per sé. In definitiva, il corto circuito tra le due figure mette in crisi la stessa coscienza d’identità. Ma c’è di più: esso fa nascere o porta alla luce una terza “figura”, un risvolto insospettato a cui le manipolazioni “plastiche” consentono di esprimersi come mai era avvenuto prima. Tutto il processo, insomma, può innescare la costituzione di un’immagine del volto desiderato, che non sia né quello vissuto né il volto estraneo, e che verrà figurato come il volto che si vorrebbe avere. Parafrasando un’espressione freudiana riferita ai processi di identificazione e di proiezione, si può dire che, per questa strada, si costituisce qualcosa come un “ideale del volto” (in Freud, «ideale dell’io»12). L’ideale 12
La categoria freudiana è elaborata all’interno della distinzione tra identificazione e idealizzazione o proiezione, «tra il collocare l’oggetto al posto dell’Io e il collocarlo al posto dell’ideale dell’Io». S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, tr. it. di E. A. Panaitescu, alle pp. 257-330 in Opere, vol. 9, Boringhieri, Torino 1977, p. 302. Nel primo caso, si dà la forma dell’identificazione, in cui l’oggetto (l’altro) viene introiettato nell’Io, ne diventa parte costitutiva, lo arricchisce; ciò avviene nei rapporti affettivi che hanno uno sbocco costruttivo e riconoscitivo. Nel secondo caso, si dà la forma dell’idealizzazione: «L’oggetto
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Etica ed estetica del volto
del volto è il volto perfetto che non si ha, e che si vorrebbe avere a partire da un’immagine più o meno riformata del proprio volto; questa immagine, verosimilmente, tende a ricomporsi dopo ogni effettivo intervento di modifica, proponendo una nuova idealizzazione. La società dell’apparire favorisce la riproduzione continua dell’ideale del volto – come del corpo in generale – perché fonda su di esso il mercato della bellezza artificiale, dalla cosmetica alla chirurgia. Essa propone modelli in cui proiettarsi e, contestualmente, propone alla ben coltivata credulità di massa tecniche a pagamento per avvicinarsi all’ideale13. Ma ciò che rende possibile una psicologia proiettiva come quella dell’ideale del volto, è l’idea molto più estensiva secondo la quale l’uomo è diventato capace di plasmare se stesso, grazie a tecniche di manipolazione che non erano mai state prima disponibili. Per usare termini jonasiani, l’homo faber della scienza e dell’industria moderna – il cui ideale risale però al Rinascimento – è ormai artifex della propria natura; nello stesso tempo, dunque, esso è homo materia, oggetto di trasformazioni tecnicamente praticabili.
3. Maschere sovrapposte La “Figura con tre volti” di origine teotihuacana (cultura pre-azteca, datazione incerta) è un’allegoria di terracotta che contiene un’inesauribile varietà di significati. Analoga a molte narrazioni figurative del ciclo della vita, è però unica nella struttura. La figura si compone di tre volti sovrapposti. Nella parte interna c’è il volto “originario”, quello giovane, dalla pelle distesa e dallo sguardo vivo. Dei tre volti rappresentati questo è l’unico integro, l’unico che mantenga la continuità della fisionomia. Che nella stratificazione rappresentativa, questo volto originario sia quello giovanile, è una particolarità empirica14: avrebbe potuto essere, indifferentemente, quella di un neonato o di un bambino, e non sarebbe stata diversa
13 14
viene amato a causa delle perfezioni cui abbiamo mirato per il nostro Io e che ora, per questa via indiretta, desideriamo procurarci per soddisfare il nostro narcisismo» (ivi, p. 300): è il caso della «fascinazione o soggezione amorosa», in cui «l’oggetto si è messo al posto dell’ideale dell’Io» (ivi, p. 301), e che mette capo all’atteggiamento di ammirazione e sottomissione nei confronti del capo o del personaggio famoso, che viene idolatrato (ivi, p. 308). V. in proposito il saggio della psicoterapeuta americana Susie Orbach, Corpi, tr. it. di D. Fassio, Codice Edizioni, Torino 2010. Potrebbe non esserlo in senso culturale, cioè nel caso in cui in quella cultura, poniamo, l’età infantile – che non è rappresentata – avesse meno valore delle altre età della vita; ma ciò è irrilevante dal punto di vista della nostra analisi.
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l’idea che regge la costruzione: quella di una successione-inclusione delle fisionomie in corrispondenza delle diverse età della vita. Il secondo volto è, infatti, quello rugoso e sdentato di un uomo anziano, anzi dello stesso uomo divenuto anziano. Il progetto di rappresentare diversi stati successivi avrebbe richiesto l’uso di una molteplicità di oggetti, su ognuno dei quali raffigurare una sola età; per di più questa molteplicità avrebbe fatto perdere l’idea dell’inclusione. Le diverse età della vita, le diverse fisionomie e, in ultima analisi, le diverse corrispondenti identità si sarebbero disposte in una mera successione empirica, da contemplare l’una dopo l’altra. Che ne sarebbe stato dell’idea – squisitamente dialettica – secondo la quale ogni stato nega e supera i precedenti, e tuttavia li conserva e contiene in sé? Come raccogliere la molteplicità, la successione e l’inclusione in un unico oggetto? L’artista ha risolto il problema con un’intuizione tecnica di tridimensionalità: il secondo volto si divide a metà e ciascuno dei due semivolti si colloca su un lato del volto originario, come se si aprisse su di esso e lo svelasse. Esso infatti lo contiene, lo racchiude in sé, proprio come, nelle fasi della vita, l’età matura contiene in sé – supera e nasconde – l’età giovanile. I due semivolti dischiudono e lasciano vedere il volto originario. Il volto di ciascuno può sempre riaprirsi e disoccultare le fisionomie precedenti, per quanto altre e negate nel superamento. La sovrapposizione dei volti simbolizza il carattere “archeologico” dell’identità personale: essa è un oggetto multiplo, evolutivo e stratificato, nella cui storia si può scavare, alla ricerca di ciò che è stato, nello stesso tempo, tolto e mantenuto, mutato e conservato. Il terzo volto è quello del cadavere, i cui semivolti si aprono ai lati dei semivolti sottostanti, con gli occhi chiusi e un’espressività statica. Se immaginiamo di chiudere entrambe le coppie di semivolti l’una dopo l’altra, la coppia sottostante (il secondo volto) dovrà necessariamente precedere l’altra: la maschera mortuaria sarà l’ultima a chiudersi, anche se immaginiamo – come è possibile – che le maschere intermedie tra quella originaria e quella mortuaria siano più di una, in rappresentanza di altre fasi – intermedie – della vita. In virtù di questa struttura composita, la figura è un discorso sulla storicità dell’identità e sulla necessità di attraversarla per conoscerla, di percorrerla nel suo spessore stratificato. Come Giano bifronte, la figura teotihuacana è perturbante. Infatti, per consentire l’identificazione, il volto ha da essere uno solo; la non unicità del volto disorienta l’identificazione. Nel caso di Giano, la molteplicità è sincronica, orizzontale, e sollecita le domande: i due volti sono eguali? Se sono eguali, perché sono due? Che cosa, nel loro essere identici, identificano disegualmente? E se non sono eguali, a quale diversità d’identità
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Etica ed estetica del volto
rinviano? È soddisfacente l’interpretazione secondo la quale uno dei volti guarda al passato e l’altro al futuro? Ed è plausibile pensare a un simbolo di ambiguità, una sorta di archetipo della “doppia faccia”? Nel caso della figura teotihuacana, la molteplicità è diacronica, verticale, ed è certamente più intuitiva. Tuttavia, essa sollecita la domanda sulla vera diversità, sulla reale distanza tra le identità che si succedono nel tempo e che si chiudono l’una sull’altra. La figura, infatti, mette in scena l’atto di riaprire – una volta che la morte abbia fissato l’ultima sembianza – ogni fisionomia sulla precedente, di riepilogare le identità vissute e sommerse. Ogni volto ricopre e si mette al posto del precedente, dunque è una maschera rispetto a esso. Il tutto appare come un sistema di maschere sovrapposte. Ma è esattamente il recupero contemporaneo di tutte le identità trascorse che disorienta l’identificazione. Attraverso quale di quei volti identificare quell’uomo? Quale di essi meglio gli corrisponde? La domanda è mal posta, e se continuiamo a porla è perché continuiamo a coltivare un’idea sostanzialista e fissista dell’identità personale. È implicita in quest’idea che vi sia qualcosa come la “verità” dell’identità, e che si possa portarla alla luce attraverso un’opportuna e corretta indagine. La figura delude questa attesa e sembra piuttosto rinviare a un gioco interno di riconoscimenti e disconoscimenti. Che cosa infatti qualifica un volto come il portatore autentico
Figura con tre volti, circa 250-700 d. C., terracotta dipinta
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dell’identità, se ce ne sono altri che lo negano e sembrano detenere lo stesso legittimo titolo e avanzare la stessa pretesa? Quale età della vita meglio rappresenta ciò che quell’uomo è stato? Quale “fotografia” meglio correderà l’epitaffio, dal momento che ciascuna rappresenta una e una sola etàidentità? Infatti, la figura sovrastava probabilmente un’urna funeraria e, in questo senso, dà una risposta brillante all’ultimo interrogativo, rendendo giustizia alla molteplicità delle fisionomie che quell’uomo ha rivestito nel corso della sua vita e alle diverse corrispondenti identità. Il disorientamento che la figura provoca può dunque risolversi se si accetta l’idea che ogni volto, nell’aprirsi sul precedente e nel disvelarlo, simbolizza la negazione-inclusione delle fisionomie e delle identità. È vero che l’ultima identificazione è quella che vale, che il volto mi rappresenta per quello che sono nell’attualità come se questa immagine riflettesse quello che sono tout court. Ma è anche vero che nel momento dell’estremo disconoscimento – quello della morte – a cui non ne seguiranno altri, le fisionomie si aprono le une sulle altre, come per un riepilogo, a simbolizzare il fatto che ogni età, ogni identità, ogni volto ha disconosciuto i precedenti, coprendoli e trasfigurandoli, ma li ha, tuttavia, mantenuti in sé, oggetti perspicui per uno sguardo sufficientemente profondo.
4. Il volto molteplice La figura teotihuacana propone una molteplicità del volto come successione che, però, è anche un’unità. La dialettica riconoscimento-disconoscimento è inerente alla struttura stratificata della figura, al gioco di apertura e chiusura dei volti, al mascheramento e al disvelamento. Un celebre dipinto di Tiziano ci propone un’altra versione della molteplicità, grazie a una diversa composizione figurativa. L’Allegoria della prudenza presenta un vultus trifrons, che riprende il ciclo della vita (un giovane, un uomo maturo, un anziano) e rinvia insieme alle tre dimensioni del tempo, e a corrispondenti propensioni psicologiche e morali. Il dipinto, infatti, è corredato da un’iscrizione (titulus) che ne enuncia il significato in rapporto alla virtù della prudenza: «Ex preterito praesens prvdenter agit ni fvtvra actione detvrpet» («In base all’esperienza del passato, il presente agisce prudentemente per non rovinare l’azione futura»). Nell’interpretazione che ne dà Panofsky, possiamo quindi capire che i tre volti, oltre a tipizzare le tre età della vita umana (giovinezza, maturità, vecchiaia), vogliono simboleggiare i tre modi o
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Etica ed estetica del volto
forme del tempo in generale: passato, presente e futuro. Inoltre ci viene chiesto di mettere in rapporto questi tre modi o forme del tempo con l’idea della prudenza o, più in particolare, con le tre facoltà psicologiche nel cui combinato esercizio consiste questa virtù: la memoria, che ricorda il passato e da esso impara; l’intelligenza, che giudica del presente e agisce in esso; la previsione, che anticipa il futuro e provvede per o contro di esso15.
Diversamente da quanto avviene nella figura teotihuacana, i tre volti non si sovrappongono, ma si giustappongono, in una posizione per la quale quello centrale è in rapporto di contiguità con gli altri due, mentre questi (il giovane e il vecchio) – se si astrae dall’altro – condividono una posizione di bifrontismo16. In realtà, il volto dell’uomo maturo è la chiave della figurazione. È il presente che giudica, decide, agisce, insomma vive. Da esso dipendono il valore attribuito al passato e la direzione che prenderà il futuro.
Tiziano, Allegoria della prudenza, 1570
15 16
E. Panofsky, Il significato nelle arti visive, tr. it. di R. Federici, Einaudi, Torino 1996, p. 152. Il mostro tricefalo che occupa la parte inferiore del dipinto ha ascendenze ed esprime significati di rinforzo dell’allegoria che esulano dal nostro discorso e per i quali rinviamo al saggio di Panofsky, pp. 154-165.
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M. Manfredi - Il volto disconoscibile
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Se – come dice Panofsky – ogni volto è simbolo di una dimensione del tempo e di una facoltà psichica (con connesse disposizioni pratiche), ogni volto è in un rapporto di coesistenza categoriale con gli altri due. È proprio la prudenza il fattore unitario della molteplicità rappresentata dal trifrontismo. E finché i simboli hanno questi referenti, la figurazione resta unitaria, anche se dinamica. Ma se introduciamo nella simbolizzazione un elemento identitario – e quindi di riconoscimento-disconoscimento – i significati cambiano, e cambia la dinamica dei rapporti tra i volti. Se i volti sono intesi come identità (come nella figura teotihuacana), la simbologia biografica (le età della vita) prevale su quella cronologica (i momenti del tempo). Il vecchio, che nella simbologia temporale è il passato, nella simbologia identitaria ha un passato, e il suo passato è simbolizzato dal volto del giovane e da quello dell’uomo maturo: così il giovane, che nella prima simbologia è il futuro, nella seconda ha un futuro, simbolizzato dagli altri due volti, in quanto rappresentano quello che sarà. E ciò vale naturalmente anche per l’uomo maturo, per il quale il volto giovane rappresenta il passato e quello vecchio il futuro. La simbologia identitaria, infatti, capovolge quella temporale mediante quello che si può definire il “segno” che ciascun volto assume. Il giovane diventa, per le altre due identità, il passato, ciò che esse sono state; il vecchio diventa, per le altre due identità, il futuro, ciò che esse saranno. È esattamente in questo punto che s’innesta la dialettica riconoscitivo-disconoscitiva della figurazione. Nel trifrontismo – come nel bifrontismo – i volti non si guardano tra di loro, e guardano in direzioni diverse. Nell’Allegoria di Tiziano non c’è nulla della sofferta implicazione reciproca dei volti della figura teotihuacana. Questi volti sembrano escludersi, ognuno di essi indifferente agli altri; sembrano non riconoscersi e nutrire, ciascuno, una propria orgogliosa autonomia. La simbologia identitaria resta dimessa e irrisolta rispetto alla più forte simbologia temporale. È come se ciascuno sapesse di avere – nel proprio destino – un rapporto con gli altri (ciò che è stato, ciò che sarà), ma ciò non assume un valore costitutivo dell’identità. Ciò che conta, infatti, non è l’identità, ma la qualità saggiamente morale della prudenza, che s’incarna nella figura-chiave, quella dell’uomo maturo, rappresentata frontalmente. Egli ha uno sguardo intermedio, equilibrato, mentre gli altri volti, colti di profilo, guardano in direzioni opposte, che si escludono a vicenda. Il giovane e il vecchio si disconoscono, l’uomo maturo, in un certo senso, li tiene insieme. Una simbologia morale sembra recuperare, a un livello superiore, la sintesi che la simbologia temporale e quella identitaria stentano a realizzare.
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Etica ed estetica del volto
Resta il fatto – indiscutibile nell’Allegoria – che, in quanto la temporalità è costitutiva dell’identità, l’identità è molteplice: il trifrontismo rende l’idea. La rende in maniera, per così dire, implicita, mirando ad altro, poiché il proposito diretto è quello di figurare la prudenza come “poli-ottica”, capace di guardare in diverse direzioni. La domanda centrale non è dunque se i tre volti si riconoscano o si disconoscano; tuttavia, la loro stessa molteplicità e la loro unità nella virtù rendono ineludibile un’interrogazione sul reciproco riconoscersi o disconoscersi, come sempre avviene quando l’identità si scopre evolutiva, cangiante, intrisa di tempo. C’è un modo più radicale di concepire la molteplicità del volto, senza legarla al ciclo della vita e alla successione delle età? Forse sì, ed è l’idea che il volto sia “esistenzialmente” molteplice, e che la molteplicità sia sincronicamente inerente alla sua natura, costitutiva di essa. Se ne trova espressione in un brano di Rilke, che rappresenta il volto come qualcosa che si indossa e si smette, si consuma e si sostituisce; come i vestiti, i volti si possono cambiare spesso oppure se ne può portare uno solo per molto tempo: C’è un’infinità di uomini, ma i volti sono ancor più numerosi poiché ciascuno ne ha più d’uno. Vi sono persone che portano un volto per anni, naturalmente si logora, diviene laido, si piega nelle rughe, si sforma come i guanti portati in viaggio. Queste sono persone econome, semplici; non mutano di volto, non lo fanno pulire neppure una volta. Va bene così, sostengono, e chi gli può dimostrare il contrario? Solo, viene da chiedersi: poiché hanno più volti, cosa ne fanno degli altri? Li mettono in serbo. Li porteranno i loro figli. Capita anche, però, che li portino i loro cani. E perché no? Una faccia è una faccia17.
Il paradosso può prestarsi a interpretare l’espressione “avere una sola faccia”, che di solito viene usata per rivendicare un’attitudine autentica e scevra da ipocrisie e doppiezze. Ma è chiaro che in Rilke c’è molto di più, come denota il fatto che quest’unico volto si consuma e si sporca, che i volti risparmiati possono essere trasmessi ai figli, che i cani possono portare i volti avanzati ai padroni. I sensi della metafora possono essere moltiplicati, ma resta un interrogativo: è necessaria la molteplicità dei volti? E quali conseguenze produce? Altri, si mettono un volto dopo l’altro con rapidità inquietante, e li logorano. A tutta prima sembra loro di averne per sempre; ma sono appena sui quaranta, e già arriva l’ultimo. Questo naturalmente è una tragedia18. 17 18
R. M. Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, tr. it. di F. Jesi, Garzanti, Milano 2010, p. 3. Ibidem.
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M. Manfredi - Il volto disconoscibile
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Dunque, se portare un solo volto può esporre al disconoscimento, poiché esso diviene, con il tempo, logoro e dimesso, cambiare di volto troppo spesso è ancora più pericoloso. Il consumismo dei volti non è meno logorante, e porta al rapido esaurimento delle scorte, a non avere più volti di ricambio: Non sono abituati a tener da conto i volti, il loro ultimo se ne va in otto giorni, ha dei buchi, in molti punti è sottile come la carta, e allora a poco a poco viene fuori il rovescio, il nonvolto, e vanno in giro con esso19.
Quando non c’è più un volto, ma solo il suo rovescio, il volto disconoscibile diventa un volto irriconoscibile, e perciò disconosciuto: presumibilmente, chi va in giro con un nonvolto è nessuno. La morale del paradosso può essere che la molteplicità del volto – suo carattere necessario – va gestita in maniera da essere praticata né troppo poco né troppo, poiché in entrambi questi eccessi si realizzano le condizioni del disconoscimento. Nello stesso tempo, il volto molteplice è il volto disconoscibile per eccellenza, esposto al mondo, messo alla mercé delle vicende che impongono la molteplicità e, insieme, intrinsecamente falso proprio in virtù del suo non essere unico. Verità e molteplicità del volto si negano vicendevolmente.
5. Rappresentante dell’io Il volto disconoscibile non nega e non rifiuta la molteplicità, riflesso fisionomico della pluralità dell’io. Ma per esporsi al disconoscimento d’altri, a cui è connesso il rischio di “perdere la faccia”, il volto ha bisogno anzitutto di essere riconosciuto. Come lo sarà? Secondo quale immagine? La dialettica del “volto proprio” e del “volto estraneo” – s’è visto – non mette capo a una mediazione, ma a una proiezione, quella dell’“ideale del volto”. Nella realtà, il gioco si svolge più in basso, poiché si mette in questione il volto disponibile, non quello desiderato. Non possiamo più eludere, a questo punto, un passaggio essenziale, al quale ci ha introdotti il paradosso di Rilke: dal volto come sembianza o fisionomia al volto come “rappresentante dell’io”. Distinzione incongruente e inesatta, perché le due realtà si implicano, e perché il volto non è l’unica parte del corpo a rappresentare l’io; tuttavia utile, se si vuole approfondire il modo in cui, attraverso il volto, si gestiscono riconoscimento e disconoscimento. 19
Ivi, pp. 3-4.
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Etica ed estetica del volto
Che ciascuno possa indossare, smettere e sostituire il volto, avendone molti a disposizione, naturalmente fa pensare alle maschere. La maschera reale, tuttavia, può anche servire solo per rendersi irriconoscibile: indosso una maschera non perché voglio fingermi un altro, ma per assumere una sembianza qualsiasi, poiché il vero scopo è la copertura del volto. La quale – almeno nel mondo occidentale – è inquietante in sé: chi non si fa riconoscere è pericoloso e va tenuto sotto controllo20. Al contrario, la maschera metaforica, il volto-maschera è sempre riconoscibile in qualche modo, perché non cessa mai di essere volto; per la stessa ragione è sempre disconoscibile. Il disconoscimento stesso è una specie di smascheramento; ma ciò che si trova sotto la maschera è un’altra maschera. La suggestione della “prosopolepsia” evangelica, l’appello a non farsi fuorviare dall’“inganno della maschera”, e a trattare gli uomini per quello che sono nella sostanza, coltiva l’idea che nella maschera si possano relegare le apparenze, ciò che è accidentale, e che si possa così isolare e privilegiare ciò che è profondo e reale. Jankélévitch ha illustrato così questo rapporto tra umanità-essenza (profonda) e mascheraapparenza (superficiale): Il profeta Isaia dice che Dio non discrimina gli stranieri: giacché non ci sono stranieri. Il Nuovo Testamento esprimerà un’idea analoga servendosi della parola greca προσ πολη ία; la prosopolessia è l’inganno che consiste nel dare importanza alla maschera (πρόσ πον), nel prendere in considerazione l’aspetto e il colore della pelle, in altre parole il personaggio. Prosopon è insomma un’apparenza superficiale. Di ciò che è inessenziale e accidentale, di ciò che è smorfia o appartenenza “aggettivale”, Dio non tiene conto: Dio tiene conto soltanto dell’essenza, dell’umanità dell’uomo, senza considerare la pigmentazione della sua pelle o la forma del suo naso. Essendo al di sopra di ogni piccineria, di ogni prosopolessia, Egli considera la sostanza e non gli epiteti più o meno pittoreschi e folcloristici21.
Al contrario, Nietzsche ha messo la maschera in relazione con la profondità e l’autenticità, liberandola in un certo senso dalla complicità con la finzione, l’apparenza e la malizia: «Tutto ciò che è profondo ama la maschera»; «Non sono le cose peggiori quelle di cui ci si vergogna nel peggior
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Di qui, nei Paesi occidentali, il problema dell’atteggiamento da assumere verso le donne musulmane che indossano il “niqab” o il “burqa”. I divieti e le denunce sono in genere giustificati con motivi di sicurezza. V. Jankélévitch, Il paradosso della morale, tr. it. di R. Guarini, hopefulmonster, Firenze 1986, pp. 58.
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M. Manfredi - Il volto disconoscibile
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modo: dietro una maschera non c’è soltanto fraudolenza – c’è molta bontà nell’astuzia»22. Un uomo che nutre pudore e riservatezza, […] che istintivamente si serve delle parole per tacere e per celare ed è inesauribile nello sfuggire alla comunicazione, vuole ed esige che al suo posto erri nei cuori e nelle menti dei suoi amici una sua maschera […]. Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e più ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera, grazie alla costantemente falsa, cioè superficiale interpretazione di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vita che egli dà23.
Di fatto, tutti i volti fanno ricorso alla maschera, con variabile coscienza di realtà. Se il volto è il rappresentante dell’io, la maschera è la rappresentante del volto, sia pure in un senso diverso. La maschera è il volto che presentiamo agli altri, di volta in volta, secondo l’idea che ci siamo fatta del volto che gli altri si aspettano di vedere o è opportuno che vedano, o secondo l’ideale del volto che vogliamo simulare di aver conseguito. La maschera è il volto che accettiamo di rendere disconoscibile, quello che apparecchiamo per reggere i confronti con il mondo, per attutire gli attacchi del mondo. In ciò, acquista nuovo significato l’allegoria rilkiana sul consumo dei volti: il volto è la successione delle maschere, il loro insieme, e tra maschera e volto non c’è nessuna differenza. Mettersi una maschera non è che un modo di proporre il volto, così come mostrare il volto non è che un modo per esibire una maschera. La maschera insomma non è un modo in cui il volto usurpa un riconoscimento che non gli compete o si mette al riparo da qualche disconoscimento, ma è il volto stesso in quanto originariamente disconoscibile. Quello tra volto e maschera non è un rapporto tra essere e apparire, ma tra diversi modi di essere.
6. Bibliografia Giuseppe Caporale, Sottovalutarono il pericolo-terremoto, «la Repubblica», 4 giugno 2010, p. 4. Charles Darwin, The Expression of the Emotions in Man and Animals, Murray, London 1872; alle pp. 111-420 in L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali. Due taccuini. Profilo d’un bambino, tr. it. di F. Bianchi Bandinelli, Boringhieri, Torino 1982. 22 23
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, tr. it. di F. Masini, in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI, tomo II, Adelphi, Milano 1968, p. 46. Ivi, pp. 46-47.
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Etica ed estetica del volto
Sigmund Freud, Massenpsychologie und Ich-Analyse, Internationaliter psycoanalytischer Verlag, Leipzig-Wien-Zürig 1921; Psicologia delle masse e analisi dell’Io, tr. it. di E. A. Panaitescu, alle pp. 257-330 in Opere, vol. 9, Boringhieri, Torino 1977. Vladimir Jankélévitch, Le paradoxe de la morale, Editions du Seuil, Paris 1981; tr. it. e pref. di R. Guarini, Il paradosso della morale, hopefulmonster, Firenze 1986. Hans Jonas, Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik für die technologische Zivilisation, Insel Verlag, Frankfurt am Main 1979; Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, tr. it. di P. Rinaudo, Einaudi, Torino 1990. Friedrich Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse, Vorspiel einer Philosophie der Zukunft (1886), in Nietzsche-Werke: kritische Gasamtausgabe, hrsg. von G. Colli und M. Montinari, Walter de Gruyten, Berlin 1967 e sgg., Abt. VI, Bd. II, 1972; Al di là del bene e del male, tr. it. di F. Masini, in Opere di Friedrich Nietzsche, ed. diretta da G. Colli e M. Montanari, Adelphi, Milano 1964 e sgg., vol. VI, tomo II, 1968. Susie Orbach, Bodies, Picador, London 2009; Corpi, tr. it. di D. Fassio, Codice Edizioni, Torino 2010. Erwin Panofsky, Meaning in the Visual Arts. Papers in and on Art History, Garden City, New York 1955; Il significato nelle arti visive, tr. it. di R. Federici, Einaudi, Torino 1996. Giovanni Pico della Mirandola, De hominis dignitate (1486), tr. it. di E. Garin, De hominis dignitate. Eptaplus. De ente et uno e scritti vari, Vallecchi, Firenze 1942. Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila (1925-26), in Id., Tutti i romanzi, Newton Compton, Roma 1994, pp. 810-891. Platone, Simposio, tr. it. di G. Reale, alle pp. 481-534 in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1991. Rainer Maria Rilke, Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge, 1910; I quaderni di Malte Laurids Brigge, tr. it. di F. Jesi, Garzanti, Milano 2010.
7. Elenco delle illustrazioni Figura con tre volti, circa 250-700 d. C., terracotta dipinta. Tiziano, Allegoria della prudenza, 1570.
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POTERE
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ALBERTO ALTAMURA
VOLTO DEL POTERE/VOLTI DELLA POTENZA
…se l’uomo ha un destino, sarà di sfuggire al viso, disfare il viso e le sue viseificazioni, divenire impercettibile, divenire clandestino… G. Deleuze - F. Guattari, Millepiani
1. «Le visage est une politique»1 28 novembre 1947. Come farsi un corpo senza organi? Il giorno in cui Artaud conclude la registrazione di Per farla finita con il giudizio di dio è assunto da Deleuze e Guattari come l’inizio di qualcosa di infinitamente più grande di una sperimentazione radiofonica, come una vera e propria sperimentazione biologica e politica, destinata ad attrarre su di sé censura e repressione, perché pronta a dichiarare guerra all’“organismo”, alla sua funzione di organizzatore degli organi, volta a imprigionare il corpo, costringendolo in «forme, funzioni, collegamenti, organizzazioni dominanti e gerarchizzate, trascendenze organizzate per estrarne un lavoro utile»2. Pur imponendosi sul corpo con il suo aut-aut fondamentale: «sarai organizzato, sarai un organismo, articolerai il tuo corpo – altrimenti non sarai che un depravato», la stratificazione “organismo” non agisce, tuttavia, da sola. Accanto ad essa operano le stratificazioni “significanza” e “soggettivazione”, anch’esse con i loro tremendi aut-aut: «Sarai significante e significato, interprete e interpretato – altrimenti non sarai che un deviante. Sarai un soggetto, e fissato come tale, soggetto d’enunciazione ripiegato sopra un soggetto d’enunciato – altrimenti non sarai che un vagabondo»3. 1 2 3
G. Deleuze - F. Guattari, Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Les Editions de Minuit, Paris 1980, p. 222. Id., Come farsi un corpo senza organi? - Millepiani. Capitalismo e schizofrenia. Sez. II, tr. it. di G. Passerone, Castelvecchi, Roma 1996, pp. 19-20. Ivi, pp. 20-21.
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Etica ed estetica del volto
In questo contesto di argomentazione, è il volto (visage) a consentire alla testa (tête) di passare dallo strato dell’organismo, umano o animale, agli strati della significanza e della soggettivazione. Siamo così condotti a distinguere fra la testa, che è compresa nel corpo, e il volto, che «si produce soltanto quando la testa cessa di far parte del corpo, quando non viene più codificata dal corpo». La testa e l’intero corpo diventano viso, sono viseificati (visagéifiés)4. Il viso gioca un ruolo decisivo come «Icona propria del regime significante», perché il linguaggio è «sempre accompagnato da tratti di viseità (visagéité)». Il viso domina, infatti, l’emissione e la ricezione dei segni significanti: «Il viso fornisce la sostanza del significante, dà da interpretare, e poi cambia, i suoi tratti cambiano, quando l’interpretazione restituisce del significante alla sua sostanza. Guarda ha cambiato viso. Il significante è sempre viseificato (visagéifié)»5. Il viso può, quindi, essere definito un «vero portavoce» (un véritable porte-voix), poiché una lingua deve necessariamente rimandare a dei volti che ne «annunciano gli enunciati, che li fissano ai significanti in corso e ai soggetti in gioco»6. Dal momento che la “significanza” e la “soggettivazione” sono imposti da concatenamenti di potere, sicché «non c’è significanza senza un concatenamento dispotico, non c’è soggettivazione senza un concatenamento autoritario»7, si deve riconoscere che «il viso è una politica»8: Non affermiamo certo che il viso, la potenza del viso (la puissance du visage), generi il potere (pouvoir) e lo spieghi. In compenso, alcuni concatenamenti (agencements) di potere hanno bisogno della produzione di viso, altri no.9
Affermare l’esistenza di un legame tra potere e viseità non significa, quindi, sostenere che da questa scaturisca quello, cioè che il potere promani dall’imporsi di un volto. Rispetto ad una prospettiva così banale e banalizzante, ci si deve sforzare di cogliere il posto che la viseità occupa negli apparati di potere, anche partendo da quelli che in Millepiani vengono indicati come degli esempi semplici: 4 5 6 7 8 9
Ivi. p. 37. Cfr. G. Deleuze - F. Guattari, Rizoma. Millepiani. Capitalismo e schizofrenia. Sez. I, tr. it. di G. Passerone, Castelvecchi, Roma 1996, p. 205. Id., Come farsi un corpo senza organi?, cit, p. 51. Ivi, p. 53. Ivi, p. 55. Ivi, p. 45.
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A. Altamura - Volto del potere/volti della potenza
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[...] il potere materno che passa per il viso, durante il corso stesso dell’allattamento; il potere passionale che passa per il viso dell’amato, anche nelle carezze; il potere politico che passa per il viso dei capi, banderuole, icone e fotografie, anche nelle azioni di massa; il potere del cinema che passa per il viso della star e il primo piano; il potere della televisione…10.
Questi esempi servono a sottolineare che ciò che conta non è l’individualità del viso (materno, amato, politico, cinematografico, televisivo, ecc.), ma «l’efficacia della cifratura che esso permette di operare»11. Piuttosto che possedere la forma di un viso, quindi, sarebbe più corretto riconoscere che la si prende, come risulta evidente se ci si sofferma sulla sua funzione di bi-univocizzazione e di binarizzazione. La produzione sociale di viso, che Deleuze e Guattari chiamano «macchina di viseità», costituisce, infatti, il viso sempre in relazione biunivoca con un altro: «è un uomo o una donna, un ricco o un povero, un adulto o un bambino, un capo o un suddito, “un X o un Y”». Queste relazioni possono poi articolarsi in altre dicotomie: «viso di maestra e di allievo, di padre e di figlio, di operaio e di padrone, di poliziotto e di cittadino, d’imputato e di giudice». Il passo successivo della macchina di viseità rinvia a relazioni binarie di accettazione/rifiuto. Se «il viso di quella maestra è alterato da tic e si copre d’ansia a tal punto che “non va proprio più”», allora deve essere rifiutato, perché non è più conforme, ma deve subito essere inscritto in una nuova forma di viso: «la maestra è diventata pazza; ma la follia è un viso conforme di ennesima scelta (non l’ultima, tuttavia, poiché vi sono ancora volti di folli non conformi alla follia quale si suppone che debba essere)»12. La maestra, nell’esempio specifico, deve essere in ogni caso riconosciuta, la macchina di viseità deve inscriverla in un quadrillage. Non a caso, una delle modalità più significative del funzionamento della macchina di viseità viene individuata nel razzismo: Il razzismo procede per determinazione di scarti di devianza, in funzione del viso Uomo bianco che pretende di integrare in onde sempre più eccentriche e tardive i tratti non conformi, a volte per tollerarli in un certo posto e a certe condizioni, in un certo ghetto, a volte per annientarli sul muro che non sopporta mai l’alterità (è un ebreo, è un arabo, è un negro, è un pazzo… ecc.)13.
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Ibidem (corsivo mio). Ibidem. Ivi, pp. 48-49. Ivi, p. 49.
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Etica ed estetica del volto
Il razzismo, quindi, non opera per produrre esclusione o discriminazione di un Altro, anzi «non individua mai le particelle dell’altro e propaga le onde dello stesso fino alla estinzione di ciò che non si lascia identificare». Non riconoscendo un esterno o un “di fuori” (du dehors), ma «soltanto gente che dovrebbe essere come noi e il cui crimine è di non esserlo»14, il razzismo di cui qui si tratta non è semplicemente riconducibile alle forme storiche fino ad oggi conosciute, che apparirebbero ormai quasi folkloristiche, ma si presenta come espressione massima di quei dispotici e autoritari concatenamenti di potere, che mirano a cancellare sostanze d’espressione eterogenee, allo scopo di sostenere la necessità di «un’unica sostanza d’espressione come condizione di ogni traducibilità». Siamo, cioè, in presenza di concatenamenti di potere che, per proteggersi dalla minaccia di un “di fuori”, si impegnano per far sì che «il di fuori smetta di esistere»15. È possibile sottrarsi a questi concatenamenti di potere e alla loro produzione di viso? In Millepiani si evidenzia con forza che la viseità appartiene a certe semiotiche del potere, mentre esistono concatenamenti di potere che non hanno alcun bisogno di produzione di viso. L’esempio portato è quello delle società primitive, nelle quali il potere dello sciamano, del guerriero e del cacciatore, piuttosto che attraverso la costituzione del viso, passa attraverso la corporeità, l’animalità, la vegetalità: «I “primitivi” possono avere le teste più umane, più belle e più spirituali e, tuttavia, non hanno viso e non ne hanno bisogno»16. La liberazione dalle semiotiche significanti e soggettive, tuttavia, non può passare attraverso una regressione a quelle presignificanti e presoggettive dei primitivi, perché «non potremmo mai rifarci una testa e un corpo primitivi, una testa umana, spirituale e senza volto»17. Si tratterà, invece, di “disfare il viso”, cioè di sottrarre i tratti di viseità all’organizzazione del viso e, quindi, alla loro subordinazione al viso: «se l’uomo ha un destino, sarà di sfuggire al viso, disfare il viso e le sue viseificazioni, divenire impercettibile, divenire clandestino».18 Anche questa sarà una politica: «se il viso è una politica, lo è anche il disfare il viso: una politica che impegna i divenire reali, tutto un divenire-clandestino»19.
14 15 16 17 18 19
Ivi, pp. 49-50. Ivi, p. 51. Ivi, p. 47. Ivi, p. 65. Ivi, p. 38. Ivi, p. 64.
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A. Altamura - Volto del potere/volti della potenza
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Ricorrendo ad un importante aspetto della riflessione sul potere condotta da Negri, nel “fare il viso” vedremo all’opera la politica del potere costituito, mentre nel “disfare il viso” quella del potere costituente.
2. Potere costituito e potere costituente Il pensiero giuridico attribuisce al potere costituente la funzione fondatrice di un nuovo ordinamento giuridico. Tentando di ricavare da quella tradizione di pensiero una possibile definizione generale, si potrebbe presentare il potere costituente come la fonte da cui scaturiscono le norme costituzionali, cioè come il potere di fare una costituzione, dettando le norme fondamentali che organizzano i poteri dello Stato. Più che su questa definizione generale, Negri si concentra su quella offerta da Émile Boutmy, secondo la quale il potere costituente è «un atto imperativo della nazione che sorge dal nulla ed organizza la gerarchia dei poteri»20, e ci invita a considerare, proprio contro l’estremo paradosso presente in questa definizione, che in un potere sorto dal nulla coglie la fonte organizzatrice di tutto il diritto, quanto la scienza giuridica abbia impegnato il proprio potentissimo armamentario teorico, facendo sforzi teorici immani, per costringere il potere costituente in un orizzonte temporale limitato, per presentarlo come un evento straordinario, per ricondurlo alla prassi amministrativa, per soffocarlo nel concetto di nazione e per legarlo intimamente al potere costituito21. A Negri ovviamente non sfugge che in epoca moderna il potere costituente sia stato a fondamento del concetto di sovranità e, in particolare, non sfugge che questo concetto di sovranità, allora declinato come sovranità nazionale, oggi sia completamente modificato dall’affermarsi di una sovranità globale. Gli sta a cuore, però, confermare la figura ontologica del potere costituente, riconoscendola, «sia pure come annuncio (ma è un annuncio fortissimo), nelle forme di lotta sovversiva e nei dispositivi di mutazione rivoluzionaria dell’essere nuovo del soggetto»22. Lotte e mutazioni, 20 21
22
A. Negri, Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, manifestolibri, Roma 2002, p. 12. In questa prospettiva, pur seguendo ordini di considerazioni diversi, vengono collocati anche Balibar, che vede nel potere costituente una «capacità reale di porre diritto, di concludersi in esso, pur rivoluzionandolo», e Agamben, che lo ritiene «formalmente incluso nel potere costituito, nella sovranità, nella tradizione politica del moderno» (ivi, p. 8). Ivi, p. 9.
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Etica ed estetica del volto
oltrepassando le modalità in cui il potere costituente si era articolato nella modernità, si posizionano sul livello di confronto proprio della sovranità globale (e/o imperiale). Come fonte e soggetto di produzione delle norme costituzionali di ogni ordinamento giuridico, il potere costituente viene letto come l’espressione più forte di una politica democratica; regolamentarlo e controllarlo diventano, quindi, gli obiettivi reali di tutte le operazioni giuridiche volte a qualificarlo costituzionalmente. Per rappresentare lo sforzo di irretire il potere costituente in un dispositivo giuridico, Negri ricorre spesso all’efficace immagine della bestia che deve essere domata: «Il problema sarà tutto e solo questo: controllare l’irriducibilità del fatto costituente, dei suoi effetti, dei valori che esprime»23. Le soluzioni tentate per neutralizzare l’originalità creativa del potere costituente hanno puntato a presentarlo come qualcosa di «storicamente esterno» al potere costituzionale e, quindi, qualificabile solo grazie al potere costituito; come «principio immanente al sistema costituzionale e giuridico» e, quindi, alla maniera di Weber, come qualcosa di violentemente innovatore come il potere carismatico, ma, allo stesso tempo, formatore di diritto positivo secondo la strumentalità costitutiva del potere razionale; come qualcosa di «integrato, costitutivo, coestensivo e sincronico del diritto costituito»24. La scienza giuridica ha così inteso domare la bestia/potere costituente, farne «un animale ammaestrato, peggio, ridotto a comportamenti meccanici e all’inerte ripetizione di una base sociale precostituita»25. Gli esiti totalitari connessi ad una simile operazione sono stati ritenuti preferibili all’irruzione, nel sistema politico, della volontà democratica della moltitudine. Il paradigma costituzionalista ha tentato di imporsi su quello del potere costituente, temuto come «forza che irrompe, spacca, interrompe, scardina ogni equilibrio preesistente e ogni possibile continuità»26. Legato all’idea di democrazia come potere assoluto, vera e propria matrice della prassi democratica, il potere costituente è la bestia contro il sovrano, è quella forza irruente ed espansiva che si oppone alla sovranità: «l’assolutezza della sovranità è concetto totalitario mentre l’assolutezza del potere costituente è quella del governo democratico»27. Contro tutti i tentativi messi in atto dalla scienza giuridica, Negri insiste nel presentarlo come qualcosa di radicalmente diverso da una emanazione del potere 23 24 25 26 27
Ivi, p. 15. Ivi, pp. 15-21. Ivi, p. 21. Ivi, p. 23. Ivi, p. 27.
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A. Altamura - Volto del potere/volti della potenza
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costituito, o come una sua forza istituente; anzi, ritiene che la sovranità, come istituzionalizzazione del potere costituente, ne sancirebbe proprio la fine e determinerebbe «l’esaurimento della libertà di cui esso è portatore». Ricorrendo alla distinzione tra potenza costituente e potere costituito, scrive: Nel momento stesso in cui la potenza si istituisce, essa cessa di essere potenza, dichiara quindi di non esserlo mai stata. Vi è una sola condizione corretta – e paradossale – per la definizione di un concetto di sovranità legato a quello di potere costituente: ed è che esso esista come prassi di un atto costitutivo, rinnovato nella libertà, organizzato nella continuità di una prassi libera. Ma ciò va contro l’intera tradizione del concetto di sovranità e contro la totalità delle sue possibilità predicative. Di conseguenza il concetto di sovranità e quello di potere costituente rappresentano un’assoluta contraddizione28.
Nella descrizione della potenza espansiva del potere costituente, Negri si sofferma ripetutamente sulla sua dimensione desiderante, legata al suo essere istitutore del politico «dall’abisso dell’assenza di determinazioni», un vero e proprio creatore ex nihilo, un desiderio inesausto, che si manifesta come «desiderio di una comunità tanto reale quanto assente»29 e come «desiderio di trasformazione del tempo», cioè come rivoluzione30. Questo soggetto della trasformazione, in grado di tenere aperta la creatività del potere costituente, è colto nella moltitudine, intesa come molteplicità di soggetti e di singolarità produttive cooperanti, irriducibili ad unità, sia essa quella del popolo o della classe operaia. La potenza della moltitudine, incarnatasi nella sua capacità di potenziamento del desiderio e di trasformazione del mondo, spaventa e deve, pertanto, essere repressa, espropriata: «Quest’animale selvaggio deve essere dominato, addomesticato o distrutto, superato o sublimato, comunque la soggettività deve essergli tolta e la razionalità negata. […] Il potere costituito è questa negazione»31. L’esproprio della potenza della moltitudine avviene, quindi, nel presentare il potere come realizzazione della potenza, nel ridurre la moltitudine a plebaglia o a un «mondo selvaggio di passioni irrazionali che solo la Vernunft riuscirà a dipanare, a controllare e riassumere»32, nel ricondurre la creatività costituente della moltitudine ad un evento straordinario, destinato ad essere superato nella legittimità costituzionale. 28 29 30 31 32
Ivi, p. 37. Ivi, p. 38. Ivi, p. 413. Ivi, p. 401. Ibidem.
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Etica ed estetica del volto
Ma, mette in guardia Negri, quando la potenza creatrice e radicale del potere costituente viene assorbita nel potere costituito, il politico «diviene totalità disciplinare, totalitarismo»33, si riduce a «pura mediazione amministrativa e diplomatica, ad attività burocratica e di polizia […], a pura natura meccanica, a nemico e a potere dispotico»34. Il politico come totalità disciplinare, attività burocratica e di polizia, pura natura meccanica, è il modello del panopticon, descritto da Foucault come una macchina in grado di «dissociare la coppia vedere-essere visti (voir - être vu)»: E per esercitarsi, il potere politico deve darsi lo strumento di una sorveglianza permanente, esaustiva, onnipresente, capace di rendere tutto visibile, ma a condizione di rendere se stessa invisibile. Essa deve essere come uno sguardo senza volto (regard sans visage) che trasforma tutto il corpo sociale in un campo di percezione: migliaia di occhi appostati ovunque, attenzioni mobili e sempre all’erta, una lunga rete gerarchizzata35.
Nell’espressione «sguardo senza volto» è ben rappresentata quella dimensione funzionale e processuale, che, sottraendo il potere ai più disparati tentativi di personalizzazione o di riduzione a una forma dominante, renderebbe forse improprio ogni discorso sul “volto” o sui “volti del potere”. Tuttavia, poiché il riconoscimento della impersonalità del potere non ha mai portato Foucault a escludere una riflessione sui ruoli che, funzionalmente, assumono i soggetti come esecutori, come punti terminali delle sue dinamiche, si potrebbe sostenere che il potere, sebbene, per esercitarsi, abbia bisogno di uno “sguardo senza volto”, debba ricorrere, per manifestarsi, a un “volto senza sguardo”, un volto che ha, cioè, subordinato a sé la dimensione corporea dell’occhio-sguardo, nella prospettiva che Deleuze e Guattari hanno descritto come viseificazione del corpo. Su questa strada si può allora tentare di decifrare un “volto del potere costituito”. Del resto, come racconta Omero nel quarto libro dell’Odissea, anche Proteo, se tenuto fermo con forza e violenza, finisce col mostrare il suo vero volto di vecchio.
33 34 35
Ivi, p. 46. Ivi, p. 413. M. Foucault, Sorvegliare e punire, tr. it. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1976, p. 233.
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A. Altamura - Volto del potere/volti della potenza
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3. Il potere costituito: fare-il-volto sovrano Per indagare il manifestarsi del potere costituito, risulta di particolare efficacia la riflessione sul rapporto sguardo/volto (regard/visage) sviluppata da Sartre nei due brevi saggi Visages e Portraits officiels, risalenti al 1939 e poi raccolti, nel 1948, in un’unica pubblicazione36. Dei due, il saggio su cui si è maggiormente concentrata l’attenzione degli studiosi è stato Visages, la cui apertura è dedicata al confronto fra la condizione di noia ma, allo stesso tempo, di giustizia e ragione, che connoterebbe una immaginaria «società di statue», cioè di «corpi senza volti», e quella tipica della «società umana», in cui «i volti regnano», e regnano proprio sui corpi: «Il corpo è servo, lo si fascia, lo si traveste, il suo ruolo è di portare, come un mulo, una reliquia cerosa». Non si tratta precisamente della viseificazione del corpo descritta in Millepiani, ma di certo anche con il Sartre di Visages si potrebbe sostenere che il volto è una politica: Società di volti, società di stregoni. Per comprendere la guerra e l’ingiustizia e i nostri ardori oscuri e il sadismo e i grandi terrori, occorre ritornare a questi idoli rotondi che sono portati a passeggio per le vie su dei corpi schiavi o, talvolta, nei giorni dell’ira, sull’estremità di aste37.
La dimensione politica di questa riflessione sartriana sul volto emergerebbe ancor più nitidamente se letta in relazione a Portraits officiels. In questo testo, infatti, la dimensione fenomenologica dell’analisi si combina con un’interessante descrizione delle figure del potere costituito, realizzata attraverso i ritratti di Napoleone I, Francesco I, Luigi XIV. Siamo nel 1939, in un momento di importante metamorfosi politica, testimoniata da Sartre 36 37
J.-P. Sartre - Wols, Visages. Précédé de Portraits Officiels, Seghers, Paris 1948. La pubblicazione contiene quattro puntesecche di volti, realizzate da Wols (Alfred Otto Wolfgang Schulze), un artista di origine tedesca molto caro a Sartre. J.-P. Sartre, Visages, tr. it. di R. Kirchmayr, «aut aut», 1995, 265-266, p. 57. L’importanza di questo breve scritto è anche attestata dalla sua riproposizione nel numero dei «Cahiers d’etudes lévinassiennes» del 2006, dedicato al rapporto Lévinas–Sartre. Traducendolo per la rivista «aut aut» e commentandolo come espressione di un autentico esercizio fenomenologico, Kirchmayr ha ricondotto i primi due paragrafi di Visages «rispettivamente a una funzione introduttiva e a una funzione polemica verso una psicologia positivistica e ingenua». Per quanto riguarda il secondo paragrafo, sembra in effetti di trovarsi di fronte ad una decisa critica di certa fisiologia à la Duchenne, ma, per quanto attiene alla parte introduttiva, il suo ridimensionamento, rispetto allo sviluppo dell’argomentazione, che è certamente di natura fenomenologica, ci sembra possa occultare il contesto politico della riflessione.
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Etica ed estetica del volto
con l’affermazione: «La guerra ha veramente diviso la mia vita in due»38. In un anno costellato dall’occupazione nazista della Cecoslovacchia, dalla vittoria di Franco nella guerra civile spagnola, dal Patto d’acciaio fra Hitler e Mussolini e da quello fra Molotov e Ribbentrop, nonché dall’occupazione della Polonia, questo breve testo, pubblicato sulla rivista d’arte «Verve», in un numero dedicato a “La figure humaine”, congiunge l’esercizio fenomenologico a quello politico. Per le considerazioni che seguiranno, mi permetto di proporre integralmente, in una mia traduzione, questo poco citato testo sartriano. Jean-Paul Sartre, Ritratti ufficiali (1939) «Ho visto un omone dalla carnagione di cera, trasportato in una carrozza tirata da quattro cavalli al galoppo: mi hanno detto che si trattava di Napoleone». Questa frase, di cui non ricordo più l’autore, consente di comprendere abbastanza bene il percorso della conoscenza ingenua (connaissance naïve). Ciò che in un primo momento appare ai nostri occhi è l’uomo, con il suo grasso bilioso. Egli appare in mezzo ad altri uomini, dignitari di corte e marescialli; e, quando finalmente ci si rivela il suo vero nome, è già scomparso, portato via dai suoi quattro cavalli. «Mi hanno detto che si trattava di Napoleone; a quanto pare era lui. Resterà sempre probabile che io abbia visto l’Imperatore. Ma l’uomo, questa carne gialla e triste, sono certo di averlo visto». Per lo stesso Bonaparte, parallelamente, la propria dignità di Primo Console o di Imperatore non era più che probabile. Non era Napoleone, ma soltanto qualcuno che si credeva Napoleone, a spese della propria immaginazione. È un duro mestiere, per un grande personaggio, il dover affermare incessantemente ai propri occhi la propria importanza e il proprio diritto, quando gli specchi gli rinviano l’insulsaggine troppo umana del suo riflesso, quando non scopre in sé che degli umori tristi e confusi. Da ciò scaturisce la necessità dei ritratti ufficiali: liberano il principe dalla cura di pensare al proprio diritto divino. Napoleone non esiste, né è mai esistito, in nessun altro luogo tranne che nei ritratti. Al contrario dell’impressione ingenua (impression naïve), il ritrattista ufficiale (le peintre commandé) va dal sapere all’oggetto. Lo spettatore vede un omone e pensa: «Sembra che sia Napoleone». Ma se guarda il ritratto, gli sembra immediatamente che si tratti del Primo Console o dell’Imperatore. Basta vedere come si accumulano attorno a Francesco I e Luigi XIV i segni della loro potenza (puissance). I nostri occhi incontrano in primo luogo la regalità. Se ci prendiamo del tempo per scostare i paramenti e i simboli, scopriremo, già dovutamente prevenuti e rispettosi, la piccola testa (tête) nuda, in fondo al suo guscio, il volto (le visage). Non così nudo: un volto di re è sempre adornato (habillé). Perché il ritratto ufficiale mira a giustificare. S’intende suggerire, attraverso l’immagine, che il governante ha il diritto di governare. Non si tratta di riprodurre la 38
Cfr. A. Cohen-Solal, Sartre, tr. it. di O. del Buono, il Saggiatore, Milano 1986, p. 163, in part. il cap. II, «Una metamorfosi nella guerra, 1939-1945».
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A. Altamura - Volto del potere/volti della potenza
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fisionomia commovente e umiliata di un uomo oberato dalla propria carica: ciò che si dipinge non è mai il fatto, è il puro Diritto. Il ritratto ufficiale non intende conoscere né la debolezza né la forza: esso non si occupa d’altro che dei Meriti. Poiché non vuole mostrare la forza – che anche se non è terrificante, è sempre un poco offensiva – nasconde finché può il corpo. Si osservi la sontuosità delle stoffe che nascondono le membra di Carlo il Calvo e di Francesco I. Hanno dei corpi? Alle estremità di queste stoffe appaiono delle mani, belle e anonime (quelconques), simboli comunque, così come la mano dorata dello scettro. Ma, poiché non vuole mostrare neanche la debolezza, il pittore assottiglia discretamente la carne dei visi, fino a ridurla ad una semplice idea di carne. Sono delle guance quelle di Francesco I? No, ma sono il puro concetto delle guance: le guance tradiscono il re e occorre diffidare. In seguito, all’occorrenza, l’artista si preoccuperà della rassomiglianza. Ma è necessario che questa non ci porti troppo lontano. Questo naso di Francesco I era lungo e cadente. Così appare nel ritratto, ma disincarnato. In realtà esso trascinava verso la terra tutti i tratti del volto. Sull’immagine esso è accuratamente separato dalla fisionomia, non rivela niente del volto nel suo insieme; non disturba più di tanto l’aspetto della testa che se fosse stato aquilino. Ciò significa che le espressioni vere, l’astuzia, l’inquietudine braccata, la bassezza non hanno spazio in questo ritratto. Prima ancora di aver incontrato il suo modello, il pittore conosce già l’aria che vuole fissare sulla tela: forza calma, serenità, severità, giustizia. Non deve il ritratto rassicurare, persuadere, intimidire? La folla dei benpensanti desidera che la si difenda contro l’impressione ingenua che conduce ad un atteggiamento irrispettoso; i benpensanti non sono mai deliberatamente irriverenti. Così la funzione del ritratto ufficiale è quella di realizzare l’unione del principe e dei suoi sudditi. Si può comprendere come il ritratto ufficiale, che difende l’uomo contro se stesso, sia un oggetto religioso. Il tiranno che appese la propria immagine all’estremità di un palo, collocato nella piazza principale della città, imponendo che la si salutasse, non aveva poi torto. In cima ad un palo, come un totem: ecco il posto dei quadri da cerimonia. In cima ad un palo e che li si saluti. Molto bene. Dopo di che può non essere più necessario guardarli39.
La conoscenza ingenua, tipica dell’uomo comune, dello spettatore curioso (le badaud), si concentra inizialmente sul volto cereo, sulla carne gialla e triste dell’omone di passaggio, e si eleva da questo spettacolo a quello del potere soltanto grazie al ritratto eseguito dal pittore ufficiale, che, in una prospettiva conoscitiva rovesciata (à rebours) rispetto a quella ingenua, dedica inizialmente la propria attenzione all’atmosfera di potere che intende fare emergere, per poi passare all’oggetto da raffigurare. In questo senso, 39
J.-P. Sartre, Portraits officiels, in M. Contat - M. Rybalka (a cura di), Les écrits de Sartre. Chronologie – Bibliographie commentée, Gallimard, Paris 1970, pp. 557559; Gabriella Farina ne ha tradotto due brevi passi nel suo volume L’alterità. Lo sguardo nel pensiero di Sartre, Bulzoni, Roma 1998, p. 37.
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Etica ed estetica del volto
si può dire che il potere costituito non esiste, né sia mai esistito, tranne che nei ritratti. La conoscenza ingenua, così perplessa nel riconoscere il potere nel grasso bilioso di Napoleone o nel naso e nelle guance cadenti di Francesco I, di fronte ai ritratti ufficiali dei due sovrani coglie, con sicurezza, la regalità (la royauté) del Primo Console e Imperatore, o del monarca. Anticipando quelle che saranno le riflessioni di Deleuze e Guattari sulla viseificazione della testa e del corpo, Sartre ci invita a cogliere come il volto divenga il guscio, la conchiglia (coquille), che contiene, rendendola regale, la piccola testa nuda, e come la carne assottigliata del volto, trasformata quasi nell’idea della carne, serva a nascondere sia la debolezza del corpo che la sua forza, dal momento che questa viene percepita dal suddito, anche quando non è dispiegata in modo terrorizzante, sempre come qualcosa di potenzialmente offensivo. Il bisogno della costruzione di un volto forte, calmo, sereno, severo e giusto, avvertito dal grande personaggio, che, consapevole degli umori tristi e confusi che abitano la propria insulsa persona, sente la necessità di affermare la propria importanza e il proprio diritto, si combina, nella efficace descrizione di Sartre, con il bisogno diffuso fra la folla di benpensanti, che chiede proprio quella “costruzione di volto”, per poter essere difesa dall’atteggiamento irrispettoso che scaturirebbe da un approccio naïf alla figura del potente. La folla dei benpensanti, «mai deliberatamente irriverente», vede nel ritratto ufficiale lo strumento utile a creare un’unione fra il potere costituito e i suoi sudditi. A questo riguardo, risulta opportuno richiamare le pagine de La nausea dedicate alla visita di Roquentin al museo di Bouville e, in particolare, alla sua galleria di ritratti, raffiguranti i notabili impegnati ad amministrare la città, nella fase repubblicana seguita all’episodio della Comune parigina. In queste pagine, sembra trovare conferma la convinzione manifestata da Diderot nei suoi Saggi sulla pittura, allorché sosteneva che, in ogni società, l’espressione dei cittadini si lega alla natura del governo: Sotto il dispotismo, la bellezza sarà la bellezza dello schiavo. Datemi dei visi dolci, sottomessi, timidi, circospetti, supplichevoli, modesti. Lo schiavo se ne va sempre con la testa inclinata; sembra sempre che la offra a una spada pronta a colpire. Nella monarchia, dove c’è chi comanda e chi obbedisce, il carattere, l’espressione sarà di affabilità, di grazia, di dolcezza, di onore, di cortesia. La repubblica è uno stato di uguaglianza. Ogni suddito si considera un piccolo monarca. L’aspetto del repubblicano sarà altero, duro, fiero40. 40
D. Diderot, Saggi sulla pittura, tr. it. di G. Neri, Abscondita, Milano 2004, pp. 43-44.
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Alla fase repubblicana appartengono i volti che si sporgono dai muri del museo di Bouville: sono quelli di presidenti di tribunali del commercio o di consigli d’amministrazione del porto, di sindaci, di commercianti, di alti ufficiali, di ambasciatori, di accademici e sopra tutti il volto di quell’Olivier Blévigne, che, nei suoi anni universitari parigini, era rimasto a tal punto terrorizzato dagli eventi della Comune da dedicare l’intera sua vita alla difesa reazionaria dei valori dell’ordine, facendosene carico, sia come deputato che come fondatore, in compagnia di commercianti e armatori, del “Circolo dell’Ordine”. I benpensanti, rappresentati in queste pagine da una coppia in visita al museo, in quei volti avvertono l’unione del suddito e del potere, il loro dialogo è esemplare: «-Come è bello – ha detto (la donna) – che aria intelligente. Il marito fa un largo gesto. – Sono loro che hanno fatto Bouville! – dice con semplicità. – È bene averli riuniti qui, tutti insieme, – dice la signora commossa»41. I benpensanti sono attratti da quei dipinti, perché riproducono, come annota Roquentin, «volti di capi», volti che «avevano perso la misteriosa debolezza dei visi umani. Tutte le facce, anche le più molli, erano nette, come maioliche. […] Ciò che queste cupe tele offrivano ai miei sguardi era l’uomo rifatto dall’uomo, con, per unico ornamento, la più bella conquista dell’umanità: il mazzo dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino. Senza sottintesi, ammiravo il regno umano»42. Nel regno umano, come sostenuto in Visages, i volti regnano e Olivier Blévigne, in realtà alto solo poco più di un metro e mezzo, ridicolizzato in vita per la sua abitudine a «mettersi talloni di caucciú negli stivali» e per l’ingombrante presenza della sua troppo robusta signora («era una cavalla»), può lasciare che la morte trascini con sé «lo studente terrorizzato dalla Comune, il deputato minuscolo e collerico», per sopravvivere come il «presidente del Circolo dell’Ordine» e l’autore di opere come Le Forze Morali o Il Dovere di Punire43. Nell’epoca repubblicana ogni suddito si considera come un piccolo monarca, scriveva Diderot, e come un monarca vuole essere rappresentato: altero, duro, fiero. Ci troviamo in presenza di quella che Fittschen, guardando a quel grande laboratorio di potere che fu l’antica Roma, chiama ‘assimilazione delle immagini’ (Bildnisangleichung), cioè la volontà diffusa fra numerosi soggetti privati di farsi raffigurare come i principi regnanti, cioè di farsi rappresentare secondo il modo in cui possono essere riconosciuti come soggetti di potere e non come semplici individui fisici, 41 42 43
J.-P. Sartre, La nausea, tr. it. di B. Fonzi, Einaudi, Torino 1978, p. 125. Ivi, pp. 123-124. Ivi, pp. 127-128.
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Etica ed estetica del volto
soggetti alla caducità44. Tentando di sfuggire, persino dinanzi alla morte, ad una raffigurazione realistica delle fattezze corporee, della faccia (facies), sembra che il potere costituito non debba mai avere una facies hippocratica. Nemmeno in punto di morte il potere muterà il volto in faccia, con buona pace del bombarolo cantato da Fabrizio De André, che intendeva far esplodere la sua bomba al ballo mascherato del potere, per «illuminare al tritolo / chi ha la faccia e mostra solo il viso / sempre gradevole, sempre più impreciso». Basterebbe ricordare il famoso passo dedicato da Svetonio all’Augusto morente, che ordina di essere pettinato e che gli si aggiustino le guance cadenti (malas labantes) – ancora le guance – o soffermarsi a considerare le manipolazioni effettuate sui calchi delle facce dei defunti, nella Roma di età medio- e tardo-repubblicana, da ceraioli intenti a plasmare le cere subito dopo il momento della morte, «da uno stampo di gesso, pur non riproposto meccanicamente ma con qualche ritocco per aprire gli occhi e per fare del morto un antenato vivissimo»45. Avere «antenati vivissimi», del resto, risultava necessario in un sistema che alle imagines maiorum attribuiva una funzione rilevante «per la legittimazione del potere e la costruzione-rafforzamento dell’identità della nobilitas»46. La fedeltà fisionomica non era importante, ciò che contava era far risaltare le disposizioni morali ed intellettuali: «[…] nei visi più o meno grinzosi con mimica accigliata e ammonitrice, avrebbero esaltato gli ideali di semplicità rustica e di scontrosa durezza degli anziani (severitas, gravitas, constantia, dignitas): un equivalente visivo del loro prestigio nella gerontocratica società romana, vacillante proprio nel I sec. a. C. a causa dei conflitti intestini che portarono al tracollo del sistema repubblicano»47. E coloro che non potevano accedere ad uno ius imaginum, come i liberti, «nello sforzo di mostrarsi più cittadini dei veri cittadini romani (si fanno ritrarre con una ruga in più quale compensazione per una zoppicante auctoritas) poterono prendere a modello, scimmiottare ed esasperare le gallerie di imagines maiorum»48. 44
45 46 47 48
Cfr. K. Fittschen, Il fenomeno dell’assimilazione delle immagini nella ritrattistica romana di età imperiale, tr. it. di A. Lo Monaco, in E. La Rocca - C. Parisi Presicce - A. Lo Monaco (a cura di), Ritratti. Le tante facce del potere, MondoMostre, Roma 2011, pp. 247-252. M. Papini, Le (brutte) cere dei romani. Verità – senza bellezza – nella ritrattistica repubblicana, in E. La Rocca - C. Parisi Presicce - A. Lo Monaco (a cura di), Ritratti, cit. p. 37. Ivi, p. 34. Ivi, p. 38. Ivi. p. 41. L’‘assimilazione delle immagini’, diffuso fenomeno di adozione di elementi del volto imperiale (di natura mutevole, come la capigliatura e la barba, ma anche di natura immodificabile, come i tratti anatomici), che molto spesso ha reso
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Accanto a quello di ‘assimilazione delle immagini’, appare funzionale, nell’economia di queste pagine, il concetto di Zeitgesicht (‘volto del tempo’, ‘volto d’epoca’, ‘volto alla moda’) proposto, sempre in un contesto di ricerca legato alla storia antica, da Zanker, per sottolineare come i ritratti eseguiti nelle varie epoche rimandino ad una «disposizione generale», legata alla fisionomia dell’imperatore in quel momento al governo. Un momento di indebolimento di questa tendenza viene indicato da Zanker nell’età tardo-repubblicana, cioè in un periodo caratterizzato da una serie di condizioni caotiche, che costituivano, e sempre costituiranno, l’atmosfera ideale per l’azione degli arrampicatori sociali, di solito provenienti da un ceto medio desideroso di affermarsi grazie alle proprie capacità. Questi individui, in grado di contare solo sulla propria famiglia o sulla propria persona, non cercavano una valorizzazione estetica attraverso adeguamenti del proprio ritratto ad un tipo ideale, secondo quelle forme di enfatizzazione che appartengono alla tendenza auto-rappresentativa della classe dirigente, ma chiedevano un volto individuale, connotato anche dalle più irrilevanti alterazioni della pelle: «Il volto individuale va di pari passo con il successo personale, con il potere individuale»49. In questa situazione, gli artisti, non essendo più vincolati al rispetto di canoni estetici predeterminati o di modelli fisionomici, concentrarono tutta la loro attenzione sulle facce dei singoli individui, in una corsa al realismo fisionomico che si preoccupò di fissare «con meticolosa precisione dimensioni e configurazione delle orecchie, fisionomia dei colli, consistenza superficiale della pelle, in breve tutte le caratteristiche di testa e volto, accanto a caratteristiche secondarie e reali come per esempio gli arrotondamenti e le curve dei crani calvi e semi-calvi»50. Con la fine della fase repubblicana, però, aveva termine, dopo una breve durata, questa tendenza all’affermazione dell’individualità
49 50
difficilmente distinguibili i ritratti imperiali da quelli di privati ad essi assimilati, pur diffusa nella stessa cerchia della famiglia imperiale (ad Augusto somigliano tutti i ritratti dei suoi nipoti e figli adottivi), o tra famiglie differenti (Settimio Severo punta a somigliare a Marco Aurelio, per accreditarsi come suo figlio dopo l’adozione fittizia, o «la testa di Eliogabalo che sembra trasparire sotto i tratti di Caracalla», nella straordinaria descrizione dell’acclamazione imperiale offerta nell’Eliogabalo di Artaud), finisce col risultare presente soprattutto nella classe dei liberti: «Tramite la propria immagine, il liberto imperiale rende così manifesta la sua fedeltà al patronus» (K. Fittschen, Il fenomeno dell’assimilazione delle immagini nella ritrattistica romana di età imperiale, cit., p. 248). P. Zanker, Individuo e tipo. Riflessione sui tratti individuali realistici nella tarda Repubblica, tr. it. di A. Lo Monaco, in E. La Rocca - C. Parisi Presicce - A. Lo Monaco (a cura di), Ritratti, cit. p. 115. Ivi, p. 117.
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Etica ed estetica del volto
e il realismo fisionomico cedeva il passo alle più forti formazioni di “volti d’epoca”, orientati sulla casa imperiale o su altri modelli: «I nuovi ritratti classicistici della classe imperiale, a grande diffusione, iniziarono quasi dovunque a fungere da modello per acconciatura, habitus, taglio del viso, ma anche per dettagli stilistici, come ad esempio la lavorazione dei capelli. Questa fase di “volti d’epoca” è già iniziata con l’imitazione del ritratto di Cesare negli anni 40-30 del I sec. a. C., cioè al tempo in cui i ritratti individuali hanno raggiunto la loro massima differenziazione»51. Nelle tante rivoluzioni mediologiche del potere, tuttavia, possiamo vedere, riferendoci alle analisi di Picard e Debray, come i volti individuali siano destinati a tornare e, per di più, a tornare come volti del potere. Ci riferiamo, innanzitutto, a Picard, perché il suo pensiero viene ricordato proprio da Lévinas come una filosofia del volto «poeticamente sicura», anche se «non fenomenologicamente convincente», nel «decifrare l’universo a partire da quelle immagini o metafore fondamentali che sono i volti umani»52. A Picard siamo debitori di una incisiva riflessione sul potere, su quello hitleriano in particolare, realizzata a partire dal basso, cioè cominciando a scoprire Hitler in uns selbst. In essa ci si sofferma sul volto dei gerarchi nazisti e si dedica particolare attenzione a quello di Hitler: «Aveva il volto non di chi guida, ma di chi debba essere guidato. […] Non era un viso ben definito che si imprimesse nella mente dei sudditi, a meno che si voglia dire che il nulla del capo si sia impresso nel nulla dei capeggiati»53. Un volto simile, secondo Picard, a quello di un venditore ambulante di cartoline illustrate, di uno sposo impostore accusato di truffa matrimoniale, di un fotografo da strada imbroglione, che si fa pagare anticipatamente delle foto che mai stamperà. Insomma, il volto di Hiltler è quello di un nulla assoluto: «Questo nulla è dunque il volto del Führer; il nulla, che dovrebbe essere guidato, fa da condottiero»54. L’ascesa di questo volto viene spiegata in vari modi: con l’incapacità di guardare, tipica dell’uomo contemporaneo, impegnato soltanto a sbirciare e attratto solo da quello che vi è di «inquieto, di cinematografico, di contrario cioè alla natura dell’immagine»55; con il predominio dell’udire sul vedere, tipico di un’epoca caratterizzata da una velocità tale da mortificare 51 52
53 54 55
Ibidem. E. Lévinas, Nomi propri, tr. it. di F. P. Ciglia, Marietti, Casale Monferrato 1984, p. 124. Picard come precursore di Lévinas è discusso nel saggio di S. Zucal, Max Picard. Il rilievo sull’eterno, contenuto nel volume curato da D. Vinci, Il volto nel pensiero contemporaneo, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2010, pp. 221-250. M. Picard, Hitler in noi stessi, tr. it. di E. Pocar, Rizzoli, Milano 1947, p. 30. Ivi, p. 31. Ivi, p. 32.
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il vedere e salvare soltanto l’ascolto degli ordini urlati («Il volto di Hitler è tenuto insieme dal proprio grido»56); con la mancanza di coesione, di unità, di coerenza che rende possibile l’immagine («L’immagine richiede un nesso, un’unità. […] La continuità interiore e la figura del volto vanno insieme come l’incoerenza interiore e la mancanza di un volto»57). In modo poetico, come direbbe Lévinas, Picard coglieva ciò che Debray avrebbe poi descritto come la rivoluzione fotografica del potere, incentrata sulla banalizzazione, piuttosto che sulla eroicizzazione, del capo di Stato: Si cerca di affascinare per mezzo dell’avvicinamento e non più della distanza, della banalizzazione e non più della eroicizzazione del capo di Stato. L’ostentazione del simbolo sparisce davanti all’ostentazione dell’Individuo. Come se vedere bene, adesso, fosse toccare con mano. Il gusto della spontaneità ha rovesciato le più rigide liturgie di Stato. L’emotivo cancella il cerimoniale. Importanza crescente degli “elementi non verbali del messaggio”, calcolano aridamente i computer del marketing (espressione del viso, 55% d’efficacia; voce 38%; discorso 7%)58.
Il volto individuale spiazza quello simbolico. I “due corpi del re”, per usare la fortunata espressione di Kantorowicz, non resistono più separati: «ora, la presenza televisiva tende a confondere il simbolo giuridico e l’individuo fisico»59. Il capo dello stato-video, confidando in diretta i suoi problemi di coppia o i traumi omosessuali adolescenziali, la signora ministro della famiglia, partorendo in diretta, possono conseguire altissimi indici di popolarità, ma corrono, secondo Debray, gravissimi rischi. L’abolizione della frattura semiotica, infatti, si paga a caro prezzo: «L’imperatore non assiste più ai giochi del circo dall’alto di una tribuna. Quello era “alto e basso”. L’in e out cambia le regole del panem et circenses. Il princeps democratico deve scendere nel circo e pagare di persona, sempre di più. Sedurre a morte – a rischio di morire egli stesso»60. Non volendo velarsi il volto come segno di regalità, alla maniera dei sovrani africani descritti da Frazer61, non adottando più uno Zeitgesicht, il potere seduttore della 56 57 58 59 60 61
Ivi, p. 34. Ivi, p. 33. R. Debray, Lo stato seduttore. Le rivoluzioni mediologiche del potere, tr. it. di M. Minucci e L. Negarville, Sisifo, Roma 1994, p. 29. Ivi, p. 31. Ivi, p. 57. Cfr. James George Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, tr. it. di N. R. Bizzotto, Newton Compton, Roma 2006, part. il par. «Tabù sul mostrare il volto», p. 239.
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Etica ed estetica del volto
videosfera rischia di avere problemi proprio con il proprio corpo individuale, con il proprio volto individuale. Perché, se è vero che un’astrazione simbolica senza corpo finisce con l’essere poco affascinante, è pur vero che «un corpo senza referenze simboliche è privo di longevità»62. Le star, infatti, hanno una vita molto più breve dei simboli impersonali. Scritto all’inizio degli anni Novanta, il testo di Debray contiene, sulla questione della videocrazia, una valutazione che, oggi, in generale e per gli italiani in particolare, ha il carattere della previsione realizzatasi: «in videocrazia, la personalizzazione (fisica) tende a rovinare la personificazione (morale)»63.
4. Il potere costituente: il volto demoniaco della moltitudine In Deleuze e Guattari il senso del “disfare il viso” è fortemente connesso a quello del “farsi un corpo senza organi”: «Corpo senza organi. Sì, il viso ha un grande avvenire, a condizione d’essere distrutto, disfatto. In cammino verso l’asignificante, verso l’asoggettivo»64. Disarticolare l’organismo, cessare di esserlo, significa aprire il corpo ad una potente vitalità non organica, conquistare «un corpo affettivo, intensivo, anarchico»65. In Millepiani il “disfare il viso” viene declinato nelle forme di «un amore vivente, non soggettivo, in cui ciascuno si connette con gli spazi sconosciuti dell’altro senza introdurvisi né conquistarli, in cui le linee si compongono come linee spezzate»66, e l’intera riflessione sulla visagéité, sotto il titolo molto lévinasiano Au-delà du visage, si chiude con un riferimento alle «teste cercanti» e alla loro capacità di formare «nuovi strani divenire, nuove polivocità, divenire-clandestino»67. L’amour vivant e le têtes chercheuses possono essere assunte come caratteristiche intime di quella moltitudine che, nell’analisi di Negri, esprime un potere costituente che può definirsi smisurato, in quanto creatività che spezza i limiti, processo ininterrotto, nel senso di una «costruzione dal basso che attraversa le emergenze singolari coordinandone l’azione», egualitario, come «fluenza senza limite, senza opposizione e blocco da parte del 62 63 64 65 66 67
R. Debray, op. cit., p. 46. Ivi, p. 34. G. Deleuze - F. Guattari, Come farsi un corpo senza organi?, cit., p. 39. G. Deleuze, Critica e Clinica, tr. it. di A. Panaro, Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 171. G. Deleuze - F. Guattari, Come farsi un corpo senza organi?, cit, p. 66 (corsivo mio). Ivi, p. 68 (corsivo mio).
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privilegio», difensore della diversità, intesa come espressione della «ricchezza di individualità eguali e irriducibili a unità», cooperativo, come lo è ogni produzione realizzata in «relazioni di libertà, di singolarità, […] di diversa e concorrente creatività»68. Questa potenza creatrice smisurata, processuale, fluente, diversa e cooperativa non può che eccedere il volto, disfarlo appunto. Dal momento che la rivoluzione dell’umanesimo italiano viene citata da Negri come momento di apertura di un processo rivoluzionario che, attraversando le rivoluzioni inglese, americana, francese e russa, evidenzia una capacità creativa incapace di acquietarsi in una definitiva soluzione istituzionale (giuridica), ma continuamente alla ricerca di un «aldilà sempre aperto»69, per avviare questa breve descrizione del “disfare il volto” praticato dal potere costituente risulterebbero utili alcune considerazioni sull’umanesimo italiano sviluppate da Duby: Di fronte alla statua dell’imperatore, a Pisa, sorgeva una statua che non era quella di una dama, ma di una potenza astratta, quasi una dea: la statua della città. Le repubbliche urbane esaltavano il volto civico della potenza (le visage civique de la puissance)70.
L’Italia delle repubbliche cittadine viveva una fase storica in cui il potere imperiale era ormai diventato il totem descritto da Sartre nelle battute finali di Portraits officiels: un volto in cima ad un palo, che si deve salutare, ma che a un certo punto non è più necessario guardare. Di fronte a esso comincia ad ergersi “il volto civico della potenza”, che è un volto collettivo, quello delle associazioni giurate di cittadini, che agli emblemi guerreschi cominciano a preferire le fontane, con i loro simboli di pace e prosperità. Le costruiscono nei pressi della torre comunale o delle logge votate al commercio, come la duecentesca fontana perugina di Nicola Pisano, con la sua «nuova iconografia del civismo», che, accanto ai patriarchi e ai santi, riproduce, insieme ai simboli zodiacali dei mesi, le attività lavorative che in essi si svolgono. Lo stesso vale per il basamento del trecentesco campanile di Giotto a Firenze, con le sue sculture che celebrano il lavoro o le arti, ma soprattutto per l’affresco eseguito nel Palazzo del Comune di Siena da Ambrogio Lorenzetti, su commissione della repubblica, fra il 68 69 70
A. Negri, Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, cit., pp. 406409. Ivi, p. 7. G. Duby, L’arte e la società medievale, tr. it. di S. B. Cattarini, Laterza, RomaBari 1977, p. 331.
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Etica ed estetica del volto
1337 e il 1339. Duby si concentra totalmente sulle due allegorie antagonistiche del Buono e del Cattivo Governo. Nell’opera ci sono di certo dei volti a raffigurare i due governi, quello satanico il cattivo e quello barbuto dei patriarchi il buono. Ma essi sono circondati da una molteplicità di altri volti: quelli delle forze del caos e quelli delle nove virtù principali e delle tre teologali, ma anche quelli dei rappresentanti del “popolo grasso” o delle milizie cittadine. Insomma siamo in presenza di una molteplicità di volti. E, tuttavia, questi volti non bastano. Per raffigurare il volto dei due governi, Lorenzetti ricorre ad una descrizione del paesaggio urbano e rurale. Il Cattivo Governo è fatto di case e campi in rovina, da cui emergono volti di ladri ed assassini. Il Buon Governo è, invece, fatto di confortevoli abitazioni e campagne ordinatamente coltivate, nelle quali si muovono volti di alacri operai e laboriosi contadini, di abili commercianti e di autorevoli insegnanti, che con il loro impegno consentono persino la pratica di attività gratuite, rappresentate da fanciulle danzanti dai volti sereni o da gentiluomini dal volto concentrato sull’impresa venatoria a cui si accingono. Si tratta di uno spettacolo del mondo che Lorenzetti, osserva Duby, non rinchiude «nella cornice simbolica di un’architettura chiesastica, ma colloca su un palcoscenico. La politica non ha una sua liturgia». Per esaltare il volto civico della potenza, Lorenzetti è, quindi, costretto a ricorrere ad una rappresentazione del paesaggio, offrendoci «il primo vero paesaggio dipinto in Occidente»71. Se il potere costituito ha la sua liturgia, nel senso più intimo di leitoyrghia (“opera in favore del popolo”), e “a favore del popolo” mostra il suo volto, se, anzi, il potere costituito, come abbiamo visto con Sartre, non esiste che nei suoi ritratti, la politica non ha, invece, una sua liturgia perché connessa alla potenza. Il legame stabilito fra politica e potenza, in una riflessione solo apparentemente di mera natura storico-artistica, appare di straordinaria efficacia se compreso nella prospettiva di Negri, volta a leggere nel politico proprio la «potenza ontologica di una moltitudine di singolarità cooperanti»72; una potenza la cui neutralizzazione ridurrebbe il politico «a pura mediazione amministrativa e diplomatica, ad attività burocratica e di polizia»73. Anziché presentarla come l’evento straordinario destinato ad essere assorbito nel potere costituito, il politico dovrebbe, quindi, riconoscere proprio nella potenza costituente della moltitudine la propria matrice: «La costituzione dinamica, creativa, continua, processuale della potenza è il 71 72 73
Ivi, pp. 333-334. A. Negri, Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, cit., p. 411. Ivi, p. 413.
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politico»74, «È l’effettività della lotta, della pretesa della moltitudine, della potenza dei suoi movimenti che inventa e costituisce nuove realtà. Il politico è la scena fondamentale di questo processo. Fra moltitudine e il potere costituente esiste dunque una parentela del tutto inscindibile»75. Negri è inflessibile nel dichiarare l’irriducibilità della potenza al potere, che è anche quella dei molti all’uno: «non c’è dialettica tra potenza e potere, e neppure fra i molti e l’uno»76. Opporre, in modo dialettico, alla dinamicità della potenza la staticità del potere, alla creatività del potere costituente il comando del potere costituito, piuttosto che un esercizio di realismo politico, significherebbe togliere al politico quel principio di trasformazione che lo caratterizza essenzialmente: «Il vero realismo politico non consiste nel riconoscersi, e nell’appagarsi, nel carattere decisivo della forza fisica ma al contrario nel considerare come questo dominio sia sempre e instancabilmente minato dal sabotaggio costituente della moltitudine»77. Letto, a suo tempo, come autovalorizzazione proletaria78, il sabotaggio operato dalla moltitudinaria forza-lavoro postmoderna si concretizza in uno sviluppo autonomo delle potenze del lavoro, che «rende la forza-lavoro capace di por fine alla dialettica della servitù e della sovranità attraverso la riappropriazione degli strumenti di lavoro e della cooperazione», poiché, in una fase dominata dalla produzione immateriale, il lavoro è essenzialmente cooperazione e, nella sua diffusione reticolare, eccede le forme del vecchio comando capitalistico. Questa trasformazione del piano dell’organizzazione sociale del lavoro scaturisce da quella interazione di singolarità, che costituisce la natura stessa della moltitudine, il cui riconoscimento ha luogo, secondo Negri, in un percorso che va da Spinoza a Deleuze. Rispetto a una modernità impegnata a presentare la moltitudine come una molteplicità di soggetti da organizzare, una «materia da formare», la concezione immanentista e materialista spinoziana, del tutto estranea ad una idea di causazione esterna, indica come cogliere il senso proprio della moltitudine in una volontà comune, autonoma, non dipendente da un principio esterno – si tratta di una «materia contenente in sé un principio formativo» – e, quindi, assoluta, che trova espressione nella democrazia. Spinoza, lettore del Machiavelli dei Discorsi, 74 75 76 77 78
Ibidem. Id, «Soggetti politici: fra moltitudine e potere costituente», in Id., Guide. Cinque lezioni su impero e dintorni, Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 124. Ibidem. Id., Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, cit., p. 411. A. Negri, Il dominio e il sabotaggio. Sul metodo marxista della trasformazione sociale, Feltrinelli, Milano 1979, p. 45.
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Etica ed estetica del volto
può sviluppare «il dispositivo della moltitudine come democrazia assoluta» grazie anche ad una concezione della soggettività intesa come prodotto di un insieme di relazioni: «Non c’è dunque più, quando si definisce il soggetto, la possibilità di farne riposare la definizione su elementi metafisici: in particolare, qualsiasi elemento di autocoscienza è secondario rispetto al lavoro della moltitudine, al prodotto delle relazioni fra singolarità»79. Questa concezione della soggettività, nella interpretazione di Negri, è un lascito spinoziano che, corroborato dal pensiero di Nietzsche, sarà poi accolto da Deleuze e Foucault. Per quanto riguarda Deleuze, è possibile accogliere questa proposta di lettura mettendola in relazione proprio al disfare il viso, cioè al “cammino del viso verso l’asoggettivo (asubjectif)”. Resta allora da interrogarsi sul volto che converrà alla moltitudine intesa come insieme di singolarità. Dal momento che l’insieme è una «comunanza di differenze» e le singolarità sono una inarrestabile «produzione di differenze», quale volto potrà mai esercitare la sua funzione di imposizione di una identità? Quale sarà il volto civico della potenza costituente della moltitudine? Negri e Hardt parlano di un «volto demoniaco della moltitudine», ricorrendo ad un famoso episodio evangelico, in cui un indemoniato della regione dei Gerasèni, rivolgendosi a Gesù, si presenta con il nome collettivo di Legione: «Il mio nome è Legione, dato che siamo in molti». Abitato da una moltitudine di demoni, che Gesù provvederà brillantemente a esorcizzare, l’indemoniato terrorizza perché combina singolarità e pluralità, perché è un io che, allo stesso tempo, è un noi. La legione spaventa per la sua forza distruttiva e per la sua capacità di agire in modo concertato, perché è una minaccia contro l’ordine e, soprattutto, contro l’ordine politico, fondato sulla possibilità di distinguere il potere di uno (monarchia), di pochi (oligarchia) o di molti (democrazia): «La moltitudine demoniaca viola tutte queste distinzioni numeriche: essa è, al contempo, una e molteplice. Il numero indefinito da cui è costituita la moltitudine scompagina tutti i principi d’ordine. Sembra proprio uno scherzo del diavolo»80. Il demoniaco della moltitudine consiste nel suo essere legione, cioè nel suo essere formata da «elementi innumerevoli che sono e restano diversi l’uno dall’altro, ma che nondimeno comunica-
79 80
Id, «Soggetti politici: fra moltitudine e potere costituente», in Id., Guide, cit., p. 111. M. Hardt - A. Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano 2004, p. 167.
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no, cooperano e agiscono in comune»81. Il volto demoniaco deve essere un volto collettivo, forse come quello del subcomandante Marcos, coincidente con il suo passamontagna: Adesso il passamontagna è diventato famoso come se fosse il mio viso. In fin dei conti il governo vuole colpire politicamente ciò che il volto di Marcos nasconde. Per il governo, Marcos nasconde il volto non perché sia modesto, onesto, o perché non voglia davvero essere un caudillo, lo cela perché‚ nasconde qualcosa del suo passato, qualcosa con cui potremmo screditarlo: “Se scopriamo che faccia ha, riusciremo a scoprire quella parte segreta del suo passato, la sfruttiamo propagandisticamente come si deve, la presentiamo all’opinione pubblica e a quel punto il mito di Marcos si sgretolerà”. Alla fine Marcos, o il passamontagna di Marcos, compare o scompare anche nei media. Marcos, o chiunque possa essere Marcos, quello che vive sulle montagne, ha dei gemelli o dei complici rispetto alla sua visione del mondo o la necessità di cambiarlo e vederlo in un’altra maniera, nei giornali, alla radio, alla televisione, nelle riviste, ma anche nei sindacati, nelle scuole, tra i maestri, gli studenti, i gruppi operai, le organizzazioni contadine82.
In queste considerazioni colpisce il diverso modo che il potere costituito e il potere costituente hanno di vedere l’atto di coprire/si il volto. Per il primo, esso si giustifica con la volontà di coprire passate nefandezze, che, nel caso di Marcos, colto dal suo punto di vista come un pericoloso contro-potere, vanno conosciute ed utilizzate al fine di conservarsi in quanto potere costituito. Questa lettura, in realtà, scaturisce dall’articolata esperienza che il potere costituito ha del proprio coprirsi il volto: nel suo continuo tessere trame occulte; nel suo indossare il suo cappuccio del boia, utile per conservare quell’anonimato, che lo proteggerà dallo sguardo della vittima e gli consentirà, prima ancora di colpirla, di paralizzarla con l’angoscia della morte; nel suo far perdere il volto al condannato, portato al supplizio con «la testa ricoperta di un velo nero», perché un criminale deve essere privato della luce, non deve vedere, né essere visto83. Il passamontagna di Marcos non ha nulla in comune con il coprirsi il volto tipico del potere costituito, con «il boia senza volto (che) distrug81 82 83
Ivi, p. 168. M. Durán de Huerta (a cura di), Io, Marcos. Il nuovo Zapata racconta, tr. it. di G. Corica e P. Cacucci, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 20 – 21. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 16; Deleuze e Guattari presentano quello del suppliziato come il contro-corpo del despota/dio, la perdita del volto subita da quello come simmetrica alla costruzione del volto di questo (cfr. G. Deleuze F. Guattari, Rizoma, cit. p. 206).
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Etica ed estetica del volto
ge quello della vittima», mentre, come scrive Sofsky, sotto la maschera può nascondere «il ghigno infantile di trionfo», che l’illimitato potere di uccidere, garantitogli proprio dall’anonimato, gli fa nascere sul volto, mentre distrugge per sempre «con un colpo di pistola il volto dell’altro, che porta in sé le esperienze di una vita intera»84. Il passamontagna di Marcos è il volto di quel potere costituente fatto di singolarità autonome e uguali che, come scrivono Hardt e Negri in una analisi della Bolivia di questi ultimi anni, «articolando e distribuendo le loro azioni in una trama di traiettorie parallele, si dimostrano capaci di trasformare la società»85. Singolarità eterogenee che si muovono in modo reticolare come i sindacalisti, gli studenti, gli insegnanti, gli operai, gli intellettuali, i contadini, i giornalisti radio-televisivi citati da Marcos: Il passamontagna è un passamontagna e qualsiasi messicano può infilarsi un passamontagna ed essere Marcos, essere quello che sono io: unirsi a un movimento che sia giusto e legittimo e lottare per i propri diritti, non dico con un’arma, lo si può fare con un microfono, con una penna, con un foglio di carta, con una macchina fotografica86.
Il potere mediatico, purtroppo, ha paradossalmente trasformato quello che doveva essere un simbolo di tutti nell’attributo di uno solo e si è finito col parlare più di Marcos e del suo passamontagna che del Messico e dell’azione dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN). L’esperimento avviato nel Chiapas deve essere ricondotto, tuttavia, a qualcosa di più di un atto di originalità poetica ed essere colto come un importante tentativo di innovazione politica, rispetto alla lunga tradizione del potere carismatico dei caudillos latino-americani. Del resto è lo stesso Marcos a sostenere: Credo che il passamontagna produca un effetto ideologico efficace e corrisponda alla nostra concezione di quello che deve essere una rivoluzione non individualizzata o capeggiata da un caudillo, ma con la sufficiente forza morale per propagarsi tra la gente e arrivare a formare molti eserciti zapatisti, molti Marcos, molti comitati clandestini in ogni luogo e su molti fronti non militari87.
84 85 86 87
W. Sofski, Il paradiso della crudeltà. Dodici saggi sul lato oscuro dell’uomo, tr. it. di S. Suigo, Einaudi, Torino 2001, pp. 58-59. M. Hardt - A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010, p. 116. M. Durán de Huerta (a cura di), Io, Marcos, cit., p. 21. Ivi, p. 20.
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L’azione di Marcos produce una decisiva rottura con l’assioma sociologico secondo il quale «il n’y a pas de pouvoir sans visage»88 e riesce a collegare le esperienze locali alle lotte globali, all’interno di un processo politicamente organizzato che «da un lato valorizza l’eterogeneità delle singolarità coinvolte nella lotta, e dall’altro assicura il coordinamento delle loro azioni e cerca di preservare la loro uguaglianza mediante organizzazioni strutturate per linee orizzontali», un processo moltitudinario che Negri e Hardt hanno visto in atto nel «Coordinamento per la difesa dell’acqua» operativo in Bolivia89. Se Negri dedica, nella prima metà degli anni Novanta, due numeri della rivista «Futur Antérieur», da lui diretta durante l’esilio parigino, allo zapatismo e alla sua ricezione nei movimenti americani, se con Hardt insiste su questi temi in diversi passaggi chiave di Moltitudine e Comune, è perché ha compreso, come sostiene in un intervento non a caso intitolato Il Chiapas e il lavoro politico in Rete, che nello zapatismo «non si pone il problema dell’individuo, completamente distrutto dall’alienazione dello sviluppo capitalistico, da ricostruire, ma è un individuo collettivo, un individuo comune che vuol riprendere in mano la chiave del proprio progresso e sviluppo»90. Il volto di questo individuo collettivo può essere quello del subcomandante Marcos, un volto che, come il movimento zapatista, non è identitario e/o carismatico, ma, usando un’espressione di Deleuze e Guattari, è rizomatico, è una potenza costituente, che costruisce collettivamente gli obiettivi e i tempi dell’azione ed è, soprattutto, composto di singolarità, al punto che «la stessa soggettività è un complesso di singolarità e non un’identità, […] non c’è più anima ma ci sono rete e relazioni, […] i modi sono più importanti della sostanza»91. Se quest’ultimo riferimento spinoziano risultasse ostico, per comprendere una soggettività costituita di singolarità, si può ancora una volta ricorrere alle parole di Marcos: «Se volete sapere che volto c’è dietro il passamontagna, è molto semplice: prendete uno specchio e guardatevi»92.
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Alexandre Dorna, Un discours de révolte: l’exemple zapatiste, «Les cahiers de psychologie politique», 2008, 12: http://lodel.irevues.inist.fr/cahierspsychologiepolitique/index.php?id=583. M. Hardt – A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, cit., p. 116; cfr. l’intero paragrafo «La moltitudine a Cochabamba» (Ivi, pp. 112 - 118). A. Negri, Il Chiapas e il lavoro politico in Rete, in Id., Goodbye Mr Socialism, Feltrinelli, Milano 2006, p. 65 (corsivo mio). Ivi, p. 71. M. Durán de Huerta (a cura di), Io, Marcos, cit., p. 19.
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Etica ed estetica del volto
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5. Bibliografia Antonin Artaud, Héliogabale ou l’anarchiste couronné, Gallimard, Paris 1967; Eliogabalo o l’anarchico incoronato, tr. it. di A. Galvano, Adelphi, Milano 1998. Annie Cohen-Solal, Sartre 1905 – 1980, Pantheon Books, New York 1985; Sartre, tr. it. di O. del Buono, il Saggiatore, Milano 1986. Gilles Deleuze, Critique et clinique, Editions de Minuit, Paris 1993; Critica e Clinica, tr. it. di A. Panaro, Raffaello Cortina, Milano 1996. Gilles Deleuze - Félix Guattari, Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Les Editions de Minuit, Paris 1980; Rizoma. Millepiani. Capitalismo e schizofrenia. Sez. I, - Come farsi un corpo senza organi? Millepiani. Capitalismo e schizofrenia. Sez. II, tr. it. di G. Passerone, Castelvecchi, Roma 1996. Denis Diderot, Essais sur la Peinture, Hermann, Paris 1984; Saggi sulla pittura, tr. it. di G. Neri, Abscondita, Milano 2004. Régis Debray, L’Etat séducteur. Les révolutions médiologiques du pouvoir, Gallimard, Paris 1993; Lo stato seduttore. Le rivoluzioni mediologiche del potere, tr. it. di M. Minucci e L. Negarville, Sisifo, Roma 1994. Alexandre Dorna, Un discours de révolte: l’exemple zapatiste, «Les cahiers de psychologie politique», 2008, 12: http://lodel.irevues.inist.fr/cahierspsychologiepolitique/index.php?id=583. Georges Duby, Fondements d’un nouvel humanisme (1280 - 1440), Gallimard, Paris 1976; L’arte e la società medievale, tr. it. di S. B. Cattarini, Laterza, RomaBari 1977. Marta Durán de Huerta (a cura di), Yo, Marcos, México: Ediciones del Milenio, 1994; Io, Marcos. Il nuovo Zapata racconta, Feltrinelli, Milano 1996. Gabriella Farina, L’alterità. Lo sguardo nel pensiero di Sartre, Bulzoni, Roma 1998. Klaus Fittschen, Il fenomeno dell’assimilazione delle immagini nella ritrattistica romana di età imperiale, tr. it. di A. Lo Monaco, in E. La Rocca - C. Parisi Presicce - A. Lo Monaco, (a cura di), Ritratti (v. in questa Bibliografia), pp. 247-252. Michel Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975; Sorvegliare e punire, tr. it. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1976. Michael Hardt - Antonio Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano 2004. Michael Hardt - Antonio Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010. Eugenio La Rocca - Claudio Parisi Presicce - Annalisa Lo Monaco, (a cura di), Ritratti. Le tante facce del potere, MondoMostre, Roma 2011. Emmanuel Lévinas, Noms Propres, Fata Morgana, Montpellier 1976; Nomi propri, tr. it. di F. P. Ciglia, Marietti, Casale Monferrato 1984. Antonio Negri, Il dominio e il sabotaggio. Sul metodo marxista della trasformazione sociale, Feltrinelli, Milano 1979. Id., Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, manifestolibri, Roma 2002.
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A. Altamura - Volto del potere/volti della potenza
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RESPONSABILITÀ
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FURIO SEMERARI
LA RESPONSABILITÀ DEL VOLTO PROPRIO
1. Etica del volto proprio Il proprio volto ha effetti su chi lo guarda: effetti diversi (positivi o negativi, modesti o rilevanti, passeggeri o prolungati) a seconda non solo delle espressioni che assume, ma anche dello stato d’animo o della più generale e profonda condizione interiore di chi lo guarda. Gli effetti prodotti dalla visione di un volto, infatti, sono relativi – oltre che alla sfera conoscitiva (guardando un volto si prende conoscenza di qualcosa) – a quella emotiva di colui che guarda. Gli effetti di conoscenza, del resto, in generale, s’intrecciano inestricabilmente con quelli psicologici, sono colti sempre secondo una determinata “tonalità emotiva” che affonda le sue radici nel vissuto personale di chi conosce. Ciò è tanto più vero allorché oggetto di conoscenza è qualcosa che, come il volto, esprime, in maniera molto spesso immediata e diretta, un vissuto personale. Se il proprio volto ha effetti su chi lo guarda (dato facilmente e universalmente verificabile), si pone il problema di una responsabilità di ciascuno per il proprio volto e le sue espressioni, ovvero per quel che il proprio volto e le sue espressioni possono implicare in termini di condizionamento dell’esistenza altrui: si pone, o s’impone, il problema di un’etica del volto proprio. Per ciascun uomo esiste, così, nei confronti degli altri, non solo una responsabilità ispirata dal volto altrui, come messo in luce da Lévinas, ma anche una responsabilità per il proprio stesso volto: non c’è solo un’etica del volto altrui, c’è anche un’etica del volto proprio. Il problema di un’etica del volto proprio emerge nella misura in cui si ammetta che l’essere di ciascuno incide sull’esistenza altrui (in maniera e con intensità diverse a seconda dei casi) e che tale essere si manifesta anche attraverso il volto. Duplice ammissione, questa, sulla quale sarebbe forse difficile non convenire. Il proprio volto incide sugli altri uomini, così come sugli altri uomini incidono le proprie parole, la propria voce, il
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Etica ed estetica del volto
proprio corpo, i propri comportamenti, le proprie azioni: manifestazioni differenti dell’essere proprio di ciascuno. Se così è, affiora il problema di una responsabilità di ciascuno per l’insieme degli aspetti attraverso i quali si determina e si manifesta il proprio essere. In una prospettiva non antropocentrica, poi, il problema di una responsabilità del proprio volto (e, in generale, del proprio essere) si pone nei confronti non solo degli altri uomini, ma anche degli esseri non umani: nei confronti di qualsiasi essere in quanto condizionabile dal volto (e, in generale, dall’essere) di un uomo. La responsabilità per il proprio volto è responsabilità per qualcosa che, nonostante il disciplinamento sociale, spesso anche molto rigido, al quale, all’interno delle diverse culture o, almeno, come dice Hillman, delle «culture altamente formalizzate», è stato sottoposto (un disciplinamento, secondo le parole sempre di Hillman, come «controllo di sé», «sottomissione delle parti più segrete, considerate malvagie e bestiali o quantomeno incivili»)1, ha, tuttavia, la tendenza a sfuggire al controllo della coscienza e a manifestare, in maniera immediata, il vissuto dell’uomo nella profondità e grande molteplicità di aspetti e sfumature che esso presenta. Eugenio Borgna parla delle «molte (infinite) espressioni degli stati d’animo, che si riflettono immediatamente nei modi di essere dei volti e degli sguardi», cosa verificabile anche nel casi di esperienza psicotica, «benché in essa prevalgano espressioni accese e incandescenti, esasperate e radicalizzate: contrassegnate in particolare dall’angoscia e dalla disperazione»2. Secondo una serie al limite infinita di gradazioni e sfumature, vi sono espressioni del volto (ma l’osservazione potrebbe essere estesa alle parole, alla voce, ai movimenti del corpo, ai comportamenti, alle azioni) che sono il segno di un atteggiamento cordiale, di una disposizione amichevole, di una intenzionalità buona e positiva nei confronti degli altri e della vita, e vi sono espressioni del volto che sono il segno di una distanza, di un’avversione, di un’antipatia, di una riprovazione, di un odio, di una condanna nei loro confronti. La responsabilità per il proprio volto è responsabilità per qualcosa attraverso cui passa, in maniera consapevole ma più spesso inconsapevole (una inconsapevolezza della quale, tuttavia, almeno in qualche misura, si può cercare di venire criticamente a capo), tutta una complessa e sottile dinamica interpersonale o sociale di potere, esclusione, emarginazione, o, al contrario, di rispetto, inclusione, accoglienza. Ci sono volti che comandano, terrorizzano, respingo-
1 2
J. Hillman, La forza del carattere. La vita che dura, tr. it. di A. Bottini, Adelphi, Milano 2007, p. 206. E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano 2011 (I ed. 2001), p. 89.
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F. Semerari - La responsabilità del volto proprio
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no, feriscono, umiliano, e ci sono volti che esprimono solidarietà, vicinanza, rassicurazione, incoraggiamento (a uno stesso soggetto accade di esprimere sul proprio volto, in momenti diversi, gli uni o gli altri di tali opposti atteggiamenti e sentimenti). C’è chi si ritiene superiore agli altri e chi, invece, agli altri si ritiene inferiore e l’uno e l’altro manifestano anche con il volto le loro rispettive e differenti valutazioni di sé. Con lo sguardo si possono esprimere condanne morali nei confronti degli altri attraverso le quali si mira a capovolgere, a proprio vantaggio, il rapporto di potere con loro. Una riprovazione e una condanna morale è, infatti, quel che, secondo Nietzsche, esprime il volto che gli uomini “deboli” e risentiti (e risentiti perché deboli in confronto ad altri) mostrano agli uomini “forti”, con l’intento di riequilibrare a loro vantaggio il rapporto di potere con loro. L’atteggiamento degli uni nei confronti degli altri nasce sul «terreno dell’autodisprezzo», da uno «sguardo volto a ritroso» verso se stessi, verso il proprio stesso essere che non si apprezza proprio in quanto debole, uno sguardo che è, perciò, in realtà, un «sospiro»: «“Potessi essere un altro qualsiasi!” così sospirano quegli occhi: “Ma non c’è speranza. Sono quello che sono: come potrei liberarmi da me stesso. Eppure – sono sazio di me!”». I deboli non vogliono essere giusti, ma solo «rappresentare» la giustizia, una giustizia che condanna i forti, i potenti nel corpo e nello spirito. La loro debolezza diventa criterio di giustizia: chi supera il loro livello di potenza è ingiusto. Si aggirano tra i forti come «rimproveri viventi […] come se salute, corpo ben riuscito, forza, orgoglio, senso di potenza siano già in sé cose biasimevoli, per le quali si debba un giorno espiare, amaramente espiare»: si aggirano con un volto dall’espressione colpevolizzante e vendicativa, avendo «sempre in bocca la parola ‘giustizia’ come bava avvelenata, sempre con una smorfia sulle labbra, sempre pronti a sputare su tutto quanto non ha l’aria scontenta e va di buon animo per la sua strada»3. Si è detto che il volto dell’uomo produce effetti su chi lo guarda. In realtà, e al limite, tutto quel che rientra nel suo orizzonte visivo produce effetti sull’uomo. Anche le cose, gli oggetti, semplici o complessi che siano, producono effetti su chi li osserva, ad esempio, una architettura urbana: un edificio, una strada, un intero quartiere. A un edificio o a una strada o a un quartiere non si potrà, tuttavia, chiedere di assumersi la responsabilità degli effetti che sull’uomo la loro visione produce. Si potrà criticare, invece, chi ha costruito quel determinato edificio, quella determinata strada, quel 3
F. Nietzsche, Genealogia della morale (1887), tr. it. di F. Masini, in Opere di Friedrich Nietzsche, ed. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964 e sgg., vol. II, t. II, 1968, «Che cosa significano gli ideali ascetici?», par. 14.
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Etica ed estetica del volto
determinato quartiere, ovvero i criteri estetici e sociali secondo i quali la costruzione è avvenuta, se edificio, strada, quartiere hanno effetti per lo più negativi su chi li osserva, e ci si potrà, d’altra parte, adoperare affinché non si facciano più costruzioni che possano avere un impatto negativo su chi le osserva. All’uomo, a differenza che alle cose, si può chiedere di assumersi la responsabilità (nei limiti in cui ciò è possibile e che in ogni caso non è possibile definire a priori) del proprio essere (dunque anche delle opere che produce) e, per quel che qui in particolare interessa, la responsabilità del proprio volto e degli effetti che sugli altri esseri (umani e non umani) esso induce.
2. Il volto di un uomo in preda all’ira Nei Fratelli Karamazov, padre Zosima, in quello che viene presentato come il «racconto della sua vita», svolge una serie di riflessioni, di estrema tensione morale, sulla responsabilità dell’uomo non solo verso gli altri uomini, ma verso tutte le creature della Terra, nei confronti di ciascuna delle quali l’uomo dovrebbe rivolgere il proprio amore, un amore «umile», «vigile», «attivo»4: «Amate tutte le creature divine, l’intera creazione come ciascun granello di sabbia. Amate ogni fogliolina, ogni raggio divino. Amate gli animali, amate le piante, amate ogni cosa»5. A proposito in particolare degli animali, cui Dio ha dato una «gioia imperturbata», aggiunge: Non siate voi a turbarla, non li maltrattate, non privateli della loro gioia, non contrastate il pensiero divino. Uomo, non ti vantare di superiorità nei confronti degli animali: essi sono senza peccato, mentre tu, con tutta la tua grandezza, insozzi la terra con la tua comparsa su di essa e lasci la tua orma putrida dietro di te – purtroppo questo è vero per quasi tutti noi!6
All’interno di queste riflessioni, con un accenno, Zosima pone il tema della responsabilità dell’uomo (anche) per il proprio volto e, dunque, il problema di un’etica del volto proprio. Il tema è affrontato con riferimento, in particolare, a situazioni nelle quali il proprio volto (anche il proprio volto) può incidere, con effetti devastanti, su soggetti deboli e indifesi, quali possono essere considerati e che di fatto generalmente sono stati, soprat4 5 6
F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, tr. it. di M. R. Fasanelli, intr. di F. Malcovati, Garzanti, Milano 1998, 2 voll., vol. I, parte II, libro VI, p. 443. Ivi, p. 442. Ivi, pp. 442-443.
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F. Semerari - La responsabilità del volto proprio
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tutto in determinati contesti storico-culturali, i bambini (la cui condizione, del resto, si specifica come debole e indifesa anche in rapporto al grado di aggressività o violenza o trascuratezza o indifferenza, che gli adulti mostrano nei loro riguardi): Ogni giorno e ogni ora, ogni minuto osserva te stesso e bada che la tua immagine sia splendida. Ti potrebbe capitare di passare accanto a un bambino pieno di stizza e pronunciando brutte parole, con l’anima irosa; tu potresti anche non aver notato quel bambino, ma egli ha visto te, e la tua immagine cattiva e ignobile potrebbe imprimersi nel suo cuoricino indifeso. Tu non lo sai, ma potresti aver seminato un seme cattivo in lui e quel seme potrebbe crescere, e tutto perché non sei stato cauto in presenza dei bambini, perché non hai nutrito in te stesso l’amore vigile, attivo7.
Padre Zosima non nomina, in maniera esplicita, il volto, ma è certamente anche, se non soprattutto, ad esso che si riferisce, perché il bambino, del quale nel brano si racconta, vede un uomo pieno di stizza e di ira, che, evidentemente, egli scorge anche o soprattutto sul volto dell’uomo (il bambino ascolta anche le «brutte parole», attraverso le quali ira e stizza dell’uomo si manifestano). Le pagine, all’interno delle quali si leggono queste parole, rappresentano un accorato appello alla responsabilità dell’uomo nei confronti di tutte le creature che abitano la Terra, verso le quali l’uomo viene esortato a coltivare l’amore vigile e attivo cui si è accennato: un amore che non si manifesta «solo occasionalmente», ma, responsabilmente, in ogni circostanza della vita8. L’azione di un uomo ispirata all’amore responsabile non necessariamente produce in maniera immediata i suoi effetti e trova corrispondenza nell’anima di coloro cui si rivolge. Se, nonostante la propria responsabilità e il proprio amore nei confronti degli altri, si trovasse alla fine pur sempre di fronte al reiterarsi di malefatte da parte loro, e anche se, in aggiunta, proprio per il suo senso di responsabilità e il suo amore, subisse il loro scherno, l’uomo non dovrebbe abbattersi, rinunciando alla propria responsabilità e al proprio amore: non si dovrebbe mai arrivare alla conclusione che «il peccato è potente, la disonestà è potente, potente è l’ambiente del male, mentre noi siamo deboli e soli, l’ambiente malefico ci sta logorando e ci impedisce di realizzare le nostre buone azioni», e cadere così in un sentimento, insieme, di afflizione e orgoglio9, né mai ci si deve lasciar
7 8 9
Ivi, p. 443. Ibidem. Ivi, p. 444.
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Etica ed estetica del volto
prendere dal sentimento, che più è da temere, della vendetta10. Non si deve cadere vittima di sentimenti di odio verso gli uomini. Nei loro confronti non si deve scegliere mai la forza, ma sempre e solo l’umile amore11: «non abbiate paura del peccato degli uomini, amate l’uomo anche nel suo peccato, giacché proprio questa è l’immagine dell’amore divino ed è la forma suprema dell’amore sulla terra»12. Odio e vendetta dovrebbero essere banditi dal cuore e, dunque, anche dal volto dell’uomo anche per un’altra ragione, ovvero sulla base della considerazione che «tutto è come un oceano in cui tutto scorre e tutto confluisce, un contatto in un punto genera una ripercussione all’altro capo del mondo»13. Una reciproca relazione universale degli esseri e dei fenomeni, infatti, governa il mondo e condiziona la vita di ciascun essere e di ciascun fenomeno. Per Zosima, sulla base di tale interrelazione si comprende, per esempio, come anche l’azione del cosiddetto criminale sia l’effetto di una serie di relazioni interpersonali e sociali: se l’atteggiamento degli altri nei suoi riguardi fosse stato diverso, ispirato all’umile e vigile amore, si sarebbero determinate le condizioni di una sua diversa formazione che non lo avrebbe portato a compiere le azioni che invece ha compiuto14. L’interrelazione universale fa sì che, nella costituzione e nella definizione del mio essere, io dipenda dagli altri, dalle loro azioni, dal loro comportamento, dalle loro parole, dal loro volto, dalla loro voce, e che, nella costituzione e nella definizione del loro essere, gli altri dipendano da me, dalle mie azioni, dal mio comportamento, dalle mie parole, dal mio volto, dalla mia voce. Per natura, non esistono buoni e cattivi, responsabili e irresponsabili, giudici e criminali. La bontà e il senso di responsabilità di ciascun individuo sono il prodotto di una serie di relazioni interpersonali o sociali sulle quali, dunque, occorre intervenire affinché, attraverso di esse, ciascuno venga sollecitato a sviluppare il più possibile il senso della propria responsabilità verso gli altri. Nessuno può ergersi a giudice di nessun altro. L’uomo, che si pone come giudice di fronte a un altro uomo considerato criminale, dovrebbe comprendere quello che egli, che ora giudica l’altro, in passato non ha fatto affinché l’altro, che egli giudica, non compisse le azioni negative per le quali viene ora da lui giudicato e condannato. Guidato dal principio dell’amore, e nella consapevolezza della interrelazione universale degli esseri e dei fenomeni, l’uomo sentirà tutta la sua propria 10 11 12 13 14
Ivi, p. 446 Ivi, p. 443. Ivi, p. 442. Ivi, pp. 443-444. Ivi, p. 445.
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F. Semerari - La responsabilità del volto proprio
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responsabilità nei confronti degli altri per il fatto e per quel tanto che da lui (anche proprio da lui) essi dipendono. Certo, ciascun uomo è quello che è per l’azione di una molteplicità di relazioni che trascendono la sua persona. E tuttavia non sono ammessi alibi, per Zosima, al mancato esercizio di responsabilità verso gli altri. Vi è l’esortazione a fare di più e sempre di più in direzione dell’esercizio della propria responsabilità verso di loro (questa stessa esortazione, si potrebbe notare, entra nella catena universale delle relazioni come elemento che mira a produrre lo sviluppo della massima responsabilità possibile da parte dell’uomo). Anche se deriso da coloro a favore dei quali pure orienta la propria responsabilità e il proprio amore, l’uomo deve continuare ad esercitare la propria responsabilità e a coltivare il proprio amore15 perché, se non ne comprendono il significato coloro stessi ai quali essi nel presente sono diretti, questo significato lo comprenderà chi verrà dopo di loro16. L’amore, anche grazie alla consapevolezza della interrelazione universale degli esseri e dei fenomeni, porta ciascuno a offrire agli altri, come dice Zosima, una immagine il più possibile splendida di sé: l’immagine splendida di sé, anzi, non è altro che amore responsabile in atto, che, come fondamentale elemento di positività, potenzialmente produttivo di un miglioramento, al limite, della condizione dell’umanità, si inserisce nella catena infinita della interrelazione universale degli esseri e dei fenomeni. Un uomo, che riesca a realizzare dentro di sé una rigenerazione morale ispirata al principio dell’amore responsabile, non nutrirà più sentimenti di odio, risentimento, vendetta verso gli altri. Il suo stesso volto sarà un volto diverso, trasfigurato dalla propria rigenerazione morale. Siamo al limite di una condizione umana vicina a ciò che nella tradizione religiosa si intende con il termine ‘santità’. E, santo, padre Zosima era infatti considerato dai suoi fedeli17. Il brano dei Fratelli Karamazov, nel quale si mostra il pericolo rappresentato, per un bambino, dalla visione di un uomo in preda all’ira, è suscettibile di due interpretazioni differenti, forse entrambe presenti nella posizione di Zosima. Il brano potrebbe voler dire che, accorgendosi della presenza di un bambino, l’uomo in preda all’ira dovrebbe reagire cancellando dal proprio volto l’espressione irata e mostrare un’espressione diversa, ispirata a sentimenti di serenità e positività: in questo caso l’uomo non supererebbe, dentro di sé, il sentimento dell’ira, ma, di fronte a una situazione particolare come quella della presenza di un essere fragile e indifeso, semplicemente si limite15 16 17
Ivi, p. 445. Ivi, p. 447. Ivi, p. 443.
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Etica ed estetica del volto
rebbe a bloccarne le manifestazioni esteriori, date per esempio da una certa espressione del volto. E’, questa, la prima interpretazione che si può dare del brano. Il comportamento dell’uomo sarebbe indice, qui, di un certo grado di elevazione morale rispetto a colui che, invece, incurante della presenza del bambino, non si fa scrupolo di mostrare il proprio volto irato: l’uomo mostra di comprendere che, particolarmente in determinate situazioni ovvero di fronte a esseri caratterizzati da una certa fragilità, è ingiusto comportarsi in certi modi e che vi sono modi migliori, ai quali ricorrere, di comportarsi. Ma vi è una seconda interpretazione possibile, che è forse quella più vicina allo spirito e comunque conforme anche alla lettera delle tesi di padre Zosima. L’uomo deve realizzare una trasformazione morale di sé nel senso dell’amore responsabile, sì da superare, dentro di sé, i sentimenti negativi dell’ira e della rabbia, dell’odio e della vendetta nei confronti degli altri e dell’esistenza. Un uomo così trasformato non avrebbe bisogno di nascondere i propri sentimenti (negativi) cercando di non farli trasparire dal volto. Non ne avrebbe bisogno semplicemente perché sarebbe un uomo che, in se stesso, è andato al di là dei sentimenti negativi nei confronti degli altri (in rapporto ai quali sentimenti si pone il problema di un loro provvisorio nascondimento). Il suo volto avrebbe espressioni spontaneamente e immediatamente coerenti con i nuovi sentimenti (positivi), cui egli ispira il proprio essere, sentimenti di amore e fraternità verso tutti gli esseri. Il comportamento dell’uomo è qui indice di un livello diverso e più profondo di moralità rispetto a quello che risulta dalla prima interpretazione del brano. Ci troviamo, così, con le due interpretazioni possibili del discorso di Zosima, di fronte a due livelli diversi di moralità, che segnano entrambi, ma in maniera differente, una presa di distanza dalla condizione dell’uomo cui Zosima allude nel brano, ovvero dell’uomo che, senza nessuna cautela e senza nessun controllo, mostra a un bambino il proprio volto rabbioso e irato. La differenza è in una diversa intensità, nei due casi, del sentimento d’amore e del senso di responsabilità verso gli altri.
3. Il proprio volto e gli esseri fragili Il problema della responsabilità del proprio volto si pone, si è detto, nei confronti degli altri quali che siano gli altri, umani o non umani. Ma riguarda, soprattutto, come di fatto mostrano le parole di padre Zosima, il rapporto con esseri la cui condizione appare, in rapporto all’uomo (o all’uomo adulto), particolarmente debole, fragile, indifesa. Tale è il caso, per Dostoevskij, dei bambini (come si è visto), ma anche degli animali.
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Non solo all’altro uomo, ma anche agli animali occorre mostrare un’immagine il più possibile splendida di sé: un’immagine splendida che è data dall’azione di un amore responsabile verso di loro, che trova riflessi inevitabili nelle espressioni del volto. Si comprende, così, perché il fratello di Zosima chiedesse «agli uccellini di perdonarlo; questo sembrerebbe privo di senso, eppure è giusto»: Che sia pure privo di senso, chiedere perdono agli uccellini, ma gli uccellini sarebbero più felici accanto a te, e così anche i bambini e tutti gli animali, se tu fossi più splendido di quello che sei ora, anche solo un pochino. Vi dico che tutto è come un oceano. Quindi inizierete a pregare pure gli uccellini, consumati da un amore onnicomprensivo, in una specie di trasporto, e a pregare che anche essi vi rimettano il vostro peccato. Fa’ tesoro di quel trasporto, per quanto privo di senso possa apparire agli uomini18.
Pagine fondamentali dell’opera si soffermano sulla vicinanza tra bambini e animali per il modo in cui, spesso, gli uni e gli altri sono trattati dall’uomo. Questo modo è crudeltà. Ivan Karamazov sottolinea la crudeltà dell’uomo e come, nell’invenzione di forme di crudeltà, l’uomo sia un artista: un artista della crudeltà. Chi è l’uomo? L’uomo è l’essere crudele, l’uomo è l’unico abitante crudele della Terra. La crudeltà appare come ciò che caratterizza e differenzia l’uomo rispetto agli altri esseri viventi. Non l’animale è crudele, ma l’uomo, che gode nel far soffrire gli altri: La gente spesso parla di crudeltà “bestiale” dell’uomo, ma questo è terribilmente ingiurioso e offensivo per le bestie: un animale non potrebbe mai essere crudele quanto un uomo, crudele in maniera così artistica e creativa. La tigre azzanna e dilania, ma sa fare solo quello. Non le verrebbe mai in mente di prendere le persone e farle restare inchiodate per le orecchie per un’intera nottata, nemmeno se fosse in grado di fare una cosa simile19.
All’uomo piace esercitare la propria crudeltà soprattutto su esseri indifesi, come per esempio bambini e animali. È proprio il loro carattere indifeso che in questo caso lo attrae. Non un’immagine splendida di sé, come Zosima vorrebbe, offrono gli uomini a bambini e animali, ma un’immagine crudele. Molte persone amano molto torturare i bambini, si può dire persino che amino i bambini in questo senso. È proprio la mancanza di difesa di quelle creature che seduce il tor18 19
Ivi, pp. 443-444. Ivi, parte II, libro V, p. 330.
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Etica ed estetica del volto
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turatore, la fiducia angelica dei bambini, che non sanno dove andare e a chi rivolgersi: è proprio questo che infiamma l’abominevole sangue dell’aguzzino…20.
Analogamente, sugli animali spesso si scatena la crudeltà dell’uomo, come viene raccontato nel poema Sul tempo, che Ivan cita, di Nekrasov, nel quale il poeta russo descrive la situazione di una cavallina picchiata da un contadino perché non ce la fa più a tirare un carico diventato per lei troppo pesante: Il nostro passatempo storico, quello immediato e più a portata di mano, è la tortura a forza di percosse. Nekrasov ha scritto dei versi in cui si parla di un contadino che frusta il suo cavallo con lo knut sugli occhi, «gli occhi suoi miti», e chi non ha mai visto cose del genere? E’ un russismo vero e proprio. Il poeta descrive una cavallina stremata sulla quale hanno posto un carico troppo pesante; essa è crollata sotto il carico e non riesce a tirarlo. Il contadino la batte, la batte selvaggiamente, la batte senza sapere che cosa sta facendo, annebbiato dalla crudeltà, la frusta senza pietà, ripetutamente: «Anche se non hai la forza, devi tirare il carico, a rischio di crepare, lo devi tirare!». La cavallina cerca di districarsi e quello comincia a picchiarla, indifesa com’è, sui «miti occhi» pieni di lacrime. Fuori di sé, la cavalla con uno strattone comincia a trascinare il carico, procede tremante, senza respiro, vergognosa – la descrizione di Nekrasov è terribile...21.
Dostoevskij si sofferma, dunque, non solo sull’immagine (che si esprime anche attraverso il volto) che di sé l’uomo dovrebbe mostrare agli animali (discorso di Zosima), ma anche sul volto degli animali, in particolare sul volto degli animali maltrattati dall’uomo (discorso di Ivan). E il volto degli animali appare, nelle parole di Dostoevskij, come un volto di grande espressività. Qualche decennio più tardi, Rosa Luxemburg, in maniera mirabile, sottolineerà, al pari di Dostoevskij, raccontando di un animale maltrattato dall’uomo, l’estrema espressività del volto degli animali, ovvero qualcosa che spesso si tende invece a negare, pensando che l’espressività sia una caratteristica esclusiva del volto umano o al volto umano soprattutto riferibile. Spesso così si pensa perché, chiuso nel proprio antropocentrismo, l’uomo non è in genere abituato a fare attenzione al volto degli animali, alle sfumature espressive che esso presenta: sfumature espressive che ci sono e che, semplicemente, non vengono viste dall’uomo. L’idea di una inespressività o modesta espressività del volto degli animali è segno di un limite non degli animali, il cui volto è invece estremamente espressivo, ma dell’uomo, che l’espressività del volto degli animali non riesce a cogliere. Nel «viso nero», 20 21
Ivi, p. 335. Ivi, p. 333.
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negli «occhi scuri e mansueti» del bufalo che scorge dalla cella del carcere di Breslavia in cui era rinchiusa, bufalo la cui pelle sanguina per le percosse subite da un soldato perché non riusciva a superare, con il carico troppo alto che aveva da trasportare, la soglia della porta carraia, Rosa Luxemburg, dunque, vede molte cose. Vede il senso di assurdità e di incredulità che l’animale avverte per quello che gli sta accadendo e vede, inoltre, l’angoscia e la disperazione di chi non riesce a trovare una via di uscita, una salvezza dalla situazione in cui si trova: nel suo viso, nei suoi occhi, il bufalo «era davvero l’espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa né perché, non sa come sottrarsi al tormento e alla violenza bruta». Vede la nostalgia dei pascoli, ormai «lontani» e «perduti», del suo paese d’origine, la Romania, dove era vissuto in completa libertà e tranquillità: «quanto erano diversi, laggiù, lo splendore del sole, il soffio del vento, quanto era diverso il canto armonioso degli uccelli o il melodico richiamo dei pastori!». Vede il senso di estraneità alla città in cui si trova, all’ambiente sporco e nauseabondo della stalla, agli uomini «terribili» del luogo. Vede, infine, il bisogno di comunicare con lei che lo guarda, di comunicarle la propria condizione e di avere magari da lei una risposta, se non un aiuto, – appello nei confronti del quale Rosa Luxemburg mostra una tanto immediata quanto profonda corrispondenza: «gli stavo davanti e l’animale mi guardava, mi scesero le lacrime – erano le sue lacrime…»22. E Joseph Roth, a sua volta, in pagine di grandissima intensità, descrive il volto e lo sguardo degli animali condotti alla morte in un mattatoio, luogo in cui prende concretezza l’immagine dell’uomo «signore macellante della Creazione»23: avanzano torpidi, senza opporre resistenza – il presentimento della morte vicina ne offusca le fronti bianche ed ampie […]. L’aria del mattatoio rende docili e proni quei vigorosi, magnifici animali […] [l’animale] dimena leggermente la coda nervosa, a mo’ di estremo saluto al mondo che scompare. Lo sguardo mansueto sfiora appena gli uomini, va oltre i corpi e le pareti verso lontananze vagamente intuite. Ancora una volta i morbidi peli si rizzano, un piccolo brivido corre lungo la colonna vertebrale. Ma gli occhi rimangono aperti e trasognati, la palpebra non conosce sussulti: l’animale sembra non vederlo affatto, il braccio levato a sferrare il colpo di grazia24.
22 23 24
R. Luxemburg, Un po’ di compassione. Con testi di Karl Kraus, una ignota lettrice della «Fackel», Franz Kafka, Elias Canetti, Joseph Roth, a cura di M. Rispoli, Adelphi, Milano 2007, pp. 20-21. J. Roth, Le vittime del grande ventre cittadino, in R. Luxemburg, Un po’ di compassione, cit., p. 51. Ivi, pp. 47 e 49.
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Etica ed estetica del volto
Se è vero, come si è osservato, che la responsabilità per il proprio volto deve essere massima di fronte a esseri deboli e indifesi, come è il caso dei bambini e degli animali, ciò vale anche per quel che riguarda la relazione con coloro che vivono condizioni particolari di sofferenza e malattia, come quelle, per esempio, di cui ci si occupa nell’ambito della pratica psichiatrica. In tale ambito viene riconosciuto (anche se non sempre, o anche se non sempre viene tradotto in realtà) il significato morale e terapeutico (e terapeutico anche proprio perché morale) del volto che si mostra alla persona sofferente da parte di coloro che con lei hanno rapporto anche al fine di prendersene professionalmente cura. Borgna sottolinea l’importanza del volto che si mostra alla persona sofferente, del volto in particolare di chi si occupa della sua cura, così come l’importanza del volto della persona sofferente come via per una comprensione più profonda, da parte di chi se ne prende cura, della persona sofferente stessa. C’è il volto come sintomo e c’è il volto come terapia. Per le persone che vivono speciali condizioni di disagio psichico, persone, queste, «dotate di infinita sensibilità e di sondante intuizione, di grande capacità di attenzione e di ascolto», ogni atteggiamento di indifferenza e di noncuranza, di svogliatezza e di distacco, che si riflettono immediatamente nei nostri volti e nei nostri sguardi, trascinano con sé al di là della comunicazione interrotta la crescita di angoscia e di smarrimento, di tristezza e di sgomento, e rendono ancora più difficile la cicatrizzazione delle feriti sanguinanti25.
La persona sofferente risente particolarmente dell’indifferenza e della noncuranza eventualmente scritte sul volto dello psichiatra, anche e forse soprattutto perché chi soffre di disagi psichici spesso è alla ricerca proprio di attenzione, comprensione, amore: come mostrato da Bleuer analista della schizofrenia citato da Borgna, lo «sguardo psicotico» è uno «sguardo disperato e supplicante che chiede aiuto, e che testimonia di radicale esigenza di disponibilità dialogica, e di amore, e di una nostalgia profonda di incontro interpersonale e di contatto umano»26. Osserva Borgna: Quando, ancora, ci avviciniamo agli altri, nel contesto della psichiatria ma non solo, non possiamo non confrontarci con le antenne sensibilissime di cui sono dotate le persone, che soffrono e che consentono loro di setacciare e di svelare la nostra indifferenza e le nostre mistificazioni. Ci è facile, o almeno non ci è difficile (forse), nascondere e mascherare la noia, l’aggressività, le antipatie, quando nella vita di ogni giorno abbiamo a che fare con persone che 25 26
E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, cit., p. 194. Ivi, p. 90.
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non siano malate; ma questo nascondere le nostre emozioni e le nostre ansie si fa infinitamente più difficile quando abbiamo a che fare con persone che soffrano nell’anima, e nel corpo, e che sappiano cogliere sismograficamente le incrinature e gli scricchiolii della sincerità e dell’autenticità27.
Proprio perché cerca attenzione, comprensione, amore, chi vive una condizione di sofferenza psichica non accetta, da parte delle «persone che non siano malate» che lo circondano e alcune delle quali prestano le proprie cure professionali nei suoi confronti28, un atteggiamento di indifferenza o insincerità e finzione (insincerità e finzione, del resto, sono solo maschere di una fondamentale indifferenza, quando non di una vera e propria ostilità): indifferenza, insincerità, finzione, come si è visto, facilmente rilevati dalle sue «antenne sensibilissime». Perché il sofferente ha le sensibilissime antenne di cui parla Borgna e che al sofferente consentono di leggere con sicurezza il volto di coloro che lo circondano e dovrebbero prendersi cura di lui? Forse Nietzsche può aiutare a trovare una risposta a questa domanda, lì dove osserva che la persona, cui accade di soffrire «a lungo e terribilmente», sviluppa una visione più realistica delle cose, si rapporta alla realtà senza le «apparenze» e le «magie ingannevoli», attraverso le quali, da persona non sofferente, alla realtà aveva precedentemente guardato (in questo senso l’uomo che molto soffre raggiunge un livello più alto di conoscenza rispetto a chi non è passato attraverso l’esperienza di una grande sofferenza)29. La grande sofferenza fa cadere, nel rapporto con la realtà, il filtro di più o meno confortanti e rassicuranti veli, illusioni e apparenze. La grande sofferenza esige, impone, uno sguardo disincantato sulla realtà. Nella condizione della salute, l’uomo si può illudere anche, in particolare, a proposito del significato del volto dell’altro, sul quale può credere di vedere un atteggiamento di sincerità e accettazione nei propri confronti, mentre magari opposto (di indifferenza, quando non di ostilità) è, in realtà, verso di lui, l’atteggiamento intimo (e non percepito) dell’altro. Il sofferente non cade, non può permettersi di cadere, in queste illusioni. La grande sofferenza costringe l’uomo a prestare una speciale e sempre più acuta attenzione e a scaltrirsi nella individuazione di quel che non serve o è di ostacolo alla soluzione del suo problema fondamentale, del problema che lo stringe in una morsa spesso terribile e insopportabile e che occupa, 27 28 29
Ivi, pp. 196-197. Ibidem. F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali (1881), tr. it. di F. Masini, in Opere di Friedrich Nietzsche, ed. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964 e sgg., vol. V, t. I, 1964, af. 114.
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Etica ed estetica del volto
devastandoli, la sua mente e il suo corpo e l’intera sua vita. L’indifferenza, l’insincerità, la finzione, che traspaiono dal volto di coloro che gli sono attorno e di lui dovrebbero prendersi cura, sono percepite dalla persona malata nel loro reale significato (al di là di ogni illusione), dunque come inutili e di ostacolo alla risoluzione del suo problema.
4. Il volto, il corpo, la voce e il loro rapporto con gli strati profondi dell’essere umano Secondo una sua definizione puramente formale, la responsabilità s’identifica con il controllo delle proprie azioni in vista dell’attuazione di un determinato fine posto (come valido) da qualcuno o qualcosa (a seconda delle proprie convinzioni filosofiche o religiose: soggetto umano individuale o collettivo, entità divina, la propria coscienza) nei cui confronti chi agisce dà conto della propria azione. Se emerge la necessità di un’etica del volto relativamente agli effetti che la sua visione produce sulla vita e la sensibilità altrui, la possibilità di tale etica dipende dal controllo che l’uomo riesce (se e nella misura in cui vi riesce) a esercitare sul proprio stesso volto. Il controllo del proprio volto, tuttavia, può presentare una difficoltà in più rispetto al controllo delle proprie parole (o anche a quello delle proprie azioni calcolate, meditate, riflesse). Il volto, infatti, così come il corpo in generale o la voce (il tono e la vibrazione della voce o alcune manifestazioni vocali come, per esempio, il grido o il pianto), è meno facilmente controllabile (anche se non sempre e assolutamente incontrollabile) delle parole, le sue espressioni tendendo, più delle parole, a sfuggire all’azione (di controllo) della coscienza perché, rispetto alle parole, più immediatamente legate alla sfera della istintività, delle pulsioni più radicate o più radicali, degli strati profondi e fondamentali dell’essere umano (istinti, pulsioni, strati profondi dell’essere umano da non vedere, del resto, come dati puramente naturali, ma come elementi in cui natura e storia, natura e cultura reciprocamente si intrecciano). Il volto, come il corpo o la voce, può parlare anche diversamente e all’opposto rispetto al messaggio che, coscientemente, si mira a trasmettere attraverso le parole (o, anche, attraverso comportamenti esteriori o azioni). Con le parole (o con il comportamento esteriore o con l’azione) può accadere che si dica qualcosa che, in maniera a volte del tutto evidente e clamorosa, è contraddetto dall’espressione del volto, dal movimento dal corpo, dal tono e dalla vibrazione della voce (la voce con cui le parole vengono dette o la voce senza parole di un grido o di un pianto improvviso). Si
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tende generalmente a pensare che in casi del genere a dire la verità siano il volto, il corpo, la voce – non le parole. A proposito in particolare del volto, c’è un’espressione comune (fra le altre) che rende bene l’importanza, anzi la decisività, che, in genere, ad esso si attribuisce come segno delle intenzioni, dei bisogni, dei desideri, ecc., che realmente attraversano l’uomo (di questo o quel determinato uomo: dunque intenzioni, bisogni, desideri, ecc., che possono essere e in effetti sono diversi da uomo a uomo): “lo voglio guardare in faccia”. Espressione che sottolinea la diffusa percezione del volto, e in particolare degli occhi, secondo la definizione tradizionale, come ‘specchio dell’anima’ (o specchio più fedele rispetto alle parole, che sarebbero uno specchio abbastanza deformante) – specchio delle reali intenzioni, bisogni e desideri di un uomo: espressione alla quale ricorre chi vuole verificare, proprio guardando in volto l’altro, la sincerità di quel che, con le parole, l’altro dirà o anche di quel che l’altro dirà senza proferire parola alcuna (ovvero solo attraverso l’espressione del volto). Movimenti delle labbra, espressione e movimento degli occhi, dinamismo o rigidità dei muscoli facciali: in genere appaiono tutti segni relativamente attendibili (più attendibili delle parole, insieme ai movimenti del corpo e all’espressione della voce) di quel che realmente si sente o si pensa. Il volto e il corpo e la voce darebbero indicazioni fondate, così, riguardo a quel che effettivamente si sente o si pensa e che a volte non viene detto con le parole o, anzi, esplicitamente e consapevolmente dalle parole viene negato. Le parole possono nascondere e ingannare, il volto, il corpo, la voce no, o molto più difficilmente. Eppure, come è stato osservato in ambito psichiatrico con riferimento ad alcuni particolari stati di sofferenza (ma l’osservazione ha una validità di carattere generale al di là dell’ambito dell’indagine psichiatrica), tra elementi che fanno parte del volto può determinarsi una contraddizione: si può dare una contraddizione tra quel che dice lo sguardo e quel che dice il volto (il resto del volto: il volto senza lo sguardo) (e ciò pone la domanda su dove la verità vada in questo caso cercata, se più nello sguardo o nel resto del volto: ma la verità in questo caso potrebbe anche stare nella contraddizione stessa tra elementi – lo sguardo, il resto del volto – forse egualmente importanti per comprendere la realtà di una data condizione esistenziale). Scrive Borgna: Ci sono sguardi che si illuminano, che si accompagnano a una assoluta trasparenza, e a una vertiginosa trascendenza, anche quando i volti (dai quali nascono e si irradiano) siano divorati dall’angoscia e dallo smarrimento, o dalla disperazione e dalla desolazione. Sono sguardi, questi, che sfuggono al silenzio e alla torturazione dei volti; testimoniando di una speranza che sopravvive a ogni angoscia. Ci sono sguardi che implorano aiuto, e che fiammeggiano, in
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Etica ed estetica del volto
volti apparentemente aridi e ghiacciati, impassibili e nondimeno ardenti. Ci sono, insomma, sguardi che si armonizzano con la Stimmung (con il timbro emozionale) dei volti dai quali riemergono; e ci sono sguardi in dissonanza profonda con i volti30.
Dell’importanza del volto come strumento di comprensione delle più profonde ragioni che si agitano nell’uomo si tiene appunto conto (lo si è visto), e c’è la sollecitazione a tenerne sempre più conto, in campo psichiatrico, con riferimento al quale si propone di «tematizzare il discorso sul volto e sullo sguardo come categorie ermeneutiche idonee a farci meglio capire che cosa si muova, e che cosa ci sia, nella vita interiore delle persone che soffrano di malattie dell’anima»31. Osserva Borgna: «non c’è cura se non si sa cogliere cosa ci sia in un volto, in uno sguardo, in una semplice stretta di mano…»32. E ancora: L’incontro con l’altro avviene non solo mediante il linguaggio delle parole ma, appunto, mediante il linguaggio del corpo, quello dei gesti e quello (anche) del silenzio. Cose complesse, queste, e nondimeno nel momento in cui incontriamo una persona, una persona in particolare divorata dall’angoscia e dall’inquietudine, dalla tristezza e dallo smarrimento, noi non possiamo non avvertire immediatamente come, prima di ogni parola, siano il volto e lo sguardo, il modo di salutare e di dare la mano, il linguaggio del corpo insomma, a consentire, o a rendere difficile, una comunicazione e una reciprocità relazionale dotate di una significazione terapeutica33.
Nonostante le censure e repressioni alle quali (come accennato: par. 1) è stato sottoposto all’interno delle diverse culture o di quelle maggiormente formalizzate, il volto (come il corpo in generale, come la voce, anch’essi del resto sottoposti a un disciplinamento di questo tipo) conserva, dunque, rispetto alla parola, una relazione più stretta con la sfera più profonda e meno governabile dell’essere umano. Il volto manifesta, in maniera più sicura di quanto non facciano le parole, la verità più profonda e nascosta della soggettività di ciascuno, delle sue intenzioni, dei suoi sentimenti, dei suoi bisogni, dei suoi desideri: manifesta qualcosa di così radicato e potente in lui da non potersi non manifestare, al di là della coscienza e di qualsiasi attività di controllo da essa esercitata. L’essere umano si rivela nella verità del proprio vissuto personale non anche, ma 30 31 32 33
E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, cit., p. 77. Cfr. anche p. 89. Ivi, p. 92. Ivi, p. 190. Ivi, p. 193.
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soprattutto attraverso il volto, il corpo e la voce. Spesso, a proposito di certe situazioni interpersonali, si dice che le parole sono superflue perché il volto o il corpo o anche una voce senza parole ha detto tutto quel che di decisivo c’era da dire (e che le parole forse non riusciranno mai a dire). Distinguendo tra dire e parlare, Heidegger ha scritto: «Uno può parlare, parla senza fine, e tutto quel parlare non dice nulla. Un altro invece tace, non parla e può con il suo non parlare dire»34. Ciò va inteso non solo nel senso che il silenzio come semplice assenza di parole dice, in certe circostanze, molto di più delle parole che si potrebbero pronunciare (in questi casi si parla di “silenzio eloquente”), ma anche, più in generale, nel senso che, nel silenzio della parola, a dire le cose sono il volto, il corpo, la voce (la voce senza parole di un grido o di un pianto o di un lamento o di una esclamazione: cfr. par. 3). Le parole, come spesso accade, possono non dire nulla di significativo in rapporto alle reali intenzioni e finalità di chi parla, spesso sono sviamenti e distrazioni, nei confronti del proprio interlocutore, rispetto alla verità generale o contingente della propria soggettività. Possono essere, nei confronti del proprio interlocutore, fumo negli occhi. Se le parole possono non dire il reale sentimento o pensiero dell’uomo che le pronuncia, a dire l’uno e l’altro ci pensa il volto, ci pensa il corpo, ci pensa la voce. Qualcosa, così, viene sempre espresso. L’essere di ciascuno trova sempre il modo (un modo che può essere anche insufficiente, limitato, perché contrastato da tendenze censorie e repressive di carattere sociale) di esprimersi (esteriorizzarsi), e ciò semplicemente perché non può non esprimersi: attraverso il volto, il corpo, la voce con o senza parole (cfr. par. 4). In generale, se c’è assenza di parole, non per questo c’è assenza di espressione e di comunicazione, che rimangono attive attraverso il volto, il corpo, la voce (una voce senza parole). Vi sono, tuttavia, situazioni nelle quali il volto appare poco espressivo e poco comunicativo al limite, almeno apparentemente, della inespressività e non comunicatività. Sono situazioni in cui viene meno o molto s’indebolisce la spinta vitale e, in maniera significativa, l’uomo dà l’impressione di essersi ritirato ed essere diventato indifferente al mondo e ai suoi possibili molteplici motivi di interesse e attrazione. Sono situazioni identificabili, in termini generali, in stati depressivi, che possono svilupparsi in forme anche molto gravi. A volte, come Nietzsche ha mostrato, l’indebolimento del sentimento vitale è ricercato, consapevolmente o meno, come via per la propria salvezza da una condizione di sofferenza. È il caso di coloro 34
M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, tr. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, pres. di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1972, p. 198.
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Etica ed estetica del volto
i quali, per superare il proprio sentimento di «scontento» esistenziale, ricorrono a «mezzi che degradano al suo infimo livello il senso della vita in generale. Se possibile, più nessuna volontà, nessun desiderio; evitare tutto quanto crea passione…»: per non soffrire, rinunciano a vivere mirando a raggiungere, per se stessi, una condizione corrispondente a «quello che per alcune specie animali è il letargo invernale, per molte piante dei climi torridi il letargo estivo…»35.
5. Parole in forma di grido, pianto, lamento, esclamazione (quando le parole si avvicinano al volto) Si è sottolineata la differenza fra parole e volto per quanto riguarda il rapporto con la sfera degli istinti, delle pulsioni e degli strati profondi dell’essere umano, ovvero la maggiore vicinanza del volto a questa sfera rispetto alle parole – alle parole guidate e controllate dalla coscienza. Vi sono, tuttavia, dei casi in cui, per quel che riguarda il rapporto con la sfera degli istinti, delle pulsioni, degli strati profondi dell’essere umano, le parole si avvicinano a quel che è il volto (che ha un rapporto molto stretto con tale sfera). Ciò accade quando le parole sono risposta a situazioni di pericolo, quando nascono all’interno di momenti di grande passione o di forte emozione, quando sono reazione a stati di sofferenza o di gioia intensa o improvvisa, ovvero quando vengono dette (se e quando vengono dette: nei casi cui ci si riferisce, nient’affatto sempre e necessariamente si dicono parole) in forma (si è già accennato a tali forme vocali) di grido o di pianto o di lamento o di esclamazione, per indicare almeno alcune fondamentali espressioni vocali nelle quali trovano diretta manifestazione le situazioni, emotivamente forti o addirittura estreme, cui si è accennato (si potrebbero indicare a questo proposito anche altre forme vocali: per esempio il canto). Si tratta di forme vocali comuni a uomini e animali o che negli animali hanno un corrispettivo in determinate espressioni del volto. Il grido, il pianto, il lamento sono propri anche degli animali o di molte specie animali e, per quanto riguarda l’esclamazione, si potrebbe dire che, negli animali, ha un equivalente in certe espressioni del volto che indicano gioia o paura o stupore (quanto al canto, è proprio di molte specie di uccelli. Altri animali emettono versi che sono forse il corrispettivo del canto degli uccelli). Il grido, il pianto, il lamento, l’esclamazione, 35
F. Nietzsche, Genealogia della morale, «Che cosa significano gli ideali ascetici?», cit., par. 17.
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insieme e al pari del tono e della vibrazione della voce, costituiscono elementi sulla cui base giudicare con maggiore attendibilità di quel che l’uomo intimamente sente o pensa al di là delle parole che consapevolmente dice. Le situazioni, nelle quali la voce o anche le stesse parole dell’uomo prendono la forma del grido, del pianto, del lamento, dell’esclamazione, sono situazioni nelle quali emerge in maniera immediata quel che si agita a livello dei suoi istinti o delle sue pulsioni più potenti, degli strati profondi e decisivi del suo essere. In situazioni di questo tipo, può anche accadere di esprimersi in parole, ma qui è proprio la forma – il grido, il pianto, il lamento, l’esclamazione – nella quale le parole vengono dette, a dare indicazioni decisive circa il senso effettivo delle parole stesse, giacché tali manifestazioni vocali hanno, proprio come accade per il volto e per il corpo e per il tono e la vibrazione della voce, un rapporto più stretto con la sfera del difficilmente governabile o del più ingovernabile nell’uomo: la sfera delle tendenze istintive (o più istintive), delle pulsioni inconsapevoli (o più inconsapevoli), la sfera degli strati profondi (o più profondi) del suo essere.
6. Mascheramenti e verità del volto Anche accettando la tesi secondo la quale le parole nascondono più facilmente del volto le reali intenzioni e i reali sentimenti dell’uomo, si deve riconoscere che il volto ha, esso stesso, le sue maschere. Nonostante la sua più immediata espressività rispetto alle parole, il volto, come le parole, può, sia pure in maniera più problematica, cercare di nascondere qualcosa. Il volto può fingere, mostrando un’intenzione che non si ha, un sentimento che non si prova, nascondendo l’intenzione che realmente si ha, il sentimento che realmente si prova. Anche un movimento o un gesto del corpo può essere contraffatto (per esempio si può fingere, con un gesto, un sentimento che non si prova), e così pure il tono o la vibrazione della voce e anche un grido o un pianto o un lamento o una esclamazione (ci può essere, per esempio, un pianto finto). Ma l’espressione contraffatta del volto o del corpo o della voce è più facilmente identificabile rispetto alla falsità delle parole. Immaginiamo un testo scritto, per esempio una lettera. La lettera può esprimere i sentimenti più elevati nei confronti del destinatario. Ma, se immaginiamo che il destinatario della lettera abbia la possibilità non solo di leggere il testo, ma anche di ascoltarne la lettura dalla viva voce dell’autore (anche se le lettere in genere si leggono soltanto) e anche di guardarlo mentre legge (non dunque una lettura al telefono o registrata), ebbene, egli forse avrà più elementi, ed
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Etica ed estetica del volto
elementi importanti e decisivi (espressione del volto, tono e vibrazione della voce), per valutare la credibilità e sincerità di quel che nella lettera è scritto. A livello del volto si ripropone così, la distinzione, che vale per le parole: la distinzione fra detto e non detto, manifesto e nascosto. Se e nella misura in cui il volto è capace di nascondere il vissuto dell’uomo, il problema della responsabilità del proprio volto in rapporto agli altri andrebbe considerato anche proprio in relazione a tale capacità. Ammesso che riesca a liberarsi da condizionamenti e censure di carattere sociale, il volto deve sempre e in ogni caso rivelare tutto quel che interiormente si prova? Con ciò torniamo alla sostanza del problema posto dalla esortazione di padre Zosima a non mostrare a un bambino il proprio volto in preda all’ira. A questo proposito si potrebbe sottolineare, come anche Nietzsche e appunto (nel modo appena richiamato) Dostoevskij hanno mostrato, che forse non necessariamente e non sempre tacere e nascondere qualcosa all’altro (o anche a se stessi!) è azione moralmente negativa. Esiste una moralità del dire e del mostrare ed esiste una moralità del tacere e del nascondere. A livello di vita vissuta, questa indicazione è in molti casi tenuta presente e attuata. Quando non lo è, si determinano situazioni del tipo dell’uomo che mostra il volto irato al bambino. A livello di riflessione morale, invece, si tende il più delle volte a far valere il principio, o il dogma o il mito, della verità a tutti i costi, non pensando a casi particolari che si possono verificare e nei quali l’attuazione del principio può creare anche gravissimi problemi. Proprio per ragioni morali, il principio del dire la verità costi quel che costi difficilmente può reggere, appunto perché certi costi, propri e altrui, non sono moralmente sopportabili e accettabili. Nietzsche (che ha sottolineato come non solo la verità, ma anche la non verità nella forma anche, per esempio, dell’illusione, gioca un ruolo fondamentale nel far sì che l’esistenza dell’uomo semplicemente sia possibile) osserva, ad esempio, che il «pensatore profondo» ama più essere frainteso che essere compreso – per evitare ad altri il peso delle profondità di pensiero da lui raggiunte36. Anche per questo egli scrive che «tutto ciò che è profondo ama la maschera», aggiungendo: dietro una maschera non c’è soltanto fraudolenza – c’è molta bontà nell’astuzia […]. Un uomo che ha una sua profondità nel suo pudore incontra anche i suoi destini e le sue delicate decisioni su strade alle quali sono pochi a giungere, e la cui esistenza neppure agli intimi e ai più fidati è dato sapere: si cela ai loro occhi tanto il repentaglio cui egli espone la propria vita, quanto la sua riconquistata sicurezza vitale. Un tale uomo riservato, che istintivamente si 36
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male (1886), tr. it. di F. Masini, in Opere di Friedrich Nietzsche, cit., vol. II, t. II, 1968, af. 290.
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serve delle parole per tacere e per celare ed è inesauribile nello sfuggire alla comunicazione, vuole ed esige che al suo posto erri nei cuori e nelle menti dei suoi amici una sua maschera…37.
Si nasconde agli altri qualcosa che, per loro, sarebbe meglio non conoscere (bontà dell’astuzia). Chi vuole mascherarsi di fronte agli altri ricorre anche proprio alle parole per raggiungere il suo fine, ricorre alle parole per distrarre l’altro da ciò che all’altro non vuole comunicare – si parla per tacere e nascondere. E il volto? Il volto riesce a tacere e nascondere intenzioni e sentimenti dell’uomo? E vi riesce il corpo? Vi riesce la voce come tono e come vibrazione? Il volto, il corpo, la voce – semplicemente possono tacere e nascondere? Si è portati a pensare che, più che nascondere, volto, corpo, voce rivelano – necessariamente rivelano qualcosa della soggettività di ciascuno. E, anche se nascondono qualcosa, spesso rivelano il fatto che lo stanno nascondendo – non riescono veramente a nascondere che stanno nascondendo qualcosa. Quanto al grido o al pianto o al lamento o all’esclamazione, come forme vocali anch’esse legate agli elementi più istintivi e profondi dell’essere umano, essi dicono, con il loro semplice esserci, l’impossibilità, per la voce dell’uomo, o per l’uomo attraverso la voce, di nascondere del tutto quel che del proprio vissuto vorrebbe nascondere – l’impossibilità di nascondere del tutto qualcosa che, per qualche ragione (norme sociali, del resto storicamente variabili, interessi personali, ecc.), l’uomo vorrebbe tenere nascosto. In generale, ma soprattutto in situazioni emotivamente cariche, l’uomo può anche non dire parole, ma non può non manifestare, in qualche modo, ciò che sente o ciò che pensa. In realtà, l’uomo vive non potendo non reagire o risentire (positivamente o negativamente e con intensità variabile) delle situazioni con le quali entra in relazione (in tanto c’è propriamente vita, per l’uomo, come del resto per tutti i viventi, in quanto e nella misura in cui si dà, da parte dell’uomo, come da parte di tutti i viventi, un tale reagire o risentire) e questa reazione non è un fatto solo interiore ma necessariamente si esprime ovvero si esteriorizza. E se non si esprime in parole, si esprimerà, in ogni caso, inevitabilmente, attraverso il volto, il corpo, la voce (una voce, come detto, senza parole). Il volto non potrà non manifestare, sia pure a volte impercettibilmente, un certo tipo di espressione coerente con l’emozione provata, così come, coerentemente con l’emozione vissuta, il corpo non potrà non manifestare qualche movimento particolare e la voce non potrà non esprimersi secondo un tono particolare, una vibrazione particolare, o in forma di grido o di pianto o di lamento o di escla37
Ivi, af. 40.
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Etica ed estetica del volto
mazione. L’uomo può nascondere qualcosa non dicendo parole o dicendo tutt’altre parole rispetto a quel che pensa o sente, ma quel che con le parole egli nasconde, lo diranno il volto, il corpo, la voce. Per quanto riguarda Dostoevskij in rapporto alla questione della moralità del dire e del mostrare, del tacere e del nascondere, si deve ricordare che l’uomo, che padre Zosima invita alla cautela e a non mostrare, in presenza di un bambino, il proprio volto irato, nasconderebbe, sì, in questo modo, al bambino la propria ira, ossia la verità del proprio sentimento attuale, ma con ciò farebbe qualcosa che va a vantaggio del bambino medesimo, il quale potrebbe risultare traumatizzato dalla visione del volto dell’uomo. In contrasto con la tesi che fa coincidere senza residui la moralità con il dire sempre e comunque – attraverso le parole o una voce senza parole o il volto o il corpo – la verità, compresa la verità relativa alla propria soggettività e a ciascun momento della vita di tale soggettività, si potrebbe, con riferimento soprattutto alle situazioni in cui sono in gioco esseri fragili, e riprendendola di fatto dalla vita reale degli uomini, avanzare l’idea, che la moralità non coincide con il dire o mostrare sempre e in ogni caso la verità di un fatto o di un sentimento o di uno stato d’animo: il valore morale del dire o non dire la verità va necessariamente contestualizzato in relazione agli effetti che dire o non dire la verità ha nei confronti degli altri e delle loro vite. Anche ponendosi dal punto di vista delle posizioni più libertarie, si dovrebbe così arrivare alla conclusione che non è possibile una libertà espressiva assoluta nei confronti degli altri, soprattutto, come sottolineato, nei confronti di esseri fragili. Ciò dovrebbe implicare, per quanto riguarda il volto, che si cerchi di liberarlo dalle sue reazioni ed espressioni più istintive o irriflesse, se tali reazioni e tali espressioni potrebbero rivelarsi moralmente deleterie su esseri in condizione di debolezza e fragilità. Pensando a un controllo della espressività del volto tale che il volto non incida, in termini di violenza e aggressività morale e psicologica, in particolare su soggetti che si trovino in tale condizione, esso appare forse tanto più necessario quanto più, nonostante tutte le costrizioni cui è sottoposto attraverso l’educazione e i codici sociali, il volto tende a sfuggire a ogni controllo e, sfuggendo al controllo, parla e, parlando, può segnare in maniera anche molto negativa il destino di chi lo guarda (di chi lo guarda anche solo occasionalmente, come nella situazione descritta nel brano di Dostoevskij, o nella continuità del tempo). Tanto più necessario, inoltre, quel controllo (autocontrollo) appare quanto più è vero quel che osserva il protagonista del romanzo 1934 di Alberto Moravia, ovvero che l’uomo riesce a essere anche molto preciso nella comunicazione attraverso il volto:
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io guardavo lei e lei guardava me; con sorpresa scoprivo qualche cosa che avevo sempre saputo ma mai sperimentato; cioè che con gli occhi si può non soltanto comunicare ma anche parlare in maniera particolareggiata e distinta. Quasi con stupore mi accorgevo che le andavo dicendo che ero angosciato, infelice, disperato; che lei, misteriosamente, mi rassomigliava, essendo anche lei, come me, angosciata, infelice e disperata; che questa rassomiglianza era già l’inizio di qualche cosa che bisognava pur chiamare col nome di amore…38.
E la precisione del volto nella comunicazione, si potrebbe forse anche osservare, spesso è maggiore di quella delle parole. Sottoposta com’è a condizionamenti sociali molto forti, e per i suoi rapporti più stretti con l’ambito della coscienza non sempre abituata, per lo stesso tipo di condizionamento, a chiamare le cose con il loro nome (limitandosi invece spesso a girare attorno ad esse), la parola può essere molto imprecisa, deviante rispetto agli effettivi bisogni, desideri, intenzioni dell’uomo (questi stessi bisogni, desideri, intenzioni, anche quando si cerchi di esprimerli in parole con se stessi, possono risultare non molto chiari): nonostante i mascheramenti e le censure, il volto, una sua espressione, una piega del labbro, un lampo degli occhi, così come un tono o una vibrazione della voce, dicono le cose in maniera più diretta, più esplicita, rispetto alle parole. Proprio perché il volto parla, e spesso parla molto chiaramente al di là di ogni possibilità di controllo, non si vuole, in determinati casi, essere visti: si nasconde il proprio volto perché si teme che dal volto traspaia quel che si vuol nascondere. Se non si può, poi, evitare di essere guardati, si cerca, per quel che si può, di controllare il proprio volto perché non riveli ciò che si vuol tenere nascosto. Il volto diventa qui messa in scena, teatro. All’occorrenza (un’occorrenza che può essere anche molto frequente), una rappresentazione viene allestita sul proprio volto, con il proprio volto, per quegli spettatori che sono gli altri che lo guardano. Insieme al corpo e alla voce, il volto manifesta, si è detto, con più attendibilità rispetto alle parole o, anche, ai comportamenti esteriori o all’azione, il vissuto reale di un uomo. Ha scritto Kierkegaard che la verità delle parole che un uomo dice o delle azioni che compie va cercata nel come egli dice le parole che dice e compie le azioni che compie. Che cosa intende Kierkegaard riferendosi a come le parole sono dette o le azioni compiute? Il filosofo illustra il concetto con l’esempio della parola ‘amore’ e di azioni all’amore apparentemente ispirate:
38
A. Moravia, 1934, Bompiani, Milano 1989 (I ed. 1982), p. 10.
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Etica ed estetica del volto
Non c’è parola alcuna nel linguaggio umano, neppure una, neanche la più sacra, di cui si possa dire: quando un uomo usa questa parola, è assolutamente certo che in lui c’è amore. Al contrario, è perfino possibile che, mentre la parola di uno può rendervi sicuro che c’è l’amore in lui, la parola contraria di un altro possa parimenti rendervi sicuro che vi è altrettanto amore in lui. È anche possibile che la stessissima parola possa assicurarci che c’è amore in quell’uno che la disse e non in quell’altro che pur disse la stessa parola. – Non vi è alcun atto, neppure uno, neppure il migliore, di cui possiamo dire assolutamente: colui che fa questo, dimostra assolutamente con ciò l’amore. Questo dipende dal come l’atto si compie. Vi sono atti i quali si dicono atti d’amore in un senso speciale. Ma, in verità, che uno faccia elemosina, o visiti la vedova, o vesta l’ignudo, non prova né fa conoscere il suo amore: infatti si possono fare atti di amore in un modo poco amoroso, perfino egoista, e quand’è così l’atto di amore non è atto di amore […]. Questo ogni uomo probo ammetterà di se stesso, proprio perché non manca di affetto e non è abbastanza indurito per trascurare l’essenziale, per badare al ciò e dimenticare il come si fa […]. Dunque, ciò ch’è decisivo è come la parola è detta, e soprattutto come essa è significata, come l’atto è compiuto39.
Come una parola viene detta, come una azione viene compiuta: qui è possibile trovare elementi che conducono alla verità della parola detta, dell’azione compiuta, al di là del loro significato apparente. Come una parola viene detta, come un’azione viene compiuta: ovvero, con quale intenzione o con quale sentimento la parola viene detta, l’azione viene compiuta (assecondando quali bisogni, quali desideri dell’uomo). Ora, più che nelle parole o nella coscienza, il ‘come’ si svela nel volto, nel corpo, nella voce: volto, corpo, voce dicono l’intenzione o il sentimento reale dell’uomo più di quanto non facciano le parole e la coscienza (le parole guidate e controllate dalla coscienza). Nel romanzo di Dostoevskij, di padre Zosima viene detto che riusciva a penetrare nell’intimo delle persone solo guardandole in volto40.
7. Bibliografia Eugenio Borgna, L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano 2011 (I ed. 2001). Fëdor Michajlovic Dostoevskij, Brat’ja Karamazovj (1879-1880); I fratelli Karamazov, tr. it. di M. R. Fasanelli, intr. di F. Malcovati, Garzanti, Milano 1992, 2 voll., vol. I. 39 40
S. Kierkegaard, Gli atti dell’amore, tr. it., intr. e note di C. Fabro, Rusconi, Milano 1983. F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., Parte prima, Libro primo, p. 42.
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Martin Heidegger, Unterwegs zur Sprache, Neske, Pfüllingen 1959; In cammino verso il linguaggio, tr. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, pres. di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1990. James Hillman, The Force of Character. And the Lasting Life, Random House, New York 1999; La forza del carattere, tr. it. di A. Bottini, Adelphi, Milano 2007. Søren Kierkegaard, Kjerlighedens Gjerninger (1847), in Id., Samlede Vaerker, Copenaghen 1920-1926, IX; Gli atti dell’amore, tr. it., intr. e note di C. Fabro, Rusconi, Milano 1983. Rosa Luxemburg, Briefe aus dem Gefängnis, Dietz, Berlin 2000, pp. 95-103; Rosa Luxemburg, Un po’ di compassione. Con testi di Karl Kraus, una ignota lettrice della «Fackel» , Franz Kafka, Elias Canetti, Joseph Roth, a cura di M. Rispoli, Adelphi, Milano 2007, pp. 13-21. Alberto Moravia, 1934, Bompiani, Milano 1989 (I ed. 1982). Friedrich Nietzsche, Nietzsche-Werke. Kritische Gesamtausgabe, hrsg. von G. Colli und M. Montinari, Walter de Gruyten, Berlin New York 1967 e sgg., Walter de Gruyter; Opere di Friedrich Nietzsche, ed. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964 e sgg. Id., Morgenröthe. Gedanken über die moralischen Vorurtheile (1881), in Nietzsche-Werke (v. in questa Bibliografia), Abt. V, Bd. I, 1971; Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, tr. it. di F. Masini, in Opere di Friedrich Nietzsche (v. in questa Bibliografia), vol. V, t. I, 1964. Id., Jenseits von Gut und Böse (1886), in Nietzsche-Werke (v. in questa Bibliografia), Abt. VI, Bd. II, 1972; Al di là del bene e del male, tr. it. di F. Masini, in Opere di Friedrich Nietzsche (v. in questa Bibliografia), vol. II, t. II, 1968. Id., Zur Genealogie der Moral (1887), in Nietzsche-Werke (v. in questa Bibliografia), Abt. VI , Bd. II, 1968; Genealogia della morale, tr. it. di F. Masini, in Opere di Friedrich Nietzsche (v. in questa Bibliografia), vol. II, t. II, 1968. Joseph Roth, Die Todesopfer des Gross-Stadtmagens, in Id., Kaffehaus-Frühling, Kiepenheuer & Witsch, Köln, 2001, pp. 171-175; Le vittime del grande ventre cittadino, in R. Luxemburg e altri, Un po’ di compassione (v. in questa Bibliografia), pp. 46-51.
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FOTOGRAFIA
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ROBERTA ROCA
L’IMMAGINE DEL VOLTO IN FOTOGRAFIA Equilibrio e disequilibrio della percezione del sé
Con la modernità si entra nell’era della produzione dell’altro. Non si tratta più di ucciderlo, di divorarlo, di sedurlo, di rivaleggiare con lui, di amarlo o di odiarlo – si tratta innanzitutto di produrlo. Esso non è più oggetto di passione, è un oggetto di produzione […]. È per sfuggire al mondo come destino, al corpo come destino, al sesso (e all’altro sesso) come destino che si inventa la produzione dell’altro come differenza. Jean Baudrillard, Il delitto perfetto
1. Premessa Il volto in fotografia è un territorio d’indagine problematico per la sua complessità ed ambiguità: occhi che incontrano occhi, che saranno osservati, guardati, visti da altri occhi. I punti di vista si moltiplicano, dal soggetto al fruitore – o meglio ai fruitori – dell’opera, e si amplificano dall’individuo al mondo. Con la consapevolezza di dover lasciare qui ai margini aspetti e figure pur di grande rilievo nella storia della fotografia, ci siamo avvicinati selezionando, necessariamente, le immagini ed i percorsi, eleggendo a mo’ di esempi quelli che apparivano i più idonei e capaci di suscitare quesiti critici collegabili a temi culturali più ampi. Proprio per la vastità del tema si è ritenuto opportuno, fin dall’inizio, sgombrare il campo da tutte quelle riflessioni e quelle indagini che vertono sulle modalità in cui oggi gli artisti presentano i loro ritratti fotografici, attraverso una vasta gamma di tecniche, dall’elaborazione digitale al fotomontaggio, e finanche alla ricampionatura delle immagini, utilizzando i mezzi più vari per schermare e camuffare. Proveremo a rintracciare prima e a ricostruire poi alcuni dei principali, e forse fondamentali, tratti che costituiscono il linguaggio formale del ritratto fotografico convenzionale. Ci occuperemo di un ambito circoscritto, provando a recuperare per tappe
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Etica ed estetica del volto
essenziali ciò che costituisce uno degli aspetti cruciali del tema, poiché non si vogliono scardinare principi certi ed universali, quanto piuttosto si desidera tagliare quel velo di Maya che un’opinione diffusa vuole ancora oggi intendere il ritratto fotografico come una mimesis, un’operazione di identità e, dunque, di transitività che si compie dal soggetto all’oggetto.
2. Dal volto al viso Il punto di partenza di questa indagine è la riflessione sul fatto che quasi sempre, nella pratica di lettura di un volto fotografato, va considerato anche il punto di vista di chi si fa ritrarre. La sua volontà coincide con il desiderio, non importa se conscio o meno, di dare un’immagine di sé archetipica e idealizzata: addolcendo i tratti del volto, eliminando qualsiasi elemento fisico di inclemenza (solchi, rugosità, occhiaie, difetti), si purifica la scrittura fotografica dall’errore e dall’orrore del reale. Il viso illeso, compiuto, assoluto, esplicitamente ammorbidisce se non addirittura nega la prova di una faccia imperfetta L’idea di una sorta di perfezione formale, eterna, di un’immagine ideale da contrapporre a quella reale, ingombrante, mortale, crea delle aspettative, in chi si fa ritrarre, più o meno disattese, che conducono inevitabilmente alla crudele domanda finale: “sono io?”. Spesso l’esito di un lavoro di tale genere acuisce la distinzione tra l’identità del soggetto fotografato e la percezione che lo stesso ha della sua soggettività. Il non riconoscersi conferma, paradossalmente, la buona riuscita del prodotto, dell’oggetto artistico in sé, cioè della fotografia, che in quanto opera d’arte risponde all’apertura di significazione. Questa è una storia relativamente breve che ha le sue origini in corrispondenza della nascita stessa della fotografia. Già Nadar, che nella seconda metà dell’800 impressiona su carta al collodio i volti della Parigi del III Impero, lavora in tale direzione, al punto che, in uno dei suoi più celebri ritratti dell’amico ed artista Delacroix, s’impegna con la sua macchina fotografica a sfondare ed invadere lo spazio individuale e privato di un volto che racchiude una delle più intense personalità della storia dell’arte. Evidentemente il risultato di ciò che quel bianco e nero produce nelle visioni dei due protagonisti – l’autore e il soggetto – è tutt’altro che univoco: Delacroix richiede che la lastra al collodio venga distrutta, perché non si ritrova in quell’immagine, in quel doppio, in quell’alterità che gli appare bugiarda ed esagerata.
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R. Roca - L’immagine del volto in fotografia
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Nadar, Eugène Delacroix, 1858.
Recuperando il testo della lettera, si rintraccia l’esplicita richiesta di Delacroix di distruggere le prove e la lastra del suo ritratto fotografico: Addì 9 luglio 1858. Signore, sono così spaventato del risultato che abbiamo ottenuto che sono a pregarvi nei termini più insistenti e che sollecito come un favore, di distruggere la lastra. Non ho bisogno di dirvi come sarei dispiaciuto nel sapere che una sola di quelle tristi effigi potesse essere nota. Sono ancora sofferente e spero d’essere in migliore stato fra qualche giorno: ma in nome del cielo, non lasciate sussistere, per amicizia per me, il risultato di quel momento. Gradite, signore, le assicurazioni della mia affettuosissima considerazione. Eug. Delacroix1.
Il “risultato di quel momento” non corrisponde, dunque, all’idea che Delacroix ha di sé stesso, quella lastra ha evidenziato una triste effige in cui 1
F. Nadar, Quando ero fotografo, a cura di M. Rago, tr. it. di S. Santuari, Abscondita, Milano 2010.
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Etica ed estetica del volto
egli non si riconosce, il volto fotografato ha generato una tale trasposizione e trascrizione del viso originale da non consentire una lettura consequenziale, quasi logica, se non cronologica. È evidente che è stato prodotto un volto che non ha rispettato le leggi della mimesi con il reale, ha deviato il corso delle aspettative, non ha sedotto. È divenuto altro. Il soggetto, solidamente in posa, si fa riprendere dalla macchina e dal fotografo con la speranza di apparire sulla carta per quello che è e con la illusione di sembrare meglio di quello che è. Nulla di più falso. C’è poca differenza, ammesso che ve ne sia, tra un volto fotografato ed un ritratto su tela2. O meglio la differenza è da ricercare nella tecnica utilizzata dall’artista e nella diversità dei mezzi e degli strumenti impiegati. Ma la trasposizione etica ed estetica di un volto guardato e fotografato o dipinto, ecco quella non la si può ignorare come evento e come denominatore comune alle due forme di comunicazione visiva. Certo oggi la manipolazione digitale con cui il fotografo può intervenire sulle immagini se da una parte aiuta e facilita le sue possibilità artistiche, dall’altra fa sì che i volti impressionati dalla macchina fotografica vengano largamente modificati nelle loro riproduzione, dilatandone la loro lettura ed interpretazione emotiva. Quello che ci appare si allontana dal reale, si è modificato durante il percorso del farsi oggetto estetico, artistico, è approdato nel campo dell’immaginario, del virtuale (ma questo è un altro discorso) per esprimere idee e sentimenti che scalpitano al di sotto di quel corpo, di quella pelle. La potenzialità di una fotografia risiede nella risonanza evocativa, poetica, dei suoi soggetti, quasi avvolti in un «involucro trasparente e leggero»3, espressione incisiva di Roland Barthes che ci suggerisce, ricordandocelo, la natura stessa di un’immagine fotografica. Il volto, si sa, è da sempre considerato il nostro biglietto da visita, è l’espressione della nostra personalità, il veicolo più adatto e favorevole per la nostra autopromozione. Alla luce di tale consapevolezza, a inaugurare e rafforzare l’attenzione per il volto in fotografia ha contribuito l’opera di Nadar, che accompagna gran parte dello sviluppo della storia della fotografia. Il suo approccio ad 2
3
La storia del ritratto nella storia dell’arte, come storia di genere, ha, come è noto, origini seicentesche Sull’argomento va ricordato almeno il contributo di E. Castelnuovo, Il significato del ritratto pittorico nella società, in Storia d’Italia, Einaudi,Torino 1973. R, Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it di R. Guidieri, Einaudi, Torino 1980, p. 7.
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essa è tale da fargli compiere una vera e propria rivoluzione: in Nadar, che è stato disegnatore e poi fotografo, si evince la consapevolezza del tratto, del segno, che ci pone di fronte al problema dell’immagine fotografica come presunto criterio di verità. Il suo lavoro è in larga misura caratterizzato da un linguaggio fortemente emotivo e non mimetico, come appare dai risultati raggiunti. L’opinione che ognuno ha delle proprie qualità fisiche è talmente benevola che la prima impressione di ogni modello di fronte alle prove del suo ritratto è quasi inevitabilmente di disappunto e di rifiuto (è superfluo precisare che qui si sta parlando di sole prove perfette). Alcuni hanno il pudore ipocrita di dissimulare il colpo sotto un’apparente indifferenza, ma non credete loro. Avevano varcato la soglia diffidenti, astiosi e molti usciranno furibondi4.
A questo proposito, per ben comprendere i punti di contatto tra il disegno, qui inteso nell’accezione più pura e primitiva del termine stesso, de-signum, e la fotografia di Nadar, occorre andare a curiosare sul campo, cioè nel suo studio, durante le ore del suo lavoro dove si appresta a dare origine ai tanti, tantissimi ritratti fotografici scattati – non senza difficoltà – con apparecchi a lastre, solitamente al cobalto, dalla manovra infinitamente lenta. Le sue prove fotografiche riflettono questa intenzione: cercare il più possibile di interpretare la personalità dei suoi modelli, carpendone le espressioni tipiche, aiutato in questo anche dalla sua vena di caricaturista. Sostenuto ed assistito da quel lucernario orientato a nord che filtra una luce naturale, Nadar scatta con l’ausilio di forti contrasti luministici, simili a quelli ottenuti all’aperto, desueti e rari per l’epoca, capaci di conferire ai ritratti una plastica eloquente di spontaneità e vivacità. Nadar permette ai suoi personaggi la massima libertà di movimento e li aiuta nella ricerca, osservandoli e studiandoli, per dedurne nel momento dello scatto fotografico la massima resa espressiva. Nei suoi ritratti Nadar si concentra sullo studio della luce che, come si è detto, ha una fonte naturale, solare, non artificiale al magnesio, sostanza scoperta e commercializzata da poco da Davy5 e in grado rischiarare le lunghe pose del ritratto fotografico. 4 5
F. Nadar, Quando ero fotografo, cit., p. 96. «Fu inevitabile che i fotografi ricorressero anche alla luce artificiale, per rendersi indipendenti da quella solare; l’altra metà della vita del nostro pianeta, quella notturna, pretendeva una immagine che i fotografi furono presto in grado di eseguire, dopo una ricerca iniziata nei giorni stessi dell’invenzione.
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Etica ed estetica del volto
Prima di tutto, quando si guarda un’immagine di Nadar, si è di fronte ad una serie di letture complesse: l’autore compie delle scelte ben precise, mirate. Il suo occhio seleziona un insieme di aspetti del reale visibile che si propone di chiarire e comunicare attraverso il medium della fotocamera. Non tutto di quel reale, se pur percepito, ha un peso nella costruzione del messaggio che l’autore vuole trasmettere. Non bisogna attenderci quella stessa precisione dei dagherrotipi dell’epoca: precisione di contorno e, dunque, di mimesi raggiunta con i tempi lunghi di posa e con una serie di accorgimenti utilizzati nelle operating room di tutta Europa per rappresentare le fedeltà all’originale e garantire, presumibilmente, il carattere sociale della persona ritratta. Le immagini di Nadar attraverso uno stile personalissimo, negli anni in cui si va sviluppando in pittura e in letteratura il concetto di rifiuto della mimesi tout court, alludono alla natura ambigua di ciò che un ritratto può restituire all’occhio umano. Dunque non siamo di fronte a copie, rifacimenti, duplicati di volti che negano il complesso spazio dell’essere interiore, ma a qualcos’altro: Se numerosi modelli hanno il torto di lasciarsi andare a eccessive pretese e ricercatezze, altri, al contrario, manifestano un’indifferenza, una distanza così siderale che arrivano a disorientare ogni volontà di previsione. Come il tipo che scorsi un pomeriggio nella nostra hall, all’ora in cui le prove di stampa vengono date in esame alla clientela, sensibilmente puntuale a questo appuntamento quotidiano. Fra tanti piccoli gruppi assorti nelle loro rispettive prove, passavo dall’uno all’altro, esprimendo il mio parere. Finché raggiunsi quel tipo: «Signore, vuole che l’aiuti ad essere severo? Per cominciare, come trova la immagine?» «Niente male, signore. Sono soddisfatto.» «Permette che dia uno sguardo?»
Le prime esperienze furono quelle dei fratelli Johann e Joseph Natter di Vienna, che eseguirono nel 1841 pose di dieci secondi soltanto; Talbot utilizzò la scintilla elettrica per fotografare nel 1851 una rotativa del «Times» in movimento; ma Nadar era in grado, nel 1860, di illuminare ampi spazi delle catacombe parigine con pile Bunsen e di ottenere notide immagini con pose, però, dai diciotto ai venti minuti. Il magnesio, scoperto come sostanza da Davy nel 1808 e con il quale si erano fatte alcune prove fin dal 1860, fu finalmente commercializzato nel 1883 con l’appropriato slogan: “il sole in tasca”. La luce artificiale venne resa di uso più semplice innanzitutto utilizzando meglio il magnesio, nel 1925, costruendo speciali lampadine Vacublitz, che contenevano polvere di magnesio e si accendevano con una scintilla elettrica». I. Zannier, Storia e tecnica della fotografia, Laterza, Bari 2003, p. 154.
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Osservo le due prove. Sollevo gli occhi sul modello…Quella che aveva in mano, e di cui era «soddisfatto» era la foto di un altro6.
Certo siamo ancora distanti dalle riflessioni teoriche e lo spessore concettuale, dalle manifestazioni figurative che di lì a poco per mano di Paul Cézanne sconvolgeranno le forme di rappresentazione letterale della storia dell’arte e che porteranno nel ‘900 ai percorsi dell’astrattismo kandiskiano. Eppure, proprio in tali anni e nella medesima città di Parigi, si muovono i primi passi, timidi, di una pittura antireferenziale, che daranno vita all’arte contemporanea: sia che si guardi ad alcune prove di un’Impressione di sole nascente sia che si esamini, nel caso che più ci sta a cuore, ad un nuovo modo di intendere il ritratto pittorico che, come nel caso di tanta produzione simbolista, si dedica, per meditarci su, alle remote radici dell’essere. Crollano i vincoli formali ed espositivi del genere ritrattistico che per oltre due secoli in Europa ha dettato le regole ferree dell’autoreferenzialismo e l’arte figurativa, dunque anche la fotografia artistica, può finalmente liberarsi dall’imperativo del visibile o, meglio, di quel visibile gli artisti decidono di voler indagare in maniera profonda ciò che non è percepibile a occhio nudo, ciò che non è detto, ma esiste, ciò che non si vede oltre il fenomenico ma si avverte: il noumeno. Alla luce di tale consapevolezza si possono leggere le immagini riportate nelle pagine di questo breve studio, nelle quali gli artisti, e non solo Nadar, hanno ormai abbandonato la strada formale-espositiva di una significazione a senso unico, unidirezionale, chiusa. Le immagini, in senso lato, si stanno liberando del problema di dovere affrontare il figurativo ad ogni costo. La rinuncia all’iconismo dell’arte contemporanea ha in questa sede, logica e cronologica, la sua origine. Gli autori mettono in discussione la natura convenzionale dell’arte stessa, muovendo i primi passi verso il tentativo di smascherarne le attitudini principali di mimesis. Se torniamo alla produzione di Nadar legata al ritratto, anch’essa ci presenta la stessa entusiastica determinazione nell’individuare, oltre la superficie, l’essenza stessa del soggetto. Nell’azione dello scatto, la luce non solo s’incaricherà di rendere la delineazione delle sagome, ma sarà suo compito ricostruire sulla lastra ciò che la retina ha già visto. La luce: è lei la protagonista nella scrittura fotografica nadariana, una luce che si fa strumento di rivelazione e che da esteriore e naturale diventa intima e interiore. Una luce fatta di contrasto tonale, che entra nella stanza 6
F. Nadar, Quando ero fotografo, cit., p. 99.
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attraverso le lastre di vetro di una finestra lasciata aperta e che, in alcune prove, quasi abbaglia lo spettatore. Le informazioni sulle caratteristiche delle sue immagini attingono dalla fonte luminosa, enfatizzata, connotata, netta, rivelatrice. Una luce fenomenica e che prepotentemente ritroviamo nel repertorio del nostro così come nei ritratti e negli interni della pittura seicentesca del realismo francese che trae notoriamente dal caravaggismo la sua più intima lezione iconografica. Ecco perché è agevole, in un confronto, effettuare delle collazioni tra Nadar e la pittura del lorenese Georges de La Tour (1593-1652), la cui opera passa al setaccio tutto il linguaggio della tradizione simbolica per eliminarne i dettagli, le finezze, le minuzie. La ricchezza nelle collezioni nazionali francesi delle opere di de La Tour, al Louvre prima di tutto, ci permette di concepire una probabile filiazione visiva diretta che Nadar può avere visto e deve avere assorbito per fare sua, senza dover appellarsi a capolavori di altre raccolte straniere.
Georges de La Tour, Cristo nella bottega del falegname, (particolare), 1645, Museo del Louvre, Parigi.
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Sia consentita un’ulteriore osservazione. A Nadar, a differenza della tradizione pittorica seicentesca, non interessa una luce che conferisca al soggetto una connotazione ieratica, severa, religiosa. I suoi sono uomini mondani, sono nel mondo perché vi dimorano. Piuttosto gli interessa rivelare, attraverso una luce il più possibile essenziale, rigorosa, che punti dritta allo sguardo della persona ritratta, senza lasciare che un eventuale gioco di tessitura luministica possa distoglierci da quel volto, da quegli occhi, da quell’espressione. Attraverso l’immagine, le persone ritratte non mettono in risalto una serie di rituali convenzionali volti ad enfatizzare o accentuare il loro rango. Gli elementi singoli, i dettagli, quei pochi che rileviamo, non sono impressionati sulla lastra per comunicarne il ruolo. Ritagliati in spazi che definiscono i riferimenti essenziali dell’individuo, i ritratti di questi uomini, spesso intellettuali, scrittori, artisti, pongono il problema dell’identità al centro del loro significato. Torniamo alla domanda iniziale. Sembrano chiedersi: “Chi sono io?” o meglio “sono io?”.
Nadar, Autoritratto, 1855 circa.
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3. Slittamento verso l’impalpabile Abbiamo visto che spesso un volto, attraverso il mezzo fotografico, vuole provare, attestare quasi certificare, ciò che nella vita si è. Eppure avviene altro: esibendosi, quel volto mette in scena sé stesso, divenendo spettacolo per lo spettatore, per chi lo guarda, che cerca morbosamente di scoprire quali emozioni, affetti, drammi o diletti siano scritti su di esso, quale comunicazione quell’immagine possa mettere in scena amplificandone l’identità. In una recente mostra di Marco Anelli, una schiera di ritratti fotografici, 1545 per l’esattezza, sono il frutto di un lavoro sistematico in cui ogni individuo ritratto si è trattenuto nell’atrio del Moma di New York per il tempo che voleva di fronte all’artista Marina Abramovic, autentico comune denominatore della perfomance7.
Marco Anelli, Marina Abramovic, New York 2011.
7
La performance The Artist is Present di Marina Abramovic è stata realizzata durante la retrospettiva a lei dedicata al MoMA di New York da marzo a maggio 2010. Ogni sera, dopo la mostra, Anelli editava gli scatti realizzati durante la giornata e li postava sulla pagina Flickr del sito del MoMA seguitissimo da una community parallela. Il New York Times ha indicato che la pagina ha contato oltre 600.000 visitatori. In seguito, da dicembre 2010 a febbraio 2011, presso la Fondazione Forma per la Fotografia di Milano, gli scatti sono stati esposti nella mostra di Marco Anelli, Nel tuo sguardo - 716 ore, 3.090 occhi. Ritratti alla presenza di Marina Abramovic.
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Abramovic, rimasta seduta nel museo per 716 ore, non poteva né parlare né essere toccata, comunicava con il solo sguardo e con chi sceglieva di comunicare con lei, sedendosi, appunto, di fronte all’artista per tutto il tempo che desiderava. C’è chi lo ha fatto per pochi secondi, chi è rimasto anche per sette ore. Intanto Marco Anelli fotografava: volti, sguardi, occhi, 3.090 occhi. Troppo semplice pensare ad una mera documentazione: c’è evidentemente dell’altro. Oltre il rapporto artista/spettatore, oltre la performance di Abramovic, oltre gli stati d’animo su cui indagare, oltre le parole non dette e la comunicazione empatica, nella fotografia di questi volti c’è la messa in scena del sé che ogni individuo, più o meno con una certa consapevolezza, ha voluto metter in atto nel luogo più idoneo e deputato all’azione del mettersi in mostra. Lo spazio espositivo del Moma newyorkese, che Anelli ha adottato per il suo lavoro, è la cifra vistosa che aumenta, quasi esagera, l’epressività degli oggetti affrontati e ritratti in fotografia. Sia visitatori occasionali sia personaggi famosi (Vito Acconci, Lou Reed, Sharon Stone, Bjork, Patti Smith, Isabella Rossellini e altri) sono stati trasformati in tale direzione poiché, accettando le regole del gioco, cioè di divenire, attraverso l’immagine fotografata dei loro volti, interpreti della perfomance della nota artista serba, mettevano in scena lo spettacolo del sé. Sarà più agevole comprendere lo spazio di estensione, etico ed estetico, guardando alcune creazioni di Marco Anelli, in molte delle quali, al di là di un’abilità tecnica certosina, l’artista utilizza il medium fotografico per sottolineare il fatto che il suo fare linguistico e il suo voler far percepire lo spettacolo del reale ci mettono di fronte ad un percorso obbligato, cioè quello di avere il coraggio di guardarci negli occhi per scoprire che tutto è il contrario di tutto. E così capiamo che nulla è meno tautologico del volto fotografato di Vito Acconci, che implica di essere osservato, visto, considerato almeno una seconda volta perché sia possibile una laboriosa acquisizione di riflessioni su quel volto stesso, che sembra desideroso di liberarsi dal contingente e dal necessario per elevarsi a pura libertà. L’immagine, anche se si dà al mondo in forma iconica, dilata i suoi confini perché come opera artistica rompe coraggiosamente la stasi dell’identità del soggetto ritratto, facendolo oscillare tra equilibrio e disequilibrio della percezione del sé, proprio perché costruita ad opera di altri. Il corpo di Acconci è ridotto alla sola testa, non c’è presenza di sfondo né, dunque, c’è l’idea del luogo in cui si trovi il soggetto: mancano gli orientamenti. Acconci guarda dinanzi a sé, fissa lo spazio, non c’è enfasi, retorica, dettaglio, codice sociale.
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A poco a poco siamo instradati verso lo slittamento: dal visibile all’impalpabile. Può un volto fotografato, bidimensionale per definizione, contenere la profondità, lo spessore, la consistenza dell’essere? In campo teoretico possiamo soffermarci sulle parole che Sartre scriveva nelle pagine introduttive nel 1943 de L’essere e il nulla Fenomeno è ciò che si manifesta, e l’essere si manifesta a tutti in qualche modo, giacché possiamo parlarne e ne abbiamo una certa nozione. Deve quindi esservi un fenomeno d’essere, un’apparizione di essere, descrivibile come tale. L’essere sarà scoperto attraverso qualche via di accesso immediato, la noia, la nausea, ecc., e l’ontologia sarà la descrizione del fenomeno d’essere quale si manifesta in sé stesso, cioè senza intermediari8.
Dunque avendo l’intervento del gesto fotografico, dell’occhio fotografico, dell’intermediario, indirettamente, in linea di principio, la riflessione che possiamo fare è che questi volti fotografati, oggetto della nostra indagine, non corrispondano alla realtà originaria, non ne svelano l’essere, ma ne conservano l’impronta. Scrive Sartre: «Tuttavia conviene porre ad ogni ontologia una domanda pregiudiziale: il fenomeno d’essere colto in tal modo è identico all’essere dei fenomeni? Cioè, l’essere che mi si svela, che mi appare, è della medesima natura dell’essere degli esistenti che mi appaiono?»9. Tramonta l’ideale dell’imitazione, della somiglianza assoluta: quello che appare diventa veicolo di altro, e nelle immagini fotografiche, territorio di frontiera tra l’interno e l’esterno, tra il fenomeno dell’essere e l’essere del fenomeno, la vista di un ritratto non può che restare la vista di un ritratto. Esaminiamo meglio. In un oggetto particolare si possono distinguere sempre qualità come il colore, l’odore, ecc., e, partendo da queste, si può sempre individuare un’essenza che esse implicano, come il segno implica il significato. L’insieme “oggettoessenza” costituisce un tutto organico: l’essenza non è nell’oggetto, è il senso dell’oggetto, la ragione della serie di apparizioni che lo manifestano. Ma l’essere non è né la qualità dell’oggetto afferrabile fra le altre, né il senso dell’oggetto. L’oggetto non fa richiamo all’essere come ad un significato: sarebbe impossibile, per esempio, definire l’essere come una presenza –anche l’assenza rivela l’essere perché non è là, è pur sempre essere. L’oggetto non possiede
8 9
J. P. Sartre, L’essere e il nulla, tr. it. di G. Del Bo, Il Saggiatore, Milano, 1965, p.13. Ibidem.
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l’essere, la sua esistenza non è una partecipazione all’essere né qualche altro tipo di relazione. L’oggetto è, ecco l’unica maniera di definire il suo modo di essere; infatti l’oggetto non occulta l’essere, ma neppure lo svela10.
Ciò premesso, sulla questione dei rapporti tra icona e realtà, tra linguaggio fotografico e visione naturale del reale, occorre precisare che la riflessione va posta in maniera esplicita sulla scelta non convenzionale e dunque di volta in volta arbitraria del segno (fotografico) e della sua relazione con l’oggetto che esso ha voluto significare. Tale relazione è ormai dichiaratamente liberata da una falsa e superata idea che l’immagine fotografica sia un’esatta copia del reale o di ciò che riproduce. La pratica fotografica è un linguaggio e come tale ha dei codici ed una sintassi. Già nel 1961 tale idea è in Barthes nel saggio Le message photographique, la fotografia è indagata come un messaggio che ha bisogno sempre di una didascalia, di un’indicazione verbale che la chiarisca e le dia un senso. Scrive Barthes: Qual è il contenuto del messaggio fotografico? Cosa trasmette la fotografia? per definizione, - trasmette- la scena medesima, la realtà. Dall’oggetto alla sua immagine, vi è certamente una riduzione: di proporzioni, di prospettiva, di colore. Ma questa riduzione non è una trasformazione (nel senso matematico del termine); per passare dal reale alla sua fotografia, non è necessario ritagliare questo reale in unità, e comporre queste unità in segni sostanzialmente differenti dell’oggetto che essi propongono alla lettura; tra questo oggetto e la sua immagine non è necessario disporre di un relais, ossia di un codice, certamente l’immagine non è il reale; ma essa se non altro è l’analogon perfetto, ed è proprio questa perfezione analogica che, nel senso comune, definisce la fotografia. Così appare la regola particolare dell’immagine fotografica: è un messaggio senza codice; proposizione alla quale è necessario subito aggiungere un importante corollario: il messaggio fotografico è un messaggio continuo […]. Insomma, anche questa arte imitativa comporta due messaggi: un messaggio denotato, che è lo stesso analogon, e un messaggio connotato, che è il modo di cui la società dà a leggere, in una certa misura, ciò che essa ne pensa11.
Quando leggiamo l’immagine fotografica di un volto, si presentano ai nostri occhi una serie di dati più o meno chiari e decifrabili, perché convenzionali e riconoscibili: la sintassi del linguaggio fotografico prevede con10 11
Ibidem. R. Barthes, Le message photografique, «Communication», Paris, 1, 1961, p. 128, tr. di I Zannier, in I. Zannier, Storia e tecnica della fotografia, cit., p. 364.
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venzioni di significati che riconducono a ciò che Roland Barthes individua e definisce come il denotatum. Il modello iconico fornito dal messaggio fotografico, per la sua analogia con la realtà, viene considerato, almeno in prima istanza, come un messaggio senza codice né sintassi. L’indagine di Barthes mostra come l’immagine fotografica sia in grado, perché leggibile, di spingersi molto in là nel territorio presuntamente occupato dalla denotazione e detenere anche dei poteri connotativi. Il senso di un messaggio non verbale infatti potrà essere ricostruito solo dopo la verbalizzazione di quest’ultimo, dopo la sua traduzione in un sistema linguistico. Leggere una fotografia comporta obbligatoriamente affrontare un percorso di senso.
Marco Anelli, Vito Acconci, New York 2011
4. La credibilità dell’immagine Uno degli ambiti più problematici, perché ambigui, della pratica fotografica è quello che ci viene offerto da un volto che è stato fotografato: esso è un oggetto, non naturale, ma già costruito e prefabbricato. Anche se non è stata utilizzata alcuna pratica di ulteriore manipolazione, di sovraim-
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pressione, di doppia esposizione, di solarizzazione, anche se l’immagine è perfettamente a fuoco, organizzata in una chiara e strutturata risoluzione formale, quello che noi vediamo è comunque un volto che ha subito un dislocamento da una dimensione del naturale per essere proiettato in una dimensione dilatata e artificiale del sé. Così questa migrazione in un campo artificiale ferma il tempo e decreta l’immobilizzazione del soggetto ritratto. Ma non solo. Come ha osservato Marshall Mc Luan nel suo fondamentale studio sui media Gli strumenti del comunicare, Dire che «la macchina fotografica non può mentire» equivale semplicemente a sottolineare le numerose frodi che vengono compiute in suo nome. Al punto che il cinema, preparato dalla fotografia, è divenuto sinonimo di fantasia e d’illusione, trasformando la società in quello che Joyce definiva un «all nights newsery reel» [una bobina di pettegolezzi per tutte le sere], dove alla realtà si sostituisce un mondo reel [che significa bobina, ma con un’assonanza ironica con real, reale]. Joyce la sapeva più lunga di chiunque altro sugli effetti della fotografia sui nostri sensi, sul nostro linguaggio, e sui nostri processi mentali. Riferendosi a quella «scrittura automatica» che è la fotografia parlava di abnihilization of ethim. Egli vedeva nella foto un rivale, e forse anche un usurpatore, della parola, scritta o stampata. Ma se «etimo» (etimologia) indica il cuore, il nocciolo e la sostanza di quegli esseri che noi fermiamo con le parole, è possibilissimo che Joyce abbia voluto dire che la fotografia è la nuova creazione dal nulla (ab-nihil), o anche una riduzione della creazione a un negativo fotografico. Se nella foto esiste effettivamente un terribile nichilismo e una sostituzione delle ombre alla sostanza, il fatto di rendercene conto non peggiora certo la situazione12.
Un’osservazione interessante, se a emblema di questo discorso scegliamo un’opera del 1921, nella quale il volto fotografato è reso in maniera manifestamente problematica e ci suggerisce un preciso aspetto dell’identità e del sé. Sfidando i codici della corerenza e dell’ovvietà, Marcel Duchamp nella celebre serie di ritratti dedicati a Rrose Sélavy, si libera da qualsiasi prigionia dell’ovvio e mette esplicitamente in discussione i parametri dell’identità e dell’equivalenza. Ma soprattutto della credibilità dell’immagine stessa. Le foto di Duchamp esibiscono una figura importante. In una serie di singoli scatti in bianco e nero, che ritraggono un’elegante e misteriosa signora, si leggono una serie di particolari tali da suggerire un territorio legato all’universo femminile, visto e conosciuto attraverso una 12
M. Mc Luhan, La Fotografia-Il bordello senza muri, in Gli strumenti del comunicare, tr. it. di E. Capriolo, Il Saggiatore, Milano 1967, pp. 205-206.
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Etica ed estetica del volto
codificazione di segni sociali certi e rassicuranti e che rimandano alle pagine patinate di un mondo holliwoodiano. Eppure quella scrittura automatica sta sfidando i codici dell’esistenza. Dietro quel ritratto, abile fotomontaggio realizzato in collaborazione con l’amico Man Ray, scopriamo che il volto fotografato è proprio quello dello stesso Duchamp, idoneamente truccato ed adattato in una cornice ingentilita dal cappello, braccia e abiti della compagna di Francis Picabia, Germaine Everling. Cosa è vero, cosa è finzione? La credibilità dell’immagine vacilla, perché vacilla l’identità che ne viene occultata, alterata, beffata. Ma Duchamp, abile maestro dello spiazzamento, anartista, giocatore, pensatore, prosegue l’indagine sulla credibilità dell’immagine e sulla dissimulazione dell’identità, realizzando nel 1923 Wanted 2000 Reward: ricrea una locandina per ricercati e, ironicamente, inserisce il suo volto di fronte e di profilo, proprio come in quelle vere che si vedono nelle stazioni di polizia. Giù in basso, nella didascalia, sono riportati i connotati e gli pseudonimi dell’improbabile ed impassibile malvivente: George W. Welch, alias Bull, alias Pickens. E conosciuto anche sotto il nome di Rrose Sélavy. L’opera Wanted, quarant’anni dopo, sarà utilizzata dall’artista come manifesto di una sua mostra californiana al Pasadena Art Museum. Intorno agli anni ’20, Duchamp decide di sottrarsi al mondo, alla mondanità, e di allontanarsi di nascosto lì dove spesso è atteso, lì dove lo cercano. Prova a dissolvere sé stesso, il suo nome, dopo aver dissolto l’opera d’arte con il suo gesto artistico. Ecco perché ha bisogno di un alter ego, di un volto che possa presenziare al suo posto. E tale volto non può e non deve manifestarsi attraverso un ritratto pittorico: troppe implicazioni legate alla tecnica, ai tempi, agli imprevisti e alla profondità. La fotografia è perfetta per un linguaggio della superficie, non analogico. L’immagine di Rrose Sélavy è circondata da risonanze ma nulla vi è di documentazione fedele e precisa. Vi può essere intuizione, dunque si può fare dell’altro, mettendo in gioco, nel territorio dell’arte, ciò che spesso è già dato per certo, ma che magari sfugge e non è visibile. Senza la fotografia Rrose Sélevy non sarebbe mai vissuta: si ribalta il nichilismo intravisto da Mc Luhan semplicemente perché non c’è sostituzione tra ombre e sostanza, tra volto fotografato e volto reale, tra mimesis ed esistente. Semplicemente perché la signora Sélavy esiste grazie a quella fotografia, null’altro. Scacco matto.
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R. Roca - L’immagine del volto in fotografia
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Duchamp, Rrose Sélavy, 1921.
5. Bibliografia Roland Barthes, Le message photografique, «Communication», 1961, 1. Id., La chambre claire, Note sur la fotographie, Gallimard, Seuil, Paris 1980; La camera chiara. Note sulla fotografia, tr. it di R. Guidieri, Einaudi, Torino 1980. Jean Baudrillard, Le crime parfait, Galilée, Paris1 995; Il delitto perfetto, tr. it. di G. Piana, Raffaello Cortina, Roma 1996. Felix Nadar, Quando ero fotografo (tit. orig. Quand étais photographe), a cura di M. Rago; tr. it. di S. Santuari, Abscondita, Milano 2010. Marshall Mc Luhan, Undarstanding Media New York, McGraw-Hill Book Company 1964; Gli strumenti del comunicare, tr. it. di E. Capriolo, Il saggiatore, Milano 1967.
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Etica ed estetica del volto
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Jean-Paul Sartre, L’être et le néant, Gallimard, Paris 1943; L’essere e il nulla, tr. it. G. Del Bo, Il Saggiatore, Milano 1965. Italo Zannier, Storia e tecnica della fotografia, Laterza, Bari 1982.
6. Elenco delle illustrazioni Marco Anelli, Marina Abramovic, New York 2011. Id., Vito Acconci, New York 2011. Duchamp, Rrose Sélavy, 1921. Georges de La Tour, Cristo nella bottega del falegname, (particolare), 1645, Museo del Louvre, Parigi. Nadar, Autoritratto, 1855 circa. Id., Eugène Delacroix, 1858.
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TELEVISIONE
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PALMA DI GIOIA
I MODI DELL’ESSERE “VOLTO” TRA TELEVISIONE E REALTÀ*1
[La televisione] non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari
Entro lo schermo televisivo, immagine e suono sono inestricabilmente congiunti, o rappresentano due espressioni del continuum comunicativo potenzialmente a sé stanti? La tecnologia sottesa al funzionamento della trasmissione televisiva consente di tenere separato il canale visivo da quello sonoro, con la conseguenza che lo spettatore ha la possibilità di destinare la propria attenzione esclusivamente al canale visivo, nella forma dello scorrimento più o meno veloce di immagini, o, al contrario, di mettere buio su questo, privilegiando quello sonoro. Tuttavia, la modalità con la quale, soprattutto nell’ultimo decennio, molti contenuti sono pensati e trasmessi, consentirebbe ad un ipotetico spettatore alle prese con tale banale esperimento di non intervenire attivamente per scindere i due canali comunicativi, essendo quello visivo a tal punto privilegiato su quello sonoro, avendo, cioè, l’immagine raggiunto il culmine della sua centralità (e della sua capacità accentratrice), da rendere naturalmente indifferente lo spettatore al passaggio di suoni, e da consentire, come nel nostro caso, di svolgere un’analisi sul volto umano, elemento particolare dell’aspetto visivo, senza interrompere il flusso sonoro della comunicazione; flusso che, perdendo l’originario carattere pedagogico, finisce per svolgere, in molte situazioni, una mera funzione di contorno *1
Ad Arcy.
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Etica ed estetica del volto
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al flusso visivo, o per rivestire il ruolo di riempimento del silenzio delle abitazioni. Ma perché svolgere una riflessione sul volto in televisione? Chi sono i volti che i nostri occhi di spettatori guardano all’interno della «scatola domestica»? La televisione è una vera e propria passerella ininterrotta (in senso non metaforico, ma potenzialmente letterale, essendo le innumerevoli programmazioni televisive trasmesse a ciclo continuo, quindi accessibili dagli spettatori in qualunque momento della giornata e dell’intera esistenza) di volti, i quali, se appaiono, è per rispondere ad una precisa funzione mediatica: convincere1. E perché ciò avvenga, gli operatori televisivi chiedono che i volti siano il più possibile familiari all’immaginario dei telespettatori e allo stesso tempo perfetti e immutabili, al pari della divinità.
1. Il volto familiare In seguito alla diffusione delle apparecchiature che consentono la visione a distanza, la comunicazione tra volto e volto, tra sguardo e sguardo, si è fatta sempre più mediata da uno schermo, sia esso televisivo, di computer o di telefono cellulare. La funzione che il volto riveste, o per meglio dire, che viene ufficialmente riconosciuta al volto tra gli operatori della comunicazione mediatica, è quella di «bucare il video»2, di attraversare lo schermo per creare un filo di continuità con lo spettatore. Al fine di soddisfare tale funzione, «produttori, autori e registi dedicano tutto il loro impegno e mettono a disposizione le loro conoscenze alla ricerca di un viso che faccia il programma»3, di un viso che partecipi, cioè, alla costruzione di uno spazio comunicativo nel quale lo spettatore possa trovare, attraverso il volto e l’immagine di un altro individuo, se non di una moltitudine di individui, una sorta di altro/i sé allo specchio, l’altro sé uscito allo scoperto, in grado di mettere in scena l’universo non detto dei sentimenti, dei pensieri, dei desideri. Nel volto televisivo convergono proiezioni emotive, aspettative reali e illusorie del pubblico a casa. Per la sua specificità di «luogo» privilegiato del corpo nel quale si esprime la «personalità intima», nel quale «i processi 1 2 3
Cfr. V. Codeluppi, Tutti divi. Vivere in vetrina, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 2324. G. Cerasola - P. Taggi, Saremo famosi. Superare i casting dei reality e delle fiction, Gremese, Roma 2011, p. 49. Ibidem.
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P. Di Gioia - I modi dell’essere “volto” tra televisione e realtà
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psichici […] si coagulano in forme solide, capaci di rivelare l’anima una volta per tutte»4, il volto rappresenta il principale elemento di comunicazione del ventaglio emotivo dell’essere umano, all’interno del quale risiede anche il desiderio di cambiamento. Se il volto attore di questi processi è un volto televisivo, allora la comunicazione di tale desiderio di cambiamento si rivolge ad un pubblico più o meno numeroso, che introietta un’immagine di riferimento cui legare la possibile trasformazione individuale, identificandosi in essa. Nelle società ipermoderne le persone sono alla disperata ricerca di un’identità. Sono infatti sempre più costrette a vivere una condizione di nomadismo sia negli spazi fisici sia all’interno delle reti mediatiche. E non possono più aggrapparsi alle rassicuranti ideologie proprie della tradizione per trovare identità da utilizzare. Ecco allora arrivare in aiuto l’identificazione con il divo. Questo si comporta come le marche aziendali: definisce una precisa identità. Rappresenta pertanto per le persone un modello particolarmente potente e convincente da seguire5.
L’operazione mediatica contemporanea non presenta neppure eccessive difficoltà di elaborazione ed applicazione: a differenza del divo hollywoodiano, schivo rispetto alla costante visibilità di massa, il divo di oggi vuole assolutamente essere visto, conosciuto e idolatrato dal suo pubblico. Vuole cioè vetrinizzarsi. Tende perciò a non fare distinzioni tra la sua vita privata e quella sulla scena mediatica e spettacolare e impiega il suo corpo come fondamentale strumento di comunicazione6.
Ci chiediamo, però, quale tipo di contenuto si intenda trasmettere o, meglio, se esista la volontà di trasmettere un contenuto capace di oltrepassare l’immagine che riempie lo schermo di sé e della sua luminosità. A ben guardare, i corpi e i volti televisivi, selezionati e scelti per la loro capacità di rimandare a precise tipologie dell’immaginario comune (l’uomo di successo, la donna in carriera, la bellezza divina in versione maschile e femminile, la bellezza rassicurante e custode di valori intramontabili), sono destinati a farsi strumenti di “appoggio” delle merci (e in quanto tali, mercificati essi stessi), attraverso le quali le case produttrici e le compagnie pubblicitarie possono costruire modelli di identità sociale da fornire al pub4 5 6
G. Simmel, Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, tr. it. di L. Petrucchi, il Mulino, Bologna 1985, p. 46. V. Codeluppi, Tutti divi. Vivere in vetrina, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 23. Ivi, p. 25.
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Etica ed estetica del volto
blico di massa, modelli che avranno durata oscillante, instabile, legata ai fluttuanti tempi della moda e del consumo tipici della civiltà occidentale. Non stupisce, quindi, che il volto di Antonio Banderas, divo del cinema internazionale prestato di tanto in tanto al mondo pubblicitario, assai noto per le sue qualità di interprete cinematografico, ma non meno per l’aura di sex-symbol che lo caratterizza, dopo essere stato testimonial coprotagonista per una marca di collant femminili, diventi, a distanza di più di un decennio dal primo spot, immagine rassicurante di un mugnaio sperimentatore di nuovi biscotti, in un momento, come questo che viviamo, in cui la richiesta e la ricerca di autenticità e genuinità si allarga ad ogni aspetto dell’esistenza. Il divo assume sembianze umane, facendo attenzione, tuttavia, ad esorcizzare la caducità che è dell’uomo comune, creando, così, l’incontro con il pubblico nel prodotto stesso, divenuto, a sua volta, ponte per un legame immaginario tra il pubblico e il divo, il quale, terminato lo spot, ritorna nella sua identità originaria, così da continuare ad «alimentare aspettative e ambizioni»7 dei telespettatori. Apparso per una manciata di secondi sugli schermi, il divo comunica a chi lo guarda che «attraverso l’acquisto e l’impiego di determinati prodotti i consumatori possono entrare nei panni di quei personaggi importanti che sono stati in grado di avere successo nella società»8. Prestatosi al meccanismo di mercificazione della propria identità di uomo di spettacolo, il divo, in questo caso, ha assecondato la finalità di proporre un’oasi di rassicurazione, seppur valida per la sola durata dello spot. Ma da che cosa lo spettatore sente il bisogno di essere rassicurato, se di fatto assiste allo scorrere di immagini al sicuro nella propria casa, nella possibilità, inoltre, di interrompere a suo piacimento tale flusso di volti, di parole, di azioni, un flusso che «può facilmente avvolgerci […] e portarci ad abbassare il livello di attenzione e a non trovare più tempo per articolare ragionamenti su quanto stiamo vedendo e ascoltando»9? Il meccanismo del virtuale è concepito per «condurre il telespettatore non davanti allo schermo (vi è sempre stato davanti: è addirittura questo il suo alibi e il suo rifugio), ma nello schermo, dall’altro lato dell’informazione»10, immergendolo sempre più a fondo nel contesto rappresentato, rendendolo, 7 8 9 10
Ivi, p. 21. Ivi, p. 22. L. Zanardo, Senza chiedere il permesso. Come cambiamo la tv (e l’Italia), Feltrinelli, Milano 2012, p. 114. J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, tr. it. di G. Piana, Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 35.
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P. Di Gioia - I modi dell’essere “volto” tra televisione e realtà
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infine, veicolo di trasposizione di modelli comportamentali e conoscitivi dai luoghi del vissuto virtuale ai luoghi del vissuto reale. In tale passaggio, i volti televisivi rivestono un ruolo fondamentale: proprio per la loro capacità di bucare il video, lo trapassano fino a varcare quotidianamente la soglia delle case dei telespettatori, per diventare, spesso, componenti aggiuntivi dei nuclei familiari, o al limite per costituire nuclei familiari artificiali, secondo un processo assai più ampio che già nella seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso Günther Anders definiva «familiarizzazione del mondo»11. L’inganno di cui vogliamo parlare consiste […] nel fatto che, sebbene in quanto consumatori di film, radio e televisione – ma non solo in quanto tali – viviamo in un mondo alienato, sembriamo vivere nella massima confidenza con tutto e con tutti, con persone, paesi, situazioni, avvenimenti, persino con i più estranei, anzi particolarmente con questi […]. Chiamiamo «familiarizzazione del mondo» questo processo di pseudofamiliarizzazione che non ha un nome […] – e non nel senso che buttiamo le braccia al collo a quanto c’è di più estraneo, ma nel senso che persone, cose, avvenimenti e situazioni estranei ci vengono presentati come se ci fossero familiari, ossia in una condizione già «familiarizzata»12.
In virtù di tale processo, «è stata soppressa la distanza tra noi e quanto ci viene proposto»13, non senza il contrappeso dell’aumento, questa volta, della distanza tra i singoli individui nelle forme di socializzazione diretta. «Se devo avere qualche cosa a cui dare del tu, sono le immagini che devono incominciare a darmi del tu. […] Non c’è trasmissione a cui manchi questo carattere confidenziale; non c’è essere a domicilio da cui non irradi»14, aggiungeva Anders; e ancora osservava: «Se l’annunciatrice della televisione compare sullo schermo, si china verso di me con calcolatissima inavvertenza, lasciando che il mio sguardo penetri profondamente, come se se la intendesse con me»15. La «calcolatissima inavvertenza» colta da Anders nel fare magnetico dell’annunciatrice televisiva, divenuta regola imprescindibile (sintetizzabile nella già ricordata espressione «bucare il video») della comunicazione televisiva, riesce a crearsi un varco nello spazio 11 12 13 14 15
G. Anders, L’uomo è antiquato 1. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, tr. it. di L. Dalla piccola, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 139. Ivi, pp. 138-139. Ivi, p. 139. Ibidem. Ivi, pp. 139-140 (corsivo mio).
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Etica ed estetica del volto
immaginario, a prendere per mano il telespettatore e a condurlo in una dimensione altra dalla propria, caratterizzata da un’interlocuzione a senso unico16, nella quale l’individuo è appunto ridotto al mero ruolo di telespettatore, cioè di colui che guarda a distanza, non ha importanza se con spirito critico, con trasporto emotivo, o addirittura con passività. Ciò che davvero conta in questo rapporto a distanza, attualmente quasi completamente regolato dai dettami del linguaggio pubblicitario, è che lo spettatore sia richiamato incessantemente a presenziare, e a raccogliere l’urgenza comunicativa degli operatori televisivi: La programmazione televisiva sembra un’infinita televendita. Infatti tutto ciò che viene annunciato e presentato ai telespettatori è imperdibile, unico, entusiasmante. E non costa praticamente niente. Viene di continuo ribadita l’idea, anche con richiami espliciti guardando direttamente nella telecamera verso gli spettatori, che ognuno di noi è importante, un ospite particolare. E soprattutto il messaggio che corre sempre a filo di schermo è che solo condividendo le abitudini della grande comunità televisiva si è persone pienamente realizzate. Una finzione costante ed evidente che paradossalmente tenta di spacciare la tv per una riproduzione esatta del mondo17.
L’individuo davanti al teleschermo, infatti, continua a vivere la propria esistenza “reale”, quella corporale, organica, nella medesima abitazione, e non in uno studio televisivo, tra le medesime persone, e non come ospite tra gli ospiti di un qualsiasi talk o reality show, usando e toccando i medesimi mobili e oggetti della sua quotidianità, non maneggiando l’infinità di utensili che colmano le innumerevoli cucine brillanti di finta intimità; lo fa, tuttavia, con un sentimento di più assopita appartenenza, visto che a dare del tu al mondo dei suoi desideri sono i volti nello schermo.
16
17
Tra le conseguenze che Anders pone all’attenzione dei lettori, si legge: «Se il mondo ci rivolge la parola senza che noi possiamo rivolgerla a lui, siamo condannati a essere interdetti, dunque asserviti» (ivi, p. 134). A tal proposito si può notare come, negli ultimi anni, vada diffondendosi la consuetudine di leggere o di trasmettere, nel corso della programmazione dei dibattiti televisivi, messaggi di commento da parte dei telespettatori collegati attraverso la rete internet al dibattito stesso, in segno di partecipazione pubblica. In genere, i messaggi letti contribuiscono allo svolgimento del dibattito; al contrario, i messaggi lasciati scorrere nella parte bassa dello schermo, esauriscono la loro funzione comunicativa e informativa nel momento stesso in cui vengono trasmessi, senza che di essi si tenga conto nel corso del dibattito. L. Zanardo, Senza chiedere il permesso, cit., p. 155.
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P. Di Gioia - I modi dell’essere “volto” tra televisione e realtà
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Quando il lontano si avvicina troppo, la realtà si allontana e impallidisce. Quando il fantasma diventa reale, la realtà diventa fantasma. La casa è degradata a container, tutta la sua funzione si riduce ora a contenere lo schermo per la ricezione del mondo esterno18.
Il volto, lo sguardo che oltrepassano lo schermo catturando l’attenzione degli spettatori a casa, instaurano con essi singoli legami, tanto forti, nel momento in cui la programmazione è in atto, da allentare e infine rendere liquidi i legami comunicativi tra i membri del gruppo familiare o coabitante. «Desco familiare di segno negativo»19, attraverso la moltitudine di volti proposti, e dunque attraverso una moltitudine di legami immaginari che ciascun individuo si illude di poter instaurare e controllare, il televisore «non fornisce il centro comune, anzi lo sostituisce con il comune punto di fuga prospettico della famiglia»20. Avviene soltanto che i membri della famiglia prendono il volo contemporaneamente, nel migliore dei casi insieme, ma mai in comune, verso il punto di fuga prospettico, verso un mondo dell’irrealtà o un mondo che non condividono con nessuno (perché nemmeno essi stessi vi prendono realmente parte); o, semmai, lo condividono soltanto con i milioni di «solisti del consumo di massa» che, come loro e contemporaneamente a loro, fissano lo schermo21.
In più di mezzo secolo da quando Anders pubblicava le sue riflessioni, l’apparecchio televisivo ha perso, in molte occasioni, il ruolo di «desco familiare», per diventare oggetto personale, con il quale il singolo possessore, isolato nel proprio personale spazio all’interno di una singola e complessiva abitazione, compie scelte senza alcuna negoziazione con gli altri membri del nucleo familiare. Il «punto di fuga prospettico» della metà del secolo scorso ha compiuto tutto il suo potenziale disgregante, individualizzante, scindendo materialmente i legami reali, e sostituendosi ad essi attraverso la possibilità di tenere accesi, contemporaneamente, più apparecchi e di ospitare i rispettivi volti-amici immaginari. A questo punto, però, torniamo indietro all’interrogativo che ci siamo posti al principio del presente paragrafo, cioè quale possa essere il pericolo al quale il telespettatore si sente esposto, e a partire dal quale si mette alla ricerca di rassicurazioni.
18 19 20 21
G. Anders, L’uomo è antiquato, cit., p. 128. Ivi, p. 129. Ibidem. Ivi, pp. 129-130.
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Etica ed estetica del volto
Se lo spettatore percepisce la realtà che materialmente lo circonda come distante, sbiadita nella sua vitalità e vivibilità, e se allo stesso tempo percepisce come vivace, partecipativa, inclusiva la realtà proposta attraverso la televisione, è da questa stessa, che tende ad essere la «vera realtà»22, che la vulnerabilità del singolo spettatore a casa sente di dover trovare riparo. La televisione dei nostri giorni, che Vanni Codeluppi definisce «transtelevisione»23, ovvero la televisione dei reality show, è a tal punto onnicomprensiva e apparentemente autentica, da far credere che «non può esistere una dimensione diversa: la sola realtà è quella che già esiste e basta inquadrarla con l’obiettivo di una telecamera per poterla vedere»24. I volti tra i quali è posta la coscienza più o meno rapita, più o meno assopita del telespettatore, sono volti nei quali è sempre più facile il processo di identificazione, finalizzato, però, al successivo processo di riproduzione. Non è più soltanto il grande divo ad offrire il suo volto alla televisione. L’attuale era della transtelevisione punta i riflettori sull’intera società. Come in una grande piazza, come in una grande casa, in televisione si avvicendano o coesistono volti al risveglio o assonnati, volti nella quiete o in preda alla collera, volti che rassicurano con sguardi e sorrisi di innocenza, ma anche volti che tentano di scolpire chirurgicamente su loro stessi l’ambizione utopica di eternità; ancora, volti di persone scomparse, di persone uccise, di persone vittime di violenza, di persone attrici di violenza. Insieme agli oggetti/merci, la televisione ha messo in vetrina l’uomo stesso che, “per essere qualcuno”, deve avere il coraggio di “esporsi”, cioè di ex-por-si, di porre sé al di fuori dei propri spazi e condizione originari, di offrire se stesso alla vista degli altri. Codeluppi definisce, appunto, questo processo di esposizione come un processo di «vetrinizzazione», nel quale sarebbe coinvolta l’intera società contemporanea. La vetrina, con la sua trasparenza che crea relazioni, è una perfetta metafora del modello di comunicazione che tende oggi a prevalere. Se l’individuo si mette in vetrina, si espone allo sguardo dell’altro e non si può più sottrarre a tale sguardo. «Vetrinizzarsi» non è un semplice mostrarsi, che comporta la possibilità di trattenere qualcosa per sé. È un atto che implica un’ideologia della trasparenza assoluta, implica cioè l’obbligo di essere disponibili a esporre tutto in vetrina. Non è più possibile lasciare sentimenti, emozioni o desideri nascosti nell’ombra25. 22 23 24 25
V. Codeluppi, Stanno uccidendo la TV, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 35. Ivi, p. 36. Ivi, p. 35. V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 17.
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Gli occhi del mondo spiano vite, corpi e volti che, come personaggi pirandelliani, barattano quotidianamente drammi, sogni e intime felicità con un’apparizione animata dalla speranza di una svolta esistenziale definitiva, ma ciò che sta accadendo è in realtà l’avverarsi della famosa profezia di Andy Warhol, per cui ciascuno, nel mondo, va guadagnandosi i suoi «quindici minuti di celebrità». Momenti di vita, emozioni, sentimenti, potenziali e falsi talenti partecipano, quasi sempre inconsapevolmente, ad «affinare l’illusione»26 della realtà, l’illusione che qualcuno abbia, per qualsiasi situazione, capacità risolutiva. Ma lo scopo è costruire programmi che facciano ascolti, è «illudere per costituire un evento»27. Si moltiplicano, quindi, eventi di macabro interesse, che si traducono in pellegrinaggi reali, oltre che virtuali, nei luoghi che hanno visto consumarsi omicidi, nell’ansiosa ricerca dei volti che ne sono stati attori, per scrutarne gli sguardi e testimoniarne la reale esistenza, nella speranza, forse, una volta sul posto, di affollare la platea alle spalle del cronista e di mandare un saluto a casa. Allo stesso tempo, si cercano i volti delle vittime, dirette e indirette, delle violenze e follie, che non vengono risparmiate alla costruzione dell’evento mediatico, anzi ne diventano parte attiva, in racconti asfissianti che obbediscono ad una sorta di rituale catartico e compensatorio della perdita, il quale, però, non fa che riproporsi alla coscienza dei telespettatori come pretesto emulatorio, con elementi di contesto sociale così tanto comuni, tipici, umani, da poter essere facilmente riscritto con nuovi nomi e nuovi volti, cui spetterà, allora, il tributo mediatico dovuto. Introdotta con finalità sociale e pedagogica, la tv-realtà28, erede del codice letterario e cinematografico neorealistico, ha visto la sua degenerazione
26 27 28
J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, tr. it. di G. Piana, Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 109. Ibidem. Quello della «tv-realtà» è un meta-genere introdotto nella televisione pubblica italiana da Angelo Guglielmi nel 1987, con l’intento di proporre una televisione di servizio. «La tv-realtà si definisce come progressista, di servizio pubblico, con finalità sociali; non è intrattenimento ma un prolungamento della funzione pedagogica della televisione pubblica e solo in nome di questo fine sociale accetta di mettere in scena gente in ansia, vicende penose, storie marginali. Per questo manifesta in tutti i modi […] l’intenzione di stare “dalla parte dei cittadini”; non soltanto di quelli che illustrano i loro casi nelle varie trasmissioni, ma i cittadini in generale per i quali la tv-realtà viene proposta come uno strumento conoscitivo, qualcosa di simile all’informazione, cioè una conoscenza di fatti che servono alla comprensione del mondo e alla costruzione sociale dell’individuo» (E. Menduni,
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Etica ed estetica del volto
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e la degenerazione dei suoi intenti e della sua utilità29, nella televisione del reality show e del gossip. La tv commerciale cominciò presto a interessarsi a un meta-genere che produceva tanto ascolto. Ma scoprì che questa tv funzionava non tanto per la sua passione civile o per lo spirito di servizio ma perché la gente desiderava vedere storie di vita a tinte fosche, per un gusto guardone di vedere dal buco della serratura ciò che accade al vicino, per la commozione della tragedia, purché capiti a qualcun altro. Lo spettatore vuole provare qualcosa di emozionante, e vuole anche sapere cosa è accaduto al prossimo, sperando sempre che non tocchi a lui e anzi con valore apotropaico. [La tv commerciale decide] di copiare questo progetto spogliandolo del suo aspetto pedagogico, riducendolo a puro intrattenimento senza fondali politici o fini educativi, e [lo fa] diventare reality show30.
Nel 1973, più di un decennio prima dell’introduzione della tv-realtà in Italia, Pier Paolo Pasolini denunciava la sostanza fittizia del codice televisivo, severo nella sua compostezza educatrice, assolutamente distaccato dai codici multiformi della società reale, quella della umanità spontanea e autentica, fragile e incerta, sorridente, accogliente o disperata: L’importante è una sola cosa: che non trapeli nulla mai di men che rassicurante. La televisione, della vita pubblica, delle vicende politiche e della elaborazione delle idee, deve – e sente rigidamente tale dovere – operare secondo una selettività di scelta e una serie di norme linguistiche, che assicuri innanzi tutto che «tutto va bene» ed è fatto per il bene. Il bene non deve avere difficoltà: ed ecco che infatti il mondo presentato dalla televisione è senza difficoltà: se difficoltà ci sono state, sono state sempre provvidenzialmente «appianate»: se disgraziatamente l’appianamento non è ancora avvenuto (ma avverrà) provvede a dare questo perduto senso di pienezza la lingua informativa orale-scritta dello speaker. L’ideale piccolo-borghese di vita tranquilla e perbene (le famiglie giuste non devono avere disgrazie: ciò è disonorevole davanti agli altri) si proietta come una specie di Furia implacabile in tutti i programmi televisivi e in tutte le pieghe di essi31.
29 30 31
Splendori e distruzione della tv-realtà, in A. Guglielmi - E. Sgarbi (a cura di), «Panta. Blob Guglielmi» 23, Bompiani, Milano 2004, p. 283). L’espressione corrispondente a «tv-realtà» in ambito anglosassone è «utility television» (Ibidem). Ivi, p. 285. P. P. Pasolini, Contro la televisione (1966), in Id., Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, p. 137.
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Il capovolgimento della televisione attaccata da Pasolini sembra essersi completamente realizzato. Della televisione «perbenista» ancora viva negli anni Settanta e Ottanta rimane una traccia troppo debole per riuscire a riconoscere una matrice culturale che accomuni il passato al presente. La motivazione etica della televisione dei nostri giorni sembra mostrare molti più legami con una certa filmografia dell’horror contemporaneo32, nella quale il piacere voyeristico dell’orrido criminale tenta di nobilitarsi attraverso una logica, seppur perversa, di giustizia fai da te. L’importante, oggi, è che le immagini che scorrono in televisione impressionino il pubblico a casa, che si produca una intensità sempre più forte di coinvolgimento emotivo e che il pubblico sia così fidelizzato attraverso una dipendenza mediatica. L’importante non è pubblicizzare drammi sociali al fine di svelare l’ipocrisia che ne copre l’esistenza, e in questo modo cercarne una soluzione collettiva, come era, abbiamo visto, la finalità della prima tv-realtà. Il dramma è trasmesso in televisione perché piace, perché crea dipendenza. Genera ascolti, dunque aumenta il numero di potenziali consumatori cui destinare messaggi e modelli pubblicitari insinuati in ogni piega della programmazione. Nello stesso momento in cui questo intero processo si compie e si replica, il telespettatore continua la ricerca di un rifugio, un riparo, dunque, dall’esterno, da un Esterno che di volta in volta ha nuovi ma non definiti confini, non quelli di un’abitazione, né quelli di un ufficio o di un luogo nel quale si svolge l’esistenza. È da un Esterno mutevole avvertito come minaccioso alla propria sicurezza e benessere che si fugge, fino a fuggire dall’Altro del quale si stigmatizzano debolezze e aspetti che confliggono con le aspettative singolarmente nutrite dall’individuo verso il prossimo. Si fugge dall’Altro che si riconosce sempre più non come singola individualità, ma come uno dei cloni degli svariati “tipi umani” conosciuti attraverso lo schermo. Si fugge dall’Altro sconosciuto così come dall’Altro conosciuto, rincorrendo, allo stesso tempo, volti e corpi familiari che attraverso lo schermo includono chi è a casa, ma rimanendone separati, apparentemente senza disturbare, in realtà proposti con tale forza comunicativa, da non poter essere evitati, come accade con i volti trasmessi in primissimo piano: Il primissimo piano di una persona, con lo schermo interamente occupato dal volto, serve a creare una relazione di intimità tra spettatore e personaggio. Per mostrare le espressioni facciali e le reazioni di chi è ripreso basterebbe il 32
Mi riferisco in particolar modo alla serie cinematografica diretta dal regista americano James Wan, «Saw – L’enigmista», proiettato in Italia in sette episodi, dal 2004 al 2010.
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Etica ed estetica del volto
primo piano, in cui il volto è inquadrato insieme al collo e a una parte delle spalle, che corrisponde alla distanza normale alla quale ci poniamo di fronte a qualcuno. Il primissimo piano è la distanza del sussurrare, della condivisione del dolore, del bacio33.
Coinvolgente, magnetico, il volto televisivo diventa, allora, richiesta ossessiva di partecipazione emotiva e di urgente condivisione; smette di essere l’Altro per farsi lente d’ingrandimento attraverso la quale lo spettatore scandaglia la propria interiorità e il proprio vissuto, alla ricerca di elementi con cui “compatire” il dramma di un’altra esistenza. Non potendo instaurare con quel volto una comunicazione diretta, non potendo realmente compatire, lo spettatore si fa egli stesso l’Altro, rintraccia in se stesso, uomo comune al pari dell’altro osservato, la vulnerabilità e possibile soglia della follia. Ed è da se stesso, allora, che riprende a cercare rifugio.
2. L’alterazione attraverso la chirurgia estetica: la messa in scena del volto maschera Nell’ambito di una riflessione sul volto in televisione, è inevitabile soffermarsi su un aspetto che appare con prorompente evidenza: il volto alterato dalla chirurgia estetica. Jean Baudrillard comprende questa pratica tra le diverse ed estreme espressioni di accanimento «contro tutte le forme di alterità»34 ad opera del Virtuale, il quale agisce, secondo il sociologo francese, al fine della «liquidazione dell’Altro»35; il compimento di tale liquidazione «si accompagna a una sintesi artificiale dell’alterità, a una chirurgia estetica radicale, di cui quella del volto e del corpo non è che il sintomo»36. La spettacolarità si pone come obiettivo primario quello di stupire, di destare meraviglia, di scuotere l’animo umano con sentimenti ed emozioni forti perché dirompenti rispetto alla ripetitività del quotidiano. Ed è sulla sfera del quotidiano, abbiamo visto, che viene costruita la transtelevisione; lo spettacolo giunge nelle case dei telespettatori con la medesima funzione di portatrice di luce, in ogni momento e ad ogni costo, per mezzo di volti e corpi che, fatta esclusione per le programmazioni filmiche e di fiction, dovrebbero essere la manifestazione autentica di se stessi, volti e corpi, dunque, 33 34 35 36
L. Zanardo, Senza chiedere il permesso, cit., p. 126. J. Baudrillard, Il delitto perfetto, cit., p. 113. Ivi, p. 119. Ibidem.
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appartenenti ad una precisa e inequivocabile identità umana; i volti, in particolare, che possiedono la capacità di “persistere” nella loro riconoscibilità. L’aria di un volto è quel supplemento intrattabile, nell’identità di una persona, che non appartiene né alla sua conformazione morfologica, né al suo movimento. Eppure lo possiamo cogliere immediatamente a distanza di tempo o in condizioni di visibilità alterata: confusa in mezzo alla folla, indistinta nella bruma del mattino o fuggevole traccia riflessa su un vetro. Tutto ciò è tanto più bizzarro se si pensa alla fragilità ontologica del viso il cui apparire è soggetto a continue metamorfosi e la cui integrità si vede di continuo minacciata dal tempo, dagli incidenti, dagli accidenti, dai dispiaceri, dai piaceri. Ma né il movimento né la trasformazione temporale sembrano aver mai messo in discussione l’esperienza del riconoscimento di un volto37.
Tutto questo, ci fa osservare Patrizia Magli, avviene esclusivamente in condizioni di non alterazione chirurgica. Perfino un volto truccato, delicatamente o vistosamente coperto con maquillage, persiste nella sua unicità e riconoscibilità, poiché il trucco «lo trasfigura, lo sfigura, lo de-figura, ma non lo sopprime»38; al contrario, esso si muove insieme al soggetto. S’inscrive sulla superficie del suo viso senza cancellarne i tratti. Lo copre senza perderlo mai di vista: lascia che la fisionomia, sotto la trasparenza dei colori, continui a respirare, a trasparire. Trucco e viso si percepiscono insieme, rendendo manifesta, sul piano fisico, la coesistenza di due realtà all’interno di una stessa persona. Sono uno il doppio dell’altro, ma un doppio in presentia39.
Un doppio che consente, non soltanto di conservare l’identità originaria e in movimento, ma anche di rendere manifesta una particolare, spesso mutevole, volontà di apparenza dell’individuo: Il trucco è il regno della superficie, una superficie che appartiene sia al mondo esteriore sia a quello interiore, individuata in una congiunzione intenzionalmente prodotta. È il risultato, dunque, almeno in apparenza, di una scelta programmata da parte del soggetto. […] Il volto truccato è in qualche modo più “reale” del volto che gli fa da supporto: è la rivelazione di un voler essere da parte del soggetto40. 37 38 39 40
P. Magli, «Sei ancora tu?». Pratiche contemporanee di de-figurazione del volto femminile, in D. Vinci (a cura di), Il volto nel pensiero contemporaneo, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2010, p. 496. Ivi, p. 498. Ibidem. Ibidem.
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Etica ed estetica del volto
Sappiamo che il trucco è un presupposto imprescindibile dell’apparire in televisione, dettato, prima ancora che dalla volontà del soggetto, da mere esigenze tecniche di reazione alla luminosità artificiale. Eppure, sempre, di fronte ad un volto truccato, noi, in quanto telespettatori, siamo in grado di cogliere varietà espressive e cambiamenti legati al trascorrere del tempo, resistendo a fatica dall’osservare che quel volto noto stia invecchiando, o, al contrario, dal meravigliarci per la capacità di un altro di non farlo. Sempre, di fronte ad un volto truccato, riusciamo a cogliere una volontà comunicativa della persona, riusciamo a ipotizzarne il carattere, a crearci delle aspettative. Ma nella moltitudine di volti che quotidianamente affolla lo schermo televisivo, un numero sempre crescente è costituito da quelli sui quali è “inciso” il tentativo di arrestare il tempo; più precisamente, si assiste al tentativo di rendere i volti stessi inalterabili e impassibili all’azione del tempo, al fine di proporli come eterne fonti di luce e di meraviglia. L’effetto ottenuto, in realtà, è la realizzazione di un volto-maschera. Sotto la maschera, il viso è abolito. Mascherato, l’individuo non appartiene più a se stesso: la bocca, gli occhi non sono costretti a esprimere emozioni. In questo abbandono della propria identità, perfino il corpo è sottoposto ad una sorta di spodestamento dal suo territorio come se braccia, gambe e torso non gli appartenessero più. Vengono a far parte di un’altra configurazione somatica, di un altro individuo, di un’altra identità41.
La chirurgia estetica, tuttavia, non abolisce il volto, ma lo fissa una volta per tutte, e da tale fissità, generata dalla quasi totale neutralizzazione della mobilità dei muscoli facciali, sembra prorompere, attraverso lo sguardo, il desiderio di fuga dell’interiorità individuale, per natura mobile, caratterizzante e mutevole, dunque il desiderio di fuga della «peculiare anche se cascante individualità»42. La fluidità o disorientante liquidità, per dirla con la nota definizione di Zygmunt Bauman, che caratterizza ogni aspetto della vita dei nostri tempi manifesta il suo desiderio di quiete, solidità, stabilità nella sfera dell’apparire: la durevolezza dell’immagine di giovinezza immortala, alla maniera di una fotografia dotata di movimento, il momento che precede la fase più matura dell’esistenza, con la funzione di esorcizzare proprio la manifestazione visiva di questa stessa fase. In altre parole, l’immagine della 41 42
Ibidem. J. Hillamn, La forza del carattere. La vita che dura, tr. it. di A. Bottini, Adelphi, Milano 2000, p. 199.
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vecchiaia, con le sue «palpebre troppo appesantite, occhiaie troppo gonfie, contorni del viso troppo rilassati»43, non è bene accetta nella società della postmodernità, tanto meno negli schermi televisivi, moderne sedi del mito della eterna giovinezza, sulle quali è consentito mettere in scena quotidianamente la rappresentazione del capovolgimento del naturale succedersi delle fasi della vita, con il risultato, però, di una inarrestabile proliferazione di deformazioni mostruose quali fronti e sopracciglia congelate in un’apollinea indifferenza benché il viso si contorca in spasimi di risa o di pianto, zigomi aggettanti con enfasi barocca, mozziconi di nasi all’insù, labbra smisuratamente ingrossate e pendenti all’ingiù, pelli sottoposte a forzati stiramenti a ridosso di orecchie sparite, a loro volta, dietro la nuca44.
A tale capovolgimento, che ancora una volta ci fa pensare alle osservazioni umoristiche svolte da Pirandello nel primo decennio del secolo scorso, non si sottrae neppure il mondo della politica, assoggettato com’è, anch’esso, alle leggi della visibilità mediatica, televisiva in particolar modo45. È di poco interesse per la società, e per i milioni di telespettatori che trasversalmente (per genere, età, professione, ceto sociale, credo religioso) la costituiscono, il comportamento che un uomo o una donna pubblici stabiliscono con il loro volto? Seguiamo le parole di Hillman a questo proposito: Il modo in cui trattiamo la nostra faccia ha conseguenze sulla società. La tua faccia è l’Altro per tutti gli altri. Se non mostra più la sua vulnerabilità assoluta, allora le ragioni della pietas, l’esigenza di sincerità, la richiesta di risposte, sulle quali poggia la coesione sociale, hanno perduto la loro sorgente originaria46.
Il volto immutabile, perché reso tale artificialmente, dell’Altro-uomo pubblico interrompe il dialogo con tutti gli altri individui, perché proprio tale 43 44 45
46
P. Magli, «Sei ancora tu?», cit., p. 499. Ivi, pp. 498-499. Espressione fortemente rappresentativa di questo fenomeno sono, a mio parere, gli studi e i commenti alla mimica e fisionomia dei due contendenti alla Casa Bianca degli USA che, proprio mentre si svolge tale riflessione, hanno concluso la contesa televisiva di fronte al mondo. I loro volti, quasi più delle loro parole, sono stati spiati e analizzati nei singoli movimenti e contrazioni dei muscoli facciali, alla ricerca di segni che rimandassero al loro autentico stato d’animo, fino a trovare in questi stessi impercettibili movimenti l’annuncio della possibile vittoria o sconfitta, ora dell’uno, ora dell’altro. J. Hillman, La forza del carattere, cit., pp. 213-214.
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Etica ed estetica del volto
immutabilità colloca l’individuo al di fuori del contesto di condivisione e naturale mutevolezza, non consentendo la manifestazione dell’intera e complessa varietà espressiva che caratterizza ogni volto umano. Il volto alterato (paradossalmente, proprio nell’attimo in cui si tenta di renderlo immutabile all’azione del tempo) chirurgicamente è un volto privato della possibilità di importanti espressioni o sfumature espressive, e della manifestazione dei rispettivi sentimenti: gioia, dolore, paura, rabbia, invidia, compassione. La cancellazione della naturale espressività del volto genera l’impossibilità di una comunicazione empatica, che può tradursi o nella mancata constatazione di sincerità del volto nello schermo, e dunque nell’irrealizzabile costruzione di una “relazione” di fiducia, nella quale il telespettatore impegna molta parte del suo interesse emotivo, o, sul versante opposto, in una approvazione cieca, quasi dogmatica dell’individuo dal volto “ritoccato”. Il volto alterato, allora, smette di essere la manifestazione di una individualità umana, e diviene icona di un fenomeno, difficilmente accessibile da parte dell’opinione pubblica e della sua volontà interpretativa. Nello stesso scritto pasoliniano cui abbiamo fatto riferimento nel precedente paragrafo, si legge: In un mese di osservazione televisiva, non mi è mai capitato di cogliere negli uomini politici […] un solo momento, un solo guizzo di semplicità, di sincerità, di autenticità, di umanità. Essi e i loro commentatori si nascondono tutti dietro una maschera che non si tradisce mai, che non cede mai a un dato sorriso, a una data timidezza, a una certa incertezza: alla fraternità. Tutto è già prestabilito e sicuro: che noi stiamo tranquilli! Si è fatto molto e si farà sempre meglio47.
Quella maschera dietro la quale si nascondeva un intero mondo distaccato da e al tempo stesso imperante sulla società delle persone assoggettate al potere, si colloca adesso, ma questa volta in modo irreversibile, sui volti alterati, i quali «si presentano come involucri che niente fanno penetrare, né dall’interno né dall’esterno»48, se non il loro tentativo di onnipotenza e immortalità, l’altra faccia della comunicazione manipolatoria massmediatica. Ma proprio mentre si esprime il tentativo di onnipotenza, si nega l’essenza del ruolo dell’uomo pubblico e politico in una democrazia, il farsi, cioè, comunicatore e custode autentico delle istanze dei suoi rappresentati. In assenza di un volto capace di completa e presente espressività, la comunicazione si fa dubbio insolubile, dispersione di fiducia, o, al contrario,
47 48
P. P. Pasolini, Contro la televisione, cit., p. 138. P. Magli, «Sei ancora tu?», cit., p. 501.
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vero e proprio dogma, modello imprescindibile per coscienze che non possono sottrarsi al processo di riproduzione. È evidente quanto incisiva sia la responsabilità di personaggi pubblici, siano essi politici o del mondo dello spettacolo, e quanto veritiere siano le parole, già viste, di Hillamn, quando afferma che «il modo in cui trattiamo la nostra faccia ha conseguenze sulla società»49, se, al limite dei comportamenti emulativi, sempre più alto si fa il numero di adolescenti, soprattutto donne, dai dodici ai diciannove anni, che decidono per una irreversibile azione di rimodellamento artificiale del proprio corpo e del proprio volto, adolescenti assillati dal desiderio indotto del raggiungimento di perfezione, dal desiderio di fissazione di una immagine destinata, invece, a deteriorarsi, e soprattutto, negante il naturale processo di una bellezza unica e irripetibile in evoluzione. D’altronde, quale altra conseguenza avrebbero potuto generare modelli educativi, cui la televisione partecipa con grande influenza, disinteressati alla costruzione di valori umani e sociali? Ciò che conta non è più autoriconoscersi, rendendo manifesti i segni di una identità autentica, inimitabile e inconfondibile, quanto piuttosto essere sempre più simili a modelli estetici (essi stessi difficilmente distinguibili l’uno dall’altro), capaci di una potente forza omologante. Il punto di vista al quale adeguare la costruzione della pseudo-identità è quasi completamente generalizzato al maschile più “triviale”, cosicché La donna proposta sembra accontentare e assecondare i presunti desideri maschili sotto ogni aspetto, abdicando completamente alla possibilità di essere l’Altro. Ridotta e autoridottasi a oggetto sessuale, impegnata in una gara contro il tempo che la costringe a deformazioni mostruose, costretta a cornice muta o assurta al ruolo di conduttrice di trasmissioni inutili dove mai è richiesta la competenza. È come se la donna non riuscisse a guardarsi allo specchio, non accettando se stessa, la propria faccia così com’è. Essere autentici probabilmente costituisce uno dei diritti fondamentali dell’uomo. Ma essere autentici richiede di saper riconoscere i nostri desideri e i nostri bisogni più profondi50.
E invece i media e tanta cultura edonistica sulla quale sono strutturati i media stessi, in quanto, appunto, intermediari di tale cultura, hanno colo-
49 50
J. Hillman, La forza del carattere, cit., p. 213. L. Zanardo, Il corpo delle donne, Feltrinelli, Milano 2010, p. 192 (testo dell’omonimo documentario).
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Etica ed estetica del volto
nizzato a tal punto l’immaginario femminile51, da rendere la donna, adolescente, giovane, adulta o anziana che sia, incapace di mettersi in ascolto dei propri desideri più profondi, impegnata com’è ad «emanciparsi» assecondando l’imperativo del «dover essere bella» e del “dover essere bella come”, per essere, infine, sopra ogni cosa desiderabile, «sempre e comunque, in ogni situazione, anche quando siamo interpellate per la nostra professionalità, anche quando ci sono sullo schermo donne adulte, preparate che avrebbero forse delle cose da dire»52.
3. Dietro le quinte dello spettacolo: la comparsa dei volti reali A tratti, mentre lo spettacolo continua, compaiono sullo schermo televisivo volti che mostrano ben pochi legami con lo spettacolo stesso, con le sue luci, con l’illusione gridata di benessere generale o, per essere più coerenti con il linguaggio dell’economia e cultura dominanti, di benessere globale. Sono immagini che hanno la forza di vanificare in pochi istanti la validità dell’illusione virtuale. Volti di bambini, donne, individui logorati dalla fame ci dicono che, lontano dalle nostre esistenze, si svolge la quotidianità di milioni di vite in attesa di vita. Volti di donne tormentati dal buio di un dolore silenzioso ci parlano di violenze fisiche e psicologiche che si consumano dietro una porta qualsiasi di un palazzo qualsiasi all’interno delle nostre città. Volti spenti di bambini privati del sorriso e del bagliore dello sguardo raccontano drammi di violazioni di innocenza, di percorsi di vita spezzati, possibili preludi ad ulteriori violazioni. Queste immagini non narrano niente altro se non che il momento che noi, in quanto spettatori del mondo per mezzo dello strumento televisivo, viviamo nelle nostre case è il medesimo momento in cui uno smisurato numero di individui vede lesa la dignità della propria esistenza. In questo genere di immagini, perno di un numero significativo di pubblicità e campagne di comunicazione sociale, si riconosce al volto umano (ma anche animale, come è il caso degli spot contro l’abbandono e il maltrattamento sugli animali, spot dei quali, purtroppo, si riscontra una presenza troppo esigua sui canali mediatici per rendere ai telespettatori la gravità effettiva di un comportamento sociale, al contrario, eccessivamente diffuso) un ruolo centrale nel catturare l’attenzione dei telespettatori.
51 52
Ivi, p. 144. Ivi, p. 193.
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I primissimi piani sui volti di bambini scavati dalla fame sussurrano, attraverso l’urlo del solo sguardo, l’urgenza di solidarietà, fanno appello al senso di responsabilità non mediata dell’uomo-telespettatore. Un senso di responsabilità che qualora venisse razionalizzato non farebbe che aggiungere ulteriori elementi motivanti ad un’istintiva mobilitazione risolutrice; ed è questo, infatti, l’obiettivo della comunicazione e delle pubblicità a carattere sociale: Se l’obiettivo primario della pubblicità consiste nel richiamare l’attenzione del consumatore a indurlo a tradurre tutto ciò [strategie, tematiche, linguaggi] in azioni, la comunicazione sociale non si propone di realizzare nulla di diverso: «L’obiettivo dei messaggi che vogliono creare forme di solidarietà e di supporto a realtà dolorose e lontane è “bucare l’indifferenza” in uno scenario che è affollato di immagini di sofferenza. Bisogna evitare che si produca una stanchezza della verità a causa di un sovraccarico di informazioni e di una abitudine ai fatti raccontati oppure una “stanchezza da compassione e da aiuto”, collegate sempre a una forma di normalizzazione degli stati dolorosi descritti. […] L’appello è finalizzato a suscitare una sensazione emotiva/viscerale di quello che si deve fare e che viene sentito come un proprio bisogno di rendersi utili»53.
Nella comunicazione sociale, i volti e gli sguardi protagonisti spostano drasticamente l’attenzione del telespettatore dalla sfera dell’edonismo, verso la quale si orienta la pubblicità e programmazione commerciale, a quella etica, che considera l’individuo non come soggetto attivo e passivo del meccanismo consumistico, ma come soggetto attivo e indispensabile della comunità umana e solidale, destinatario di una comunicazione che, sebbene costruita anch’essa, al pari della comunicazione commerciale, secondo lo schema «qualcosa può essere fatto → noi possiamo farlo → voi potete fare la differenza ed ecco che cosa potete fare»54, si sgancia dal meccanismo dell’intervento nel particolare dell’esperienza individuale, per allargare l’efficacia dell’azione al livello della società, prossima e remota. Ciò avviene, dunque, non facendo leva sul religioso senso di colpa55, che avrebbe come effetto sul destinatario della comunicazione un allontana53
54 55
F. Faccioli, «Comunicazione sociale e processi partecipativi: una risorsa per l’istituzione», in F. Faccioli - L. D’Ambrosi - L. Massoli (a cura di), Voci della ribalta. Comunicazione sociale, processi inclusivi e partecipazione, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 2007, pp. 19-20, cit. in P. Peverini - M. Spalletta, Unconventional. Valori, testi, pratiche della pubblicità sociale, Meletemi, Roma 2009, p. 37. P. Peverini - M. Spalletta, Unconventional, cit., p. 38. Benché una riflessione appena approfondita sui meccanismi di produzione e consumo delle civiltà occidentali e occidentalizzate non possa che fare luce sul-
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Etica ed estetica del volto
mento dalla comunicazione stessa, ricorrendo allo zapping televisivo, ma sulla sua capacità, connaturata al suo essere sociale e solidale, di rendersi protagonista attivo di un’azione il cui valore va ben al di là del soddisfacimento dei propri bisogni e desideri, avendo ricadute concrete sull’intera società, locale o mondiale. I volti che bucano il video con i primissimi piani della comunicazione sociale vengono fatti seguire, allora, da volti, appartenenti allo stesso contesto ambientale e sociale, sui quali ricompare il segno della vita, sui quali ricompare il sorriso e il segno della guarigione dalla fame e da malattie deturpanti. Il coinvolgimento del telespettatore può assumere, allora, valenza di attivismo, sia nei termini di una mobilitazione immediata attraverso una partecipazione economica, qualora questa fosse richiesta, sia nei termini di una riflessione approfondita sulla realtà disincantata presentata attraverso gli spot a carattere sociale, e la necessità di cambiamento della realtà stessa. La drasticità con cui la comunicazione sociale, attraverso le strategie visive e verbali, strappa il «cielo di carta» della comunicazione commerciale televisiva, dice senza perifrasi svianti, di una «devastazione del mondo» per la quale «parte dell’umanità ne sta sacrificando un’altra sull’altare della Crescita» e per la quale «essa [parte dell’umanità] sta distruggendo più in generale le condizioni naturali della vita umana»56. Il mondo recede e l’immondo guadagna terreno (erosione del suolo, innalzamento del livello delle acque, espropriazioni causate da gradi di contaminazione tali da rendere gli spazi inutilizzabili, ecc.). Ma non bisogna ridurre questo processo al suo versante materiale ed ecologico, la devastazione è anche sociale, culturale e spirituale. Devastare significa «distruggere facendo il vuoto», trasformare in un deserto; il deserto è un mondo impoverito, uno spazio invivibile o quasi, un universo dove non si dà alcuna «vita decente». Ciò che rende il mondo un deserto è anche il suo disincanto, la perdita del legame sociale provocata da una competizione accanita tra individui isolati. È questa miseria umana che genera la desolazione, la produzione industriale di solitudine. Se il mondo implica la convivialità, il vivere insieme nella condivisione, l’aiuto reciproco e la solidarietà (nel rispetto di tutti quelli, e quelle,
56
la responsabilità della quale il singolo individuo, asservito consapevolmente o inconsapevolmente ai dettami della produzione dell’industria multinazionale, si rende o è reso co-protagonista in relazione al divario abissale di ricchezza che separa il Nord dal Sud del mondo, o alle morti generate, tanto per fare un esempio, dalla elevatissima tossicità delle sostanze chimiche utilizzate, ancora una volta nei paesi del Sud del mondo, per la produzione e lavorazione del cuoio per l’industria conciaria che ha il Nord del mondo come mercato privilegiato. Gruppo Marcuse, Miseria umana della pubblicità. Il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo, tr. it. di A. Lunari, Elèutera, Milano 2006, p. 117.
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che fanno parte del mondo), la sua devastazione significa l’abolizione tendenziale di ogni convivialità a profitto della giustapposizione di ego ineguali che hanno da condividere solo la propria indifferenza57.
Apparendo solo di tanto in tanto nel corso della continua programmazione televisiva, e incastrati in essa come facce inverse della medesima medaglia, i volti della comunicazione sociale sintetizzano in pochi istanti il senso più ampio della pubblicità tout court: La pubblicità è al tempo stesso il vettore e la vetrina della devastazione, contribuendo alla distruzione ecologica del pianeta, al deterioramento delle relazioni umane, alla dissoluzione degli immaginari e a un abbrutimento drammatico. La pubblicità incarna questa miseria in modo esemplare negli scempi che comporta, nella stupidità di cui dà prova, nello squallore che mette in mostra e nel cinismo che diffonde58.
Il verso della medaglia, allora, rimane forse uno dei, non casualmente, pochissimi specchi che la televisione fornisce per prendere atto e consapevolezza di una realtà che nella sua essenza conserva tutta la complessità di un organismo che subisce le conseguenze dei tentativi assillanti di una omologazione scintillante e globalizzante.
4. Bibliografia Günther Anders, Die Antiquiertheit des Menschen. Band I. Über die Seele in Zeitalter der zweiten industriallen Revolution, Verlag C. Beck’sche, München 1956; L’uomo è antiquato 1. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, tr. it. di L. Dalla piccola, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Jean Baudrillard, Le crime perfait, Éditions Galilée, Paris 1995; Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà ?, tr. it. di G. Piana, Raffaello Cortina, Milano 1996. Gianluca Cerasola - Paolo Taggi, Saremo famosi. Superare i casting dei reality e delle fiction, Gremese, Roma 2011. Vanni Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino 2007. Id., Tutti divi. Vivere in vetrina, Laterza, Roma – Bari 2009. Id., Stanno uccidendo la TV, Bollati Boringhieri, Torino 2011.
57 58
Ibidem. Ivi, p. 119.
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Etica ed estetica del volto
Groupe Marcuse, De la misère humaine en milieu publicitaire, Editions la Découverte, Paris 2004; Miseria umana della pubblicità. Il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo, tr. it. di A. Lunari, Éleuthera, Milano 2006. James Hillman, The Force of Character And the Lasting Life, Random House, New York 1999; La forza del carattere. La vita che dura, tr. it. di A. Bottini, Adelphi, Milano 2001. Enrico Menduni, Splendori e distruzione della tv-realtà, in Angelo Guglielmi - Elisabetta Sgarbi (a cura di), «Panta. Blob Guglielmi» 23, Bompiani, Milano 2004. Patrizia Magli, «Sei ancora tu?». Pratiche contemporanee di de-figurazione del volto femminile, in Daniele Vinci (a cura di), Il volto nel pensiero contemporaneo, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2010, pp. 496-503. Michela Marzano, Sii bella e stai zitta, Mondadori, Milano 2010. Pier Paolo Pasolini, Contro la televisione (1966), in Id., Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999. Paolo Peverini - Marica Spalletta, Unconventional. Valori, testi, pratiche della pubblicità sociale, Meltemi, Roma 2009. Georg Simmel, Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, tr. it. di L. Petrucchi, il Mulino, Bologna 1985. Lorella Zanardo, Il corpo delle donne, Feltrinelli, Milano 2010. Id, Senza chiedere il permesso. Come cambiamo la tv (e l’Italia), Feltrinelli, Milano 2012.
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PUBBLICITÀ
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ANGELA MARTIRADONNA
IL VOLTO NELLA PUBBLICITÀ COMMERCIALE E NELLA PUBBLICITÀ SOCIALE
1. Premessa Volume alto e irrompente se arriva dal televisore; pagine sempre più grandi e numerose se rimbalza da qualche testata; caratteri mobili, flash se scatta sul monitor di un pc, l’obiettivo rimane lo stesso: impressionare, attirare l’attenzione, farsi ricordare, rendere “pubblico”. È ciò a cui aspira ogni messaggio pubblicitario a prescindere dall’esistenza o meno di una connessione, un rimando, un qualsiasi anche piccolo richiamo al prodotto così rumorosamente sponsorizzato. Attraverso la pubblicità il bambino apprende le leggi base del mercato, vendere e comprare, e la pressione sulla fascia infantile dovrebbe suscitare maggiore attenzione da parte degli addetti ai lavori a partire dai pedagogisti. Non è spaventosa soltanto l’immagine, ma anche l’obiettivo dichiarato e formalizzato di indurre la persona fin dall’infanzia ad acquistare. Canali televisivi in cui vengono trasmessi esclusivamente cartoni animati, ritagliano spazi pubblicitari, vere e proprie trasmissioni e non pause, in cui si presentano prodotti da acquistare e i nomi di questi spazi risultano piuttosto eloquenti, si pensi a termini come “carrellito”. Si aggiungano canali specificamente destinati alle vendite, volti urlanti, mercati via etere, dita puntate contro gli spettatori. A superare gli spazi e i tempi dello spot ci pensano le televendite, programmi finalizzati a vendere. I volti delle televendite sono spesso inquietanti, aggressivi, sanguigni, ipnotizzanti, il telespettatore rimane annichilito di fronte alla rumorosa forza che comunicano. L’effetto commerciale subisce un’impennata poiché la televendita è spesso interrotta da spot pubblicitari, «un programma pubblicitario interrotto da pubblicità: un controsenso o una sorta di pubblicità al quadrato che sancisce la pubblicità come programma normale?»1. 1
A. Grasso, Televisione del sommerso, in G. Mainoldi (a cura di), Annuario 1987, Rizzoli, Roma 1987, p. 578.
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Etica ed estetica del volto
La pubblicità irrompe, non ha fasce protette, pochi i limiti e quando ci sono contribuiscono allo scopo stesso del pubblicitario, far parlare del prodotto: il limite, la censura aumentano in modo esponenziale la forza del messaggio pubblicitario. Si ricordano il jingle, tintinnante quasi onomatopeico nome con cui si definiscono le canzoncine degli spot, le frasi-slogan (“cosa vuoi di più dalla vita…”, “mangiar bene per sentirsi in forma”, ecc.) e i volti. Noto, sconosciuto, ammiccante, sofferente, divertito, pacato, il volto nella comunicazione pubblicitaria ricopre un ruolo fondamentale e costituisce un indicatore importante per classificare le tipologie di spot (commerciale, sociale, di sensibilizzazione) e i destinatari (famiglie, bambini, donne, uomini). Sono volti che si rivolgono a un interlocutore tipo, studiato attentamente, analizzato nei suoi gusti, preferenze, stile di vita, orari, che non risponderà direttamente, non dialogherà, ma consegnerà il suo feedback al mercato consapevolmente o inconsapevolmente. Si sceglie un prodotto convinti che la pubblicità sia stata onesta e veritiera, ma anche perché, seppur con qualche dubbio e titubanza, la familiarità, che lo spot pubblicitario crea, rende sconosciute le altre confezioni e acquistarle suscita un certo senso di colpa, il senso di colpa di chi non ha ascoltato un consiglio, un suggerimento. «La pubblicità prima estetizza il prodotto, trasformandolo in una qualità desiderabile per il consumatore, poi, una volta che tale qualità è stata trasferita al consumatore mediante l’acquisto, estetizza il consumatore, perché l’esibizione del prodotto posseduto rende l’individuo desiderabile»2. La pubblicità riesce ad assorbire i comportamenti di una società attivando una metamorfosi in grado di rendere commerciali i fini di tali comportamenti.
2. Visti e rivisti Osservare e analizzare i messaggi pubblicitari risulta essere un valido percorso per capire il livello sociale, culturale e politico di una comunità. Nel messaggio si riconoscono un insieme di situazioni e un insieme di espressioni che spesso amplificano stereotipi, rappresentazioni, luoghi comuni che caratterizzano una civiltà e nell’utilizzo del volto questo risulta ancora più evidente.
2
V. Codeluppi, Che cos’è la pubblicità, Carocci, Roma 2001, p. 47.
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A. Martiradonna - Il volto nella pubblicità commerciale e nella pubblicità sociale 215
Un messaggio pubblicitario deve essere compreso, deve utilizzare il linguaggio, non soltanto verbale, dei destinatari, deve necessariamente conoscere usi e costumi, monitorare le abitudini, soppesare i gusti, le mode, le debolezze, deve affidarsi a una grammatica interpretativa condivisa. Ciò non significa che la pubblicità debba fedelmente effettuare una trasposizione della realtà, ma che debba tenerne conto per scegliere contesti, suoni, immagini in grado di colpire il consumatore fino a farsi ricordare. La pubblicità è una forma di brutale colonizzazione culturale che non resta confinata ai livelli di comportamento economico, ma si riflette anche sul piano dei valori, proponendo modelli di vita che ricalcano in tutto e per tutto – senza sbavature e praticamente senza eccezioni – quelli che la classe egemone impone perché funzionali al conseguimento dei propri fini. Si verifica così una forma di controllo sociale3.
Anche il volto risponde a queste regole. Un volto noto è facilitato in questa impresa e non solo quando interpreta se stesso con tutta la sua notorietà, ma anche quando si cala in panni e ruoli completamente diversi da quello per cui è conosciuto. La notorietà del volto diventa una variabile che sovrasta tutte le altre, incarna il prodotto, diventa una chiave di volta in grado di rivolgersi a tutti, non settorializza i consumatori, la riconoscibilità oscura tutte le altre caratteristiche quali l’essere uomo o donna, l’età, la nazionalità, ecc. Così Aldo Grasso, nel 1987, racconta e commenta lo sviluppo del ricorso pubblicitario al testimonial: Il tenente Colombo, nella vita Peter Falk, impegnato ora sulla televisione italiana a scoprire i misteri della Coop, è l’ultimo esponente di un fenomeno che si sta diffondendo a macchia d’olio: l’uso sempre più frequente dei testimonial in pubblicità. Per testimonial si intendono personaggi più o meno noti che accettano di legare la loro immagine a un determinato prodotto. All’inizio molti temevano di nuocere alla loro attività professionale, oggi, invece, sono in pochi a rifiutare facili ed elevati guadagni4.
In un processo di autoesaltazione, di autoriconoscimento del potere, nel 2004, una nota compagnia telefonica utilizza il volto di Gandhi, un testimonial appartenuto a un’altra epoca che mai avrebbe potuto immaginare come nel XXI secolo sarebbe stato usato il suo volto, per sottolineare la 3 4
G. Fabris, La pubblicità. Teorie e prassi, Franco Angeli, Milano 1992, p. 349. A. Grasso, Professione testimonial, in G. Mainoldi (a cura di), Annuario 1987, Rizzoli, Roma 1987, p.587.
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Etica ed estetica del volto
forza degli attuali mezzi di comunicazione. Il volto di Gandhi, non soltanto la sua voce, comunica attraverso televisori, computer, cellulari, maxischermi, in ogni epoca e in ogni angolo del mondo, a folle e moltitudini ma anche a piccoli gruppi. Lo spot si conclude con una frase emblematica: “Se avesse potuto comunicare così, oggi che mondo sarebbe?”. C’è chi ha avuto la possibilità di comunicare così ma le cose non sono migliorate molto anzi, aver avuto lo spazio e la possibilità di parlare a folle, ha solo, tragicamente, peggiorato il corso della storia. Il ricorso al volto noto è anche un ricorso alla memoria collettiva, stimola il senso di appartenenza a un luogo e a una storia. Lo ha compreso bene una casa automobilistica che ha fatto precedere all’immagine dell’auto da sponsorizzare le foto di illustri personaggi, vicende storiche e simboli: da Falcone e Borsellino a Indro Montanelli, da Carla Fracci ad Alberto Sordi, da Alcide De Gasperi a Madre Teresa di Calcutta e, poi, dalle immagini del dopoguerra alla strage di piazza Fontana, dal terrorismo all’attentato di Capaci, passando da una significativa foto dell’Italia multietnica rappresentata attraverso i volti di sorridenti fanciulli di diverse nazionalità. A introdurre la carrellata una frase: “La vita è un insieme di luoghi e di persone che scrivono il tempo. Il nostro tempo”. Si assiste anche al percorso inverso: il volto sconosciuto diventa noto, anzi familiare in seguito a spot pubblicitari che, attraverso frasi slogan, motti, costruzioni di “macchiette”, creano un personaggio. Spesso questi personaggi hanno vita breve, sono fugaci, ma, anche se per poco tempo, associando il proprio volto a delle piccole battute, a volte semplici intercalari, partecipano alla vita quotidiana dei consumatori. Ci sono poi volti che, immobili e muti, diventano la rappresentazione del prodotto. È il caso, per esempio, di una nota marca di dolciumi che, per anni ha legato il suo logo al volto di un bambino e, a distanza di anni, ha indetto un concorso per scegliere un nuovo volto che rappresentasse il marchio, un concorso intitolato “Diventa tu il bambino Kinder”: il bambino diventa il prodotto, lo incarna, lo rende riconoscibile in tutto il mondo, poiché un’osservazione attenta del volto riportato sulle confezioni dimostra che il bambino non è facilmente collocabile in termini culturali, spaziali e temporali. Non ha la pelle scura, non porta gli occhiali e rispetta canoni di vago sapore etnocentrico: carnagione chiara, capelli biondi e occhi azzurri. Ma, al di là di queste osservazioni, colpisce il fatto che tale cambiamento abbia fatto notizia e ciò rivela quanto la pubblicità sia un fenomeno sociale importante nella storia di un paese. Addirittura il quotidiano la Repubblica ha riportato e commentato così la notizia:
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A. Martiradonna - Il volto nella pubblicità commerciale e nella pubblicità sociale 217
Ha sorriso ai bambini italiani e di mezzo mondo negli ultimi 37 anni. Adesso Günter Euringer non sorride più. Il bambino del Kinder Cioccolato, le classicissime barrette al latte della Ferrero, è cambiato: l’azienda ha ridisegnato la confezione e ha cambiato il volto. Addio al caschetto anni Settanta (anzi prima: la foto è del 1968), addio a quella camicina a righe bianco-rosse un po’ fanè, addio agli occhioni blu, addio al faccino pulito da cocco di mamma: adesso c’è un ragazzino di Bologna dal viso pienotto, la polo arancione e il sorriso un po’ da castoro. Risultato, una mezza rivolta su internet, con la Ferrero bombardata di email (alle quali ha risposto parlando di “volontà di conferire una maggiore dinamicità e modernità alla confezione”), dibattiti e un trafficatissimo blog messo in piedi da due adolescenti campani. (10 ottobre 2005)
Un volto, sconosciuto e appartenente a un attuale quarantenne, sembra segnare un pezzo di storia.
3. Belle e affaccendate Volti, scatti, flash, sguardi, deve essere giovane, senza rughe, senza segni del tempo, immortale, eterea, sensuale, oggetto di desiderio altrimenti l’altro lato della medaglia è brutale: casalinga o donna di mezza età alle prese con i problemi che madre natura riserva alle donne che invecchiano. La donna nella pubblicità o ammicca o pulisce bagni e pavimenti, o indossa griffate trasparenze e cerca di far uscire dal tubo catodico fragranze e profumi attraverso occhi da felino e non solo, oppure si ritrova con cerchietto in testa, scopa in mano, occhiaie, ossa pesanti e alle prese con osteoporosi, dentiere e incontinenza. Il volto invecchiato di un uomo deve comunicare maturità, sensualità, esperienza, il volto invecchiato di una donna deve comunicare paura, emarginazione, difficoltà. Le donne sono senza tempo e, quando questo caparbio nemico le sfiora, bisogna correre ai ripari. La pubblicità asseconda la maniacale tendenza della società attuale a mitizzare la perfezione, così come stabilita da canoni estetici a volte deliranti, del corpo, dell’aspetto fisico, del desiderio sessuale che a volte si aggrappa al corpo femminile come fosse un feticcio. Il volto dell’uomo che lavora è soddisfatto, rilassato, traspira forza e potere, preparazione e competenza, il volto di una donna che lavora è perfettamente truccato, tacchi a spillo, bocca carnosa, entra in ufficio come fosse una passerella e tutti gli sguardi sono su di lei. La donna nella pubblicità esiste e intriga in quanto oggetto di una relazione in cui ricopre un ruolo passivo, il suo movimento è conseguenza dello sguardo dell’uomo che deve valutarla e sceglierla: in questo caso l’uomo
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Etica ed estetica del volto
non è il consumatore diretto, ma il destinatario della vanità femminile, il destinatario degli acquisti delle donne. Quando il volto non è seducente e ammiccante, inchiodato alla telecamera, fisso sul volto lontano del consumatore, quando, insomma, a essere rappresentata è la donna a casa, in famiglia, con abiti meno succinti e bocca meno carnosa, il sentimento comunicato anche attraverso espressioni ed eloquenti smorfie è quello della disperazione, dell’angoscia suscitata dalle faticose faccende domestiche da sbrigare mentre marito e figli se ne stanno comodamente seduti sul divano, addirittura bloccati dalla stessa donna con una cintura di sicurezza. Gli uomini impegnati nelle faccende domestiche e tra i fornelli sono single, quasi a voler dimostrare che la presenza di una donna non motiverebbe tale aggravio sugli uomini. Negli spot le madri sono anche capaci di preparare la colazione, lavare la biancheria, combattere contro “lo sporco impossibile” sorridendo e cantando, mentre i padri lavorano, tornano stanchi, esprimono il bisogno di trovare una famiglia calorosa e accogliente e fanno sacrifici per permettere ai loro figli di studiare. La pubblicità riproduce allarmanti stereotipi e il timore è che, attraverso tali immagini, conforti una società che non ha ancora metabolizzato e incarnato i principi dell’uguaglianza e delle pari opportunità. Lo spot non produce tale modello, ma lo conferma per accontentare e rassicurare il consumatore, non può mettere in discussione modelli consolidati e destabilizzare lo spettatore, tranne nei casi in cui lo scopo non è la vendita, il consumo, ma la denuncia di un comportamento negativo o la promozione di scelte positive, come nella pubblicità sociale.
4. Poveri noi, anzi, poveri loro Le situazioni in cui a imperare è la volontà di addolcire i consumatori senza costringerli a riflettere sono molte e spesso per raggiungere tale fine si trascurano aspetti, caratteristiche sempre più evidenti della società. L’analisi di molti elementi e le percepibili trasformazioni permettono di qualificare oggi l’Italia come “multiculturale”5 al di là di quelli che possono essere gli approcci e le posizioni verso tale fenomeno. 5
Secondo le stime del Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes, al 31.12.2011 risultano regolarmente presenti in Italia 5.011.000 stranieri. Con tale cifra l’Italia si colloca tra i primi 5 paesi dell’Unione Europea per numero di stranieri. (Caritas/Migrantes, Dossier Statistico Immigrazione 2012, Idos, Roma 2012)
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A. Martiradonna - Il volto nella pubblicità commerciale e nella pubblicità sociale 219
La pubblicità sembra trascurare tutto questo, o meglio stenta a riconoscere nella persona straniera un eventuale consumatore e si limita a relegarla nel ruolo passivo di destinatario di cure e raccolte di beneficienza oppure, recuperando datati stereotipi e ripercorrendo etnocentrici esotismi, ricostruisce rappresentazioni finalizzate a colpire comunque il consumatore occidentale. Certo riconoscere l’immigrato come consumatore e, quindi, destinatario del messaggio pubblicitario richiede l’utilizzo di codici e linguaggi differenti o, perlomeno, in modo differente e non solo quando si parla di linguaggio verbale, probabilmente l’aspetto più semplice da tradurre, ma anche quando si inserisce il linguaggio non verbale e, quindi, la mimica facciale, gli sguardi, i movimenti di alcune parti del corpo (capo, mani, etc.) che si definiscono differentemente in ciascuna cultura. Lo straniero diventa consumatore soltanto quando il prodotto pubblicizzato ha caratteristiche etniche specifiche o fa strettamente riferimento all’esperienza della migrazione (telefonia internazionale, servizi postali specifici, servizi finanziari che permettono il versamento delle rimesse). A ciò si aggiunga che negli spot gli unici stranieri che possono permettersi case lussuose, auto e ogni forma di comfort sono quelli famosi, gli altri vengono considerati indigenti a priori. In riferimento a quest’ultima riflessione, si può citare la discutibile scelta di una nota compagnia di trasporti italiana che ha voluto sottolineare la differenza economica delle classi di viaggio facendo accomodare nella classe più economica una famiglia di stranieri, visibilmente stranieri poiché il nucleo familiare, allegro e sorridente, è composto da padre, madre e figlia con la pelle scura. Nelle classi superiori sono riconoscibili i volti di manager, passeggeri con la carnagione chiara serviti da una gentile cameriera, in fondo alla piramide compaiono gli stranieri, tre su due posti disponibili. La scelta della compagnia conferma una tendenza frequentemente rilevabile: l’idea che lo straniero, fisicamente riconoscibile come tale, occupi una posizione socialmente ed economicamente inferiore rispetto ad altri utenti. Per lo stesso motivo spesso gli stranieri, quando non sono personaggi famosi (attori, sportivi, top model), diventano protagonisti di pubblicità finalizzate a stimolare il pietismo popolare e tale campagna diventa ancora più struggente se lo straniero viene mostrato povero e prostrato nel suo paese, vittima della carestia, della fame e della guerra. La pubblicità commerciale o sociale più rassicurante è quella in cui viene confermata l’asimmetria tra chi nasce in paesi poveri riconosciuti come “sud del mondo” e chi nasce negli opulenti paesi occidentali. Lo straniero nella comunicazione pubblicitaria non fa ancora parte della quotidianità. La comunicazione pubblici-
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Etica ed estetica del volto
taria non può rischiare, non può essere sovversiva poiché, nel momento in cui si sottopone alle leggi del mercato, condizione intrinseca del messaggio, non è libera di trasgredire fino a mettere radicalmente in discussione i rassicuranti stereotipi. Ma la “differenza” può anche diventare uno strumento prezioso e sofisticato per far parlare e comprare. Deve averlo compreso bene il fotografo Oliviero Toscani che in più occasioni ha rappresentato la diversità e le discriminazioni che spesso ne derivano su mega cartelloni che hanno tappezzato in lungo e in largo le nostre città. Scelte spesso discutibili, poche connessioni con il prodotto pubblicizzato (una nota firma di abbigliamento e non solo) ma tante discussioni, censure, dibattiti ripetendo in modo estenuante il nome della marca e non quello della mente del messaggio pubblicitario. I volti nelle campagne pubblicitarie di Oliviero Toscani rappresentano l’eterogeneità e nell’eterogeneità del genere umano si cerca la diversità e nel rapporto tra diversità si accende la provocazione. L’effetto provocatorio non si scatenerebbe se lo spettatore non si sentisse particolarmente debole su questo aspetto, se non riconoscesse inconsapevolmente in tale rapporto il proprio tallone d’Achille. Nel 1993 un puzzle di 2000 volti compone la parola AIDS, un messaggio verbale veicolato da un’irrompente folla di sguardi. Nel 1998 altri volti, uomini e donne di tutti i continenti, incorniciano l’art.1 della Dichiarazione dei Diritti Umani («Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti»). L’ultima campagna prima della separazione da Benetton ritrae i volti di 28 condannati a morte. Si rompono tabù, si distruggono luoghi comuni, si mostra ciò che si sa ma non si dice, sempre e comunque per vendere, per ribadire il marchio, il committente.
5. La comunicazione sociale Il committente in alcuni casi decide di sposare una causa e a questa causa fa però indossare gli abiti di propria produzione. Si può considerare “sociale” una pubblicità che nasce comunque dall’intenzione di vendere un prodotto? È un interrogativo difficile da risolvere poiché spesso queste campagne perseguono l’obiettivo di evidenziare un problema, una deriva, una piaga sociale, interrogare gli organismi competenti, informare il cittadino, ma nello stesso tempo, far apprezzare un marchio che di tali campagne si fa gloria e onore. La pubblicità sociale dovrebbe definirsi secondo parametri che prendono le distanze dalle logiche del profitto e tale intenzione è dimostrata dalla frequente sostituzione
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A. Martiradonna - Il volto nella pubblicità commerciale e nella pubblicità sociale 221
del termine “pubblicità” col termine “comunicazione”. Ciò per ribadire la differenza, per collocare e relegare il concetto di “pubblicità” nel campo del commercio e del consumo. Un esempio è rappresentato proprio dalla nota marca di abbigliamento a cui si faceva riferimento nel paragrafo precedente. Tale marca famosa a livello mondiale, affiancandosi ad una fondazione istituita dallo stesso gruppo nel 2011, si fa promotrice nel 2012 di un concorso per selezionare i volti rappresentativi del problema della disoccupazione. Tutti i giovani tra i 18 e i 30 anni sono stati invitati a partecipare al concorso che metteva in palio 5 mila euro a ciascuno dei 100 progetti socialmente interessanti proposti dai partecipanti. Nella campagna pubblicitaria i volti sono quelli dei vincitori ma gli abiti no. Uno dei rappresentanti del gruppo ha ribadito che «non pretendiamo che sia un contributo concreto, ma siamo persuasi del fatto che sia un lascito, un modo per celebrare e rendere omaggio a una generazione nella quale crediamo profondamente attraverso immagini e parole, con rispetto, amore e un po’ d’ironia. Un modo per far sentire ai giovani il nostro supporto e la nostra attenzione, ma soprattutto per contribuire a richiamare l’attenzione sulla loro causa» e, possibilmente, sui loro abiti e accessori, trucco e parrucco. Un altro chiaro esempio è dato da una nota marca di calzature e accessori premiata per aver aderito a un progetto finalizzato alla salvaguardia dell’ambiente attraverso una produzione attenta ai materiali utilizzati. Le calzature vengono prodotte con materiale proveniente dalle bottiglie di plastica riciclate e ciò viene valorizzato dal lavoro di due reporter che cercano di immortalare i volti di coloro che, in Italia, hanno intrapreso percorsi green sia nel lavoro che nella vita privata. La pubblicità persegue fini sociali anche senza il marchio, il prodotto e, anche in questi casi, il volto diventa un valido strumento di persuasione. I volti diventano quelli del quotidiano, più familiari, raggiungibili, scompaiono le femme fatales, in alcune campagne il volto noto legge un messaggio, si fa garante del raggiungimento dello scopo e incoraggia lo spettatore a seguirlo nella benefica impresa. La forza della comunicazione sociale sta nell’apparire meno artefatta, nel presentare spesso situazioni reali, volti realmente coinvolti nelle problematiche denunciate. Ciò non dovrebbe accadere, però, nel momento in cui la problematica rende reo il protagonista. Si pensi, ad esempio, allo spot contro l’evasione fiscale in Italia. Il volto mostrato dopo una serie di diapositive di parassiti non è ovviamente quello di un reale evasore confesso e pentito. Risulta, però, un po’ inquietante l’idea di abbinare un volto a
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Etica ed estetica del volto
un reato, la tentazione di cadere nella più qualunquista deriva lombrosiana rimane in agguato e, alla fine, si ricostruiscono alcuni tratti seguendo criteri stereotipati. Il volto non sembra rappresentare quello di un grande, sereno e possidente evasore, piuttosto recupera le caratteristiche dello sguardo minaccioso di un povero disgraziato, trascurato, non proprio di origini padane, collocato in un ambiente anonimo. Poco credibile come evasore perché, di fronte a quel volto al massimo ci si domanda se il malcapitato abbia un reddito su cui pagarle queste tasse, se faccia acquisti per poter essere messo nelle condizioni di chiedere uno scontrino, ma a pensar così si cadrebbe in un altro pregiudizio. Dare un volto a un problema significa creare una categoria e giustificare l’associazione tra la categoria e il reato che si vuole denunciare. Sarebbe stato utile scegliere più volti, con tratti differenti e spiegare che l’evasione fiscale si può generare in qualsiasi contesto e situazione. Fanno perno sui volti anche le campagne contro l’utilizzo di droghe. In Italia nel 2011, sotto lo slogan “Non ti fare, fatti la tua vita”, viene mandato in onda uno spot promosso dal Dipartimento per le Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri in cui a rappresentare e incarnare la droga è il volto ammaliante, seducente e tentatore di una bella donna che abbracciata e avvolta dal consumatore si trasforma in una feroce belva. Nello stesso anno e con gli stessi obiettivi ma senza ricorrere a metafore e figure allegoriche, negli Stati Uniti viene mostrato nelle scuole un filmato in cui si vedono le foto segnaletiche di 21 detenuti prima e dopo l’uso di droghe pesanti, lo stesso metodo frequentemente utilizzato dagli spot di miracolose creme che intervengono sui “segni del tempo” del nostro volto, in quest’ultimo caso il “dopo” è un miglioramento del “prima”. Nella campagna statunitense nel “dopo” ci sono volti segnati e consumati dalla droga, sfatti, spenti, occhi enormi rispetto a lineamenti smunti e induriti. E non si tratta di un solo volto. Uomini e donne, neri e bianchi, giovani e anziani, chiunque può cadere nelle tentazioni della droga, senza distinzione di categorie. La droga non assume un volto, scelto, selezionato e definito secondo criteri a volte pregiudiziali, ma si mostra attraverso i volti di chi la consuma. E viene utilizzato il volto, l’elemento più inquietante e più identificativo. Si coglie uno sguardo, si riconosce una persona, si teme la vicinanza del problema, ciascuno può riconoscersi in uno di quei volti “prima”. Emerge in modo evidente la volontà di impressionare, sconvolgere lo spettatore e, spesso, questo sconvolgimento non è dato dall’inserimento di effetti speciali da film dell’orrore, ma dall’inquietudine che trasmette il contesto di “normalità”, “quotidianità”, in cui il problema riesce a introdursi strisciando. Il protagonista è il messaggio.
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A. Martiradonna - Il volto nella pubblicità commerciale e nella pubblicità sociale 223
L’utilizzo del volto negli spot di denuncia diventa angosciante perché stimola le coscienze, il volto squarcia l’anonimato e interroga. È ciò che accade in una campagna pubblicitaria contro l’utilizzo delle armi, portata avanti in Gran Bretagna nel 2007. Sulle note musicali di “Casta diva” si osserva il percorso di un proiettile che dopo aver centrato un uovo, un bicchiere di latte, una mela, una bottiglia di ketchup, una bottiglia d’acqua e un’anguria, colpisce il viso di un ragazzino lasciando immaginare allo spettatore gli effetti devastanti. Si possono riconoscere in queste campagne gli elementi dell’intimidazione e non sempre tale metodo raggiunge risultati in linea con gli obiettivi prefissati. Normalmente possiamo classificare un messaggio come intimidatorio se contiene rappresentazioni visive e/o verbali ch e mostrano, in maniera più o meno realistica, le conseguenze negative dell’aver seguito i comportamenti a rischio. Un approccio intimidatorio dovrebbe pertanto suscitare paura o ansia nel pubblico. Nonostante il frequente ricorso all’uso dei fear appeals (messaggio intimidatorio) per la promozione della salute e della sicurezza, i ricercatori hanno tuttavia opinioni contrastanti riguardo alla loro utilità. Oltre ad un certo grado di disaccordo da parte sia degli studiosi della comunicazione che degli operatori della prevenzione, anche le ricerche effettuate in tal senso presentano conclusioni discordanti6.
Le campagne pubblicitarie a sfondo sociale non sono soltanto “contro” un problema, una piaga sociale, in molti casi promuovono, lanciano, si impegnano a sensibilizzare a favore di una causa. Si pensi alle campagne a favore della donazione degli organi, della ricerca scientifica per sconfiggere le malattie, della lettura, della difesa dei beni culturali. Il confine tra il messaggio “contro” e il messaggio “per” è molto sottile poiché qualsiasi campagna promuove un’azione per limitarne un’altra, sostiene un valore contro un disvalore. La lettura e l’analisi delle campagne fornisce, inoltre, un valido aiuto per rilevare le trasformazioni sociali e comprendere come alcuni fenomeni a distanza di decenni assumano caratteristiche molto differenti. Si osservi a titolo d’esempio la campagna della fondazione PubblicitàProgresso7 del 1983 che invitava i cittadini a prestare maggiore attenzione 6 7
S. Cedri, La prevenzione degli incidenti stradali: il ruolo delle comunicazioni di massa, in F. Taggi (a cura di), Aspetti sanitari della sicurezza stradale, Istituto Superiore di Sanità, Roma 2003, p. 396. www.pubblicitaprogresso.it.
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Etica ed estetica del volto
ai problemi della terza età e soprattutto alle difficoltà connesse allo stato di solitudine. Sui diversi manifesti, sotto i titoli “Adotta un nonno”e “Diamoci del tu” vengono riportate le fotografie dei volti di nonni che giocano, sorridono e chiacchierano con i nipoti. Osservare oggi quei manifesti assume un altro significato e, vista la necessità che spesso le famiglie hanno di farsi supportare dai nonni nella cura dei figli il titolo diventerebbe “Adotta un nipote”. Occorre, però, mettere in evidenza che già nel 1983 la campagna presentava una terza variante col titolo “In due si cammina meglio”, i volti non sono quelli di uomini come sugli altri manifesti, ma quelli di due donne: una nonna a metà tra matrona e tata, e una figlia neomamma alle prese con un neonato tra le braccia. I nonni ridono e giocano mentre le nonne devono aiutare le mamme in tutto il resto, il nonno deve essere adottato per divertirsi e svagarsi, la nonna deve essere adottata per fare da balia e curare le faccende domestiche. A distanza di vent’anni probabilmente cambierebbero l’obiettivo del messaggio, gli abiti, le acconciature, ma non i ruoli. Anche nella comunicazione sociale si possono rilevare aspetti che riproducono il contesto sociale di riferimento nonostante l’assenza di uno scopo consumistico. Bisogna, comunque, riconoscere che l’elemento provocatorio ha oggi maggiore protagonismo rispetto agli anni passati e, lo stesso sviluppo della comunicazione sociale rivela che i mass media stanno maturando maggiore consapevolezza della loro influenza sui comportamenti e sulle scelte degli spettatori. L’influenza non è sempre direttamente proporzionale e coerente con gli obiettivi del progetto pubblicitario, ma l’esistenza stessa della pubblicità commerciale e della comunicazione sociale è la prova tangibile del potere che i mezzi di comunicazione si autoriconoscono anche se spesso smentiscono ciò e prendono le distanze da ogni responsabilità.
6. Bibliografia Caritas/Migrantes, Dossier Statistico Immigrazione 2012, Idos, Roma 2012. Vanni Codeluppi, Che cos’è la pubblicità, Carocci, Roma 2001. Laura Corradi, Specchio delle sue brame. Classe, razza, genere, età ed eterosessismo nelle pubblicità, Ediesse, Roma 2012. Giulio Mainoldi (a cura di), Annuario 1987, Rizzoli, Roma 1987. Graziella Priulla, Comunicare Solidarietà, Bonanno, Catania 2008. Franco Taggi (a cura di), Aspetti sanitari della sicurezza stradale, Istituto Superiore di Sanità, Roma 2003. Annamaria Testa, La pubblicità, Il Mulino, Bologna 2007.
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MODA
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FELICIA L. FERRIGNI
IL VOLTO È UN FETICCIO Desiderio e seduzione nella fotografia di moda
Perché è l’oggetto a sognarci. Il mondo ci riflette, il mondo ci pensa. È questa la regola fondamentale. La magia della fotografia sta nel fatto che tutta l’opera la fa l’oggetto. Jean Baudrillard, È l’oggetto che vi pensa.
1. Vis-à-vis col feticcio Maggio 1926. Primo maggio 1926, per l’esattezza. Uno degli artisti più significativi del Novecento, Man Ray, pubblica sulla nota rivista di moda Vogue una fotografia (tratta da una serie di ventiquattro immagini) intitolata Visage de nacre et masque d’ébène (Viso di madreperla e maschera d’ebano). La foto, riscoperta più tardi, negli anni Ottanta, e intitolata Noire et Blanche in seguito alla pubblicazione, nel 1928, sulle riviste francesi Art et Décoration e Variétè, ritrae una donna (Kiki de Montparnasse, compagna dell’artista), dalla pelle liscia e abbagliante, le labbra sottili, i capelli sollevati in modo ordinato dietro il capo, atteggiata a dormiente, mentre stringe una maschera africana. La didascalia originaria, che accompagna la foto pubblicata su Vogue, recita così: Un volto di donna, un ovale liscio e luminoso, cerca di liberarsi1 dalla maschera impenetrabile (lett. testa ricca di capelli) che la lega ancora alla natura primordiale. È proprio attraverso la donna che l’evoluzione della specie si compie in un luogo carico di mistero. Talvolta angosciata, essa teme, con curiosità e terrore, di regredire a una delle fasi attraverso le quali è già passata, prima di diventare quella creatura bianca e perfetta che oggi è.
1
L’intera espressione «to shake off the thick head of hair», cioè il liberarsi, il discostarsi dalla testa ricca di capelli, si presta al gioco dell’ambivalenza dei significati, in quanto può alludere sia alla folta chioma della donna, tirata indietro rispetto al viso, sia alla maschera, sollevata a una certa distanza dal volto.
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Etica ed estetica del volto
Man Ray, Visage de nacre et masque d’ébène (Noire et blanche), 1926.
Come si evince dal frammento su riportato, elemento centrale della descrizione, denso di richiami, è la forma del volto della modella, il contorno ovale, sottolineato nel testo originale dal termine inglese egg, ‘uovo’, che allude alla simbologia della donna donatrice di vita, sullo sfondo della scala evolutiva che segna il passaggio dalla creatura primitiva a quella moderna, da una civiltà nera ad una bianca. La donna diviene, così, il simbolo della vita stessa connessa alle sue origini, rappresentate dalla maschera africana che Man Ray ritrae quale custode del passato primordiale dell’umanità; oggetto, questo, apparentemente passivo, inerte, collegato alla concezione bretoniana del primitivo e agli studi etnografici degli inizi del secolo scorso, incentrati sul nesso tra esotico, immaginario e inconscio – guscio, quest’ultimo, di un’alterità interna desiderante (lezione freudiana di quegli anni). L’Europa dei primi anni del Novecento, difatti, desiderosa di rinnovarsi artisticamente e pronta a farsi catturare dall’ispirazione esotica, improvvisamente scopre l’Art Négre, la differenza dell’arte primitiva, con cui apre un confronto dialogico serrato2, ammirandone le tecniche, l’abilità espressiva, fino a impadronirsi dell’uso energico del colore e delle proporzioni sconosciute che le sculture e le maschere esposte nei musei mostrano 2
Ciò avviene in due ondate successive: la prima nel periodo decadente-simbolista, con Van Gogh e Gauguin; la seconda nel periodo cubista e surrealista.
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F.L. Ferrigni - Il volto è un feticcio
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di possedere. In tale contesto si inserisce il lavoro fotografico di Man Ray, le continue revisioni a cui l’artista sottopone la foto, compresa la modifica, nel 1928, del titolo dell’immagine in Noire et Blanche, impostata non in termini di dicotomia nero-bianco ma di interazione (surrealista) conscioinconscio, conosciuto-sconosciuto, vicino-lontano, razionale- irrazionale. Così, sebbene ciò che salta subito agli occhi sia il contrasto tra il colore della pelle della modella e quello della maschera, l’accento deve essere tuttavia posto sul lavoro fatto da Man Ray per rendere simili, al di là delle apparenti opposizioni, i due soggetti, al fine di realizzare delle corrispondenze formali-visuali e psicologiche che richiamano le simmetrie surrealiste tra Art Négre e arte surreale, inconscio occidentale, incarnato dalla donna, e forze esotiche, istintuali, anti-tabù3 della maschera. Secondo questa prospettiva, Noire e Blanche si rovesciano incessantemente e specularmente, affrancando le categorie dell’Io e dell’Alterità attraverso modalità sciolte, oniriche e nello stesso tempo dense di una razionalità espressiva e sensitiva. In tal modo, paradossalmente il doppio mette in discussione il dualismo non solo tecnico ma anche culturale tra positivo e negativo, tra l’io e l’altro. Questo io si muta a sua volta come un Altro, un altro a se stesso, in uno scambio ibrido di identità. E anche di feticci: la maschera ha lo stesso potere feticista del viso di Kiki. Già si annunciano nuovi feticismi visuali che la foto – un mix di visus e maska – ibridizza. […] Nel visus – che dal latino unisce il “viso” con “tutto ciò che si vede” – coincide il viso e la maschera, in un doppio primo piano Cut-up tra due teste mozze4...
Si delinea, quindi, un percorso di duplice mascheramento, in cui il visus si tramuta in feticcio5 e viceversa, come testimoniano i ritocchi successivi – aggiunte o eliminazioni di alcuni particolari fisici della donna (capelli, labbra, secondo i canoni dell’arte primitiva), cambiamento della posizione della maschera6 nelle mani di Kiki, fotografata con gli occhi aperti, oppure 3 4 5
6
Sono gli anni dell’affermazione degli studi etnologici di Marcel Mauss e dei suoi allievi, ma anche dell’erotismo onirico di Georges Bataille M. Canevacci Ribeiro, Una stupita fatticità. Feticismi visuali tra corpi e metropoli, Costa & Nolan, Milano 2007, pp. 31-32. Il termine ‘feticcio’, in portoghese feitiço, significa ‘artificiale’ (a sua volta derivazione del latino facticius, ‘fabbricato’, ‘finto’ e di factum, ‘fatto’), ma anche ‘incantesimo’, oppure ‘oggetto magico’, dotato di un potere soprannaturale e perciò carico di significati simbolici (all’inizio designa gli amuleti degli indigeni africani e poi, più avanti, le reliquie sacre di quei popoli). Nella sovrapposizione dei due fattori, maschera-feticcio e volto, avviene una parallela scomposizione dell’oggetto, che si potenzia e si voltifica, girandosi, attraversando il viso di Kiki e operando in tal modo uno scambio, una sovrapposizione.
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Etica ed estetica del volto
inversioni del colore, scambio del bianco e del nero nell’utilizzo dei negativi, quasi a suggerire che il primitivo sopravvive nella donna civilizzata –, fatti per accentuare la somiglianza tra i due, per «creare una compagna più armoniosa per la maschera africana (una forma ovale più luminosa e precisa, l’eliminazione di fonti di distrazioni visive)» 7.
Man Ray, Noire et blanche: Variante, 1926 e Négatif, 1926.
In tal modo le corrispondenze kiki-sogno-inconscio/maschera-vegliaconscio, di matrice surrealista, non possono più individuare un limite netto tra i due stati conscio-inconscio, luce-ombra; le tenebre, infatti, finiscono per rovesciarsi nella luce, mentre quel che prima è avvolto dal bagliore si tramuta in oscurità. Di conseguenza, non è neppure possibile definire, separandoli in modo univoco, maschera e volto: entrambi sono mossi dal senso della maschera, ambedue sono doppi, immersi in una circolarità di addizione e sottrazione che riesce a combinare le espressioni del viso, il visus8 col vultus9 (il volto, ovvero ciò che è ‘rivoltato, girato, rovesciato’), in modo da produrre, secondo modalità conoscitive «oniriche e allo stesso 7 8 9
C. Weston, Man Ray’s Noire et blanche: Surrealism, Fashion, and Other(s), Department of Art Education and Art History, College of Visual Arts and Design, University of North Texas 2010, p.7 (traduzione mia). Visus, ‘visto’, participio passato del verbo latino vidēre, ‘vedere’, ovvero, per estensione, ‘visione, immagine’. Volto: tratto dal latino vultus, ma anche participio passato del verbo italiano ‘volgere’.
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F.L. Ferrigni - Il volto è un feticcio
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tempo dense di una nascente razionalità espressiva e sensitiva»10, un nuovo soggetto, la maschera sinottica delle due entità Io-Altro. Si tratta di una razionalità che sa accogliere al suo interno la forza oscura della maschera africana, la potenza di un oggetto-feticcio che agli intellettuali europei risulta affascinante proprio a causa della sua esuberante carica creativa, della complessa sensualità, del lato irrazionale dell’Art Nègre – il mistero, l’esoterismo, l’ambiguità polisemica, la magia del soprannaturale e dell’inconscio che rende libera la soggettività. E come Picasso stesso racconta, rievocando l’Art Nègre: Le maschere non erano sculture come le altre. Per niente. Erano oggetti magici. Non come le opere degli egizi, dei caldei: non ce ne eravamo accorti, ma quelle erano opere primitive, non magiche. I negri erano degli intercessori, è da allora che so la parola in francese. Contro tutto; contro spiriti sconosciuti, minacciosi. Continuavo a guardare tutti quei feticci. E ho capito. Anch’io sono contro tutto. Anch’io penso che tutto è sconosciuto, e ostile. Tutto! Non i dettagli: le donne, i bambini, le bestie, il tabacco, giocare... proprio Tutto! Ho capito a cosa serviva ai negri la scultura. Perché scolpire così e non altrimenti. [...] Ma tutti i feticci servivano alla stessa cosa. Erano armi. Per aiutare la gente a non essere più soggetta agli spiriti, per diventare indipendente. Strumenti. Se diamo una forma agli spiriti diventiamo indipendenti. Gli spiriti, l’inconscio (non se ne parlava ancora molto), l’emozione sono una medesima cosa. Ho capito perché ero pittore. [...] Les Demoiselles d’Avignon mi devono essere nate quel giorno: non per via delle forme, ma perché era la mia prima tela di esorcismo11.
Gli spiriti, l’inconscio, le emozioni. I feticci. Un’arte che, dunque, viene sussunta nel quadro di una progressiva feticizzazione del prodotto artistico, piegato ad esprimere le istanze di un soggetto altro, non-bianco. Allo stesso modo, l’immagine della modella si offre, nella posizione apparentemente passiva di corpo-volto (corpo concentrato tutto nel viso, voltificato), agli occhi maschili, diventando oggetto (o merce inanimata) sul quale si proietta lo sguardo oggettivante di chi lo ammira. Il volto si radica nel visum, nel vedere, nell’oggetto-immagine della fotografia di moda, nel corpo che, rivoltato nel suo volgersi, si rende maschera e, per questa via, feticcio. Tra maschera e feticcio, tra màsca12 e feitiço: in questi termini prende vita 10 11 12
M. Canevacci Ribeiro, Una stupita fatticità, cit., p. 31. A. Malroux, Il cranio di ossidiana. Meditazione sulla morte di Picasso e sulla vita delle forme, tr. it. di S. d’Alessandro e G. Mariotti, Garzanti, Milano 1975, pp. 19-20. L’etimologia del termine ‘maschera’ si riallaccia sia all’indoeuropeo masca ossia ‘fantasma nero’, ‘fuliggine’, sia al latino tardo-medievale màsca, ‘strega’. Il
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Etica ed estetica del volto
una sovrapposizione verticale di istintività e razionalità, all’interno di una identificazione emotiva con l’oggetto che abolisce vecchi dualismi. La maschera, l’antica pròsopon13 dei Greci, un dispositivo che in sé interseca un’origine dapprima sacra e poi teatrale, combina l’abilità di rivelare e di sospendere, nascondendole, la soggettività e le passioni del portatore di maschera, la cui identità viene agganciata alle infinite possibilità di metamorfosi dell’umano in sovrumano, magico. Indossare la maschera, secondo Vernant, significa cessare di essere se stessi e incarnare, fintanto che la si indossa, la Potenza dell’aldilà che si appropria di voi, di cui voi mimate la faccia, la gestualità e la voce […]. Si stabilisce quindi una contiguità, uno scambio di statuto che può arrivare sino alla confusione, all’identificazione; ma, al tempo stesso, in questa vicinanza si instaura anche lo strappo da sé, la proiezione in un’alterità radicale, la distanza più grande e lo smarrimento più completo che appartengono all’intimità e al contatto14.
Guardare ed essere guardati: per sospendere l’identità e trasformarsi in una divinità da cui si viene catturati, durante la mutazione e la proiezione, nel contatto profondo con le potenze della vita stessa. Si riproduce, allora, quella che può essere considerata la maschera per antonomasia, Gorgo15, «la Gorgone figlia della Notte che emette sibili da cento teste di serpi»16: La faccia di Gorgo è una maschera; ma, invece di indossarla per mimare il dio, questa figura produce l’effetto di maschera semplicemente guardandovi negli occhi [...] come la vostra ombra o il vostro riflesso [...]. È il vostro sguardo che è preso nella maschera. La faccia di Gorgo è l’altro, è il doppio di voi stessi, è l’Estraneo in reciprocità con la vostra figura come un’immagine nello specchio (specchio nel quale i greci potevano vedersi esclusivamente di faccia
13 14 15
16
lemma si è poi evoluto con l’aggiunta di una ‘r’, diventando perciò mascra e successivamente mascara, maschera, inteso sia come ‘anima cattiva’, ‘defunto’, sia come maschera carnevalesca. Prósopon, πρόσωπον, composto, in greco, di pros, ‘dinanzi’, e opos, ‘volto’, quindi ciò che è dinanzi agli occhi altrui. J.-P. Vernant, Figure, idoli, maschere, tr. it. di A. Zangara, Il Saggiatore, Milano 2001, p. 101. Le Gorgoni, Steno, Euriale e Medusa la sovrana (l’unica mortale tra le tre), sono creature mostruose della mitologia greca, dalle mani di bronzo, ali d’oro e chiome di serpenti sibilanti, capaci di trasformare in pietra chiunque le guardasse. Medusa, simbolo ambivalente di attrazione e repulsione, vita e morte, viene poi uccisa da Perseo grazie allo scudo riflettente di Atena, che gli permette di evitare lo sguardo diretto della Gorgone. Euripide, Eracle, tr. it. di M. S. Mirto, BUR, Milano 1997, vv. 883-84.
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F.L. Ferrigni - Il volto è un feticcio
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e sotto forma di semplice testa), ma come un’immagine che al tempo stesso è di meno e di più rispetto a voi stessi, è semplice riflesso ed è realtà dell’aldilà; un’immagine che vi ghermirebbe perché, invece di rimandarvi soltanto all’apparenza della vostra figura, invece di riprodurre il vostro sguardo, rappresenterebbe, con la sua smorfia, quell’orrore terrificante di un’alterità radicale nella quale vi identifichereste divenendo pietra17.
La maschera, dunque, effettua un lavoro di accrescimento e di riduzione dell’identità all’interno di una metamorfizzazione relazionale, ovvero di un’espansione soggettiva nella relazione con un oggetto che risulta in grado di smuovere quel che di solito è diviso in dualismi. La frontalità fra gli elementi crea una sorta di fascinazione che innesca un gioco di confronti in cui soggetto e oggetto si fronteggiano, creando lo spazio/gli spazi di possessione del soggetto da parte dell’oggetto-feticcio, che finisce col non rappresentare più, come tradizionalmente si è ritenuto, qualcosa di costruito, di falso, di inautentico. La modernità, infatti, soprattutto agli albori del colonialismo, ha spesso impiegato il concetto di feticcio, per definire dapprima pratiche religiose del tutto inspiegabili alla mentalità occidentale, caratterizzate dal fascino dell’inanimato, allargando poi la sfera semantica dall’ambito religioso a quello economico-politico e psicanalitico, come nella teoria del valore di Marx (feticismo della merce) e dello sviluppo psico-sessuale di Freud (perversione feticista), incentrate sulla potenza oscura del feticcio. Se, nel feticismo marxiano, l’oggetto-feticcio diventa involucro di valore, corpo stesso della merce in cui si annida il potere del sistema socioeconomico, che rende alieno il lavoro stesso a chi lo produce, la teoria dello sviluppo psico-sessuale di Freud, istituendo il nesso tra feticcio e timore della castrazione, ha messo in luce un meccanismo di compensazione (operato dal bambino in fase edipica) volto a ri-elaborare il feticcio come sostituto e, al contempo, doppio, in cui lo straniero, l’arcano, il primitivo possono emergere dal passato, alla stregua di un contrappunto angosciante – quello del ritorno del rimosso, che contrasta col familiare, col rassicurante. Una sorta di distanziamento teorico e pratico dall’Altro, dunque, che ha tranquillizzato l’Occidente sulla gestione razionale di «questa cosa troppo cosa»18, di «questo ibrido di organico e inorganico, al cui interno o sulla cui superficie ha sede uno spirito deteriorato»19 e pericoloso. 17 18 19
J.-P. Vernant, Figure, idoli, maschere, cit., p. 101. M. Canevacci Ribeiro, Una stupita fatticità, cit., p. 186. Ibidem.
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Etica ed estetica del volto
Ma ciò che sfugge al vincolo di una etichettatura del feticcio ab origine, e a fin troppo facili tassonomie, è il suo potere vitale interno, una capacità metamorfica insita nelle mutazioni che il soggetto mette in gioco, investendo la sua forza nel territorio dell’oggetto e incrociandone la corporeità, le potenzialità soggettivizzanti. Un potere che l’arte del Novecento per certi versi ha colto, rappresentandone la dimensione sacrale (che non coincide con quella del vincolo religioso), laddove la discussione del confine tra reale e irreale, animato e inanimato, si riflette nell’ambiguità dell’uso e dei significati della maschera-oggetto e del volto-soggetto. Come nelle sculture di Modigliani o nella celebre tela di Picasso, Les Demoiselle d’Avignon, in cui l’eco dell’arte africana e l’attrazione degli artisti per la materia e per i feticci si piegano all’esplorazione magica – oltre che cognitiva – della psiche, delle emozioni, secondo i ritmi di un enigmatico quanto antico feticismo, contrapposto al moderno feticismo della merce. Per questa via, il concatenamento causale del rapporto soggetto-oggetto viene meno: il soggetto arroccato sulle dialettiche tradizionali della ragione, fondate su nessi causali, su di una temporalità definita, affronta un oggetto che agisce secondo «concatenazioni incalcolabili»20, imprevedibili, reversibili, in cui le strategie sono allineate in un ciclo di metamorfosi complici, di apparizioni e sparizioni governate dall’astuzia, dall’ironia dell’oggetto stesso. Oggetto che, posto di fronte alla fragilità di un soggetto che non riesce più ad essere tale – perché sradicato, scisso, privo di memoria identitaria, a causa di processi globali storici, economici complessi che ne hanno messo in crisi la sovranità metafisica sul mondo, il dominio sugli spazi della politica, soggiogato dalle illusioni del proprio desiderare –, riesce ad innalzarsi dalla sua condizione di «parte alienata [...] maledetta del soggetto [...] incarnazione del male»21 e a disalienarsi, dal momento che esso è già inalienabile, spoglio di illusioni. Esso «non cerca di darsi un fondamento in una natura propria [...], non conosce l’alterità. Non è diviso in se stesso, com’è invece destino del soggetto, e non conosce lo stadio dello specchio, ove resterebbe impigliato nel suo proprio immaginario»22. Anzi, «esso è lo specchio. È ciò che rimanda il soggetto alla sua trasparenza mortale. E se può affascinarlo e sedurlo, è proprio perché non brilla di una sostanza o di un significato proprio»23, indifferente com’è alle reti di significato che il soggetto abbozza per rin20 21 22 23
J. Baudrillard, Le strategie fatali, tr. it.. S. d’Alessandro, SE, Milano 2007, p. 142. Ivi, p. 105. Ivi, p. 107. Ibidem.
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F.L. Ferrigni - Il volto è un feticcio
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tracciare un fondamento agli eventi e a se stesso. L’oggetto, di contro, architetta la propria strategia in quanto feticcio, in quanto investito della potenza ironica di un rovesciamento metamorfico, di una «potenza occulta»24 che attraversa «tutte le forme riassunte dell’identità e dell’alterità»25, rovesciandone gli schemi causali. In tal senso, l’oggetto, partendo da una posizione neutrale, di insensata indifferenza, entra nei desideri del soggetto, mescolandosi alla realtà desiderata, nella veste di oggetto appassionato, che non risulta mai seduttore passivo ma attivo. Si tratta del gioco della seduzione, della «passione di giocare e di essere giocato»26, di «ciò che giunto da altrove, dagli altri, dal loro volto, dal loro linguaggio, dai loro gesti, vi turba, vi alletta, vi intima di esistere [...], sorpresa di ciò che esiste prima di voi, fuori di voi, senza di voi [...]. Oggetto minerale, evento-solstizio, oggetto sensuale [...], tutto ciò ci seduce perché [...] in fondo l’essere non deve far altro che esistere nel suo essere, non è niente e non esiste che nell’essere suscitato fuori di sé, nel gioco del mondo e nella vertigine della seduzione».27 In questo dispiegamento smisurato, le vite dei corpi, che in genere agiscono in spazi distanti, ben distinti, sottratti alla confusione, possono incontrarsi in territori caratterizzati da indeterminazione, molteplicità, in connessioni totali e totalizzanti di eventi creati dal dispiegarsi del potere della seduzione. Gli avvenimenti si correlano, superando l’imperativo categorico che ha tormentato l’umanità per secoli, quello, cioè, di creare l’ordine dal disordine, di trarre necessariamente un senso dalla complessità, dal caos. Il risultato di questa ambizione è stato il realismo: un realismo salvifico, che ha avvolto e soffocato il fascino rituale degli oggetti con una patina incolore, tale è stata la volontà di applicare leggi universali razionali che rendessero conto della varietà del mondo e delle passioni, della miscela fatale presente nella sostanza sfuggente delle cose. Perché la natura dell’oggetto è duplice, essa «disobbedisce alla nostra metafisica, che cerca da sempre di distillare il Bene e di filtrare il Male»28, agendo da «cattivo conduttore dell’ordine simbolico, buon conduttore invece del fatale, cioè di un’oggettività pura, sovrana e non riconciliabile, immanente ed enigmatica»29.
24 25 26 27 28 29
Ivi, p. 108. Ibidem. J. Baudrillard, Le strategie fatali, cit., p. 128. Ibidem. Ivi, p. 164. Ibidem.
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Etica ed estetica del volto
L’oggetto sfugge alle leggi, all’inconscio, alla ragione, alla illusoria scaltrezza del soggetto: l’oggetto si realizza indipendentemente dal soggetto perché le sue «metamorfosi, le astuzie, le strategie»30 lo superano copiosamente. L’oggetto «non è né il doppio né il rimosso del soggetto, né il suo fantasma né la sua allucinazione [...], esso ha la sua strategia specifica, è detentore di una regola del gioco impenetrabile al soggetto, non perché sia profondamente misteriosa, ma perché è infinitamente ironica»31. Ironia, dissimulazione di un pensiero che ne interroga un altro, andandone a scardinare le certezze, i sistemi fatti di principi, sicurezze, verità. Operazione in cui, senza tener conto delle illusioni del soggetto, l’oggetto-maschera smaschera, per l’appunto, il volto che ha dinanzi per rimettere «in moto ciò che è immobile»32, l’individualità ferma nella gabbia realizzata dagli errori di una coscienza dogmatica. Ma quel che di primo acchito può apparire asimmetria, movimento obliquo tra volto e maschera, gioco tra un soggetto pronto a realizzarsi e un oggetto già compiuto in sé – due estremi che sembrano non toccarsi – finisce con l’instaurare una slittante complicità in cui l’atto ironico «non è neutrum ma utrumque, l’uno e l’altro piuttosto che né l’uno né l’altro»33, forma «ibrida, perché esita, come il centauro, fra due forme di esistenza»34. Due: due forme, due modalità, due fattori. Secondo Man Ray35 sono necessari solo due fattori, apparentemente slegati, tuttavia connessi, affinché l’atto creativo possa riuscire ad attuare una poesia plastica, i cui termini tentano di incarnare le processualità indotte dalle forze dis-locanti della seduzione, atte a superare non solo i dualismi bensì i monismi uniformanti delle forme culturali e della ragione. Due fattori, la cosa e il soggetto, attraversano la mediazione della tecnica fotografica, laddove «il soggetto è solo l’agente dell’apparizione ironica delle cose»36. 30 31 32 33 34 35
36
Ivi, p. 163. Ibidem. V. Jankelevitch, L’ironia, tr. it. di F. Canepa, Il Nuovo Melangolo, Genova 2006, p. 22. Ivi, p. 134. Ivi, p. 143. «Il mio atteggiamento nei confronti dell’oggetto è diverso da quello di Duchamp al quale bastava ribattezzarlo. Io ho bisogno di più di un fattore, almeno due. Due fattori che non siano connessi in alcun modo. L’atto creativo si fonda per me nell’accoppiamento di questi due fattori diversi, al fine di produrre qualcosa di nuovo, che potrebbe essere designato come una poesia plastica» (A. Schwarz, Man Ray, Giunti, Milano 1998, p. 10). J. Baudrillard, È l’oggetto che vi pensa, tr. it. di Yasmina Melaouah, Pagine d’Arte, Tesserete 2003, p. 5.
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L’immagine, dice Baudrillard, «è il medium per eccellenza della gigantesca pubblicità che [...] gli oggetti fanno di se stessi»37, nei particolari singolari, nella forza dirompente dei dettagli eccentrici, ma anche nella capacità di esistere senza soggetto. E il soggetto diventa ciò che, di fronte all’incontro dirompente con l’oggetto, deve interrompere la sequenza dei giudizi, dei pensieri, dei desideri per accettare la frammentazione della realtà attraverso l’immagine fotografica, la cui intensità «è commisurata al suo disconoscimento del reale, all’invenzione di un’altra scena»38. Così, l’immagine fotografica è drammatica per la lotta tra la volontà del soggetto di imporre un ordine, una visione, e quella dell’oggetto di imporsi nella sua discontinuità e nella sua immediatezza. Nel migliore dei casi, è l’oggetto ad avere la meglio [...]. Contro la filosofia del soggetto, quella dello sguardo, della distanza dal mondo per meglio coglierlo, l’anti-filosofia dell’oggetto, della deconnessione degli oggetti tra loro, della successione aleatoria degli oggetti parziali e dei dettagli. Come di una sincope musicale o del moto delle particelle. [...] Affinché l’oggetto sia posseduto, è necessario che il soggetto si spossessi39.
La fotografia ferma il mondo fenomenico, sospende la materia, assegnandole un altro tempo, quello sincopato dell’istante, che contrae il movimento, non arrestandolo del tutto, nella circolazione silenziosa delle immagini in cui «le foto rimandano le une alle altre»40, nella ricerca dell’«alterità segreta»41, sottratta ai tentativi di fissarla secondo le interpretazioni del desiderio, della durata o della morale. L’obiettivo non è uno specchio che deve rassicurare il soggetto circa la sua identità: ogni immagine si presenta come frammento o collegamento con altre immagini; perciò, l’atto del fotografare non riprende l’oggetto come mero elemento tra elementi ma lo fissa in un flusso oggettivante dove tutto si fa oggetto, anche colui che fotografa. Il fotografo, infatti, è disposto a dimenticare se stesso ad ogni scatto, non ritenendosi «un individuo rappresentativo, ma un oggetto che opera nel proprio ciclo, senza curarsi della messa in scena, in una sorta di circoscrizione delirante di sé e dell’oggetto»42 - svuotandosi delle categorie spazio-tempo37 38 39 40 41 42
Ibidem. Ivi, p. 6. Ivi, p. 8. Ivi, p. 20. Ivi, p. 12. Ivi, p. 11.
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Etica ed estetica del volto
rali per liberare e impressionare quella sorta di pellicola che è la sua mente. In tal modo, l’obiettivo, mettendo a fuoco «l’inoggettività del mondo»43, inquadra il feticcio, che fa deviare il soggetto dalla propria provvisoria identità, per attorcigliarlo in una ossessione: muoversi nella dimensione laterale della frammentarietà alla ricerca della trasformazione capace di generare un senso, una nuova autorappresentazione, una nuova faccia. Operazione, questa, che trova il proprio fondamento nella moltiplicazione performativa attuata dalla performance teatrale-vestimentaria dei feticci – i volti-corpi delle modelle – della moda e della fotografia di moda. E come la facciata di un edificio, di un palazzo, di una basilica o di un hangar che con sincerità, maliziosa reticenza – quando persino non con consapevole sincerità –, dice o lascia intendere, o vuol far credere, ciò che possiede al suo interno. […] è dal volto che, al pari di una facciata, [il corpo] riceve espressività e loquacità; ma è la Moda, sul suo rivestimento naturale e biologico, la sua più vera, autonoma espressione, variabile e, negli stili, sempre diversa per intenzionalità, umori e contenuti: la pelle concitata della Moda, la sua mimica espressiva e l’integrazione e il definitivo completamento di ciò che il volto racconta, riferisce o finge di raccontare, tace omette o nasconde. [...] Perché l’abito non è che l’accessorio di un ulteriore abito infinitamente più espressivo che è il volto, appunto, come facciata esplicativa44.
Richard Avedon, Penelope Tree, 1968. 43 44
Ivi, p. 15. Q. Conti, Mai il mondo saprà. Conversazioni sulla moda, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 15-18.
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Dall’architettura del volto è certo possibile, ricorrendo ad un intuito ingegnoso, cercare, per tentativi, di scoprire, di desumere, ipotizzandoli, gli intenti di coloro che indossano un abito – rivestiti di stoffe tenute insieme dagli stili –, i desideri di coloro che cercano un linguaggio per le proprie contraddizioni, ma solo il derma esteriore della moda, elettrizzato ed elettrizzante, consente di scorgere in una visione d’insieme, per un attimo, una volontà identitaria – l’individuo che tenta di cucire insieme i propri frammenti e di comunicarli –, ravvisando su più livelli la maschera che agita l’identità esibita, quella maschera che ossessiona con le sue allusioni le reti delle connessioni individuali senza posa. In una prossimità priva di tempo ma narrativa... Quel volto, in quell’abito. Dietro la sua maschera.
2. Il volto performativo nella fotografia di moda Attraverso una complicità osmotica con la fotografia, la moda45 sussiste: dea della apparenze, nelle parole di Mallarmé, grammatica del mutamento che oscilla, in senso simmeliano, tra sociale e individuale, tra imitazione e differenziazione, essa si alimenta della dialettica tra immagine e immaginario, amplificata dalla connessione feticistica che la insinua tra la presentazione dell’abito e la sua ri-presentazione onirica e desiderante. Al di là di monismi e dualismi, al di là delle categorie del pensiero razionale, essa apre le proprie matrici alle possibilità metamorfiche della maschera, alla pratica identitaria della mimesi che, a differenza del procedimento imitativo, non ricalca passivamente il modello speculare della cosa-feticcio ma procede attivando selezioni di determinate caratteristiche del feticcio stesso, così da impedire l’uniformazione totale del soggetto rispetto all’oggetto. In tal senso, «l’atto più significativo dell’attività mimetica sta nell’alterare la propria identità frammentandola, pluralizzandola, fluidificandola; sta nell’interagire con l’altro per spingerlo a sua volta a
45
La moda è un fenomeno complesso che non coincide con la mera esibizione di un abito: essa mescola identità, gestualità, linguaggi, traduce essenze e comportamenti in stili che congiungono l’esigenza di essere visti con la necessità di costruire vite molteplici. La fotografia raccoglie queste istanze, consentendo di moltiplicare voyeuristicamente le nostre vite in immagini governate dal sogno e dal desiderio.
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Etica ed estetica del volto
modificarsi, senza accettarlo come l’originale»46. Di qui il una sorta di doppio gioco tra soggetto e oggetto, attivato da «frazioni corporee [...] che non impongono il modello del sosia, né quell’oscura tendenza ad imitare il nemico»47 ma «suggeriscono mutazioni possibili che eccitano attività imprevedibili del soggetto, spostamenti fisionomici, alterazioni somatiche»48. Doppio gioco che travalica la funzione realistico-denotativa, legata all’esigenza di esibire, di presentare e ri-presentare un prodotto per realizzare «un supplemento di significato»49 che, ironicamente, si avvale del realismo stesso, «in modo tale che le intenzioni di cui carica la fotografia siano a loro volta percepite come realistiche [...]. Così, la fotografia pubblicitaria gioca un doppio gioco che si fonda sul gioco stesso che l’immagine sociale della fotografia accorda all’immagine fotografica»50. Il canone dell’obiettività, che si nutre di socialità, si piega alla collaborazione con il fantastico, con l’immaginario, consentendo alla fotografia di diventare «pubblicitaria, cioè di essere insieme rappresentazione del suo oggetto e sua ri-presentazione»51, giacché il dovere dilemmatico del fotografo è «rendere reale un’immagine fantastica»52 ovvero tra-vestirla con le sembianze della duplicità e della negazione di tale duplicità, celando «la sua vera intenzione sotto una apparenza riconosciuta»53. Per questa via, la negazione del gioco deve rimanere entro i confini della denotazione, della verosimiglianza ma in modo tale che la denotazione stessa venga apparentemente messa a tacere, raggiungendo una fotografia di ‘grado zero’ cioè fondata sul potere di pura denotazione realistica esercitato dal mezzo e sull’assenza, altrettanto apparente, di qualsiasi intervento connotativo [...]. Talora è sufficiente l’allusione, oppure basta il contesto, l’inclusione all’interno di un codice quale quello della rivista di moda, per far scattare il desiderio e il sogno. La finezza del doppio gioco posto in atto dalla fotografia della moda nasce dunque dalla consapevolezza che far vedere
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M. Canevacci Ribeiro, Una stupita fatticità. Feticismi visuali tra corpi e metropoli, Costa & Nolan, Milano 2007, p. 240. Ivi, p. 239. Ibidem. P. Bourdieu, La fotografia. Usi e funzioni sociali di un’arte media, tr. it. di M. Buonanno, Guaraldi, Rimini 2004, p. 235. Ivi, p. 236. Ibidem. Ibidem. Ivi, p. 238.
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non basta, ma anche dall’intuizione che questa insufficienza non può essere colmata con un’esagerata espansione nell’immaginario, che occorre costruire un territorio intermedio, apparentemente affidato a un gioco unico, in cui il reale si faccia desiderio e il desiderio risulti possibile54 .
In una sorta di infra-zona plasmata dall’obiettivo, la seduzione gioca col desiderio, rovesciando i ruoli di soggetto e oggetto, rappresentando una moda che necessita di riversare i suoi continui mutamenti – «quel che conta nella moda è solo il cambiamento» (Simmel) – in una immagine che non solo presenta ma suggerisce e oggettivizza. La fotografia riproduce, allora, una moda «stabilizzata, che si fa oggetto, così da rimanere disponibile sui rotocalchi, sui cataloghi, sui libri, potendo infine, a coronamento di questa nuova condizione di esistenza potenzialmente illimitata, essere anche esposta nelle gallerie e nei musei»55. La moda si fa stabile in quanto icona, dunque, attraverso un’immagine che, sospesa tra ideale e materiale, riveste la praticità e la portabilità dell’abito con un codice estetico, rispondendo in ciò non ai dettami della funzionalità ma dello stile (mentre l’abito indossato rientra nella sfera dell’usabilità), avvicinando il desiderio di cambiamento ai codici del sistema artistico. Ma non solo. La fotografia risponde all’esigenza di durata della moda facendosi strumento di recupero del corporeo e del performativo56 – fenomeno che in parte si rifà alle sperimentazioni artistiche dei dadaisti e dei futuristi del secolo scorso – in uno spazio dominato dall’immaginario, dalla possibilità di delineare e di sperimentare nuove identità, molteplici corporeità (partendo da artisti quali Marcel Duchamp, ritratto da Man Ray negli abiti femminili di Rrose Sélavy, il personaggio da lui inventato, fino a fotografi quali l’americana Cindy Sherman).
54 55 56
C. Marra, Nelle ombre di un sogno. Storia e idee della fotografia di moda, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 24. Ivi, p. 25. La definizione di ‘performativo’ (in inglese performative, dal verbo to perform, compiere) si riallaccia alla teoria degli atti linguistici di John Langshaw Austin, il quale ha teorizzato come certi enunciati, in contesti particolari, si identifichino con l’azione stessa, al contrario di altri che descriverebbero o constaterebbero un’azione. Anche per Derrida il performativo «non descrive qualcosa che esiste al di fuori del linguaggio e prima di esso. Esso produce una situazione, opera» (J. Derrida, Segno evento contesto in Margini della filosofia, tr. it. di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997, p. 412).
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Etica ed estetica del volto
Richard Avedon, Veruschka, 1967.
Carlo Mollino, Polaroids 1962-1973.
Perché la moda «non è l’abito in sé ma l’abito portato, l’abito vissuto, l’abito comportamento»57, la cui strategia si lega alla «scelta di un’identità»58, dal momento che lo stilista «propone innanzitutto un modello di donna o di uomo [...] una tipologia desiderabile, nuova, diversa dalle disponibili»59 in cui la fotografia consente di acquisire i tratti delle nuove personalità, abbandonando il corpo abituale. I corpi, ri-voltati, recuperano, dunque, il valore di una fisicità a lungo negata dalla cultura occidentale ma ripresa dalla fotografia, che in ciò si conforma al bisogno della moda stessa di «essere guardata da un occhio in grado di arrestare il flusso di vita e far emergere da esso forme e comportamenti»60. Il corpo si fonde con l’abito, estendendosi in un dialogo che tende non solo a documentare ma anzitutto a ri-costituire la realtà del corpo stesso, nelle sue caratteristiche di fascino, di erotismo individuali, così come è incarnato dalle modelle, veri e propri corpi da desiderare, da contemplare. Ciò stimola un processo di identificazione da parte degli utenti e innesca una comunicazione seduttiva socialmente accessibile.
57 58 59 60
Ivi, p. 28. Ibidem. Ivi, p. 29. Ibidem.
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La moda si fa, così, esperienza, una serie di atti e di «esistenze credibili»61, ben rappresentati dalle fotografie62 e dalle stesse sfilate che, nate nell’Ottocento per presentare gli abiti degli atelier (da un punto di vista meramente denotativo e diretto), più tardi consentiranno di trasformare la moda in spettacolo – raccogliendo, parallelamente, le sollecitazioni prodotte dalla diffusione di comportamenti sempre più disinibiti (come nella parallela body art, in campo artistico). La funzione delle sfilate, perciò, diviene non solo quella di esibire gli abiti quanto di comunicare uno stile. Allo stesso modo, la fotografia «diventa veicolo promozionale e spettacolo della moda»63: moda e fotografia condividono soggetti e oggetti, funzioni e linguaggi spesso evocativi che, suggerendo un’atmosfera, una sensualità totale, dilatata in più direzioni, ampliano il concetto di piacere con significati e immagini di «corpi altri, estranei, corpi liberi e tuttavia prigionieri, corpi ammirevoli o desiderabili»64 da contemplare, amare o detestare. Le immagini divengono plurisensoriali, appoggiate al corpo intertestuale, ubiquo (tv, riviste, cinema, ecc.) della modella, il cui volto si offre quale oggetto che attrae – Prósopon, maschera che si offre alla vista – una molteplicità di occhi desideranti. I sensi tutti si radunano nelle labbra, negli occhi, nella pelle della top model, in una rete estesa di viso e corpo che vive nella seduzione (se-ducere) allestita da una corporeità curata, glamour, tramata di illusioni, di sogni fissati dalla moda dentro la fotografia. Corporeità che sa trarre a sé (si tratta di sex appeal) perché individuale e sociale al tempo stesso, pronta a raddoppiarsi in quanto «capace di proiettare su di sé i sogni propri ed altrui, di essere insieme soggetto e oggetto. Di desiderio, innanzi tutto»65. Incontrando le costruzioni sociali del gusto, le variazioni storiche dello stile, essa comunica il proprio potere fascinoso – operando degli 61 62
63 64 65
Ivi, p. 29. La fotografia di moda nasce con i primi ritratti fotografici delle nobildonne dell’Ottocento (si pensi alla Contessa di Castiglione, vissuta in pieno XIX secolo, donna forte e imprevedibile che, consapevole delle grandi potenzialità del mezzo fotografico, può essere considerata la prima top model della storia, sempre in bilico tra presentazione concreta dell’abito e abbandono del referente reale a favore di spazi immaginari in cui sperimentare altre identità), ben presto rivali dei ritratti pittorici, cui fino ad allora era stato affidato il compito di documentare e promuovere le mode delle grandi capitali europee. Grande importanza è stata, almeno fino a qualche decennio fa, assegnata al ruolo del contesto nella costruzione dei significati della moda, risultanti, secondo Roland Barthes, dal binomio abito-mondo, ovvero dall’incrocio tra vestito e situazioni sociali atte a valorizzarlo. Ivi, p. 30. P. Sorlin, I figli di Nadar, tr. it. di S. Arecco, Einaudi, Torino 2001, p. 243. U. Volli, Figure del desiderio, Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 236.
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scambi con l’abito, suo prolungamento e protesi artificiale –, mentre raccoglie i mutamenti continui della moda, che al corpo chiede di «essere sempre all’altezza di questa sua funzione seduttiva»66, ossia costantemente perfetto. Il fascino, che racchiude tutte le valenze seduttive di attrazione e di allontanamento insite nel verbo greco baskainō, cioè l’ammaliare in senso magico67 (uccidere con gli occhi), costruisce una sorta di estesa interfaccia, di dispositivo comunicativo, manovrato, nella duplice relazione, simbolica e materiale tra la parola e la carne, da un corpo che «agisce in quanto scrittura, come iscrizione di un’apparenza che è insieme biologica e sociale, soggetta alla moda e regolata dalle pulsioni profonde della biologia della specie»68. Ciò che si sovrappone al corpo, nelle sembianze di gesti e tessuti che costituiscono l’abito, è perennemente aperto ai segni, alle citazioni, alle tracce contaminate delle identità che vi si depositano, dando inizio ai percorsi propri dell’illusione, a ritmi espressivi che rimettono le questioni in gioco, diffondendo (in-ludere, mettere in gioco), secondo le aspettative collettive, i «mutamenti repentini della definizione sociale di ciò che è attraente»69. Individualità e socialità si confrontano, fuori e dentro le logiche di codificazione sociologiche e antropologiche. Volto e corpo significano e possono essere interpretati, parzialmente, alla stregua di un testo, traendone informazioni su «l’identità, l’età, il sesso, spesso anche la professione e lo stato sociale, il carattere, l’umore, gli stati d’animo»70, laddove i volti mutano seguendo le richieste sociali, «ingrassano e dimagriscono, si coprono di barbe e baffi, sono truccati, perforati, dipinti, incisi»71 a seconda delle mode imperanti. Colui che interpreta il volto vi legge la costruzione di un’identità, la propria e l’altrui, compiendo un’operazione continua che si nutre di rispecchiamento, di scambio e di riconoscimento, base della seduzione, in cui «quel che conta è la promessa di assimilazione»72, ovvero una formula che può essere così velocemente riassunta: «dato che ti piaccio, seguimi e diventerai simile a me»73.
66 67 68 69 70 71 72 73
Ivi, p. 232. Ma anche dei verbi latini fari (‘parlare’), facere (‘fare’), da cui deriva la parola ‘feticcio’ o del termine fascinum, ‘incantesimo’, la formula magica che lega (come nel greco logos). Ivi, p. 266. Ivi, p. 233. Ivi, p. 237. Ibidem. Ivi, p. 271. Ibidem.
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L’identità, «la preziosa possibilità della vita sociale consiste nel condividere la condizione del volto, cioè nello scambiare concretamente uno sguardo: alter ego. Guardare qualcuno che ti guarda, far incrociare quelle due non-cose che sono gli sguardi, significa già riconoscersi. In questo rispecchiamento il soggetto è assente, ma allo stesso tempo riconosciuto»74 da chi lo legge, da chi «prende la carne altrui come un testo e si assume la responsabilità di interpretarlo»75. A questo punto, però, «la scrittura del corpo deduttivo e la lettura di chi ne è affascinato non coincidono più. L’interpretazione arricchisce il suo oggetto al di là delle intenzioni di chi l’ha scritto»76. I’ll be your mirror (Baudrillard), sarò per te uno specchio, sarò il tuo specchio... È il fascino del ri-specchiamento: chi guarda viene avvinto da un volto se-ducente, viene assorbito dall’avvicinamento, che cancella la cosiddetta «distanza riflessiva»77, in quanto non si tratta di un semplice riflettersi nel volto altrui – in quello della modella nella fotografia di moda, nel nostro caso – ma di farsi coinvolgere completamente, al punto tale da ri-combinare i significati dei segni in una sospensione globale di senso e di identità. «Essere sedotti significa essere sviati dalla propria verità. Sedurre è sviare l’altro dalla sua verità» (Vincent Descombes): il potere della distrazione dal Sé, nell’ambito dell’apparenza e del mito, innesta una sorta di cerimoniale che sfida a perdersi e ad evocare, al tempo stesso, una identità cangiante. Manipolabile. Il volto-corpo della modella, perso tra le pieghe della pelle e degli abiti indossati, tra le foto che ne presentano una bellezza mai naturale ma quasi rituale, esalta la mascherata vertiginosa e lieve, la simulazione ludica della seduzione cosmetica78, una sorta di perfezione arti74 75 76 77 78
Ivi, p. 239. Ivi, p. 237. Ivi, p. 273. J. Baudrillard, Della seduzione, cit., p. 74. Charles Baudelaire (L’elogio della truccatura, in Id., Il pittore della vita moderna, tr. it. di G. Guglielmi e E. Raimondi, Abscondita, Milano 2004, capitolo IX), così si esprime riguardo al maquillage: «La donna è, nel suo diritto, e compie addirittura una specie di dovere, studiandosi d’apparire magica e soprannaturale; bisogna che stupisca, che affascini; idolo, deve dorarsi per essere adorato. Deve dunque chiedere a tutte le arti i mezzi per elevarsi sopra la natura, per meglio soggiogare i cuori e colpire le menti. Poco importa che l’astuzia e l’artificio siano conosciuti da tutti, se il successo è certo e l’effetto irresistibile [...]. Quanto al nero artificiale che cerchia l’occhio e al rosso che colora la parte superiore della guancia, quantunque l’uso deriva dal medesimo principio, al bisogno di superare la natura, il risultato viene a soddisfare un lato del tutto opposto. Il rosso e il nero rappresentano la
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Etica ed estetica del volto
ficiale il cui effetto è l’alterazione, l’incremento dei segni e l’ibridizzazione delle identità nei flussi prestigiosi della comunicazione e della moda. Moda che, dopo la frantumazione dei vecchi modelli produttivi, posta dinanzi alla liquidità di una società dominata dalla pluralità delle rappresentazioni e delle nuove culture immateriali, se ne è nutrita, immedesimandosi nella metropoli, anzi divenendo essa stessa metropoli che crea valore economico, morale, estetico, sulla scia di un consumo non osteggiato ma inglobato, al di là del modello obsoleto della fabbrica.
Steven Meisel, Campagna Prada, 2010.
David Dunan, Glitter, 2012.
vita, una vita soprannaturale ed eccessiva; quel cerchio nero rende lo sguardo più profondo e singolare, dà all’occhio un’apparenza più decisa di finestra aperta sull’infinito; il rosso, che accende i pomelli, accresce lo splendore della pupilla ed aggiunge a un bel volto femminile la passione misteriosa della sacerdotessa».
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In tale contesto, la moda si è rinnovata, rendendosi immateriale, plasmando la sensibilità ermeneutica del consumatore, insegnandogli a destreggiarsi, a capire le contaminazioni degli stili e dei simboli, sollecitandone il gusto per l’interpretazione di codici compositi, apparentemente distanti tra loro; mentre comunicazione, cultura e consumo, le «3 ‘C’ postindustriali» (Canevacci), si sono intrecciate fino a produrre una mescolanza innovativa, che, ispirata dal dilagante desiderio di differenziazione, vivo tanto nell’arte quanto nella moda, ha sciolto i conflitti per lasciare il posto a interpretazioni e scenari insoliti, eterogenei. Ibridi: il volto-corpo intertestuale della modella afferma il gioco della seduzione trasformatrice. Moltiplicandosi nella ridefinizione contemporanea delle identità e nel rimescolamento dei generi, essa, all’interno dello spazio performativo della fotografia di moda, può affermare la propria personalità, performare (così come nelle sfilate), quindi agire direttamente sulla ridefinizione ironica dell’identità, giocando col contesto attraverso l’uso di citazioni, in un collage provocatorio di «pelle, oggettistica, cosmetica, sensoralia»79. La modella si sporge dall’abito80 – un abito sempre più spesso adeguato al suo volto, al suo corpo – per raccontarlo, per interpretarlo in modo teatrale e cinematografico. Essa (a partire soprattutto dagli anni Novanta), forte di una sovrasensualità distaccata e scintillante, espone al pubblico il lampo rituale del volto delle star hollywoodiane, quell’alterazione artificiale e sorridente del senso posta «nell’intersezione del medium freddo delle masse e del medium freddo dell’immagine»81, bene in vista sul grande schermo. Ma la modella, la top model, ha superato il modello della star cinematografica, migrando dal cielo irraggiungibile della star alla terra, in discesa tra le persone comuni, ormai ipervisibile poiché la «sua apparenza sta dappertutto: nelle sale d’attesa degli aeroporti, in tutte le riviste possibili, in ogni strada global, nei telegiornali, news, pubblicità, testimonial, e poi ancora nelle riviste d’avanguardia,
79 80
81
M. Canevacci, Corpographie. Dress-code pragmatiche cosmetiche in between body-scape e location, «Magma», Rivista elettronica di Scienze Umane e Sociali, 2004, 4. Abito che un tempo la sovrastava, rendendola semplice mannequin, manichino senz’anima, dalla posa immobile, la cui unica funzione era presentare l’abito in una fotografia intesa come «still life, presentazione equilibratissima e sospesa del prodotto» (M. Canevacci, Apparenze ibride, in A. M. Curcio La dea delle apparenze. Conversazioni sulla moda, Franco Angeli, Milano 2007, p. 45). J. Baudrillard, Della seduzione, cit., p. 101.
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Etica ed estetica del volto
nelle mostre d’arte contemporanea»82. Sempre «materiale [...] fatta di stoffa, di carne, di plastiche»83. A proposito di plastica, è d’obbligo citare le parole di Roland Barthes, che nel 1957 descrive questa sostanza come alchemica, pronta a trasformare la materia in oggetto quasi umano: «Più che una sostanza – dice Barthes – è l’idea stessa della sua infinita trasformazione; è, come dice il suo nome volgare, l’ubiquità resa visibile; e proprio in questo essa è una materia miracolosa: il miracolo è sempre una conversione brusca della natura. La plastica resta tutta impregnata in questa scossa: più che un oggetto essa è traccia di un movimento»84. Un movimento che trasforma, che lascia la propria orma, propagandosi nella finzione resa più che reale, nella mescolanza col virtuale messa in scena dalla top model, erede diretta del feticcio e del suo sviluppo estremo, Barbie, la bambola di plastica. In Barbie, feticcio plastificato depositario di visioni collettive, «converge una pluralità di ego che giocano e si divertono nello spazio fisico della quotidianità che offre scenari di sempre più profonda comunicazione»85. La bambola non si presenta più come il frutto della produzione industriale; essa si autopropone, col suo stile ricco di «forme pubblicitarie, di seduzione, di effetti speciali, di gusti, preferenze, voglie e desideri»86, nell’insieme di possibilità costituite da esistenze alternative e parallele, dando «l’impressione di essere più di quanto non facciano gli oggetti della nostra vita reale. Con questo semplice miraggio, il mondo immaginato risveglia dentro di noi la speranza di radicare il nostro essere nell’assoluto, speranza che la nostra vita quotidiana invece vanifica. In breve, il mondo immaginato ravviva il nostro desiderio di essere»87. Barbie, dunque, emula della femme fatale, evolutasi negli anni insieme alla figura femminile – dagli anni Sessanta-Settanta, epoca di contestazione e ripensamento sociale, ai barocchi anni Ottanta, dominati dalla ricerca dell’estetismo a tutti i costi, fino ai minimali anni Novanta – è percepita dalla collettività come reale, oggetto dall’anima seduttiva che si fa soggetto altamente allettante, vendicandosi delle logiche industriali che 82 83 84 85 86 87
M. Canevacci, Apparenze ibride, cit., p. 74. Ibidem. R. Barthes, La plastica, in Miti d’oggi, tr. it. di L. Lonzi, Einaudi, Milano, 1974, pp. 169-70. I. Germano, Barbie. Il fascino irresistibile di una bambola leggendaria, Castelvecchi, Roma 2000, p. 17. Ivi, p. 93. Ibidem.
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per decenni l’hanno confinata nella materia, nella plastica insignificante, annullandola quale merce inanimata. In tal senso, si potrebbe aggiungere che «la merce postindustriale, il cult, afferma il suo lato rappresentazionale, teatrale, negando il suo luogo di nascita e la sua ragione utilitaria»88 cui il mito del desiderio «tende a sovrapporsi: la merce vuole vivere ed essere desiderata, non si accontenta più del consumo e del possesso mercantile. Il Cult, il divenire animato della merce, rappresenta questo movimento di trasfigurazione [...]. Le quattro grandi aree cultuali – il cult come simbolo di un mondo, come operatore di comportamenti, come depositario di narrazioni mitiche e come oggetto di affezioni – sono le quattro componenti complementari dello scaltro genio dell’oggetto, aspetti di un modo di essere della merce che rifiuta oggi la sua genesi moderna, prosaica»89. Perciò la merce-oggetto, annullando la gerarchie classiche di forma e sostanza, abbandona lo stato grezzo della materia insieme al canone dell’utilità, recuperando forme e significati mitici, desideri, propri – l’aspirazione ad essere viva, a possedere un proprio profilo identitario, a generare valore e bellezza – oltre che sociali. Barbie è viva, non è più confinata nella plastica, poiché vive nella top model, che ne eredita la capacità di generare «narrazione, figurazione, emozione»90, laddove la narrazione è proprio la strategia che le case di moda utilizzano per plasmare mondi simbolici, mondi possibili91, quelle configurazioni che fondono livelli di finzione e di realismo coerenti con i propri intrecci e col pubblico destinatario (che contribuisce ad alimentarli). Così, secondo Andrea Semprini, «la marca non costituisce il suo mondo possibile da sola. Sono i consumatori che, sottoscrivendo alla costruzione immaginaria eretta dalla marca, attribuiscono al mondo una ‘vera’ esistenza nell’immaginario del consumo»92.
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F. Carmagnola - M. Ferraresi, Merci di culto: ipermerce e società mediale, Castelvecchi, Roma 1999, p. 248. Ibidem. I. Germano, Barbie, cit. p. 65. Umberto Eco, infatti, definisce mondo possibile un mondo virtuale in cui il testo attua strategie discorsive che presentano al suo interno qualcosa come vero o falso, «oggetto di menzogna o di reticenza (segreto), come oggetto di credenza o come proposizione asserita per far credere o per far fare», Lector in fabula, Bompiani, Milano 1979, p. 185. A Semprini, La marca. Dal prodotto al mercato, dal mercato alla società, Lupetti, Milano 1996, p. 141.
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Etica ed estetica del volto
David Lachapelle, Lil’ Kim: Blow Up Doll, 1997.
Steven Meisel, Surreal or Real, 2012.
Sono principalmente due le strategie principali adoperate e rispecchiate dai volti-corpi delle modelle e poste in atto dalla comunicazione delle case di moda per coinvolgere, imbambolare il pubblico, corpo sociale ormai «fluido deduttivo liquido, mobile, sessuato, ibrido»93: 1. la rappresentazione; 2. l’empatia. Il primo meccanismo mette in scena, a guisa di rappresentazione teatrale, una storia in cui la modella si trasforma in plot model, ovvero acquista valenza narrativa e autonomia, porgendo dialogicamente un corpo focalizzato nel volto, nelle espressioni dello sguardo, della pelle. Nella cornice narrativa «viene presentato un frammento di natura archetipica, che rimanda ai più espressivi contesti sociali e dell’immaginario collettivo, affinché il destinatario sia in grado di riconoscerlo per ricostruire l’intero svolgimento della narrazione. Il che si può verificare proprio perché il destinatario fa solitamente delle previsioni circa lo sviluppo futuro della storia»94. Ne sono un esempio le campagne di Dolce e Gabbana – stilisti che hanno saputo comprendere e dar voce all’immaginario popolare in modo poliedrico ma comunque coerente con il loro 93 94
M. Canevacci, Apparenze ibride, cit., p. 74. V. Codeluppi - G. Galoforo, Mondi di moda: la pubblicità dell’abbigliamento, in A. M. Curcio (a cura di), La dea delle apparenze, cit., p. 118
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marchio –, affidate a Ferdinando Scianna, noto esponente del realismo fotografico, il cui contributo, a metà tra reportage e poetica della memoria, mira ad illustrare un racconto che lega il presente al passato, il ricordo all’identità presente, l’interiorità al corpo, all’interno di sequenze narrative che sono la diretta emanazione della cronaca nostalgica del mondo. Di contro, la seconda strategia, influenzata dalle esperienze artistiche degli anni Sessanta e Settanta, molto utilizzata per pubblicizzare cosmetici e profumi in genere, si focalizza sulla costruzione di un’atmosfera concettuale, astratta, in cui il contesto materiale passa in secondo piano a favore di una sperimentazione estetica che punta sulla rappresentazione psicologica di emozioni, situazioni altamente evocative, sganciate dal contesto. Siffatte tecniche sono state sviluppate in particolare dopo gli anni Ottanta, quando l’esuberanza dello stile vistoso (testimoniata dall’ampio uso del colore e da un accentuato estetismo) di una moda-status legata a un intenso materialismo viene soppiantata da nuovi contenuti, orientati a miscelare le tendenze fashion in modo più sobrio, affrancato dai «condizionamenti di una moda imposta»95.
Ferdinando Scianna, Marpessa, 1987.
95
Ivi, p. 119.
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Etica ed estetica del volto
Corinne Day, Under Exposure, 1993.
L’uso della fotografia in bianco e nero, l’impiego di modelle dall’aspetto più semplice, meno vistoso, il cui sguardo è talvolta assente, privo di profondità, incastonato in un viso pallido, carico di occhiaie (quello di Kate Moss, ad esempio), segna il passaggio alla fusione di mode diverse, in cui l’immagine della donna sensuale, «che cammina su tacchi pericolosamente alti e non teme le trasparenze»96, coesiste con «lo stile opposto, che travolge la pomposità dell’alta moda insieme ai tessuti preziosi, e che riveste i corpi sempre più artificiali con fibre anch’esse artificiali, nylon, poliestere, tutto ciò che è sintetico»97 (come in Prada, che punta su un’estetica alquanto rarefatta, priva di fisicità, o in Gucci, griffe rilanciata dallo stilista Tom Ford grazie alle foto di Mario Testino). Stili, sensibilità e pulsioni sociali differenti possono quindi convivere, armonizzandosi, in numerosi mondi possibili, senza contraddirsi e contraddire. Di conseguenza, la gestualità, le espressioni del volto delle modelle cambiano notevolmente rispetto al passato (in cui si esaltavano movimenti ludici, quali puntare i piedi, e si codificava la mimica facciale secondo i ruoli o gli ideali di bellezza e giovinezza), evidenziando l’introduzione di elementi altri rispetto alla rappresentazione tradizionale femminile: le gambe divaricate, i gesti disarmonici, asimmetrici, virili, di cui le modelle si appropriano, insinuano il cosiddetto woman power98 96 97 98
Ibidem. Ibidem. P. Calefato, Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della moda, vol. V Performance, Meltemi, Roma 2007
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F.L. Ferrigni - Il volto è un feticcio
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(si vedano gli scatti di Helmut Newton, che ritraggono una donna forte ed esageratamente, grottescamente femminile) nella comunicazione della moda, in cui, mediante l’uso dell’ironia, del grottesco, il valore maschile viene ridimensionato o annullato (nelle foto delle campagne di Kookaï, alla fine degli anni Novanta, l’uomo è rimpicciolito e usato nei modi più diversi e umilianti). Specularmente, nell’ambito di una estetizzazione generale dei corpi della e di moda, la rappresentazione della fisicità maschile subisce un processo di riscrittura: del corpo, piegato ad una certa passività, si esalta soprattutto la bellezza del collo e dei fianchi (oltre al classico torso nudo, un tempo appannaggio solo delle donne), come nelle campagne di Calvin Klein, mentre la pelle stessa è ritratta in modo analogo a quella femminile. Pelle liscia, priva di imperfezioni, marmorea, corrispondente all’idea di un corpo non diversificato che, senza cercare la provocazione, cortocircuita con i canoni dell’organico, in direzione di una corporalità cyborg, in parte di plastica, artificiale, in cui i sessi non possono distinguersi.
Mario Testino, Campagna Gucci, 1996.
Helmut Newton, Woman Examining Man, 1975.
In quest’ottica, la fotografia esplora ciò che è indistinto, ricorrendo a vari stratagemmi quali: utilizzare modelli androgini, ridurre gli accessori e
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Etica ed estetica del volto
il make-up, costruire una similarità speculare di gestualità e postura. Ciò ha contribuito a produrre una sorta di indifferenziazione del volto, per cui è lo sguardo stesso del pubblico a decifrare l’ambiguità dei corpi in posa, preda di continui cambiamenti e artificialismi99. Se nel confrontarsi con gli schemi socio-culturali precedenti, con le sollecitazioni delle nuove tecnologie, la moda si fa ibrida e sincretica, approccio complesso di elementi eterogenei, essa, prendendo il posto della vecchia categoria di produttività e inserendosi nei flussi narrativi globali, si pone come fatto post-politico in grado di sciogliere identità immobili in identità dinamiche, fluide, così come sono inscenate dalla fotografia di moda. Le contraddizioni imposte dalla scissione dell’individualità sollecitano, però, nuove condizioni, che accentuano le tendenze alla frammentazione e al pluralismo; tendenze che, lasciate irrisolte, sono manipolate in una morale della maschera100, impostata su di un processo di falsificazione, in cui «i singoli individui indossano maschere diverse a seconda della rappresentazione, interpretando con l’abilità di attori professionisti più personaggi senza mai risolversi in nessuno di essi»101. Ciò favorirebbe il passaggio della moda da «modello di comportamento»102 a esercizio sempre più raffinato e complesso che contrasterebbe i processi di massificazione, rafforzando i codici individuali, già difficilmente interpretabili in modo univoco. Le coscienze, quindi, non sarebbero «massificate, ma trascinate in un processo di differenziazione allargata, in un bricolage intellettuale»103 in cui la funzione della moda consisterebbe nel cercare l’identità, nell’effettuare una sorta di surfing, di navigazione psico-emotiva – analoga a quella che si compie on line, nelle reti elettroniche –, tra gli stili, assemblando, a seconda delle occasioni, parti di identità prese in prestito qua e là per garantire ampi margini di azione all’individualità.
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La campagna Versace del 1999 è dominata da fanciulle rivestite di tecnologie e di pelle bluastra, simbolo delle alterazioni di una moda dominata da quello stile liquido che, incrociando i sistemi culturali, è parso apportare nuova vitalità e discorsività alla moda stessa. M.C. Marchetti, La moda forma della cultura contemporanea, in A. M. Curcio (a cura di), La dea delle apparenze, cit., p. 161. Ibidem. Ivi, p. 162. G. Lipovetsky, L’impero dell’effimero, tr. it di S. Atzeni, Garzanti, Milano 1989, p. 272.
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Guzman, Campagna Kookaï, 1999.
Nichola Formichetti, Calvin Klein underwear, 2011.
Una libertà interiore di cui Simmel ha già parlato più di un secolo fa, sottolineando come la moda sia «una di quelle forme con le quali gli uomini, abbandonando ciò che è esteriore al dominio della collettività, vogliono salvare il massimo grado di libertà interiore»104. L’oscillazione identitaria può, quindi, vagare, in un cumulo babelico di lingue, di variazioni, di memorie giustapposte, di metafore indecifrate, che recano l’incompiutezza di un compito, quello di scavare geometricamente – nei corpi, nella sessualità, nelle immagini immaginate e scelte per scompaginare la collettività –, mantenendo le dicotomie e le inutilità di cui la 104 G. Simmel, La moda, tr. it. di L. Perucchi, Editori Riuniti, Roma 1985, p. 45.
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Etica ed estetica del volto
moda si nutre a margine: «epigoni, copie, interpretazioni, l’inventato contro il vero, il falso contro il finto, il fasullo contro l’autentico»105. Non per semplificare, ma per complicare la ricerca di ciò che permane oscuro ed essenziale nel fondo della maschera, nelle forme esagerate, non ancora espresse o sul punto di esserlo, dei sogni. Sogni stampati sugli abiti e sulle biologie. In proporzioni ogni volta dissimili, difformi, senza linearità. D’altro canto, è la moda stessa, il nostro specifico più fragile e inconsistente, i cui meccanismi, le cui sofisticate elucubrazioni noi stessi, inconsapevoli autori, elaboriamo, intrichiamo, complichiamo, chiudiamo e oscuriamo [...] con alfabeti mutati, scambi, numerologie, metafore e complicate traslitterazioni. Ed è lì, sul corpo di una società che, in immagini e allusioni, ci dice ciò che di più intimo c’è in essa. [...] Elaboratori e interpreti dei nostri stessi enigmi, ora Sfinge ora Edipo del nostro mistero; e il mistero non è ciò che non si comprende, ma ciò che non è ancora compiuto, ciò che avrà un compimento, nella sua pienezza. Come quello che la moda eternamente mima106.
Richard Burbridge, Cappello Philip Treacy, 2007.
105 Q. Conti, Mai la moda saprà, cit., p. 229. 106 Ibidem.
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3. Bibliografia Roland Barthes, Mythologies, Éditions du Seuil, Paris 1957; Miti d’oggi, tr. it. di L. Lonzi, Einaudi, Milano 1994. Charles Baudelaire, Le Peintre de la vie moderne, Fayard, Paris 2010; Il pittore della vita moderna, tr. it. di G. Guglielmi e E. Raimondi, Abscondita, Milano 2004. Jean Baudrillard, Les stratégies fatales, Grasset & Fasquelle, Paris 1983; Le strategie fatali, tr. it.. S. d’Alessandro, SE, Milano 2007. Id., De la séduction, Éditions Galilée, Paris 1979; Della seduzione, tr. it. di P. Lalli, SE, Milano 2010. Id., È l’oggetto che vi pensa, tr. it. di Yasmina Melaouah, Pagine d’Arte, Tesserete 2003. Pierre Bourdieu, Un art moyen. Essais sur les usages sociaux de la photographie, Les Éditions de Minuit, Paris, 1965; La fotografia. Usi e funzioni sociali di un’arte media, tr. it. di M. Buonanno, Guaraldi, Rimini 2004. Patrizia Calefato, Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della moda, vol. V Performance, Meltemi, Roma 2007. Massimo Canevacci Ribeiro, Una stupita fatticità. Feticismi visuali tra corpi e metropoli, Costa & Nolan, Milano 2007. Id., Nelle ombre di un sogno, Bruno Mondadori, Milano 2004. Id., Corpographie. Dress-code pragmatiche cosmetiche in between body-scape e location, «Magma, Rivista elettronica di Scienze Umane e Sociali», 2004, 4. Fulvio Carmagnola, Mauro Ferraresi, Merci di culto: ipermerce e società mediale, Castelvecchi, Roma 1999. Quirino Conti, Mai il mondo saprà. Conversazioni sulla moda, Feltrinelli, Milano 2005. Anna Maria Curcio (a cura di), La dea delle apparenze. Conversazioni sulla moda, Franco Angeli, Milano 2007. Jacques Derrida, Marges de la philosophie, Éditions de Minuit, Paris 1972; Margini della filosofia, tr. it. di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997. Euripide, Eracle, tr. it. di M. S. Mirto, BUR, Milano 1997. Ivo Germano, Barbie. Il fascino irresistibile di una bambola leggendaria, Castelvecchi, Roma 2000. Vladimir Jankélévitch, L’ironie, Flammarion, Paris 1964; L’ironia, tr. it. di F. Canepa, Il Nuovo Melangolo, Genova 2006. Gilles Lipovetsky, L’emoire de l’éphimère. La mode et son destin dans le sociétés modernes, Gallimard, Paris, 1987; L’impero dell’effimero, tr. it di S. Atzeni, Garzanti, Milano 1989. André Malroux, La tête d’obsidienne, Gallimard, Paris 1974; Il cranio di ossidiana. Meditazione sulla morte di Picasso e sulla vita delle forme, tr. it di S. d’Alessandro e G. Mariotti, Garzanti, Milano 1975. Claudio Marra, Nelle ombre di un sogno. Storia e idee della fotografia di moda, Bruno Mondadori, Milano 2004. Arturo Schwartz, Man Ray, Giunti, Milano 1998.
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Etica ed estetica del volto
Andrea Semprini, La marca. Dal prodotto al mercato, dal mercato alla società, Lupetti, Milano 1996. Georg Simmel, Die Mode, in Id., Philosophische Kultur, Alfred Kroner Verlag, Leipzig 1919; La moda, tr. it. di L. Perucchi, Editori Riuniti, Milano 1985. Pierre Sorlin, Les fils de Nadar. Le siècle de l’image analogique, Éditions Nathan, Paris 1997; I figli di Nadar, tr. it. di S. Arecco, Einaudi, Torino 2001. Jean-Pierre Vernant, Figures, idoles, masques, Éditions Julliard, Paris 1990; Figure, idoli, maschere, tr. it. di A. Zangara, Il Saggiatore, Milano 2001. Ugo Volli, Figure del desiderio, Raffaello Cortina, Milano 2002. Charisse Weston, Man Ray’s Noire et blanche: Surrealism, Fashion, and Other(s), Department of Art Education and Art History, College of Visual Arts and Design, University of North Texas, Denton 2010.
4. Elenco delle illustrazioni Richard Avedon, Penelope Tree, 1968. Id., Veruschka, 1967. Richard Burbridge, Cappello Philip Treacy, 2007. Corinne Day, Under Exposure, 1993 David Dunan, Glitter, 2012. Nichola Formichetti, Calvin Klein underwear, 2011. Guzman, Campagna Kookaï, 1999. David Lachapelle, Lil’ Kim: Blow Up Doll, 1997. Man Ray, Noire et blanche, 1926. Id., Noire et blanche: Variante, 1926. Id., Noire et blanche: Négatif, 1926. Steven Meisel, Campagna Prada, 2010. Id., Surreal or Real, 2012. Carlo Mollino, Polaroids,1962-1973. Helmut Newton, Woman Examining Man, 1975. Ferdinando Scianna, Marpessa, 1987. Mario Testino, Campagna Gucci, 1996.
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NOTA BIOBIBLIOGRAFICA DEGLI AUTORI
ALBERTO ALTAMURA è autore del volume Follia & Miseria (2003). Ha partecipato ai volumi curati da G. Semerari, Pensiero e narrazioni (1995), La cosa stessa (1995), Fenomenologia della relazione (1997), e ai volumi L’insegnamento della filosofia oggi, a cura di R. M. Calcaterra (1994), La Germania segreta di Heidegger, a cura di F. Fistetti (2001), Filosofie della decostruzione, a cura di M. Centrone (2006), La solitudine non è una festa, a cura di O. Marzocca (2006), La certezza incerta (2008), Senso e forme della comunità, oggi (2010) e Metropolitania. Aspetti e forme di vita della città postmoderna (2011), a cura di F. Semerari. Dal 1984 al 1996 ha pubblicato, sulla rivista di critica filosofica «Paradigmi», saggi su Th. Mann, Hofmannsthal e Mauthner. Nel 1987 e nel 1997, come borsista del Ministero degli Affari Esteri, ha svolto attività di ricerca presso l’Università di Vienna. Redattore dal 2001 al 2006 della rivista “le passioni di sinistra”, dal 1987 insegna Storia e Filosofia presso il Liceo Classico “C. Sylos” di Terlizzi. PALMA DI GIOIA, laureata in Lettere nell’Università degli Studi di Bari, nel 2009 ha partecipato come volontaria alle attività della cooperativa sociale “Unsolomondo” di Bari, all’interno della quale ha conosciuto più da vicino la realtà del commercio equo e solidale. Ha pubblicato i saggi Essere o non essere etici significa accogliere o negare le richieste di solidarietà: la comunità del commercio equo e solidale, in F. Semerari (a cura di), Senso e forme della comunità, oggi (2010), e Se la città rinuncia ad accogliere: forme di povertà nel contesto urbano postmoderno e, in coll. con Giuseppe Quarto, La città postmoderna: luoghi e forme di aggregazione, in F. Semerari (a cura di), Metropolitania. Aspetti e forme di vita della città postmoderna (2011). DOMENICA DISCIPIO, ricercatrice, insegna Antropologia filosofica nell’Università degli Studi di Bari. È autrice dei saggi Heidegger e Freud, in G. Semerari (a cura di), Confronti con Heidegger (1992); Per una «fenomenologia dell’amore»: Ludwig Binswanger, in G. Semerari (a cura di), La cosa stessa. Seminari fenomenologici; Amore e desiderio nell’ontologia della libertà di Sartre, in F. Semerari (a cura di), Amore. Itinerari di un’idea (1996); In ricordo di Giuseppe Semerari, «Bollettino della Fondazione Vito Fazio-Allmayer» (1996); Dal «villaggio» alla «città del mondo». La pianificazione urbana di Lewis Mumford, in F. Semerari (a cura di), Il viaggio e la dimora. Tra metafora e realtà (2003); Curare l’anima. Sulla psicoterapia di James Hillman, in M. Manfredi (a cura di), Variazioni sulla cura.
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Etica ed estetica del volto
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Fondamenti, valori, pratiche (2009); Volti notturni della città, in F. Semerari (a cura di), Metropolitania. Aspetti e forme di vita della città postmoderna (2011). Ha tradotto e curato il volume La cattiva coscienza di Vladimir Jankélévitch (2000). FELICIA L. FERRIGNI, laureata in Lettere nell’Università degli Studi di Bari, si occupa di tematiche inerenti i network sociali e virtuali sotto il profilo sociologico-filosofico. Copywriter, Web Content Manager, traduttrice, è stata responsabile dell’Ufficio Stampa ed Eventi della libreria Mondadori di Venezia e di varie case editrici italiane. Ha pubblicato i saggi Reti virtuali, reti sociali, in F. Semerari (a cura di), Senso e forme della comunità, oggi (2010) e Città nelle reti. Gli spazi urbani dell’era digitale, in F. Semerari (a cura di), Metropolitania. Aspetti e forme di vita della città postmoderna (2011). MARIO MANFREDI è professore ordinario di Filosofia morale nell’Università degli Studi di Bari, dove insegna anche Filosofia del diritto. Negli ultimi anni, si è occupato prevalentemente di filosofia del riconoscimento, di etica ambientale, di etica della cura. Sono documenti di queste ricerche i volumi Teoria del riconoscimento. Antropologia, etica, filosofia sociale (2004) e L’io fallibile. Identità e disconoscimento (2011), la curatela dei volumi miscellanei Un bene comune. Argomenti di filosofia dell’ambiente (fasc. monografico di «Argomenti di bioetica», 2007, 1) e Variazioni sulla cura. Fondamenti, valori, pratiche (2009) e diversi saggi. ANGELA MARTIRADONNA, laureata in Scienze dell’Educazione nell’Università degli Studi di Bari, si è perfezionata in Pedagogia Interculturale nel 2002. Assegnista di ricerca negli anni 2003-2005 presso la Cattedra di Pedagogia generale dell’Università di Bari, ha conseguito il Dottorato di ricerca in Dinamiche Formative ed Educazione alla Politica nella stessa Università nel 2009. È redattrice del Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes dal 2006 e responsabile del progetto e della collana Scaffale Multiculturale per Stilo Editrice dal 2009. Pubblicazioni: Donne, interculturalità e pace (2005); Frontiere e confini. Questioni aperte sull’immigrazione in Italia e in Puglia (2010); Educazione e interculturalità, in G. Elia (a cura di), Le forme dell’educazione (2006); La dimensione politica del dialogo interreligioso, in R. De Vita - F. Berti - L. Nasi (a cura di), Ugualmente diversi. Culture, religioni, diritti (2007); Democrazia, educazione e laicità: una proposta metodologica, in L. Gallo - P. Nicolini (a cura di), «Dinamiche formative e educazione alla politica. Quaderno di dottorato» (2008); Città multiculturali senza volerlo, in F. Semerari (a cura di), Metropolitania. Aspetti e forme di vita della città postmoderna (2011). ROBERTO MEZZINA, medico psichiatra, laureato e specializzato presso l’Università degli Studi di Bari, ha contribuito dal 1978 a tutt’oggi all’esperienza di Trieste, iniziata da Franco Basaglia, con la deistituzionalizzazione dell’Ospedale Psichiatrico e lo sviluppo della rete dei servizi territoriali. Da vent’anni anni è responsabile di un’area territoriale e dal 2009 è Direttore del Centro Collaboratore dell’OMS per la Ricerca e la Formazione di Trieste. Nel 2000 ha contribuito a fondare la rete delle esperienze di eccellenza International Mental Health Collaborating Network,
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Nota biobibliografica degli autori
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di cui è vicepresidente e cui ha dedicato il volume Oltre i muri/Beyond the Walls. La deistituzionalizzazione nelle migliori pratiche europee di salute mentale (2010) da lui curato con L. Toresini. Ha contribuito allo sviluppo di approcci e programmi innovativi e alla loro diffusione a livello nazionale ed internazionale. Ha studiato e sviluppato il modello del centro di salute mentale a 24 ore come modello integrato di servizio, in radicale alternativa al modello riduzionista biologico di trattamento delle malattia, con una particolare attenzione ai temi dell’intervento di crisi, su cui ha scritto in Crisi psichiatrica e sistemi sanitari. Una ricerca italiana (2005), da lui curato, e nel volume collettivo Crisis Resolution and Home Treatment (2008), a cura di S. Johnson, J. Needle, J. P. Bindman e G. Thornicroft. In collaborazione con G. Dell’Acqua ha curato il volume sul problema della capacità giuridica e della responsabilità intitolato Il folle gesto. Perizia psichiatrica, manicomio giudiziario, carcere, nella pratica dei servizi di salute mentale a Trieste (1978-88) (1988). Sul cambiamento di paradigmi in psichiatria ha scritto in Mental Health at the Crossroads. The Promise of Psychosocial Approach (2004), a cura di S. Ramon e J. Williams, e nei due numeri monografici dell’«America Journal of Psychiatric Rehabilitation» (2005-2006) Special Issue. Process and Contexts of Recovery, Part I and Part II, dedicati alla ricerca qualitativa sulla recovery. Ha contribuito al capitolo su International Trends in Community Mental Health Services nell’Handbook of Community Psychiatry (2012), a cura di H. L. McQuistion, W. E. Sowers, J. M. Ranz, J. Maus Feldman. Svolge da molti anni attività didattica e scientifica presso servizi di salute mentale, università ed importanti istituzioni scientifiche nazionali ed internazionali. Si interessa alla ricerca teorica, epidemiologica e qualitativa, ed ha condotto studi in ambito nazionale ed internazionale come leader ed in collaborazione con studiosi e istituti di primo livello. È autore di numerose pubblicazioni nazionali e internazionali. ROBERTA ROCA, laureata in Lettere nell’Università degli Studi di Bari, ha conseguito il Diploma di Specializzazione in Storia dell’Arte. Dal 1997 ha collaborato, come cultrice della materia, presso l’insegnamento di Storia delle arti applicate e dal 2001 presso quello di Storia della fotografia presso l’Università degli Studi di Bari. Nel 2009 è stata professore a contratto di Storia della fotografia nella stessa Università. Dal 2006 è docente di ruolo di Italiano nella scuola secondaria. Tra le sue pubblicazioni: Il cavatappi Anna G. Un oggetto della postmodernità (2004), Punti di vista, «Life» (2004) e La città postmoderna in fotografia. Lo scenario urbano contemporaneo tra iperreale e reale, in F. Semerari (a cura di), Metropolitania. Aspetti e forme di vita della città postmoderna (2011). FURIO SEMERARI insegna Etica delle relazioni ed Etica della comunicazione nell’Università degli Studi di Bari. Tra le sue pubblicazioni: Il predone, il barbaro, il giardiniere. Il problema dell’altro in Nietzsche (2000); Individualismo e comunità. Moderno, postmoderno e oltre (2005); Indifferenza postmoderna (2009); e i volumi collettivi Senso e forme della comunità, oggi (2010) e Metropolitania. Aspetti e forme di vita della città postmoderna (2011).
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ETEROTOPIE Collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Salvo Vaccaro 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31.
Nerozzi Bellman Patrizia (a cura di), Internet e le muse. La rivoluzione digitale nella cultura umanistica Vaccaro Salvo (a cura di), Il secolo deleuziano Berni Stefano, Soggetti al potere. Per una genealogia del pensiero di Michel Foucault Carbone Paola (a cura di), Congenialità e traduzione Marzocca Ottavio, Transizioni senza meta. Oltremarxismo e antieconomia Carbone Paola (a cura di), Le comunità virtuali Fadini Ubaldo, Principio metamorfosi. Verso un’antropologia dell’artificiale Mello Patrizia (a cura di), Spazi della patologia, patologia degli spazi Petrilli Susan, Ponzio Augusto, Fuori campo. I segni del corpo tra rappresentazione ed eccedenza Carmagnola Fulvio, La specie poetica. Teorie della mente e intelligenza sociale Deleuze Gilles, La passione dell’immaginazione. L’idea della genesi nell’estetica di Kant De Michele Girolamo, Tiri Mancini. Walter Benjamin e la critica italiana Riccio Franco, Vaccaro Salvo (a cura di), Nietzsche in lingua minore Carbone Paola, Patchwork Theory. Dalla letteratura postmoderna all’ipertesto Ferri Paolo, La rivoluzione digitale. Comunità, individuo e testo nell’era di Internet Foucault Michel, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie Bataille Georges, La condizione del peccato Carbone Paola (a cura di), eLiterature in ePublishing Dal Bo Federico, Società e discorso. L’etica della comunicazione in Karl Otto Apel e Jacques Derrida Deleuze Gilles, Istinti e istituzioni Paquot Thierry, L’utopia ovvero un ideale equivoco Pirrone Marco Antonio, Approdi e scogli. Le migrazioni internazionali nel Mediterraneo Ponzio Augusto, Individuo umano, linguaggio e globalizzazione nella filosofia di Adam Schaff Simone Anna, Divenire sans papiers. Sociologia dei dissensi metropolitani Vaccaro Salvo (a cura di), La censura infinita. Informazione in guerra, guerra all’informazione Artaud Antonin, CsO. Il corpo senz’Organi Moulian Tomás, Una rivoluzione capitalista. Il Cile, primo laboratorio mondiale del neoliberismo Thea Paolo, Il vero cioè il falso. Invenzione, riconoscimento e rivelazione nell’arte Amato Pierandrea (a cura di), La biopolitica. Il potere e la costituzione della soggettività Bertuccioli Manolo, Carlos Castaneda e i navigatori dell’infinito Bonaiuti Gianluca, Simoncini Alessandro (a cura di), La catastrofe e il parassita. Scenari della transizione globale
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32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63. 64. 65.
Buchbinder David, Sii uomo! Studio sulle identità maschili Cozzo Andrea, Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa Deleuze Gilles, Fuori dai cardini del tempo, Lezioni su Kant Galluzzi Francesco, Roba di cui sono fatti i sogni. Arte e scrittura nella modernità Leghissa Giovanni, Il gioco dell’identità. Differenza, alterità, rappresentazione Maistrini Maria, Il figurale in J.-F. Lyotard Montanari Moreno, Il Tao di Nietzsche Vaccaro Salvo, Globalizzazione e diritti umani. Filosofia e politica della modernità Bazzanella Emiliano, Il ritornello. La questione del senso in Deleuze-Guattari Fabbri Lorenzo, L’addomesticamento di Derrida. Pragmatismo/ Decostruzione Marcenò Serena, Le tecnologie politiche dell’acqua. Governance e conflitti in Palestina Piana Gabriele, Conoscenza e riconoscimento del corpo Prebisch Raul, La crisi dello sviluppo argentino. Dalla frustrazione alla crescita vigorosa Scopelliti Paolo, Psicanalisi surrealista. L’influenza del surrealismo su Hesnard, Lacan, Deleuze e Guattari Vaccaro Salvo, Biopolitica e disciplina. Michel Foucault e l’esperienza del GIP (Group d’Information sur les prisons) Vercelloni Luca, Viaggio intorno al gusto. L’odissea della sensibilità occidentale dalla società di corte all’edonismo di massa Caronia Antonio, Livraghi Enrico, Pezzano Simona, L’arte nell’era della producibilità digitale Dino Alessandra (a cura di), La violenza tollerata. Mafia, poteri, disobbedienza Rodda Fabio, Cioran, l’antiprofeta. Fisionomia di un fallimento Scolari Raffaele, Paesaggi senza spettatori. Territori e luoghi del presente Pastore Luigi, Limnatis G. Nectarios (a cura di), Prospettive del postmoderno Vol.1. Profili epistemici Poidimani Nicoletta, Oltre le monocolture del genere Pastore Luigi, Limnatis G. Nectarios (a cura di), Prospettive del postmoderno Vol.2. Profili epistemici Bellini Paolo, Cyberfilosofia del potere. Immaginari, ideologie e conflitti della civiltà Bazzanella Emiliano, Etica del tardocapitalismo Cuttita Paolo, Segnali di confine. Il controllo dell’immigrazione nel mondo-frontiera De Conciliis Eleonora (a cura di), Dopo Foucault. Genealogie del postmoderno Di Benedetto Giovanni, Il naufragio e la notte. La questione migrante tra accoglienza, indiffernza ed ostilità Pagliani Piero, Naxalbari-India. L’insurrezione nella futura “terza potenza mondiale” Vaccaro Giovanbattista, Per la critica della società della merce Vinale Adriano (a cura di), Biopolitica e democrazia Demichelis Lelio, Leghissa Giovanni (a cura di), Biopolitiche del lavoro Corradi Luca, Perocco Fabio (a cura di), Sociologia e globalizzazione Bellini Paolo (a cura di), La rete e il labirinto. Tecnologia, identità e simbolica politica
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66. Dalla Vigna Pierre, A partire da Merleau-Ponty. L’evoluzione delle concezioni estetiche merleau-pontyane nella filosofia francese e negli stili dell’età contemporanea 67. Riccioni Ilaria (a cura di), Comunicazione, cultura, territorio. Contributi della sociologia contemporanea, 68. Pasquino Monica, Plastina Sandra (a cura di), Fare e disfare. Otto saggi a partire da Judith Butler 69. Bertoldo Roberto, Anarchismo senza anarchia. Idee per una democrazia anarchica 70. Del Bono Serena, Foucault, pensare l’infinito. Dall’età della rappresentazione all’età del simulacro 71. Dino Alessandro e Licia A. Callari (a cura di), Coscienza e potere. Narrazioni attraverso il mito 72. Farci Manolo, Pezzano Simona (a cura di), Blue lit stage. Realtà e rappresentazione mediatica della tortura 73. La Grassa Gianfranco, Tutto torna ma diverso. Capitalismo o capitalismi? 74. Dalla Vigna Pierre, La Pattumiera della storia. Beni culturali e società dello spettacolo 75. Palumbo Antonino, Vaccaro Salvo (a cura di), Governance e democrazia. Tecniche del potere e legittimità dei processi di globalizzazione 76. Vaccaro Giovanbattista (a cura di), Al di là dell’economico. Per una critica filosofica dell’economia 77. Meattini Valerio, Pastore Luigi (a cura di), Identità, individuo, soggetto tra moderno e postmoderno 78. Dino Alessandra (a cura di), Criminalità dei potenti e metodo mafioso 79. Scolari Raffaele, Filosofi e del mastodontico. Figure contemporanee del sublime della grande dimensione 80. Trasatti Filippo, Leggere Deleuze attraverso Millepiani 81. Manicardi Enrico, Liberi dalla civiltà. Spunti per una critica radicale ai fondamenti della civilizzazione: dominio, cultura, paura, economia, tecnologia 82. Vaccaro Gianbattista, Antropologia e utopia. Saggio su Herbert Marcuse 83. Trasatti Filippo, Filippi Massimo (a cura di), Nell’albergo di Adamo. Gli animali, la questione animale e la filosofia 84. Franck Giorgio, Il feticcio e la rovina. Società dello spettacolo e destino dell’arte 85. Marzocca Ottavio (a cura di), Governare líambiente? La crisi ecologica tra poteri, saperi e conflitti 86. Grossmann Henryk, Il crollo del capitalismo. La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista 87. Pullia Francesco, Dimenticare Cartesio. Ecosofia per la compresenza 88. Bazzanella Emiliano, Religio I. Senso e fede nel tardocapitalismo 89. Foucault Michel, La società disciplinare 90. Palano Damiano, Volti della paura. Figure del disordine all’alba dell’era biopolitica 91. Simone Anna, I corpi del reato. Sessualità e sicurezza nelle società del rischio 92. De Gaspari Mario, Malacittà. La finanza immobiliare contro la società civile 93. Ruta Carlo, Guerre solo ingiuste. La legittimazione dei conflitti e l’America dall’Vietnam all’Afghanistan 94. Frazzetto Giuseppe, Molte vite in multiversi. Nuovi media e arte quotidiana
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Bazzanella Emiliano, Religio II. La religione del soggetto Brindisi Gianvito, de Conciliis Eleonora (a cura di), Lavoro, merce, desiderio Casiccia Alessandro, I paradossi della società competitiva Castanò Ermanno, Ecologia e potere. Un saggio su Murray Bookchin d’Errico Stefano, Il socialismo libertario ed umanista oggi fra politica ed antipolitica 100. Tursi Antonio, Politica 2.0. Blog, Facebook, YouTube, WikiLeaks: ripensare la sfera pubblica 101. Lombardi Chiara, Mondi nuovi a teatro. L’immagine del mondo sulle scene europee di Cinquecento e Seicento: spazi, economia, società 102. Petrillo Antonello (a cura di), Società civile in Iraq. Retoriche sullo “scontro di civiltà” nella terra tra i due fiumi 103. Paolo Bellini, Mitopie tecnopolitiche. Stato, nazione, impero e globalizzazione 104. Palumbo Antonino, Segreto Viviana (a cura di), Globalizzazione e governance delle società multiculturali 105. Bertoldo Roberto, Nullismo e letteratura. Al di là del nichilismo e del postmoderno debole. Saggio sulla scientificità dell’opera letteraria 106. Ruggero D’Alessandro, La comunità possibile. La democrazia consiliare in Rosa Luxemburg e Hannah Arendt, 107. Tessari Alessandro (a cura di), Sindrome giapponese. La catastrofe nucleare da Chernobyl a Fukushima 108. Bonazzi Matteo, Carmagnola Fulvio, Il fantasma della libertà. Inconscio e politica al tempo di Berlusconi, 2011 109. Mario De Gaspari, La Bolla immobiliare. Le conseguenze economiche delle politiche urbane speculative, 2011 110. Bruni Sara Elena Anna, Colavero Paolo, Nettuno Antonio (a cura di), L’animale di gruppo. Etologia e psiconalisi di gruppo. Riflessioni gruppali da un seminario urbinate, 2011 111. Segreto Viviana, «Il padre di tutte le cose» Appunti per una pedagogia del conflitto, 2011 112. Alessandra Dino (a cura di), Poteri criminali e crisi della democrazia, 2011 113. Serena Marcenò, Biopolitica e sovranità. Concetti e pratiche di governo alle soglie della modernità 114. Cosimo Degli Atti, Soggetto e verità. Michel Foucault e l’Etica della cura di sé 115. Pascal Boniface, Verso la quarta guerra mondiale 116. Guido Dalla Casa, L’ecologia profonda. Lineamenti per una nuova visione del mondo 117. Il clown. Il meglio di Wikileaks sull’anomalia italiana, introduzione di Marco Marsili 118. Carlo Grassi, Sociologia della cultura tra critica e clinica. Battaile, Barthes, Lyotard 119. Friedrich Georg Jünger, Ernst Jünger, Guerra e guerrieri. Discorso 120. Emma Palese, Benvenuti a Gattaca. Corpo liquido, pedicopolitica, genetocrazia 121. Anna Simone (a cura di), Sessismo democratico. L’uso strumentale delle donne nel neo liberismo 122. Matthew Calarco, Zoografie. La questione dell’animale da Heidegger a Derrida 123. Luigi Vergallo, Economia reale ed economia sommersa nel riminese in prospettiva storica
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124. Salvo Vaccaro (a cura di), L’onda araba. I documento delle rivolte 125. Valeria Nuzzo, L’immagine per il paesaggio e l’architettura. Percorsi didattici per la scuola 126. Félix Guattari, Una tomba per Edipo. Introduzione di Gilles Deleuze 127. Raffaele Federici, Sociologie del segreto 128. Luca Taddio, Global revolution. Da Occupy Wall Street a una nuova democrazia 129. Enrique Dussel, Indignados 130. James Tobin, Tobin Tax 131. Jean-François Lyotard, Istruzioni pagane 132. Delfo Cecchi, Cibo, corpo, narrazione. Sondaggi estetici 133. Mario Giorgetti Fumel, Federico Chicchi (a cura di), Il tempo della precarietà Sofferenza soggettiva e disagio della postmodernità 134. Spartaco Pupo, Robert Nisbet e il conservatorismo sociale 135. Giuseppina Tumminelli, Strategie di ri-produzione. Aziende agricole e strutture familiari nella Sicilia centro-occidentale 136. Iris Gavazzi, Il vampiresco. Percorsi nel brutto 137. Ferruccio Capelli, Indignarsi è giusto 138. Enrico Manicardi, L’ultima era. Comparsa, decorso, effetti di quella patologia sociale ed ecologica chiamata civiltà 139. Manuele Bellini, Corpo e rivoluzione. Sulla filosofia di Luciano Parinetto 140. Giovan Battista Vaccaro, Le idee degli anni Sessanta 141. Milena Meo, Il corpo politico. Biopotere, generazione e produzione di soggettività femminili 142. Massimiliano Vaghi, L’idea dell’India nell’Europa moderna (secoli XVII-XX) 143. Gianluca Cuozzo, Mr. Steve Jobs. Sognatore di computer 144. Paolo Cuttitta, Lo spettacolo del confine. Lampedusa tra produzione e messa in scena della frontiera 145. Emiliano Bazzanella, Religio III. Logica e follia 146. Emma Palese, La filosofia politica di Zygmut Bauman. Individuo, società, potere, etica, religione nella liquidità del nostro tempo 147. Emma Palese, Mostri, draghi e vampiri. Dal meraviglioso totalizzante alla naturalizzazione delle differenze 148. Matteo Bonazzi, Lacan e le politiche dell’inconscio. Clinica dell’immaginario contemporaneo 149. Eleonora de Conciliis, Il potere della comparazione. Un gioco sociologico 150. L’apartheid in Palestina. Il rapporto Human Rights Watch sui territori arabi occupati da Israele 151. Fulvio Carmagnola, Clinamen. Lo spazio estetico nell’immaginario contemporaneo 152. Francesco Pullia, Al punto di arrivo comune. Per una critica della filosofia del mattatoio 153. Maurizio Soldini, Hume e la bioetica 154. Gianluca Cuozzo, Gioco d’azzardo. La società dello spreco e i suoi miti 155. Andrea Gilardoni, Distruzioni. Potere & Dominio I 156. Andrea Gilardoni, (Dis)obbedienza. Meccanismi, strategie, argomenti. Potere & Dominio II 157. Nicoletta Vallorani, Millennium London, Of Other Spaces and the Metropolis 158. Giuseppe Armocida, Gaetana S. Rigo (a cura di), Dove mi ammalavo. La geografia medica nel pensiero scientifico del XIX secolo
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159. Salvo Torre, Dominio, natura, democrazia. Comunità umane e comunità ecologiche 160. Tindaro Bellinvia, Xenofobia, sicurezze, resistenza. L’ordine pubblico in una città “rossa” (il caso Pisa) 161. Amalia Rossi, Lorenzo D’Angelo (a cura di), Antropologia, risorse naturali e conflitti ambientali 162. Augusto Illuminati, Teologia dei quattro elementi, Manifesto per un politeismo politico 163. Giovanni Leghissa, Neoliberalismo, Un’introduzione critica 164. Anna Sica, Alison Wilson, The Murray Edwards Duse Collection 165. Stefano Cardini (a cura di), Piazza Fontana. 43 anni dopo. Le verità di cui abbiamo bisogno 166. Isacco Turina, Chiesa e biopolitica. Il discorso cattolico su famiglia, sessualità e vita umana da Pio XI a Benedetto XVI 167. Felice Papparo, Perdere tempo 168. Ugo Maria Olivieri, Il dono della servitù. étienne de La Boétie tra Machiavelli e Montaigne 169. Giovanna D’Amia, Milano e Parigi. Sguardi incrociati. 170. Vittorio Morfino (a cura di) Machiavelli: tempo e conflitto 171. Andrea Gilardoni, Potere potenziale 172. Laura Sanò, Donne e violenza 173. Marilena Parlati, Oltre il moderno. Orrori e tesori del lungo Ottocento inglese 174. Damiano Palano, La democrazia e il nemico 175. Andrea Rabbito, Il moderno e la crepa 176. Pierre Dalla Vigna, Estetica e ideologia 177. Paola Gandolfi, Rivolte in atto 178. Chiara Simonigh (a cura di) Pensare la complessità. Per un umanesimo planetario 179. Carmelo Buscema, L’epocalisse finanziaria. Rivelazioni (e rivoluzione) nel mondo digitalizzato 180. Lidia Lo schiavo, Governance Globale, Governamentalità, Democrazia 181. Alessandra Vicentini, Anglomanie settecentesche 182. Francesco Saverio Festa, Un’altra “teologia politica”? 183. Daniela Calabrò, L’ora meridiana. Il pensiero inoperoso di Jean-Luc Nancy tra ontologia, estetica e politica 184. Mimmo Pesare, Comunicare Lacan. Attualità del pensiero lacaniano per le scienze sociali 185. Riccardo Ciavolella, Antropologia politica e contemporaneità. Un’indagine critica sul potere presente 186. Carlo Calcagno, Impotenza. Storia di un’ossessione 187. Marta Sironi, Ridere dell’arte. L’arte moderna nella grafica satirica europea tra Otto e Novecento 188. Gianpaolo Di Costanzo, Assi mediani. Per una topografia sociale della provincia di Napoli 189. Terrence Des Pres, Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte, a cura di Adelmina Albini e Stefanie Golisch 190. Francesca Nicoli, Giù le mani dalla modernità 191. Leonardo Vittorio Arena, La durata infinita del non suono 192. Anselm Jappe, Contro il denaro
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