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Italian Pages 114 [115] [115] Year 2014
MATHESIS. RICERCHE SULLA TRASMISSIONE DEL SAPERE Serie del Centro interdipartimentale “Forme di produzione e trasmissione del sapere nelle società antiche e moderne” dell’Università degli Studi di Palermo - vol. 9 diretta da Nicola Cusumano
Marzia Soardi
Come una madre Le rappresentazioni del femminile nel pensiero di Aristotele
SALVATORE SCIASCIA EDITORE Caltanissetta-Roma 2014
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA © Copyright 2014 by Salvatore Sciascia Editore s.a.s. Caltanissetta-Roma www.sciasciaeditore.it [email protected] ISBN 978-88-8241-346-0
Stampato in Italia / Printed in Italy
Indice generale
Introduzione Capitolo primo: Il femminile nella rappresentazione medico-biologica
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1. La teoria aristotelica della riproduzione e l’ilomorfismo: cenni 2. Il corpo femminile: uno sguardo anatomico Androcentrismo, dimensioni del cervello e sfera percettivo-cognitiva Fragilità, pallore, inferiorità: una natura in bilico L’utero e il latte materno: il calore femminile Il vigore del corpo materno 3. Sessualità e maternità nella biologia aristotelica Impurità, liquidità, illimitatezza: l’eros femminile Istinto materno e identità sessuale Gravidanza e parto
13 18 19 24 28 32 34 34 37 45
Capitolo secondo: Materia e forma come nozioni di genere nel pensiero aristotelico 1. Gerarchia, relazione, contrarietà Contrarietà in relazione alla hyle Contrarietà di funzioni e organi Gli Oikeia pathe e la teoria della trasmissione dei caratteri Attività vs passività 2. Come una madre: la materia come sostrato
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Capitolo terzo: Le donne e la virtù 1. Politike koinonia Marito e moglie: un rapporto politico Le donne e gli schiavi: distinzioni Il bouleutikon femminile
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Capitolo quarto: Le madri e la virtù
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1. Uno sguardo differente 2. La saggezza delle madri 3. Il coraggio 4. La philia materna nella riflessione aristotelica La philia come virtù necessaria La philia come ergon Rapporti tra diseguali: la philia riequilibratrice Legami familiari: la philia tra genitori e figli Esistere in virtù di un beneficio: la philia materna
79 80 82 86 86 90 91 93 95
Conclusioni
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Bibliografia
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Introduzione
Affrontare oggi il problema del femminile nell’opera di Aristotele significa confrontarsi con un tema particolarmente spinoso, per molteplici ragioni. La prima difficoltà e, senza dubbio, la più significativa, risiede proprio nella mancata problematizzazione della questione da parte del filosofo, se non per quanto concerne una lunga trattazione sui meccanismi riproduttivi e alcuni accenni all’interno della riflessione etico-politica. Si tratta di un silenzio tutt’altro che casuale: un “non problema” che riflette e descrive la condizione della donna nella Grecia di Aristotele. Le due dimensioni all’interno delle quali è possibile collocare la natura femminile e attraverso cui, agli occhi di Aristotele, essa acquisisce rilevanza, sono soprattutto quella della generazione e, in misura minore, quella legata all’amministrazione domestica, in stretta correlazione l’una con l’altra. In tal senso, i grandi trattati zoologici offrono il più vasto campo di indagine ed anche il più agevole, per la quantità e la chiarezza dei riferimenti al corpo e alla natura delle femmine. Si tratta di riflessioni che riguardano tutte le specie animali, poiché gli esseri animati sono immaginati lungo una scala gerarchica senza soluzione di continuità (al vertice della quale vi è l’uomo), collegati fra loro attraverso rapporti di analogia e similitudine, dal gradino più infimo a quello più elevato, in termini di complessità e perfezione delle funzioni vitali. Parlare di animali, dunque, equivale spesso a parlare di uomini e donne. La maggior parte degli studi sul femminile ha preso le mosse proprio da qui, dal vasto mondo della biologia aristotelica, con un orientamento interpretativo teso a metterne in luce il pregiudizio misogino. Secondo questo modo di intendere la questione, la lettura della generazione attraverso la lente dell’ilomorfismo aristotelico corrisponde e riporta su un piano scientifico una situazione storica e culturale ben precisa basata su di una particolare gerarchia sociale, all’interno della quale sono collocati gli uomini e le donne. Appare del tutto naturale che la femmina sia identificata nel principio materiale che patisce l’azione della forma paterna. L’aver identificato i due generi all’interno di una precisa griglia ontologica, insieme alla distinzione tra attività e passività, ha dato origine al noto e altrettanto studiato modello della madre materia come infecondo contenitore di embrioni e tra gli anni Settanta e Ottanta un buon numero di studi di matrice per lo più femminista (ma non solo) ha voluto cogliere proprio in questa sistemazione gerarchica la precisa rappresentazione di un determinato
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status quo sociale.1 Oltre a quello riproduttivo, un altro punto ampiamente dibattuto è il tema della modalità di rappresentazione della fisiologia e del carattere femminile: dotata di un corpo debole, freddo e carico di liquidi in eccesso, con un’indole altrettanto fragile, la femmina di qualunque specie animale misura la propria incompletezza sul paradigma maschile corrispondente, del quale non potrà mai raggiungere la compiutezza dovuta al possesso di un calore innato. All’interno di questa costruzione trovano posto alcune affermazioni aristoteliche, palesemente errate, sulla fisiologia femminile, comprensibili, secondo alcuni, alla luce di un orientamento pregiudiziale della ricerca scientifica.2 Senza dubbio, in ambito etico il punto più controverso è quello che riguarda la facoltà deliberativa femminile, incompleta e priva di autorità. Il ricorrente parallelismo tra la natura delle femmine e quella dei fanciulli chiarisce il senso dell’attribuzione: ontologicamente immature e costantemente bisognose di una guida maschile, le donne sono destinate ad un’eterna e sterile giovinezza intesa come “incompletezza”. Come dei ragazzi in tenera età incapaci di fecondare, per natura non sono in grado nemmeno di esercitare un pieno giudizio né un dialogo sufficientemente razionale con le proprie passioni. Imperfette fisiologicamente, impotenti nel produrre seme, esse sono altrettanto incapaci di autonomia decisionale. L’argomentazione del bouleutikon rende conto di un contesto politico e sociale nel quale non è prevista alcuna partecipazione del femminile e che prevede, in ogni caso, un controllo da parte del padre e dello sposo nell’intero arco della vita di ogni cittadina. Le donne non avrebbero dunque avuto necessità né avrebbero potuto sviluppare una facoltà, come quella decisionale, propria dell’agire pubblico e politico.3 A partire dalle medesime argomentazioni un filone di studi di matrice soprattutto anglosassone ha tentato di allontanare dal filosofo l’accusa di misoginia così ampiamente condivisa, sia dal punto di vista della biologia che da quello etico-politico. 4 Per ciò che riguarda quest’ultimo, in particolare, l’assunto di base sarebbe il ridimensionamento dell’importanza della vita politica e pubblica in favore di quella privata e domestica nel pensiero di Aristotele: è al mondo dell’oikos, degli affetti familiari e dei rapporti d’amicizia che sarebbe indirizzata, con particolare vigore, la riflessione etica del filosofo. Che le donne siano escluse dalla vita politica, dunque, non comporterebbe necessariamente l’impossibilità, per esse, di vivere una vita virtuosa e felice. Cfr. Campese Manuli Sissa 1983; Lange 1983; Okin 1979; Said 1983. Cfr. Byl 1980; Joly 1968; Lloyd 1982. 3 Cfr. Horowitz 1976. 4 In merito alle osservazioni sul femminile in ambito biologico, il tentativo di una revisione in tal senso è stato fatto da McGowan Tress 1990 e, proprio negli ultimi anni, da Mayhew 2004, il quale ha voluto imputare al non facile reperimento di materiale da studiare e alla difficoltà di potere compiere adeguate osservazioni empiriche la presenza di alcune grossolane sviste in merito alla fisiologia femminile. Per quanto attiene alla sfera politica ed etica, invece, si vedano Clark 1982 e Mulgan 1999. 1 2
Introduzione
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Da un lato, dunque, un maschile fecondo e attualizzante, che rispecchia la socialità dell’aner, il suo ruolo attivo nella comunità greca e il suo essere a capo della famiglia e della polis, dall’altro un femminile recettivo, infecondo e passivo, corrispondente ad un modus vivendi, quello della donna, totalmente relegato all’interno delle mura domestiche e avente come scopo fondamentale la riproduzione dei politai. Attività versus passività come nodo centrale della questione, rappresentata da un punto di vista teorico attraverso la teoria ilomorfica e la dottrina dell’atto e della potenza. Parlare di generazione, in modo particolare, significa affrontare una parte centrale della ricerca naturalistica del filosofo, in considerazione dei suoi presupposti teorici di tipo teleologico. È il principio finalistico ad indirizzare l’operato della natura, la quale opera sempre in vista di un telos (heneka tinos). In quest’ottica il generare rappresenta il fine per eccellenza cui tutti gli esseri tendono di necessità, proprio perché è solamente così che viene garantita la continuità e il perpetuarsi delle specie esistenti. Se la realtà è strutturata nei termini di migliore-peggiore, superiore-inferiore, in vista del raggiungimento del fine, non sarà difficile comprendere come questa costruzione sia riempita di significato tramite i valori dominanti dell’epoca a proposito dei generi sessuali. La causa motrice è il maschio, che coincide anche con la forma e idealmente con la causa finale, sarà «migliore e più divino» della femmina, e per necessità separato da essa.5 La teoria ilomorfica stessa implica, senza dubbio, una superiorità ontologica e gnoseologica della forma sulla materia, essendo quest’ultima un principio indefinito e inconoscibile se non in quanto materia «di» qualcosa. 6 Considerata dal punto di vista della sua natura potenziale, la hyle è legata all’essere e al non essere, alla possibilità della generazione così come della corruzione, è priva di determinazione e definizione, e perciò inconoscibile. Se ciò è vero, è altrettanto innegabile che sia l’unità delle sostanze a costituire il reale, l’interezza del sinolo discussa nel VII libro della Metafisica. Nonostante la hyle sia legata alla potenzialità del divenire e perciò indefinibile, Aristotele ammette che «per il pensiero sarebbe comunque difficile prescindere da essa», persino nel caso della nozione geometrica del cerchio.7 Dal punto di vista del 5 La generazione degli animali, II, 1, 732 a 3-7: «Dal momento poi che la prima causa motrice, cui appartengono l’essenza e la forma, è migliore e più divina per natura della materia, è anche meglio che il superiore esista separato dall’inferiore. Per questo in tutti gli esseri per i quali è possibile e in misura della loro possibilità, il maschio esiste separatamente dalla femmina»; La generazione degli animali, II, 1, 732 a 7-11 «È infatti migliore e più divino il principio del mutamento cui appartiene il maschio negli esseri che nascono, mentre la femmina è la materia. Il maschio però concorre e si unisce alla femmina per la realizzazione della riproduzione, perché questa è comune ad entrambi». 6 Metafisica, VII, 3, 1029a 20-26: «Chiamo materia ciò che, di per sé, non è alcunché di determinato, né una quantità né alcun’altra delle determinazioni dell’essere. C’è, infatti, qualche cosa di cui ciascuna di queste determinazioni viene predicata: qualcosa il cui essere è diverso da quello di ciascuna delle categorie. Tutte le altre categorie, infatti, vengono predicate della sostanza e questa, a sua volta, della materia. Cosicché questo termine ultimo, di per sé, non è né alcunché di determinato né quantità né alcun’altra categoria: e non è neppure le negazioni di queste, perché le negazioni esistono solo in modo accidentale». 7 Cfr. Metafisica, VII, 11, 1036 a 31 -35/1036 b 1-3.
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funzionamento della natura, infine, ogni ente si identifica nella propria essenza, la cui realizzazione, se la natura non opera mai invano, consiste appunto nel meglio, cioè nella realizzazione piena delle funzioni che lo compongono e lo caratterizzano. Quest’ultima è data all’interno di una gamma di possibilità connesse al genere dell’animale in questione, se parliamo di esseri viventi. Tra di esse non si possono ignorare quelle connesse alla materia. Gli aspetti materiali concorrono a pieno titolo alla realizzazione del telos o, almeno, ne garantiscono la possibilità di attualizzazione. È proprio qui, tra la necessità della materia e lo svolgersi della teleologia naturale che la natura femminile trova luogo, non senza il disvelamento di una tensione mai pienamente risolta. Da un punto di vista genetico, ogni nascita femminile rappresenta l’esito di un processo causale difettoso derivante dalla resistenza esercitata dalla materia sugli impulsi spermatici. Quando il calore del seme non è forte a sufficienza da dominare il mestruo, i movimenti del seme paterno vengono deviati dal corretto svolgimento del processo riproduttivo che prevedrebbe, come esito ideale, la nascita perenne di un maschio somigliante al padre. Un risultato, questo, non solo contraddetto dall’evidenza dei fatti naturali, ma del tutto impensabile in vista della perpetuarsi delle specie animali. Il femminile s’identifica, così, in una materia necessaria al raggiungimento del fine per eccellenza, cioè la riproduzione, pur derivando da un errore e costituendo una sorta di teras, una mostruosità di natura. Proprio su questo carattere di necessità si è concentrata l’attenzione di un certo ambito di studi, volto a rivalutare positivamente il ruolo del femminile in ambito biologico. Il punto nodale sarebbe la riconsiderazione del valore essenziale delle spiegazioni di carettere materiale all’interno dei meccanismi della natura. Si tratta di uno degli esiti più recenti e forse più innovativi in questo ambito, del quale condivido l’impostazione e la maggiore capacità di restituire la complessità del testo aristotelico.8 Strettamente connessa alla identificazione del femminile con la materia è la questione del materno, un tema trasversale, che compare nei più svariati ambiti del pensiero del filosofo. Essa rappresenta una questione dirimente e un punto di vista di particolare importanza dal quale indagare il femminile, per diverse ragioni: la specificità di genere del tema, l’ampiezza delle considerazioni dedicate ad esso da parte del filosofo e, appunto, la sua trasversalità e la molteplicità dei modi in cui viene affrontato. Questa intima connessione tra femminile, materno e principio materiale, all’interno del pensiero aristotelico, è chiaramente testimoniata dal riferimento alla materia prima, la prote hyle, definita nel I libro della Fisica “come una madre” (Fisica, I, 192 a 14-15). Si tratta di un’identificazione interessante, che apre la strada ad una modalità duplice, direi, di rappresentare la natura delle donne. Da un lato, l’idea della passività della materia corrisponde perfettamente al modello riproduttivo nel quale il contributo femminile 8
Alcuni nomi, tra i più significativi, sono Henry 2006; Föllinger 1997; van der Eijk 2007.
Introduzione
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è identificato in un principio che riceve la forma paterna, mediante il sangue mestruale. D’altro canto, la potenzialità materiale è connessa con la possibilità stessa del divenire e dell’essere, condizione imprescindibile di ogni mutamento, in natura, compreso quello della generazione tout court. Un doppio canale descrittivo, infine, caratterizza la maternità, l’importanza sociale e biologica della quale ne costituisce il comune denominatore. Essa è pienamente conforme all’immagine della “madre materia”, vuoto e passivo ricettacolo di embrioni, le cui funzioni principali sono, senza dubbio, quella delle ricezione e della conservazione del nascituro. Ma è proprio attraverso la categoria del materno che avviene una sorta di ribaltamento e le madri descritte dal filosofo acquisiscono valore, sul piano fisiologico, secondo modalità del tutto speculari a quelle usuali. Tutto ciò avviene mediante l’attribuzione di categorie maschili considerate anatomicamente positive, quali il calore e la forza, trasferite al corpo materno in funzione e in vista del suo ruolo. Un simile procedimento si verifica anche in ambito etico-politico, e consente un superamento delle consuete modalità di concepire il rapporto tra la virtù e le donne, secondo Aristotele. Senza dubbio, il cuore della riflessione sulla morale è destinata agli uomini, i cittadini protagonisti della scena pubblica e responsabili, allo stesso tempo, della dimensione dell’oikos. Sono costoro i veri fruitori del messaggio aristotelico, mentre alle donne è riservato il campo domestico, la virtù dell’obbedienza e della conservazione dei beni ed, infine, del silenzio. Del tutto escluse dall’arena politica e pubblica, esse non esercitano e, dunque, non posseggono per natura neppure una capacità deliberativa compiuta. Differenti dagli schiavi, in quanto dotate di esistenza autonoma e non catalogabili tra i possedimenti del marito, ma altrettanto sottomesse a quest’ultimo, assecondano, nel loro modo di vivere, una naturale propensione all’obbedienza. Eppure, come il filosofo stesso sostiene, le donne costituiscono la metà degli esseri liberi di una città: affinché la polis goda di buona salute, allora, bisogna che anch’esse siano felici e virtuose. Certamente, anche all’interno della riflessione etica opera il medesimo modello oppositivo tra attività maschile, fatta di vita pubblica e politica, in questo caso, e passività femminile, identificata nella conservazione e nel mantenimento domestico. E tuttavia, ancora una volta, si tratta di una lettura non del tutto esaustiva e l’attività delle madri richiede un superamento della dicotomia attivo-passivo. Descritte come necessariamente dotate di coraggio e saggezza, in vista dell’esercizio delle proprie funzioni di cura della prole, esse acquisiscono valore e riconoscimento mediante l’attribuzione di qualità e virtù che richiedono, in sé, l’attualizzazione di un ergon. In tal senso, l’esempio più significativo è quello della philia materna: situata in una zona di confine tra l’istinto che accomuna tutti gli animali e la relazione che lega gli uomini, all’interno della comunità politica e sociale, essa sposta di misura il femminile dalla parte dell’ergon e dell’energheia. Un tema, dunque, che ben rappresenta la ricchezza di
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sfumature attraverso cui è possibile indagare il problema della natura femminile nel pensiero aristotelico, in vista della costruzione di un quadro che sia il più completo e variegato possibile. Ridare luce a tale complessità, allora, è l’obiettivo delle pagine che seguono. Questo libro è frutto di una rielaborazione della mia tesi di dottorato, negli anni successivi alla sua conclusione, durante i quali, grazie a Philip Van der Eijk, ho avuto l’opportunità di approfondire le mie ricerche all’interno dell’équipe che dirige e coordina a Berlino. Non ne avrei neppure concepito l’idea, però, se non fosse stato per l’incoraggiamento iniziale di Maria Michela Sassi, sempre disponibile e generosa nel dispensarmi preziose indicazioni. Ringrazio tutti i colleghi e amici che hanno avuto la pazienza, nel tempo, di donarmi i loro consigli, tra i quali desidero menzionare Francesca Piazza, Roberto Lo Presti e Nicola Cusumano, che ha accolto questo testo nella collana che dirige. Vorrei ringraziare infine Valeria Andò per la costanza e il paziente affetto con cui mi ha seguita fin dai primi anni di università.
Capitolo Primo
Il femminile nella rappresentazione medico-biologica 1. La teoria aristotelica della riproduzione e l’ilomorfismo: cenni La riflessione aristotelica sul femminile trova un proprio spazio esplicito nell’ambito dei trattati biologici, in relazione alla teoria della riproduzione. L’attenzione nei confronti dei meccanismi generativi e del loro legame con la fisiologia femminile pone Aristotele nel vivo di una tradizione di carattere medicoginecologico che traspone ad un livello scientifico-normativo una questione del tutto politica e sociale: le donne, le cittadine e il loro ruolo eminentemente riproduttivo. È noto il modo in cui la precedente ginecologia ippocratica individuava nell’aspetto genitale-procreativo l’elemento caratterizzante del corpo femminile e l’origine delle sue possibili patologie, configurandosi così come una scienza di carattere prevalentemente sessuale. L’idea dominante è quella della donna matrice, turbata costantemente da una fisiologia squilibrata per natura, la cui unica ricomposizione possibile avviene tramite il riempimento dell’utero mediante la realizzazione del fine riproduttivo. Tra le terapie più fruttuose, dunque, il coito e il concepimento, mentre, al contrario, una verginità o un’astinenza troppo a lungo prolungata non possono che nuocere alla fisiologia femminile.1 In sintonia con la famosa immagine del Timeo platonico in cui l’utero viene descritto come un animale desideroso di avere figli, in preda a movimenti che lo spingono su e giù per il torace qualora rimanga vuoto troppo a lungo, l’idea dominante del pensiero medico-ginecologico ippocratico è quella di uno stato di salute raggiunto unicamente nel momento della gravidanza, quando l’organo viene riempito e gli umori del corpo sono bilanciati.2 Non è un caso che un’esplicita analisi dei problemi legati alla natura delle donne, delle femmine degli animali in genere, compaia per lo più nel Corpus delle opere biologiche di Aristotele e, in particolare, nel trattato dedicato alla riproduzione degli animali. Nel ricevere a piene mani la precedente tradizione ginecologica il filosofo compie però un significativo passo in avanti, inserendo e rendendo intellegibile la teoria dei processi generativi alla luce di uno dei contributi fondamentali dell’intera dottrina aristotelica: l’ilomorfismo e, di conseguenza, la teoria della 1 Sulla ginecologia ippocratica si veda, tra gli altri, Andò 1995; Andò 2000; Dean Jones 1991; Dean Jones 1994a; 1994b; Dean Jones 1995; Hanson 1975; King 1995; King 1998; Manuli 1983. 2 Cfr. Timeo 91 C. Sulla questione dell’utero vagante, tra approccio etico e magico, si vedano Adir 1996; Aubert 1989; Faraone 2011.
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potenza e dell’atto.3All’interno della riproduzione l’elemento maschile è identificato nel principio formale attivizzante e che conferisce l’anima, quello femminile nella materia passiva che riceve l’impulso paterno.4 Essa diviene null’altro che l’evidenza empirica dei processi entelechici, o l’evento enetelechico per antonomasia nel quale fine, causa efficiente e formale coincidono nel contributo maschile.5 Parlare di generazione significa, dunque, affrontare una parte centrale della ricerca naturalistica del filosofo, in considerazione dei suoi presupposti teorici di tipo teleologico. È il principio finalistico ad indirizzare l’operato della natura, la quale opera sempre in vista di un telos (heneka tinos).6 L’atto della riproduzione rappresenta il fine per eccellenza cui tutti gli esseri tendono di necessità, proprio perché grazie ad essa viene garantita la continuità e il perpetuarsi delle specie 3 Dell’utilizzo dell’ilomorfismo nella dottrina della generazione si è occupato, in particolar modo, Henry 2006a. 4 Cfr. La generazione degli animali, I, 2, 716 a 2-17; I, 20, 729 a 9-14; I, 20, 729 a 24-33; I, 22, 730 b 9-24. 5 Secondo Sissa 1983 la riproduzione degli esseri viventi, pensata secondo le categorie articolate analiticamente nel settimo libro della Metafisica, è l’evento non solo osservabile, ma sperimentabile «nel vissuto di chi guarda, dell’informazione e dell’entelechia» (84-85). Sull’utilizzo delle quattro cause nell’embriologia aristotelica si veda Cooper 1990, Matthen 1989. 6 Gli studi sulla biologia aristotelica e, in generale, sul concetto di natura secondo il filosofo, sono stati a lungo dominati dall’ottica del funzionamento teleologico. Si tratta certamente di una questione centrale nel pensiero aristotelico, di un’attenzione supportata dalla frequenza e dalla insistenza con cui Aristotele mette in rilievo l’importanza della causa finale nella spiegazione dei processi naturali e della esistenza degli enti, dal momento che il fine di ognuno coincide con il suo essere sostanziale, cioè con la sostanza in quanto realizzazione di una forma potenziale. Coincide anche con le funzioni di ogni essere naturale, come attualizzazione delle capacità preesistenti in relazione a tali attività. Un punto di vista importante soprattutto per la conoscenza e lo studio dei processi della natura, dunque, dal momento che solo la struttura d’insieme, il fine di ogni ente naturale, permette di comprenderne appieno le parti. Accanto ad un funzionamento comprensibile e spiegabile nell’ottica dell’entelechia, esiste però un altro principio, che fa appello alla materia, alla cosiddetta necessità materiale Necessità e fine compaiono sempre secondo modalità compensatorie: dove l’una prevale, l’altro scema, senza mai scomparire. Il problema del rapporto tra teleologia e necessità materiale, che costiuisce uno dei punti più interessanti e discussi della biologia aristotelica, è stato studiato ampiamente, pertanto riporto qui di seguito soltanto alcuni dei contributi, a mio avviso, più importanti. Balme 1987 tende a mettere in rilievo gli aspetti di compatibilità tra visione teleologica e necessità materiale, diversamente da Bradie, Miller 1999; Cooper 1982; Gotthelf 1987; Irwin 1988; Lennox 2001; Waterlow 1982; i quali appartengono ad un filone di pensiero secondo cui, nonostante questa compatibilità, i prodotti della necessità materiale non possono avere alcuna regolarità nel loro accadere, senza il ricorso alla causa finale. Una terza posizione, espressa da Nussbaum 1978 e Sorabji 1980, assegna al modello teleologico un mero ruolo esplicativo dei processi naturali, ed un predominio, in termini di causalità, alla necessità materiale e alla causa efficiente. Una nuova e recente posizione è quella di Leunissen 2010, che distingue due tipi di teleologia: primaria e secondaria. La prima «involves the realization of a pre-existing potential for form through stages shaped by conditional necessity, where the fully realized form constitutes the final cause of the process» (18). La seconda «involves a formal nature of an animal using materials for something good, where those materials “happen to be available” in the animal, as the result of material necessity, but not, strictly speaking, as the result of conditional necessity» (19). In relazione a quest’ultimo tipo la necessità materiale contribuirebbe a provvedere una serie di «extra possibilities – extra in the sense that the possibilities are not already given with the soul a certain kind of animal possesses – for the realization of features that may contribute to the animal’s well being» (111). Per una riflessione sulla teleologia aristotelica dal punto di vista dei trattati sulle cause e le modalità di movimento degli animali si veda Morel 2013.
Capitolo Primo - Il femminile nella rappresentazione medico-biologica
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esistenti e la possibilità di lasciare «un altro simile a sé», cioè «la più naturale operazione dei viventi».7 L’impianto finalistico della filosofia della natura, interpretato in senso rigidamente gerarchico, ha consentito una valutazione altrettanto gerarchica del modo di intendere i due generi sessuali. Se la natura e la realtà tutta è concepita in termini di meglio e peggio in base alla realizzazione del telos, il passo successivo e necessario sarà quello di inserire, all’interno di questa griglia, le valutazioni politico-normative dominanti dell’epoca: se la forma è migliore e più divina della materia, se, di conseguenza, è meglio che il superiore esista separatamente dall’inferiore, allora il maschio esiste separatamente dalla femmina, in tutti quegli esseri che presentano la differenza sessuale.8 Il posizionamento del maschile e del femminile, del padre e della madre all’interno di questa griglia gerarchicamente orientata poggia le proprie basi su di una mancanza: la natura femminile è fredda, più fredda di quella maschile, e ne costituisce, per questo motivo, la variante al negativo, una sorta di alter ego in direzione svalutativa e peggiorativa. A riprova di ciò la costante presenza del mestruo, come testimonianza di uno squilibrio idrico, di un eccesso di liquido sanguigno che non raggiunge mai lo stesso grado di calore e cozione dello sperma maschile e che ha bisogno di essere evacuato mensilmente. A partire dall’opposizione caldo-freddo, Aristotele costruisce dunque la propria teoria riproduttiva che si struttura e si dipana lungo un sistema binario basato sulle coppie forma-materia, attivo-passivo, maschio-femmina. L’insufficienza termica determina il ruolo passivo dell’elemento materno nella riproduzione ed il residuo mestruale traduce sul piano fisiologico il concetto della femmina come causa materiale della riproduzione. Al contrario, infatti, il maschio è dotato di sperma, di liquido seminale, che deriva anch’esso dal sangue, ma ne rappresenta una sorta di elaborazione, al massimo grado, in termini di calore e purezza. Di natura identica e contemporanei nel loro primo manifestarsi durante la pubertà, sperma e mestruo ottemperano a due funzioni ben diverse. Il processo riproduttivo si avvale di entrambe le secrezioni, ma in modo del tutto differente: il residuo maschile è il seme attraverso cui viene trasmessa la forma e l’essenza alla fredda materia mestruale femminile.9 La femmina, cioè, a differenza del maschio, non è dotata di alcun seme fecondo.10 La contemporaneità L’anima II, 4, 415a 23. La generazione degli animali, II, 1, 732 a 3-11; Cfr. Witt 2003. Cfr. La generazione degli animali, I, 19-20. 10 Il seme dunque, non deriva da tutto il corpo. La critica alla teoria pangenetica serve ad Aristotele per affermare l’unicità del seme maschile. La pangenesi del seme è affermata soprattutto dagli ippocratci (per quanto non sia l’unica teoria, in proposito, presente nei trattati) e deriva, secondo Duminil 1984 dall’influenza della dottrina anassagorea delle omeomerie: «La doctrine d’Anaxagore domine toute la pensée médicale et biologique des Grecs et on peut particulièrement en constater l’influence dans le Corpus hippocratique. On la connaît sous le nom de pangénétisme» (99). Per Grimaudo 2003, invece «La definizione dello sperma maschile come spuma del sangue ha origini molto antiche, se dobbiamo credere alla testimonianza di Aezio, secondo il quale già Pitagora aveva affermato che il seme è schiuma del san7 8 9
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della comparsa del seme maschile e del mestruo, dunque, stabilisce da un lato un’analogia, e cioè quella tra corpo maschile e femminile, dall’altro dimostra l’assurdità dell’esistenza di un seme femminile altrettanto fecondo. Se la natura non opera mai invano, non esiste una ragione che giustifichi la presenza di due semi, di due liquidi che assolvano la medesima funzione. A motivo della sua incapacità termica la donna è analoga ma non equivalente all’uomo, del quale non rappresenta che il negativo corrispondente o, piuttosto, un antecedente relegato per sempre al mondo dell’infanzia e del pre-sviluppo.11 Identificata nella causa materiale, di natura fredda e perciò incapace di operare la cozione del sangue, non sarà mai veramente feconda, tanto che la sua condizione viene più volte paragonata da Aristotele a quella di un uomo sterile e di un fanciullo incompleto.12 Secondo la teoria aristotelica l’origine dell’embrione è legata alla mescolanza del seme cotto e puro (maschile) con l’elemento femminile non sufficientemente cotto e perciò impuro. Non si tratta di una fusione di elementi, ma dell’impulso esercitato dal principio maschile attivo su quello femminile passivo.13 Il primo, il poietikon, mette in moto il processo riproduttivo nel quale il secondo fornisce il paziente, pathetikon, su cui agire, proprio come il caglio o il siero agiscono sul latte operandone la costituzione.14 gue più utile e residuo del nutrimento. Se sull’autenticità di tale notizia dossografica sono stati avanzati dei dubbi, soprattutto in considerazione del fatto che vari appartenenti alla scuola pitagorica furono con certezza sostenitori dell’origine encefalo–mielogena dello sperma, è invece certo che la teoria emogenetica fu affermata, prima di Aristotele, da Parmenide e Diogene di Apollonia. Ma è nel quadro del cardio–emocentrismo aristotelico che essa riceverà, nel De generatione animalium, piena consacrazione, affermandosi come predominante a partire dal IV secolo a.C. e rimanendo sostanzialmente tale almeno fino al IV–V, anche sulla scorta dell’autorità di Galeno che, sia pure con alcuni significativi aggiustamenti, la ribadirà nella più importante tra le sue opere, il De semine» (2). Più in generale, sulle teorie embriologiche nell’antica Grecia il contributo fondamentale rimane Lesky 1951. Si vedano anche Dunstan 1990 e George 1982. 11 Cfr. Sissa 1983. 12 Cfr. La generazione degli animali, I, 20, 728 a 1-21. Saïd 1983 considera il paragone con il fanciullo una trasposizione biologica della gerarchia istituita da Aristotele nel I libro della Politica. In esso l’uomo si contraddistingue per il possesso di una volontà pienamente sviluppata (bouleutikon), che lo rende naturalmente atto al comando. La femmina e il ragazzo, invece, accomunati da un egual destino di subordinazione, non possiedono che una volontà mutilata. La facoltà deliberativa femminile è akyron, impotente, priva di capacità decisionale, e dunque bisognosa di una figura maschile che le faccia da tutore. Il fanciullo, d’altro canto, non deve far altro che attendere lo sviluppo di una facoltà momentaneamente imperfetta, incompiuta (atélés), ma che un giorno maturerà. (Cfr Politica I, 12 1259b 1-4, 13, 1260a 9-14). Di parere differente sul significato da attribuire ad akyron, per ciò che riguarda la facoltà deliberativa femminile, Deslauriers 2003. Si veda inoltre Campese 1997. Del bouleutikon discuterò dettagliatamente più avanti, nel paragrafo dedicato specificatamente a questo argomento. In Ricerche sugli animali III, 11 518a 27-33 l’accostamento è tra donne, anziani, eunuchi e malati. La mancanza di calore, del resto, è uno dei sintomi e delle conseguenze della vecchiaia. Cfr. La generazione degli animali, I, 20, 729 a 9-14; V, 3, 783 b 5-8. 13 Cfr. La generazione degli animali, II, 4, 740 b 18-25. 14 La generazione degli animali, I, 20, 729 a 9-14: «Ma accade ciò che per altro è logico: poiché il maschio apporta la forma e il principio del mutamento, e la femmina il corpo e la materia, come nella cagliatura il corpo è dato dal latte, mentre il succo di fico o il siero sono l’elemento che possiede il principio costitutivo, così anche di ciò che, provenendo dal maschio, si suddivide nella femmina». Cfr. anche La generazione degli animali, II, 4, 739 b 20-26: «La secrezione uterina acquista consistenza per effetto dello sperma
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Si tratta di un impulso che si avvale di un contributo materiale ma la cui funzionalità non risiede in esso: lo sperma non entra a far parte del prodotto del concepimento, ma vi apporta semplicemente la forma essenziale agendo sul sostrato femminile.15 Possiede una costituzione di natura fluida e acquosa e la sua componente specifica, lo pneuma, lo rende caldo e simile alla natura degli astri.16 La trasmissione della forma e la possibilità di attualizzare la materia femminile non significano altro che la capacità dell’impulso paterno di conferire l’anima. Secondo la nota definizione del trattato sull’Anima, essa è «l’atto primo di un corpo naturale che ha vita in potenza»,17 senza la quale ogni corpo non sarebbe che un pezzo di carne inerte.18 Il seme, dice Aristotele, «possiede un’anima» ed «è potenzialmente anima».19 Si può ben comprendere l’enorme rilevanza del contributo maschile al processo riproduttivo, dal momento che l’impulso spermatico agisce sulla materia «informandola», conferendole l’anima, cioè l’insieme delle funzioni il cui esercizio costituirà l’essenza stessa del nuovo essere. In particolare, ciò di cui l’embrione viene fornito dal padre è quell’elemento che diversifica gli animali dalle piante: la facoltà percettiva. È proprio grazie al contributo maschile che l’embrione acquisisce la potenzialità della sensazione, ed è questo stesso argomento che spiega l’impossibilità, per la femmina, di generare autonomamente.20 maschile, che svolge un’azione simile a quella del caglio sul latte. Il caglio in effetti è latte provvisto di calore vitale e questo riunisce e fa coagulare (συνίστησι) le parti simili, e così allo sperma capita lo stesso con la natura del mestruo, perché la natura del latte e del mestruo è la stessa». Il processo di cagliatura viene qui espresso dal verbo συνίστημι, ma Demont 1978 analizza come il medesimo processo di formazione dell’embrione, in quanto passaggio dal liquido al solido, venga descritto già dagli ippocratici anche mediante l’utilizzo del verbo τρέφομαι (cfr. Natura della donna, L VIII, 1 218). Sostiene lo studioso: «Les mêmes verbes désignent formation du fœtus et formation du fromage. Si cela est apparent pour les termes peu polysémiques que sont πήγνυσθαι ou συνίστασθαι, on l’oublie trop souvent pour le verbe τρέφεσθαι. Pourtant il s’agit et du même processus et du même mot pour les deux opérations» (368). E poi «τρέφεσθαι ajoute probablement à l’idée de coagulation, qui subsiste, celle de la croissance d’un être destiné à vivre» (369). Secondo Demont, infatti, i Greci associano spesso le due nozioni sulla base «d’un même universal» (384). 15 In merito a ciò si vedano Dean Jones 1994; Sissa 1983. 16 Cfr. La generazione degli animali II, 3 736 b 33-37; II, 3, 737 a 7-12. 17 Cfr. L’anima, II, 412 a 19-21. 18 La generazione degli animali, II, 1, 734 b 22-27: «Il seme dunque è siffatto e possiede un impulso e un principio tali che, pur finito l’impulso, ciascuna delle parti si anima. Perché ciò che è inanimato non è né viso né carne, ma una volta morti si dirà l’uno viso l’altra carne per omonimia, come anche se diventassero oggetti di pietra e di legno». 19 La generazione degli animali, II, 1, 735 a 5-9. 20 Cfr. La generazione degli animali, II, 5, 741 a 6-16. La presenza dell’anima vegetativa e di quella sensitiva, all’interno dell’impulso spermatico, è affermata in tutta chiarezza. Esse non possono provenire dall’esterno, in quanto non esistono al di fuori del corpo. Ciò che ha posto problemi interpretativi, al contrario, è la questione dell’anima intellettiva. In un passo di difficile comprensione, infatti, Aristotele sostiene che l’intelletto, in virtù della quale l’animale diventa uomo e che non ha nulla in comune con l’attività corporea, provenie dall’esterno (thyrathen) (II, 3, 736 b 21-29). L’interpretazione più diffusa di questo passo è che l’intelletto, cioè l’anima intellettiva, la cui attività appare incorporea, può entrare nel corpo dal di fuori, in un momento successivo a quello in cui, “procedendo”, si sono formate nel concepito l’anima vegetativa e quella sensitiva (cfr. per esempio, Colourbatis 1980). Moraux 1955 e, in seguito, Berti 2008 offrono una
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Dalla necessità di negare la plausibilità della partenogenesi prende le mosse, infatti, il ragionamento sull’anima percettiva, il quale permette al filosofo di sottolineare ulteriormente l’immaterialità del principio maschile e, dunque, la sua assoluta incommensurabilità rispetto a quello femminile.21 Da un punto di vista totalmente empirico si tratta di un processo che prevede il contributo di entrambi i sessi, ma la tensione costante e ideale che affiora sembra essere quella a considerare la riproduzione come «il luogo dell’identico»22 o, in altri termini, del maschile che riproduce se stesso proprio in virtù della sua coincidenza con l’essenza stessa di ogni essere animato.
2. Il corpo femminile: uno sguardo anatomico Nei trattati di biologia aristotelica la costruzione del modello anatomico femminile avviene sulla base ed in relazione a quello maschile. Il paradigma dell’aner costituisce l’apice, il punto massimo della scala naturae lungo la quale sono pensati gli esseri viventi al quale si affianca e si contrappone, al tempo stesso, il suo doppio al femminile. In virtù di tale rapporto comparativo potremmo immaginare il maschio come dotato di una serie di tratti pertinenti che diremmo caratterizzati dal segno matematico del positivo, mentre la femmina, al contrario, da quello del negativo. Questo modo di procedere ha dato luogo ad una serie di affermazioni, sulla fisiologia femminile, orientate in tal senso e sulle quali per anni si è rivolta l’attenzione degli studiosi.23 Oltre alla ricostruzione dell’apparato riproduttivo, alcuni dei punti più controversi riguardano le dimensioni del cervello e il numero di suture presenti in esso, il pallore della pelle, la struttura ossea e il numero di denti.
diversa interpretazione. Secondo quest’ultimo, in particolare, l’anima intellettiva sarebbe contenuta nello sperma, in potenza. Il punto di partenza di Berti 2008 è il tentativo di superare la contraddizione posta da L’anima II, 3, 414 b 28-33, in cui viene esplicitata la dottrina dell’inclusione dell’anima inferiore nella superiore, in base alla quale «sembrerebbe di dover ammettere, infatti, che nell’embrione umano, generato da genitori umani, lo sperma del padre trasmetta al concepito un’anima razionale, o intellettiva, la quale contiene in potenza le facoltà dell’anima vegetativa e quelle dell’anima sensitiva» (315). Per una trattazione più completa della questione, sulla quale non intendo soffermarmi oltre in questa sede, rimando a Berti 2008 e Moraux 1955, anche per il reperimento di una completa informazione bibliografica. 21 Cfr. La generazione degli animali, II, 4, 738 b 18-24. 22 Sissa 1983 (112). 23 Si tratta di ciò che Dean Jones 1994 chiama «erroneous claims» basati sull’assunto che «the female is a less perfect respresentative of the human form than the male» (81). Su questo si vedano anche Lloyd 1982 e Nussbaum 1996. Una sorta di posizione, per così dire, riabilitativa è quella di Mayhew 2004, secondo il quale non sarebbe corretto parlare unicamente di conclusioni basate su di un pregiudizio, occorrerebbe piuttosto porre l’accento su elementi empirici e pratici, quali la difficoltà di reperimento di materiali di studio dovuto ai tabù legati alla figura femminile e al suo modus vivendi in reclusione, da un lato, e l’impossibilità di distinguere dati naturali da fattori fisiologici, come il pallore o la debolezza fisica, legati, appunto, a costumi sociali e ad uno stile di vita ben diverso da quello maschile.
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Androcentrismo, dimensioni del cervello e sfera percettivo-cognitiva «Tra gli animali, l’uomo ha l’encefalo più grande rispetto alla grandezza del corpo, e tra gli uomini i maschi più delle femmine: anche la regione intorno al cuore e al polmone, infatti, è la più calda e la più sanguigna».24 Il tema delle dimensioni del cervello occupa una posizione particolare, la cui storia interpretativa viene coinvolta nel passaggio dal cardiocentrismo di stampo aristotelico all’encefalocentrismo di matrice galenica dando luogo, così, ad una sorta di paradosso esegetico.25 A partire dal testo del filosofo, potremmo riconoscerne agevolmente l’assunto di base: il paradigma maschile come punto di riferimento e termine di confronto nella definizione dell’anatomia di tutti gli animali e, in particolare, di quella femminile. In generale, la valorizzazione o, al contrario, la svalutazione dell’una o dell’altra immagine del corpo, o di alcune parti rispetto ad altre, avviene mediante l’utilizzo di alcune categorie spaziali le quali, a loro volta, non fanno altro che assecondare un ordinamento teleologico naturale volto al raggiungimento del meglio. Secondo questa divisione spaziale la destra è migliore della sinistra, mentre le parti alte e il davanti prevalgono rispetto a quelle basse e al dietro.26 In accordo con tale assunto, l’uomo è l’animale che più di tutti riunisce in sé tutte le possibili qualità fisiche positive in quanto perfettamente armoniche con l’ordinamento di natura. Per questo motivo è l’unico animale eretto, perché la sua natura calda produce una crescita secondo la direzione che più gli è propria e affinché non venga ostacolata l’attività che ne rende divina la natura, cioè il pensiero. Se un’eccessiva pesantezza del tronco costringesse gli uomini a piegarsi, tale attività verrebbe di fatto ostacolata insieme alla sensazione comune, la cui sede centrale è nella regione del petto.27 L’elemento discriminante, però, che conferisce valore ed in base al quale ven24 Le parti degli animali, II, 7, 753 a 27-30. Cfr. Ricerche sugli animali I, 16, 494 b 25; Del senso e dei sensibili, 444 a 30-31; La generazione degli animali, V, 3, 784 a 2-4. 25 Della fortuna dell’affermazione aristotelica discute ampiamente Manzoni 2007, fornendo anche una bibliografia esaustiva sull’argomento e ampi riferimenti testuali. 26 Cfr. Le parti degli animali, II, 2, 648 a 11-13. Si veda, su questo, Berrettoni 2002 e Sassi 1988, secondo cui «il sesso determina un’opposizione primaria quanto alto / basso e destra / sinistra, preliminare alla classificazione della serie animale (e a fortiori di quella umana): al maschile, come all’alto e alla destra, si connaturano in ogni specie maggior calore e un giusto grado di umidità (di contro alla freddezza e all’umidità eccessiva dei termini opposti)» (111). Il precursore di questo tipo di studi sulla rappresentazione analogica e polare della realtà è Lloyd 1966. 27 Cfr. Le parti degli animali, II, 7, 653 a 31-32; IV, 686 a 25sgg. Quest’ultimo brano pone l’accento sulla spinosa questione di una possibile localizzazione corporea della sede del pensiero, di cui mi limiterò solamente a ricordare il carattere ancora aperto e controverso della discussione. Da un lato Aristotele stesso sottolinea a più riprese l’incorporeità dell’attività intellettuale (cfr. L’Anima, 413 a 6), d’altro canto, però, non mancano numerosi riferimenti ad una interazione di elementi materiali e corporei che agiscono e influenzano il pensiero stesso, a volte impedendone il corretto funzionamento, altre volte caratterizzandone le modalità in un senso o in un altro. Per una trattazione approfondita di tutto ciò e per un elenco dei passi rimando a van der Eijk 1997; van der Eijk 2000.
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gono definiti il maschile e il femminile l’uno come potenza generativa, l’altro come impotenza, è il calore. Avendo come focolare principale il cuore, grazie ad esso si distinguono gli altri liquidi fondamentali del corpo: il sangue in generale, il sangue mestruale, più freddo e denso, il latte, vicino allo sperma in termini di valore termico e purezza ma non uguale e, infine, lo sperma stesso. Ciò che caratterizza il liquido seminale, che lo rende il residuo più caldo e più puro di tutti gli altri, è la presenza, al suo interno, dello pneuma, che lo rende simile e lo avvicina al materiale di cui sono composti gli astri. Che ruolo gioca, dunque, il cervello, all’interno di un sistema così costituito? Composto di acqua e terra, di natura fredda e umida, esso ottempera alla fondamentale funzione di riequilibrare la temperatura della zona cardiaca.28 Poiché ogni essere vivente deve necessariamente raggiungere una misura appropriata, per ciò che concerne il funzionamento dei meccanismi fisiologici, ed ogni cosa è dotata di un bilanciamento del contrario, «la natura ha escogitato che l’encefalo fosse in relazione alla regione del cuore e alla caldezza che vi si trova».29 Si tratta, in effetti, della parte più umida e fredda dell’intero organismo, posta in connessione diretta con quella più calda, sede del cuore e del sensorio centrale.30 Il raffreddamento operato dal cervello è causa, inoltre, dell’induzione del sonno e della conseguente momentanea sospensione dell’attività percettiva dell’organo sensorio centrale, coordinatore delle singole sensazioni, localizzato nella zona intorno al cuore. Una volta introdotto del cibo nel corpo, il sangue che affluisce alla testa si raffredda ed è spinto in basso verso il petto, dove causa pesantezza e impedisce il controllo della posizione eretta del capo e del corpo intero, causando infine l’assopimento.31 Se le cose stanno così, se l’uomo possiede, per definizione, la natura più calda, di necessità dovrà essere dotato del cervello più grande di tutti gli esseri che ne possiedono uno e, in particolare, anche delle donne. In questa griglia valutativa il punto cardine è la relazione che lega tra loro cuore, sangue e cervello, interamente giocata tutta sul calore. Il cuore, da cui proviene il sangue, per mantenere un equilibrio termico deve subire un processo di raffreddamento che avverrà in base ad una proporzione basata sulla temperatura: quanto maggiore è il calore, tanto più grande sarà il cervello deputato all’operazione del controllo termico. Il cervello delle femmine, fredde in partenza, sarà dunque più piccolo, perché il loro cuore e il loro sangue sono di per sé meno caldi. Se consideriamo il valore attribuito al calore nella biologia aristotelica, e il fatto che proprio sulla base della mancanza di tale calore la natura femminile è definita come una menomazione Cfr. Le parti degli animali, II, 7, 652 b 26-35. Le parti degli animali, II, 7, 652 b 19-21. 30 Cfr. Ricerche sugli animali, I, 16, 494 b 31; Le parti degli animali, 514 a 18, 652 a 34; La generazione degli animali, II, 744 a 12, V, 782b 17, 783 b 28; Del senso e dei sensibili, 438 b 28; 444 a, 10; Del sonno e della veglia, 457b 30. Sul sensorio comune o centrale si veda Kahn 1979; Modrak 1987; van der Eijk 1994; Welsch 1987. 31 Cfr. Sul sonno; Le parti degli animali, II, 7, 653 a 11-20. 28 29
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e un’impotenza, la presenza di un intento gerarchico e valutativo nella costruzione del modello anatomico appare in tutta evidenza. Due punti non mancano di essere confermati attraverso lo svolgimento dell’argomentazione: la centralità del paradigma del corpo maschile e il ruolo fondamentale che il calore gioca in questa costruzione e la conseguente svalutazione del corrispettivo femminile. È noto come, secondo Aristotele, il cervello, in sé, non fosse coinvolto direttamente in alcuno dei processi psichico-sensitivi, essendo al contrario il cuore l’organo centrale e sede del sensorio centrale.32 Che dal cervello non derivi alcuna sensazione, del resto, risulta chiaro anche da una prova diretta, poiché esso «non registra alcuna sensazione quando viene toccato, proprio come non la registrano né il sangue né il residuo degli animali».33 Gli unici sensi che sembrano avere relazione con la testa e, dunque, vicini alla zona cerebrale sono l’udito e la vista a causa «della natura dei rispettivi organi di senso».34 Si tratta però di una vicinanza solamente spaziale, che non implica una partecipazione attiva del cervello nei processi uditivi o visivi e che si basa su di una condivisione dell’elemento di cui sono costituiti i rispettivi organi. In generale ogni senso è connesso ad uno dei quattro elementi: la terra è associata al gusto e al tatto, l’acqua alla vista mentre aria e fuoco all’udito e all’odorato.35 Nonostante ciò, ed operando una sorta di 32 Il primato del cuore sembra essere fuor di dubbio nella costruzione anatomo-fisiologica di Aristotele: si tratta del primo organo a comparire nell’embrione e l’ultimo a smettere di funzionare (cfr. La generazione degli animali, II, 5, 741b 17-19), tutti gli animali, sanguigni e non sanguigni, posseggono il cuore o un principio ad esso analogo (cfr. Le parti degli animali, III, 4, 665b 10-11) e, infine, occupa la posizione più importante del corpo, come se ne fosse l’acropoli (cfr. Le parti degli animali, III, 7, 670 a 25-26). Sul cardiocentrismo si vedano, tra gli altri, Byl 1968; Frampton 1991; Harris 1973; Manuli, Vegetti 1977; Solmsen 1957; van der Eijk 2005. Per ciò che riguarda il cervello, la maggior parte degli studi sul tema ha messo in luce come, al contrario, esso ricopra una sorta di ruolo secondario nel sistema aristotelico, secondo modalità descrittive che hanno sollevato non poche perplessità in merito alla conoscenza e all’osservazione diretta di questo organo da parte del filosofo. Lloyd 1975, per esempio, osserva come «the first problem is the account of the brain itself... Another puzzle is his claim that the brain is bloodless and has no flebs in it. Finally there is the doctrine of the special coldness of the brain» (225). Sulla stessa lunghezza d’onda si vedano anche Clarke 1963; Crivellato, Ribatti 2007; Gross 1999. A proposito della freddezza del cervello Manzoni 2007 sostiene che essa derivi dall’osservazione compiuta probabilmente su animali eterotermi, estesa per analogia a tutti gli altri, anche a quelli omeotermi. Una posizione più recente e, a mio parere, particolarmente interessante, è quella di Papachristou 2008, che mette in luce l’importanza dell’asse cuore-cervello nel sistema aristotelico, più che l’inferiorità di un organo sull’altro, sottolineando la vicinanza di questa posizione a quella della moderna neurofisiologia. Secondo il suo punto di vista «Aristotle did not dismiss the role of the brain simply by saying that it was cold, wet and bloodless. On the contrary, the role assigned by Aristotle to the brain was of fundamental importance. And this can be proved by the fact that the Stagirite regards the coldness of the brain as fundamental, because it preserves the whole body by counterbalancing the heat of the heart (..). In fact, our position is that in Aristotle’s account of the brain and heart the two parts formed a unit that controlled the body» (15-16). 33 Le parti degli animali, II, 7, 652 b 3-6. 34 Cfr. Le parti degli animali, II, 10, 656 a 13-34. 35 Del senso e dei sensibili 438 b 18-439 a 1-5. L’occhio, strumento della vista, condivide la medesima natura acquosa del cervello e per questo motivo si trova in prossimità e in collegamento con esso (Cfr. Ricerche sugli animali, 495 a 11-17; 503 b17; Le parti degli animali, II, 10, 656 b 1; Del senso e dei sensibili 438 b 30; La generazione degli animali, II, 6, 744 a 11). In La generazione degli animali, II, 6, 744 a 7-8 Aristotele spiega come la formazione degli occhi, a livello embrionale, avvenga attraverso un distaccamento dal cervello,
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sovrapposizione culturale e interpretativa, la teoria aristotelica è stata letta come l’ulteriore affermazione dell’inferiorità femminile, anche da un punto di vista sensoriale ed emotivo.36 L’innegabile costruzione gerarchica, con intento svalorizzante nei confronti della fisiologia delle donne, fonda però le proprie radici su un elemento discriminante ben preciso: la centralità del paradigma anatomico maschile e il ruolo fondamentale che il calore gioca in questa costruzione. Cuore e cervello, nonostante l’indiscussa egemonia del primo, sono posti in stretta connessione tra loro da differenti punti di vista.37 In primo luogo, sono considerati entrambi gli organi primari della vita (kyria tes zoes), da cui dipende massimamente l’esistenza e bisognosi, per questo motivo, della maggior protezione possibile attraverso la copertura di membrane.38 Il collegamento che li vede protagonisti si basa sulla differente composizione dei due organi e sulla necessità di mantenere un equilibrio termico nella zona cardiaca, e tutto ciò anche in vista di un buon funzionamento dei meccanismi percettivi.39 L’osservazione del numero delle suture craniche, insieme al discorso sulle dimensioni del cervello, è in grado di fornirci qualche indicazione in più in tal senso. La calotta cranica viene areata e la temperatura bilanciata grazie alla presenza di queste fessure, quanto più grande sarà il cervello tanto numerose saranno dunque le suture. L’uomo ne ha tre che si congiungono a formare una sorta di triangolo in un unico punto solo, la donna una sola e circolare.40 Se la spiegazione è da ricercare nuovamente sulla superiorità delle dimensioni cerebrali e nella necessità conseguente di una più imponente refrigerazione, possiamo, però, guadagnare una maggiore comprensione del sistema di interazione stretta tra cuore e cervello che, seppure indirettaal quale rimangono poi connessi tramite dei condotti. La vicinanza per similitudine e non per un collegamento funzionale, in relazione alla sensazione, viene spiegata molto chiaramente da Michele di Efeso, nel suo commentario ai Piccoli Trattati naturali: «Ora, è appurato che il cervello non è l’origine di questi sensi; per quale motivo si trovino nella testa gli organi di questi sensi, sebbene il cervello non ne sia l’origine, risulta chiaro da quanto segue: poiché l’organo della vista è il cristallino e questo è umido e freddo e anche il cervello è umido e freddo, la natura ha posto gli occhi nella testa, perché il cervello provvedesse loro il cristallino» 1904 (44). L’orecchio, organo dell’udito costituito d’aria, è situato in testa perché la fossa cranica posteriore contiene anch’essa aria e la conduzione del suono è associata a questo elemento. Cfr. Ricerche sugli animali, 491 a 30; 494 b 33-34; La generazione degli animali, V, 3, 784 a 1-3; V, 3, 784 b 35; 785 a 1; Le parti degli animali, II, 10, 656 b 12-19. Infine, l’odorato ha la propria base più vicino al cervello che al cuore perché gli odori, di natura calda, servono a non fare raffreddare eccessivamente il sangue della zona cerebrale. Cfr. Del senso e dei sensibili 444 a 25. 36 Tuana 1994, per fare un esempio, che sottolinea questo legame tra il difetto di calore, tipico della natura femminile, e l’inferiorità delle dimensioni del cervello. Non manca però di connettere la questione con l’argomentazione aristotelica del bouleutikon delle donne, privo di autorità, sostenendo che il cervello più piccolo della femmina rende «her deliberative faculty too ineffective to rule over her emotions» (202203). Mahyew 2004, al contrario, puntualizza come non esista alcun collegamento tra dimensioni cerebrali e facoltà intellettive o cognitive o sensitive. 37 Sulla storia di questo rapporto, da Alcmeone ad Aristotele, si veda sempre Manuli, Vegetti 1977. 38 Cfr. Le parti degli animali, III, 11, 673 b 9 - 12. 39 Che percezione e facoltà intellettive abbiano uno stretto rapporto, in Aristotele, è abbondantemente attestato. Cfr. Del senso e dei sensibili, 437 a 15-17; L’Anima, II, 9, 412 a 22-26; Ricerche sugli animali, 494 b 17; Le parti degli animali, II, 17, 660 a 12-27. 40 Cfr. Ricerche sugli animali, I, 7, 491 b 2-6; Ricerche sugli animali, III, 7, 516 a 15-20.
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mente, coinvolge anche i processi sensoriali e psichici. Dopo avere argomentato la questione del numero delle suture e della loro disposizione, Aristotele elenca i possibili effetti di una mancata areazione della zona cranica e, conseguentemente, del mantenimento di un adeguato stato termico del sangue intorno al cuore: «L’uomo, inoltre, ha moltissime suture intorno alla testa, e il maschio più delle femmine, per la stessa causa: affinché il luogo sia ben arieggiato; e ne ha di più un encefalo più grande: infatti se esso è più inumidito o disseccato, non svolgerà la sua funzione, ma o non raffredderà oppure solidificherà, tanto da produrre malattie, follie e morti. Il calore che si trova nel cuore è anche il principio più conforme alle affezioni, e rende veloce la sensazione quando il sangue intorno all’encefalo ha un qualche mutamento o subisce qualche affezione».41 Se il cervello non opera la propria azione di raffreddamento, il sangue della zona cardiaca non raggiunge il giusto equilibrio termico provocando follie o morte: il calore del cuore, che è il principio (arche), è in diretto collegamento con la temperatura della zona cerebrale e il sangue vicino all’uno risente dello stato del sangue prossimo all’altro.42 Tra i possibili effetti di un malfunzionamento del sistema termico cuore-cervello Aristotele annovera anche la follia, cioè una possibile alterazione del sistema psichico-percettivo. L’interazione tra i due organi, in relazione alla percezione, appare più chiaramente nella spiegazione della posizione anteriore occupata dal cervello in tutti gli animali che lo posseggono. Esso, infatti, si trova davanti «perché la percezione è sempre rivolta in avanti, perché essa viene dal cuore che si trova nella zona anteriore, e perché il processo percettivo ha luogo tramite le parti sanguigne, mentre la cavità posteriore della testa è priva di vene».43 Esiste un asse che unisce i due organi in vista di ciò, entrambi infatti si trovano sul lato anteriore in funzione della percezione, rivolta in avanti. Essa viene dal cuore, ma perché il meccanismo vada a buon fine, come abbiamo visto, è necessaria un’operazione di raffreddamento della temperatura sanguigna tramite il cervello. Nonostante questa stretta interazione, si tratta però di un coinvolgimento indiretto, non sufficiente a sostenere un ruolo attivo della parte cerebrale in alcun funzionamento psichico. Sebbene la buona mescolanza tra il freddo e il caldo dei due organi, cuore e cervello, garantisca l’intelligenza dell’uomo, rimane l’indiscussa centralità del cuore nei processi cognitivi.44 L’affermazione sulla grandezza del cervello dell’uomo godrà di una fortuna 41 Le parti degli animali, II, 7, 653 a 37/653 b 1-8 : Καὶ ῥαφὰς δὲ πλείστας ἔχει περὶ τὴν κεφαλήν, καὶ τὸ ἄρρεν πλείους τῶν θηλειῶν, διὰ τὴν αὐτὴν αἰτίαν, ὅπως ὁ τόπος εὔπνους ᾖ, καὶ μᾶλλον ὁ πλείων ἐγκέφαλος· ὑγραινόμενος γὰρ ἢ ξηραινόμενος μᾶλλον οὐ ποιήσει τὸ αὑτοῦ ἔργον, ἀλλ’ ἢ οὐ ψύξει ἢ πήξει, ὥστε νόσους καὶ παρανοίας ποιεῖν καὶ θανάτους· τὸ γὰρ ἐν τῇ καρδίᾳ θερμὸν καὶ ἡ ἀρχὴ συμπαθέστατόν ἐστι καὶ ταχεῖαν ποιεῖται τὴν αἴσθησιν μεταβάλλοντός τι καὶ πάσχοντος τοῦ περὶ τὸν ἐγκέφαλον αἵματος. 42 Cfr. Le parti degli animali, II, 7, 653 b 2-8. 43 Le parti degli animali, II, 10, 656 b 22-26. 44 Cfr. La generazione degli animali, II, 6, 744 a 30-31. È anche la perfetta combinazione della miscela del suo sangue, caldo puro e rado, che rende l’uomo superiore in tal senso. Cfr. Le parti degli animali, II, 2, 648 a 2-13.
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enorme, nel corso dei due millenni a venire, diventando uno dei passi più citati nei trattati di medicina, con un esito particolare tra Medioevo e Rinascimento. In questo lungo arco temporale accade che la maggior parte degli autori riporti e commenti il passo aristotelico privandolo della seconda parte, in cui si spiega il perché del primato dell’uomo per ciò che riguarda le dimensioni cerebrali. Autori come Berengario da Carpi, Vesalio, Piccolomini, per citarne solamente alcuni tra i più noti, creano una relazione tra la questione della grandezza del cervello e la superiore intelligenza dell’uomo, non solo ponendo il primo in relazione ai sensi e alle capacità percettive, ma facendone addirittura la sede delle funzioni dell’anima razionale.45 L’esigenza cui molti sentono di dover dare seguito è la crezione di un’armonia tra l’aristotelismo dominante e la ormai affermata teoria encefalocentrica di origine galenica, al punto che anche l’argomento del calore maschile diviene un supporto della facoltà intellettiva: l’uomo è l’essere più caldo e perciò anche il più intelligente, prova ne sono le dimensioni cerebrali. Attraverso questo lungo percorso, la celebre frase giunge fino al lettore contemporaneo, divenendo uno dei principali simboli della misoginia aristotelica sulla base di una sovrapposizione culturale e di un paradosso interpretativo: si tratta certamente di un modello anatomico costruito secondo una gerarchia basata però non sul possesso di facoltà psico-intellettive più o meno sviluppate, ma sul consueto modello androcentrico fondato, in questo caso, sul calore. Che quest’ultimo abbia gioco nei processi sensoriali è fuor di dubbio, come anche la funzione di riequilibrio del cervello, ma attraverso un ruolo indiretto in un meccanismo che vede la centralità indiscussa del cuore.
Fragilità, pallore, inferiorità: una natura in bilico L’intrinseca freddezza, alla quale è connessa una certa idea di debolezza e fragilità del corpo, è, dunque, la caratteristica predominante della fisiologia femminile. Tra i vivipari questa inferiorità fisica si manifesta in una struttura ossea meno robusta, una carne tenera e porosa e, nel complesso, in una corporatura molto piccola. Le donne, in particolare, sono anche molto pallide a causa di una evacuazione mestruale particolarmente abbondante.46 Poiché si tratta della Cfr. Berengario da Carpi 1521, commentum XXXII, f. 410v.; Piccolomini 1586, p. 44; Vesalio 1543, p. 624. La generazione degli animali, I, 19, 727 a 18-25: Τὸ δ’ αὐτὸ τοῦτο δεῖ νομίζειν αἴτιον εἶναι καὶ τοῦ τοὺς ὄγκους ἐλάττους εἶναι τῶν σωμάτων τοῖς θήλεσιν ἢ τοῖς ἄρρεσιν ἐν τοῖς ζῳοτοκοῦσιν· ἐν τούτοις γὰρ ἡ τῶν καταμηνίων γίγνεται ῥύσις θύραζε μόνοις, καὶ τούτων ἐπιδηλότατα ἐν ταῖς γυναιξίν· πλείστην γὰρ ἀφίησιν ἀπόκρισιν γυνὴ τῶν ζῴων. διόπερ ἐπιδηλοτάτως ἀεὶ ὠχρόν τέ ἐστι καὶ ἀδηλόφλεβον, καὶ τὴν ἔλλειψιν πρὸς τοὺς ἄρρενας ἔχει τοῦ σώματος φανεράν. «La stessa cosa deve ritenersi la causa del fatto che nei vivipari le femmine hanno la statura del corpo inferiore a quella dei maschi. Soltanto nei vivipari si ha un flusso mestruale all’esterno, e più chiaramente di tutti nelle donne, perché la donna emette la secrezione maggiore tra gli animali. Perciò è sempre in modo molto riconoscibile pallida e con le vene nascoste, e presenta visibilmente una inferiorità corporea rispetto al maschio». 45 46
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femmina più umida tra tutte le specie essa emette anche la maggior quantità di secrezione mestruale ed il pallore (ὠχρόν) diviene, in tal modo, una delle marche specifiche del genere. Ancora una volta, la costruzione del corpo femminile avviene attraverso la comparazione e il riferimento ad un modello altro, quello maschile, mediante la coppia inferiore versus superiore basata sul binomio freddo-caldo. La freddezza femminile provoca un eccesso di liquidi nel corpo delle femmine a causa del quale si verifica mensilmente l’evento mestruale come meccanismo riequilibrante. Lo strumento che regola questo connaturato squilibrio idrico e che, al tempo stesso, ne costituisce l’evidenza empirica, è causa di una «inferiorità corporea» e del pallore della pelle. Quest’ultimo rientra tra i segni visibili della gravidanza, e la donna pallida è utilizzata da Aristotele come esempio di premessa sillogistica basata su ciò che è probabile o sul segno.47 Sebbene si tratti di un tipo di sillogismo sempre confutabile, non cogente da un punto di vista logico-scientifico, il biancore è annoverato tra i possibili elementi esteriori che inducono al pensiero di una gravidanza. L’assunto di base è sempre lo stesso: il sangue mestruale diviene, nei mesi di gestazione, nutrimento fetale, dunque è sottratto in un altro modo al corpo femminile, anche se non ne esce fuori, provocando il medesimo pallore. Nei Problemi lo stesso termine ἀχρός, che nelle opere biologiche descrive la carnagione femminile, compare ad indicare uno stato di cattiva salute, una sorta di putrefazione: «Perché la buona aereazione produce un buon colorito? È forse perché il pallore (ἄχροια) sembra come una putrefazione della superficie del corpo? Dunque, qualora questa superficie sia umida e calda, accade che divenga pallida, se non è raffreddata e non evacua il calore».48 Il colorito viene qui messo in relazione allo stato di salute del corpo, dunque la pelle pallida osservata da Aristotele per le donne parrebbe indicare una sorta di stato naturalmente patologico, o, in ogni caso, pronto per natura a sconfinare nella malattia. Dal punto di vista dell’osservazione medico-biologica è verisimile immaginare che le numerose gravidanze e il regime alimentare particolarmente povero debbano aver contribuito alla creazione di un’immagine della struttura fisica femminile come debole, costantemente in bilico tra salute e malattia, culturalmente condivisa.49 Il pallore femminile osservato dal filosofo è probabilmente connesso ad uno stile di vita ben determinato, quello, cioè, delle donne libere e cittadine, relegate, per lo più, entro le mura domestiche. È altrettanto evidente che la carnagione delle serve, per esempio, la cui esistenza non era confinata all’interno dell’oikos, avrebbe potuto essere una testimonianza a sfavore del pallore femminile come elemento congenito. Cfr. Analitici Primi, II, 27, 70 a 10-35. Problemi, XXXVIII, 4, 967 a 8-11. Si veda, su questo, Currie 1999; Demand 1994; Humphreys 1983; Pomeroy 1978. Del singnificato sociale della rappresentazione del biancore femminile, nella letteratura greca, discute Sassi 1988. 47 48 49
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Il passo ulteriore che Aristotele compie è quello di elevare questa caratteristica, insieme a tutte quelle che compongono l’immagine di un corpo fragile e bisognoso di guida e protezione, su un piano scientifico: ciò che è congenito testimonia la necessaria evidenza biologica dell’assegnazione di ruoli differenti a livello sociale.50 La natura stessa ha provvisto gli animali di corpi diversi in base ai diversi modi di vivere i quali, a loro volta, dipendono dall’appartenenza a un genere piuttosto che all’altro: «Gli animali grandi abbisognano di supporti più robusti, più grandi e più solidi, e fra di essi soprattutto quelli il cui modo di vita è più violento. Perciò le ossa dei maschi sono più dure di quelle delle femmine, e così quelle dei carnivori che si procurano il cibo combattendo».51 Il modus vivendi dei maschi determina la struttura del loro corpo che, a sua volta, trova conferma e ragion d’essere nello stile di vita. Sul piano etologico appare la trasposizione di ciò che accade nella società greca: gli uomini che vivono e agiscono nella dimensione pubblica, politica e comunitaria, le donne relegate in casa, dedite allo svolgimento delle funzioni domestiche. In un continuo gioco osmotico il livello socio-culturale trova giustificazione e spiegazione nell’ordinamento biologico-naturale il quale, a sua volta, ne rispecchia i dettami e la struttura, garantendone la validità: il comportamento degli animali concorre così a comprovare la naturale differenza tra i modi di vita, maschile e femminile. Questa differenza spiega il fatto che le femmine delle diverse specie animali siano prive di armi (corna, pungiglione, sproni), al contrario dei maschi. I denti si trovano in una posizione speciale, poiché oltre ad una funzione difensiva o di attacco sono anche strumenti utili alla nutrizione. Dunque persino le femmine ne sono provviste, anche se inferiori nel numero e meno sviluppati.52 Come molti hanno messo in luce, quest’ultima conclusione evidenzia un certo modo di condurre l’indagine scientifica, in relazione alla questione dei generi sessuali, del tutto orientato dal sopravvento dell’apriori sociale e culturale.53 Un dato come quello del numero dei denti non sarebbe stato difficile da verificare, ma la modalità assiomatica in cui ci viene consegnato ne fa uno dei punti cardine 50 Clark 1975: «Aristotle does select males and females for their contemporary Greek roles. The female is incomplete at social level: so also a biological» (210). 51 Le parti degli animali, II, 9, 655 a 10-14; cfr. II, 9, 52 Cfr. Le parti degli animali, III, 1, 661b, 28-30. Mi occuperò più avanti di questo brano, in maniera più diffusa, in relazione al problema della definizione dell’identità sessuale. 53 Keuls 1988 considera questa affermazione come il «nadir» della misoginia nella scienza aristotelica (162); Lloyd 1987 sostiene che «le aspettative generate dai suoi principi generali contribuiscono a portarlo fuori strada (...) E tuttavia, anche se le sue ricerche fossero state più ampie, accurate e precise, il preconcetto della superiorità maschile sarebbe rimasto invariato, in accordo coi presupposti ideologici dei suoi contemporanei sulle differenze tra uomini e donne» (81-85). Come Lloyd, anche Byl 1980 riconosce la presenza del pregiudizio; secondo Bourgey 1955, invece, si tratta di affermazioni che sono «conséquence de la manière hâtive, encyclopédiste dont Aristote menait ses enquête» (85). Mayhew nega la presenza di un’osservazione scientifica orientata dal pregiudzio sociale, mentre Dean Jones 1994 ritiene che una spiegazione possibile sia il fatto le donne avessero per lo più una dentatura difettosa, sempre a causa della malnutrizione (Cfr. 82 n. 36). Sugli apriori in relazione al problema dei sessi si veda Sassi 1988.
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di un modo di costruire un’immagine del corpo femminile plasmata sul modello di un pensiero presupposto. Al maggior numero di denti è associato un altro tema, e cioè quello della longevità: «Più denti ha un animale, più a lungo di solito esso vive; quelli che ne presentano pochi e radi, hanno per lo più vita breve».54 I maschi, che ne hanno di più, vivono anche più a lungo. Esistono alcune eccezioni, tra le varie specie animali, che non sono in grado di mettere in discussione la validità del paradigma generale e ne confermano, piuttosto, l’assunto.55 Si tratta di specie che occupano i ranghi inferiori, nella scala lungo cui sono pensati tutti gli esseri viventi: larvipari, ovipari, pesci in generale. Anche il mulo invecchia prima delle femmina, ma questo accade a causa della sua abitudine di odorare l’urina femminile che avrebbe effetti senescenti.56 Vi è poi il caso della cagna di Laconia, più longeva del maschio, il quale però conduce una vita più faticosa e per questo motivo giunge per primo alla morte e, infine, quello dei cavalli maschi i quali, indeboliti dall’attività della monta, muoiono prima delle cavalle.57 Tutti gli esempi riportati non fanno che riconfermare la normalità di una diversa consuetudine ed anzi, nel caso del mulo e del cavallo, si tratta di invecchiamento e morte per cause legate ad elementi collegati al femminile: l’odore letale dell’urina e l’eccesso di attività sessuale. L’affermazione generale che i maschi vivano di più delle femmine, insomma, non viene mai messa in discussione dalle numerose eccezioni che non compromettono la tesi generale.58 Ritornando al problema del numero dei denti, appare in tutta evidenza il motivo per cui esso sia considerato come un esempio significativo rispetto ad un modo di trattare le questioni legate al femminile. I maschi sono più robusti e hanno più denti, perché il loro modo di vivere lo richiede, e vivono anche più a lungo delle femmine. Viene così mantenuta in piedi la consueta gerarchia tra femminile e maschile, costruita anche attraverso la categoria quantitativa del più e del meno, la quale, in certi casi, sovrasta e sostituisce l’accuratezza stessa dell’indagine scientifica. Proprio a partire da una visione del femminile così condivisa e considerata naturale, da una situazione sociale e politica così ben determinata, la costruzione, la rappresentazione del corpo femminile avviene in maniera già orientata. La norma sociale e dominante stabilisce ciò che è vero per 54 Ricerche sugli animali, II, 2, 501 b 22-24: Ὅσοι δὲ πλείους ἔχουσι, μακροβιώτεροι ὡς ἐπὶ τὸ πολύ εἰσιν, οἱ δ’ ἐλάττους καὶ ἀραιόδοντες ὡς ἐπὶ τὸ πολὺ βραχυβιώτεροι. 55 Come sostiene Saïd 1983 tutto ciò «ne remet à aucun moment en question la thèse générale de la supériorité du mâle, mai au contraire la sert, en s’inscrivant dans une logique du monde à l’envers qui montre dans les derniers degrés de la hiérarchie des vivants un renversement des normes qui régissent les espèces supérieurs» (108). 56 Cfr. Ricerche sugli animali, VI, 24, 578 a 1-4. 57 Cfr. Ricerche sugli animali, VI, 20, 574 b 29 / 575 a 1-5; Ricerche sugli animali, VI, 22, 576 a 26-30 / 576 b 1-4; Cfr. Ricerche sugli animali, IX, 7, 613 a 24-28, dove viene descritto il caso dei colombi e delle tortore. 58 Lloyd 1987: «il principio gli consente di neutralizzare con fin troppa facilità i dati di segno contrario» (81).
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natura, indipendentemente dal fatto che questo sia stato osservato ed empiricamente provato, come nel caso dei denti, e l’indagine empirica stessa parte già da un assunto di base che tende a confermare il più delle volte il dato presupposto. Se l’assunto di base, stabilito dagli uomini, è quello di una inferiorità sociale della donna, questo avrà delle ripercussioni anche sul modo di rappresentarne il corpo, in un modo che sia di partenza ideologicamente indirizzato.59
L’utero e il latte materno: il calore femminile L’utero è l’organo che più di tutti caratterizza le femmine dei vivipari e la donna fra questi. Prevedibilmente, neppure il modello genitale sfugge alla modalità di rispecchiamento con il maschile e l’utero, sulla base dell’analogia con i testicoli, è anch’esso duplice.60 D’altro canto la radicale diversità che separa il principio riproduttivo maschile da quello femminile determina e, nello stesso tempo, trova evidente conferma nella struttura dei due apparati genitali. L’organo femminile possiede una certa grandezza in vista del corretto espletamento delle proprie funzioni. La madre offre la materia sulla quale agisce l’impulso maschile e garantisce la crescita e il sostentamento dell’embrione attraverso il nutrimento, una volta avvenuto il concepimento.61 La sede in cui tutti questi processi hanno luogo è proprio il ricettacolo uterino, il quale deve essere dotato di dimensioni adeguate in relazione al supporto e allo sviluppo del nascituro.62 D’altro canto, la massa sanguigna prodotta in così grande quantità dalla femmina, a causa della sua insufficienza termica, richiede di essere accolta in un luogo ampio come la cavità uterina.63 A conferma dell’importanza dello stretto legame tra funzione, organo e natura femminile, anche nella biologia aristotelica compare l’immagine dell’utero vagante in preda al desiderio della riproduzione, emblema della donna–matrice sottoposta agli spostamenti del proprio organo riproduttivo bramoso di essere riempito e trovare così pacificazione: «In molte donne che avvertono il bisogno del rapporto amoroso, o perché si trovano nel fiore della loro giovinezza o perché se ne sono a lungo astenute, l’utero scende 59 Lloyd 1987: «ciò che è naturale corrisponde non a ciò che è vero nella maggior parte dei casi, ma alla norma o all’ideale fissato dagli animali superiori, e soprattutto della specie giudicata suprema, cioè l’uomo» (271). 60 Cfr. La generazione degli animali, I, 3, 716 b 32-33. Dean Jones 1994 sottolinea l’impossibilità di una confusione con la duplicità delle ovaie, la cui esistenza verrà scoperta solo in seguito dal medico alessandrino Erofilo. Durante il convegno “The Matrix of the World: Cultural Constructions of the Uterus”, svoltosi a Roma nel novembre del 2013, Helen King ha ipotizzato che questo tipo di rappresentazione possa derivare da osservazioni compiute su animali dotati di un utero dalla forma effettivamente o apparentemente duplice. 61 Cfr. La generazione degli animali, II, 4, 738 b 36 / 739 a 1-2. 62 Cfr. La generazione degli animali, I, 22, 730 a 32-35 / 730 b 1-8. 63 Cfr. La generazione degli animali, IV, 1, 766 b 18-26. Per una prospettiva antropologica su questo tema si veda, in particolare, Héritier 1997.
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in basso, e le mestruazioni compaiono spesso tre volte al mese, finché non concepiscono; allora l’utero risale nella sua sede appropriata».64 Il soddisfacimento, la fine del vagare inquieto avviene solamente quando il compito che gli è proprio giunge a compimento ed il concepimento è avvenuto. Lo sperma, nel quale è contenuto l’impulso maschile, scorre invece attraverso condotti di cui non è specificata la grandezza, ma la cui unica funzione è appunto quella di contenere il seme del maschio. In altri termini, il contributo maschile alla generazione non è legato all’elemento spermatico nella sua materialità, ma risiede, piuttosto, nella spinta vitale contenuta in esso grazie allo pneuma e al calore. Ritornando alla struttura uterina, è proprio grazie al paragone con l’apparato genitale maschile che viene meglio esplicitata la funzione contenitiva dell’organo femminile: «In tutti gli animali l’utero è interno, mentre i testicoli in alcuni sono interni, in alcuni esterni. La causa per cui l’utero è interno per tutti è che in esso è contenuto l’essere che si forma, e questo ha bisogno di essere custodito, protetto e cotto, mentre la parte esterna del corpo è facilmente vulnerabile e fredda».65 Il ragionamento aristotelico si avvale nuovamente della contrapposizione tra maschile e femminile attraverso il paragone con i testicoli. Privi di alcuna funzione contenitiva, trovano collocazione indifferentemente all’interno o all’esterno del corpo del maschio, a differenza dell’utero che rimane all’interno, in virtù della propria funzione protettiva. La custodia e la cura della prole, prerogativa femminile per natura, inizia già dal primo istallarsi del feto nella matrice uterina e la natura provvede a fornire il corpo materno dell’organo più adatto ad espletare questo tipo di mansioni.66 Il corpo femminile assume una configurazione tale, nella zona del ventre, da poter garantire la presenza dell’utero e il suo eventuale rigonfiamento durante la gravidanza.67 64 Ricerche sugli animali, VII, 3, 582 b 22-26: Πολλαῖς δὲ καὶ διὰ τὸ δεῖσθαι τῆς συνουσίας ἢ διὰ τὴν νεότητα καὶ τὴν ἡλικίαν, ἢ διὰ τὸ χρόνον ἀπέχεσθαι πολύν, καταβαίνουσιν αἱ ὑστέραι κάτω, καὶ τὰ γυναικεῖα γίνεται πολλάκις τρὶς τοῦ μηνός, ἕως ἂν συλλάβωσιν· τότε δ’ ἀπέρχονται πάλιν εἰς τὸν ἄνω τόπον τὸν οἰκεῖον. 65 La generazione degli animali, I, 12, 719 a 30-35. 66 Cfr. La generazione degli animali, I, 11, 719 a 12-24; I, 12, 719 b 24-27; Le parti degli animali, II, 9, 655 a 1-4; cfr. anche IV,10 688b 34 - 36/ 689a 1-3. 67 Le parti degli animali, II, 9, 655 a 1-4: τὰ δὲ περὶ τὴν κοιλίαν ἀνόστεα πᾶσιν, ὅπως μὴ κωλύῃ τὴν ἀνοίδησιν τὴν ἀπὸ τῆς τροφῆς γινομένην τοῖς ζῴοις ἐξ ἀνάγκης καὶ τοῖς θήλεσι τὴν ἐν αὐτοῖς τῶν ἐμβρύων αὔξησιν. «Le parti intorno al ventre sono sempre prive di ossa, in modo che non trattengano la dilatazione generata dagli animali per necessità dal nutrimento e, nelle femmine, la crescita degli embrioni che sono in esse». Cfr. anche IV,10 688b 34 - 36/ 689a 1-3. L’accostamento tra digestione e concepimento è piuttosto insolito per Aristotele, dal cui uso metaforico è solito prendere le distanze. Nel costruire la propria teoria sulla generazione e sulla maternità il filosofo mantiene quasi sempre una distinzione tra funzione uterina e apparato digerente, evitando qualsiasi tipo di promiscuità simbolica. Sissa 1983 sottolinea la distanza, in questo evitamento, rispetto ai medici ippocratici, per i quali «la metafora alimentare funziona come una vera e propria omonimia: l’orifizio uterino è to stoma, la gravidanza è descritta come en gastri lambanein, syllambanein, echein (Mul. I 3, L VIII 24). Aristotele, nel costruire la teoria della
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La funzione dell’utero permette inoltre un passaggio degno di nota, altrettanto basato sulla consueta opposizione caldo-freddo. Se considerato non più soltanto come il contenitore del liquido freddo per eccellenza, e cioè il sangue mestruale, ma come il luogo di protezione dell’embrione, l’organo femminile diviene il luogo del calore e la dicotomia che solitamente identifica i due generi, in questo caso, rimane del tutto interna al corpo della femmina. Il concepimento ha luogo nei giorni successivi alla mestruazione, quando l’utero, una volta alleggerito del sangue mestruale, giunge al massimo del calore. Se esso è avvenuto, i pessari umidi introdotti nella zona iniziale del collo dell’utero sono caldi, quando vengono estratti. Il calore uterino è in grado di risucchiare il seme depositato dal maschio.68 Meno evidente della scomparsa del mestruo, inoltre la secchezza della vulva è un segno altrettanto significativo: «Un segno che la donna ha concepito si ha quando il luogo diventa secco immediatamente dopo il coito. Se poi le labbra della vulva sono lisce, la donna non riesce a concepire, perché lo sperma scivola via, e neppure se sono spesse. Se invece le labbra restano piuttosto rugose e resistono alla pressione del dito, e inoltre se sono sottili, si trovano allora in una condizione propizia al concepimento».69 Non è il contatto con lo sperma a provocare l’aumento del calore, poiché anch’esso, una volta penetrato nell’utero, fuoriesce ancora più secco e compatto, quasi vi fosse un ritorno di temperatura.70 Dal punto di vista del concepimento e della gravidanza, l’organo femminile, da ricettacolo di materia sanguigna fredda e inerte da evacuare mensilmente, è descritto come un luogo caldo e protettivo già dai primissimi momenti del processo generativo, quando si trova nelle condizioni di attrarre a sé lo sperma maschile.71 maternità come nutrizione, nel fare della madre un alimento passivo divorabile e non divorante, elide esplicitamente la possibile confusione di utero e stomaco. Da un lato, gaster denota la zona che si radicava nell’utero materno tramite l’ombelico, indizio fossile dell’autotrofia originaria dell’embrione (HA 493 a 16), per un osservatore che guarda l’esterno del corpo. Dall’altro, preso come organo interno, lo stomaco è koilia (495 b 19 passim). E se nei testi aristotelici la gravidanza non è mai pensata come un esteriore e generico rigonfiamento del «ventre» (altre sono le espressioni che significano la gestazione), le vie dello stomaco e quelle dell’utero sono ben distinte» (103). Evitare qualsiasi confusione tra stomaco e utero equivarrebbe al rafforzamento di un’immagine della madre del tutto passiva, semplice supporto protettivo e alimentare per l’embrione. 68 Cfr. La generazione degli animali, II, 4, 739 a 35-37 / 739 b 1-6. 69 Ricerche sugli animali, VII, 583 a 14 - 19. 70 Cfr. Ricerche sugli animali, III, 22, 523 a 23 - 26. 71 Salomone 1991 ha condotto uno studio sul rapporto tra biologia aristotelica e poesia. A proposito dell’utero, in particolare, il termine di paragone poetico è Esiodo e, quindi, «occorre notare che in Esiodo la terra è φερέσβιος (sorgente di vita) o comunque accompagnata da un appellativo che ne denota le caratteristiche positive, quando è vista in rapporto all’immagine del generare, altrimenti viene indicata dal poeta come buia, caliginosa, materializzazione della tenebra e dell’oscurità così come la Notte non è assenza di luce, ma fisicità di buio che si sostituisce alla luminosità del giorno. La funzione dell’utero, attribuita alla donna da Aristotele, si avvicina molto a questa concezione di Gea che fa parte di credenze popolari accolte in poesia» (163).
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L’umidità femminile passa in secondo piano e il calore, segno dell’avvenuto concepimento, garantisce la funzionalità stessa dell’utero durante la gravidanza, ma il processo ha inizio fin dal coito andato a buon fine, a partire dai genitali femminili. Il tema dell’aumento di temperatura ci consente di affrontare un altro argomento: quello del latte materno, strettamente legato alla funzione nutritiva femminile. Prima della nascita, l’embrione trae il proprio sostentamento dal cordone ombelicale come da una radice, utilizzando per la propria crescita quel supporto materiale nel quale consiste il contributo femminile alla riproduzione. Per questo motivo le donne non hanno le mestruazioni durante il periodo della gravidanza, poiché il sangue concorre a formare il nascituro; se accade che continuino ad averle, per qualche ragione, partoriranno figli malsani con scarsa possibilità di sopravvivenza.72 Questo rapporto osmotico tra gli umori femminili si basa sulla rappresentazione di un corpo concepito come un’unica cavità attraversata da liquidi che scorrono in vasi comunicanti i quali, a seconda dell’opportunità, prendono il posto l’uno dell’altro.73 Mestruo, nutrimento embrionale e latte condividono la stessa origine sanguigna: ciò che era evacuato sotto forma di perdita mestruale viene convertito in nutrimento interno il quale, una volta avvenuta la nascita, si traduce in latte materno.74 Quest’ultimo, però, a differenza del mestruo è cotto, si trova in uno stato termico avanzato: «Si è dunque detto anche prima ed è chiaro che il latte si trova ad avere la stessa natura della secrezione dalla quale si produce ciascun individuo. È identica la materia che nutre e quella da cui la natura opera il processo di concentrazione. E questa materia è costituita negli animali sanguigni dal fluido sanguigno; il latte è, infatti, sangue cotto e non corrotto».75 Pur mantenendo una specificità del tutto femminile, il latte materno possiede alcune caratteristiche inusuali per la fisiologia femminile, quali il calore e la purezza, che lo avvicinano allo sperma. La più femminile delle prerogative si serve di uno strumento i cui attributi normalmente servono al filosofo per parlare del corpo maschile e della sua potenza termica. Quest’ultima garantisce la capacità fecondante del padre mentre, al contrario, la sua diminuzione o assenza totale condanna la femmina alla passività e alla sterilità. La zona deputata alla conservazione del latte materno sono le mammelle, delle quali Aristotele nota la presenza sia nei maschi che nelle femmine.76 Mentre la carnosità del seno maschile ha, come unica funzione, la protezione della zona Ricerche sugli animali, VII, 2, 582 b 19-22. Cfr. Sissa 1983 (100). 74 Cfr. La generazione degli animali, IV, 8, 776 a 15 - b35; IV, 8, 777 a 12 - 21; Ricerche sugli animali, VII, 3, 583 a 31 - 34. 75 La generazione degli animali, IV, 8, 777 a 3 - 8. 76 Cfr. Le parti degli animali, IV, 10, 688 b 30-33. Aristotele arriva persino ad osservare la presenza di latte nei maschi, ma afferma, subito dopo, che la loro carne è molto più compatta. Cfr. Ricerche sugli animali, I, 12, 493 a 11-16. 72
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cardiaca, quella femminile, molto più sviluppata, serve a garantire una sorta di serbatoio del nutrimento per il neonato.77 Poiché il maschio possiede una secrezione perfettamente cotta e fertile quale lo sperma, inoltre, necessariamente sarà provvisto anche del suo antecedente termico, cioè il latte, che però non serve al nutrimento della prole, essendo, quest’ultima, prerogativa del tutto femminile. La carne del petto maschile, si affretta a precisare Aristotele, è molto più compatta e meno porosa di quella delle femmine.78 Nonostante l’utilizzo di categorie valorizzanti utilizzate in relazione alla fisiologia dei maschi e nonostante il parallelismo tra il petto femminile e maschile, in definitiva, la prerogativa specifica del latte rimane confinata in ambito materno.
Il vigore del corpo materno Un altro elemento che introduce uno sguardo differente, sull’anatomia femminile, è relativo alla prestanza fisica delle madri. Alcune femmine di alcune specie animali, per esempio, sono dotate di una certa dimensione del corpo proprio in vista del compito riproduttivo che le attende. Le femmine dei pesci, per citare un caso, hanno il corpo più grosso «in vista della massa che in esse si produce per effetto delle uova durante la gestazione»79 e le api regine possiedono una certa grandezza «come se il loro corpo fosse fatto apposta per la produzione della prole».80 Oltre a questo accostamento tra grandezza naturale del corpo e maternità, un certo vigore fisico è indicato, da Aristotele, come una delle condizioni necessarie per la buona riuscita del parto: «Ora negli altri animali il parto non è laborioso, anzi si vede bene che le femmine soffrono nel travaglio disturbi piuttosto moderati; nelle donne invece le doglie sono più forti, soprattutto in quelle che conducono vita sedentaria, o che non hanno i fianchi larghi (εὔπλευροι) e non riescono a trattenere il respiro. Ma il parto risulta ancor più difficile se durante il travaglio emettono il respiro mentre esercitano uno sforzo con il fiato».81 Perché il parto risulti agevole, dunque, bisogna possedere fianchi e polmoni forti. 77 Cfr. Ricerche sugli animali, I, 12, 493 a 11 - 16; VII, 11, 587 b 19 - 26; Cfr. Le parti degli animali, IV, 10, 688 a 17 - 24. Sissa 1983 considera il parallelo tra petto maschile e seno femminile come ulteriore strumento di discredito della fragile fisiologia delle femmine e sostiene: «Il più e il meno è spostato dalla differenza morfologica all’opposizione codificata di compattezza e porosità, in cui compattezza sottintende un processo positivo di aggregazione e riscaldamento, mentre porosità, cavità, umidità sono l’effetto di una solidificazione mancata. Il seno femminile, quindi, non è più sviluppato, è un’espansione della carne areata e molle delle donne; un altro segno della sua freddezza, benché più grande, è un difetto» (98). 78 Cfr. Ricerche sugli animali, I, 12, 493 a 11-16. I maschi però hanno una carne molto meno porosa e friabile di quella femminile, anche nella zona del petto. 79 La generazione degli animali, I, 16, 721 a 17-20. 80 La generazione degli animali, III, 10, 760 b 7-10. 81 Ricerche sugli animali, VII, 9, 586 b 35 / 587 a 1-5.
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Ciò che in ambito biologico viene presentato sotto forma di osservazione, nella Politica appare tre le prescrizioni che il buon legislatore avrà cura di fornire in materia di generazione. L’esortazione alla pratica di una moderata attività fisica, raccomandata sia agli uomini che alle donne, compare tra le norme mirate ad ottenere un buon esito riproduttivo. Non si tratta di un allenamento simile a quello degli atleti, del tutto sconveniente per il cittadino e l’uomo libero, quanto piuttosto di un equilibrato esercizio che permetta alle donne di giungere al parto allenate, con corpo vigoroso e pronto a sopportarne le fatiche.82 Oltre all’esercizio fisico, la giusta condizione viene raggiunta mediante un equilibrio nell’assunzione di cibo. Da un lato, è necessario che vi sia una certa abbondanza nel nutrimento prima del concepimento, durante i mesi di gestazione e dopo la nascita, per continuare a garantire sostentamento al neonato.83 Come testimonia il comportamento non solo delle donne, ma di diversi animali, in particolare vivipari e quadrupedi, è la stessa femmina gravida a sentire l’esigenza di un incremento di cibo durante i mesi della gestazione.84 Per essere in grado di generare, e per farlo nel migliore dei modi, il consumo dei cibi deve mantenersi però equilibrato, affinché un eccesso d’adipe non comprometta la naturale fecondità del corpo. È un fatto che riguarda sia i maschi sia le femmine, poiché il grasso condivide la medesima natura residuale dello sperma e del mestruo: una presenza eccessiva dell’uno comporterebbe una diminuzione degli
82 Politica, VII, 16, 1335 b 6-13: «La costituzione degli atleti non è adatta alla prestanza fisica necessaria in un cittadino né alla salute né alla generazione di figli, e neppure una costituzione malaticcia e troppo sofferente delle fatiche: adatta è invece quella che sta al centro tra le due. Bisogna dunque avere una costituzione esercitata, esercitata, però, non in esercizi violenti e neppure in uno solo, com’è la costituzione fisica degli atleti, bensì nelle attività dell’uomo libero. E questo deve avvenire nella stessa misura per gli uomini e per le donne». Per ciò che riguarda le donne, in particolare, esiste già una tradizione sulla sconvenienza di un allenamento simile a quello degli atleti. Nella Repubblica platonica le guardiane devono avere la stessa preparazione fisica degli uomini. Ma Socrate è ben consapevole che vedere le donne nude nelle palestre sarà oggetto di riso (cfr. V, 452a). Secondo Campese 1997 «La guardiana nuda, intenta alle pratiche della palestra, traduce in una rappresentazione corporea l’identità dell’iter educativo, l’identità di natura che questo presuppone. Sulla sua immediata, sensibile percepibilità, si appunteranno le critiche dei detrattori, portavoce del senso comune, del costume. (…). La definizione di «ridicolo» scivola insensibilmente dal registro estetico a quello morale: la nudità dei corpi offende gli occhi perché offende la norma etica, l’anima. Quello che esibisce la guardiana è uno spettacolo brutto perché turpe, aischron, secondo le regole che distribuiscono i ruoli e i luoghi all’interno della città» (46). La donna forte come un uomo costituisce un paradosso estetico e sociale, ridicolo e brutto proprio perché turpe. Non a caso, nel teatro comico ateniese, troviamo la figura della Spartana, che ne è la rappresentazione per eccellenza (cfr Aristofane, Lisistrata, vv. 79-84). Nella Costituzione degli Spartani Senofonte, d’altro canto, elogia la legislazione di Licurgo, il quale aveva istituito «delle corse e delle prove di forza fra donne, simili a quelle fra uomini, convinto com’era che se ambedue i sessi si fossero rivelati vigorosi, avrebbero avuto dei rampolli più robusti» (I, 4). L’attività che, invece, l’ateniese Iscomaco consiglia alla moglie, come apprendiamo sempre da Senofonte, è una ginnastica particolare, che ha a che fare con le faccende domestiche (cfr. Economico X, 10-11). 83 Cfr. Ricerche sugli animali, III, 21, 522 b 30-32. Il nutrimento abbondante è considerato tra le cause del parto gemellare. Cfr. Ricerche sugli animali, VI, 14, 573 b 30-32. 84 Cfr. Ricerche sugli animali, VI, 18, 573 a 25-27.
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altri due e una minaccia per la fecondità.85 Il riconoscimento dell’importanza sociale del ruolo riproduttivo delle donne, in definitiva, sul piano anatomico avviene mediante l’utilizzo di indicatori valorizzanti pertinenti al corpo e che connotano usualmente la positività della fisiologia maschile quali il calore, la purezza e la forza fisica. Attraverso un paradosso biologico però, essi vengono rivolti al più femminile degli ambiti, che è quello della funzione materna.
3. Sessualità e maternità nella biologia aristotelica Impurità, liquidità, illimitatezza: l’eros femminile Il paradigma negativo, che emerge dalla riflessione biologica sul femminile, rispecchia una ben determinata ideologia sociale e politica, la quale, a sua volta, trova conferma della naturalezza delle proprie strutture mediante l’osservazione scientifica.86 La traduzione della passività femminile ad un livello speculativo filosofico-metafisico, mediante l’identificazione con il principio della materia che accoglie la forma maschile, descrive e rispecchia una condizione sociale che è quella delle donne all’epoca di Aristotele. Fin dalla prima fanciullezza, l’educazione di ogni giovane cittadina avviene attraverso un lungo percorso iniziatico che ne indirizza correttamente le passioni infantili e la prepara alle nozze.87 Un matrimonio in giovanissima età consegnerà la fanciulla alla custodia di un marito tutore, sotto l’auspicio di una prole numerosa e maschile.88 L’istituto matrimoniale, con la conseguente circolazione dei beni e dei patrimoni, rende le donne delle unità mobili, di passaggio da un oikos all’altro. In tal modo, pur essendo tale circolazione assolutamente necessaria, esse avvicinano ambiti differenti e distinti la cui unione potrebbe implicare la presenza di elementi di disgregazione e crisi.89 Se, come dice Vernant «una «lordura»90 implica un contatto contrario a un certo ordine del mondo in quanto stabilisce una comunicazione tra realtà che devono rimanere ben distinte», ben si comCfr. La generazione degli animali, I, 18, 726 a 3-6; II, 7, 746 b 24-31; Ricerche sugli animali, III, 18, 520 b 6. Di questo modo di procedere discute Okin 1979. Si veda anche Campese 1983, Deslauriers 1998, Sissa 1983, Witt 1998. 87 Demand 1994: «The lives of free citizen girls as they grew up were centered in the oikos where they could be protected (...). The girls was carefully watched and guarded to protect her honor-and that of the oikos-until she could be safely married off» (9). 88 Vérilhac et Vial 1998: «Pour ce qui est des femmes nous avons vu, en étudiant le registre de dots de Myconos, que les Grecs préféraient marier jeunes leurs filles et leurs sœurs (…). L’âge légal minimum était très bas à Gortyne, 12 ans. Il était de 14 ans à Thasos et à Athènes» (215). Come osserva Campese 1997 «il contratto matrimoniale, l’engye, criterio di identificazione di un rapporto codificato, costituisce un accordo tra uomini, che sancisce la circolazione della donna da una casa all’altra: il kyrios (tutore)-padre la trasmette al kyrios-marito, affinché il suo focolare possa essere custodito e perpetuato» (15). 89 Cfr. Sissa 1983 (126). 90 Vernant 1981 (121). 85 86
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prende come questa speciale propensione femminile per l’impurità derivi anche e soprattutto dalla una specifica funzione biologica: il concepimento e il parto. Attraverso la nascita ogni donna partecipa in modo diretto alle leggi di natura e nello stesso tempo occupa lo spazio liminare tra la vita e la morte, motivo per cui le è affidato il compito di accompagnare il defunto nel commiato funebre con i riti che si confanno ad esso e, allo stesso tempo, subisce numerose interdizioni di carattere religioso.91 La ragione strettamente fisiologica, che rende la donna propensa alla trasgressione del limite e all’impurità, va ricercata, con tutta probabilità, nella sua connaturata umidità.92 La sua natura fredda, umida, la spugnosità delle carni e la presenza di umori eccessivi che richiedono la periodica evacuazione mestruale sono temi che attraversano l’intera letteratura medico-scientifica fino ad arrivare ad Aristotele.93 Oppure, d’altro canto, come in un gioco di rimandi speculari, è il potere contaminante ad esse attribuito a favorirne una rappresentazione fisiologica che vada in tal senso. In ultima analisi, questo tipo di rappresentazione fisiologica contiene, in sè, una particolare idea della sessualità delle donne. Creature umide e liquide, dotate di un corpo dai confini labili, per questo motivo appaiono anche più vulnerabili agli attacchi di Eros e resistenti all’indebolimento provocato dall’eccesso del calore dovuto al coito: fisicamente non avvertono nessun bisogno di controllare un desiderio potenzialmente inesauribile.94 91 Zaidman 1990 osserva come le donne, in quanto «padrone della nascita» e, quindi, in contatto con le più recondite e selvagge leggi di natura, «recitano anche a questo titolo una parte specifica nei rituali che accompagnano la morte» (412-413). A proposito dell’idea del limite e del confine quali garanti del mantenimento dell’ordine esistente e della particolare e connaturata abilità femminile, nel violare tale ordine, Carson 1990 osserva: «In such a society, individuals who are regarded as specially lacking in control of their own boundaries, or as possessing special talents and opportunities for confounding the boundaries of others, evoke fear and controlling action from the rest of the society. Women are so regarded by men in ancient society (...) As members of human society, perhaps the most difficult task we face daily is that of touching one another-whether the touch is physical, moral, emotional, or imaginary. Contact is crisis. (...) The difficulty presented by any instance of contact is that of violating a fixed boundary, transgressing a closed category where one does not belong. The ancient Greeks seem to have been more sensitive than we are to such transgression and to the crucial importance of boundaries, both personal and extra personal, as guarantors of human order» (135). 92 Carson 1990 «Physiologically and psychologically, women are wet» (137). 93 Ricerche sugli animali, IV, 11, 538 b 7-12: Καὶ ἀνευρότερον δὲ καὶ ἀναρθρότερον τὸ θῆλυ μᾶλλον, καὶ λεπτοτριχώτερον, ὅσα τρίχας ἔχει· τὰ δὲ μὴ τρίχας ἔχοντα κατὰ τὸ ἀνάλογον. Καὶ ὑγροσαρκότερα δὲ τὰ θήλεα τῶν ἀρρένων καὶ γονυκροτώτερα, καὶ αἱ κνῆμαι λεπτότεραι· τοὺς δὲ πόδας γλαφυρωτέρους, ὅσα τὰ μόρια ταῦτ’ ἔχει τῶν ζῴων «La femmina è meno dotata di tendini e ha articolazioni meno robuste; ha pelo più sottile negli animali che hanno pelo, e così dicasi per la parte ad esso analoga in quelli che ne sono privi. Le carni della femmina sono più umide di quelle dei maschi, le ginocchia più ravvicinate, le gambe più sottili, i piedi più delicati, s’intende negli animali che possiedono queste parti». 94 Sissa 2003 discute sulle rappresentazioni del desiderio e dell’appetizione nei dialoghi platonici. In particolare, sottolinea la frequenza della metafora alimentare per esprimere l’idea di un desiderio mai completamente colmabile attraverso gli oggetti particolari. A proposito dell’anima desiderante, che nel Timeo (70d-73a) viene fatta risiedere nel ventre, scrive: «Mentre il corpo architettato dagli dei è fatto in
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Se l’associazione femminile-liquido non sfugge nemmeno al pensiero aristotelico, il legame tra l’umido e l’illimitato appare chiaramente nel trattato La generazione e la corruzione, in cui ciò che è umido viene descritto come ciò che «non può essere limitato con un limite propriamente suo, ma si lascia delimitare da altro, ed è, invece, secco ciò che è facilmente delimitato da un limite propriamente suo, ma si presta difficilmente ad essere delimitato da altro».95 Il legame tra l’umidità e la liquidità della natura femminile e l’erotismo, in particolare, costituisce il tema di uno dei Problemi in cui si discute della resistenza sessuale durante la stagione estiva: «Perché in estate gli uomini sono meno capaci di fare l’amore, le donne invece lo sono di più, come dice anche il poeta: all’epoca del cardo «le donne sono piene di desiderio, gli uomini invece molto fiacchi»? Forse perché i testicoli scendono più che in inverno, mentre è necessario che risalgano se si vuole fare l’amore? Oppure perché le nature calde si accasciano in estate, perché il caldo è eccessivo, mentre la nature fredde prendono vigore? E poiché l’uomo è secco e caldo, la donna invece fredda e umida, la forza dell’uomo si affievolisce, mentre quella della donna cresce per l’azione riequilibratrice della qualità contraria».96 Infine, la rappresentazione del desiderio sessuale femminile, all’interno del mondo animale, costituisce una sorta di prova evidente della correttezza delle osservazioni teoriche. Si tratta di una forza cogente, folle, una sorta di furor incontrollabile, urgente e pressante. L’etologia aristotelica mostra l’eros femminile in tutta la sua carica dirompente e la sua insofferenza del limite.97 È a questo proposito che Aristotele inserisce un elemento normativo, in relazione ai costumi sessuali: la gravidanza. Oltre ad un valore prettamente biologico, l’evento femminile per eccellenza acquisisce per Aristotele un significato etico, perfettamente inserito all’interno di una concezione medico-ginecologica che vede nel concepimento il fattore riequilibrante di una natura in perenne squilibrio umorale. Anche nella biologia aristotelica compare l’immagine dell’utero modo che l’intestino rimanga pieno per un certo periodo di tempo e che quindi l’appetito si plachi per un poco, l’anima desiderante ha un’anatomia metaforica che la rende simile ad un corpo privo d’intestino, in cui scorre incessantemente un flusso di materia. (...) Il desiderio sessuale rientra in questa rappresentazione. Mentre sarebbe lecito aspettarsi una trasfigurazione visiva del desiderio erotico e fallico soltanto in un’immagine di aggressività e di protuberanza (…) Platone estende alla sessualità maschile la metafora di una cavità incontinente. L’anima desiderante degli uomini non riflette il loro corpo desiderante. L’anima desiderante somiglia a un corpo femminile» (56). 95 La generazione e la corruzione, II, 2, 329 b 29 - 31: ὑγρὸν δὲ τὸ ἀόριστον οἰκείῳ ὅρῳ εὐόριστον ὄν, ξηρὸν δὲ τὸ εὐόριστον μὲν οἰκείῳ ὅρῳ, δυσόριστον δέ. 96 Problemi, IV, 25, 879 a 26 - 35: Διὰ τί ἐν τῷ θέρει οἱ μὲν ἄνδρες ἧττον δύνανται ἀφροδισιάζειν αἱ δὲ γυναῖκες μᾶλλον, καθάπερ καὶ ὁ ποιητὴς λέγει ἐπὶ τῷ σκολύμῳ “μαχλόταται δὲ γυναῖκες, ἀφαυρότατοι δέ τοι ἄνδρες.” πότερον ὅτι οἱ ὄρχεις καθίενται μᾶλλον ἢ ἐν τῷ χειμῶνι; ἀνάγκη δέ, εἰ μέλλει ἀφροδισιάζειν, ἀνασπάσαι. ἢ ὅτι αἱ θερμαὶ φύσεις ἐν τῷ θέρει συμπίπτουσιν ὑπερβάλλοντος τοῦ θερμοῦ, αἱ δὲ ψυχραὶ θάλπουσιν; ἔστι δὲ ὁ μὲν ἀνὴρ ξηρὸς καὶ θερμός, ἡ δὲ γυνὴ ψυχρὰ καὶ ὑγρά. τοῦ μὲν οὖν ἀνδρὸς ἠμαύρωται ἡ δύναμις, τῶν δὲ θάλλει ἐπανισουμένη τῷ ἐναντίῳ. 97 Cfr. Ricerche sugli animali, VI, 18, 572 a 8-12; VI, 18, 572 a 32-34; VI, 18, 572 b 23-26.
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vagante in preda al desiderio della riproduzione, emblema della donna-matrice tormentata dagli spostamenti del proprio organo riproduttivo bramoso di essere riempito.98 Il soddisfacimento, la fine del vagare inquieto dell’utero avviene solamente quando il compito che gli è proprio viene a compimento. La stabilità raggiunta assume, però, anche un altro valore di tipo prettamente etico, cioè quello del costume sessuale. Il parto o, per meglio dire, i numerosi parti, “curano” le donne eroticamente intemperanti rendendole più moderate.99 Se Ippocrate ne metteva in rilievo la funzione terapeutica da un punto di vista strettamente fisiologico, pur sottintendendo, così, una ben connotata visione del femminile, per Aristotele la gravidanza diviene strumento esplicito mediante cui educare alla temperanza amorosa e alla maternità è attribuita anche la capacità di addomesticare sessualmente e infondere equilibrio.
Istinto materno e identità sessuale Se la maternità occupa un posto di tale importanza nella vita femminile, non sarà difficile comprendere come l’identità sessuale stessa sia intimamente connessa ad essa e la sollecitudine materna per la cura della prole, come attitudine naturalmente femminile, venga esplicitamente affermata dal filosofo ed esemplificata dal comportamento di numerose specie animali.100 Il mondo dell’ornitologia, per esempio, fornisce una ricca casistica di madri in preda a disturbi fisici e a stati di inquietudine se private della possibilità di espletare alcune delle funzioni materne quali la cova delle uova, o che ne evitano la deposizione qualora non si trovino nelle giuste condizioni.101 Cfr. Ricerche sugli animali, VII, 3, 582 b 22-26. Ricerche sugli animali, VII, 1, 582 a 25-27: Καθίστανται δὲ καὶ σωφρονίζονται μᾶλλον ὅσαι τῶν γυναικῶν ἀκόλαστοι πρὸς τὴν ὁμιλίαν εἰσὶ τὴν τῶν ἀφροδισίων, ὅταν τοῖς τόκοις χρήσωνται πολλοῖς. «Le donne che sono intemperanti nei rapporti amorosi diventano più posate e moderate dopo che hanno avuto molti parti». 100 Cfr. Ricerche sugli animali, IX, 1, 608 b 1-4. Del rapporto tra identità sessuale femminile e attitudine materna ho discusso in Soardi 2010. 101 Cfr. Ricerche sugli animali, VI, 2, 560 b 6-11; VI, 2, 560 b 21-25. Che la cova sia un compito prettamente femminile è detto esplicitamente nella Generazione degli animali, III, 2, 752 b 15-22: Ἡ δὲ γένεσις ἐκ τοῦ ᾠοῦ συμβαίνει τοῖς ὄρνισιν ἐπῳαζούσης καὶ συμπεττούσης τῆς ὄρνιθος, ἀποκρινομένου μὲν τοῦ ζῴου ἐκ μέρους τοῦ ᾠοῦ, τὴν δ’ αὔξησιν λαμβάνοντος καὶ τελειουμένου ἐκ τοῦ λοιποῦ μέρους. Ἡ γὰρ φύσις ἅμα τήν τε τοῦ ζῴου ὕλην ἐν τῷ ᾠῷ τίθησι καὶ τὴν ἱκανὴν τροφὴν πρὸς τὴν αὔξησιν· ἐπεὶ γὰρ οὐ δύναται τελειοῦν ἐν αὑτῇ ἡ ὄρνις, συνεκτίκτει τὴν τροφὴν ἐν τῷ ᾠῷ. «La nascita dell’uovo si ha per gli uccelli perché la femmina cova l’uovo e contribuisce ad operare la cozione: l’animale si forma da una parte dell’uovo e ricava i mezzi del proprio accrescimento e compimento dalla restante parte. Perché la natura dispone insieme nell’uovo sia la materia dell’animale, sia l’alimento sufficiente alla sua crescita. Dal momento che l’uccello non può portare a compimento la prole dentro di sé, produce nell’uovo anche l’alimento». La funzione nutritiva è, del resto, è quella che più caratterizza la madre; la τροφή, come nota Demont 1978: «ne désigne pas seulment la nourrice mais aussi la mère» (378). 98 99
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Il fatto che la cova sia un compito femminile rende evidente e manifesta la funzione della madre in quanto nutrice che, in questo caso, accudisce il proprio uovo. Naturalmente, trattandosi di ovipari, il nutrimento del nascituro avviene all’interno dell’uovo e non nel corpo materno, ma è sempre la madre che, covando, ne garantisce la crescita e lo sviluppo fino al compimento. Nonostante ciò, non mancano in natura esempi di animali maschi altrettanto prodighi nel prendersi cura dei piccoli, la cui identità sessuale viene però messa in discussione ed assume contorni alquanto labili. È il caso dei colombi, in cui maschio e femmina si occupano insieme del nutrimento della prole, ma che non sono facilmente distinguibili ad uno sguardo esterno. Per comprendere quale sia il maschio e quale la femmina, dice Aristotele, è necessario osservarne gli organi interni.102 La confusione dei ruoli comporta dunque una possibile confusione sul piano del riconoscimento delle fattezze che connotano i due generi ed una certa ambiguità sessuale esteriore. Questo genere di valutazioni è strettamente connessa alla presenza di episodi che possano creare una confusione di ruoli tra il maschio e la femmina. Esiste una precisa relazione tra indole, attitudini, e caratteristiche fisiche, dal momento che «così come gli animali agiscono in conformità delle loro disposizioni naturali, cambiano anche i caratteri a seconda delle azioni, e spesso anche alcuni loro organi, come per esempio avviene nel caso degli uccelli».103 Ai galli che si occupano della prole, per esempio, succede di perdere l’estro sessuale e il desiderio del canto, con modalità simili a ciò che viene descritto accadere per gli uccelli castrati in generale.104 Prodigarsi nell’accudire i piccoli, dunque, sconvolge l’identità sessuale del maschio a tal punto da privarlo del desiderio dell’accoppiamento: il senso di cura per la prole, in definitiva, è una prerogativa unicamente femminile, una delle sue disposizioni naturali (πάθη) specifiche, che ne connotano la differenza dal maschio.105 Oltre alla confusione sul piano dell’identità sessuale, la descrizione della cura della prole da parte del maschio è accompagnata dal verificarsi anche di altri eventi innaturali che sconvolgono il consueto ordine naturale, come mostra ciò che accade tra alcune specie animali: le tarantole femmine che covano insieme al Ricerche sugli animali, IX, 7, 612 b 27-31; IX, 7, 613 a 14-17. Ricerche sugli animali, IX, 49, 631 b 5-8. 104 Cfr. Ricerche sugli animali IX, 49, 631 b 13-16. Il caso degli uccelli castrati in Ricerche sugli animali, IX, 50, 631 b 25-30: Ἐκτέμνονται δ’ οἱ μὲν ὄρνιθες κατὰ τὸ οὐροπύγιον, καθ’ ὃ συμπίπτουσιν ὀχεύοντες· ἐνταῦθα γὰρ ἂν ἐπικαύσῃ τις δυσὶν ἢ τρισὶ σιδηρίοις, ἐὰν μὲν ἤδη τέλειον ὄντα, τό τε κάλλαιον ἔξωχρον γίνεται καὶ οὐκέτι κοκκύζει οὐδ’ ἐπιχειρεῖ ὀχεύειν, ἐὰν δ’ ἔτι νεοττὸν ὄντα, οὐδὲ γίνεται τούτων οὐδὲν αὐξανομένου. «Si castrano gli uccelli del pollaio nella zona del deretano, nel punto in cui il contatto si stabilisce durante l’accoppiamento. Infatti se li si cauterizza in questo punto due o tre volte con i ferri, se il maschio è già adulto, la cresta diventa giallastra e non lancia più dei chicchirichì né cerca di accoppiarsi, qualora si tratti di uno ancora giovane, non gli si manifesta alcuno di questi caratteri durante la crescita». 105 Cfr. Louis 1969: «le mot πάθη désigne les caractères naturels à chaque animal» (138). Un maschio che assuma su di sé questo pathos, allora, finirà per assumere anche gli altri, perdendo la propria identità sessuale insieme ai πάθη che la contraddistinguono. Secondo Saïd 1983: «le soin des enfants reste à ses yeux une occupation typiquement féminine et le mâle ne peut s’y livrer sans se féminiser, donc sans se dévaloriser» (100). 102 103
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maschio vengono uccise dai piccoli una volta cresciuti, mentre il maschio della pernice, che cova anch’egli con la madre, tenta di accoppiarsi con la propria progenie e, infine, l’esempio del siluro. Si tratta di un pesce d’acqua dolce che pone particolare attenzione alla cura dei piccoli, le cui carni però, non risultano buone da mangiare. La confusione dei ruoli, in questo caso, comporta una svalutazione sul piano gastronomico, per cui Aristotele può dire che la carne del maschio, colpevole di eccessiva femminilizzazione, è meno buona.106 Se il femminile appare strettamente e intimamente connesso all’attitudine materna, ciò che caratterizza la natura maschile è una certa propensione all’azione e all’aggressività, in conformità al diverso stile di vita che determina, di conseguenza, una diversa conformazione fisica. Esiste una precisa corrispondenza tra struttura corporea, indole e modus vivendi: «La natura assegna ciascuna delle parti strumentali atte alla lotta e alla difesa ai soli animali che possono farne uso o maggiormente a questi, massimamente all’animale che se ne serve in sommo grado: ad esempio il pungiglione, lo sprone, le corna, i denti sporgenti e qualche altra parte siffatta, se c’è. Poiché il maschio è più forte e animoso, alcuni possiedono le parti siffatte esclusivamente, altri in misura maggiore. Tutte le parti che è necessario avere anche per le femmine, come quelle per il nutrimento, esse le possiedono in grado minore ma le possiedono, mentre tutte quelle che non sono atte a nessuna delle funzioni necessarie non le possiedono. Anche per questo i maschi dei cervi hanno le corna, mentre le femmine non le hanno; differiscono anche le corna delle vacche e dei tori; similmente anche nelle pecore. Anche gli sproni, quando li hanno i maschi, molte femmine non li possiedono».107 Esposti ad un tipo di vita più violento, i maschi devono, di necessità, possedere un grado di audacia maggiore di quello femminile e, per lo stesso motivo, sono dotati di un fisico più robusto che include armi per la difesa o per l’attacco. L’unica eccezione sembra quella dei denti, come abbiamo già discusso, per il ruolo che essi rivestono nella nutrizione: entrambi, maschi e femmine, ne sono provvisti, ma quest’ultime in misura e in numero inferiore. Così come accadeva per l’attitudine materna e l’identità sessuale, il legame che questo tipo di indole e di comportamento intrattiene con la specificità del 106 Cfr. Ricerche sugli animali V, 27, 555 b 9-15; VI, 8, 564 a 20-24; IX, 37, 621 a 20-27. A proposito di quest’ultimo Saïd 1983 sostiene: «D’un côté, un mâle qui est materne, de l’autre un mâle dont on nous dit qu’il est «moins bon» que les autres. Il est tentant d’établir entre les deux un rapport de causalité et d’en déduire que pour Aristote, le silure n’est “moins bon“ que parce qu’il se conduit en femelle» (100). 107 Le parti degli animali, III, 1, 661b 28-36/ 662 a 1-5: Τῶν τε γὰρ πρὸς ἀλκήν τε καὶ βοήθειαν ὀργανικῶν μορίων ἕκαστα ἀποδίδωσιν ἡ φύσις τοῖς δυναμένοις χρῆσθαι μόνοις ἢ μᾶλλον, μάλιστα δὲ τῷ μάλιστα, οἷον κέντρον, πλῆκτρον, κέρατα, χαυλιόδοντας καὶ εἴ τι τοιοῦτον ἕτερον. Ἐπεὶ δὲ τὸ ἄρρεν ἰσχυρότερον καὶ θυμικώτερον, τὰ μὲν μόνα τὰ δὲ μᾶλλον ἔχει τὰ τοιαῦτα τῶν μορίων. Ὅσα μὲν γὰρ ἀναγκαῖον καὶ τοῖς θήλεσιν ἔχειν, οἷον τὰ πρὸς τὴν τροφήν, ἔχουσι μὲν ἧττον δ’ ἔχουσιν, ὅσα δὲ πρὸς μηδὲν τῶν ἀναγκαίων, οὐκ ἔχουσιν. Καὶ διὰ τοῦτο τῶν ἐλάφων οἱ μὲν ἄρρενες ἔχουσι κέρατα, αἱ δὲ θήλειαι οὐκ ἔχουσιν. Διαφέρει δὲ καὶ τὰ κέρατα τῶν θηλειῶν βοῶν καὶ τῶν ταύρων· ὁμοίως δὲ καὶ ἐν τοῖς προβάτοις. Καὶ πλῆκτρα τῶν ἀρρένων ἐχόντων αἱ πολλαὶ τῶν θηλειῶν οὐκ ἔχουσιν. cfr. anche II, 9, 655a 10-16; Ricerche sugli animali IV, 11, 538 b 15-24.
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maschio è talmente indissolubile che una sua eventuale assunzione, da parte femminile, comporta la perdita della femminilità. Ancora una volta, ne forniscono testimonianza gli esempi tratti dal comportamento degli animali: come i galli che si occupavano della prole finivano per assumere le fattezze di animali castrati, per converso le galline che assumono comportamenti maschili, ingaggiando una lotta contro i maschi, lanciano grida simili a quelle dei galli, tentano di accoppiarsi e «la loro cresta e la coda si drizzano, tanto che non è facile distinguere che siano femmine. Ad alcune sporgono per giunta dei piccoli sproni».108 L’assunzione di un modo di fare aggressivo e, quindi, virile, non può essere assunto da una femmina a meno di non subire la perdita di ogni specificità di genere anche attraverso una modificazione di tipo fisico-strutturale. La natura, però, lancia un’ultima sfida alle categorie interpretative del filososo, e lo fa attraverso il genere delle api. Si tratta di un genere che riunisce entrambe le caratteristiche: il possesso di arma, l’aculeo, e la spiccata attitudine materna: «Ma non è neppure logico che le api siano femmine e i fuchi maschi, perché la natura non attribuisce armi per la difesa a nessuna femmina, e mentre i fuchi sono privi di pungiglione le api ne sono tutte provviste. E non è logico neppure l’opposto, che le api siano maschi e i fuchi femmine, perché nessun maschio suole darsi pena per i piccoli, mentre le api lo fanno».109 Per superare la contraddizione, il nuovo criterio di intellegibilità viene rintracciato in una ipotetica natura intermedia: «Resta dunque, come risulta avvenire per alcuni pesci, che le api generino i fuchi senza accoppiarsi, essendo in quanto al generare, femmine, ma avendo in sé, come le piante, sia la femmina sia il maschio. Ecco perché hanno uno strumento preposto alla difesa. Non si deve chiamare femmina l’essere in cui il maschio non ha esistenza separata».110 Le api, dunque, non sono femmine: infatti possiedono persino un pungiglione; ma non sono neppure maschi, dal momento che si occupano della prole: hanno in sé entrambi i principi sessuali.111 Il principio generale in questione è la netta divisione dei due generi sessuali in base ad attitudini e comportamenti che ne forniscono l’identità e che si riflettono anche sulla struttura fisica. RimanenRicerche sugli animali IX, 49, 631 b 8-13. La generazione dgli animali, III, 10, 759 b 1-7: Ἀλλὰ μὴν οὐδὲ τὰς μὲν μελίττας θηλείας εἶναι τοὺς δὲ κηφῆνας ἄρρενας εὔλογον· οὐδενὶ γὰρ τὸ πρὸς ἀλκὴν ὅπλον τῶν θηλειῶν ἀποδίδωσιν ἡ φύσις, εἰσὶ δ’ οἱ μὲν κηφῆνες ἄκεντροι, αἱ δὲ μέλιτται πᾶσαι κέντρον ἔχουσιν. Οὐδὲ τοὐναντίον εὔλογον, τὰς μὲν μελίττας ἄρρενας τοὺς δὲ κηφῆνας θηλείας· οὐδὲν γὰρ τῶν ἀρρένων εἴωθε διαπονεῖσθαι περὶ τὰ τέκνα, νῦν δ’ αἱ μέλιτται τοῦτο ποιοῦσιν. Saïd 1983: «Rien ne montre mieux le lien indissoluble que le philosophe établit entre féminité et soins des enfants» (100). 110 La generazione degli animali, III, 10, 759 b 27-32. 111 Saïd 1983: «Il est clair qu’aux yeux d’Aristote les armes (et le courage qu’elles supposent) sont si étroitement liées à la virilité que leur absence suffit à établir la non appartenance au sexe masculin : les faux bourdons ne sont pas des mâles. Inversement, la possession d’un “ instrument de défense ” comme le dard suffit à prouver que les ouvrières doivent avoir en elles, comme les végétaux, “ le sexe mâle à côté du sexe femelle ” (De gener. anim. 759 b 30-31)» (98). Sul problema della natura sessuale delle api si veda Lloyd 1987 (in particolare 79). 108
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do sempre all’interno del mondo delle api, l’esempio più emblematico di tutti è quello delle regine, preposte in particolare modo alla riproduzione e alla cura della prole. Provviste dell’aculeo, non sembrano farne uso secondo Aristotele, tanto da farne dubitare l’esistenza.112 L’argomento dell’ermafroditismo, cioè, non sembra sufficiente per ciò che riguarda la natura delle regine, le madri per eccellenza dell’alveare, ed il filosofo esclude del tutto la possibilità che esse utilizzino il pungiglione. Lo stesso discorso vale anche per le vespe, per quelle cosiddette μῆτραι, fornite di un aculeo di cui non si servono affatto.113 Da una parte maschi robusti e virilmente aggressivi, dall’altra femmine più deboli e dedite per natura alla cura della prole: questo quel che si verifica per lo più in natura. Quando i ruoli si invertono e i comportamenti si mescolano la definitezza stessa dell’identità sessuale viene messa in discussione. Nonostante ciò, esiste un momento specifico, nella vita femminile, in cui è ammesso un certo grado di aggressività senza sconvolgimenti o confusioni particolari: si tratta del periodo immediatamente successivo al parto. I numerosi esempi che Aristotele ci fornisce, tratti dal mondo dell’etologia, indicano come le madri che hanno appena partorito assumano dei tratti particolarmente aggressivi, finalizzati, per lo più, alla difesa della prole appena nata.114 Simultaneamente si verifica anche un altro fatto, e cioè il rifiuto del coito per un periodo variabile da specie a specie.115 Da parte maschile, al contrario, l’estro permane ed è messo in corrispondenza e contrapposizione con l’aggressività materna post partum: «Comune a tutti questi animali è l’intensa eccitazione che si accompagna al desiderio e al piacere, specie a quello che risulta dal coito. Le femmine sono molto aggressive subito dopo il parto, i maschi dal canto loro nell’epoca dell’accoppiamento».116 I maschi desiderano l’accoppiamento anche quando le loro femmine stanno espletando funzioni di accudimento materno, e non esitano ad assumere attegCfr Ricerche sugli animali, V, 21, 553 b 4-7. Cfr. Ricerche sugli animali, IX, 41, 628 a 35 / 628 b 1-3. 114 Ricerche sugli animali VI, 4, 562 b 21-24: Καὶ συνθερμαίνουσι τοὺς νεοττοὺς ἀμφότεροι ἐπί τινα χρόνον τὸν αὐτόν γε τρόπον ὅνπερ καὶ τὰ ᾠά. Χαλεπωτέρα δ’ ἡ θήλειά ἐστι περὶ τὴν τεκνοτροφίαν τοῦ ἄρρενος, ὥσπερ καὶ τὰ ἄλλα ζῷα μετὰ τὸν τόκον. «Entrambi i genitori contribuiscono a riscaldare i pulcini per qualche tempo, così come facevano per le uova. Ma la femmina è più aggressiva del maschio durante l’allevamento dei piccoli, come accade del resto in tutti gli animali dopo il parto». Ricerche sugli animali, VI, 18, 571b 30-31: Χαλεπαὶ δὲ καὶ αἱ θήλειαι ἄρκτοι ἀπὸ τῶν σκύμνων, ὥσπερ καὶ αἱ κύνες ἀπὸ τῶν σκυλακίων. «Anche le orse sono aggressive dopo la nascita dei cuccioli, proprio come le cagne». Saïd 1983 mette in relazione questo passo delle Ricerche sugli animali ad un altro, in cui le orse vengono descritte mentre fuggono tenendo sempre in braccio i propri piccoli (IX, 6, 611b 32-33). La studiosa parla di esempio di «héroïsme maternel» (99), ponendo l’attenzione sulla particolare sollecitudine materna nel proteggere la prole che, in questo caso, ci viene rappresentata dal filosofo. 115 Cfr. Ricerche sugli animali, V, 14, 545 b 4-10; V, 14, 546 b 1-6; VI, 20 574 a 20-25. 116 Ricerche sugli animali, VI, 18, 571 b 8-17: Πάντων δὲ κοινὸν τῶν ζῴων τὸ περὶ τὴν ἐπιθυμίαν καὶ τὴν ἡδονὴν ἐπτοῆσθαι τὴν ἀπὸ τῆς ὀχείας μάλιστα. Τὰ μὲν οὖν θήλεα χαλεπώτατα, ὅταν ἐκτέκωσι πρῶτον, οἱ δ’ ἄρρενες περὶ τὴν ὀχείαν. 112 113
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giamenti distruttivi nei confronti della prole pur di raggiungere il proprio soddisfacimento, come si verifica nel caso di alcuni uccelli spinti a rompere le uova per impedirne la cova e vincere la riluttanza sessuale delle “compagne”.117 L’espletamento delle funzioni materne quali deposizione e cova, nel caso dei volatili, impedisce infatti la realizzazione dell’accoppiamento bramato dal maschio, poiché esaurisce in sé l’urgenza femminile e si contrappone ad un’aggressività maschile che si manifesta anche in ambito sessuale. Se consideriamo l’etologia nella sua stretta connessione al mondo degli uomini, posti al vertice di un continuum che connette tutti gli esseri animati, non stupisce osservare tra gli animali la realizzazione di un’idea della maternità come condizione di appagamento totale della femmina. Vi è, a fondamento di questa rappresentazione, la valorizzazione della funzione sociale femminile per eccellenza, cioè quella della riproduzione, con la conseguente attenzione posta dal sapere ginecologico al problema della fertilità femminile.118 Non stupisce, allora, ritrovare nel mondo degli animali un comportamento che legittimi e confermi allo stesso tempo una simile visione, mediata dall’habitus dell’osservazione scientifica. A proposito dell’astensione dai rapporti sessuali dopo il parto, in particolare nel periodo dell’allattamento, mi pare interessante notare come essa abbia assunto carattere normativo presso svariate culture proprio in base all’antichissimo assunto secondo cui il coito può risultare dannoso per il latte materno e, quindi, interferire nel nutrimento del neonato. Un interdetto che permane dall’antichità al Rinascimento, presente nei contratti di baliatico di periodo ellenistico pervenutici tramite i papiri dell’Egitto romano, nelle Leges visigotiche e nei contratti fiorentini di età rinascimentale. Alla base di questa proibizione, probabilmente, la concezione emogenetica del latte.119 Già per gli ippocratici, 117 Ricerche sugli animali VI, 9, 564 b 2-7: «Gli allevatori mettono le uova dei pavoni sotto ad una gallina per la cova, perché il maschio, gettandosi sulla femmina che attende a questo compito, spezza le uova. Per la stessa causa, le femmine di certi uccelli selvatici fuggono lontano dai maschi per deporre le uova e covarle»; Ricerche sugli animali IX, 8, 613b 25-30: «Poiché sono portati all’amore affinché la femmina non covi, i maschi fanno rotolare le uova e le rompono, qualora le trovino. La femmina, d’altro canto, elabora lo stratagemma di allontanarsi per deporre, e, pressata dal bisogno di deporre, lo fa non importa dove. Qualora il maschio sia vicino, per salvare le uova riunite, non va verso di esse». Nel primo passo, Aristotele parla di un generico «gettarsi» del maschio sulla femmina, mentre questa sta covando, senza chiarire se si tratti o meno di un approccio sessuale. È possibile ipotizzare, in base ad altri contesti simili in cui il desiderio maschile è citato in modo esplicito, che si tratti anche qui di un tentativo a sfondo erotico. Nel secondo passo che ho riportato, in effetti, il maschio tenta di impedire la cova proprio perché in preda alla brama del coito ed anzi, per raggiungere il proprio scopo, non esita a distruggere le uova. 118 Cfr. Natura della donna 2 L VII 314; 3 L 314 e altri. È nota la teoria ippocratica secondo cui la gravidanza rappresenta lo stato di salute per eccellenza di una donna. È solo in questa condizione che i suoi umori, solitamente causa di squilibri e malattie, trovano il corretto bilanciamento. Su Malattie delle donne, in particolare, Manuli 1983, «In una società di padri, che impone alle vergini il matrimonio e il parto, e alle vedove, purché ancora feconde, un secondo matrimonio, il De morbis mulierum sancisce, nella superiore obiettività e autorità che competono a una scienza, il ricatto igienico cui la femmina viene sottoposta. » (160). Cfr. Andò 1995. 119 Su questo, in particolare, lo studio di Pomata 1995. Héritier 1997 mostra come l’interdizione del coito nel periodo dell’allattamento non sia solo occidentale, ma esista anche presso i Samo del Burkina Faso. Presso questa popolazione il divieto si fonda sulla dicotomia tra caldo e freddo: la donna, tenden-
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così come per Aristotele e Galeno, esiste una precisa corrispondenza tra latte materno e sangue mestruale. Sangue e latte, inoltre, costituiscono il nutrimento del feto, in precedenza, del neonato in seguito, non comparendo mai contemporaneamente: il primo scompare in prsenza del secondo. Il coito, e l’eventuale sopraggiungere di un’altra gravidanza, interferirebbero con la distribuzione del sangue e degli umori del corpo, sottraendo così nutrimento al neonato. Se consideriamo che il nutrimento al seno è una delle attività materne per eccellenza, si comprende bene come, in realtà, la dicotomia che sussiste realmente sia quella tra sessualità e maternità. Non è un caso, del resto, che in nessun testo greco, non solo medico, il seno materno non sia mai menzionato in relazione al proprio valore erotico, né come richiamo sessuale né, tanto meno, come zona erogena della donna.120 Ne viene riconosciuta unicamente la funzione nutritiva, se, come dice Aristotele «la mammella è un recipiente, una sorta di vaso del latte».121 Il modello aristotelico della maternità non sembra concedere spazio alcuno alla dimensione sessuale. Tra gli animali, le puerpere cessano di provare desiderio e devono difendere se stesse e la propria prole dagli assalti sessuali del maschio. Come per il periodo successivo al parto, anche per la durata della gestazione esiste una norma igienica diffusa nel sapere medico-ginecologico, che impone di astenersi dal coito. Gli ippocratici ne sconsigliavano la pratica sia per una facilitazione del parto, sia perché il rapporto sessuale era considerato come un facilitatore dell’emissione di sangue mestruale, con conseguenze nocive per il nascituro.122 Sul piano medico, dunque, l’interdizione assume tutti i caratteri di una prescrizione in vista di un parto privo di complicazioni. L’opinione di Aristotele a riguardo si gioca nuovamente su due piani: quello del semplice rilevamento del comportamento degli animali e quello dell’osservazione medica con intento normativo. Per cominciare, l’etologia aristotelica fornisce numerosi esempi di questa astinenza che sembra coinvolgere quasi tutte le specie animali eccezion fatta per le donne e le cavalle: «Fra gli animali sono soprattutto la donna e la cavalla ad accettare il coito durante la gestazione; le altre femmine fuggono il maschio quando sono gravide, quelle s’intende che
zialmente fredda, è in grado di trasformare i propri liquidi corporei in latte caldo, grazie al calore del sangue che, durante l’allattamento, non perde più. L’uomo, invece, è caldo, così come caldo è il suo sperma. L’intromissione dello sperma caldo nell’utero della donna che allatta, allora, provocherebbe un calore eccessivo con conseguente inaridimento del latte. 120 Cfr. Andò 1995. 121 Le parti degli animali, IV, 11 692 a 11-13. 122 Cfr. Superfetazioni 13 L, VIII 484. Così osserva Andò 1995: «La centralità del ruolo materno, in funzione del quale il corpo della donna è interamente concepito, risulta con evidenza negli scritti ippocratici (…) soprattutto nei riguardi della sessualità: il rapporto sessuale è norma igienica, in quanto facilita i mestrui ed è dunque la terapia adatta al trattamento di svariati disturbi ginecologici; ma per converso, durante la gravidanza, bisogna astenersene in vista di una maggiore facilità del parto. È evidente cioè che se la gravidanza è l’unico periodo di pieno benessere per la donna, non occorre, anzi appare dannosa, quella terapia fallica altrimenti sempre consigliata» (39).
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non sono naturalmente predisposte alla superfetazione, come la lepre».123 Il comportamento più seguito è quello dell’astensione dai rapporti sessuali fino a nascita avvenuta e, come abbiamo visto, anche oltre, eccezion fatta per la donna e la cavalla, accomunate dalla stessa proverbiale tendenza alla lascivia. Sembra infatti che soltanto un’indole lussuriosa possa varcare e violare il limite mescolando realtà che non dovrebbero incontrarsi: la sessualità e il materno. Su un piano più propriamente medico, più volte ricorre l’interdizione aristotelica mediante la proposizione di una ricca casistica di incidenti e danni alla salute della madre e del nascituro, qualora tale divieto venga violato. La preoccupazione più volte espressa è quella di un’eventuale sovrapposizione d’embrioni, con tutti i danni che questo comporterebbe. Per una donna già gravida un concepimento ulteriore sarebbe rischioso sia per sé sia per l’embrione precedentemente installato nel suo utero. Nel migliore dei casi la gravidanza non giunge a compimento. La superfetazione appare tra i problemi più ricorrenti, ma non mancano esempi di parti prematuri, aborti spontanei o morte del neonato.124 Qualora la gestazione dovesse andare a buon fine, poi, il bambino recherà sicuramente su di sé i segni della condotta sessuale materna: «La maggior parte delle donne, se hanno rapporti dopo l’ottavo mese di gravidanza, danno alla luce il bimbo avvolto da una mucosità viscosa. E spesso egli viene al mondo ricoperto dai cibi somministrati alla madre. Se la madre ha ingerito alimenti troppo ricchi di sale il figlio nasce privo d’unghie».125 In definitiva, l’idea che deriva dalla lettura di tutti questi passi è, ancora una volta, quella di una sessualità femminile collocabile solo in vista della riproduzione. Realizzato il fine, la pulsione e il desiderio perdono ragion d’essere. La maggioranza delle femmine degli animali, del resto, in concomitanza con l’assunzione del ruolo materno, diviene naturalmente refrattaria all’accoppiamento. D’altro canto, però, esistono alcune femmine, tra cui quella dell’uomo, prive di un’identica, innata moderazione, sulle quali agisce la riflessione scientifico-medica. Tutto ciò trova una conferma, a sua volta, nell’insistenza con cui Aristotele slega il piacere sessuale femminile dalla riproduzione. Esso esiste, ma la sua esistenza è utilizzata da Aristotele come riprova della non fecondità femminile, della sua impossibilità di contribuire con seme fecondo alla generazione: «Un segno che la femmina non emette seme del tipo di quello del maschio, e che la generazione non ha luogo dalla mescolanza dei due, come alcuni sostengono, è che spesso la femmina concepisce senza che abbia provato il piacere dell’accoppiamento, e per contro, pur provandolo ed avendo il maschio e la femmina raggiunto insieme la soddisfazione, non si attua il processo di generazione, quando
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Ricerche sugli animali, VII, 4, 585 a 3. Cfr. Ricerche sugli animali, VII, 4, 585 a 8 - 11; VII, 4, 585 a 14-23. Ricerche sugli animali, VII, 4, 585 a 23-28.
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l’umidità del cosiddetto mestruo non sia al punto giusto».126 Al contrario, può accadere che il concepimento avvenga in assenza totale dell’orgasmo femminile, le cui emissioni sono paragonate alle polluzioni notturne dei ragazzi, di sicuro ancora sterili a causa della giovane età.127 Sessualità e maternità sono percepite come due realtà dicotomiche a meno che la prima non sia in funzione della seconda, e l’eros femminile lo strumento mediante il quale ogni donna compie il proprio “lavoro” riproduttivo. La mancata coincidenza del piacere sessuale e della riproduzione mostra, a sua volta, l’evidenza naturale di questa separazione e conferma nuovamente l’impossibilità, per la femmina, di partecipare attivamente e fecondamente al concepimento. Una volta realizzato lo scopo, tale “strumento” non ha più motivo di esistere, ed assume piuttosto i caratteri di una realtà sconveniente e da allontanare. Le analisi aristoteliche mi sembrano andare proprio in questa direzione, mediante una costruzione ideologica che dimostra le proprie verità attraverso la scientificità del discorso. Esistono madri temperanti e madri lascive, madri che perdono il desiderio in gravidanza e altre cui questo non accade. I rischi che corrono le madri lascive dovrebbero farle desistere e ricondurle ad una condotta più salutare per sé e per il figlio che portano in grembo ma, in ogni caso, un numero sufficiente di parti infonderà loro quella avvedutezza e moderazione sessuale che si conviene ad ognuna di loro.
Gravidanza e parto Se la riproduzione è il compito sociale femminile per eccellenza, la gravidanza diviene, nel pensiero medico-biologico, un rimedio per le patologie che affliggono il corpo delle donne, attraverso il raggiungimento dell’equilibrio dei liquidi che ne caratterizzano la natura e il cessare dei movimenti uterini. È, questa, un’idea che ritroviamo nei trattati ippocratici di ginecologia, in Platone, ma, come abbiamo visto, anche in Aristotele. Eppure, nonostante il presupposto generale sia il medesimo, la descrizione aristotelica delle condizioni fisiche in cui versano le gestanti non ci consegna alcuna idea di benessere. Al contrario, si tratta di un periodo molto difficile e pericoloso, in cui predomina l’idea di una certa sofferenza e squilibrio.128 A distinguersi, rispetto a tutti gli altri animali, è La generazione degli animali, I, 19, 727 b 5 - 12; cfr. anche I, 20, 727 b 33 - 37. Cfr. La generazione degli animali, II, 4, 739 a 21 - 24; II, 4, 739 a 28-31. Secondo Sissa 2003: «Aristotele è il filosofo che consacra la nozione di passività femminile e di femminilità passiva. Ecco un corpo che può concepire senza desiderio, senza erotismo, senza eccitazione» (113). Il punto centrale, in ogni caso, sembra sempre il medesimo: negare natura seminale all’emissione femminile che accompagna il godimento per ribadirne la passività nella riproduzione. 128 Ricerche sugli animali, VII, 4, 584 a 21 - 22: Ὀλίγαις δέ τισι συμβαίνει βέλτιον ἔχειν τὸ σῶμα κυούσαις «In rari casi avviene che le condizioni fisiche migliorino durante la gestazione». 126 127
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proprio la femmina dell’uomo: «Per gli uomini e per gli altri animali interviene anche una differenza riguardo alla gravidanza. Mentre gli altri per il più del tempo si trovano in condizioni fisiche migliori, la maggior parte delle donne non sta bene in gravidanza».129 La donne soffrono maggiormente sia in gravidanza sia durante il parto, soprattutto nel caso in cui siano prive di un fisico moderatamente allenato, come ho discusso in precedenza.130 Il primato delle donne nei confronti delle altre femmine deriva dalla specularità nei confronti dell’uomo, l’essere perfetto per eccellenza. Come di fronte ad uno specchio rovesciato, esse amplificano al massimo grado il connaturato difetto del loro corpo e la gravidanza, il più femminile degli eventi biologici, non fa che peggiorare uno stato già di per sé al confine con il patologico. La causa fondamentale, di origine anatomica, è sempre la stessa: la quantità eccedente di liquidi corporei, che normalmente sono evacuati tramite le mestruazioni. Il suo stato fisiologico, già di per sé difettoso, peggiora ulteriormente a causa della sedentarietà della vita assegnatale che aumenta il carico di residuo da smaltire. Una corretta e moderata attività fisica, oltre a garantire un più agevole svolgimento del parto, allora, favorisce la fuoriuscita dei liquidi e contribuisce a mantenere l’equilibrio osmotico tra il dentro e il fuori. Le condizioni di un corpo sbilanciato per natura e del tutto privo di abitudine all’attività, però, non possono che peggiorare in gravidanza.131 Durante i mesi di gestazione la perdita mestruale scompare e viene convertita in alimento per l’embrione, ma nei primi mesi, quando l’embrione è ancora troppo piccolo per assorbire l’eccesso di residuo, la gestante soffre particolarmente, poiché l’eccesso di liquido è tale da non venire assorbito del tutto dall’essere in formazione, provocando così uno scompenso idrico.132 129 La generazione degli animali, IV, 6, 775 a 27 - 31: Συμβαίνει δὲ καὶ διαφορὰ περὶ τὰς κυήσεις ἐπί τε τῶν ἀνθρώπων καὶ ἐπὶ τῶν ἄλλων ζῴων· τὰ μὲν γὰρ εὐθηνεῖ μᾶλλον τοῖς σώμασι τὸν πλεῖστον χρόνον, τῶν δὲ γυναικῶν αἱ πολλαὶ δυσφοροῦσι περὶ τὴν κύησιν. 130 Cfr. Ricerche sugli animali, VII, 9 586 b 35/ 587a 1 - 5. 131 La generazione degli animali, IV, 6, 775 a 31-37 / 775 b 1 - 2: «Una causa di ciò è dovuta al tipo di vita: stando sedute si caricano di maggior residuo, ecco perché nei popoli nei quali la vita delle donne è faticosa, la gravidanza non è ugualmente evidente e tanto lì quanto in ogni parte le donne abituate a faticare partoriscono con facilità. La fatica assorbe infatti i residui; le donne sedentarie invece, per la loro inazione e perché durante la gravidanza non si producono depurazioni, trattengono molte di queste sostanze e le doglie sono estenuanti. La fatica esercita il respiro sì che questo possa essere trattenuto, ed è in questo che consiste la facilità e la difficoltà del partorire». 132 La generazione degli animali, IV, 6, 775 b 2-13: «È dunque possibile che anche questi aspetti concorrano alla differenza del patire, tra gli animali e le donne, ma la cosa più importante resta che in alcuni di essi non si produce che una scarsa depurazione, in altri essa non è visibile del tutto, le donne invece l’hanno più abbondante di tutti gli animali. Di conseguenza, quando per la gravidanza l’escrezione non ha luogo, esse subiscono un turbamento. In effetti, qualora, pur non essendo gravide, non hanno mestruazioni, intervengono stati morbosi. È soprattutto all’inizio della gravidanza che la maggior parte delle donne si trovano più turbate, perché il prodotto del concepimento può impedire le depurazioni, ma per la sua piccolezza dapprincipio non può assorbire affatto la quantità del residuo, in seguito invece, prendendone
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La concezione aristotelica sembra fare della gravidanza uno stato ben lontano da quel perfetto equilibrio osmotico descritto dagli ippocratici. Secondo gli antichi trattati ginecologici, durante la gestazione, attraverso un delicato gioco di scambi tra utero, embrione e seno, la donna risolve temporaneamente la questione dell’eccesso di liquido e raggiunge così lo stato di salute ottimale. Anche in Aristotele compare il medesimo processo di conversione degli umori l’uno nell’altro, così come l’assorbimento di materia da parte dell’embrione, ma la femmina dell’uomo, in particolare, possiede un’eccedenza residuale talmente abbondante da non riuscire a raggiungere un equilibrio se non per pochissimo tempo. È il mammifero più femminile, dunque il più liquido e il più freddo. I mesi della gravidanza mettono così a dura prova il già debole equilibrio femminile. Se femminilità al massimo grado e abbondanza di residuo coincidono, la gestazione paradossalmente comporta minori difficoltà per le donne che meno ne rappresentano il paradigma: quelle, cioè, con un residuo scarso. Tanto più si allontanano dalla propria specificità, che corrisponde all’abbondanza di umori corporali, tanto meglio supereranno quello che è l’evento femminile per eccellenza.133 Oltre al problema del residuo, a partire dai momenti immediatamente successivi al concepimento accade che la gravidanza comporti senso di pesantezza del corpo, dolore, oscuramento della vista, nausea e vomito, scomparsa dei peli dai luoghi abituali e loro ricrescita in posti inconsueti.134 Infine, il motivo delle cosiddette “voglie”: «Le donne incinte sogliono provare desideri di ogni genere e mutarli di colpo, ciò che alcuni chiamano «aver le voglie», e questi desideri sono più acuti nelle donne incinte di una femmina, mentre se vengono soddisfatti esse sono meno in grado di goderne».135 Il desiderio estemporaneo e improvviso che accompagna le future madri viene qui presentato come particolarmente intenso e acuto nel caso in cui il nascituro sia femmina. Questa differenza non riguarda solamente un fenomeno circoscritto come quello delle voglie, ma investe lo stato generale della gestante e il parto. Le donne che attendono un maschio «conservano un colorito più sano, mentre il contrario accade a quelle che aspettano una femmina: sono infatti per lo più piuttosto pallide, la gestazione risulta loro più gravosa, e molte hanno tumefazioni alle gambe e gonfiori alle carni».136 Per quanto gravoso da sostenere in ogni caso, il malessere durante la gravidanza conosce un ulteriore inasprimento nel caso di un feto di sesso femminile. L’attesa di un maschio appare quindi come la più auspicabile non soltanto dal punto di vista sociale, ma anche da quello medico–biologico. Ciò che politicasu di sé una parte, opera un’azione d’alleggerimento». 133 La generazione degli animali, IV, 6, 775 b 21 - 24: «Ad alcune poche donne capita di stare fisicamente meglio durante la gravidanza: queste sono tutte quelle che hanno scarsità di residuo nel corpo, tanto che esso è riassorbito con l’alimento destinato all’embrione». 134 Ricerche sugli animali, VII, 4, 584 a 2 - 12; VII, 4, 584 a 23 - 26. 135 Ricerche sugli animali, VII, 4, 584 a 17 - 21. 136 Ricerche sugli animali, VII, 4, 584 a 12 - 17.
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mente conviene di più coincide con ciò che biologicamente appare la condizione migliore per le donne. Ancora una volta il discorso scientifico sembra confermare la naturalezza di una struttura sociale in cui la discendenza è esclusivamente maschile. In definitiva, l’attesa di un figlio colloca la donna in una condizione liminare, nella quale i confini tra normale e anormale, sano e patologico si fanno ancor più labili di quanto non lo siano già di natura. Paradossalmente e, nel medesimo tempo, comprensibilmente, l’evento biologico femminile per eccellenza agisce da amplificatore di uno squilibrio e di un’anomalia ontologici. Giunto ad un adeguato sviluppo all’interno dell’organo materno, il nascituro prepara la propria discesa attraverso l’orifizio uterino fino al momento del parto, quando il neonato esce (ἐξέρχεται) mentre il ruolo della madre appare del tutto passivo.137 Il parto naturale avviene dopo la cosiddetta «rottura delle acque», quando il feto si muove e le membrane si lacerano.138 Esso dunque fuoriesce tramite un’azione di rottura, mentre non v’è traccia delle contrazioni dell’utero né di alcun’altra forma di partecipazione materna nell’emissione del neonato. Si tratta di un processo talmente dipendente dai movimenti del nascituro, che il momento dell’inversione della testa del feto, nel periodo precedente al parto, può addirittura fare sospettare alla madre l’inizio del travaglio.139 Così come subisce la funzione dell’agente maschile durante la fecondazione, allo stesso modo sembra subire l’attività del feto che si adopera per uscire ed il ruolo della puerpera appare del tutto passivo. La descrizione della nascita conferma e corrisponde alla visione di natura femminile come vuoto contenitore, un recipiente nel quale temporaneamente il feto s’installa per poi uscire, una volta sviluppato, dall’involucro protettivo.140 137 La generazione degli animali, IV, 8, 776 a 31-35 / 776 b 1 - 3: «Quando invece gli embrioni si stanno compiendo, il residuo che avanza è più abbondante (perché è meno quello assorbito) e più dolce, perché la parte ben cotta non è sottratta in egual misura. Non si ha più infatti una dispensazione per il modellamento dell’embrione, ma in vista di un piccolo accrescimento, come se l’embrione, per avere già il proprio compimento, si mantenesse stabile. Vi è infatti un certo compimento anche del prodotto del concepimento. Perciò esso esce e muta processo di formazione, perché avendo il proprio, non prende neppure più ciò che non gli è proprio, ed è in questo tempo che il latte diventa utile»; cfr. La generazione degli animali, IV, 8, 777 a 21 - 27. 138 Cfr. La generazione degli animali, IV, 8, 777 a 28 - 31; Ricerche sugli animali, VII, 9, 587 a 6 - 8. 139 Cfr. Ricerche sugli animali, VII, 4, 584 a 31 - 33. 140 Nel modo di trattare la questione il filosofo dimostra un’assoluta vicinanza ai trattati ippocratici, all’interno dei quali compare la medesima immagine di passività durante il parto Natura del bambino L VII, 30, 530: Ὁκόταν δὲ τῇ γυναικὶ ὁ τόκος παραγένηται, ξυμβαίνει τότε τῷ παιδίῳ κινεομένῳ καὶ ἀσκαρίζοντι χερσί τε καὶ ποσὶ ῥῆξαί τινα τῶν ὑμένων τῶν ἔνδον· «Quando, invece, per la donna si avvicina il momento del parto, allora capita che il bambino, muovendosi e dimenandosi con mani e piedi, rompa una delle membrane interne». Sia in Aristotele sia in Ippocrate è il medesimo verbo ῥήγνυμι ad indicare la rottura delle membrane da parte del nascituro che sta per effettuare la fuoriuscita dall’utero, mentre non viene fatto cenno ad alcuna attività espulsiva materna. Come sostiene Manuli 1983, sembra quasi che «il bambino esca da solo dal ventre della madre come un pulcino dall’uovo» (188). Demand
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Non mancano, in ogni caso, le considerazioni sulla pericolosità e sul dolore del parto, nello stesso modo in cui accadeva per i mesi precedenti ad esso.141 Così come per la gestazione, però, anche per il momento della nascita esiste una differenza a seconda che si tratti di una femmina o di un maschio: in quest’ultimo caso la donna partoriente vivrà un’esperienza altrettanto dolorosa ma più rapida: «Per lo più il maschio effettua un maggior numero di movimenti della femmina nel corpo della madre, ed è partorito con rapidità, lentamente invece la femmina. Nel caso delle femmine il travaglio è ininterrotto e sordo, in quello dei maschi invece è accompagnato da fitte brevi ma molto più dolorose».142 L’embrione maschio manifesta una certa irrequietezza per la costrizione uterina molto presto, fino a che, giunto il momento opportuno, non preme per uscire dal ventre materno. Quella propensione all’attività, alla tensione verso l’esterno che ne caratterizzerà la vita, si evidenzia già nella vita intrauterina, durante la quale il maschio si muove molto di più della femmina e si sviluppa più rapidamente.143 L’irruenza maschile investe anche le modalità dell’uscita dal ventre materno, al contrario della inattività femminile che si traduce in un travaglio molto più lento. Se il parto dipende unicamente dall’attività del feto, si comprende bene come mettere al mondo una femmina risulti ancor più difficoltoso, nel caso in cui due passività si sovrappongono: quella del nascituro di genere femminile e quella della madre che non agevola in alcun modo la fuoriuscita dall’orifizio uterino.144 Una volta venuti al mondo, il ritmo e la velocità dei processi vitali sono invertiti e la femmina subisce una rapida accelerazione nel maturare prima, e nell’invecchiare poi: «Per la freddezza il processo di distinzione all’interno si svolge lentamente (la distinzione è infatti una cozione, e ciò che cuoce è il calore, e ciò che è più caldo viene cotto), all’esterno invece per la sua debolezza raggiunge rapidamente la maturità e la vecchiaia. Tutti gli esseri inferiori giungono infatti alla fine più rapidamente, come avviene sia nelle opere dell’arte sia nelle cose messe insieme dalla natura».145 All’origine della sua 1994 discute di come le contrazioni uterine, visibili e notate dai medici ippocratici, venissero considerate come una risposta al dolore sofferto per l’azione del feto che si fa strada per uscire dal corpo materno. 141 Cfr. Ricerche sugli animali, VII, 9, 586 b 27 - 32 sul dolore della partoriente. Sui rischi della gestazione Ricerche sugli animali, VII, 4, 584 b 14 - 18. L’ottavo mese è un momento critico, quando il feto si sposta iniziando a discendere verso l’orifizio uterino. Anche per gli Ippocratici nell’ottavo mese avviene questo spostamento, ed è sempre in questo periodo che sia la madre sia il feto sono soggetti a possibili infiammazioni in seguito a lacerazioni del tessuto (Cfr. Il feto di sette mesi, L VII, 442). In merito a ciò, Lloyd 1987 osserva come proprio i disturbi legati all’ottavo mese di gestazione costituiscano un punto d’incontro tra sapere medico e osservazioni delle pazienti. Sui rischi legati al parto si veda inoltre Andò 1995; Demand 1994. Cfr. anche cfr. Malattie delle donne L VIII, 1, 78; L VIII, 1, 146. 142 Ricerche sugli animali, VII, 4, 584 a 26 - 30: Καὶ κίνησιν δὲ παρέχεται ἐν τῷ σώματι μᾶλλον ὡς ἐπὶ τὸ πολὺ τὸ ἄρρεν τοῦ θήλεος, καὶ τίκτεται θᾶττον, τὰ δὲ θήλεα βραδύτερον. Καὶ ὁ πόνος ἐπὶ μὲν τοῖς θήλεσι συνεχὴς καὶ νωθρότερος, ἐπὶ δὲ τοῖς ἄρρεσιν ὀξὺς μέν, πολλῷ δὲ χαλεπώτερος. 143 Cfr. La generazione degli animali, IV, 6, 775 a 4 - 11; Ricerche sugli animali, VII, 3, 583 b 3-5; b 14 - 21. Su questo si vedano Saïd 1983; Sissa 1983. 144 Su questo rimando a Demand 1994 (6). 145 La generazione degli animali, IV, 6, 775 a 16 - 22.
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inferiorità ed impotenza troviamo una congenita freddezza e debolezza, le quali al contempo ne ritardano lo sviluppo all’interno dell’utero ma ne accelerano la maturazione e il decadimento fisico dopo la nascita.146 Un percorso biologico, quello femminile, che conferma in tutto e per tutto la propria inferiorità connaturata. Oltre al dato fisiologico, secondo Aristotele esiste un’altra spiegazione di un così rapido processo di decadimento. Il corpo femminile, fragile e imperfetto di natura, è ulteriormente debilitato dalla funzione che le è propria: quella generativa. Il ruolo di riproduttrice, al contempo, ne mette a rischio lo stato di salute, come doveva essere del tutto evidente anche agli occhi dei contemporanei del filosofo. Dopo il parto, fanno la loro comparsa le cosiddette purificazioni lochiali, emissioni di sangue attraverso cui avviene lo smaltimento del residuo in eccesso non utilizzato dall’embrione nei primi mesi di gravidanza. Rispetto a questo fenomeno non esiste, in Aristotele, una trattazione altrettanto ampia e dettagliata quanto quella che ci forniscono i trattati ippocratici, le informazioni sono piuttosto esigue.147 L’unica indicazione che ricaviamo riguarda la durata massima dei lochi: «Se le depurazioni che seguono il parto sono piuttosto scarse, e se compaiono solo nei primi giorni anziché durare fino ai quaranta, le puerpere recuperano meglio le forze e tornano prima a concepire».148 Il limite massimo entro cui ha termine la catarsi è, dunque, di quaranta giorni, ma è meglio se termina entro poco tempo. Apprendiamo, infatti, che esiste un legame specifico tra la scarsità del flusso e la capacità di ripresa della puerpera. Come ogni evacuazione di liquidi dal corpo femminile, lo scopo è sempre quello di ristabilirne l’equilibrio attraverso un bilanciamento osmotico tra il dentro e il fuori. I lochi, in particolare, sono il mezzo attraverso cui viene smaltito il liquido in eccesso che l’embrione non è riuscito ad assorbire del tutto, durante i mesi in cui il mestruo non ha avuto luogo. La correttezza del processo si raggiunge quando le depurazioni non sono eccessive, in modo da non provocare uno sbilanciamento in senso opposto ed indebolire la donna. Anche se la durata potenziale è di quaranta giorni, allora, è auspicabile che sia limitata nel tempo e nella quantità. A tal proposito, esiste una precisa corrispondenza con il flusso mestruale: «Le donne le cui mestruazioni durano poco, due o tre giorni, si ristabiliscono più facilmente, mentre la ripresa è più difficile per quelle le cui mestruazioni continuano per molti giorni. Esse soffrono (πονοῦσι) durante questi giorni, perché, pur avendo luogo la depurazione, in certe di colpo, in altre poco
146 Cfr. La generazione degli animali, IV, 6, 775 a 11 - 16; Ricerche sugli animali, VII, 3, 583 b 23 - 28: «Fino alla nascita, dunque, tutti i processi di sviluppo delle parti avvengono nella femmina più lentamente che nel maschio, e nascono più femmine di dieci mesi che maschi; dopo la nascita invece sono le femmine a raggiungere più rapidamente dei maschi la giovinezza, la maturità e la vecchiezza, specie quelle che hanno molti parti, come s’è detto prima». 147 Cfr. Malattie delle donne, L VIII, 1, 152. 148 Ricerche sugli animali, VII, 10, 587 b 1 - 5.
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a poco, il corpo ne risulta in ogni caso affaticato, finché questa ha termine».149 Il ragionamento è pressoché uguale: un flusso contenuto in durata e quantità, pur garantendo la necessaria evacuazione, non debilita eccessivamente il corpo della donna. Sia i lochi sia il mestruo implicano una perdita di materia sotto forma di perdita ematica cui si accompagna una sottrazione di energia. Ancora una volta il corpo femminile conferma la propria precarietà nel mantenere un rapporto bilanciato tra dentro e fuori, tra flussi esterni e necessità interne. Che i suoi umori fuoriescano è necessario per mantenere un bilanciamento fisiologico ma, al contempo, questa fuoriuscita è in grado di provocare un indebolimento generale. In questa ambivalenza, in questo delicato gioco di equilibri risiede la marca costitutiva della fisiologia femminile.
149 Ricerche sugli animali, VII, 582 b 5 - 9. Già in Ippocrate emerge chiaramente il rapporto d’uguaglianza qualitativa tra lochi e mestruo, i quali, tra l’altro, vengono entrambi paragonati al sangue delle vittime sacrificali Cfr. Malattie delle donne, I, 6, 5; I, 72, 2. Aristotele paragona il sangue mestruale a quello di un animale sgozzato. Sulla base dello stretto rapporto tra il VII libro del trattato aristotelico in questione è probabile che si riferisse anch’egli all’ambito sacrificale. Dean Jones 1994 osserva come, per gli ippocratici, la catarsi dopo un parto ben riuscito rappresenti quasi un sacrificio propizio, «because just as a woman’s menarchal blood was an auspicious sign indicative she was ready to assume her allotted role in the service of the oikos and therefore of the polis, so the wound of successful parturition was the culmination of this role and beneficial to society in general» (215). L’ambito religioso, connesso a quello del parto, ne sottolinea ancora una volta la valenza ambigua. Da un lato si tratta di un evento fondante per la società, d’altro canto, la positività del partorire è controbilanciata dalla sua impurità, dal suo obbedire alle più recondite leggi naturali, al mettere in evidenza una sofferenza del corpo altrimenti censurabile. Di questo discutono Bettini 1998, Loraux 1989, Sissa 1990, Zaidman 1990. Del rapporto tra linguaggio sacrificale e ambito ginecologico si è occupata King 1997.
Capitolo Secondo
Materia e forma come nozioni di genere nel pensiero aristotelico 1. Gerarchia, relazione, contrarietà La coppia maschio-femmina viene identificata nel binomio forma-materia attraverso la teoria riproduttiva. Grazie all’evento entelechico per eccellenza, ogni animale adempie alla più naturale esigenza nel generare un proprio simile, per partecipare «dell’eterno e del divino».1 Con la trasmissione e la ripetizione della forma in un altro essere in grado di svolgere le funzioni esistenziali che gli sono proprie, il telos viene realizzato. In tal senso la preminenza ontologica e gnoseologica della causa formale e di quella finale risultano del tutto evidenti ed in questa direzione si sono mossi, in particolare, gli studi di matrice femminista, nel valutare l’identificazione ilomorfica dei due generi sessuali.2 Se il fine, la realizzazione delle funzioni di ciascun ente, che coincide con l’essenza stessa, costituisce il meglio, e se tale scopo viene raggiunto grazie all’impulso attualizzante della forma, non è difficile osservare come la forma equivalga al meglio, di cui la materia non rappresenta che la potenzialità. D’altro canto, esiste una prospettiva altrettanto dominante, nella filosofia aristotelica, che tende a porre in luce la relazione che lega i due principi e la loro unità sostanziale. Per comprendere meglio il quadro dell’ilomorfismo come cornice teorica della differenza sessuale, allora, cercherò di fare emergere questo punto di vista, senza tradire il testo ma nella convinzione che entrambi gli aspetti, quello gerarchico e quello relazionale, siano da tenere in considerazione. 1 L’anima, II, 4, 415 a 27: «Nessun essere corruttibile, infatti, può permanere lo stesso e unico numericamente, perciò ciascuno ne partecipa nel modo che può, uno più, l’altro meno, e permane non lui ma un altro come lui, uno con lui non per il numero ma per la specie». 2 Lange 1983 e Okin 1979 parlano del funzionalismo aristotelico come di uno strumento volto a legittimizzare lo status quo della società del tempo di Aristotele: se il meglio corrisponde alla realizzazione delle proprie funzioni, il rapporto strumentale che lega le donne agli uomini, che si realizza soprattutto nella riproduzione, acquisirebbe spessore e base teorica proprio attraverso questa dottrina aristotelica. Secondo un simile approccio nozioni quali materia e forma, una volta connesse alla differenza sessuale, connoterebbero il pensiero aristotelico in senso normativo e gerarchico. Di parere diverso Witt 2003, secondo la quale l’intento gerarchico dell’ilomorfismo esisterebbe di per sé, non intrinsecamente in relazione alla nozione di genere. L’aggiunta del valore di genere in senso gerarchicamente strutturato avverrebbe in un secondo tempo, dal momento che «a philosopher who sees reality and nature as structured by means of form and matter, a better and a worse, is very susceptible to identifying these evaluations with whatever political norms are dominant in his culture» (112). Sulla questione in particolare, in ambito biologico, è incentrato il lavoro di McGowan Tess 1999, Horowitz 1976 Morsink 1979. Come ho già messo in luce, uno degli approcci più recenti alla questione è quello che cerca di rivalutare positivamente il ruolo del femminile nei processi riproduttivi proprio attraverso una riconsiderazione dell’importanza degli elementi materiali (cfr. Introduzione n. 8).
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Materia e forma, per ciò che riguarda le sostanze sensibili, costituiscono un’unità imprescindibile, e se la prima ha sempre bisogno della seconda per ricevere una determinazione, la seconda esiste solamente per via di astrazione senza la prima, e per il pensiero umano è in ogni caso difficile da immaginare senza riferimento ad un sostrato materiale. L’unità del composto, nel quale hyle ed eidos si trovano in relazione, ne è una testimonianza. Nel primo libro della Metafisica Aristotele compie una rassegna delle dottrine dei predecessori, che riguardano l’individuazione delle cause dell’essere. Secondo il filosofo tutte le cause indicate dai presocratici possono essere ricondotte alla causa materiale o a quella efficiente. Nell’ambito di questa discussione viene riportata una delle tavole pitagoriche dei contrari in cui compare, fra le altre, la polarità maschile–femminile. Ad essa corrispondono le coppie limite-illimite3, dispari-pari, uno-molteplice, destro-sinistro, fermo-mosso, retto-curvo, lucetenebra, buono-cattivo, quadrato-rettangolo.4 Nonostante queste coppie di contrari siano da annoverare all’interno di ciò che Aristitele considera causa materiale, in quanto parti immanenti delle sostanze, e dunque insufficienti ad essere considerati come principi, la dicotomia maschio-femmina viene spiegata, anche dal filosofo, attraverso la nozione della contrarietà.5 Si tratta, in generale, di un tipo di opposizione che può essere detta in diversi modi,6 della quale il filosofo si serve anche per spiegare il rapporto tra il maschile e il femminile. A partire da questa coppia, intraprenderò l’analisi della nozione di contrarietà che lega i due principi individuati nella forma e nella materia, nell’attivo e nel passivo, al fine di arricchire il quadro della relazione articolata e controversa che unisce il maschile e il femminile nel pensiero aristotelico. Contrarietà in relazione alla hyle La contrarietà tra maschile e femminile, non argomentata ma presentata nella sua datità, occupa un posto rilevante all’interno del X libro della Metafisica.7 All’interno del metodo diairetico di definizione, che procede tramite l’individuazione delle differentiae, essere contrari significa individuare la differenza massima fra due termini appartenenti al medesimo genere. L’appartenenza allo stesso genus è necessaria, per rimanere all’interno di un margine di commensurabilità.8 3 Così come per i pitagorici, anche per Aristotele la materia è un principio indeterminato, né quantità né alcuna altra categoria predicabile dell’essere. Cfr. Metafisica, VII, 3, 1029 a 20-26. 4 Cfr. Metafisica, I, 5, 986 a 21-27. 5 Cfr. Metafisica, I, 5, 986 b 3-5. 6 Cfr. Metafisica, V, 10, 1081 a 20-31. 7 Sulla contrapposizione tra maschio e femmina presentata come un dato indiscusso si veda Deslauriers 1998. 8 Cfr. Metafisica, X, 4, 1055 a 3-11; X, 4, 1055 a 24-27. La contrarietà è la differenza più grande, che intercorre all’interno di un medesimo genere. L’uso del procedimento per differentiam è alla base della
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Nel caso dei generi sessuali si tratta di una contrarietà che appartiene all’animale in quanto tale, καθ’αὑτὸ, di per sé. Maschio e femmina non esistono, infatti, se non in relazione alla sostanza «animale». 9 Quando negli Analitici Secondi il filosofo discute della nozione di καθ’αὑτὸ precisa che essa sussiste, tra due elementi, se il primo appartiene all’essenza del secondo, oppure se un attributo richiede la menzione del soggetto cui fa riferimento. Anche in questo caso, allora, si parlerà di un’appartenenza del primo al secondo καθ’αὑτό.10 Gli attributi maschio e femmina richiedono, senza dubbio, la menzione dell’animale nella definizione. L’essere maschio o femmina pertiene all’animale in quanto tale, non si tratta, cioè, di un accidente, quale potrebbe essere la bianchezza o la nerezza, nello stesso modo in cui il retto o il curvo appartengono alla linea e il pari e il dispari, il primo e il composto al numero. Mentre la differenza cromatica, per esempio, può essere pensata indipendentemente da un oggetto preciso, la differenza sessuale no, rappresenta una determinazione propria dell’animale. Nella nozione di “femmina” è presupposta quella di animale, così come in quella di camusità la nozione di naso, e quando si dice “naso camuso” è come se si ripetesse la nozione di naso due volte. Riassumendo: maschio e femmina sono contrari, appartengono per se all’animale e rappresentano la più grande differenza tra due termini all’interno del medesimo genere. Si pone dunque un’aporia sulla loro contrarietà che non determina alcuna differenza specifica, pur soddisfacendo tutte le condizioni che lo richiederebbero. Come possono maschile e femminile individuare una coppia di contrari non accidentali senza costituire specie differenti?11 investigazione diairetica. Scopo finale di questo processo è il raggiungimento della definizione che costituisce la base del sillogismo dimostrativo e che, quindi, fonda la conoscenza scientifica stessa. La modalità platonica di applicazione del metodo viene in parte ricevuta, da Aristotele, ma anche criticata e mostrata nei suoi punti deboli. Non è mia intenzione, in questa sede, esaminare il rapporto tra la dialettica platonica e quella aristotelica. Per un’idea complessiva rimando a Balme 1987, Cherniss 1944, Deslauriers 2007, Evans 1977. 9 Cfr. Metafisica, XIII, 3, 1078 a 5-8. 10 Cfr. Analitici Secondi, I, 4, 73 a 34 - b 5; Metafisica. V, 18, 1022 a 14-35. Sulla relazione καθ’αὑτὸ, in entrambe le due opere, si veda Deslauriers 2007. 11 Metafisica, X, 9, 1058 a 29-34: Ἀπορήσειε δ’ ἄν τις διὰ τί γυνὴ ἀνδρὸς οὐκ εἴδει διαφέρει, ἐναντίου τοῦ θήλεος καὶ τοῦ ἄρρενος ὄντος τῆς δὲ διαφορᾶς ἐναντιώσεως, οὐδὲ ζῷον θῆλυ καὶ ἄρρεν ἕτερον τῷ εἴδει· καίτοι καθ’ αὑτὸ τοῦ ζῴου αὕτη ἡ διαφορὰ καὶ οὐχ ὡς λευκότης ἢ μελανία ἀλλ’ ᾗ ζῷον καὶ τὸ θῆλυ καὶ τὸ ἄρρεν ὑπάρχει. «Si potrebbe sollevare anche il seguente problema: per quale ragione la donna non è diversa dall’uomo per specie, pur essendo femmina e maschio contrari, e pur essendo questa differenza una contrarietà; e per quale ragione l’animale femmina e l’animale maschio non sono diversi per specie, malgrado sia, questa, una differenza essenziale dell’animale (e non come ad esempio la bianchezza o la nerezza), e maschio e femmina appartengano all’animale in quanto animale». Su questa aporia, in particolare, si veda Sissa 1983. Deslauriers 1998 sostiene che: «Although Aristotle does not here give us his reason for thinking that male and female cannot be distinct species, presumably is because the sexual union of male and female “naturally” and usually (although not always) produce offspring of the same species» (163). Cfr. La generazione degli animali, II, 8, 747 b 31). Si tratta di una norma con delle
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La soluzione è rintracciata mediante una distinzione tra contrarietà riguardanti la forma o la materia. Soltanto le prime, infatti, producono differenza di specie. Esiste una contrarietà nella forma ed una nella materia, e solo la prima risulta significativa ai fini dell’individuazione della specie. Maschile e femminile, dunque, sono sì contrari in relazione alla materia e non alla forma, ma in una modalità propria, dal momento che si tratta di οἰκεῖα πάθη.12 Sono, cioè, affezioni proprie dell’animale, attributi che riguardano la materia e che, allo stesso tempo, appartengono per se all’animale. Considerata come un attributo non essenziale ma non accidentale nello stesso modo in cui la differenza cromatica lo è, la differenza sessuale riguarda il corpo, la materia, ma non la forma dell’animale.
Contrarietà di funzioni e organi Nel primo libro della Generazione degli animali, laddove la distinzione tra i due principi sessuali è messa in evidenza in merito alla teoria della riproduzione, l’accento è posto sulla diversità delle funzioni (in particolare quella riproduttiva) e degli organi ad esse deputati.13 L’osservazione avviene su due piani: quello percettivo, di ciò che è osservabile dall’esterno, e quello legato alle differenti funzioni. In primo luogo, il maschio è distinto dalla femmina per la presenza dei diversi organi sessuali. L’importanza degli organi, nella differenziazione dei generi sessuali, è dimostrata da ciò che accade ai castrati: se vengono eliminati i genitali, tutto quanto l’animale muta fino a rassomigliare sempre di più ad una femmina.14 In realtà, però, non sono gli organi genitali, né gli organi in generale dei principi o delle cause, ma è la funzione che essi svolgono ad essere determinante, e la natura dota contemporaneamente dell’organo e della funzione. Il nesso tra organo e funzione impone di parlare di quest’ultima, per comprendere appieno l’importanza degli organi e la distinzione tra maschi e femmine. In esso possiamo leggervi a un primo livello un’applicazione della teoria deleccezioni (cfr. La generazione degli animali, II, 7, 746 a 29-33; Ricerche sugli animali, VIII, 28, 606 b 19-23: l’accoppiamento tra animali di specie differenti può avvenire, talvolta, se la taglia e i periodi di gestazione non sono troppo differenti) naturalmente, ma che rappresenta ciò che avviene per lo più. Matthews 1986 controbatte che non si tratta di un’argomentazione sufficiente per considerare il maschio e la femmina come distinti per specie. 12 Cfr. Metafisica, X, 9, 1058 b 11-24. In Metafisica XIII, 3, 1078 a 5-8 il femminile e il maschile trovano spazio all’interno di una discussione volta a dimostrare l’esistenza di alcuni accidenti (πολλὰ δὲ συμβέβηκε καθ’ αὑτὰ) che appartengono alle cose in sé. In questa occasione, ancora una volta, la presenza dei due generi sessuali viene considerata tra le affezioni proprie solo e soltanto dell’animale in quanto animale, ma che non riguardano la forma. 13 Cfr. La generazione degli animali, I, 2, 716 a 23-35. 14 Cfr. La generazione degli animali, I, 2, 716 b 2-10.
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le quattro cause: la materialità dell’organo (materia) rende possibile la funzione (potenza); la forma della funzione (forma) porta l’organo a realizzarsi nell’attività (atto). Secondo Aristotele, è il fine della funzione a imporre le caratteristiche materiali alla struttura dell’organo: per esempio, la durezza dei denti e delle corna, in funzione del loro uso nella masticazione e nella difesa; esiste dunque un primato della funzione rispetto all’organo nello stesso modo in cui la causa finale, cioè lo svolgimento della funzione stessa, riveste un ruolo fondamentale nella spiegazione dell’essenza di ogni essere. La funzione degli organi sessuali, ovviamente, è quella riproduttiva, ma non è la medesima per maschi e femmine, ed è proprio in questa diversità che si traduce la distinzione nelle due polarità sessuali: il maschio è tale in quanto possiede una facoltà, che è quella del sapere operare la cozione del residuo alimentare e farne seme, in modo da muovere il processo generativo e provocare l’impulso che avvia il movimento, la femmina lo è in quanto non possiede questa facoltà e contribuisce al processo generativo offrendo una funzione contenitiva, nutritiva e materiale. Dunque, riassumendo, la differenza tra i due risiede in una funzione diversa all’interno del processo riproduttivo, la quale, a sua volta, si realizza mediante le parti del corpo ad esso deputate. Gli organi sono gli strumenti, la cui capacità è determinata e legata alla funzione da svolgere. Per ogni facoltà esiste un organo e la natura dota contemporaneamente dell’una e dell’altro, poiché senza l’esercizio della funzione l’organo perderebbe la sua ragion d’essere.15 La definizione dell’essere umano equivale a una sommatoria delle funzioni che gli sono proprie, dunque parlare di maschio e femmina significa fare riferimento alla funzione maggiormente caratterizzante: quella riproduttiva. La distinzione tra maschile e femminile basata sull’organo e sulla funzione corrispondente è definita da Aristotele come una differenza kata logon.16 Il termine logos, nel pensiero aristotelico, pone grandissime difficoltà interpretative, a causa della varietà delle valenze semantiche e dei contesti in cui viene utilizzato. Non intendo addentrarmi, in questa sede, in un’analisi dettagliata dei differenti usi e dei problemi che esso pone. Vorrei però richiamare l’attenzione su due significati in particolare. In senso più ampio esso indica il discorso definitorio, dice il “che cos’è” di una cosa. Non è esattamente sovrapponibile alla definizione intesa come horismos: 15 Cfr. La generazone degli animali, IV, 1, 764 b 35 sgg; IV, 1, 766 a 5-7. Witt 2003 parla di funzionalismo aristotelico, per cui ogni cosa è determinata da ciò che può fare. 16 La generazone degli animali, I, 2, 716 a 17-23: «Il maschio e la femmina differiscono concettualmente (κατὰ μὲν τὸν λόγον) perché ciascuno dei due è dotato di una diversa facoltà, alla osservazione differiscono invece per alcune parti. Concettualmente, perché il maschio è chi è atto a generare in altro, come si è appena detto, mentre la femmina è quella che genera in se stessa e dalla quale si forma il generato che stava nel genitore. Dal momento che poi sono distinti per una potenzialità e per un’attività, che per ogni attività occorrono degli strumenti e che strumenti per queste potenzialità sono le parti del corpo, devono esistere anche delle parti preposte alla procreazione e all’accoppiamento; queste parti differiscono le une dalle altre, e secondo questa differenza il maschio differirà dalla femmina».
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benché possano essere a volte sinonimi, il secondo termine è una specificazione particolare del primo, che può essere applicato solo a ciò che riguarda gli universali, non le sostanze corruttibili particolari, ed è connesso con l’apodeixis, la dimostrazione scientifica che si basa su premesse considerate vere.17 Logos, al contrario, può essere applicato ad ambiti molto più ampi. Uno di questi è la definizione della sostanza intesa come sinolo di materia e forma. Quando Aristotele si interroga, nel Libro VII della Metafisica, su quali parti del composto debbano entrare a fare parte della definizione di una cosa, la risposta viene rintracciata mediante il ricorso al concetto di definizione intesa come logos. Di quest’ultima faranno parte sia la materia sia la forma, come nel caso dei cerchi di bronzo di cui diciamo la loro materia, cioè il bronzo, e la loro forma, cioè una figura di una certa natura.18 In questo caso, dunque, la definizione del maschio e della femmina consiste nella loro differente capacità riproduttiva: l’uno è colui che genera in un altro e l’altro è colui che genera in sè. Tale differenza si manifesta (kata ten aisthesin) nel possesso di due organi differenti all’osservazione e conformati in modo tale da poter portare a termine il differente compito riproduttivo che, a sua volta, deriva da una differenza di definizione (kata ten logon).
Gli Oikeia pathe e la teoria della trasmissione dei caratteri La differenza sessuale spiegata come affezione propria della materia trova un perfetto incastro con la teoria aristotelica della trasmissione dei caratteri, nella quale il paschein del seme maschile ha un ruolo preminente. L’eredità genetica è spiegata a partire dal medesimo modello ilomorfico che illustra la riproduzione, ma permette di chiarirne i presupposti e la complessità, l’impossibilità di leggere univocamente la relazione che lega materia e forma, potenza e atto e, nel caso specifico della generazione sessuata, femminile e maschile. Il processo riproduttivo, attraverso cui il calore del seme maschile muove e «informa» la materia femminile, si verifica mediante la trasmissione di una serie di impulsi che permettono il passaggio sia delle caratteristiche proprie del genere sia di quelle individuali.19 Quando il mestruo è cotto a dovere il procedimento va a buon fine Cfr. Metafisica, VII, 10, 1036 a 1-10; VII, 15, 1039 b 20-21. Cfr. Metafisica, VII, 7, 1033 a 1-5. 19 Si tratta di un argomento molto dibattuto e che solleva diversi problemi. Uno dei più discussi è la natura dei “movimenti” trasmessi dal padre e al fatto che essi corrispondano o meno alla forma paterna. In caso affermativo, dovremmo dunque presupporre che la forma sia un principio individuale, responsabile del passaggio anche di tutte quelle caratteristiche individuali colore degli occhi, della pelle, ecc. Questa è la posizione di Balme 1987 c), il quale sostiene una coincidenza tra forma paterna e caratteristiche ereditarie. Contro questa tesi Witt 1985 (l’articolo di Balme era apparso, per la prima volta, nel 1980, in Archiv für Geschichte der Philosophie) afferma che la forma non include mai alcun tipo di proprietà materiale, a differenza del sinolo. In secondo luogo, poiché la forma trasmessa dal padre coincide con 17 18
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e il movimento generativo garantisce una nascita che riproduca la forma paterna e cioè, in altri termini, un figlio maschio che ne mantenga le fattezze. Se la cozione non viene ultimata a dovere, invece, l’impulso viene sopraffatto dando inizio ad una serie di dispersioni lungo la catena delle somiglianze. La dispersione avviene in maniera graduale e secondo livelli differenti. Può trattarsi di una conversione nell’opposto, come per esempio nel caso dell’impulso maschile sopraffatto e convertito nel corrispondente femminile, o di un maschio che assomiglia alla madre o viceversa, via via lungo la linea genealogica paterna o materna, dai parenti più prossimi a quelli più lontani, secondo un procedimento lineare (il maschio che ripercorre la linea del padre e la femmina quella materna) o incrociato.20 Tutto ciò si verifica grazie ad una controspinta che la materia esercita sulla forma: così come accade che un coltello sia smussato dalla superficie che taglia, o che ciò che è caldo sia raffreddato da ciò che tenta di riscaldare, nello stesso modo la forma subisce un controeffetto da parte della materia.21 Diversamente dall’usuale habitus di passività della causa materiale, che le deriva dalla sua necessità di una determinazione formale, la hyle in questo caso agisce, esercitando un movimento contrario che incide sull’esito riproduttivo. Ciò che accade al termine della catena ereditaria enfatizza ancor di più questa prospettiva e ne evidenzia l’importanza. All’interno della linea delle possibili dispersioni il risultato ultimo è quello della nascita di esseri malformati, quando la materia non può più essere dominata in alcun modo. Il primo esempio di teras, il grado minimo dell’anomalia, è l’assenza di qualsiasi legame di somiglianza con i genitori. All’interno di questa categoria Aristotele menziona un caso particolare, considerato l’inizio, l’arche del distacco dal corretto svolgimento riproduttivo: la nascita di una femmina che, in quanto tale, non riproduce la forma del genitore maschio. O, meglio, la riproduce in maniera difettosa, trasformata. Si tratta di un’anomalia che riguarda la metà degli esseri e che è necessaria al mantenimento della specie in eterno, in vista delle finalità
l’anima sensitiva, dovremmo ammettere l’esistenza di anime individuali divise in sottospecie in grado di provocare fattezze accidentali. La proposta di Witt è che il seme maschile abbia un doppio compito: da un lato, alcuni movimenti presenti in esso sono responsabili del passaggio dell’anima sensitiva, dall’altro, ve ne sono altri, diversi dai precedenti, in grado di trasmettere le somiglianze familiari. Henry 2006b considera i movimenti spermatici come mezzi attraverso cui viene trasmessa la forma alla progenie, i quali derivano dal potenziale genetico del genitore. Ognuno di questi movimenti potenziali è la fonte per una parte differente della natura fenotipica, come dice Henry 2006b, dell’animale. Tra la recezione di tali impulsi seminali e lo sviluppo del feto vi è l’interposizione di un nuovo potenziale genetico che appartiene esclusivamente al nascituro. A mio parere, però, questa teoria non tiene sufficientemente in conto o non spiega esaustivamente il ruolo della materia in tutto il processo di trasmissione dei caratteri. Ad esso dedica invece particolare attenzione Van der Eijk 2007. Per un confronto con le moderne teorie genetiche si veda Vinci, Robert 2005. 20 Cfr. La generazione degli animali, IV, 3, 768 a 26 -36. 21 Cfr. La generazione degli animali, IV, 3, 768 b15-23.
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riproduttive.22 Se immaginiamo la teoria della trasmissione dei caratteri come una linea che progredisce da un punto ideale d’inizio (la nascita di un maschio somigliante al padre) fino ad arrivare al punto finale, estremo (quello delle degenerazioni), i figli non rassomiglianti ai genitori costituiscono una sorta di tappa intermedia. Il passo successivo è la nascita di una femmina. Essa interrompe la catena patrilineare, che in qualche modo garantisce, attraverso la somiglianza col padre, la legittimità della trasmissione sociale e patrimoniale.23 Man mano che la resistenza della materia aumenta, anche la serie delle dissimilitudini si accresce fino ad approdare al termine, e cioè al luogo delle malformazioni. La teoria dell’agente paterno come colui che trasmette la forma, intesa come forma maschile, conferma lo stretto legame tra principio materiale e nascite femminili, di cui non vi sarebbe traccia se all’interno del principio informatore paterno, mediante cui viene trasmessa l’eidos, fosse contenuta la differenza sessuale.24 Nonostante essa sia definita kata logon, da un punto di vista biologico, all’interno della teoria dell’ereditarietà riaffiora il modello riproduttivo perfetto, la medesima unicità del maschile, rispetto al quale il femminile non rappresenta che una deviazione necessaria alla conservazione delle specie. La differenza sessuale è posta in tutti i casi dalla parte della materia: da un punto di vista ontologico nella definizione di una contrarietà non accidentale ma materiale, da un punto di vista biologico come prodotto di una resistenza del paziente (la materia materna) nei confronti dell’agente (la forma paterna). Accanto alla negazione ontologica delle nascite femminili, la teoria della trasmissione dei caratteri non manca di mettere in luce un altro aspetto della questione: il rapporto tra agente e paziente e la relazione reciproca che lega i due principi. E del resto, molti sono i passi in cui Aristotele sostiene la necessità di una misura, di una certa συμμετρία tra il maschile e il femminile, per evitare ciò che accade ai cibi troppo cotti, che bruciano, o che, altrimenti, non vengono cotti in alcun modo.25 Cfr. La generazione degli animali, IV, 3, 767 b 6 -10. Secondo Campese 1997 la somiglianza avrebbe il ruolo di rivelare il vincolo corporeo, di segnalare inconfutabilmente l’ascendenza paterna. Su questo punto, del resto, sembra rivolgersi la maggior critica all’irrealizzabilità del progetto comunitario espresso da Platone nella Repubblica (cfr. Politica, II, 3, 1262 a 14-25). In questo brano fa la sua comparsa la cavalla Dikaia, così nominata per la sua capacità di mettere al mondo puledri somiglianti al genitore maschio, la quale è ricordata anche in Ricerche sugli animali, VII, 6, 586 a 12-14. Sui rapporti tra Platone e la teoria aristotelica dell’ereditarietà si veda anche Dean Jones 2000. 24 Cfr. Deslauriers 1998 (150); Matthews 1986, 22. 25 Cfr. La generazione degli animali, IV, 2, 767 a 13-23; IV, 4, 772a 10-22. Secondo Cooper 1990 il concetto di symmetria non ci permette di parlare di una corrispondenza di ruoli tra maschile e femminile, proprio in quanto basata su caldo e freddo, secco e umido. Sappiamo che la freddezza connota il femminile e, come dice Cooper 1990: «wetness, unlike heat, certainly does not connote movement in Aristotle’s physical theory. It cannot be emphasized too strongly that, however much the theoretical basis for them has already been laid in book II, no actual mention of movements in the catamenia, much less of any role for them in sex-determination and inherited bodily characteristic, has occured before GA IV, 3» (68). 22
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Come le due metà di un pegno, maschio e femmina tendono l’uno verso l’altra in cerca dell’utile, non come fossero il fine l’uno dell’altra, il quale si identifica nella mesotes, ma per il raggiungimento del fine stesso: «Invece il contrario è amico del contrario come utile; infatti il simile è inutile a sé medesimo. Per questo il padrone ha bisogno del servo e il servo del padrone, e la donna e l’uomo hanno bisogno l’uno dell’altro, e il contrario è piacevole e desiderabile in quanto è utile e non come se consistesse nel fine, ma come in vista del fine. Quando uno ottiene ciò che desidera è giunto al fine e non aspira al contrario, come il caldo aspira al freddo e il secco all’umido. In un certo senso, anche l’amicizia verso il contrario è amicizia del bene. Infatti i contrari aspirano l’uno all’altro in vista del medio: aspirano l’uno all’altro, infatti, come le due metà di un pegno, perché così da entrambi si genera una cosa sola media. Inoltre l’aspirazione è per accidente volta al contrario, ma per sé alla medietà. Infatti i contrari non aspirano l’uno all’altro, ma alla medietà. Quando ci si è troppo raffreddati, infatti, ci si stabilisce nella medietà qualora si sia riscaldati e così anche, quando si è eccessivamente scaldati, qualora si sia raffreddati; ugualmente accade anche negli altri casi. E se non è così si permane sempre nel desiderio, ma non negli stati mediani».26 Giunti a questo punto, siamo in grado di compiere un passo ulteriore nell’analisi della rete di rapporti che legano il maschile e il femminile, individuati all’interno di un processo entelechico. La riproduzione avviene mediante l’attuazione della potenzialità della materia femminile da parte del principio paterno, in vista della realizzazione del fine. La dottrina della potenza e dell’atto, dunque, all’interno della generazione, è associata esplicitamente alla differenza sessuale e alla differenza di ruoli dei due generi.27 Attività vs passività La diversificazione dei contributi all’interno della riproduzione si basa sulla insufficienza termica che definisce e caratterizza il femminile. La griglia interpretativa che si dipana lungo le coppie oppositive caldo-freddo, forma-materia, attivo-passivo evidenzia un chiaro intento valutativo che, in quest’ultimo caso, si basa sull’anteriorità ontologica dell’atto sulla potenza espressa nel IX libro della Metafisica.28 Se consideriamo la visione finalistica del pensiero aristotelico, Etica Eudemia, VII, 5, 1239 b 23-37. Cfr. La generazione degli animali, I, 2, 716 a 4-7; 716 a 23-31; II, 1, 734 b 19-25; II, 4, 740 b 18-25. 28 Metafisica, IX, 8, 1049 b 10-12: «Ora, di ogni (potenza) intesa a questo modo l’atto è anteriore secondo la nozione e secondo la sostanza; invece, secondo il tempo, l’atto in un senso è anteriore e in un altro senso non è anteriore». Secondo la nozione, la priorità si basa sull’assunto che ogni potenza sia conoscibile nei termini dell’atto verso cui è diretta, come per esempio il calore, il cui potere è definibile solo in virtù dell’attività di riscaldare. Il discorso sulla priorità temporale ammette due possibilità, ed è l’unico che riguarda direttamente la riproduzione. Se si fa riferimento al singolo individuo, la potenza è anteriore all’atto, dal momento che ciascun individuo è in potenza prima di essere pienamente in atto. Se 26 27
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secondo cui il telos rappresenta la realizzazione migliore e più completa dell’insieme delle funzioni di ciascuna sostanza, ancor più evidente ci appare la bontà dell’atto in quanto fine, nei confronti della potenza.29 Ogni potenza, infatti, esiste sempre in relazione o al fine di un atto. L’inserimento della differenza sessuale all’interno della dottrina atto-potenza permette l’individuazione di una precisa gerarchia ontologica anche tra maschile e femminile: «La prima causa motrice, cui appartengono l’essenza e la forma, è migliore e più divina per natura della materia, è anche meglio che il superiore esista separato dall’inferiore».30 Per questo motivo il maschio, principio di mutamento, e la femmina, materia e potenza di mutamento, hanno esistenza separata. Motore e mosso si distinguono l’uno per l’attività, l’altro per una potenzialità. Si noti come il motore e il mosso, l’agente e il paziente si trovino nella medesima condizione di contrarietà che individua i due generi sessuali: «Dal momento che l’agire e il patire sono proprietà non di una qualsiasi cosa fortuita, ma solamente di quelle cose che o implicano una contrarietà o sono esse stesse contrarie, è necessario che tanto l’agente quanto il paziente siano simili e identici per genere, ma dissimili e contrari per specie (difatti un corpo è per natura disposto a subire l’azione di un corpo, un sapore l’azione di un sapore, un colore l’azione di un colore e, insomma, l’omogeneo l’azione dell’omogeneo; e la causa di ciò sta nel fatto che sono contrarie tutte le cose che reciprocamente agiscono e patiscono); e da tutto ciò consegue che necessariamente l’agente e il paziente sono in un senso identici, ma in un altro senso sono altri tra loro e dissimili».31 Questa prospettiva, che emerge soprattutto dal trattato sulla Generazione e la corruzione, consente di analizzare la dottrina dell’atto mettendone in luce un ben determinato aspetto, che è quello della relazione. Agire e patire sono proprietà di cose contrarie, uguali per genere, ma dissimili per specie che si trovano ad essere reciprocamente (ὑπ’ ἀλλήλων) attive e passive.32 L’indagine sull’agire e sul patire, dice Aristotele, deve essere estesa al contatto, perché «le cose che non si toccano reciprocamente non hanno la possibilità, in senso proprio, di agire e di patire, né possono cominciare a mescolarsi senza essersi in un certo qual
consideriamo la specie degli individui, invece, l’atto sarà anteriore, perché è sempre un individuo in atto, appartenente alla specie, a generarne un altro. Per quanto riguarda la sostanza, non si tratta solamente di una priorità epistemologica, come lo è quella dal punto di vista della nozione, ma, come dice Witt 2003, possiamo parlare piuttosto di una «ontological priority» (88). Su questo tema si veda, inoltre, Charlton 1987; 1989; Cleary 1988; Frede 1994; Heinaman 1995; Ide 1992; King 1998; Kosman 1984; 1994; Menn 1994; Panayde 1999; Sulle coppie oppositive menzionate si veda Lloyd 1966; Sassi 1988. 29 Cfr. Metafisica, IX, 9, 1051a 5-15. 30 La generazione degli animali, II, 1, 732 a 1-6. 31 La generazione e la corruzione, I, 7, 323 b 30-34/ 324 a 1-5. 32 Cfr. La generazione e la corruzione, I, 7, 324 a 5-19. Gill 1989 (86) sottolinea come l’uso di ὑπό con il genitivo sia il modo più frequente, da parte di Aristotele, per indicare l’agente. Dunque, se due entità sono mosse ὑπ’ ἀλλήλων, l’una dall’altra, il movimento sarà reciproco, vale a dire, cioè, che ciascuna sarà agente, ma anche paziente nei confronti dell’altra.
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modo toccate».33 Come Aristotele stesso sottolinea a proposito del contatto reciproco, esso riguarda solamente un motore e un mobile che abbiano le proprietà di agire e patire.34 La stessa prospettiva viene adottata anche nella Fisica, a proposito della descrizione della kinesis, di cui la generazione è un esempio.35 Ciò che viene messo in evidenza è proprio la circolarità del processo, non perché ci sia uguaglianza di proprietà tra motore e mosso, quanto piuttosto per il fatto che ogni motore è tale solo nell’esercizio della propria attività ed il mosso, viceversa, diviene anch’egli motore perché è solo grazie alla sua potenzialità che il motore e il movimento si attualizzano.36 La prospettiva che emerge, in tali contesti, è proprio quella dell’unicità del processo, di cui fanno parte al pari, pur con funzioni diverse per concetto, il motore e il mobile. Se in ambito biologico, in riferimento alla generazione e con la presenza della struttura teorica del IX libro della Metafisica, il quadro che emerge è soprattutto quello di un forte impianto teleologico, in base al quale atto e potenza si trovano in posizione di anteriorità e posteriorità l’uno rispetto all’altro, in ambiti differenti ciò che riceve particolare evidenza è il rapporto relazionale che lega i due principi. L’agente e il paziente, inseriti all’interno di un unico 33 La generazione e la corruzione, I, 6, 322b 21-26. Sulla nozione di contatto espressa nel VII libro della Fisica si veda Wardy 1990. 34 La generazione e la corruzione, I, 7, 323a 20-25: Ἐκεῖνο δ’ οὖν φανερόν, ὅτι ἔστι μὲν ὡς τὰ κινητικὰ τῶν κινητῶν ἅπτοιτ’ ἄν, ἔστι δ’ ὡς οὔ. Ἀλλ’ ὁ διορισμὸς τοῦ ἅπτεσθαι καθόλου μὲν ὁ τῶν θέσιν ἐχόντων καὶ τοῦ μὲν κινητικοῦ τοῦ δὲ κινητοῦ, πρὸς ἄλληλα δὲ κινητοῦ καὶ κινητικοῦ ἐν οἷς ὑπάρχει τὸ ποιεῖν καὶ τὸ πάσχειν. «Ma una cosa, ad ogni modo, risulta con evidenza: che, cioè, in un senso le cose che muovono possono essere in contatto con le cose mobili, in un altro senso, invece, no. Comunque, la definizione dell’espressione «essere in contatto» va applicata nella sua accezione universale a quei corpi che occupano una posizione e dei quali uno è motore e l’altro è mobile; la definizione, invece, dell’espressione «essere in contatto reciproco» va applicata a un mobile e a un motore che abbiano le proprietà di agire e di patire». La nozione di relazione, inoltre, permette di superare la difficoltà posta da La generazione e la corruzione I, 6, 322b 32 / 323a 12, in cui il filosofo parla del contatto che lega motore e mosso, atto e potenza. L’ἅπτεσθαι che li unisce, in effetti, è definito come occorrente tra due grandezze collocate nello spazio che abbiano le estremità che si toccano. Ma l’azione e la passione dell’insegnare e dell’imparare, per esempio, richiederanno un contatto tra maestro e allievo non certamente nel senso che le loro estremità si tocchino, ma nel senso della relazione reciproca. 35 Fisica, III, 1, 201a 9-15: διῃρημένου δὲ καθ’ ἕκαστον γένος τοῦ μὲν ἐντελεχείᾳ τοῦ δὲ δυνάμει, ἡ τοῦ δυνάμει ὄντος ἐντελέχεια, ᾗ τοιοῦτον, κίνησίς ἐστιν, οἷον τοῦ μὲν ἀλλοιωτοῦ, ᾗ ἀλλοιωτόν, ἀλλοίωσις, τοῦ δὲ αὐξητοῦ καὶ τοῦ ἀντικειμένου φθιτοῦ (οὐδὲν γὰρ ὄνομα κοινὸν ἐπ’ ἀμφοῖν) αὔξησις καὶ φθίσις, τοῦ δὲ γενητοῦ καὶ φθαρτοῦ γένεσις καὶ φθορά, τοῦ δὲ φορητοῦ φορά. «E poiché abbiamo distinto, nell’ambito di ciascun genere, ogni cosa secondo l’atto o la potenza, l’atto di ciò che esiste in potenza, in quanto tale, è movimento: ad esempio, l’atto di ciò che è alterabile, in quanto alterabile, è alterazione; l’atto di ciò che si accresce e di ciò che, al contrario, diminuisce, (non esiste infatti un nome comune ad entrambi), crescita e diminuzione; e l’atto di ciò che si genera e di ciò che si corrompe, generazione e corruzione; l’atto di ciò che si muove localmente, locomozione». 36 Su questo punto, in particolare, Wieland 1993 nota come il motore sia «condizione necessaria ma non sufficiente per il movimento» (315). Waterloo 1982 mette in evidenza l’idea di relazione all’interno del concetto di movimento, il quale «makes essencial reference to the concept of a particular cause of change standing in a special relation to the subject» (174). La stessa unicità del processo, la stessa relazione che lega l’atto e la potenza si trova, del resto, anche nel meccanismo della sensazione. Il sensibile muove la sensazione e l’atto si realizza nel soggetto passivo. Cfr. per esempio, L’anima, III, 2, 425 b 26-31 III, 2, 426 a 1-6.
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processo, definiscono se stessi reciprocamente e sono imprescindibili l’uno per la presenza dell’altro. Laddove, invece, la tematica del femminile e del maschile emerge con forte evidenza, e cioè all’interno delle teorie riproduttive, l’insistenza sulla gerarchia ritorna ad acquisire maggior rilievo. Sono proprio i luoghi in cui l’impianto gerarchico risulta chiaro che le nozioni di genere trovano luogo in modo esplicito, nonostante esso sia presente intrinsecamente nella teoria della potenza e dell’atto e a prescindere dalle possibili associazioni in merito al maschile e al femminile. Eppure la complessità del pensiero aristotelico richiede uno sguardo più profondo e globale allo stesso tempo, uno sguardo che ci lasci intravedere l’altra faccia della medaglia, e cioè quella della relazione che lega atto e potenza, forma e materia e, in definitiva, maschile e femminile.
2. Come una madre: la materia come sostrato Vorrei adesso considerare un ultimo aspetto, lungo la strada intrapresa, e cioè quello del sostrato discusso nel primo libro della Fisica, da alcuni studiosi identificato con il concetto di “materia prima”.37 Il divenire è spiegato come un passaggio tra contrari che siano opposti all’interno del medesimo genere. Non sono però i contrari a mutare l’uno nell’altro, ma un sostrato, di cui i contrari saranno predicati.38 È, questo, il caso di ciò che Aristotele considera il divenire qualitativo: un’alterazione di una sostanza già di per sé esistente, mentre il divenire sostanziale avviene quando una sostanza passi dal non esistere all’esistere e vice versa. Poiché le sostanze non ammettono contrari, si tratta di un divenire che non coinvolge una contrarietà. Le caratteristiche dell’hypokeimenon considerate maggiormente come prova della sua identità con la materia prima sono il suo essere al di fuori della generazione e della corruzione, e la sua inconoscibilità per se e la sua indeterminatezza, in quanto pura potenzialità: il bronzo o il legno, che diventano una statua o un letto, sono 37 Data l’annosità e la complessità del problema, vorrei tentare un approccio che rimanga all’interno del solco tracciato sino ad ora. Non intendo addentrarmi nella questione della materia prima in sé, vorrei solo servirmene nei limiti e nei termini che ho stabilito fin qui, per acquisire un ulteriore tassello nella strutturazione dell’immagine aristotelica del femminile, come concetto legato al principio materiale. 38 Cfr. Fisica, I, 6 per intero. Lo stesso concetto è spiegato anche in Metafisica, XII, 2, 1069 b 3-9: Ἡ δ’ αἰσθητὴ οὐσία μεταβλητή. εἰ δ’ ἡ μεταβολὴ ἐκ τῶν ἀντικειμένων ἢ τῶν μεταξύ, ἀντικειμένων δὲ μὴ πάντων (οὐ λευκὸν γὰρ ‹καὶ› ἡ φωνή) ἀλλ’ ἐκ τοῦ ἐναντίου, ἀνάγκη ὑπεῖναί τι τὸ μεταβάλλον εἰς τὴν ἐναντίωσιν· οὐ γὰρ τὰ ἐναντία μεταβάλλει. ἔτι τὸ μὲν ὑπομένει, τὸ δ’ἐναντίον οὐχ ὑπομένει· ἔστιν ἄρα τι τρίτον παρὰ τὰ ἐναντία, ἡ ὕλη. «La sostanza sensibile è soggetta a mutamento. Ora, se il mutamento ha luogo fra gli opposti, oppure fra gli stati intermedi a questi – non fra tutti gli opposti in genere (anche la voce, infatti, è un non-bianco), ma soltanto tra contrari -, è necessario che ci sia un sostrato che muta da un contrario all’altro, perché i contrari non mutano. Inoltre, nel processo di mutazione c’è qualcosa che permane, mentre il contrario non permane; dunque, c’è un terzo termine oltre i due contrari: la materia». Cfr. anche Metafisica, XIV, 1, 1087 a 36-37/ 1087 b 1-2.
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dei casi particolari, degli analoghi di ciò che è l’hypokeimenon. Ciò che rimane, alla fine del processo, sta alla sostanza generata come il bronzo sta alla statua, ma in sé non ha una propria forma né una propria natura39 ed è «il sostrato primo dal quale la cosa si genera non accidentalmente».40 Ogni μεταβολή dunque, avviene sulla base di un sostrato che permane, che ha la potenzialità di due specificazioni possiede una propria determinazione positiva, ma anche una negativa, una privazione, contraria a quella assunta al termine della generazione, quando, per esempio, avremo la statua, che proviene dal bronzo ma che non corrisponde più al materiale di cui è fatta. Non ne condivide la forma, ma possiede un’altra determinazione positiva, nella quale il movimento termina.41 Uno quanto al numero ma duplice in quanto alla forma, l’hypokeimenon è al di fuori della sfera della generazione e della corruzione, permane sempre. Senza la sua presenza, non esistono generazione e corruzione.42 Tale sostrato non possiede né un’esistenza separata né caratteristiche distinte, ed è conoscibile solo per analogia, cioè attraverso una identità di rapporto con ciò che avviene nei casi particolari.43 Cfr. Fisica I, 191a 9-12. Fisica, I, 9, 192 a 31-32. 41 Secondo Sfendoni-Mentzou 2000 è proprio con il caso della generazione e corruzione che Aristotele introduce la hyle come: «the persisting underlying πρῶτον ὑποκείμενον» (242). 42 Cfr. Fisica, I, 9, 192 a 25-34. 43 Cfr. Della generazione e della corruzione, II, 1, 329a 24-32; Fisica, I, 7, 191a 7-12. La caratterizzazione del sostrato materiale in questi termini, da parte di Aristotele, è divenuta oggetto di una lunga controversia tra gli studiosi. Per una trattazione riassuntiva del dibattito si veda, tra gli altri, Cohen 1996. La visione più tradizionale e per molto tempo accreditata, è quella esemplificata dalle parole di Robinson 1974, 168: «Prime matter is a bare stuff (...) This prime matter is nothing but a potentiality, which can exist only in some determinate matter». Sulla stessa scia, Barrington Jones 1974, ne ha parlato nei termini di una «typical illusion of a metaphysician» (474). Charlton 1979 si è invece espresso criticamente e contro la visione tradizionale, sostenendo che il modo di descrivere e parlare del sostrato come una «primary matter» così indeterminata e puramente potenziale derivi, più che altro, dalla descrizione compiuta da Platone nel Timeo 49 a 3-4. La tradizione post aristotelica, allora, avrebbe operato una sovrapposizione per unire e mantenere in collegamento il linguaggio platonico e quello di Aristotele. Questa impostazione è stata criticata da Williams 1982 nell’appendice alla sua traduzione del trattato La generazione e la corruzione. Lo studioso, infatti, ha messo in rilievo la posizione crtitica di Aristotele (Cfr. Della generazione e della corruzione, II, 1, 329 a 13) proprio in merito alla descrizione platonica chiamata in causa da Charlton. Una posizione molto interessante, a mio avviso, è stata recentemente assunta da Sfendoni Mentzou 2000, la quale ha cercato di stabilire un legame concettuale tra la potenzialità insita nel sostrato materiale aristotelico e l’idea della materia che emerge dalla contemporanea meccanica quantistica e dalla fisica delle particelle elementari. Queste, essenzialmente, solo alcune delle posizioni più conosciute in merito ad una questione che ha suscitato una annosa discussione, a partire dai commentatori aristotelici medievali. La controversia, in definitiva, riguarda, per lo più, la indeterminatezza o meno del sostrato. Secondo la visione tradizionale, infatti, questa materia prima è del tutto priva di alcuna specificazione, un concetto relativo a ciò di cui è sostrato ma vuoto in sé. Altri studiosi, di opinione opposta, hanno tentato di dimostrare come il concetto di materia prima, nella sua interpretazione più diffusa, derivi più che altro dai depositari della scolastica aristotelica. Un lavoro più recente è quello di Studtmann 2006 che sottoliena la problematicità dell’idea che la materia prima abbia estensione. Al di là delle differenti posizioni assunte in merito a questa lunga disputa, all’interno della quale non è mia intenzione addentrarmi, se non, come ho tentato di fare, per delinearne un generale status quo, mi preme sottolineare un aspetto, in particolare. L’aspetto saliente della questione, ai fini del mio discorso, è l’identificazione tra materia prima e la possibilità del divenire in natu39 40
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Il caso del divenire sostanziale, nello specifico, coinvolge la sostanza stessa la quale, al termine del processo sarà una sostanza diversa, mentre l’hypokeimenon rimane uno rispetto al numero ma duplice rispetto alla forma: «Ma apparirà evidente a quanti prendono in esame la cosa, che anche le sostanze – e tutto ciò che si dice in senso assoluto –, divengono a partire da un certo sostrato. Sempre infatti deve sussistere qualcosa che fa da sostrato, e a partire dal quale diviene ciò che viene ad essere, come ad esempio le piante e gli animali dal seme. Mentre le cose che divengono in senso assoluto si generano, si producono da un lato per mutamento di forma (come quando una statua è prodotta dal bronzo), dall’altro per aggiunta (come ad esempio le cose che crescono), o per sottrazione (come ad esempio un Ermes da una pietra); o per composizione, come la casa, altre per alterazione, (come ad esempio le cose che mutano qualitativamente secondo la materia). È evidente che tutte le cose che divengono in questo modo, lo fanno a partire da un sostrato».44 Fra gli esempi presentati in questo passo fa la sua comparsa il seme, to sperma, termine che rimanda alla generazione intesa come riproduzione degli esseri viventi, almeno nel caso degli animali. Sembra che qui l’hypokeimenon sottintenda due utilizzi differenti: nel caso del seme non si tratta del sostrato che permane, quanto piuttosto di un terminus a quo, che, appunto, non rimane nel terminus ad quem del processo, e cioè l’animale. Il ragionamento sul divenire sostanziale prosegue con la critica a Platone, basata sull’avere concepito il sostrato come unico sia quanto al numero sia quanto alla forma. In questo modo, la materia non viene distinta dalla privazione. Se le cose stessero come dice Platone non vi sarebbe più differenza tra sostrato e privazione e, così, forma e materia finirebbero per essere contrari. L’introduzione del sostrato impedisce questo tipo di contraddizione: non è il piccolo che diventa grande, ma è qualcosa che prima era piccola e poi diviene grande, o che prima era brutta e diviene bella, allo stesso modo in cui l’uomo, da non-musico, diviene musico. A questo punto, per spiegare la permanenza dell’hypokeimenon, Aristotele ricorre ad una similitudine che rimanda, nuovamente, alla generazione intesa come riproduzione tout court. Sostiene il filosofo che ciò che permane «è causa, insieme alla forma, delle cose che si generano, come se fosse una madre (ὥσπερ μήτηρ)». Ciò che rimane della contrarietà, invece, «spesso sembra, in ragione del suo carattere distruttira. Come afferma Bostock 2006: «in every change there is something to start with, and during the change that things becomes something which it was not before» (30). 44 Fisica, I, 7, 190 b 1-10: ὅτι δὲ καὶ αἱ οὐσίαι καὶ ὅσα [ἄλλα] ἁπλῶς ὄντα ἐξ ὑποκειμένου τινὸς γίγνεται, ἐπισκοποῦντι γένοιτο ἂν φανερόν. ἀεὶ γὰρ ἔστι ὃ ὑπόκειται, ἐξ οὗ τὸ γιγνόμενον, οἷον τὰ φυτὰ καὶ τὰ ζῷα ἐκ σπέρματος. γίγνεται δὲ τὰ γιγνόμενα ἁπλῶς τὰ μὲν μετασχηματίσει, οἷον ἀνδριάς, τὰ δὲ προσθέσει, οἷον τὰ αὐξανόμενα, τὰ δ’ ἀφαιρέσει, οἷον ἐκ τοῦ λίθου ὁ Ἑρμῆς,τὰ δὲ συνθέσει, οἷον οἰκία, τὰ δ’ ἀλλοιώσει, οἷον τὰ τρεπόμενα κατὰ τὴν ὕλην. πάντα δὲ τὰ οὕτω γιγνόμενα φανερὸν ὅτι ἐξ ὑποκειμένων γίγνεται.
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vo, non esistere del tutto. Dal momento che sussiste qualcosa di divino, di buono e di desiderabile, infatti noi diciamo che da un lato esiste un principio che è contrario a queste cose, e dall’altro ciò che per natura desidera e tende verso questo. Mentre ad essi capita di affermare che l’elemento contrario aspira alla propria distruzione. E tuttavia né la forma può desiderare se stessa, in quanto in essa non vi è nessuna mancanza, né ciò che è contrario a questa, in quanto gli elementi contrari si distruggono a vicenda. Ma l’elemento che desidera è la materia, come la femmina il maschio e il brutto il bello, a meno che questa cosa sia brutta non per sé, ma per accidente, e così pure che la femmina desideri non per sé, ma per accidente».45 Nel paragone con la madre non può non risuonare l’eco della materia madre del Demiurgo platonico. Allo stesso tempo, l’utilizzo di un linguaggio che rimanda alla generazione degli esseri rimane pienamente aristotelico, come testimoniano anche le coppie maschio-femmina, forma-materia, nominate in parallelo, per spiegare la tensione all’attualizzazione da parte della hyle. Quest’ultima possiede una disposizione e un desiderio ad accogliere in sé la forma, se fossero contrari dovremmo ammettere allora che essa desideri il proprio contrario, cioè la propria distruzione, e questo è assurdo. La materia è privazione per accidente, non per sé, ed è sostrato della forma, non il suo contrario, è ἐνδεές e tende (ὀρέγεσθαι) verso la forma, la desidera, così come la femmina tende verso il maschio e il brutto verso il bello. Anche in questo passo è possibile notare la presenza di una precisa griglia valutativa in cui la forma, compiuta e priva di mancanza, è posta dalla parte del maschio e del bello, ed è l’elemento verso cui, invece, aspira la materia bisognosa, collocata sul piano della femmina e del brutto. Ritornando alla teoria riproduttiva, in cui la madre offre il mestruo (materia che ha bisogno della forma per ricevere l’anima) ci troviamo di fronte ad una potenzialità della hyle che, una volta attualizzata, permette la formazione dell’embrione e del nuovo essere. Non sorprende, allora, scoprire che nel I libro del trattato La generazione degli animali Aristotele affermi che la natura del mestruo sia conforme a quella della materia prima.46 Anche in questo caso, si tratta di un ragionamento volto ad affermare l’unicità del liquido seminale maschile, vale a dire, l’unicità della facoltà attivizzante del padre separatamente da quella passiva e potenziale della materia mestruale 45 Fisica, I, 192 a 13-25: ἡ μὲν γὰρ ὑπομένουσα συναιτία τῇ μορφῇ τῶν γιγνομένων ἐστίν, ὥσπερ μήτηρ· ἡ δ’ ἑτέρα μοῖρα τῆς ἐναντιώσεως πολλάκις ἂν φαντασθείη τῷ πρὸς τὸ κακοποιὸν αὐτῆς ἀτενίζοντι τὴν διάνοιαν οὐδ’ εἶναι τὸ παράπαν. ὄντος γάρ τινος θείου καὶ ἀγαθοῦ καὶ ἐφετοῦ, τὸ μὲν ἐναντίον αὐτῷ φαμεν εἶναι, τὸ δὲ ὃ πέφυκεν ἐφίεσθαι καὶ ὀρέγεσθαι αὐτοῦ κατὰ τὴν αὑτοῦ φύσιν. τοῖς δὲ συμβαίνει τὸ ἐναντίον ὀρέγεσθαι τῆς αὑτοῦ φθορᾶς. καίτοι οὔτε αὐτὸ αὑτοῦ οἷόν τε ἐφίεσθαι τὸ εἶδος διὰ τὸ μὴ εἶναι ἐνδεές, οὔτε τὸ ἐναντίον (φθαρτικὰ γὰρ ἀλλήλων τὰ ἐναντία), ἀλλὰ τοῦτ’ ἔστιν ἡ ὕλη, ὥσπερ ἂν εἰ θῆλυ ἄρρενος καὶ αἰσχρὸν καλοῦ· πλὴν οὐ καθ’ αὑτὸ αἰσχρόν, ἀλλὰ κατὰ συμβεβηκός, οὐδὲ θῆλυ, ἀλλὰ κατὰ συμβεβηκός. 46 Cfr. La generazione degli animali, I, 20, 729 a 32-33. Come osserva Balme 1972, le mestruazioni sono “residue that has not been fully worked upon but still in a state of potentiality” (152).
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sanguigna. Non voglio in alcun modo sostenere, dunque, a partire da questo brano, una precisa identità tra materia prima e materia riproduttiva, né, tanto meno, con un passaggio logico successivo, riportare questa come ulteriore prova della effettiva coincidenza tra l’hypokeimenon discusso nel I libro della Fisica e la prote hyle. Ciò che mi preme osservare è, piuttosto, come, attraverso questo rimando terminologico e questo incontro di ambiti la nostra comprensione della teoria generativa possa acquisire maggiore profondità e nuovi elementi di riflessione. Sebbene la materia sia identificata nell’elemento bisognoso che tende verso il principio formale e la tensione appaia come unidirezionale, sarebbe parimenti difficile, se non impossibile, immaginare un processo generativo in cui anche la forma non abbia necessità di un sostrato materiale femminile.47 Essa, infatti, è concausa, συναιτία, insieme alla forma, delle cose che si generano. Come una madre, appunto, come la femmina: mostruosità di natura, deviazione dal corretto processo riproduttivo, ma errore naturale e necessario affinché quel medesimo processo continui a perpetuarsi. La hyle, in quanto hypokeimenon non è privazione o non essere per se ma solo per accidente, ed è la condizione imprescindibile del divenire. Sbilanciata verso la forma, così come la femmina verso il maschio, in questa tensione, in questa aspirazione manifesta la propria potenzialità in cui risiede, direi, la possibilità dell’esistente. L’identificazione del femminile con la hyle permette una considerazione di diverso tipo: in quanto sostrato che permane in ogni processo del divenire, esso ne garantisce la possibilità stessa ed appare come indispensabile, al fine di raggiungere il telos.
47 Come anche Berti 2004, sottolinea, nel passo precedente viene negata la contrarietà tra sostrato materiale e forma, perché altrimenti la prima avrebbe «la disposizione e il desiderio del proprio contrario, cioè della propria distruzione» (373).
Capitolo Terzo
Le donne e la virtù 1. Politike koinonia La riflessione etica aristotelica è del tutto rivolta alla comunità maschile: le virtù discusse da Aristotele, il modo di perseguire il bene e l’eudaimonia sono tutte questioni che riguardano la vita degli uomini, in una continua osmosi tra dimensione individuale e collettiva.1 Intraprendere un discorso sull’etica femminile implica la ricerca di un sommerso, silenziosamente presente tra le righe, in comunicazione costante con ciò che emerge con più evidenza. Esistono, naturalmente, riflessioni esplicitamente dedicate alle donne, sempre però all’interno di un discorso sugli uomini o in relazione e in analogia con esso. Se le donne costituiscono la metà dei soggetti liberi all’interno della città, affinché la polis goda di ottima salute, occorre che anch’esse siano virtuose: «Così resti stabilito su queste cose; sull’uomo e sulla donna, sui figli e sul padre, sulle virtù di ciascuno di essi e sui loro rapporti reciproci, su ciò che ad essi conviene e su ciò che non si addice, in che modo debbano perseguire il bene ed evitare il male, dovremo rivolgere la nostra indagine quando prenderemo in esame le varie forme di costituzione. Infatti poiché ogni famiglia è parte della città, e quegli elementi sono parti della famiglia, e poiché bisogna indagare le virtù della parte tenendo l’occhio alla virtù del tutto, è necessario educare i fanciulli e le donne guardando alla costituzione della città, se per la bontà di quest’ultima non è indifferente la bontà dei fanciulli e delle donne. E di necessità questa è importante: le donne infatti costituiscono la metà degli esseri liberi e dai fanciulli derivano quelli che prendono parte al potere politico».2 La presenza di una virtù al femminile ha una necessità ed una motivazione politico-sociale legata al mantenimento del bene della comunità, il cui stato di salute dipende da quello delle sue parti. Dall’accostamento con i fanciulli presente nel passo, tutt’altro che inconsueto, si comprende però chiaramente che l’educazione femminile alla virtù non si tramuterà mai in una reale e attiva partecipazione alla vita politica, come invece accade per i ragazzi, tra cui verranno scelti i futuri capi politici e governatori. Il terzo termine di paragone è 1 Gastaldi 1990, mostra come, nonostante questa oscillazione, «la città non cessa mai di rappresentare l’orizzonte di pensabilità della teoria etico-politica aristotelica» (134). Nella riflessione aristotelica, secondo la studiosa, è possibile leggere però il passaggio verso una dimensione in cui l’orizzonte della polis tende a perdere importanza rispetto all’affermarsi di un mondo dai confini più vasti e, di conseguenza, più insicuro. 2 Politica, I, 12, 1260 b 8-20. Swanson 1992 si occupa della questione delle donne nella filosofia politica di Aristotele all’interno di una riflessione più ampia sulla necessità, messa in luce dal filosofo, di armonizzare la vita pubblica e quella privata dell’oikos.
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quello degli schiavi. Esaminando la questione dell’amministrazione domestica nella Politica, Aristotele si interroga sul possesso di una qualche forma di virtù da parte di questi ultimi, insieme alle donne e ai ragazzi.3 Tutti questi soggetti, pur con le differenze che vedremo, condividono una condizione simile, ma non identica, di subalternità e inferiorità rispetto all’uomo adulto, cittadino e libero.4 Marito e moglie: un rapporto politico Il possesso di una naturale facoltà del comando traduce in termini evidenti la superiorità del soggetto di sesso maschile, libero e di età compiuta. Se, dunque, la virtù di chi per natura comanda e di chi obbedisce fosse la stessa, perché i ruoli non dovrebbero mai invertirsi? La risposta risiede in una differenza di ambiti che determina e si basa, al tempo stesso, su di una diversità del comportamento virtuoso. Entrambi, uomini e donne, di necessità partecipano della virtù, ma non allo stesso modo.5 Se non vi fosse questa distinzione, la divisione dei compiti non avrebbe motivo di esistere. La conclusione del ragionamento è, secondo Aristotele, che «la virtù etica spetta a tutti quelli sopra menzionati e che tuttavia non è la stessa la temperanza della donna e dell’uomo, né il coraggio e la loro giustizia, come credeva Socrate, ma in un caso si tratta del coraggio di chi comanda e nell’altro di quello di chi obbedisce; e altrettanto dicasi per le altre virtù».6 La virtù femminile, in particolare, è la virtù di colei che obbedisce, mentre l’autorità maschile sugli altri componenti della oikia si differenzia a seconda dei soggetti in questione. Padrone, marito e padre, il capofamiglia si relaziona in modo diverso a seconda dei tre tipi di rapporti che corrispondono ai tre aspetti fondamentali dell’amministrazione familiare. Nel caso del rapporto con i figli e la sposa, si tratta ovviamente di un comando esercitato su soggetti liberi in modi differenti, in quanto l’autorità esercitata sulla moglie è simile all’autorità esercitata nella città, mentre quella esercitata sui figli è simile all’autorità del re. In ogni caso, è il genere maschile ad essere atto al comando, per natura, più di quello femminile (τό τε γὰρ ἄρρεν φύσει τοῦ θήλεος ἡγεμονικώτερον).7 La prima differenza da rilevare è quella tra l’esercizio di un potere sugli schiavi e sui liberi, che non sono uno ktema del capofamiglia pur dipendendo da lui. Per ciò che riguarda i figli, l’autorità paterna è paragonata a quella di un re sui sudditi, mentre il rapporto coniugale è un rapporto di tipo politico, cioè simile a quello che si esercita nella città. L’utilizzo dell’avverbio πολιτικῶς, di non facile interpretazione, presupporrebbe, come all’interno della politike koinoCfr. Politica, I, 13, 1259 b 21-32. Politica, I, 13, 1259 b 21-32. 5 Cfr. Politica, I, 13, 1259 b 32-40 / 1260 a 1-4. 6 Politica, I, 13, 1260 a 21-24. 7 Cfr. Politica, I, 12, 1259 a 37-40 / 1259 b 1-4. 3 4
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nia, un’alternanza nell’esercizio delle cariche tra chi detiene il potere e chi vi è sottoposto, che non si verifica mai tra moglie e marito. È verisimile che il filosofo si riferisca ad un’alternanza di ruoli all’interno della comunità domestica, nel senso di una spartizione di compiti che assecondino sempre le naturali predisposizioni dei due sessi. Non si tratterebbe, cioè, di un avvicendamento, ma del riconoscimento di ambiti diversi di competenza a seconda dei rispettivi ruoli sociali. Il parallelo che Aristotele compie, nell’Etica Nicomachea, tra rapporti familiari e costituzioni, sembra andare in questa direzione. Finché la spartizione degli ambiti e dei ruoli familiari è rispettata, il rapporto che lega moglie e marito è di tipo aristocratico; nel momento in cui si rende evidente una prevaricazione da parte dell’uno o dell’altra, accade ciò che si verifica nelle oligarchie, in cui le cariche politiche non sono determinate dalla virtù e dalle qualità personali, ma dal potere e dalla ricchezza.8 L’ἀρχὴ ἀριστοκρατική, cioè regime familiare dal punto di vista del rapporto tra uomo e donna, sarebbe allora un tipo di amministrazione in cui ognuno esercita il proprio compito in base alle qualità naturali che possiede, mentre l’oligarchia si caratterizza per la propria degenerazione e instabilità. In questo tipo di governi solamente una parte dei bisogni dei cittadini viene realizzata, quelli cioè legati al possesso di denaro, e unicamente per un gruppo molto ristretto, provocando così spaccature tra popolo e gruppo dirigente e interne a quest’ultimo.9 Dalla temperanza di elementi di democrazia e aristocrazia, invece, sembra derivare la condizione costituzionale migliore: un governo all’interno del quale i nobili abbiano la facoltà di occupare le cariche politiche senza trarne un guadagno in termini di denaro e i poveri di lavorare disinteressandosi di politica.10 Il parallelismo con le due forme costituzionali, allora, mostra chiaramente la positività del giudizio di Aristotele per ciò che riguarda un rapporto coniugale in cui gli ambiti di competenza siano ripartiti pur all’interno di una gerarchia, mentre, al contrario, rende evidente la negatività di una situazione come quella menzionata delle ereditiere, che svolgono il ruolo di capofamiglia, in cui questa gerarchia sia stravolta. La spartizione dei ruoli all’interno della famiglia determina la prospettiva attraverso cui considerare la virtù maschile e quella femminile: la giustizia, il coraggio e la temperanza degli uomini, funzionali all’acquisizione dei beni e al rapporto con il mondo esterno, trovano il necessario completamento nella 8 Cfr. Etica Nicomachea, VIII, 10, 1160 b 32-36 / 1161a 1-3. Come afferma Deslauriers 2003: «that the domain in which women rule is limited makes it clear that there is some domain in which women rule, and hence suggests that the equality of women with men is a matter of having independent spheres of rule, although the spheres differ in value» (227). La critica all’istituzione dell’epiclerato, inoltre, mostra perfettamente come questa alternanza, questo rapporto aristocratico non sia assolutamente in contraddizione con la spartizione dei ruoli di comandante e subordinato assegnati dalla natura all’uomo e alla donna. L’esercizio del potere da parte delle ereditiere, infatti, che si comportano come dei capifamiglia, è simile a quanto avviene nelle oligarchie: anche in esse, l’autorità non si basa sul valore ma sulla ricchezza. 9 Cfr. Politica, V, 6. 10 Cfr. Politica, V, 8, 1308 b 31-1309 a 9.
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buona capacità femminile di prendersi cura dell’interno dell’oikos.11 Una donna possiede la facoltà di acquisire un comportamento virtuoso in un modo che sia consono al ruolo sociale a lei riservato, e cioè quello della cura della vita domestica, della conservazione dei beni in un ambito che le è proprio.12 Nonostante una certa vaghezza nel delineare gli effettivi campi d’azione delle donne e degli uomini, credo si possa immaginare per le mogli, verosimilmente, una tipologia di mansioni che abbia a che vedere con la cura domestica e della prole, mentre per i mariti, che pure partecipano in qualche misura all’amministrazione della casa, un’azione per lo più rivolta verso l’esterno.13 Non si deve trascurare il fatto che l’aggettivo politike, che descrive il rapporto tra uomo e donna, se riferito alla comunità indica proprio la più alta forma associativa degli uomini. Si tratta di una koinonia che comprende in sé tutte le altre e che ci appare come la più importante in quanto mira al conseguimento del bene più grande: il vivere bene, l’eu zen, secondo giutizia e virtù. Sono queste, infatti, le riflessioni che il flosofo compie proprio all’inizio della Politica, in quella parte iniziale che è conosciuta comunemente come «l’archeologia delle città».14 Parlare di rapporto politico tra moglie e marito, allora, potrebbe indicare la necessità dell’unione tra uomini e donne che mantengano, però, campi d’azione separati e specifici, in vista del raggiungimento di una forma di vita associativa ideale. Il rapporto che lega i due sessi può essere quindi definito politico nel senso di una divisione di ambiti di competenza, non di un’alternanza cronologica. Al tempo stesso si tratta di una relazione di tipo aristocratico, perché ognuno svolge il proprio compito senza prevaricare l’altro e assecondando le proprie virtù di natura.
Le donne e gli schiavi La virtù femminile della conservazione dei beni e dell’obbedienza, per certi aspetti, avvicina la condizione femminile a quella degli schiavi, nonostante l’apCfr. Politica, III, 4, 1277 b 16-25. Deslauiriers 2003: «both men and women have some authority in the household (they both have oikonomia), although the task of men is to acquire and the task of women is to preserve. But, although both men and women have a certain role in the household, the tasks of women are restricted to the household, while the tasks of men extend beyond the household to the city. And so, if the authority of women is inferior to that of men, it is not so much because the tasks of women in the household are inferior to those of men (although Aristotle probably believed that); more importantly, the tasks of running the city are better than the tasks of running the household. This is because the city itself has priority over the household, because the household is for the sake of the city» (228). Clark 1982 e Mulgan 1990 e nei loro scritti hanno ridimensionato, al contrario, l’importanza dell’attività politica nella vita dell’uomo. A proposito dell’avverbio politikos, Depew 1995, ritiene che esso «refers to patterns of activity that transcends reproductive role-division» (171). 13 Su questo, in particolare, discute Deslauriers 2003 (221, n. 12). 14 Cfr. Politica, I, 1, 1252 a 1 sgg. 11
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partenenza a due status sociali del tutto diversi.15 Le donne, come abbiamo visto, sono la metà dei cittadini liberi della città e stanno al fianco degli uomini, seppur con mansioni diverse e in un rapporto gerarchico ben definito, a differenza degli schiavi che vivono uno stato di totale asservimento. La natura, infatti, non fa nulla di superfluo e «ogni strumento che non servisse a più usi, ma a uno solo, condurrebbe a termine la sua funzione nel migliore dei modi», mentre è solo presso i barbari che lo schiavo e la donna condividono la medesima posizione.16 Donne e schiavi sono distinti nettamente, e la critica ai regni barbarici si basa sul fatto che essi siano una comunità in cui tutti, ad eccezione del sovrano, condividono lo stesso stato di servitù nei confronti del re. Una società che non faccia differenza tra schiavi e donne sarà necessariamente priva di un capo che governi per natura.17 Ciò che distingue la condizione dello schiavo è il suo essere un possedimento, uno κτῆμα: come la parte appartiene al tutto, così il servo al padrone. Una condizione strumentale, questa, che deriva dalla natura.18 Quale sia il rapporto che lega la parte e l’intero viene chiarito nella Metafisica: la prima non costituisce una forma determinata e unica, la acquisisce solamente nel momento in cui forma un intero, una quantità o un continuo.19 Lo schiavo e il padrone condividono la medesima relazione, come i componenti di una scarpa e la scarpa, o il bronzo e gli angoli nei confronti del cubo. Lo schiavo ha sì un corpo separato dal padrone, ma nel medesimo tempo appartiene ed è in tutto e per tutto una parte del padrone, come uno strumento per l’artigiano.20 La relazione parte/intero concorre alla spiegazione della subordinazione femminile. All’interno di un composto fatto di parti, infatti, sempre sussiste un elemento dominante e uno subordinato, anche nel caso degli esseri animati e delle comunità. Questa distinzione, che esiste per natura, avviene per il bene dell’intero stesso. Il comandante migliore, infine, è colui che comanda sui migliori, dunque l’uomo, che comanda sui suoi simili al vertice della scala degli esseri animati, occupa una posizione predominante. La gerarchia che lega i due sessi non si identifica però fino in fondo con il tipo di subordinazione che esiste tra la parte e il tutto, come invece avviene per il rapporto servo-padrone. Si tratta di esseri liberi, dotati di una forma propria, due unità differenti che, insieme, 15 Per una trattazione del rapporto globale schiavi/donne, nella cultura greco-romana, si veda Murnaghan, Joshel 1998. Per la questione in Aristotele si veda Deslauriers 2003, Fortenbaugh 1977. Per un inquadramento generale Gransey 1996, Schofield 1987. 16 Politica, I, 2, 1252 a 34 / 1252 b 1-9. 17 Come nota Deslauriers 2003, 222: «it is a mark of a despotic community that it fails to distinguish, or to recognize the differences between free women and slaves, and a mark of a community of free persons that it does so». 18 Cfr. Politica, I, 4, 1254 a 8-13, I, 4, 1254 a 14-16. 19 Cfr. Metafisica, V, 6, 1016 b 11-16, V, 25, 1023 b 19-22. 20 Cfr. Etica Eudemia, 1241 b 17-22.
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concorrono a costituire un tutto più grande: la comunità familiare. È proprio in vista del bene di quest’ultima che si rende necessaria la subordinazione della moglie al marito, che asseconda un indispensabile ordinamento naturale.21 Il bouleutikon femminile Come abbiamo visto fino ad ora, la virtù femminile trova la propria forma all’interno dell’oikos, in virtù e al fine di svolgere i compiti cui è preposta. In tal senso essa è al pari dell’uomo: libera e intera, non mero strumento ma elemento complementare, a differenza di ciò che avviene per il servo. All’interno di questa relazione di parità, per natura e in vista del bene della comunità familiare, si stabilisce una precisa gerarchia in base alla quale l’uomo detiene la posizione del comando e la donna quella di colei che obbedisce. Ciò che giustifica la naturalezza di questa divisione e la necessità che la natura femminile sia guidata è l’incompiutezza della facoltà deliberativa femminile. Esiste una naturale divisione tra chi comanda e chi obbedisce, sulla base della quale si istituiscono differenti relazioni tra soggetti diversi. In questa trama di rapporti, seppur in varia misura, donna e fanciullo sono accomunati dalla subordinazione nei confronti dell’uomo libero e adulto a causa della loro deliberazione difettosa. Mentre lo schiavo ne è del tutto privo, la moglie e il figlio ne sono dotati ma non in modo incompiuto, a differenza di ciò che accade per l’uomo, marito e padre.22 L’incompiutezza della facoltà decisionale femminile, ontologica e perenne, è definita con l’aggettivo akyron, senza autorità, incapace, mentre quella del ragazzo è legata alla sua immaturità, e si risolverà con il sopraggiungere dell’età adulta.23 L’importanza della deliberazione appare in tutta chiarezza nell’Etica Nicomachea, in cui la virtù etica è definita come una disposizione alla scelta, e la scelta un desiderio assunto dalla deliberazione (ἡ δὲ προαίρεσις ὄρεξις βουλευτική).24 Alla base della scelta morale, della proairesis, vi è l’incontro tra logos e orexis, attraverso cui avviene la deliberazione. Lo scopo dell’esercizio alla virtù è proprio il conseguimento della capacità di indirizzare i desideri in modo corretto, Cfr. Politica, I, 5, 1254 a 24-33, I, 5, 1254 b 10-16. Cfr. Politica, I, 13, 1260 a 8 - 20. Sulla base di un’idea diffusa, nella cultura greca, della incapacità femminile di gestire la propria parte irrazionale, Franco 2003, individua, insieme ad altri motivi, la plausibilità della metafora della cagna per parlare della donna in tono dispregiativo: «Il parallelismo donna cane, infatti, si prestava ovviamente bene a rafforzare l’assunto secondo il quale la donna sarebbe destinata a una posizione di subordinazione dalla sua connaturale inettitudine al dominio degli impulsi: la natura femminile, in quanto meno dotata di controllo razionale rispetto a quella maschile, necessita, per non debordare in continui e rovinosi eccessi, di una guida che la diriga e la contenga. Insomma, come un cane, anche una donna fa quel che si deve solo quando esegue diligentemente la volontà dell’uomo che l’ha in tutela» (322). 24 Cfr. Etica Nicomachea, VI, 2, 1139 a 17-27. 21 22 23
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mantenendo sempre un dialogo costante con il logos.25 È in questo modo che si compie una scelta e che si delibera, mentre in assenza di deliberazione, di volontarietà dell’azione, non è possibile esprimere alcuna valutazione etica. Il bouleutikon, dunque, occupa un posto di preminenza all’interno della teoria etica aristotelica: si tratta di quella facoltà che permette di esprimere una deliberazione e compiere una scelta che, indirizzata dalla ragione e dal desiderio al tempo stesso, vada in direzione della virtù. 26 Dire che la facoltà deliberativa femminile è akyron, senza autorità, sembrerebbe impedire la possibilità di un raggiungimento della virtù da parte delle donne e, in effetti, il paragone con il fanciullo sembra confermare l’asserzione di una incapacità. Lo stesso accostamento compare anche in ambito biologico, per indicare l’impossibilità di produrre seme fecondo, ma, mentre per il giovane si tratta di una condizione temporanea legata all’età, per la donna è una condizione ontologicamente definita, esattamente come nel caso della deliberazione.27 Il problema del bouleutikon privo di autorità, dunque, porrebbe alcune difficoltà rispetto alla virtù femminile che, invece, in altri luoghi, non sembra essere negata ma, al contrario, affermata nella sua necessità. In primo luogo, in perfetto accordo con una certa immagine della natura femminile incontinente e priva del limite, questa imperfezione deliberativa suggerisce una congenita incapacità di indirizzare correttamente la propria parte di impulso desiderativo. Ciò che manca è proprio quella componente necessaria alla capacità di discernere il bene dal male, che costituisce il fondamento della saggezza pratica, della phronesis.28 25 Grönroos 2007 discute dell’importanza del desiderio nell’orientare la scelta morale. Si veda anche Burnyeat 1980. 26 Cfr. Etica Nicomachea, III, 3, 1113 a 9 - 12. 27 Cfr. La generazione degli animali, I, 19, 728 a 17-18: Ἔοικε δὲ καὶ τὴν μορφὴν γυναικὶ παῖς, καὶ ἔστιν ἡ γυνὴ ὥσπερ ἄρρεν ἄγονον· Dell’argomento del bouleutikon, in particolare, Horowitz 1976, si è servita per dimostrare l’unità del pensiero aristotelico proprio intorno alla costruzione di un’immagine negativa del femminile, che attraversa circolarmente l’opera del filosofo. Secondo la studiosa «the terms kyrios and akyros appear in Aristotle’s biological writings to contrast strenght with weakness, capacity to function with incapacity to function, and potency with impotency. Woman’s supposed inability to produce seed, from which Aristotle derived his view that woman is «an impotent male», parallels woman’s supposed inability to produce deliberative action, from which he derived his view that she has an impotent (akyron) deliberative faculty» (211). Della sovrapposizione delle sue figure, quella della donna e del fanciullo, discute ampiamente Campese 1997. Si veda anche Saïd 1983. 28 Cfr. Etica Nicomachea, VI, 13, 1144 b 30-32, VI, 13, 1145 a 2-6. Politica, III, 4, 1277 b 25-29: «La saggezza è l’unica virtù propria di chi esercita il comando; quanto alle altre, si direbbe che sono necessariamente comuni a chi comanda e a chi obbedisce in quanto quest’ultimo non ha per virtù peculiare la saggezza, ma l’opinione veritiera». Nel commentare questo passo, Viano 2002, sostiene che «di solito si accosta questo testo a uno delle Leggi (I, 632c), nel quale però Platone attribuisce ai governanti la saggezza o l’opinione vera. Qui invece Aristotele sembra piuttosto muoversi lungo la linea della Repubblica (IV, 433c), che attribuisce ai governanti la saggezza e la distinzione dall’opinione vera. La contrapposizione tra opinione o credenza vera e sapere autentico era uno dei temi tipici della filosofia platonica. Aristotele si avvale di questa contrapposizione per distinguere tra le virtù dei governanti e quelle dei governati» (248 n. 30). Dal commento dello studioso, come del resto dal testo stesso, si evince ancora di più come la phronesis, che è una fondamentale componente del bouleutikon, sia una caratteristica tipicamente maschile. Su questo, in particolare, si veda Fortenbaugh 1977. L’archon è l’uomo, il quale, in virtù della propria naturale attitudine
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Come può accadere, allora, che le donne abbiano accesso alla virtù, se prive di tale facoltà in modo completo?29 Per dirimere la questione, ritengo che l’attenzione vada focalizzata su un aspetto in particolare, cioè quello dell’assenza femminile dall’arena pubblica e politica. Per rendere più comprensibile quale sia il vero limite della facoltà deliberativa femminile, vorrei compiere una breve ricognizione degli usi di akyron nel Corpus aristotelico. Oltre al brano della Politica, in cui il termine è riferito all’incompiutezza del bouleutikon delle donne, esistono in tutto altre nove occorrenze dell’aggettivo. Se prendiamo in considerazione l’unica attestazione, presente nella Retorica, l’aggettivo akyron è associato alla questione dei contratti e delle loro modalità di stipula, di cui indica la mancanza di validità in assenza di un’autorità che costringa i contraenti a seguirne i dettami. Quando essi non corrispondono o non sono conformi alle leggi, sono considerati non validi, ἄκυροι.30 In ambito strettamente etico akyron è utilizzato per descrivere il comportamento degli ostinati, i quali «sono contenti della loro vittoria quando non si sono lasciati indurre a mutare opinione, e soffrono quando le loro decisioni restano come decreti senza autorità (λυποῦνται ἐὰν ἄκυρα τὰ αὐτῶν ᾖ ὥσπερ ψηφίσματα)».31 Il paragone con i decreti è utilizzato per rendere icasticamente evidente la vacuità delle decisioni degli ostinati nel momento in cui la persistenza delle loro opinioni non dia il risultato sperato. Nuovamente, dunque, il termine è associato all’assenza di un’autorità in campo legislativo. Spostandoci in campo biologico, in particolare nella Generazione degli animali, troviamo un uso di akyron per indicare l’impotenza di uno dei due organi sessuali, in tutti quegli animali cui accada di nascere con entrambi i genitali. In quel caso «l’uno diventa capace l’altro impotente (τὸ μὲν κύριον τὸ δ’ ἄκυρον) perché, essendo contro natura, viene sempre trascurato nella nutrizione, ma costituisce un’appendice come un’escrescenza».32 L’aggettivo descrive così l’assenza della funzione propria all’organo. Non siaal comando, deve possedere la saggezza necessaria per deliberare. Come nota Viano, il discorso aristotelico è strettamente collegato alla distinzione tra governanti e governati, cioè, anche, alla distinzione tra uomini e donne. 29 Deslauriers 2003, ritiene che schiavi e donne ricevono una sorta di prestito da chi, come l’uomo libero, è al comando per natura e, dunque, possiede tutti i requisiti per conseguire un comportamento virtuoso: «the faculty of desire in natural subjects must be trained to submit to reason – ultimately only to produce desires in accordance with reason – but the reason in question is not their own, but that of the natural ruler. This explains how Aristotle can say that natural slaves, although without a faculty of deliberation, have all the parts of the soul, as well as that slaves and women do have virtue which is human and yet different in kind from that of free adult men» (216). Il desiderio che muove all’azione, per ciò che riguarda schiavi e donne, deve essere guidato e incanalato dalla ragione che, in questo caso, sarebbe quella del padrone o del marito. 30 Cfr. Retorica, I, 15, 1376 b 5-13; Retorica, I, 15, 1376 b 24-29. 31 Cfr. Etica Nicomachea, VII, 9, 1151 b 12-17. 32 La generazione degli animali, IV, 4, 772 b 26-30.
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mo più in ambito giuridico, ma si tratta sempre di un’impotenza, di un’incapacità determinata dal sopravvento della funzione di un elemento su quella di un altro.33 Se consideriamo le attestazioni della Costituzione degli Ateniesi, la prima che incontriamo si riferisce alla mancanza di autorità della bulé, che esamina i consiglieri e gli arconti designati per l’anno successivo, ma non in modo insindacabile. Il consiglio non ha pieni poteri, è ἄκυρoς: la sua decisione non ha validità assoluta sulla base di una convenzione legislativa.34 La seconda ricorrenza della parola si trova all’interno della descrizione del meccanismo di votazione in tribunale: i voti vengono posti in due anfore diverse, una per il voto valido e l’altra per quello non valido. In questo caso akyros sta ad indicare sia l’anfora dove viene infilato il dischetto per il voto non valido sia il voto nullo in sé.35 Di nuovo, siamo di fronte all’assenza di validità sulla base di una convenzione esterna.36 Complessivamente, l’aggettivo sembra denotare una mancanza di autorità, l’assenza o l’impossibilità di svolgere una funzione altrimenti presente, sia essa dipendente da una convenzione esterna o da una naturale, come accade in ambito biologico a proposito dei doppi genitali. Ritornando al discorso del bouleutikon, allora, credo si possa fare un ragionamento simile. Ciò che intendo dire, in definitiva, è che mi sembra plausibile sostenere che esista un legame tra l’incompiutezza di una facoltà decisionale non autorevole e la lontananza femminile dalla scena politica e pubblica in generale. Il fatto che le donne non abbiano nessuna occasione in cui esercitare il proprio bouleutikon ne giustifica l’incompiutezza naturale che, a sua volta, asseconda e giustifica una convenzione sociale. Come nel caso degli animali che nascono con entrambi gli organi genitali, di cui solamente uno assume la propria funzione, mentre l’altro permane in forma di escrescenza, il bouleutikon privo di valore delle donne rimane, come una sorta di appendice mai utilizzata. Questo però non è in contraddizione e non si oppone alla possibilità di una virtù al femminile, secondo le modalità proprie al tipo di esistenza che è loro consono.
33 Sempre in ambito biologico, è presente un’altra attestazione nel Moto degli animali 2, 698 b 4-9: «È perciò chiaro che ciascun animale deve avere qualche cosa in quiete sia in sé, donde proverrà il principio di ciò che si muove, sia esterno, appoggiandosi al quale si muoverà tutto in massa o parzialmente. Ma ogni quiete interna è ugualmente priva di valore (ἄκυρος) se non c’è esternamente qualche cosa assolutamente quieto e immobile». Il valore del principio di quiete, dal quale dipende quello del movimento, deve avere una corrispondenza tra interno dell’animale ed esterno, altrimenti rimarrà privo di valore, ἄκυρος. 34 Cfr. La Costituzione degli Ateniesi, 45. 3. 4. 35 Cfr. La Costituzione degli Ateniesi, 68. 3. 4. 36 Deslauriers 2003: «the box which is κύριος is distinguished from the one which is ἄκυρος by its material (wood rather than bronze); this evidently does not affect its function, but serves only to make it identifiable; and nothing at all distinguishes the κύριος ψῆφος from the one which is ἄκυρος, except the box into wich is deposited». Conclude poi la studiosa che «all this suggests that ἄκυρος means «without authority» when the absence of authority is due not to any incapacity on the part of that which is ἄκυρος, but simply to convention» (224).
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Le madri e la virtù 1. Uno sguardo differente La trattazione esplicita dei temi legati alla generazione, incanalata da Aristotele all’interno di un percorso canonico, rispecchia un ben determinato contesto socio-culturale e politico. Le gerarchie sono rispettate e la natura femminile appare come una mediazione necessaria per la riproduzione ma dotata di qualità naturalmente inferiori a quelle degli uomini, sia fisicamente sia psichicamente e moralmente. Così come accade per l’aspetto anatomico, però, anche in ambito etico la prospettiva del materno offre uno sguardo più profondo e sfaccettato, che cercherò di analizzare attraverso tre ambiti specifici: la saggezza, il coraggio e l’amicizia. Si tratta di una riflessione non solo morale, ma che coinvolge anche i trattati zoologici e l’etologia aristotelica, da cui attingerò esempi tratti dal comportamento degli animali, utili per il loro valore esplicativo. Per quanto le facoltà psichiche, le attitudini e le inclinazioni umane siano profondamente diverse da quelle degli altri animali, in virtù, essenzialmente, del possesso della facoltà intellettiva da parte degli uomini, rimane lo spazio per un ampio margine di confronto, che il testo aristotelico stesso ci consente di considerare.1 1 Ricerche sugli animali, VIII, 588 a 18 – b 3: Ἔνεστι γὰρ ἐν τοῖς πλείστοις καὶ τῶν ἄλλων ζῴων ἴχνη τῶν περὶ τὴν ψυχὴν τρόπων, ἅπερ ἐπὶ τῶν ἀνθρώπων ἔχει φανερωτέρας τὰς διαφοράς· καὶ γὰρ ἡμερότης καὶ ἀγριότης, καὶ πραότης καὶ χαλεπότης, καὶ ἀνδρία καὶ δειλία, καὶ φόβοι καὶ θάρρη, καὶ θυμοὶ καὶ πανουργίαι καὶ τῆς περὶ τὴν διάνοιαν συνέσεως ἔνεισιν ἐν πολλοῖς αὐτῶν ὁμοιότητες, καθάπερ ἐπὶ τῶν μερῶν ἐλέγομεν. Τὰ μὲν γὰρ τῷ μᾶλλον καὶ ἧττον διαφέρει πρὸς τὸν ἄνθρωπον, καὶ ὁ ἄνθρωπος πρὸς πολλὰ τῶν ζῴων (ἔνια γὰρ τῶν τοιούτων ὑπάρχει μᾶλλον ἐν ἀνθρώπῳ, ἔνια δ’ ἐν τοῖς ἄλλοις ζῴοις μᾶλλον), τὰ δὲ τῷ ἀνάλογον διαφέρει· ὡς γὰρ ἐν ἀνθρώπῳ τέχνη καὶ σοφία καὶ σύνεσις, οὕτως ἐνίοις τῶν ζῴων ἐστί τις ἑτέρα τοιαύτη φυσικὴ δύναμις. Φανερώτατον δ’ ἐστὶ τὸ τοιοῦτον ἐπὶ τὴν τῶν παίδων ἡλικίαν βλέψασιν· ἐν τούτοις γὰρ τῶν μὲν ὕστερον ἕξεων ἐσομένων ἔστιν ἰδεῖν οἷον ἴχνη καὶ σπέρματα, διαφέρει δ’οὐδὲν ὡς εἰπεῖν ἡ ψυχὴ τῆς τῶν θηρίων ψυχῆς κατὰ τὸν χρόνον τοῦτον, ὥστ’ οὐδὲν ἄλογον εἰ τὰ μὲν ταὐτὰ τὰ δὲ παραπλήσια τὰ δ’ ἀνάλογον ὑπάρχει τοῖς ἄλλοις ζῴοις. «È presente infatti anche nella maggior parte degli altri animali una traccia di quelle modalità psichiche che nell’uomo sono più manifestamente differenziate. In effetti, mansuetudine e selvatichezza, mitezza e aggressività, coraggio e viltà, paure e sicurezza, impetuosità e furberia, e una certa capacità di comprensione intellettuale, rappresentano in molti animali delle similarità con l’uomo, del tipo di quelle che esponemmo a proposito delle parti. Alcuni animali differiscono rispetto all’uomo per una differenza secondo il più o il meno, come pure l’uomo rispetto a molti altri animali (in parte tali caratteri sono più propri dell’uomo, in parte invece degli altri animali), mentre altri differiscono secondo l’analogia: così scienza, sapere, intelligenza stanno all’uomo, come questa o quella facoltà naturale dello stesso genere stanno ai vari animali. Ciò risulta chiarissimo dall’osservazione dell’età infantile. Nei bambini infatti è dato scorgere come delle tracce e dei germi di quelli che diventeranno in futuro i tratti del loro carattere, benché la loro anima in questo periodo si può dire non differisca affatto da quella delle bestie: dunque non v’è nulla di assurdo se i caratteri psichici degli altri animali sono ora identici ora prossimi ora analoghi a quelli dell’uomo». A proposito della triade τέχνη καὶ σοφία καὶ σύνεσις Vegetti 1971, 421 n. 2, nota come gli ultimi due elementi corrispondano alle virtù dianoetiche citate in Etica Nicomachea I, 13, 1103 a 5 sgg.
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2. La saggezza delle madri Il senso di cura per i figli, di cui le femmine sono dotate per natura, cresce, secondo Aristotele, all’aumentare della complessità degli esseri viventi. Tanto più si sale di livello, tanto più profondo e duraturo diviene il rapporto tra generante e generato: «Sembra anche che la natura tenda a provvedere gli animali di un senso di cura per i figli: negli animali inferiori questo è presente solo fino alla produzione della prole, in altri anche fino al suo compimento, in quelli più intelligenti fino al loro allevamento, in quelli poi che partecipano di più dell’intelligenza, come negli uomini e in alcuni quadrupedi, anche nei riguardi dei figli adulti si ha un rapporto di affinità e di affetto. Negli uccelli questo si ha fino alla nascita e alla prima nutrizione. Per questo le femmine, quando hanno deposto le uova e non le covano, stanno male, come se fossero private di qualche cosa di innato».2 Il legame aumenta in maniera proporzionale al possesso della φρόνησις, che rappresenta uno dei concetti cardine dell’etica aristotelica, poiché è la disposizione a deliberare sul bene e sul male. Non si tratta di una scienza dimostrativa, avendo per oggetto realtà che mutano (come tutto ciò che ha a che vedere con l’agire umano), ma neppure di un’arte, in quanto ha come fine l’azione in se stessa, non qualcosa di altro da sé. In definitiva, è la virtù specifica della parte opinativa dell’anima razionale.3 Proprio la phronesis è associata alla cura della prole, tanto da determinare una sorta di gerarchia in base alla profondità e alla durata del rapporto che gli animali intrattengono con gli esseri che hanno generato. Il ragionamento si conclude, significativamente, con l’esempio delle femmine degli uccelli che soffrono se private della possibilità della cova. Come ho analizzato in precedenza, si tratta di un tema particolarmente evidente all’interno dell’etologia aristotelica: la cura dei piccoli è occupazione prettamente materna, talmente legata alla identità femminile da provocare un profondo malessere nelle madri private di tale possibilità e, d’altro canto, un’evidente femminilizzazione nei maschi che se ne facciano carico. La phronesis animale, in particolare, trova una speciale applicazione in ambito zoologico, allorché viene utilizzata dove però viene sostituita la phronesis al posto della techne. Come sostiene Sassi 1988: «mentre nella sua teoria etica e psicologica l’uomo è nettamente distinto dagli animali, privi di intelligenza e anche di virtù ed emotività, nelle opere zoologiche questi appaiono ben dotati di emozioni (le quali vengono trattate in termini che molto le avvicina alla sfera della percezione sensibilie)» (53). Si veda, sempre a tal proposito, Fortenbaugh 1971. Sull’uso dell’analogia nella biologia aristotelica si veda Wilson 1997. 2 La generazione degli animali, III, 2, 753 a 7 - 1 Ἔοικε δὲ καὶ ἡ φύσις βούλεσθαι τὴν τῶν τέκνων αἴσθησιν ἐπιμελητικὴν παρασκευάζειν· ἀλλὰ τοῖς μὲν χείροσι τοῦτ’ ἐμποιεῖ μέχρι τοῦ τεκεῖν μόνον, τοῖς δὲ καὶ περὶ τὴν τελείωσιν, ὅσα δὲ φρονιμώτερα καὶ περὶ τὴν ἐκτροφήν. Τοῖς δὲ δὴ μάλιστα κοινωνοῦσι φρονήσεως καὶ πρὸς τελειωθέντα γίγνεται συνήθεια καὶ φιλία, καθάπερ τοῖς τε ἀνθρώποις καὶ τῶν τετραπόδων ἐνίοις, τοῖς δ’ ὄρνισι μέχρι τοῦ γεννῆσαι καὶ ἐκθρέψαι· διόπερ καὶ μὴ ἐπῳάζουσαι αἱ θήλειαι ὅταν τέκωσι διατίθενται χεῖρον, ὥσπερ ἑνός τινος στερισκόμεναι τῶν συμφύτων. 3 Sulla phronesis aristotelica si veda Natali 1989.
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per descrivere il comportamento protettivo di alcune femmine nei confronti dei piccoli: una sorta di piano educativo in base al quale ai piccoli viene insegnata l’arte della fuga e del nascondiglio.4 Il tema della sicurezza della prole affiancato, spesso, a quello della ricerca di un luogo solitario per il parto trova poi uno sviluppo autonomo, senza una menzione esplicita del termine phronesis. Ciò avviene all’interno di numerosi esempi accomunati dal medesimo oggetto narrativo: l’abilità pratica materna in relazione alla difesa dei piccoli che si verifica, in primo luogo, a partire dalla ricerca di un luogo protetto e nascosto per partorire.5 Il collegamento rimane sempre attivo, anche se in maniera implicita. Senza alcun dubbio, phronesis umana e animale descrivono due abilità differenti, dal momento che nel primo caso è implicata la componente razionale del tutto assente, invece, nel caso degli altri esseri viventi, privi del loghistikon. Per ciò che riguarda gli uomini, si tratta di una virtù che orienta il vivere sociale e anche l’azione politica, mostrandosi come dote indispensabile per colui che governi e regga lo stato.6 Nonostante questa diversità, tutti gli altri animali sono dotati di una forma di “saggezza” tale che permetta loro di compiere azioni volontarie e di organizzare una propria strategia di vita senza che questo implichi il possesso del logistikon, di quell’elemento razionale, cioè, che, insieme alla capacità deliberativa, caratterizza l’uomo.7 Tuttavia, l’oggetto della phronesis più in generale è il conseguimento della felicità, o, in altri termini, del bene relativo alla specificità di ogni essere. Se solamente per gli uomini è possibile parlare di felicità in senso proprio, ogni altro animale possiede, però, un bene proprio al quale tendere e lo scopo non è uguale per tutti.8 4 Cfr. Ricerche sugli animali, IX, 5, 611 a 15 - 22. La cerva è definita φρόνιμος perché essa partorisce in un luogo dove non possa essere attaccata e, in seguito, insegna ai cuccioli come nascondersi. 5 Cfr. Ricerche sugli animali, VI, 11, 566 a 23 - 26; VI, 23, 577 b 1-3, 577 b 1 - 3; 28, VI, 28, 578 a 25-28, 578 b 13 - 17; VI, 19, 578 b 19 - 23; VI, 35, 580 a 5 - 10; IX, 5, 611 a 15 - 22. 6 Cfr. Politica, III, 4, 1277 b 25 - 29. 7 Come gli studi di Labarrière 1987 e di Coles 1997 hanno messo in luce, molti sono i passi dell’etologia aristotelica che sembrano andare in questa direzione. Anche se in senso stretto essi non potrebbero avere virtù intellettuali (cfr. Anima, III, 3, 427 b 6 - 14) ma solo la phronesis intesa come una sorta di previdenza che orienta il comportamento, esistono diverse testimonianze che contraddicono questo assunto, dal momento che, come dice Coles 1997, il possesso della saggezza «appears to be minimally sufficient for the presence of mind (nous, dianoia) (319-320) for Aristotle, as his ethology and its theoretical grounding in PA II, 2-4 and IV 10 so strongly testifies». Benché, infatti, siano numerosi i passaggi del corpus aristotelico nei quali gli animali siano definiti come privi di dianoia, nous, logos, come nota Labarrière 1987: «nombreux sont également ceux des traités zoologiques employant, que ce soit directement ou indirectement dans des expressions dérivées, le terme dianoia et même celui de nous pour désigner la pensée ou intelligence animale» (406). Cfr. per dianoia: Ricerche sugli animali, IX, 7, 612 b 20; IX 17, 616 b 22; per nous: Ricerche sugli animali, IX, 3, 610 b 22; Le parti degli animali, II, 2, 648 a 4 - 5. 8 Etica Nicomachea, VI, 7, 1141 a 22-33: εἰ δὴ ὑγιεινὸν μὲν καὶ ἀγαθὸν ἕτερον ἀνθρώποις καὶ ἰχθύσι, τὸ δὲ λευκὸν καὶ εὐθὺ ταὐτὸν ἀεί, καὶ τὸ σοφὸν ταὐτὸ πάντες ἂν εἴποιεν, φρόνιμον δὲ ἕτερον· τὰ γὰρ περὶ αὑτὸ ἕκαστα τὸ εὖ θεωροῦν φησὶν εἶναι φρόνιμον, καὶ τούτῳ ἐπιτρέψει αὐτά. διὸ καὶ τῶν θηρίων ἔνια φρόνιμά φασιν εἶναι, ὅσα περὶ τὸν αὑτῶν βίον ἔχοντα φαίνεται δύναμιν προνοητικήν.
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La phronesis è proprio il medium per il conseguimento di questo telos. Dunque, se il bene è differente, diverso sarà anche il mezzo per arrivarvi, e l’orientamento all’azione cambierà a seconda dello scopo cui tende. Per ciò che riguarda le madri, nello specifico, sembra che il fine peculiare sia la protezione e la cura materna. Seppur con le dovute differenze, ritengo però che si possa attribuire alla phronesis materna una sorta di posizione intermedia, tra un agire istintuale, proprio degli animali, ed uno più razionale, appartenente solo agli esseri umani. Da un lato, la sapienza nel nascondere i cuccioli attiene allo specifico dell’etologia, dall’altro però, Aristotele non manca di articolare una riflessione più generale volta a stabilire un legame tra intelligenza e rapporto con la prole, tanto più articolato quanto più complesso è l’essere vivente in questione. Una questione umana, femminile, dunque, che trova una sorta di rispecchiamento ed esemplificazione nelle modalità dell’agire di tutti gli animali.
3. Il coraggio Ugualmente a ciò che accade per la sapienza, anche la virtù del coraggio si presta ad un simile ragionamento. Alla definizione di questa virtù Aristotele dedica ampio spazio, all’interno della riflessione etica, definendolo come una medietà situata tra paura e temerarietà.9 Se la paura, come precisa Aristotele, è φανερὸν δὲ καὶ ὅτι οὐκ ἂν εἴη ἡ σοφία καὶ ἡ πολιτικὴ ἡ αὐτή· εἰ γὰρ τὴν περὶ τὰ ὠφέλιμα τὰ αὑτοῖς ἐροῦσι σοφίαν, πολλαὶ ἔσονται σοφίαι· οὐ γὰρ μία περὶ τὸ ἁπάντων ἀγαθὸν τῶν ζῴων, ἀλλ’ ἑτέρα περὶ ἕκαστον, εἰ μὴ καὶ ἰατρικὴ μία περὶ πάντων τῶν ὄντων. εἰ δ’ ὅτι βέλτιστον ἄνθρωπος τῶν ἄλλων ζῴων, οὐδὲν διαφέρει· καὶ γὰρ ἀνθρώπου ἄλλα πολὺ θειότερα τὴν φύσιν, οἷον φανερώτατά γε ἐξ ὧν ὁ κόσμος συνέστηκεν. «Se, dunque, ciò che è salutare è diverso per gli uomini e per i pesci, mentre ciò che è bianco e diritto è sempre la stessa cosa, tutti devono riconoscere che anche ciò che è sapiente è la stessa cosa, mentre ciò che è saggio è diverso. Infatti, si dice che è cosa saggia il saper considerare adeguatamente i nostri interessi particolari, ed è ad un uomo saggio che noi li affidiamo. È per questo che si dice di certi animali che sono saggi, quelli cioè che mostrano di avere una certa capacità di previdenza per ciò che interessa la loro vita. È chiaro, inoltre, che non si può dire che la sapienza e la politica si identificano: se infatti, si chiamerà sapienza la scienza di ciò che è utile a noi stessi, ci saranno molte sapienze, giacché non è unica la scienza di ciò che è bene per tutti gli animali, ma è diversa per ciascuna specie, come anche non c’è un’unica scienza medica per tutti gli esseri viventi. Se poi si dice che l’uomo è superiore a tutti gli altri animali, non cambia niente, giacché ci sono altre realtà di natura ben più divina dell’uomo, come risulta chiarissimo, se non altro, dai corpi di cui è costituito l’universo». Come afferma Labarrière 1987 a proposito degli animali, «d’un animal à l’autre, la phronesis diffère car la recherche du bien, ou, pour parler plus rigoureusement à propos des animaux, leur faculté de prévoyance en ce qui concerne leur propre vie, ne saurait être toujours la même en raison des différences entre leurs genres de vie» (422). 9 Etica Nicomachea, II, 7 1107 a 33: περὶ μὲν οὖν φόβους καὶ θάρρη ἀνδρεία μεσότης. «Dunque riguardo paura e temerarietà, la medietà è il coraggio». Si veda anche Etica Eudemia III, 1 1228 b 38 ; III, 1 1230 a 26 sgg. Sul coraggio come virtù etica, Leighton 1988: «According to Aristotle moral virtue is not had by nature, but developed through a process of habituation (1103 a 16-20), in which virtue arises out of like activities (1103 b 21). The habituation of courage has to do with being habituated to feel fear and confidence and to act appropriately in the presence of danger (1103 b 16-17). The most plausible interpretation of this is that one becomes courageous by learning to deal with situations that bring forth feelings of fear and confidence such that one both acts and feels appropriately in such situations» (80). Garver 1982, sulla base
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l’attesa di un male, e il coraggio si relaziona con essa, l’uomo realmente coraggioso misura il proprio valore non in relazione ad un timore qualunque, ma ad uno specifico.10 L’andreios è colui che appartiene ad una collettività politica dotata di una propria legislazione, in virtù e in difesa della quale è giusto che affronti anche l’estremo pericolo della morte in battaglia. Il coraggio è dunque la virtù specifica dell’aner, che si rende manifesta in situazioni di pericolo estremo in difesa del bene della comunità di cui fa parte.11 Si tratta di un valore necessario nel regolamentare i rapporti tra esterno e interno, dove per interno si può intendere la polis così come, ad un livello più ristretto, l’oikos della quale il capofamiglia detiene il comando e, dunque, la responsabilità. Come testimonia l’etimologia stessa del termine, parlare di andreia significa fare riferimento ad una virtù specificatamente maschile dal momento che la dialettica interno-esterno coinvolge unicamente l’uomo, mentre la vita femminile si svolge pressoché totalmente all’interno delle mura domestiche, paterne o coniugali che siano.12 La connotazione sessuale del coraggio appare in tutta chiarezza nella Politica aristotelica, dipanandosi lungo i fili di un ragionamento che affonda le proprie radici fin dall’archeologia della polis tracciata nel I libro. Se l’uomo è l’essere razionale per eccellenza, è in grado di decidere in maniera autonoma e di esercitare, per natura, il comando, è necessario che sia coraggioso, che sia capace di mantenere il giusto equilibrio tra l’interno della famiglia, della città, e l’esterno, con tutti i pericoli che esso può comportare. La donna, al contrario, è un essere irrazionale, che necessita continuamente di una guida e di un completamento maschile e l’unico coraggio che le viene riconosciuto è sempre legato alla sua funzione di custode della casa e, dunque, di mantenitrice dell’ordine maschile. La differenza tra uomini e donne, in relazione alla questione del coraggio, è ben supportata dai numerosi esempi tratti dal mondo della zoologia. Nonodella definizione di virtù etica, distingue tra paura come sentimento e codardia come attitudine viziosa a rendere abituale e parte integrante del carattere la naturale reazione, di fronte al pericolo, di timore iniziale. Il coraggio, al contrario, «results from refusing to make the natural reaction to fear into one’s habitual reaction and desiring instead to face the dangers» (232). Mills 1980 esamina affinità e divergenze tra Etica Eudemia ed Etica Nicomachea nell’affrontare la questione dell’andreia. Lo studioso suggerisce l’ipotesi di un’anteriorità cronologica della prima rispetto alla seconda, sulla base di reminescenze e influssi platonici riscontrabili ancora nell’Etica Eudemia e assenti, invece, nella Nicomachea, e della maggior diffusione della prima nel trattare alcune questioni esaminate con più concisione nella seconda. 10 Cfr. Etica Nicomachea, III, 6 1115 a 9. 11 Etica Nicomachea, III, 6 1115 a 24-27; III, 6 1115 a 28-32; III, 8 1116 b 15-23; V, 1 1129 b 14-21; Retorica, I, 9 1366 b 11-13. Una concezione morale di tal genere, del resto, è già attiva in Omero. Come nota Adkins 1987, a proposito della società omerica: «(…) ci configuriamo una società in cui le lodi più alte sono rivolte a uomini che debbono positivamente mostrare le qualità di un guerriero, ma anche essere uomini potenti e socialmente elevati; uomini, inoltre, che debbono dispiegare il loro valore sia in guerra che in pace nel proteggere i loro sudditi: funzione in cui debbono riuscire, perché le parole più gravi della lingua greca sono impiegate per denigrare chi soccombe» (56). 12 Urmson 1990: «andreia: etymologically, an abstract noun from aner». Si veda, a tal proposito, Rosen, Sluiter 2003.
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stante la teoria etica mantenga distinta la sfera umana, anche in questo caso i trattati biologici confondono i piani e gli animali sembrano dotati di una certa dose di emotività e di alcune qualità che di molto si avvicinano al mondo degli esseri umani. La regola generale è che le femmine di quasi tutte le specie sono, per natura, meno audaci dei maschi: «Le femmine sono tutte meno ardimentose dei maschi, tranne l’orso e la pantera: la femmina di questi sembra essere più coraggiosa».13 Le eccezioni di cui parla Aristotele non valgono dunque a rovesciare il paradigma.14 L’opposizione dentro-fuori mantiene il proprio valore simbolico anche all’interno della zoologia e viene espressa, nuovamente, attraverso il contrasto tra l’istinto materno, femminile, e l’ardimento, maschile. Persino tra gli animali il valore maschile emerge e trova spazio in pericolose situazioni di combattimento, sia esso volto all’attacco o alla difesa: «Negli altri generi le femmine sono più deboli, più malefiche, meno semplici, più avventate e più sollecite nell’allevamento della prole, i maschi, al contrario, sono più coraggiosi, più rudi, più semplici e meno insidiosi».15 Lo Pseudo-Aristotele dei Problemi conferma ulteriormente la natura virile del coraggio da un punto di vista prettamente fisiologico: i coraggiosi sono persone molto calde di natura, mentre la paura è una sorta di raffreddamento che avviene nella zona del petto.16 Se il calore è l’elemento che più caratterizza la natura maschile e la distingue da quella femminile, il legame tra gli andreioi e la virilità appare, ancora di più, in tutta evidenza. Vi sono tuttavia delle circostanze, rilevabili sempre attraverso il comportamento degli animali, in cui anche alla natura femminile è attribuito un certo 13 Ricerche sugli animali, IX, I, 608 a 33-35. In Etica Nicomachea, III 8, 1116 b 30-31, il filosofo afferma «Dunque i coraggiosi agiscono per il bello, e l’ardimento coopera con essi». 14 A proposito del coraggio delle orse e delle pantere, Saïd 1983, sostiene: «Déjà le style, avec le verbe «sembler», laisse planer un doute sur la réalité du fait et atténue le scandale. Mais on peut avancer davantage dans l’explication en examinant la place que ces deux espèces occupent dans le bestiaire immaginaire des Grecs et les indications que donne sur elle l’Histoire des animaux. Il s’agit en effet d’espèces à connotations féminines. Les femelles y sont plus féminines qu’ailleurs, puisque plus largement pourvues des attributes de la féminité (…). (…) Chez des animaux aussi féminins, il est donc normal que le courage aille d’abord aux femelles, selon une logique du monde à l’envers» (97). 15 Ricerche sugli animali, IX, I, 608 b 1-4; cfr. anche Ricerche sugli animali, IX, 1, 608 b 15-18: «Il maschio è più pronto a soccorrere e, come è stato detto, più coraggioso della femmina, dal momento che tra i molluschi, qualora la seppia sia colpita con il tridente, il maschio viene in aiuto della femmina, la femmina fugge se è il maschio ad essere colpito». Così commenta Saïd 1983: «Cette supériorité est si universelle qu’elle se manifeste du haut en bas de l’échelle des êtres vivants et se retrouve même chez les espèces inférieures» (96). Gli elefanti sembrano costituire un’eccezione, dal momento che, come riferisce Aristotele, gli Indiani si servono sia dei maschi che delle femmine per la guerra, salvo specificare, subito dopo, che le femmine rimangono comunque più piccole e molto meno coraggiose. Cfr. Ricerche sugli animali, IX, 1, 610 a 19-21. 16 Problemi, XXVII, 3, 948 a 14 sgg: «Perché i coraggiosi, per lo più, sono amanti del vino? Forse perché le persone coraggiose sono calde e il calore ha sede intorno al petto. Qui si manifesta anche la paura, che è una sorta di raffreddamento. Perciò rimane meno calore intorno al cuore, e raffreddandosi ad alcuni palpita. (…) Persone di tal genere sono anche amanti del bere, infatti il desiderio del bere è causato dal calore di questa parte (se ne è parlato altrove): è desiderio di ciò che è in grado di farlo cessare. Il vino è per natura caldo, ma fa cessare la sete più dell’acqua».
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grado di coraggio molto simile alla tipologia maschile. Così come accadeva per l’aggressività, si tratta di circostanze legate alla maternità. Esistono numerosi esempi, all’interno del mondo animale, che testimoniano l’audacia femminile, in vista della salvaguardia della prole: la pernice che attira verso di sé, rotolando scomposta, il cacciatore che si avvicina al nido, la femmina dell’uccello scitico che attacca chiunque si avvicini mentre cova o le orse, che non abbandonano i cuccioli nemmeno se costrette a correre in fuga.17 Usualmente vili per natura, o, nel migliore dei casi, meno coraggiose dei maschi, dotate di conseguenza di un corpo fragile e di un’indole altrettanto instabile, le femmine descritte da Aristotele, nel divenire madri, sembrano assumere una connotazione del tutto diversa. L’acquisizione del ruolo materno conferisce loro un coraggio che diviene quasi necessario all’espletamento delle funzioni di cura della prole cui sono chiamate. Negli esempi che ho menzionato non compare esplicitamente il termine andreia, ma il comportamento descritto ricorda la condotta dei soldati valorosi, degli uomini coraggiosi di cui Aristotele fa menzione all’interno della riflessione morale. In maniera significatamente speculare però, in un brano tratto dal mondo dell’ornitologia compare il termine che indica la viltà, per stigmatizzare una condotta che mal si addice all’indole materna: «Sembra che il cuculo agisca saggiamente nei confronti della progenie; infatti, poiché conosce la propria viltà sa che non sarebbe in grado di portare soccorso, per questo fa dei suoi piccoli come dei figli suppositi, perché siano salvati. Infatti questo uccello è di una vigliaccheria che oltrepassa il limite: si lascia strappare le piume dai piccoli uccelli e fugge davanti a loro».18 Il caso del cuculo, attraverso un procedimento per opposizione, suggella il legame indissolubile tra coraggio e funzione materna. L’atto di abbandonare i piccoli ne fa un animale saggio, nella consapevolezza della propria naturale viltà che non gli lascerebbe svolgere le appropriate cure ai piccoli del nido. Non è in grado di proteggere la prole, a motivo della codardia che lo caratterizza e, dunque, rinuncia all’esercizio della propria funzione materna, quasi che quest’ultima non potesse essere vissuta pienamente se non attraverso il possesso di un’indole coraggiosa.19 In questo processo valorizzante, risuona senza dubbio il riconoscimento dell’importanza sociale della funzione riproduttrice affidata alle donne, nonché della criticità dell’esperienza della gravidanza e del momento del parto, tanto 17 Cfr. Ricerche sugli animali, IX, 8, 613 b 17-21; IX, 6, 611 b 32-33; IX, 33, 619 b 13-17. Di questo ho discusso in Soardi 2005. 18 Ricerche sugli animali, IX, 29, 618 a 25-30. 19 A tal proposito, Saïd 1983: «Au courage viril s’oppose l’amour maternel, chez les hommes comme chez les animaux. (…) De fait, dans l’Histoire des animaux, les femelles ne manifestent d’intelligence et de courage que poussées par l’istinct maternel» (98-99). È innegabile che, nel mondo animale descritto da Aristotele, sia proprio l’amore materno a spingere le femmine a dar prova di un coraggio altrimenti inatteso, ma non credo lo si debba vedere, come invece fa la studiosa, necessariamente in contrapposizione con l’audacia virile, mi pare, anzi, che l’effetto sia quella di creare un parallelismo con una conseguente valorizzazione e legittimazione autorevole della figura materna.
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che Vernant potrà dire che: «il matrimonio è per la giovane ciò che la guerra è per l’oplita».20 La maternità, seppur indirizzata e piegata alle esigenze riproduttive della polis, non cessa tuttavia di costituire l’evento che più di qualunque altro appartiene e connota esclusivamente la natura femminile, e che ne segna lo scarto definitivo da quella maschile. Le madri descritte nella biologia aristotelica, in definitiva, finiscono con l’assomigliare agli uomini, in piccolo, di cui assumono l’indole coraggiosa e battagliera, ma è proprio in virtù di ciò che acquisiscono una sorta di autorevolezza altrimenti negata al genere cui appartengono. E del resto, l’assunzione di tali categorie valorizzanti da parte della madre avviene non senza uno spostamento: essa le volge, infatti, in direzioni del tutto femminili, materne.
4. La Philia materna nella riflessione aristotelica21 La philia come virtù necessaria Una lunga e profonda riflessione sulla questione dell’amicizia e sul rapporto tra i philoi occupa una parte ben consistente all’interno delle opere etiche aristoteliche.22 Una questione complessa, alla quale il filosofo dedica un’analisi altrettanto complessa. La philia è considerata al pari di una virtù, al pari, cioè, di «quella disposizione per cui l’uomo diventa buono e per cui compie bene la sua funzione»,23 e 20 Vernant 1981, 29. Sappiamo, per esempio, che la legge di Licurgo non permetteva l’incisione del nome del defunto sulla tomba a meno che non si trattasse di un uomo morto in battaglia o di una donna morta di parto. (Cfr Plutarco, Vita di Licurgo, 27, 3. Loraux 1989, 47 osserva come i nomi delle sofferenze legate al travaglio costituiscano spesso, nella letteratura greca, un modello cui rifarsi per esprimere il dolore maschile legato a traumi e ferite di guerra, così come, seppur invertiti, alcuni segni legati alla guerra vengono riferiti alla maternità: «Souffrir comme une femme, mourir comme un homme. Si l’on veut écrire une histoire de la pensée grecque des rôles sexuels, il faudrait en situer le déroulement entre ces deux pôles». Sui rischi e le malattie legate al parto cfr. Demand 1994. 21 Ho discusso di questo in Soardi 2014. 22 Come commentano Gauthier, Jolif 1970, 657: «le traité de l’amitié d’Aristote est lourd de tout l’histoire des mots de philos, de philotès et de philia. Sans doute sa préoccupation principale est- elle de ramener sur terre l’amitié que Platon, à ses yeux, a transportée dans des sphères inaccessibles, - et irréelles, - et de substituer à l’amitié du «Premier objet d’amitié» cette «amitié parfaite» tout humain qu’est l’amitié des vertueux. Mais il ne manque pas pour autant, reprenant à sa manière le thème des Sophistes, de consacrer toute une partie de son exposé, de saveur nettement archaïque, au rapport de l’amitié et de la justice, c’est à –dire à la conception utilitaire de l’amitié et à la casuistique qu’elle engendre, avant de terminer par l’examen des plus récentes «Questions disputées» qui avaient divisé l’Académie des successeurs de Platon». Del rapporto tra Omero e Aristotele, in merito all’utilizzo di φίλος, φιλεῖν e φιλότης, discute Adkins 1963. Sul concetto di philia nel mondo classico e sulle sue trasformazioni si veda Guastini 2008; Nehamas 2010 esamina il concetto di philia aristotelica nel suo rapporto con le moderne accezioni e concezioni filosofiche sull’amicizia. 23 Etica Nicomachea, II, 6, 1106 a 22-24.
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l’ampiezza del discorso ad essa dedicato ne suggerisce tutta l’importanza al fine di condurre un’esistenza altrettanto buona e virtuosa.24 Non si tratta di un semplice stato affettivo, di un contenuto emozionale (su cui certamente l’amicizia trova fondamento), il cui termine definitorio, secondo Aristotele, è philesis. Parlare di philia significa fare riferimento ad una disposizione realizzata sulla base di una scelta attiva, in cui viene coinvolta una sintesi di componenti intellettive ed emotive:25 «L’affezione assomiglia a una passione, l’amicizia ad una disposizione, giacché l’affezione è rivolta anche agli esseri inanimati, ma ricambiare l’amore implica una scelta, e la scelta dipende da una disposizione del carattere».26 Un discorso del tutto etico, dunque, dal momento che ogni azione prende le mosse da una scelta. La questione appare evidente dalla stessa suddivisione dell’amicizia in tre tipi, a seconda che si diventi amici sulla base di un’utilità, del piacere o della virtù. Come è noto, i primi due sono imperfetti e maggiormente sottoposti a cambiamenti perché poggiano su motivazioni che non ne garantiscono in alcun modo la stabilità.27 L’amicizia perfetta è quella del terzo tipo, in grado di permanere nel tempo e tenere uniti gli amici sulla base della condivisione di un’identica vita virtuosa, coloro «che vogliono ciò che è bene per gli amici per loro stessi» e che quindi «sono massimamente amici, giacché ciascuno lo è dell’altro per l’altro stesso e non per accidente. Quindi l’amicizia di costoro perdura finché sono buoni, e la virtù è cosa durevole».28 La philia, nella sua forma più alta e perfetta, è una vera e propria arete che ha come caratteristica principale il fatto di essere «assolutamente necessaria alla vita».29 È, questo, un tema centrale nella trattazione dell’amicizia, sul quale il filosofo insiste più volte nell’Eudemia e su cui si sofferma particolarmente nel IX libro della Nicomachea.30 Qualunque essere umano, per quanto autosufficiente, Si veda, in merito a ciò, White 1999. Ward 1996 su questa distinzione: «For Aristotle, disposition are not emotions (EN 1157b28-31), though they depend upon them; rather, they are states depending upon deliberation and choice (EN 1106 a 2-4). In contrast, emotions are that which move us, but they do not imply will or choice (proairesis) as dispositions do: Aristotle gives the exemple of becoming angry or afraid to show that we do not choose to be so affected (1106 a 2-3)» (159). Vellejo Campos 2009 esamina invece la differenza e il rapporto tra eros e philia in Platone e Aristotele. 26 Etica Nicomachea, VIII, 5, 1157 b 28-31. Ciò che non permette la pura identificazione tra amicizia e disposizione affettiva è la presenza, all’interno della prima, dell’elemento deliberativo. E la deliberazione che consente di considerare la philia all’interno delle virtù, in quanto la rende passibile di una valutazione etica, cosa che non accade, al contrario, per i sentimenti di per sé. Sostiene Fraisse 1974 «Dès qu’elle mérite son nom, elle devient une disposition qui dépend de notre volonté selon le sens moral du mot proairesis, et qui peut devenir le principe de décisions motivées, selon le sens pragmatique de ce mot» (268). Si veda inoltre Ward 1996. 27 Cfr. Etica Nicomachea, VIII, 3; 4 e Etica Eudemia, VII, 2, 1236 a 7-21. 28 Cfr. Etica Nicomachea, VIII, 3, 1156 b 7-12. Alpern 1983 discute di come anche gli altri due tipi di amicizia, pur non essendo basati su relazioni disinteressate, possano contenere elementi di cooperazione e relazione fondate sulla fiducia. 29 Cfr. Etica Nicomachea, VIII, 1, 1155 a 3-5. 30 Cfr. Etica Eudemia, VII, 1, 1234 b 31-34/ 1235a 1-4. 24 25
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non potrà mai godere pienamente della propria completezza se non nel rapporto con gli altri. In esso l’individuo, essendo orientato al rapporto con gli altri, «realizza pienamente la propria personalità, ed è in esso che attua la virtù e raggiunge la felicità».31 In primo luogo, si tratta di una virtù, ed il valore etico di ciascuno ha bisogno di un completamento e di una attualizzazione nel rapporto con gli altri, in particolare degli amici, poiché il bene, per ognuno, consiste nella relazione.32 Ma il bisogno della philia fonda le proprie motivazioni su di una riflessione ben più profonda legata alla facoltà che appartiene specificamente all’essere umano, e cioè quella intellettiva. Diversamente dagli altri animali per l’uomo vivere significa infatti pensare, dunque la percezione del proprio pensiero equivale alla percezione della propria esistenza.33 Mediante la sensazione dell’intelletto avviene la sensazione di vivere, e questo non può che procurare piacere, dal momento che ognuno considera la propria vita come il bene desiderabile per eccellenza. È proprio su questo punto che s’instaura la riflessione aristotelica sulla necessità dell’amicizia, in particolare quella tra uomini buoni e simili per virtù, in cui ciascuno considera l’amico come «un altro sé» e ne desidera il bene per quello che egli è. In un lungo passo del IX libro dell’Etica Nicomachea, Aristotele dimostra come l’equivalenza tra coscienza del proprio esistere e della propria attività teoretica, con il conseguente piacere che ne deriva, trovi conferma e ampliamento nel rapporto con l’amico.34 La vicinanza e la condivisione dell’esistenza tra amici permette una sorta di comunione di pensiero, tramite la quale, nel percepire l’altro, ciascuno sia in grado di percepire se stesso. È grazie al philos, dunque, che traiamo il piacere derivante dalla coscienza del nostro essere.35 Mediante questo incremento di conoscenza l’uomo acquisisce maggior consapevolezza di sé, a differenza di quanto potrebbe avvenire solamente attraverso una riflessione autoreferenziale e viziata dalla parzialità del giudizio su se stessi.36 Una conclusione, questa, che acquista ancor più vigore alla luce della teoria aristotelica secondo la quale l’amico sarebbe «un 31 Mazzarelli 2000 (31); Fraisse 1974 sostiene che «l’homme ne peut trouver son bien que dans l’altérité» (241). 32 Si veda Cooper 1980; Aubenque 2009 esamina il valore comunitario dell’amicizia e, in relazione a ciò, il problema del modo in cui cittadini e barbari, cittadini e schiavi possano eventualmente essere amici. L’essere al di fuori dei confini della comunità, in effetti, sembra costituire un ostacolo insormontabile per l’esistenza di legami di tal genere. 33 Etica Nicomachea, IX, 9, 1170 a 31-33/1170 b 1: «Cosicché noi abbiamo coscienza di sentire, se sentiamo, di pensare, se pensiamo, ed aver coscienza di sentire o di pensare significa aver coscienza di esistere (giacché l’esistere, come abbiamo detto, significa sentire o pensare)». 34 Cfr. Etica Nicomachea, IX, 9, 1170 b 3-12. Sempre Fraisse 1974: «Si l’homme réalise plus complètement sa destination propre dans l’activité théorétique, c’est dans l’activité théorétique commune que l’amitié trouvera son expression la plus parfaite, et sera associée au bonheur le plus pur» (273). 35 Su questo punto si veda il commento di Mazzarelli 2000 a 483. 36 Cfr. Magna Moralia, 1213 a 10-26.
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altro sé». In diversi passaggi Aristotele definisce gli amici come ἕτεροι αὐτοί,37 intendendo la relazione tra due philoi come un’intima vicinanza che porta a considerare l’altro quasi come una parte di sé, pur godendo, allo stesso tempo, di un’esistenza separata. Sono i virtuosi, in particolare, a praticare questo tipo di rapporto, desiderando il bene dell’amico per se stesso e comportandosi con esso come verso di sé.38 L’uomo buono, in definitiva, desidera agire a vantaggio di se stesso e cioè, in altri termini, del proprio elemento specifico: la facoltà intellettiva.39 Vivere significa conservare la parte con cui si pensa. D’altra parte, se è vero che l’amico è «un altro sé», il virtuoso proverà il medesimo desiderio di conservazione anche nei suoi confronti, con un atteggiamento derivante dal sentimento verso la propria persona. Affinché questa intima fusione di pensieri e sentimenti si realizzi, si rende necessaria una condizione indicata già in 1170b 11, e cioè il vivere insieme. Un rapporto di tal genere, infatti «richiede tempo e consuetudine di vita comune (ἔτι δὲ προσδεῖται χρόνου καὶ συνηθείας)».40 La comunanza di discorsi e pensieri permette in misura maggiore la percezione del nostro vivere, nell’esercizio delle attività che più caratterizzano l’esistenza degli uomini. Condividere questi sentimenti e provarli anche per gli amici intensifica il piacere che ne deriva. 37 Questa espressione compare, per la prima volta nei libri dedicati all’amicizia nella Nicomachea, in VIII, 12, 1161 b 28, nella forma plurale, a proposito della philia che lega genitori e figli. Affronterò in maniera approfondita la questione dell’amicizia all’interno dei rapporti familiari, con specifica attenzione alla figura materna. Per il momento faccio riferimento limitatamente all’amicizia tra non consanguinei, in particolare tra uomini virtuosi che intrattengono tra di loro un rapporto di parità. A proposito di questo tipo di philia, Lefebvre 2009 esamina la questione della ὁμοιότης nell’amicizia, dalle sue origini ad Aristotele. 38 Cfr. Etica Nicomachea IX, 4 1166 a 23-35/ 1166b Su questo passo, si veda il commento di Alberti 1990. La studiosa dedica un’approfondita riflessione alla teoria dell’amico come altro sé vedendo in essa una sorta di conciliazione tra l’egoismo, come aspetto centrale della teoria etica aristotelica, e il carattere altruistico proprio della philia. Se il philos, infatti, è un allos autos, agire bene nei suoi riguardi equivale a farlo per se stessi: «In altri termini, non siamo in presenza di due atteggiamenti coesistenti, uguali ma di segno opposto, e quindi contraddittori tra di loro, l’uno egoistico e l’altro altruistico, ma di un solo atteggiamento egoistico. E ciò in virtù della teoria dell’altro sé: l’apparente contraddizione è risolta “fondendo” insieme i referenti dei rispettivi atteggiamenti in un’unica persona, la propria» (281). Essa inoltre nota (281-283) come la posizione di Aristotele non sia sempre del tutto coerente con tale soluzione e mostra il modo in cui, talvolta, l’individuo sia descritto nell’atto di scegliere tra il bene dell’amico e il proprio bene, con una deliberazione a tutto vantaggio di quest’ultimo (per esempio in VIII, 7, 1159 a 8-11). In realtà, secondo la studiosa, rimane comunque prevalente l’idea di una philia che risolve in sé, mediante la figura dell’amico quale altro sé, l’ambivalenza tra egoismo e altruismo. Sempre sulla teoria dell’amico come altro se stesso si veda Schollmeier 1994. 39 Secondo Alberti 1990: «Il concetto di eudaimonia come attività tesa alla perfezione di un’individualità, la teoria dell’ergon che ne è fondamento, la particolare concezione delle aretai come eccellenze della natura umana, implicano che il fine di ogni azione umana sia esclusivamente quel particolare io razionale e organico in cui consiste ciascun uomo in quanto tale, e che per esso si desideri e si ricerchi tutto ciò che è bene» (280). 40 Etica Nicomachea, VIII, 3, 1156 b 26-29: «secondo il proverbio, infatti, non è possibile conoscersi reciprocamente finché non si è consumata insieme la quantità di sale di cui parla appunto il proverbio. Per conseguenza, non è possibile accogliersi come amici, né essere amici, prima che ciascuno si sia manifestato all’altro degno di essere amato e prima che ciascuno abbia ottenuto la confidenza dell’altro». In Etica Eudemia, VII, 2, 1237 b 34-36 viene espresso il medesimo concetto.
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La philia come ergon Anche nel caso della philia è possibile la distinzione tra potenza e atto, ma un’amicizia che rimanga a lungo soltanto una disposizione priva di attualizzazione a causa della distanza è destinata ad esaurirsi.41 L’attualizzazione dell’amicizia, dunque, trova naturale compimento nella vicinanza, nella comunanza di pensieri e azioni. Parlare di philia significa fare riferimento ad una disposizione che si realizza attraverso una deliberazione e che, pur poggiando su di un contenuto emotivo, non esaurisce in esso la propria natura. Benché la disposizione si fondi su di una affezione, la philesis, la realizzazione di tale disposizione avviene mediante una scelta attiva e l’amico, a differenza di colui che prova un vago senso di benevolenza, mette in azione il proprio desiderio per il bene dell’altro. L’attività, l’ergon, distingue l’amicizia dal sentimento della benevolenza, eunoia, che si differenzia dalla philia proprio per questa mancanza di azione.42 Non si tratta di una sopravvalutazione del carattere performativo della philia a discapito del suo contenuto emozionale, ma soltanto di rilevare come quest’ultimo non sia sufficiente affinché si possa parlare di una reale e duratura relazione tra amici.43 Non si può parlare di amicizia neppure soltanto nei termini di uno stato affettivo che possa essere attivato nel contesto adatto. L’oggetto di questa attività diviene costitutivo della philia, e la vicendevolezza, la reciprocità assumono un valore imprescindibile.44 Si comprende bene, allora, il motivo di tanta insistenza sulla necessità del συζῆν, il vivere insieme, in modo che gli amici possano agire in vista del bene gli uni degli altri attraverso un comune percorso di vita. Del resto, ciò che rende l’amicizia qualcosa di proprio dell’essere umano è esattamente quell’elemento razionale a partire dal quale ognuno sceglie di agire nei confronti dell’amico. L’importanza della relazione non impedisce e non contrasta con il fatto che la componente attiva della philia venga a più riprese rintracciata da Aristotele nella preminenza dell’attività del philein rispetto alla passività del phileisthai: «E l’amare assomiglia a un fare, l’essere amati a un subire: (ἡ μὲν φίλησις ποιήσει ἔοικεν, τὸ φιλεῖσθαι δὲ τῷ πάσχειν), per conseguenza a chi è superiore nell’azione si accompagnano l’amore e i sentimenti d’amicizia».45 Se l’amicizia è una virtù, se caratteristico di quest’ultima è «più fare il bene che non il riceverlo»,46 proprio della philia sarà, allora, l’amare piuttosto che l’esCfr. Etica Nicomachea, VIII, 5, 1157 b 5-12. Cfr. Etica Eudemia, VII, 7, 1241 a 10-14. 43 Come nota bene Sokolon 2006: «even though there is an emotional component to friendship, emotion alone is insufficient for even the lowest forms of friendship» (70). 44 Nussbaum 1996 parla dell’amicizia proprio come di un «bene relazionale» (624), intendendo la necessità della relazione con l’oggetto affinché essa possa esistere. 45 Etica Nicomachea IX, 7, 1168 a 19-21. 46 Etica Nicomachea IV, 1, 1120 a 11. 41 42
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sere amati e il beneficare più del ricevere benefici, perché se «è proprio dell’amico fare piuttosto che ricevere il bene, e se è proprio dell’uomo buono e della virtù il beneficare, ed è più bello fare del bene ad amici che ad estranei, l’uomo di valore avrà bisogno di persone che ricevono i suoi benefici».47 Superiorità, questa, che poggia le proprie basi anche su un’ulteriore considerazione, cioè il piacere derivante dall’azione del philein, poiché «ciò che piace del presente è l’attività, del futuro la speranza, del passato il ricordo: ma ciò che piace di più e di più si ama, è l’attività. Ora, per chi ha fatto del bene, l’opera rimane (giacché il bello dura molto tempo), ma per chi l’ha ricevuto, l’utilità passa. E il ricordo delle cose belle è piacevole, mentre quello delle cose utili non lo è affatto, o lo è meno; quanto all’attesa, sembra che avvenga il contrario».48 È noto come per Aristotele attività e piacere siano strettamente legati grazie al perfezionamento che quest’ultimo garantisce ad ogni attività e, quindi, anche a quella «che tutti intensamente desiderano: la vita».49 Sulla base di ciò il filosofo crea un ulteriore collegamento tra amicizia, attività e piacere: la philia consiste soprattutto nell’amare, attività che, in quanto tale, procura piacere poiché contribuisce a fornire la percezione della propria esistenza.50 Non soltanto, dunque, l’amicizia virtuosa provoca piacere poiché si realizza mediante azioni che garantiscono un godimento, ma è essa stessa un’attività che il piacere perfeziona. Colui che ama, consapevole, della propria azione, prova una gioia maggiore di colui che è amato, il quale può anche non avvedersi di ricevere un beneficio simile.51 Rapporti tra diseguali: la philia riequilibratrice Qualunque sia il motivo per cui si diviene amici, la philia lega tra loro anche persone di rango differente, come per esempio un padre e un figlio, un giovane e un vecchio, un potente e un sottoposto.52 Questa disparità attraversa tutte e tre le tipologie di amicizia, siano esse basate sulla virtù,53 sul piacere o sull’utile, anEtica Nicomachea IX, 9, 1169 b 10-13. Etica Nicomachea IX, 7, 1168 a 13-19. 49 Etica Nicomachea X, 4, 1174 b 15. 50 Cfr. Etica Nicomachea IX, 7, 1168 a 3-9. 51 Cfr. Etica Eudemia VII, 1239 a 27-33. 52 Secondo Fraisse 1974, l’amicizia tra diseguali è soprattutto quella fondata sull’utile: «s’il est faux de ramener l’utilité à un principe naturel, on peut en effet tenir pour acquisé sa capacité d’unir les complémentaires, et c’est souvent la complémentarité qui rapproche l’un de l’autre ceux que la situation sociale sépare» (202). 53 A tal proposito, per indicare i rapporti basati sulla virtù, Cooper 1980, parla di «friendship of character». In questo modo, sostiene lo studioso, è possibile riferirsi ad amici che abbiano aspetti eccellenti nel carattere senza essere «moral heroes» (308). Diversamente, dovremmo ammettere che, secondo Aristotele, solo uomini perfetti moralmente possano basare il proprio rapporto sulla virtù, argomento su cui Cooper dissente. 47
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che se, naturalmente, le ultime due sembrano costituirne l’ambito privilegiato. È proprio all’interno di rapporti di tal genere che la distinzione tra benefattore e beneficato acquisisce pregnanza ed evidenza. In essi, precisa Aristotele, bisogna che una parte si rapporti all’altra mediante un meccanismo riequilibrante, che si regga su di una uguaglianza di tipo proporzionale, perché «gli amici uguali devono amare in modo uguale ed uguagliarsi anche nel resto; quelli diseguali devono rendere ogni cosa in proporzione alla superiorità dell’altro».54 Ciò che rende possibile che philoi siano anche persone di grado impari, dunque, è proprio questo riequilibrio delle parti attraverso la proporzionalità dei benefici offerti e goduti: il superiore otterrà un vantaggio maggiore in termini di onore e affetto da parte dell’inferiore che, a sua volta, gode del suo beneficio.55 La proporzione che regola i rapporti tra diseguali, in lieve contraddizione con la preferenza accordata all’attività dell’amare, si pone come unico strumento possibile per colmare uno squilibrio, coinvolgendo anche la quantità e la modalità (attiva-passiva) di affetto in gioco. Il più virtuoso «deve essere amato più di quanto ami».56 L’amicizia pretende, infatti, un contraccambio possibile (τὸ δυνατὸν γὰρ ἡ φιλία ἐπιζητεῖ)57 in relazione alle possibilità delle parti.58 Il principio di fondo è il medesimo della giustizia distributiva trattata nel quinto libro della Nicomachea.59 L’uguaglianza raggiunta mediante il meccanismo distributivo è di tipo proporzionale, prevede, cioè, una proporzione tra quantità di beni da assegnare e merito60 di coloro ai quali essi vadano destinati. Se le persone non sono uguali, se non hanno lo stesso valore e gli stessi meriti, avranno diritto a quantità diseguali di beni. Giustizia e amicizia, in tal modo, finiscono con l’intrattenere un vincolo molto stretto. Compito della politica sarà quindi anche quello di stabilire Etica Nicomachea, VIII, 13, 1162 b 2-4. Etica Nicomachea, VIII, 14, 1163 a 30-35/1163 b 1-5: «Si pensa, infatti, che, come in una società finanziaria ricevono di più quelli che hanno contribuito di più, così debba avvenire anche nell’amicizia. Ma chi è in condizioni di bisogno e di inferiorità pensa il contrario, giacché è proprio dell’amico buono soccorrere nel bisogno: che vantaggio c’è, dicono infatti, ad essere amico di un uomo di valore o di un potente, se non ci si può aspettare di ricavarne qualcosa? Sembra, dunque, che ciascuno dei due abbia una giusta pretesa, e che ciascuno debba ricavare dall’amicizia qualcosa più dell’altro, ma non la stessa cosa, bensì quello superiore più onore e quello bisognoso più guadagno: infatti premio della virtù e della beneficenza è l’onore, mentre soccorso all’indigenza è il guadagno». 56 Cfr. Etica Nicomachea, VIII, 7, 1158 b 23-28. 57 Etica Nicomachea, VIII, 14, 1163 b 15; Aristotele, in questo passo, nota come l’uguaglianza e l’aderenza totale del contraccambio al merito sarebbe impossibile, in particolare nel rapporto con la divinità e con i genitori. 58 Cfr. Etica Nicomachea, VIII, 14, 1163 b 9-12. 59 Cfr. Etica Nicomachea, V, 3, 1131 a 10 sgg.. 60 L’esigenza di una distribuzione dei beni in conformità al merito è di derivazione aristocratica. Nella visione aristocratica, condivisa in questo particolare caso da Aristotele, merito e virtù sono sostanzialmente conformi e, dunque, le cariche pubbliche vanno assegnate in base ad esse (cfr. Politica, III, 5, 1278 a 19). A titolo di merito, inoltre, possono essere invocate e ammesse, in certi casi, anche la nascita, una buona educazione e la posizione economica (cfr. Politica, III, 12, 1283 a 14-22; 13, 23-26). Il concetto dell’uguaglianza basata sul merito era già in Platone, Leggi, VI, 757 b-c. 54
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e regolare l’amicizia, in virtù del fatto che essa, nel creare vincoli tra gli uomini, è in grado di diminuire lo spazio dell’ingiustizia.61 Legami familiari: la philia tra genitori e figli Philia e dikaiosyne condividono il medesimo ambito, quello, cioè, delle associazioni umane di cui sono a fondamento.62 Secondo Nussbaum è proprio su questo tema, in particolare, che si fonda la critica aristotelica alla costruzione della Repubblica platonica. In essa, con l’abolizione della proprietà privata e delle relazioni sessuali esclusive, viene meno la separatezza delle persone, considerata da Aristotele come una parte essenziale della città e della bontà sociale.63Attraverso un sistema in equilibrio tra uguaglianza e disuguaglianza, fondato sulla separatezza, amicizia e giustizia forniscono il tessuto connettivo, la possibilità stessa delle comunità di esistere. Poiché sono l’una il completamento a sostegno dell’altra, esse trovano realizzazione in ogni associazione umana costituendone, al tempo stesso, l’imprescindibile condizione di partenza. È proprio il modo in cui viene considerata la giustizia che determina la facies di ogni comunità e, nel caso degli stati, la forma costituzionale.64 Se è vero tutto ciò, allora, è possibile stabilire un ulteriore parallelismo tra forme di governo e rapporti tra i membri della famiglia, considerata come la base di ogni associazione. Poiché l’uomo è un animale non soltanto politico, ma anche domestico, in primo luogo propenderà per natura alla formazione della coppia maschio-femmina, marito-moglie, in seguito a quella del nucleo familiare, le cui relazioni sono anch’esse forme di amicizia.65 La famiglia diviene il luogo privilegiato, l’archetipo di ogni relazione tra diversi all’interno della quale agisce il meccanismo della proporzione tra amicizia e merito. La gerarchia familiare si dipana e si rispecchia nelle diverse tipologie di rapporto tra i componenti dell’oikos, ed è resa evidente dall’analogia di queste con le differenti forme costituzionali. In particolare, l’autorità paterna sui figli è di tipo monarchico,66 ed il padre intrattiene con essi il rapporto di un re con i Cfr. Etica Eudemia, VII, 1, 1234 b 22-31). Curren 2000 esamina il valore della philia come strumento, tra gli altri, atto a mantenere saldi i legami tra i cittadini. 63 Nussbaum 1996: «Per natura una città è una pluralità di parti separate. Unirle, come fa Platone, significa eliminare le basi della giustizia civile e della philia, due dei suoi beni centrali. Infatti non esiste giustizia tra gli elementi di una singola totalità organica. L’idea della giustizia come distribuzione presuppone la separatezza delle parti e dei loro interessi (cfr. M. Mor. 1194 b 5-23; Eth. Nic. 1134 b 1 sgg.)» (638). 64 Etica Eudemia, VII, 9, 1241 b 9-17: «Si crede poi che il giusto sia una forma di uguaglianza e che l’amicizia sia nell’uguaglianza, se non è senza fondamento il detto che “amicizia è uguaglianza”. Ora, tutte le costituzioni sono una forma di giustizia; sono infatti comunità e ogni comunanza si regge sulla giustizia, sicché quante sono le forme dell’amicizia, tante sono anche della giustizia e della comunità e tutte queste cose confinano tra loro e le loro rispettive differenze sono affini». 65 Cfr. Etica Eudemia, VII, 10, 1242 a 22-28. 66 Cfr. Etica Nicomachea, VIII, 10, 1160 b 22 sgg. 61 62
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sudditi. Il legame tra padre e figlio mantiene la propria peculiarità poggiando su di una disparità dovuta al bene elargito dal genitore: la vita. La specificità del dono paterno pone il genitore su di un piano di superiorità persino rispetto al basileus: nessun sovrano potrà mai concedere il beneficio più gradito, e cioè l’esistenza.67 Nel descrivere il legame tra genitori e figli mediante la metafora delle costituzioni Aristotele nomina quasi esclusivamente il padre o, più genericamente, i genitori, soprattutto nei casi in cui ricorre al paragone con il rapporto di superiorità e inferiorità che intercorre tra re e i sottoposti. Per indicare la grandezza del suo dono, in alcuni casi il padre è accostato persino alla divinità: «Ora, la relazione tra schiavo e padrone è la stessa che tra l’arte e gli strumenti e tra l’anima e il corpo, ma le relazioni di questo tipo non sono né amicizie né forme della giustizia, ma qualcosa di analogo, come anche quel che è salutare non è giusto, ma analogo al giusto; l’amicizia dell’uomo e della donna, invece, è fondata sull’utile ed è un’associazione, quella tra padre e figlio è la stessa che tra il dio e l’uomo e il benefattore e il beneficato e, in una parola, tra chi per natura comanda e chi per natura è sottoposto; l’amicizia dei fratelli tra loro è la più simile a quella cameratesca, quella che si fonda sull’uguaglianza».68 Le relazioni tra i membri dell’oikos si differenziano tra loro disponendosi lungo una scala gerarchica il cui vertice è occupato dal capo famiglia. Si comprende bene, allora, come il riferimento alla figura monarchica o alla divinità esprima esattamente questo tipo di verticalità che non prevede alcun riferimento alla madre. Come un re benefico e superiore che si occupa dei propri sudditi, o un dio benevolo nei confronti dell’uomo, così è il padre con i figli. Il ricorso a figure quali il monarca o il dio misura la distanza che separa i genitori dai figli: in tutta evidenza, allora, appare l’impossibilità di menzionare la figura materna all’interno di un sistema di relazioni così concepito. Possiamo di certo supporre che gli onori da tributare a un re o ad una divinità non fossero, per Aristotele, un modello adeguato da proporre a proposito della figura materna, diversamente che per il padre. Sebbene in alcuni casi si parli più genericamente di goneis,69 quando le prerogative sui figli sono assimilate a quelle di monarchi o divinità si assiste ad un silenzio totale sulla madre, laddove il padre gode più volte di una menzione esplicita. Se la disparità del legame e l’incolmabilità della distanza poggia sull’impossibilità di eguagliare il dono dell’esistenza, per un padre sarà lecito ripudiare un figlio ma non il contrario, poiché un figlio essendo in debito, deve contraccambiare, ma, qualunque cosa un figlio faccia, non può fare nulla che eguagli il valore di ciò che ha ricevuto, cosicché rimane sempre debitore».70 Cfr. Etica Nicomachea, VIII, 11, 1161 a 10-21. Etica Eudemia VII, 10, 1242 a 28-36. Un concetto simile è espresso in Etica Nicomachea, VIII, 12, 1162 a 4-7, in cui il paragone con la divinità serve per esplicitare la condizione di inferiorità dei figli nei confronti dei genitori. In questo caso Aristotele parla più in generale di goneis. 69 Cfr. Etica Nicomachea, VIII, 12, 1162 a 4-9. 70 Etica Nicomachea, VIII, 14, 1163b 18-27; il passo continua con l’osservazione di come, in realtà, sia 67
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La peculiarità del beneficio elargito comporta un’ulteriore conseguenza: la specificità che la teoria dell’amico come «altro sé»,71 verso il quale il virtuoso prova dei sentimenti «come verso se stesso»,72 assume alla luce del rapporto di parentela.73 Per quanto riguarda i genitori, essi avvertono di certo i figli come una naturale continuazione del loro essere, pur esistendo questi separatamente e la percezione dello sdoppiamento del proprio sé deriva, naturalmente, dalla sensazione del figlio come prodotto della generazione.74 La philia tra genitori e figli, dunque, costruisce l’incolmabile disparità di un rapporto sulla base del più grande dei benefici: la capacità degli uni di permettere l’esistenza degli altri. L’unico contraccambio possibile, ma mai sufficiente, risiede nell’onore e nell’affetto da tributare ai genitori «come agli dei» ma in modi differenti, giacché «al padre non si deve lo stesso onore che alla madre, né quello dovuto a un sapiente o a un generale, bensì quello appropriato a un padre, o, rispettivamente, ad una madre».75 Nonostante la comparsa della madre, in quest’ultimo brano, non vengono per nulla chiariti i termini della differenza che intercorre tra i genitori. Esistere in virtù di un beneficio: la philia materna Vorrei ritornare, adesso, sul motivo di fondo del divario che separa genitori e figli. Si tratta del beneficio dell’esistenza, in virtù del quale la relazione è strutturata in senso gerarchico. Il rapporto tra affetto e beneficio è però inversamente proporzionale. I genitori-benefattori, ad esempio, amano di più i figli di quanto essi non li amino a loro volta. Il motivo per cui ciò accade è che l’attività di amare, che in questo caso specifico si manifesta nel beneficiare, è superiore e preferibile alla passività del ricevere amore. I genitori, pur essendo simili a dei benefattori, amano ancora di più i propri figli in quanto prodotto della loro attività. In particolare, dell’attività migliore e preferibile a tutte, quella, cioè, che rende possibile l’esistenza. Nella figura dei goneis il piacere dell’atto e il piacere che deriva dall’esistere coincidono al massimo grado. Ognuno «ama la sua opera, perché ama la propria esistenza. E questo è naturale: infatti, ciò che è in potenza, l’opera lo rivela in atto».76 L’opera attualizza l’essere del produttore, naturale e umano non rifiutare l’assistenza a un figlio, mentre più spesso i figli, malvagi, non si preoccupano di aiutare il padre. 71 Questo tema è affrontato in maniera specifica in Alberti 1990 (263-301). 72 Etica Nicomachea, IX, 4, 1166 a 29-33; cfr. anche IX, 9, 1169 b 6-7; 1170 b 6. 73 A questo proposito, si veda Alberti 1990 (264). 74 Cfr. Etica Nicomachea, VIII, 12, 1161b 27-30. 75 Etica Nicomachea, IX, 2, 1165 a 25-27. 76 Cfr. Etica Nicomachea, IX, 7, 1168 a 7-9.
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ne conferma l’esistenza esplicandone le potenzialità. Ciascuno ama il proprio prodotto perché ama la propria esistenza e, in particolare, i figli costituiscono l’opera specifica dell’essere umano come genitore. Per questo motivo allora, in quanto attualizzazione di chi li ha messi al mondo, essi sono amati, come un poeta che ama le proprie composizioni.77 In definitiva mettere al mondo è un ergon, e come tale anche un beneficio collegato all’attività del philein. È proprio a questo proposito che la madre viene nominata accanto al padre: «Ci si domanda poi perché i benefattori amano i beneficati più che i beneficati i benefattori, mentre si crede che sia giusto il contrario. Si potrebbe pensare che questo avvenga a causa dell’utile e dell’interesse personale: infatti l’uno è in credito, mentre l’altro deve restituire il beneficio. Ma non si tratta solo di questo, c’è anche un motivo naturale: perché l’attività è preferibile, ma l’attività e l’opera hanno lo stesso ruolo e il beneficato è come un’opera del benefattore. Perciò anche tra gli animali c’è la cura verso la prole: nel generarla e, una volta generata, nel conservarla. E i padri amano i figli (e le madri più dei padri) più di quanto ne siano amati; e questi a loro volta amano i loro figli più dei genitori perché l’attività è il massimo valore. Le madri, poi, amano più dei padri perché pensano che i figli siano più opera loro: come criterio distintivo dell’opera, infatti, pongono la sua difficoltà, nella generazione infatti ha maggiori pene la madre».78 Il valore della maternità nella polis e il ruolo della donna come riproduttrice consentono di comprendere pienamente il motivo della menzione del tutto speciale riservata in questo caso alla madre, diversamente da quanto accade se il rapporto con i figli viene paragonato a quello con i sudditi o a quello tra uomo e divinità. L’analisi del brano appena riportato offre, però, ulteriori elementi di riflessione. Nel dipanarsi dell’intrecciato discorso aristotelico, il dolore legato all’esperienza del parto e la sua difficoltà assumono un ruolo centrale nel determinare l’eccezionalità del rapporto che unisce madri e figli. Nonostante la sofferenza non sia da considerare propriamente come un’attività, e l’elemento distintivo di questo rapporto sia la maggiore intimità del legame materno, più che l’ergon in sé, credo però che il contesto del ragionamento consenta di compiere alcune osservazioni, proprio sul valore dell’energheia in rapporto alle madri. Il beneficio come prodotto di un’attività costituisce, infatti, il tema centrale della lunga disamina all’interno e al termine della quale Aristotele compie le sue osservazioni sulla figura materna, con riferimento proprio al discorso sull’ergon appena compiuto. Ancora una volta, viene ribadita la centralità e il valore dell’attività tra gli esseri umani e la sua corrispondenza, in questo caso, con l’atto del beneficare. Essa è αἱρετώτερον, da scegliere, anche se ciò comporta, nel caso specifico del benefattore, ricevere meno di quanto si sia dato. Posti su un piano impari, figli e genitori sono legati da quel tipo di philia che unisce i diseguali. Se la philia è 77 78
Cfr. Etica Nicomachea, IX, 7, 1168a 1-3. Etica Eudemia, VII, 8, 1241 a 35-40/ 1241 b 1-9.
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un’attività che risiede più nell’amare e nel compiere il bene che nel riceverlo, nel caso di un rapporto di questo tipo essa troverà definizione in primo luogo in ciò che compie il benefattore. Il figlio è l’ergon, l’attualizzazione di entrambi i genitori-benefattori, e della madre più che del padre. Al termine del ragionamento compare la figura materna, in posizione di preminenza: si tratta di colei che soffre maggiormente nel generare e che, proprio in virtù di questo sforzo e di questa sofferenza, intrattiene un rapporto più stretto con la prole. In definitiva, mi pare si realizzi indirettamente una sorta di accostamento del femminile all’energheia attraverso la dimensione del materno. Attraverso l’opera della generazione, in qualche modo, lo status di benefattrice conferisce alla madre un ruolo attivo, che comporta uno spostamento rispetto alla consueta rappresentazione aristotelica del femminile. È noto il legame che vincola la natura della donna alla passività, al paschein, così come appare soprattutto dalle opere biologiche, con particolare riferimento proprio alla riproduzione. Fredda e inerte materia, pura potenzialità, nel brano che ho riportato diviene la benefattrice per eccellenza, colei che intrattiene uno speciale rapporto di philia con la prole generata in cui ciò che la contraddistingue è proprio la preminenza dell’attività. Risuona, in questo riconoscimento, il valore sociale e politico della riproduzione affidata alla parte femminile della comunità, ma la rilevanza del concetto di ergon e di quello di energheia, all’interno della filosofia aristotelica, spingono ad un’analisi che superi i confini di questa prima osservazione. Innanzitutto, è rilevante il fatto che considerazioni sul femminile trovino luogo e spazio in un ambito così fortemente connotato al maschile come è quello della philia. È evidente che nel parlare di amicizia Aristotele si riferisca al rapporto tra cittadini, cioè tra maschi adulti e liberi, così come è naturale che la menzione del femminile, in tal senso, possa avvenire unicamente all’interno di una riflessione sui rapporti tra parenti in ambito domestico. Esattamente come il padre, la madre intrattiene con i figli legami di philia incanalati in una struttura verticistica non alla maniera di un re o un dio, ma come la dispensatrice per eccellenza del beneficio dell’esistere stesso. Questa condivisione di ambiti tra maschile e femminile, pur nella differenza delle modalità, supera di gran misura la semplice retorica del materno. Il padre è come un re e un benefattore nei confronti dei figli, la madre condivide quest’ultima prerogativa ma con una sorta di valore aggiunto: il suo legame con l’opera, con l’ergon, è più forte: «Inoltre, tutti gli uomini amano di più ciò che hanno ottenuto con fatica: per esempio, coloro che hanno personalmente conquistato la ricchezza l’amano di più di quelli che l’hanno ereditata; ma si riconosce che ricevere del bene non costa fatica, mentre farlo comporta uno sforzo. Per queste ragioni, anche, sono le madri che amano di più i figli: la generazione, infatti, è per loro più faticosa e dolorosa, ed esse sanno meglio che i figli sono loro. Si ammetterà che questo sentimento è proprio anche dei benefattori».79 79
Etica Nicomachea, IX, 7, 1168 a 21-27.
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Vorrei, a partire dal passo sopra citato, indagare un’ulteriore corrispondenza tra la descrizione della philia in generale e quella materna. Abbiamo visto in che termini Aristotele parli dell’amicizia perfetta (τελεία), come di un’intima fusione di coscienze tra uomini virtuosi che desiderano il bene l’uno dell’altro e che condividono quanti più spazi possibile della loro esistenza.80 Le caratteristiche dell’amicizia tra madre e figli si avvicinano molto a quelle della teleia philia, basata, cioè, sulla virtù tra uomini di pari grado. Quest’ultima si realizza unicamente nel syzen, nel vivere insieme, al fine di una profonda e intima condivisione e compenetrazione dei pensieri e l’amico virtuoso proverà verso l’altro gli stessi sentimenti che prova per se stesso, con un atteggiamento di grande empatia. Così sembrano comportarsi le madri (μάλιστα δὲ καὶ τοῦτο περὶ τὰς μητέρας συμβαίνει),81 che partecipano al dolore dei figli come fanno gli uccelli che soffrono insieme82, proprio come gli amici fanno gli uni nei confronti del dolore degli altri.83 La condivisione della gioia e del dolore è un tratto che accomuna l’attitudine materna nei confronti dei figli e la philia descritta in termini generali, come lo è l’amore dell’altro per se stesso, sia esso il figlio o l’amico, e il desiderio del suo bene. È questo un elemento che Aristotele attribuisce in particolare all’amicizia nella sua forma più alta e perfetta, cioè quella tra uomini virtuosi e di pari grado, durevole e sicura. Empatia, interesse per il bene dell’altro, dunque, come caratteristiche della philia nella sua forma più compiuta ed elevata e che, nel medesimo tempo, descrivono il rapporto che lega la madre al figlio proprio all’interno della riflessione sull’amicizia. L’altruismo nei confronti del philos, di cui si desidera il bene, raggiunge la sua vetta più alta proprio nell’ambito del materno: «D’altra parte, si ritiene che l’amicizia stia più nell’amare che nell’essere amati. Prova ne sono le madri, che godono di amare: alcune, infatti, danno i propri figli a balia, e li amano, ben sapendo che sono figli loro, ma non cercano di farsi ricambiare l’amore, se non siano possibili entrambe le cose, ma sembra che sia sufficiente per loro vederli star bene, ed esse li amano anche se quelli, non conoscendo la propria madre, non le rendono nulla di ciò che a una madre si conviene rendere».84 Simile, per certi aspetti, all’amicizia perfetta tra uomini virtuosi, di cui condivide alcune prerogative, la philia materna finisce per assumere una posizione del Cfr. Etica Nicomachea, VIII, 3, 1156 b 7-12. Cfr. Etica Nicomachea, IX, 4, 1166 a 1-9. 82 Cfr. Etica Eudemia, VII, 6, 1240 a 35-36. 83 Cfr. Retorica, II, 4, 1381 a 3-6; Etica Eudemia, VII, 6, 1240 a 36-39/1240 b 1. 84 Etica Nicomachea, VIII, 8, 1159a 27-33; un passo molto simile si trova in Etica Eudemia, VII, 1239 a 33-40/1239 b 1-2. Secondo Alberti 1990, proprio sulla base della condivisione di tali requisiti, l’amore materno sarebbe «il prototipo di ogni forma di amicizia» (276). 80 81
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tutto particolare, all’interno di una zona intermedia e dai contorni sfumati. Da un lato, si tratta certamente di un’affezione innata, un sentimento istintivo e naturale, che accomuna uomini e animali, motivo per il quale essa occupa uno spazio del tutto peculiare e dai tratti ambigui. D’altro canto proprio tale ambiguità permette di rilevare alcuni elementi di continuità tra la philia materna e quella maschile, a partire dalla semplice constatazione dell’intreccio che lega i rispettivi discorsi definitori. Immedesimazione e altruismo sembrano accomunare il sentimento materno a ciò che accade tra i philoi virtuosi. Quel che manca è, invece, la reciprocità. Si tratta di una conseguenza ben spiegabile se consideriamo la natura istintiva di questo rapporto, di questa affezione innata che non conosce le forme più articolate e razionali dei rapporti tra gli esseri umani. Ma è proprio in questa mancanza di reciprocità che appare la valorizzazione estrema del carattere essenzialmente attivo della philia, fino al punto che l’attività dell’amare, il philein, si manifesta nella rinuncia al meccanismo del contraccambio. Non c’è redistribuzione, non si parla più di riequilibrio tra benefattore e beneficato, la madre ama in un modo assolutamente particolare, tanto da rinunciare a ricevere ciò che le è dovuto in virtù del suo ruolo, e, in ultima analisi, persino ad essere riconosciuta.85 Secondo Nussbaum, la philia aristotelica è un tipo di legame «che favorisce e cura il bene separato di un’altra persona, che desidera il movimento continuo ed indipendente anziché l’immobilità del suo oggetto».86 Ritengo che questa riflessione valga in modo particolare per la madre: essa ama il figlio, nell’esistenza del quale riconosce il proprio ergon, il proprio movimento,87 e questo costituisce un premio sufficiente. Amore innato, legame istintivo che accomuna diverse specie animali, e che non conosce la medesima complessità delle relazioni umane, trova però posto nell’ambito di una discussione riguardante un concetto così articolato come è quello della philia, in cui affezione e razionalità sono saldamente intrecciate. In definitiva, la zona d’ombra, la posizione così sfumata in cui risiede l’amore materno per i figli, nella descrizione aristotelica, consente di mettere in luce i punti di novità che la vicinanza con la philia maschile introduce. Lo spostamento della madre dalla parte dell’ergon e dell’energheia, infatti, che avviene proprio grazie a tale accostamento, costituisce uno degli aspetti salienti che ho tentato di porre in rilievo attraverso la mia analisi, all’interno del complesso quadro della teoria aristotelica dell’amicizia. 85 Questa mancanza di reciprocità ha indotto Konstan 1998, a negare che si possa parlare, nel caso dell’amore materno, di rapporto «between philoi» (284). È innegabile che il termine philia afferisca ad una serie di ambiti lontani e differenti tra loro, ma non condivido la necessità di compiere una distinzione per ciò che riguarda l’amicizia materna, dal momento che il termine utilizzato dal filosofo è il medesimo e la riflessione sull’amore della madre trova posto proprio nello spazio riservato alla discussione sulla philia in generale. 86 Nussbaum 1996 (642). 87 Si tratta, secondo Campese 1983, del «primato dell’amicizia in quanto tale. L’amicizia materna è eccedente e inesauribile, ed è eversiva di ogni conteggio, di ogni cautela di scambio e di status» (70).
Conclusioni Un’analisi sulle modalità di rappresentazione del femminile nel pensiero di Aristotele non può che prendere le mosse dall’assunzione di una consapevolezza: si deve tenere a mente, cioè, che non si tratta di un argomento tematizzato, se non in maniera circoscritta e per brevi ambiti. Un silenzio che descrive e categorizza come un dato di fatto il modus vivendi delle donne al tempo del filosofo. La natura dell’argomento presenta un ulteriore aspetto spinoso, che riguarda la possibile sovrapposizione del dibattito contemporaneo sulla donna. L’autorità del pensiero aristotelico, che nel corso dei secoli si è imposta mediante la trasmissione e la creazione di modelli culturali tuttora operanti, ha certamente amplificato la possibilità che tutto ciò avvenisse. E d’altro canto, una lettura consapevole non può che partire dall’evidenza del testo in questione, nel quale le attestazioni di misoginia risultano piuttosto consistenti. Si tratta di una costruzione socialmente e politicamente ben radicata, che affonda le proprie radici nel contesto culturale e sociale in cui Aristotele vive e concepisce le proprie teorie. Eppure la rappresentazione misogina, storicamente determinata e contestualizzabile, non esaurisce ogni possibilità descrittiva del femminile nell’opera del filosofo. Oltre al piano canonico di rappresentazione, di cui ho cercato di dar conto in modo esaustivo, ne esiste un altro, forse più profondo, che la materia è in grado di far riemergere. L’identificazione del femminile con la hyle permette una considerazione di diverso tipo: quanto sostrato che permane in ogni processo del divenire, ne garantisce la possibilità stessa, e questa sua potenzialità consente ad Aristotele di dire che essa è concausa delle cose che si generano, insieme alla forma, come se fosse una madre. Non crea meraviglia, allora, che sia proprio l’ambito del materno, sia da un punto di vista biologico che da quello etico-morale, ad offrire un piano di riflessione di particolare importanza, proprio in virtù del ruolo riproduttivo a cui le donne erano chiamate. Materia, femminile, generazione come primo divenire: tutto ritorna, allora, secondo una circolarità tipica del pensiero del filosofo, con un’idea di fondo che collega la natura femminile alla possibilità stessa dell’esistente.
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Finito di stampare nel mese di Dicembre 2014 per conto dell’editore Salvatore Sciascia