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Italian Pages 304 [307] Year 1998
Paul Oskar Kristeller
IL PENSIERO E LE ARTI NEL RINASCIMENTO
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Oggetto di questi studi- divenuti ormai un punto di riferimento obbligato, anche se per la maggior parte inediti in lingua italiana sono la filosofia e le arti del Rinascimento: l'umanesimo, il platoni-
smo e l'aristotelismo, ma anche la musica, la poesia, le arti figurative. Quel complesso di fenomeni di sensibilità e pensiero che dette-
ro spessore e autonomia a una cultura del Rinascimento.
_
Kristeller diffida di ogni operazione che voglia ingabbiare la storia della cultura sotto le rigide determinazioni della storia poli-
tica, economica o sociale. Anzi, difende il punto di vista secondo cui sono le idee filosofiche e artistiche ad avere influenzato in modo determinante la politica e l'economia di certe epoche storiche. I saggi qui raccolti su Ficino e Pomponazzi, sull'averroismo
padovano, sul pensiero morale e sulla diffusione europea dell°umanesimo, sull'insegnamento della musica, sulla retorica, sul sistema delle arti, sono la prova migliore della fecondità di un metodo di
indagine che privilegia l'autonomia di una storia intellettuale a tutto tondo, capace di restituire in pieno lo spessore e la profondità di uno dei momenti più significativi ed esaltanti della nostra vicenda intellettuale.
Paul Oskar Kristeller è professore emerito di filosofia alla Columbia University di
New York Tra i suoi numerosi lavori tradotti in Italia, ricordiamo Otto pensatori del Rinascimento italiano (Ricciardi, 1978); Concetti rinascimentali dell'uorno e altri saggi (La Nuova Italia, 1978); Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino (Le Lettere, 1988); Il sistema moderno delle arti (Alinea, 1995).
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L. 38.000
ISBN 88-7989-434-X
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Saggi. Arti e lettere
Paul Oskar Kristeller
IL PENSIERO E LE ARTI NEL RINASCIMENTO
Traduzione di Maria Baiocchi
DONZELLI EDITORE
© 1990 Paul Oskar Kristeller
Titolo originale: Renaissance Thought and the Arts. Collected Essays, Princeton University Press, Princeton (N.
© 1998 Donzelli editore, Roma Via Mentana 2b
INTERNET www.donzelli.it E-MMI. [email protected] ISBN 88-7989-434-X
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Indice
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P
IX
Prefazione 1990
XIII
Prefazione 1980 1. Umanesimo
3 23 75
I. La cultura umanistica nel Rinascimento italiano Il. Il pensiero morale dcll'umanesimo rinascimentale Ill. La diffusione europea dcll'umancsimo italiano
2. Platonismo e aristotelismo 97 111 121
IV. L'Accademia platonica fiorentina V. Ficino e Pomponazzi c il posto dell'uomo nell'universo
VI. Averroismo e alessandrismo padovano alla luce degli studi recenti
3. Le arti 133 157 179 245
VII. Origine e sviluppo del linguaggio nella prosa italiana
VIII. Musica e cultura del primo Rinascimento italiano IX. Il moderno sistema delle arti X. La retorica nella cultura del medioevo e del Rinascimento
265
Postfazione: «Creatività» e «Tradizione››
279
Indice dei nomi
V
Il pensiero e le arti nel Rinascimento
A IL PENSIERO E LE ARTI NEL RINASCIMENTOA
Prefazione 1990
Il presente volume, pubblicato dalla Princeton University
Press nel 1980 e di recente esaurito, è stato ristampato dalle edizioni di Deborah Tegarden, cui sono grato. Questo mi ha dato l'occasione di ampliarlo con due saggi che non erano inclusi nel
precedente. Quello intitolato La retorica nella cultura del medioevo e del Rinascimento era uscito dapprima per i tipi della California Press nel volume Renaissance Eloquence (pp. 1-19) curato da James ]. Murphy. Quello dal titolo «Creatifzzità e Tradizione» era stato pubblicato dal compianto Philip P. Wiener nel «Journal of the I-Iistory of Ideas» (1983, 44, pp. 105-13). Vorrei ringraziare la University of California Press per avermi dato il permesso di ristampare il primo e il professor Donald R. Kelley, direttore del «journal of the I-Iistory of Ideas›› per il permesso di
ristampare il secondo. Il primo articolo si occupa del rapporto tra il pensiero del Rinascimento e le lettere e dunque è in buona compagnia ed integra il
VII capitolo, che si occupa della lingua della prosa italiana. L'importanza della retorica nella cultura del Rinascimento è stata sottolineata in tempi recenti da tanti studiosi, tra i quali mi annovero, anche se il termine retorica è ormai diventato, come tanti altri del re-
sto, una parola magica, usata a proposito e a sproposito. A mio parere retorica non è un sinonimo di filosofia, come era per Valla e per tanti suoi ammiratori odierni, ma piuttosto un altro genere e un'altra disciplina la cui importanza, dall,antichitå classica fino ai tempi moderni, ho imparato ad apprezzare tanto tempo fa grazie all'inse-
gnamento dei miei maestri, Werner Jaeger ed Eduard Norden. IX
A Il pensiero e le arti nel Rinascimento A
Il secondo articolo, più breve, è stato aggiunto al volume a mo' di appendice. E meno scientifico e più polemico degli altri saggi, ma è comunque relativo al rapporto che esisteva tra il pensiero e le arti non solo durante il Rinascimento, ma anche in altre epoche, compresa la nostra. In esso discuto e critico il concetto di creatività, un concetto relativamente giovane, divenuto però una specie di mostro sacro del discorso contemporaneo. Si tratta di uno scritto in origine commissionatomi e poi rifiutato da una prestigiosa istituzione nazionale che aveva organizzato un convegno sul tema, ma che era poi stato approvato da tanti miei amici e colleghi prima di esserepubblicato nel «Journal of the History of Ideas››. In seguito è uscito sulla rivista italiana «Il Veltro›› (1984, 28, pp. 17-29). Un
episodio che mostra il fatto, in genere non riconosciuto, che in un tempo e in un luogo in cui godiamo di una libertà pressoché illimitata dalla censura politica, un”altra censura - su basi ideologiche o per la venerazione della divinità «Moda›› ~ viene esercitata segreta-
mente contro i punti di vista che non concordano con le opinioni prevalenti, qualunque sia la loro validità o il loro fondamento su basi fattuali o logiche. Sono felice di cogliere questa occasione per mettere a disposizione dei lettori di questo volume anche l'articolo in questione. Sono certo che l'ironia di cui fa oggetto alcune delle idee più alla moda sarà deprecata da alcuni lettori, che sentiranno messi in discussione i loro pregiudizi, ma spero che sarà apprezzata da altri, sia pure esigui, lettori. . Anche se non desidero ribadire qui quello che ho già affermato nella prefazione del 1980 sullo stato dell'opinione corrente, pubblica e accademica, e sulla sua ostilità più o meno scoperta ad ogni disciplina storica e in particolare allo studio della storia intellettuale, temo che il clima intellettuale non sia cambiato per il meglio nello scorso decennio, anzi casomai potrebbe essere cambiato in peggio. Il tipo di ricerca filosofica, storica e letteraria che si basa su metodi filologici sperimentati e sull”attenta interpretazione dei testi e dei documenti originali, a mio parere gli unici su cui abbia senso fondarsi, è disprezzata e liquidata come «tradizionale›› non solo dai giornalisti e dai divulgatori, ma anche da tanti membri della comunità accademica. Costoro preferiscono lavorare a partire da traduzioni o da fonti secondarie ed usare approcci e metodi riduzionisti, puramente speculativi, arbitrari o anche giornalistici (ma propaX
iii. Prefazione 1990 íí__í_
gandati come «nuovi» e superiori rispetto a quelli «tradizionali››) in nome della psicologia del nuovo storicismo, della storia sociale, del marxismo, della critica o della teoria letteraria, dello strutturalismo o del decostruzionismo, della linguistica, della filosofia analitica o dell'ermeneutica; e spesso pretendono di scoprire il pensiero segreto dei pensatori e degli scrittori del passato che è di fatto contrario al significato diretto dei loro scritti. In uno scritto recente (La filosoƒia e la sua storiografia, in «The Journal of Philosophy», 1985, 82, pp. 618-25) ho definito quei metodi da «ventriloquo›› e ho poi scoperto che un recente esponente di quella tendenza ha cercato di rovesciare il termine, dandogli una connotazione positiva. Dovrei
parlare anche di «extratestuale›› facendo allusione alla moda di utilizzare espressioni come testualità ed intertestnalità, termini artificiali che non aggiungono nulla tranne che un'aria di novità a ben noti studi di fonti e di influenze. Tutti questi metodi sono accomunati dal disprezzo per quello che ci dicono le fonti e da una voglia
disperata di scoprire quello che le fonti non ci dicono e non possono dirci. Coloro che propongono tale approccio credono di arricchire la storia attribuendo al passato alcune delle idee presenti, ma di fatto impoveriscono il presente e il futuro, trascurando la possibilità di arricchire i lettori moderni con le idee aggiuntive o alternative e con gli approfondimenti che la letteratura del passato, spesso negletta o dimenticata, può offrire loro. Tutto ciò viene difeso
con un relativismo acritico secondo cui tutte le interpretazioni sono ugualmente valide, trascurando il fatto che alcune lo sono, altre
sono incerte e possibili, altre ancora del tutto sbagliate e in contrasto con i fatti accertati e con le regole del discorso logico e della coerenza. Si fa molto uso di ciò che mi piace chiamare argnmentnrn ex ignorantia, per cui ingenuamente o intenzionalmente non si tie-
ne conto di fatti accertati e si asseriscono idee contrarie all'opinione delllautorez il tutto presentato allegramente con la premessa
(corretta) che lettori e critici - ugualmente ignoranti - non vedranno la differenza. Ma non voglio esagerare e sono ben felice di riconoscere che in anni recenti sono stati pubblicati ottimi studi da par-
te studiosi giovani e meno giovani che hanno ignorato gli errori alla moda o comunque hanno fatto loro concessioni minime. Forse sono troppo vecchio per apprezzare queste tendenze
nuove e il loro presunto valore. Ma conosco tanti giovani studiosi XI
__í__í_í__ Il pensiero e le arti nel Rinascimentoíí
che condividono le mie opinioni e la cui carriera è bloccata dal potere politico e accademico dei moderni ciarlatani e che non possono permettersi di dire in pubblico quello che pensano di quei metodi e dei loro sostenitori. Poiché io posso permettermi di dire quello che penso, mi sento in dovere di farlo e di parlare a nome di tanti giovani studiosi e della continuità della tradizione di studi che spero sopravviverå alle follie e alle imposture correnti come già è sopravvissuta a quelle del passato. Vorrei concludere con questa speranza anche se non vedo segni della possibilità che si realizzi nel futuro prossimo. Inoltre, diversamente da tanti profeti di sventura, io, come Cassandra, sarei felice di scoprire che le mie paure e le mie previsioni erano infondate; Infine vorrei dedicare questo volume a Hans Sarre e all”amicizia che ci lega da una vita, e che È: sopravvissuta a tanti eventi buoni e
cattivi. New York, Columbia University, 21 settembre 1989
XII
P. O. K.
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Prefazione 1980
Il presente volume, Il pensiero e le arti nel Rinascimento , è una nuova edizione del volume uscito per la prima volta nel 1965 nella serie Harper Torchbook col titolo Renaissance Thought II: Papers
on Humanism and the Arts, ormai esaurito da parecchio tempo. Si tratta di un'opera del tutto diversa dal volume di recente pubblicato dalla Columbia University Press col titolo Renaissance Thought and Its Sources. Quest'altro volume include, oltre ad alcuni capitoli
nuovi, la maggior parte del contenuto di altri due libri della Harper Torchbooks, Renaissance Thought (1961) e Renaissance Concepts of Man (1972). Quest'ultimo è a sua volta esaurito, mentre il primo è ancora disponibile. Sono molto lieto che gli articoli qui ripresi siano
di nuovo messi a disposizione degli studiosi, degli studenti e dei lettori interessati. Ristampati così com'erano dopo quindici anni dalla pubblicazione potranno apparire fuori moda a qualcuno. In questi anni ho imparato molto, dai miei studi e da quelli dei miei colleghi,
e avrei potuto ampliare alcuni articoli con un gran numero di particolari e di riferimenti. D'altra parte non ho cambiato le mie opinio-
ni di fondo e anzi devo riconoscere con gioia che quanto allora apparve eretico oggi può suonare addirittura ovvio o banale.
Mi preoccupano di più invece i profondi cambiamenti verificatisi nella visione e nel clima intellettuale generale in questi ultimi
quindici anni e che rendono questo volume e gli articoli in esso contenuti meno «rilevanti›› che nel 1965, per non parlare della data
della loro pubblicazione come articoli separati, tra il 1946 e il 1962. Continuo a credere che qualunque studio serio della storia intellettuale si debba fondare sull'attenta lettura delle fonti originali nella lingua originale, ma il timore espresso nella prefazione alla prima XIII
A Il pensiero e le arti nel Rinascimento_íí__
edizione di questo volume - che il sempre maggiore ricorso alle traduzioni e alle fonti secondarie possa portarci ad un'era di pseudoconoscenza scolastica - si è in gran parte rivelata fondata, mentre i segnali di una novella reazione neo-umanistica sono pressoché assenti. Il declino disastroso nello studio della storia e delle lingue classiche così come delle lingue straniere in generale, a tutti i livelli del sistema educativo, minaccia le fondamenta stesse della ricerca storica perché mina la formazione dei futuri studiosi e priva il pubblico generale dei lettori di quel minimo di conoscenze di cui aveva bisogno per apprezzare appieno questi studi. Non meno grave mi sembra il declino dell”interesse per gli studi storici e soprattutto di quello per la storia intellettuale e culturale, perfino all'interno del mondo accademico. La diffusa ossessione per i problemi politici e sociali del nostro tempo ha portato alla proliferazione eccessiva di tematiche piene di promesse e di fascino pratico
e attuale ma dalle credenziali scientifico-accademiche assai dubbie. Al tempo stesso un pregiudizio anti-intellettuale e antistorico è penetrato anche in discipline come la filosofia, la letteratura e la storia, che un tempo erano le fondamenta dello studio della storia intellettuale. La prevalenza della logica formale, della linguistica e della filosofia analitica tra i filosofi; della nuova critica e dello strutturalismo negli studi letterari; della storia politica, economica e sociale tra gli storici, hanno messo sulla difensiva chi si occupa di storia intellettuale, letteraria e culturale e hanno ridotto fortemente le loro opportunità di carriera accademica, di ottenere finanziamenti e dottorati, pubblicazioni e riconoscimenti. Non possiamo che sperare che il talento e la curiosità dei singoli studiosi non siano completamente cancellati dalla moda pubblica e professionale o anche dalla discriminazione. Dobbiamo sperare in un ritorno graduale dell'interesse per la storia tra i filosofi e perfino tra gli studiosi di letteratura, le cui stesse fonti impongono un'interpretazione storica e filosofica. Quanto allo specifico degli storici, l'enfasi posta sulla storia politica è vecchia quanto l'antichità classica, lo speciale ruolo riservato alla storia economica è un'eredità del XIX secolo e del potente impatto del marxismo, mentre quello della storia sociale (un termine magico ma piut-
tosto vago) riflette tendenze più recenti ed egualitarie. Non nego l'importanza della storia politica ed economica, né il fatto che possa illuminare la storia intellettuale e culturale. Nego però con decisioXIV
_ Prefazione 1980 ii
ne che gli sviluppi culturali, artistici, intellettuali o filosofici possano essere interamente ridotti ai fattori politici, economici o sociali. Non esiste un fondamento filosofico o storico per sostenere una cosa del genere e non conosco tentativi di riduzione di quel tipo che abbiano avuto successo. Esiste una distinzione chiara in storia come nelle scienze, una distinzione troppo facilmente dimenticata da storici e ideologi delle più diverse convinzioni. I fattori politici, economici e sociali spiegano certi tratti della storia culturale e intellettuale, ma certo non li spiegano tutti. Il filosofo, lo scienziato, lo scrittore, il poeta e l'artista non solo sono influenzati o condizionati dalla loro formazione politica e sociale, ma anche dalle rispettive tradizioni professionali, dal loro talento individuale e dai loro interessi spontanei. Un moderno pensatore o artista, per quanto dipenda dal suo tempo, dalle mode e dalle opportunità, è anche originale in misura maggiore o minore e dipende sempre, che lo sappia o meno, anche dalle tradizioni del passato e dai maestri del suo campo.
Ma possiamo spingerci anche oltre. Le idee, filosofiche e non, non solo dipendono dalle condizioni politiche ed economiche, ma a loro volta hanno sempre esercitato un”influenza sugli sviluppi politici ed economici del loro tempo e di quelli successivi. Gli statisti, gli uomini politici, gli imprenditori e i riformatori sociali agiscono secondo le loro idee e le loro convinzioni, e quelle idee sono formate dalle loro letture, dal clima intellettuale del loro tempo, e infine dal pensiero dei filosofi, teologi, studiosi e scrittori che li hanno preceduti. La storia della nostra cultura, nel presente come nel passato, è intessuta di tanti fili, difficili ma interessanti da sbrogliare. L'affermazione per cui solo certi aspetti della nostra civiltà e della nostra storia sarebbero fondamentali e meritevoli di indagine è sbagliata e va rifiutata. Tutti i suoi aspetti meritano di essere inda-
gati e ciascuno studioso dovrebbe essere libero di indagare quei problemi che attraggono la sua curiosità e il suo talento. Non intendo mettere in discussione le legittime rivendicazioni della filo-
sofia sistematica, della critica letteraria o della storia sociale. Voglio solo ribadire che la storia intellettuale è una disciplina indipendente e degna di essere coltivata da filosofi, critici letterari e storici
competenti e animati dal desiderio di conoscerla. New York, Columbia University, 3 gennaio 1980 xv
P. O. K.
Vorrei ringraziare la Princeton University Press, e soprattutto Herbert Bailey e Loren Hoekzema, per aver voluto ripubblicare questo volume. Sono grato anche ai curatori e agli editori degli articoli inclusi in questo libro per il permesso di ristamparli, nonché alla Har er and Row e soprattutto a I-Iugh Van Dusen, per il permesso di pubblicare il libro della Harper Torchbook oggi esaurito presso la Princeton University Press. In nota a ciascun capitolo è indicato dove è stato pubblicato per la rima volta. Tutti gli articoli del presente volume sono stati pubblicati anche in tecifesco nel volume Humanismus und Renaissance 11, a cura di Eckard Kessler e tradotti da Renate Schweyen-Ott (Vlfilhelm Fink, München 1976). I ca itoli 3 e 7-9 sono comparsi anche in italiano nel volume Concetti rinascimentali aiill'uorno ed altri saggi, tradotto da Simonetta Silvestroni (La Nuova Italia, Firenze 1978). Il solo capitolo IX è stato ristampato anche in Problems in Aesthetics: An introductoøjy Boo/e of Readings, II ed., a cura di Morris Weitz (Macmillan, New York 1970, pp. 108-63), e in una versione ridotta senza le note in Art and Philosophy, II
ed., a cura di W. E. Kennick (St. Martin Press, New York 1979, pp. 7-33).
1
Umanesimo
UMANESIMO
I. La cultura umanistica nel Rinascimento italiano*
Il movimento intellettuale che cercherò di discutere in questo saggio è stato spesso ignorato, minimizzato o male interpretato nella discussione storica recente. Eppure è facile dimostrare che
l'umanesimo classico del Rinascimento italiano è stato un fenomeno significativo nella storia della civiltà occidentale. Rappresenta infatti una fase nuova e molto importante nella trasmissione, nello studio e nell,interpretazione dell'eredità dell'antichitå classica che ha sempre avuto un'importanza capitale per la storia culturale dell'Occidente. Per influsso dei modelli classici l'umanesimo rinascimentale produsse una profonda trasformazione della letteratura, prima di quella neolatina e poi delle varie letterature vernacolari o nazionali, una trasformazione che ne modificò i contenuti cosi come la forma e lo stile. Nell'area del pensiero filosofico, che è poi il mio specifico, l'umanesimo rinascimentale non si distingue tanto per l'originalità delle idee, quanto per il fermento che introdusse nei vecchi schemi di pensiero. Riaffermò molte idee antiche che fino a quel momento non erano state considerate seriamente e portò alla ribalta un certo numero di problemi in parte nuovi; così facendo alterò profondamente la forma e lo stile del pensiero, dell'insegnamento e della letteratura filosofica. Infine, malgrado si trattasse in origine di un movimento letterario ed accademico, grazie al pre-
stigio e alla fama che accompagnavano le affermazioni e le scoperii' Articolo apparso su «The Centennial Review», IV, primavera 1960, 2, pp. 243-66. Il testo è a trascrizione di una conferenza tenuta presso la Syracuse Uni-
versity il 18 marzo 1959. 3
A Il pensiero e le arti nel Rinascimento____i_
te dei suoi protagonisti esso finì per influenzare tutte le altre aree della cultura rinascimentale, in Italia e altrove: arte e musica, scienza e teologia e perfino la teoria e la prassi giuridica e politica. Prima di affrontare il tema più in profondità sarà necessario sgombrare il campo da alcune ambiguità nei termini che userò, in particolare «Rinascimento» e «Umanesimo››. Il primo ha scatenato un dibattito infinito tra gli storici degli ultimi cento anni e sono state espresse le opinioni più diverse sul significato e le caratteristiche di questo periodo storico rispetto a quelli che l'hanno preceduto e a quelli che l'hanno seguito, nonché sul momento preciso della sua nascita e della sua conclusione. A seconda delle posizioni assunte, il Rinascimento è durato quattrocento anni o solo ventisette, per non parlare di quanti ritengono che non sia esistito affatto. Come possiamo vedere dagli studi del professor Ferguson e del professor Weisinger, i tentativi di valutare il significato di quel periodo sono stati cosi numerosi e inconcludenti che saremmo tentati di accon-
tentarci della definizione rinuneiataria a volte adottata in riferimento ad altri campi, e dire che il Rinascimento è quel periodo storico di cui parlano gli storici del Rinascimento. Quanto a me, non
sono soddisfatto di questa risposta e preferisco definirlo come quel periodo storico che si percepì come una rinascita delle lettere e degli studi, indipendentemente dal fatto che tale percezione coincidesse o meno con la realtà. Tuttavia, credo sarebbe meglio evitare perfino questa opinabile classificazione e definire il Rinascimento come quel periodo storico che va all'incirca dal Trecento al Seicento,e al quale convenzionalmente è stato attribuito quel nome. Questo comunque è il senso che intendo conferirgli. La parola «Italia››, grazie al cielo, non soffre della stessa ambiguità, eppure il ruolo dell'Italia durante il Rinascimento è stato oggetto di un'animata e dotta discussione, strettamente collegata al
problema del Rinascimento stesso. Secondo il famoso libro di Jacob Burckhardt, di cui quest'anno si celebra il centenario, l'Italia occupò
un posto di particolare prestigio ed egemonia culturale durante quel periodo, mentre negli altri paesi europei molti tratti caratteristici della civiltà rinascimentale comparvero' molto più tardi, e per effetto diretto dell'influenza italiana. Questa posizione è stata contestata da molti storici, partigiani di uno o dell'altro di quei paesi, che sono riusciti a dimostrare come in ciascun caso il Rinascimento abbia as4
__í__ La cultura umanistica nel Rinascimento italiano íí_.
sunto una fisionomia propria, che lo differenzia da quello italiano e che riflette il contesto originario e le tradizioni di ciascun paese. Anche se sono pronto a concedere tutto ciò, sottoscrivo la visione di Burckhardt e sono convinto che certi importanti sviluppi culturali del Rinascimento siano iniziati in Italia per poi diffondersi nel resto dell'Europa per influsso italiano. Un fatto, questo, evidente nelle arti visive così come nell”umanesimo rinascimentale. «Umanesimo» è però a sua volta termine non meno controverso e ambiguo di «Rinascimento››. Oggi è variamente e un po' approssimativamente utilizzato per sottolineare l”importanza dei valori umani, indipendentemente dall'accento religioso o antireligioso, scientifico o antiscientifico. In questo senso immagino che
chiunque vorrebbe definirsi umanista, o apparire tale, e il termine smette di essere distintivo. Comunque, parlando di umanesimo ri-
nascimentale non mi riferisco affatto all”umanesimo nel senso moderno, cioè a un particolare accento posto sui valori umani, ma ne
restringo il significato a qualcosa che direi più vicino alla definizione di umanesimo data dallo stesso Rinascimento. Perché anche se il termine «umanesimo››, in riferimento alla grande importanza attribuita nel Rinascimento agli studi e all'educazione classici, è nato tra gli studiosi e gli educatori tedeschi del primo Ottocento, derivava però da «umanista››, parola usata in senso specifico sin dalla fine del Quattrocento e probabilmente adottata dal gergo degli studenti universitari italiani di quel periodo: un umanista era un professore o uno studente che si occupava degli studia humanitatis, e che si distingueva perciò, per esempio, da un giurista. E gli studia humanitatis - anche se il termine era preso in prestito dagli autori antichi e veniva adottato consapevolmente per sottolineare in modo pro-
grammatico i valori umani ed educativi degli studi così designatifurono contraddistinti fin dall'inizio del XV secolo da un preciso curriculum universitario che comprendeva una serie di materie, tra
cui grammatica, retorica, poesia, storia e filosofia morale, le quali tutte si fondavano sulla lettura degli autori classici latini e greci.
Più in generale si può dire che, per quanto la cultura dell'Italia rinascimentale possa manifestare una certa unità stilistica in tutti i suoi aspetti, anch'essa - come quella del tardo medioevo - era chiaramente articolata e segmentata nei suoi vari settori culturali e pro-
fessionali. Sono convinto che una struttura così ricca non sia ridu5
A Il pensiero e le arti nel Rinascimentoíí
cibile a pochi fattori politici, economici o religiosi; nia credo che, pur ipotizzando ogni tipo di combinazione personale e di influenze reciproche, ci sia all'interno di ogni settore culturale un nucleo di sviluppo e di tradizione autonomi. Ritengo importante rendersi conto di come l'umanesimo rinascimentale fosse legato alla tradizione professionale di un settore particolare, e precisamente quello degli studia humanitatis. Questo è il centro operativo che influenzò le altre aree della vita intellettuale di quel periodo. C°è un tocco di umanesimo in senso moderno anche nell”umanesimo rinascimentale, nella misura in cui l'espressione studia humanitatis sta ad indicare l'accento posto suIl'uomo e sui suoi valori: perciò la dignità dell”uomo era un tema prediletto di alcuni umanisti rinascimentali, ma certo non di tutti. Eppure dobbiamo tenere sempre presente che per tutti loro esisteva un solo modo attraverso cui quei valori e
quegli ideali umani potevano essere realizzati: gli studi classici eletterari, ovvero umamstici.
Lo spazio professionale occupato dagli studia humanitatis nell'Italia del Rinascimento ci aiuta a comprenderne i presupposti medievali. Non nella filosofia scolastica o nella teologia duecentesche, che pure continuarono a fiorire in epoca rinascimentale in Italia e altrove, ma in un diverso settore del sapere. Per quanto posso capire, tre sono gli elementi medievali che contribuirono all,affermazione dell'umanesimo rinascimentale, elementi che però subirono una trasformazione totale proprio attraverso la loro combinazione. Il primo fu la retorica formale, o ars dictaminis, fiorita nell'Italia medievale come tecnica di composizione di lettere, documenti e pubbliche orazioni e studiata dalla classe dei cancellieri e dei segretari che quelle lettere e quei documenti stilavano per conto di papi, imperatori, vescovi, principi e repubbliche cittadine. La seconda influenza medievale sull'umanesimo rinascimentale fu lo studio della grammatica latina così come era stato coltivato nelle scuole medievali, soprat-
tutto in quelle francesi dove tale studio si combinava con la lettura dei poeti e dei prosatori classici. Questa influenza fu avvertita in Italia sul finire del XIII secolo, quando lo studio e l'imitazione dei classici latini finirono per essere ritenuti prerequisiti per la composizione elegante delle lettere e delle orazioni stilate dai professionisti del-
la retorica. Il terzo presupposto medievale dell'umanesimo rinascimentale ci porta lontani dalle tradizioni dell'Occidente latino, verso 6
A La cultura umanistica nel Rinascimento italiano A
quelle dell'Oriente bizantino. Perché se era praticamente sconosciuto nell'Europa occidentale, salvo che in quelle parti dell'Italia meridionale e della Sicilia in cui si parlava greco, lo studio della letteratura greca classica era invece continuato a Costantinopoli, quasi senza soluzione di continuità. Quando verso la fine del Trecento cominciarono ad affiancare lo studio della lingua e della letteratura greca classica a quello della letteratura latina e della retorica formale, gli umanisti italiani divennero allievi della cultura e delle tradizioni bizantine, un fatto questo riconosciuto da tempo, ma che dev”essere ancora approfondito in alcuni suoi aspetti. Nel XV e nel XVI secolo, quando l'umanesimo italiano aveva ormai raggiunto, a partire da quei diversi fattori, il suo pieno sviluppo, lo troviamo associato soprattutto a due professioni. Gli umanisti rappresentano la classe degli insegnanti professionisti di discipline umanistiche, nelle università così come nelle scuole secondarie. E rappresentano anche la classe dei cancellieri e dei segre-
tari che sapevano come comporre documenti, lettere e orazioni richiesti dalle loro professioni. Anche se nelle università dovevano
competere con gli insegnanti di filosofia, teologia, giurisprudenza, medicina e matematica, gli umanisti finirono per dominare le scuole secondarie perché a loro era affidata la gran parte delle materie. Di conseguenza furono in grado di esercitare un'influenza formativa su intere generazioni di persone colte, alcune delle quali ebbero un ruolo attivo nella cultura e nella produzione letteraria umanistica, anche senza diventare umanisti di professione, cioè insegnanti o cancellieri. Annoveriamo tra costoro principi e statisti, religiosi e uomini d'affari, e ancora artisti, poeti, filosofi, teologi, giuristi e medici. Verso la metà del Quattrocento, l'influenza dell,umanesimo penetrò in tutti i settori della cultura italiana e nel corso del Cinquecento cominciò a farsi sentire in tutti gli altri paesi europei. Se vogliamo avere un'idea delle conquiste dell'umanesimo ita-
liano, dobbiamo prima cercare di analizzarne i contributi letterari e accademici, una gran massa di materiale ancora disponibile in manoscritti e prime edizioni che sfidano qualunque tentativo di descrizione, non solo perché non basterebbe un saggio né un libro intero, ma anche perché gran parte di quel materiale non è stata an-
cora analizzata in modo esauriente. Comincerò dal contributo de7
A Il pensiero e le arti nel Rinascimento _______í_
gli umanisti agli studi classici. Se una porzione considerevole di testi classici era nota già nel medioevo, l'umanesimo italiano ampliò la conoscenza di quella letteratura fino quasi alle sue dimensioni odierne, con la scoperta dei manoscritti di un gran numero di opere e di autori pressoché dimenticati nel periodo precedente. Per sottolineare l”importanza di quei contributi basterà ricordare le scoperte di Poggio Bracciolini e citare qualcuno degli autori più importanti e dei testi così riscoperti e riproposti al pubblico: Lucrezio, Tacito e alcune delle orazioni e dei dialoghi di Cicerone. Non meno importanti furono i contributi degli umanisti allo studio e alla diffusione di opere e di autori latini già noti durante il medioevo. Il numero di copie di quei testi classici latini approntato dagli uma-
nisti è davvero enorme, e questo dato da solo dimostra come l'affermazione degli studi classici durante il Rinascimento abbia aiutato la diffusione di tali testi. Ma la cosa non si limitava solo alle numerose copie del XV secolo di autori classici latini: rispetto ai se-
coli precedenti la biblioteca classica tipica del Rinascimento conteneva più classici latini che testi letterari religiosi, medievali o perfino contemporanei. Quest'ampia diffusione dei testi classici raggiunse proporzioni impressionanti dopo l'introduzione della stampa, quando troviamo un numero considerevole, in assoluto e in percentuale, di edizioni dei classici, grazie agli sforzi di curatori e stampatori umanisti. Ma il lavoro compiuto sui testi non si limitava alla copiatura meccanica. Gli studiosi svilupparono infatti una straordinaria sensibilità per la correttezza della grammatica e dello stile latino, mettendo anche a punto un efficace metodo di critica testuale: raffrontando ed emendando un gran numero di manoscritti antichi, eliminarono gli errori di trascrizione contenuti in alcuni di essi. Si dedicarono inoltre a interpretare e spiegare i passi più difficili, producendo una ricca letteratura di commenti derivati dalle loro lezioni universitarie e
nel far questo non solo proseguirono l'opera dei grammatici medievali, ma l'arricchirono, migliorandola. In tutto ciò, gli umanisti furono i predecessori diretti degli studi classici moderni. Animati dal doppio intento di studiare e di imitare la letteratura latina classica, e in rapporto diretto con la loro attività didattica, gli umanisti furono attenti studiosi della lingua e del vocabolario latino classico,
della sua ortografia, grammatica, metrica e prosodia, così come del 8
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suo stile e dei suoi generi letterari. Per capire il contenuto della letteratura antica ed applicarlo ai loro scopi, analizzarono la storia e la mitologia antiche, così come le antiche consuetudini ed istituzioni. Nello sforzo di tenere presente ogni testimonianza utile allo studio della civiltà antica, studiarono anche le iscrizioni e le monete, i cammei e le statue, dando cosi inizio alle discipline ausiliarie dell'epigrafia, della numismatica e dell'archeologia. Lo studio della cultura greca richiedeva un impegno ancora maggiore, poiché non aveva precedenti degni di nota nell'Occidente latino e poiché anche durante il Rinascimento il numero di grecisti di vaglia era considerevolmente inferiore a quello dei latinisti. In questo campo gli umanisti italiani condividono con i loro mae-
stri e contemporanei bizantini il merito di aver portato nelle biblioteche occidentali il grande corpus di manoscritti greci conte-
nente i testi della letteratura greca antica, proprio nel momento in cui l”impero bizantino era minacciato dalla conquista turca che l'avrebbe poi annientato. Gli studiosi rinascimentali fecero per gli
scrittori classici greci quello che avevano fatto per gli scrittori romani: copiare, stampare, curare e spiegare i testi e studiare grammatica, stile e temi di quegli scrittori. Fecero anche una cosa non sufficientemente nota, la cui importanza storica non è stata sottolineata a sufficienza: tradussero man mano in latino l'intero corpus della letteratura classica greca. Un compito che appare ancora più impressionante se si pensa che allora il greco era dominato e compreso solo da pochi studiosi, mentre durante tutto il Rinascimento
il latino rimase la lingua comunemente letta e scritta dagli uomini di cultura in tutta l'Europa occidentale. Nel Seicento, grazie ai traduttori umanisti, i lettori occidentali potevano disporre dell'intera gamma della letteratura greca antica. I testi greci a disposizione dei lettori dell'Occidente medievale erano decisamente più limitati. Comprendevano un certo numero
di scritti filosofici, teologici e scientifici, ma non contemplavano la poesia, la storiografia o l'oratoria. Grazie alle traduzioni degli umanisti rinascimentali, un ampio corpus di scritti greci antichi fu mes-
so a disposizione dell”Occidente per la prima volta: tutti i poeti, tra cui Omero e i tragici greci; tutti gli storici, compresi Erodoto e Tucidide; tutti gli oratori, compresi Isocrate e Demostene. Perfino gli
autori greci che erano già disponibili nel medioevo si tradussero 9
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molto di più: non solo Aristotele, Proclo e un po' di Platone, ma l'intera opera di quest'ultimo, e poi Plotino ed Epicuro, Epitteto e Sesto Empirico; non solo alcuni, ma tutti gli scrittori greci di medicina, matematica ed astronomia e tutti gli scrittori greci di patristica. Fu una rivoluzione nelle letture dello studioso medio, e i suoi effetti si sarebbero fatti sentire in letteratura come in filosofia, in teologia e nelle scienze. Dalla produzione accademica degli umanisti italiani passiamo ora a quella letteraria, fortemente influenzata dalla loro cultura e dal loro tentativo di imitare i modelli dei classici in ogni genere di scrittura. A questo punto mi sembra importante ricordare che la maggior parte della produzione originale degli umanisti era scritta in latino, così da meglio consentire l”imitazione dei modelli, grazie all'uso del
medesimo strumento linguistico. Alcuni di loro però scrissero parte delle loro opere anche nella lingua vernacolare italiana e perfino que-
gli scrittori che usavano solo il volgare e non potevano essere classificati come studiosi umanisti subirono in vario modo l'influenza degli studi e degli scritti degli umanisti loro contemporanei. Una gran parte della produzione letteraria degli umanisti è rappresentata dalle lettere. La composizione di lettere ufficiali di Stato ovviamente faceva parte della loro attività professionale. In quanto cancellieri e segretari erano infatti i «ghost writer›› ingaggiati da principi e governi cittadini; allora come oggi, le lettere di Stato, i manifesti e altri documenti politici servivano a esprimere e a diffondere l'interesse, l”ideologia e la propaganda di ciascun governo e qualche volta ad accompagnare la guerra delle spade con quella delle penne. Di conseguenza le lettere di Stato degli umani-
sti sono documenti preziosi per comprendere il pensiero politico del periodo, a patto di tenere sempre conto delle circostanze politiche in cui furono scritte e dunque di non considerare ogni affer-
mazione in esse contenuta come l'espressione delle convinzioni personali dell'autore. Le lettere private degli umanisti poi rappresentano un corpus ancora più ricco di materiali in parte inesplorati. Non erano solo un veicolo di comunicazione personale, ma nascevano fin da principio come composizioni letterarie da copiare e diffondere. Gli scrittori umanisti dell'ultimo periodo imitavano
programmaticamente l'esempio di Cicerone e di Seneca, e scrive10
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vano, raccoglievano e pubblicavano le loro lettere per farne dei modelli per i loro allievi e successori. Inoltre la corrispondenza svolgeva in parte il ruolo dei quotidiani in un periodo in cui la stampa non esisteva e le comunicazioni erano lente e incerte. Infine, quelle lettere rappresentavano il surrogato prediletto del trattatello di contenuto filologico, letterario o filosofico. Poiché gli umanisti amavano parlare delle loro esperienze e delle loro opinioni in modo personale e soggettivo, in prima persona, la lettera, più personale del trattato, svolgeva la funzione del saggio, di cui di
fatto fu il precedente letterario. Un altro genere letterario largamente praticato dagli umanisti e strettamente legato alla loro professione era il discorso o l'orazione. E vero che gli umanisti, nei discorsi come nelle altre composizioni, amavano imitare i modelli classici, ma va segnalato che l'Italia del Rinascimento aveva ereditato da quella medievale una varietà di occasioni oratorie assolutamente non paragonabili agli esempi
dell'antichità, ma che affondavano piuttosto le loro radici nei costumi e nelle istituzioni medievali. Di conseguenza si assiste a un vero e proprio rigoglio della produzione oratoria e, benché molti di quei prodotti effimeri siano morti insieme all'occasione stessa che li aveva suscitati, ne è giunto fino a noi un numero sorprendente.
La maggior parte era stata palesemente composta con grande cura, e con l'intenzione di servire da modello per allievi e seguaci. Ovviamente agli umanisti venivano spesso commissionati discorsi
d'occasione. Molte erano le orazioni funebri, che si diffondevano sulla vita e la personalità del defunto ben più di quanto non si faccia oggi. C'erano i discorsi matrimoniali, apparentemente uno sviluppo della formula del contratto imposta dal Codice longobardo. Un gran numero di orazioni era occasionato da cerimonie scolastiche o universitarie, introduzioni elogianti lo studio in generale o qualche specifica disciplina; prolusioni inaugurali di una serie di lezioni o di una pubblica disputa (la famosa orazione di Pico appar-
tiene a quest'ultimo genere); discorsi pronunciati da professori e da studenti dopo un esame e in tante altre occasioni accademiche. Un altro ampio corpus di lettere aveva a che fare con la vita politica del tempo, o almeno con i suoi aspetti cerimoniali: c'erano discorsi tenuti da ambasciatori a principi e governi presso i quali erano stati
inviati e soprattutto rivolti al papa appena eletto; discorsi di acco11
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glienza diretti a un ospite straniero illustre o rivolti a vescovi, governanti o magistrati di recente elezione, corredati delle relative risposte. Più raro, anche se non del tutto assente, il genere cui appartengono i più famosi capolavori oratori del mondo antico: discorsi politici tenuti durante le delibere di un consiglio o di un'assemblea pubblica e discorsi forensi tenuti durante un processo pubblico o una causa discussa in tribunale. In altre parole, il discorso degli umanisti era solo di rado connesso con occasioni di rilievo politico o giuridico e aveva più spesso scopo decorativo. Era chiaramente
considerato come una forma di intrattenimento pubblico e spesso doveva competere con uno spettacolo musicale o teatrale. Molti di questi discorsi erano evidentemente ammirati dai contemporanei e, anche se gli storici tendono a liquidarli come vuota retorica, devo
confessare di averne letti con piacere in gran quantità e di averli trovati molto ben scritti oltre che di grande interesse per le loro idee e le informazioni storiche che forniscono.
Un altro grosso corpus di scritti umanisti consiste nella produzione storiografica. Si sarebbe tentati di presumere che essa fosse direttamente correlata agli interessi accademici degli autori, e che di conseguenza lo studio storiografico si concentrasse prevalentemente sull”epoca antica. Invece questo è vero solo per una piccola par-
te di quel genere di testi. Più spesso le opere storiche degli umanisti erano collegate alla loro attività professionale, giacché il cancelliere o il segretario di un principe o di una città ne doveva essere an-
che lo storico. La figura dello storiografo stipendiato dalla città o dalla corte s'incontra occasionalmente anche nel medioevo, ma diviene caratteristica del Rinascimento italiano. Di conseguenza, le opere storiche degli umanisti sono per lo più storie di città 0 di paesi o di famiglie regnanti, concentrate per ovvie ragioni sul medioevo o sull'età contemporanea piuttosto che sull'antichità classica. Ecco dunque le storie, scritte da umanisti, di Firenze o Venezia, dei papi e dei duchi di Milano o della famiglia Gonzaga. Nella secon-
da metà del Quattrocento poi gli umanisti italiani cominciarono ad essere ingaggiati anche come storiografi ufficiali dai re di Ungheria, Polonia, Spagna, Inghilterra e Francia, oltre che dagli imperatori germanici. Le opere storiche presentano alcune peculiarità, positive come
negative. Sono spesso scritte in un latino fortemente retorico e mo12
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strano l'influsso della storiografia classica nell'uso dei discorsi fittizi. Trattandosi di opere il più delle volte commissionate dallo stesso Stato o dalla stessa città di cui si doveva narrare la storia, avvertiamo il tono del panegirico o una certa parzialità dinastica o regionale, elemento non del tutto estraneo neppure alle storie nazionali dei tempi moderni. In compenso, gli umanisti in generale non credevano più di tanto nei miracoli ed evitavano le riflessioni teologiche, per cui gli avvenimenti storici sono di solito spiegati su basi
strettamente razionali. Inoltre molto spesso avevano accesso agli archivi e ai documenti originali riguardanti le storie di cui avevano intenzione di scrivere, e adottavano criteri di documentazione e di critica storica più esigenti di quelli utilizzati da chi li aveva preceduti. Il trattato di Valla sulla donazione di Costantino è un famoso esempio di critica storica del XV secolo; nel XVI possiamo indicare personalità di umanisti come Sigonius, che per erudizione e acume critico vanno considerati come i precursori diretti dei grandi
storici del Sei e del Settecento. Un altro genere di letteratura storica molto coltivato dagli umanisti era la biografia. Il modello era quello di Plutarco e di altri scrittori antichi, ma ovviamente c'cra una forte domanda contemporanea di biografie, non solo di principi e di santi, ma anche di statisti e di altri cittadini illustri, poeti e artisti, studiosi e mercanti. Come il ritratto in pittura, la letteratura biografica del periodo riflette il cosiddetto individualismo dei tempi, cioè l”importanza at-
tribuita a esperienze, opinioni e imprese personali e il desiderio di vederle perpetuate in un'importante opera artistica o letteraria.
Esistono altri tipi di prosa letteraria umanistica, per esempio quelli collegati all'attivitå degli oratori piuttosto che degli storici, e
ai quali potremo accennare solo brevemente, anche se rappresentano una parte considerevole e piuttosto famosa della loro produzione. Uno dei compiti dell'oratore era quello di celebrare 0 di biasi-
mare, compito che nel Rinascimento veniva preso piuttosto sul serio. Conosciamo un gran numero di invettive politiche scritte a nome del governo contro i nemici; numerosi sono anche gli attacchi personali composti dagli umanisti contro i loro rivali. Si tratta di opere piene di osservazioni maligne che forse i contemporanei non prendevano sul serio come facciamo noi oggi, ma che comunque dimostrano la predilezione degli umanisti per il pettegolezzo. 13
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Questo è un altro aspetto dell'«individualismo›› rinascimentale: per quanto l'amore per il pettegolezzo non sia certo una peculiarità esclusiva di quel periodo, la tendenza ad incorporarlo nelle pubblicazioni letterarie, magari anche nelle più sofisticate, sicuramente lo è. Al polo opposto si colloca la letteratura celebrativa: i tanti panegirici di principi e di città, a volte utilissimi per i dettagli descrittivi e biografici che forniscono, così come le apologie di arti e scienze, in genere paragonare (per sottolinearne la superiorità) ad altre di-
scipline rivali. Anche le descrizioni delle feste erano molto in voga, abbiamo infatti affascinanti resoconti di tornei o di battaglie a palle di neve, scritti in una prosa latina che sembra voler competere, più o meno di proposito, con analoghe descrizioni scritte in versi o
in italiano. La prosa letteraria degli umanisti rivaleggiava anche con quella volgare, di cui riprendeva la forma narrativa del racconto e della novella, a volte traducendo testi dall'italiano, a volte con composizioni originali scritte direttamente in latino, racconti che in
qualche caso riscossero un immenso successo. La prosa umanistica assume infine un garbo umoristico e leggero nelle raccolte di aned-
doti e di storielle facete che ci sono arrivate da quel periodo. Gli umanisti si pensavano come poeti ed oratori e l'incoronazione poetica era una delle cerimonie e delle onorificenze da loro predilette. La loro idea di poesia era ben lontana da quella moderna e romantica del poeta creativo, e aveva piuttosto a che fare con la capacità di comporre versi, specialmente versi latini. Dunque si trattava di qualcosa che almeno in una certa misura poteva essere insegnato ed appreso. Erano anche convinti che qualunque forma
o tema letterario potesse essere trattato in prosa o in versi, in latino o in volgare, e consideravano poesia certe opere che a noi oggi appaiono decisamente mediocri. Anche lo studio e Finterpretazione dei poeti antichi era un bagaglio indispensabile per un poeta, poiché la composizione poetica esigeva la conoscenza e l'imitazione
dei classici. Questo può spiegare come mai tanta parte della produzione umanistica sia genericamente assegnabile alla categoria della
poesia, intesa in senso lato. In questo vasto corpo di materiali i drammi costituiscono un gruppo non molto numeroso, ma di significativa rilevanza storica. Alcune delle opere teatrali degli umanisti erano molto note e nel XV secolo le pièces in latino, sia quelle
classiche sia quelle umanistiche, furono ripetutamente messe in sce14
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na nelle scuole e nelle corti. Questo fu indubbiamente uno dei fattori chiave per l'affermazione della letteratura drammatica cinquecentesca. Anche l'egloga o poema pastorale aveva i suoi seguaci, secondo il modello di Virgilio e di altri antichi; da questo stesso genere, ripreso in lingua volgare e con caratteristiche teatrali più marcate, prende le mosse la straordinaria moda della poesia pastorale che sarebbe continuata fino al Settecento. La poesia umanistica comprende esempi della satira e dell'ode, anche se quest'ultima era più rara, per via delle difficoltà metriche che solo pochi virtuosi riuscivano a dominare. Ben più ampio è il volume della poesia epica, che include le traduzioni in versi di Omero e di altri poeti greci, e
persino della Divina Commedia di Dante. La maggior parte delle composizioni può essere definita come storica, mitologicae o didattica, e questo corrisponde ai modelli classici a disposizione. Ci
sono lunghi poemi sulla storia antica, come l'Aƒrica di Petrarca, o sulle guerre contemporanee, elogi di principi o di città, apologie
delle scoperte di Colombo. Molti miti antichi vennero presi a soggetto di lunghi poemi epici e i più audaci tra gli umanisti osarono perfino stendere un supplemento dell'Eneide virgiliana. Si assiste anche a uno sforzo per applicare le forme epiche classiche ai temi cristiani e c”è un gran numero di poemi famosi che trattano della vita di Cristo e dei santi. Infine ci sono i poemi didattici su una varietà di temi, come l'astronomia o l'astrologia, la poetica o la storia
naturale; sul baco da seta, e sul gioco degli scacchi, per citare solo qualcuno degli esempi più noti. Ma la parte senza dubbio più consistente della poesia umanisti-
ca prende la forma dell'elegia e dell'epigramma, due forme poetiche strettamente collegate dalla forma metrica e relativamente facili da
dominare. L'elegia è la più lunga delle due ed anche quella di contenuto più serio: il più delle volte dice l'amore del poeta per una dolce fanciulla e di quell'amore narra una grande varietà di fasi e di
episodi. Conosciamo la vasta popolarità di un certo numero di opere sparse, ma tanti dei più grandi umanisti e anche dei poeti mino-
ri cercarono di consolidare la loro fama con interi cicli di elegie raccolte in volumi, secondo il modello di Ovidio, di Properzio o di Tibullo. Alcune figurano tra i migliori esempi della poesia umanista,
e poeti famosi come Pontano o Poliziano eccellevano proprio in questo genere. 15
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Ben più numerosi e comuni delle elegie sono gli epigrammi, la forma poetica preferita in quanto, più breve e meno seria dell'elegia, consentiva una maggior varietà di contenuto e di tono. Sono molti gli umanisti che ci hanno lasciato raccolte di epigrammi, alcuni notevoli per eleganza formale e per varietà di temi trattati. Comprendono un buon numero di composizioni frivole e indecenti, ispirate al modello dell'/lntologia Palatina e alla poesia di Marziale. A parte ciò la maggiore attrazione di tali raccolte, anche delle meno importanti, è di tipo storico: molte sono rivolte a personaggi illustri e con-
tengono allusioni storiche, biografiche o letterarie che spesso rappresentano un felice completamento delle poche notizie di cui altrimenti disponiamo. Anche la produzione di massa di epigrammi e soprattutto di epitaffi, ovviamente di livello letterario disomogeneo, presenta un notevole interesse dal punto di vista storico. Non mancavano poi le gare poetiche in particolari occasioni, come per esempio durante i tornei, e soprattutto in occasione della morte di una
persona famosa, o distintasi per bellezza e giovinezza. Il XV secolo vide affermarsi il genere della miscellanea poetica, volumi in cui era-
no raccolte le poesie di autori diversi, scritte in occasione di un matrimonio o della morte di un qualche personaggio; nasceva così un genere letterario che sarebbe continuato per secoli e nei più diversi paesi. Dopo la loro comparsa ai tempi di Petrarca, gli epigrammi in lode dell'opera di un amico continuarono ad essere popolari: i versi
elogiativi venivano aggiunti a mo' di prefazione ai manoscritti o alle edizioni delle opere degli amici. Spero in questo modo di aver dato un'idea dell'impressionante volume e della varietà della produzione poetica latina degli umanisti e di aver chiarito così che quella produzione non avrebbe potuto non ripercuotersi anche sulle letterature vernacolari dello stesso
periodo, per stile e per forma, oltre che per contenuto. E questo, soprattutto se si tiene presente che la maggior parte dei poeti che
scrivevano in volgare -in Italia e altrove - avevano avuto una formazione umanistica e si erano misurati con composizioni sia latine sia volgari. La convinzione che il latino e la letteratura in lingua locale rappresentassero durante il Rinascimento due campi ostili che si escludevano a vicenda ebbe molto seguito in epoca romantica e, combinandosi con la scarsa conoscenza del latino, ingenerò un certo disprezzo e comunque una scarsa attenzione per la letteratura la16
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tina degli umanisti: si tratta comunque di una posizione che non corrisponde ai fatti storici, così come ci sono noti oggi. Siamo arrivati ora all”ultima espressione della letteratura umanistica, di gran lunga la più significativa per chi si occupa di filosofia e di storia della cultura, ma che in proporzione rappresenta solo una piccola parte di quella vasta produzione: i dialoghi e i trattati su temi morali e filosofici. La filosofia morale rientrava chiaramente nel territorio degli umanisti; Petrarca per esempio amava
essere ritenuto un filosofo morale e molti studiosi umanisti insegnavano questa materia nelle università e nelle scuole. Di fatto i trattati morali sono una fonte fondamentale per capire gli interes-
si, il gusto e a volte anche la filosofia di un'epoca. Ci aiutano anche a meglio comprendere le opinioni di alcuni umanisti su taluni problemi. Non sono d'accordo con quei colleghi che, occupando-
si di storia della filosofia, cercano di ricostruire a partire da quei trattati un corpus filosofico unitario che li accomunerebbe tutti, distinguendoli dai filosofi di altri periodi. Non posso fare a meno di
pensare che, per ogni opinione espressa da un umanista in uno dei suoi scritti, se ne può trovare una uguale e contraria espressa da al-
tri umanisti nei loro scritti o perfino dallo stesso in un'altra sua opera. In ogni caso dobbiamo considerare attentamente il particolare scopo per cui è stata scritta ciascuna opera, le tante citazioni da autori classici (citazioni che molto spesso non sono neppure esplicitamente indicate) e infine la preoccupazione per l'eleganza formale e letteraria e il programmatico rifiuto del linguaggio tecnico, un rifiuto che rifletteva l'imitazione ciceroniana da parte dell°autore. In molti casi, anche se non in tutti, gli umanisti sono più interessati a formulare e discutere una serie di opinioni possibili su un certo tema che non a schierarsi da una parte o dall'altra. Ma
questo non esclude un forte interesse per alcuni problemi specifici e la dichiarazione di preferenza per una piuttosto che per un'al-
tra delle posizioni possibili. Gli umanisti scrissero un gran numero di trattati sulla felicità o sul bene supremo, tema classico della
filosofia morale antica, il più delle volte schierandosi sulle posizioni moderate di Aristotele piuttosto che su quelle estremiste di stoici ed epicurei, che pure contavano i loro seguaci. Vi si discuteva di particolari virtù e del potere della fortuna, per lo più sottolineando come la ragione umana fosse in grado di vincere la sorte, 17
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almeno entro certi limiti. Scrissero molto sull'istruzione, difendendo l'importanza della lettura dei classici per motivi morali e intellettuali. Uno dei temi preferiti era quello della nobiltà che preferivano far discendere dal merito personale piuttosto che dalla nascita illustre. Discutevano in varia guisa dei meriti della vita attiva e di quella contemplativa, matrimoniale o celibataria, ma anche dei doveri di una professione, compresa quella del monaco o dello studioso. Scrivevano riguardo alla famiglia e allo Stato, riprendendo precetti antichi da varie fonti e adattandoli alle particolari circostanze del loro tempo e del loro paese. Discutevano dei rispettivi meriti di repubblica e monarchia e molti di loro cantavano le lodi del governo repubblicano, soprattutto se scrivevano a Firenze o a Venezia. Discutevano dei benefici della legge e della medicina, della letteratura e della vita militare, dei tempi antichi e di quelli moderni. Molta parte di ciò appare interessante, spesso profonda, e ancora di più ci sarebbe da scoprire se si studiasse la parte più
sconosciuta e magari inedita di quella produzione letteraria. Comunque al momento attuale delle mie conoscenze non direi che il contributo degli umanisti italiani risieda in una particolare posi-
zione comune a tutti loro, né in una qualche specifica tesi da loro portata a sostegno di una o dell'altra posizione. - Il loro contributo, molto più inafferrabile e indiretto, risiede nel progetto educativo che formularono e che realizzarono, ovvero nella capillare diffusione della cultura classica nelle scuole, nell'importanza annessa all'uomo e alla sua dignità, implicita nell'espressione studia humanitatis ed esplicitamente difesa da quasi tutti gli umanisti. Risiede nella convinzione, magari erronea, di aver suscitato, attraverso lo studio e l”imitazione dei classici, una rinascita delle conoscenze e della letteratura, delle arti e delle scienze, riportando l'umanità alle somme vette raggiunte nell'antichità, risollevandola così da una lunga decadenza. Una visione storica che ha trovato tanti oppositori tra i medievisti contemporanei, ma che pure ancora sotten-
de le nostre abituali periodizzazioni della storia. Un contributo, ancora, che risiede nella discussione elegante e non tecnica dei problemi umani che interessavano il lettore non specialista dei tempi, ma che erano trascurati dai filosofi veri e propri, dagli accademici e dagli scienziati. Risiede soprattutto nell”enorme quantità di nuove fon-
ti classiche messe a disposizione degli studiosi di filosofia, cosa che 18
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permise di recuperare le dottrine antiche, da quella platonica a quella stoica, dall”epicurea alla scettica fino a quella aristotelica, tutte rilette nelle fonti greche antiche piuttosto che in quelle medievali arabe, cosa che rese possibile tentare soluzioni filosofiche autonome, indipendenti anche dalle fonti antiche. Tutto questo avrebbe caratterizzato il pensiero filosofico del Rinascimento. Non intendo affermare che il pensiero rinascimentale fosse parte dell”umanesimo, perché coinvolgeva troppe tradizioni e problemi di origine diversa, ma era da questo sicuramente influenzato, e non sarebbe stato possibile senza l'opera e l”approccio degli umanisti. Ciò che ho detto sull'impatto dell”umanesimo italiano in ambito filosofico è valido, con le modifiche del caso, per tutti gli altri ambiti della cultura rinascimentale. Tra gli umanisti italiani erano pochi i teologi (anzi, alcuni erano probabilmente cristiani indifferenti alle problematiche religiose, anche se ben pochi potevano essere definiti propriamente pagani). Eppure alcuni anticiparono Erasmo da Rotterdam e la Riforma, applicando gli strumenti della cultura classica ai testi cristiani e aprendo così la strada a una sorta di filologia sacra. Si approntarono molte nuove traduzioni ed edizioni dei Padri della Chiesa e perfino alcune della Bibbia, e i metodi della critica storica e testuale furono adottati consapevolmente e coscienziosamente. L'insistenza degli umanisti sulle fonti originali e la loro diffidenza nei confronti della dialettica scolasti-
ca avrebbero avuto le loro ripercussioni in teologia, come in filosofia. Gli studiosi contemporanei che si occupano di storia delle scienze hanno giustamente sottolineato i meriti e le conquiste dell'ultimo periodo del medioevo. Però, anche se è vero che il medioevo conosceva un gran numero di scritti greci di matematica, astronomia e medicina, i traduttori umanisti diedero un importante impulso a tutti questi campi e anche alla geografia. Gli umanisti non erano di solito scienziati professionisti, ma la maggior parte
degli scienziati del XV e del XVI secolo aveva avuto una formazione umanistica e fu solo a quel punto che i risultati cui erano giunti i greci furono assorbiti pienamente e si aprì la strada a scoperte assolutamente nuove. In giurisprudenza, furono gli studi umanistici che portarono alla comprensione storica delle fonti giuridiche romane nel XVI secolo, proprio come le traduzioni uma-
nistiche della letteratura filosofica, storica e retorica antica avreb19
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MM Il pensiero e le arti nel Rinascimento __í.í_í
bero rianimato la discussione teorico-politica. In architettura e nelle arti decorative, il classicismo allora prevalente condusse a una ripresa delle forme e dello stile antichi, mentre l'interesse rinnovato per la mitologia, la storia e l'allegoria del mondo classico portò ad arricchire in modo duraturo i temi della pittura e della scultura che sarebbero arrivati fino all'Ottocento. Perfino nella musica, di cui non si conservavano esempi antichi, lo studio e perfino l”interpretazione erronea della teoria classica produssero, sul finire del Cinquecento, effetti importanti per lo sviluppo di quest”arte. In altre parole, l'umanesimo italiano si espresse soprattutto in un particolare settore della cultura rinascimentale, ma il suo influsso gradualmente si allargò fino a coprire le aree più diverse. Un influsso che non si limitava alla sola Italia, ma le cui tracce sono individuabili in tutta Europa, almeno fino alla metà del XV secolo. Gli studiosi di tutti i paesi europei frequentavano le università italiane, entravano in contatto con i metodi e le fonti dell'uma-
nesimo italiano e se ne tornavano a casa con tante idee e gusti nuovi, oltre che con i libri che avevano copiato o acquistato e che si possono ancora trovare nelle biblioteche dei paesi più lontani. Quegli stessi libri furono copiati, letti e in seguito stampati anche fuori d'Italia, dove in qualche caso conobbero una diffusione ancora più vasta di quella che avevano avuto in patria. Tanti umanisti italiani avevano avuto occasione di andare all”estero e avevano divulgato i loro interessi tra amici e colleghi, se non direttamente col loro insegnamento. Molti erano ambasciatori dei governi italiani o esuli politici e in seguito anche religiosi, oppure entravano a servi-
zio dei governi stranieri come cancellieri o professori. Lo scambio dei libri e delle persone, allora come ora, era un fattore importante di comunicazione culturale e in quel periodo l'umanesimo italiano aveva da offrire molte cose ancora sconosciute o trascurate in altri paesi. Nel XVI secolo l”umanesimo si svincolò in parte dall'Italia e mise radici anche in altre nazioni. Studiosi come Erasmo e Tom-
maso Moro, Vives e Budé erano all'altezza dei loro contemporanei italiani (se non addirittura superiori) e spesso non erano disposti a riconoscere il loro debito nei confronti dei loro predecessori; ma se è certamente vero che dovevano molto alle rispettive tradizioni nazionali oltre che al talento personale, è innegabile che continuasse-
ro e sviluppassero le tradizioni dell”umanesimo italiano e che, per 20
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quanto nuovo ed originale, il loro contributo non sarebbe stato possibile senza il lavoro degli italiani che li avevano preceduti. Spero che questo breve quadro della vasta area della cultura e della letteratura rinascimentale possa dare almeno un'idea generale degli apporti e dell'importanza dell'umanesimo italiano. Alcune opere umanistiche possono essere di scarso valore o importanza dal punto di vista odierno, ma vorrei sottolineare due elementi. Prima di tutto, per effetto dell'umanesimo rinascimentale il clima intellettuale cambia completamente tra il Trecento e il Seicento: lo possiamo osservare per esempio in filosofia, mettendo a confronto san Tommaso e Cartesio. Anche quando, in filosofia o nelle scienze, non formularono direttamente idee nuove, gli umanisti le resero però possibili sgombrando il campo da alcune tradizioni medievali e riportando alla luce una gran quantità di fonti antiche. Nel XVI secolo l°umanesimo non fu superato dal protestantesimo né dalla Controriforma, come hanno sostenuto diversi storici, per-
ché non si trattava di una teologia, bensì di una tradizione di studi e di lettere che sarebbe sopravvissuta nei paesi cattolici come in quelli protestanti. In filosofia e nelle scienze, l”umanesimo fu deci-
samente superato nel Seicento dai nuovi sviluppi introdotti da Galileo e da Cartesio; sviluppi che comunque aveva contribuito a preparare; e in ogni caso, le opere degli umanisti e quelle dei pensatori del Rinascimento influenzati dall'umanesimo continuarono ad essere lette ampiamente fino al Sette e all”Ottocento, continuando in tal modo ad alimentare tante correnti secondarie del
pensiero e della letteratura. L'ideale umanistico dell'istruzione rimase dominante nelle scuole secondarie dell,Occidente almeno fino al principio del nostro secolo, e ancora sopravvive nella definizione di «scienze umane›› che usiamo per designare quel che resta degli studia bumanitatis. Inoltre l”umanesimo rinascimentale è l”antenato delle nostre conoscenze storiche, filologiche e letterarie,
proprio come il sapere medievale e rinascimentale nel campo della logica, della fisica, della matematica e della medicina anticipa la scienza premoderna e moderna.
Ma c,è una seconda e più importante lezione che mi piacerebbe trarre dal ruolo dell'umanesimo nella civiltà rinascimentale, oggi che le scienze umane sembrano ovunque sulla difensiva e siamo minacciati dalla prospettiva di un mondo fatto solo di vita pratica, di 21
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scienza, di religione, e di un'arte svuotata del suo contenuto intellettuale. Al contrario nel Rinascimento vediamo un solido corpus di scienze umane, ovvero di conoscenze laiche almeno in parte indipendenti dalla vita pratica, dalla scienza, dalla religione e dalle arti, che occupa un posto importante negli interessi e nell'iniziativa del tempo e che è a sua volta capace di esercitare un'influenza profonda e proficua su tutti gli altri campi dell”attività umana. Speriamo che le scienze umane così come le conosciamo possano sopravvivere e svolgere ancora una funzione altrettanto produttiva oggi, o co-
munque in un futuro non troppo lontano.
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_í;__?__í___ UMANESIMO
II. Il pensiero morale dell'umanesimo rinascimentale*
Nella tradizione occidentale che inizia con l'antichità classica e prosegue lungo il medioevo fino ai tempi moderni, il periodo comunemente detto Rinascimento occupa un posto ben preciso, con caratteristiche peculiari. Gli storici hanno cercato per lungo tempo
e in vario modo di descrivere la civiltà del Rinascimento. Ne sono nate tante e tali controversie che quel problema è diventato ogget-
to di tutta una letteratura. La visione tradizionale del Rinascimento fu formulata cento anni fa da Jacob Burckhardt. In una felicissima sintesi focalizzata sull'Italia del XIV e del XV secolo, Burckhardt ha descritto le conquiste di quel periodo nelle arti, nelle lettere e negli studi, e ne ha rilevato alcuni tratti generali come l'individualismo, il ritorno dell'antico, e la scoperta del mondo e dell,uomo. Quella visione fu al-I largata e divulgata da A. Symonds e da altri che ponevano l'accento sulle tendenze pagane del periodo più di quanto avesse fatto Burckhardt. Altri storici si dedicarono al compito di analizzare il Rinascimento come più vasto fenomeno europeo, soprattutto nel Cinquecento, e di esplorare sia le influenze italiane sia le diverse caratteristiche nazionali che il periodo aveva assunto in ciascuno dei più importanti paesi europei.
Le opinioni di Burckhardt furono contestate e criticare in mille modi. Gli storici del medioevo scoprirono che quel periodo, so* Testo pubblicato in Chapter: in Western Civilization, a cura del Contemporary Civilization Staff del Co umbia College, lll ed., Columbia University Press,
New York 1961, 1, pp. 289-335.
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prattutto nelle sue fasi più tarde, aveva compiuto impressionanti conquiste culturali e non era per nulla quell'«età buia›› che doveva lasciar posto a un'epoca di «rinascita››. In molti casi ci si accorse che alcuni fenomeni ritenuti caratteristici del Rinascimento avevano avuto il loro equivalente o i loro precedenti nel medioevo. Gli storici della letteratura francese, seguiti da quelli di altre letterature, tesero a limitare l'influenza italiana e a evidenziare i contributi originali di altri paesi, durante il Rinascimento e anche prima. ]ohan I-Iuizinga nel suo Autunno del medioevo, ha messo in luce i tratti pienamente medievali di un periodo tardo come il XV secolo, e il suo contributo e particolarmente illuminante perché si concentra sui Paesi Bassi, che allora erano il centro artistico ed economico dell,Europa, al di fuori dell'Italia. Mentre molti storici, anche se con valutazioni diverse, ritenevano che la Riforma protestante e la Controriforma cattolica del XVI secolo avessero messo fine alla cultura laica e pagana che irradiava dall”Italia nel secolo precedente, altri sottolineavano il carattere assolutamente religioso del Rinascimento nei paesi del Nord e perfino in Italia. Uno studioso, Giuseppe Toffanin, è arrivato perfino a sostenere che l'umanesimo ri-
nascimentale fu essenzialmente una reazione cattolica alle tendenze eretiche interne al pensiero del tardo medioevo. La continuità rispetto al medioevo è stata la parola d'ordine di tanti storici che si sono occupati dello sviluppo economico e scientifico del periodo aspetti che sono stati trascurati da Burckhardt ma che sono al centro degli studi più recenti. Altri parlano di un vero e proprio declino scientifico ed economico durante il XVI secolo, una posizione questa tutt'altro che condivisa dagli specialisti della materia. Si tratta di discussioni che confondono ancora di più le cose, perché riguardano anche i limiti cronologici del Rinascimento, il cui principio e la cui fine sono soggetti a una fluttuazione continua a seconda delle persone o dei luoghi, degli sviluppi o degli aspetti culturali sui quali lo storico si concentra. Di fronte a tanto disaccordo si può solo suggerire di applicare il termine Rinascimento, che oramai è divenuto convenzionale, a quel periodo della storia europea che va almeno dalla metà del XIV
secolo al principio del XVII. Se non annettiamo alcun giudizio di valore al termine Rinascimento, non ci stupirà scoprirne i tanti limiti oltre alle tante conquiste. E se riconosciamo che il Rinasci24
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mento fu un periodo di transizione non saremo sorpresi di trovarvi tanti tratti medievali oltre che moderni, così come alcuni che sono tipici solo del Rinascimento. Non c*è bisogno di porre l'accento su uno di questi aspetti rispetto agli altri, perché possiamo accettare la sostanziale continuità della storia, pur rendendoci conto che la continuità storica implica così il cambiamento come la stabilità, e che un cambiamento graduale, avvenuto nel corso di tanti secoli, non solo è necessariamente cumulativo, ma alla fine non può che essere rilevante. Ogni paese europeo, si sa, ha dato il suo contributo alla cultura del Rinascimento e lo ha fatto in parte attingendo alle sue tradizioni medievali, ma l'Italia - per l'eccellenza dei suoi contributi e per l'influenza che ha esercitato sugli altri paesi occupava una posizione culturalmente dominante che non ha mai rivestito in precedenza né in seguito. Se l°affermazione di alcuni vecchi storici, secondo cui il Rinascimento fu un periodo di rinascita dopo tanti secoli bui, deve oggi es-
sere sottoposta a severa critica, resta in ogni caso il fatto che gli uomini di allora concepivano il tempo in cui vivevano come un periodo di rinascita delle arti, delle lettere e degli studi dopo una lunga de-
cadenza. Infine, in un'epoca culturalmente complessa e articolata, ogni ambito del sapere può avere una sua linea di sviluppo originale. Non abbiamo motivi per ritenere che il Rinascimento o un qualunque altro periodo debba mostrare le stesse caratteristiche, lo stesso «stile››, il medesimo livello di sviluppo o di diffusione regionale nell”arte o nella politica, in economia, in religione, in filosofia o nelle scienze. Iƒindividuazione di un simile stile comune può essere lo scopo ultimo di uno storico che si occupi di un certo periodo, ma non si può dare per scontata in partenza. Molte delle controversie sul Rinascimento si debbono alla tendenza degli storici a focalizzarsi solo su un aspetto della cultura del periodo, a fare generalizzazioni unilaterali in base ai loro temi preferiti, ignorando altri elementi rilevanti dell'epoca. Per una visione più oggettiva del Rinascimento sarebbe preferibile rispettare l'indipendenza dei vari campi dell'operato umano, senza negarne o ignorarne le reciproche relazioni. All'interno delle linee più generali della civiltà rinascimentale, l'umanesimo può essere considerato come uno degli aspetti o dei movimenti più importanti, anche se limitati. Uinterpretazione del25
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l'umanesimo rinascimentale, come quella del Rinascimento stesso, è stata occasione di un gran numero di controversie e di intenso disaccordo tra gli storici contemporanei. Inoltre l”umanesimo è ancora più difficile da definire del Rinascimento, poiché non basta indicarne i limiti cronologici. Dobbiamo anche cercare di descriverne il contenuto intellettuale e la gamma di attività. Un compito ancora più importante, poiché il termine umanesimo è stato adottato per esprimere ogni sorta di particolare accento posto sui valori umani. Com'è piuttosto naturale, quando sentiamo parlare di umanesimo rinascimentale pensiamo a una speciale enfasi diffusamente posta sui valori umani nel Rinascimento, di cui forse costituiva addirittura il tratto caratteristico e distintivo. Ora, è certo che l°umanesimo così inteso si ritrova in epoca rinascimentale, ma non era
così diffuso come spesso si tende a credere. Quando gli storici parlano di umanesimo rinascimentale utilizzano questa espressione in modo diverso dall'accezione oggi comune. Fanno riferimento a
un”ampia classe di intellettuali rinascimentali, tradizionalmente definiti umanisti: insegnanti e segretari, scrittori, studiosi e pensatori
che esercitarono un”influenza vasta e profonda su tutti gli aspetti della cultura rinascimentale e che lasciarono ai posteri, insieme alla testimonianza delle loro vite e delle loro attività, un gran numero di scritti, classificabili genericamente come letteratura, studi storicofilologici, e pensiero morale, ma che spesso trattano di soggetti diversissimi che spaziano dalla filosofia alle scienze, dalla critica letteraria a quella artistica, dall'educazione alla politica, alla religione. Il ritorno della moda dell'antichità, in genere associato col periodo rinascimentale, il generale e diffuso classicismo che osserviamo in tutte le manifestazioni artistiche e letterarie dell”epoca, è sicuramente un effetto diretto o indiretto dell'umanesimo rinascimentale. Quando Georg Voigt nel 1859 descrisse le prime fasi dell'umanesimo italiano, ne evidenziò il contributo agli studi classici. Burckhardt e Symonds, senza trascurare l'impatto prodotto dagli
umanisti sul pensiero e sulla letteratura rinascimentale, attribuirono il giusto peso al loro lavoro di storici e di classicisti. Nei successivi studi filologici tedeschi si continuò a mettere in rilievo quell'aspetto, cosa facilitata anche dall'uso che l”Ottocento fece della parola umanesimo, allora quasi esclusivamente associata con le disci-
pline umanistiche, cioè storia e filologia, e con le scuole umanisti26
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che in cui quelle discipline erano coltivate. D'altra parte, poiché l'umanesimo sembrava predominare nella letteratura e nella cultura italiana quattrocentesca, mentre nel XVI secolo sembrava avere
perso importanza, gli studiosi italiani tendono a usare il termine «umanesimo›› come nome per definire quel periodo - soprattutto il XV secolo - che gli studiosi di altri paesi hanno chiamato primo Rinascimento. Recentemente si è assistito alla tendenza a spostare l°attenzione dalle opere letterarie e di erudizione degli umanisti e a definire il movimento sulla base di certe idee o ideali. Questa ten-
denza può essere attribuita a un diminuito entusiasmo per l'erudizione in quanto tale e alla sensazione che, per risultare più accetta-
bile per l'opinione contemporanea, l'umanesimo rinascimentale debba essere identificato con una serie di idee ben definite. Le sfumature contemporanee acquisite dal termine potrebbero aver avuto la loro parte in tale processo. Konrad Burdach ha attribuito all”umanesimo un'origine religiosa, considerandone l'orientamento laico come uno sviluppo tardo. Giuseppe Toffanin lo ritiene una
reazione cattolica contro certe tendenze eretiche intrinseche al pensiero medievale. Douglas Bush, pensando più che agli umanisti italiani a quelli del Nord, identifica il fulcro dell'umanesimo rinascimentale in un umanesimo cristiano che condivide la preoccupazione di san Tommaso per l,armonia tra ragione antica e fede cristiana. D”altra parte I-Ians Baron ha messo al centro della sua interpreta-
zione l°umanesimo civile della Firenze quattrocentesca, la cui preoccupazione principale era quella di formare cittadini responsa-
bili, attivi e partecipi della comunità repubblicana. Infine Eugenio Garin, in tanti studi importanti e ben documentati, ha usato «uma-
nesimo›› come denominatore comune di quanto di meglio offriva il pensiero filosofico del Rinascimento, mettendone in risalto l°attenzione rivolta ai problemi morali e umani dell'uomo comune e il suo contrasto con l'orientamento teologico della scolastica medievale. C'è qualcosa di vero nella maggior parte di queste posizioni, ma è difficile ricavarne un quadro chiaro e coerente dell°umanesimo ri-
nascimentale, capace di dar conto del movimento nel suo complesso. Così è forse più utile ritornare ai significati rinascimentali del termine umanista e scienze umane, da cui è chiaramente derivato il termine moderno di umanesimo. Sembra che «umanista››, proba27
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bilmente coniato nel gergo degli studenti universitari, designasse chi per professione insegnava le «scienze umane›› ovvero gli studia bumanitatis, che comprendevano materie come grammatica, retorica, poesia, storia e filosofia morale. Questo ben preciso ciclo di studi consisteva, in altre parole, nelle materie che avrebbero insegnato a parlare e a scrivere bene, sia in prosa che in versi e specialmente in latino (che era ancora la lingua ufficiale delle scuole e della Chiesa, della legge e della diplomazia internazionale). Includeva lo studio e la trattazione scritta della storia e una delle discipline filosofiche, la filosofia morale. Poiché gli umanisti erano fermamente convinti che, in ogni genere di scrittura, fosse necessario seguire i modelli della letteratura antica, lo studio dei classici greci e latini divenne una parte centrale e inseparabile dell'educazione umanistica: studiare poesia voleva dire studiare i poeti antichi, oltre che imparare le regole per scrivere versi. Si comprende dunque perché l'umanesimo rinascimentale fosse principalmente letterario ed erudi-
to, perché il classicismo fosse nel cuore stesso di quel movimento e perché l”influenza degli umanisti abbia contagiato tutta la cultura
rinascimentale. Quando gli studiosi del Rinascimento adottarono il termine «scienze umane›› per i loro studi, intendevano porre l”accento sui valori umani insiti nelle materie in questione, e l'insegnamento della filosofia morale era una parte essenziale di quel programma. In questo senso erano umanisti anche nell'accezione contemporanea del termine. Eppure l'umanesimo rinascimentale, a differenza del suo omonimo del XX secolo, era fortemente impegnato in un programma culturale e ideale: ed è questo ideale che accomuna tutti gli umanisti del Rinascimento. Le particolari idee filosofiche, religiose o politiche con le quali gli storici moderni hanno cercato di definire l'umanesimo rinascimentale si ritrovano, effettivamente, negli scritti di alcuni umanisti e molte di esse rivestono un”importanza intrinseca notevole. Però, poiché queste idee non erano condivise da tutti gli umanisti e poiché tanta parte del loro lavoro non si occupava affatto di idee, ma era di tipo erudito e letterario, una vera definizione e comprensione del movimento nel suo complesso non si può basare su di esse. D'altra parte, la preoccupazione principale e di fatto professionale degli umanisti si limitava alle scienze umane, pertanto non dovremmo dare per scontato,
come fanno molti studiosi, che umanesimo e cultura o sapere rina28
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scimentale fossero la stessa cosa. Teologia e legge, medicina e matematica, astronomia, astrologia e alchimia, logica, filosofia della natura e metafisica, letterature nazionali, arti visive e musica erano tutte ampiamente coltivate durante il Rinascimento, ma non erano interesse centrale degli umanisti. Ogni disciplina aveva le sue tradizioni e il suo sviluppo, ed era praticata dai suoi specialisti. Se tutte furono fortemente influenzate dall'umanesimo rinascimentale, si trattò però di un”influenza essenzialmente esterna alla disciplina in sé e limitata nella sua natura, dovuta a quegli umanisti che erano personalmente interessati a una o all'altra disciplina, o a quegli specialisti di altre discipline che avevano ricevuto un'educazione umanistica, cosa che dalla metà del Quattrocento in poi sarà sempre più comune. Il carattere di tale influenza umanistica poi è particolare, e consiste prima di tutto nell°introduzione di nuove fonti classiche e nella riaffermazione delle loro idee, nella moda dei riferimenti e delle citazioni, nell”uso di nuovi e raffinati metodi di ricerca stori-
ca e filologica, nel tentativo di sostituire la terminologia specialistica delle scuole medievali, i loro severi metodi di argomentazione, le elaborate chiose e le dotte dispute con trattati, dialoghi, saggi scrit-
ti in stile piano ed elegante.
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Poiché la filosofia morale, diversamente dalle altre discipline filosofiche, era considerata parte delle discipline classiche, possiamo subito comprendere come il pensiero morale del Rinascimento fosse direttamente associato col movimento umanistico. Una parte considerevole della letteratura morale del Rinascimento fu scritta da umanisti, o in ogni caso da laici con una formazione umanistica, e di fatto tutti gli scrittori di morale furono influenzati dall'umanesimo. Il rapporto tra quella letteratura e l'umanesimo spiega tante delle sue peculiari caratteristiche. Tutti o quasi tutti gli umanisti erano insegnanti, cosicché il loro pensiero morale era fortemente,
se non esclusivamente, incentrato sull'educazione dei giovani. Gli umanisti consideravano l'antichità classica come guida e modello
principale, in letteratura come nel pensiero; di conseguenza, i loro scritti morali erano disseminati di citazioni di autori greci e latini, di episodi della mitologia classica, di idee e teorie derivate da scrittori e filosofi antichi. Infine, gli umanisti erano retori di professione, cioè scrittori e critici che non solo volevano dire la verità, ma volevano dirla bene, secondo i loro gusti e i loro modelli. Credeva29
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no nella dottrina retorica antica, secondo cui scrittore e oratore debbono saper rendere plausibile per il pubblico qualsiasi idea collegata al tema prescelto. Di conseguenza le idee discusse sono spesso presentate con frasi che puntano allieleganza più che alla precisione e molto spesso, soprattutto in un dialogo o in un discorso, le opinioni appropriate all'occasione possono essere difese con vigore ed eloquenza, senza che tuttavia esprimano il punto di vista o la riflessione personale dell'autore. L'insegnamento morale è spesso contenuto anche in alcuni generi letterari coltivati dagli umanisti, nei quali un lettore moderno non si aspetterebbe di trovarlo. Gli umanisti avevano ereditato, dai grammatici e dai critici letterari dell'antichità classica e medievale, la convinzione secondo la quale l'edificazione morale doveva essere il primo obiettivo del poeta. Di conseguenza, in alcune delle loro poesie come nell'interpretazione che davano dei poeti antichi,
nelle aule come nei testi critici che pubblicavano, è presente una nota morale, o perfino moralistica. Gli umanisti seguivano anche la teoria e la prassi antiche e medievali, secondo cui l'oratore come il narratore è un educatore morale e deve adornare la sua composizione con espressioni di devozione riprese dagli antichi o coniate ad hoc. Per semplificarsi il compito, l'umanista redigeva opuscoli contenenti citazioni e frasi, e c'erano anche scrittori che pubblicavano raccolte di detti, proverbi o aneddoti storici cui un qualunque altro autore avrebbe potuto attingere liberamente quando se ne presentasse l'occasione. Perciò andavano molto di moda gli Apop/atlregmata di Plutarco nelle traduzioni umanistiche, mentre gli Adagia di Erasmo, raccolti e rivisti a partire da tante fonti antiche e più volte ampliati dall'autore stesso, furono stampati e utilizzati, anche se non sempre citati esplicitamente, per diversi secoli. C'era poi un'altra disciplina coltivata dagli umanisti cui veniva annesso un profondo significato morale: la storia. Gli umanisti
condividevano la convinzione di molti autori antichi e medievali che il compito della storiografia fosse di impartire una lezione morale. Tanta parte della storiografia rinascimentale è sostenuta da
questa convinzione. Analogamente, la vasta produzione biografica di quel periodo e spesso animata dal desiderio di fornire al let-
tore modelli meritevoli di imitazione. Le vite medievali dei santi 30
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fornivano un precedente, poiché erano a loro volta scritte con l'idea di fornire al lettore i modelli della condotta pia. Ma c'è una bella differenza tra proporre come esempio di vita santi cristiani piuttosto che generali, uomini politici dell'antichità, filosofi e poeti, principi, cittadini o artisti contemporanei. Il Rinascimento continuò a produrre le biografie dei santi, ma ci ha lasciato un ben più nutrito numero di biografie laiche. Le vite degli uomini illustri dell'antichità lasciateci dal Petrarca o da altri umanisti erano chiaramente intese a propore modelli da imitare, poiché l'antichità classica era per gli umanisti l'esempio più ammirato in tutti i campi dell'azione umana. Non c'è da stupirsi allora se in una famosa disputa umanistica la relativa superiorità del personaggio di Scipio-
ne, messo a confronto con quello di Cesare, serviva come spunto per la discussione dei meriti del governo repubblicano paragonato a quello monarchico. Quando Machiavelli, nei suoi Discorsi su Livia, presenta le istituzioni e le azioni della repubblica romana come modello per i suoi contemporanei, non fa che seguire la prati-
ca dei suoi predecessori umanisti, e ne dichiara i presupposti sottesi molto più chiaramente di quanto non fosse stato fatto in pre-
cedenza: gli esseri umani sono fondamentalmente sempre gli stessi e perciò è possibile studiare la condotta degli antichi per imparare dai loro errori e dalle loro conquiste e per seguirne l°esempio
laddove hanno avuto successo. Se da questi scritti, in cui appare palese l'intento morale e moralistico, ci volgiamo alle opere che affrontano esplicitamente la filosofia morale, vedremo quali fossero i generi prediletti di questo tipo di produzione letteraria. I più importanti erano il trattato e il dialogo, e in seguito il saggio. Più marginali, l'orazione e la lettera, la più diffusa forma di letteratura umanistica, usata a volte per
esprimere idee morali. La lettera era particolarmente popolare presso gli umanisti, perché consentiva di esprimere le idee in modo
personale e soggettivo, anche se era considerata alla stregua di qualunque altra produzione letteraria. Gli autori davano perciò alle loro lettere la stessa eleganza formale riservata ad altre composizioni.
A queste forme si devono poi aggiungere le raccolte di detti, proverbi e luoghi comuni.
Il linguaggio di questi scritti era di solito il latino, ma l'uso del volgare si afferma, soprattutto in Toscana, nel Quattrocento, per 31
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poi diffondersi sempre più anche nel resto dell'Italia e dell'Europa nel secolo successivo. La scelta della lingua indicava a quali lettori l'autore intendesse rivolgersi. Le opere in latino erano pensate per un pubblico internazionale di studiosi e di allievi di scuole umanistiche, mentre all°interno di un paese o di una regione particolare le opere in lingua volgare erano lette essenzialmente da una classe media prevalentemente composta di donne, commercianti e artigiani che sapevano leggere e che volevano opere istruttive e di intrattenimento, ma che per lo più non conoscevano il latino e non avevano ricevuto una formazione scolastico-universitaria umanistica. Ifesistenza di questo ampio corpus di letteratura morale scritta da umanisti e divulgatori, e dell'ancor più vasto corpus di erudizione e di letteratura umanistica, è di per sé un fenomeno storicamente significativo. Siamo di fronte a una grande profusione di conoscenze laiche, nutrite dalle fonti antiche e dall”esperienza contemporanea e sostanzialmente indipendenti, anche se non del tutto
avulse, dalle tradizioni scolastiche medievali della filosofia, della scienza, della teologia e del diritto. Come parte di quella conoscenza, o comunque da essa derivato, troviamo un corpus di pensiero morale che non appare mai in contrasto con la dottrina religiosa con cui anzi viene spesso esplicitamente armonizzato - ma convive fianco a fianco con essa, reclamando per sé settori sempre più vasti della vita e dell'esperienza umana. Esistono numerosi precedenti medievali di questo pensiero morale laico, ma di genere diverso e di portata ben più limitata. La fortuna di alcuni moralisti, come Cicerone, Seneca o Boezio, non era mai venuta meno durante il medioevo e i grammatici dell”epoca avevano anche provato a fornire un”interpretazione morale di poeti antichi come Ovidio e Virgilio. Si tratta di una tradizione apparentemente ripresa e assorbita dall°umanesimo rinascimentale fin dai suoi albori, nel XIV secolo. Anzi, già nel XIII, quando tutti gli scritti di Aristotele erano tradotti in latino e adottati come manuali di filosofia a Parigi e in altre università,
la sua Etica, insieme alla Politica e alla Retorica, nonché all)Economia a lui attribuita, veniva spiegata nelle classi e molti dei commen-
ti a queste opere nascono proprio da tale tradizione didattica; anche se il corso di Etica non era obbligatorio ed era ritenuto meno im-
portante di quelli di logica o di filosofia naturale. La dottrina aristo32
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telica delle virtù e del bene supremo, così come la sua teoria delle passioni esposta nella Retorica, erano tutte ben note agli studiosi di filosofia e a molti altri. Quando cominciarono ad occuparsi di gran parte dell°insegnamento morale, nel Quattrocento, e scrissero trattati generali sull'argomento, gli umanisti lo fecero continuando a usare le opere di Aristotele, che si imponevano per la completezza delle materie trattate e per la ricchezza dei dettagli, e spesso finirono per seguirne le idee pur interpretandole in modo diverso e mescolandole ad altre teorie derivate da altre fonti. Infine, durante il tardo medioevo si era sviluppato un codice di condotta morale per cavalieri, nonché per una classe privilegiata di laici; quel codice trovò espressione letteraria nella poesia lirica, nei romanzi in versi e in prosa e in alcuni trattati teorici. Anche nel Rinascimento la letteratura morale si rivolgeva più ai laici che ai religiosi; tuttavia, malgrado il ricco corredo classico che invece mancava alla letteratura cavalleresca medievale, era scritta da e per una classe diversa e aveva un
diverso fondamento politico, economico e sociale. L'umanesimo rinascimentale che ebbe inizio, in Italia, verso la fine del Duecento, non può essere spiegato come l'esito tardivo ma
diretto dello sviluppo politico ed economico delle comunità cittadine formatesi nell'XI secolo. Infatti anche la teoria del «ritardo›› culturale, ammesso che abbia un senso, non sembra in grado di fornire l'anello mancante: dopotutto, esisteva già una precisa tradizione lctteraria e di studi, nell”Italia del XII e all'inizio del XIII secolo, che non aveva una connotazione umanistica. E d'altra parte, a fare da sfondo alla cultura rinascimentale era una società urbana, non feudale. Nelle loro opere morali, gli umanisti rinascimentali si rivolgevano ai loro colleghi studiosi e ai loro allievi, nonché a un'élite di uomini d'affari e di nobili inurbati desiderosi
di adottarne le idee culturali ed etiche. In tutto il Cinquecento, fasce sempre più ampie della classe media sembrarono interessarsi a
tale produzione letteraria. La teoria politica era tradizionalmente parte dell'etica o un suo corollario, ma nell'opera dei moralisti rinascimentali occupò un
posto importante, a volte primario. La natura delle loro idee politiche variava fortemente a seconda delle circostanze. La rilevanza storica di una tradizione umanistica civile e repubblicana, soprattutto a Firenze e in misura minore anche a Venezia, è stata recen33
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temente sottolineata da Hans Baron e da altri studiosi. Ma gran parte del pensiero politico rinascimentale si sviluppò anche lungo linee monarchiche, in particolare nel XVI secolo, e gli stessi Machiavelli e Tommaso Moro erano in qualche modo legati al movimento umanista. A parte i trattati politici, la letteratura morale del Rinascimento si rivolgeva soprattutto agli individui singoli. Le realtà economicopolitiche contemporanee erano date più o meno per scontate e lo scopo dei trattati morali era quello di fornire istruzioni teoricopratiche all'individuo, soprattutto ai giovani. Il confine tra decoro e successo non sempre era così netto come oggi auspicheremmo, col risultato che la parola «virtù» aveva finito per assumere un significato curiosamente ambiguo. Significava virtù morale, certo, ma per Machiavelli 'virtù indicava piuttosto quella forza di carattere che assicurava il successo politico, e il «virtuoso›› si distingueva per le sue capacità intellettuali e sociali piuttosto che per l'eccellenza morale. A questo punto possiamo anche soffermarci a considerare la varietà di significati del termine «pensiero morale», sia nel Rinasci-
mento, sia nella sua applicazione più generale. Quando si parla della morale di una persona o di un periodo, si tende a pensare prima di tutto al suo comportamento e s'immagina che quel comportamento esprima convinzioni consapevoli e inconsapevoli, convinzioni che possono anche essere contrarie agli ideali professati dalla persona e dall°epoca. Sotto questo aspetto il Rinascimento, e specialmente il Rinascimento italiano, gode di una reputazione dubbia. Nell'interpretazione popolare, che sembra confortata da Symonds e da altri storici, fu un periodo di irrequietezza politica, di crimini, di violenza e di passioni; e sullo sfondo luccicante e melodrammatico del pugnale e del veleno sembrano risaltare ancora meglio, per contrasto, le bellezze rinascimentali esaltate da poeti e pittori. Gli esempi di crimini e di crudeltà sono numerosi durante il Rinascimento, in Italia e altrove, come lo sono anche in altri periodi stori-
ci, compreso il medioevo e il secolo presente. Comunque non tutte le storie e gli aneddoti che ci sono arrivati dai pettegoli cronisti
del tempo sono ben documentati e quelli che possiamo ritenere attendibili erano con ogni probabilità oggetto della pubblica esecra-
zione, allora come oggi. Inoltre sarebbe sbagliato pensare che simi34
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li efferatezze fossero preponderanti nel quadro della vita pubblica o privata durante il Rinascimento. Erano invece tante le persone oneste, gli uomini che si comportavano secondo la legge morale. Eppure, ignorando l'effettivo comportamento delle persone durante il Rinascimento e i pensieri, magari segreti e inespressi, che potrebbero averle guidate, e dovendoci limitare a un,analisi delle idee morali espresse, più o meno esplicitamente, nella letteratura del periodo, scopriamo che le problematiche morali erano discusse variamente e da molti punti di vista. Un autore per esempio può descrivere i costumi morali e le usanze dei suoi tempi o con esempi,
come succede spesso nel caso della prosa narrativa, o attraverso la discussione dei loro tratti generali, senza per questo voler stabilire dei modelli espliciti di comportamento ideale. Costui però potrebbe anche cercare di guidare ed influenzare la condotta dei suoi concittadini, in particolare quella dei suoi lettori più giovani, indicando loro il comportamento giusto. Descrizione e prescrizione ven-
gono spesso confuse nelle dispute contemporanee sui problemi morali e sociali, e non sempre possono essere tenute distinte nella letteratura del Rinascimento; ma per una migliore comprensione di
tali discussioni sarebbe utile tenere bene a mente quella distinzione. Nei generi letterari in cui prevale l'aspetto prescrittivo e si delineano i modelli per i giovani, bisogna distinguere tra gli autori che
si preoccupano soprattutto delle regole della prudenza e dell°opportunità, e che insegnano ai loro lettori come comportarsi per andare d'accordo col mondo e fare una brillante carriera, e quelli che sottolineano la correttezza e l'onestà morale indipendentemente
dalle loro conseguenze pratiche. Nelle opere del secondo tipo cӏ spesso un misto di teoria etica - che apparterrebbe di diritto alla
sfera filosofica ~ e di esortazione e persuasione morale, che appartiene all'ambito dell'oratoria e mira all”edificazione. Infine c,è una letteratura etica strettamente filosofica, che intende fissare dei principi generali di pensiero morale, e che è prescrittiva soltanto in modo implicito o nel senso che da tali principi deduce regole di condotta. Questa letteratura può prendere la forma dei manuali sistematici di etica o dei trattati monografici che si occupano di proble-
mi e di tematiche specificamente morali. La letteratura morale del Rinascimento contempla tutti questi generi e sarebbe sbagliato affermare che uno qualunque di essi si in35
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contri solo in una particolare fase di quel periodo. Comunque la letteratura del XV e dell”inizio del XVI secolo è il più delle volte di tipo prescrittivo ed edificante. Con il procedere del XVI secolo tendono a prevalere i testi che dettano le regole del successo e descrivono i modi e i costumi del tempo. Si ha allora l”impressione di una società più solida, con criteri di condotta ben radicati, in cui l'obiettivo principale del giovane non è quello di acquisire principi etici validi, attraverso un pensiero indipendente, ma piuttosto quello di assicurarsi il successo imparando come adattarsi alla vita - cioè ai modelli di condotta e di pensiero morale comunemente accettati. Questo tipo di letteratura, se presenta maggiore interesse storico-
psicologico, perde invece solidità etica e apre la strada ai più celebri esponenti della letteratura seicentesca, come Gracián, La Bruyère o
La Rochefoucauld. Al polo opposto dei manuali di buone maniere ci sono i trattati filosofiei che illustrano la struttura teoretica e il pensiero siste-
matico in merito ai problemi morali tipici del Rinascimento. In armonia con le direzioni generali dell'umanesimo rinascimentale, la maggior parte, se non tutte, delle loro tematiche è derivata da fonti classiche. Gli autori conosciuti durante il medioevo, soprattutto Aristotele, Cicerone e Seneca, continuano a essere importanti e in un certo senso lo diventano ancora di più: assistiamo infatti a uno sforzo sempre maggiore per interpretarli e utilizzarli. Egualmente importanti sono alcune fonti della filosofia morale antica, rese disponibili per la prima volta grazie agli studi degli umanisti. Que-
ste fonti nuove comprendono la maggior parte delle opere di Platone e dei neoplatonici, di stoici come Epitteto e Marco Aurelio, di scettici come Sesto Empirico ed epicurei come Lucrezio. Da Diogene Laerzio si potevano inoltre attingere informazioni nuove su molte scuole del pensiero antico, in particolare su Epicuro. Analoga, se non addirittura maggiore, importanza era attribuita anche a un certo numero di moralisti antichi popolari, non identificati con una particolare scuola o corrente filosofica, quali per
esempio Senofonte e Isocrate, Plutarco e Luciano. Il gran numero di traduzioni, e le tante citazioni che da essi venivano attinte, dimostra come quegli autori costituissero le fonti predilette degli umanisti rinascimentali. 36
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L'impatto di queste varie tradizioni e scuole sul pensiero morale del Rinascimento fu vario e complesso; la storia del pensiero morale durante il Rinascimento è certamente correlata alla storia della filosofia, ma non vi si identifica. Solo una parte della letteratura morale del periodo era opera di filosofi nel senso tecnico della parola, e solo in minima parte era organizzata in modo sistematico. D'altra parte, alcuni dei filosofi più importanti del Rinascimento e anche interi movimenti e scuole della filosofia rinascimentale, come gli aristotelici, i platonici o i filosofi della natura, non erano interessati principalmente all”etica e i loro maggiori contributi investono altri territori filosofici, come la logica, la metafisica o la filosofia naturale. Possiamo dunque ritenere che durante tutto il Rinasci-
mento ci fosse un solido corpus filosofico morale aristotelico. Le sue espressioni più ovvie sono le numerose edizioni, traduzioni, commenti e riassunti delle opere etiche di Aristotele (tra cui, per la
prima volta, l'Etica Eudemea occupa finalmente il posto che le spetta), e anche quelle dei suoi interpreti e commentatori antichi e medievali. Si tratta di una letteratura ancora poco esplorata, che solo oggi si comincia a conoscere meglio. Comunque si può tranquil-
lamente affermare dell”etica aristotelica quel che è ormai evidente quando si parla dell'aristotelismo rinascimentale in generale, ovvero che si tratta della prosecuzione, da molti punti di vista, delle tradizioni dell'aristotelismo medievale, così vive nelle università, in Italia e altrove. D'altra parte, tra gli umanisti esisteva una forte tendenza a recuperare il pensiero originale di Aristotele, al di là delle possibili distorsioni subite per via dei commentatori e dei traduttori medievali. Senza dimenticare le combinazioni d”ogni genere operate dai filosofi aristotelici che cercavano di conciliare e sintetizzare quanto di più valido c”era nelle interpretazioni scolastiche e umanistiche di Aristotele. In etica, come nelle altre discipline, il maggior contributo degli umanisti agli studi aristotelici fu quello di fornire nuove traduzioni fondate su una migliore comprensione fi-
lologica del testo greco. Un aspetto, questo, più importante di quanto non si creda. Perché nel caso di un autore difficile e sfug-
gente come Aristotele, le cui parole erano (e ancora sono) considerate da tanti intellettuali come la fonte ultima e più attendibile della verità filosofica, una diversa traduzione può coincidere con una
diversa filosofia. Inoltre, mentre gli scolastici medievali studiavano 37
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Aristotele isolatamente dagli altri filosofi, gli studiosi umanisti lo affrontavano insieme ad altri filosofi e scrittori greci. Nel complesso, gli aristotelici umanisti erano interessati essenzialmente alle opere morali del loro maestro. Leonardo Bruni tradusse e riassunse solo l'Etica, la Politica e l'Economia, mentre Francesco Filelfo scrisse un compendio di filosofia morale basato sul pensiero delfilosofo greco; Ermolao Barbaro, anche se non si limitava agli scritti etici di Aristotele, espresse la sua preferenza per essi nei discorsi e in un compendio. Melantone, il collaboratore di Lutero, scrisse una gran quantità di trattati di etica in cui la dottrina di Aristotele viene preferita a quella di tanti altri filosofi antichi; e fu proprio per influenza di Melantone che le università riformate della Germania protestante continuarono a fondare il loro insegnamento sulla filosofia e sulle opere di Aristotele. Per effetto della diffusione degli studi aristotelici non esisteva in pratica autore di quel periodo che non conoscesse a fondo i princi-
pi dottrinari della morale aristotelica, e che non fosse incline ad adottarli o comunque a discuterli. Ifidea aristotelica secondo cui il bene supremo dell'uomo deve contemplare il minimo di vantaggi
esterni e la vita contemplativa dev”essere l”obiettivo più alto della vita umana, è comune nella letteratura morale del Rinascimento, come lo sono la distinzione da lui operata tra virtù morali e intellettuali, la sua definizione delle virtù morali come abitudini e come posizione equidistante tra due vizi opposti, le sue descrizioni dettagliate delle virtù e dei vizi individuali. L'influenza di Platone sul pensiero morale del Rinascimento è molto più limitata, anche se è ben noto il ruolo del platonismo nella filosofia rinascimentale. Certo, i primi dialoghi di Platone affrontavano tematiche morali, ed erano molto letti nelle scuole, soprattutto nei corsi di greco. Ma non conosciamo alcun sistema etico fondato su Platone, mentre ne abbiamo moltissimi ispirati da Aristotele. Ciò si deve in parte al carattere non sistematico delle opere di Platone, e ancora di più al fatto che i neoplatonici di punta del Rinascimento, come i loro predecessori antichi e medievali, erano interessati alle questioni metafisiche e cosmologiche, piuttosto che etiche. Non si preoccupavano più di tanto di problemi 0 teorie morali specifiche, ma tendevano a ridurre tutte le problema-
tiche etiche all°unico obiettivo del raggiungimento della vita con38
ii Il pensiero morale dell'umanesimo rinascimentale __i__
templativa. Su alcune delle loro teorie che occupano un posto di rilievo nell'ambito del pensiero morale ci soffermeremo in seguito. Il contributo più importante e più diffuso del platonismo a questi temi è quella teoria dell'amore, basata sul Simposio e sul Fedro, destinata a diventare argomento di poesie e di conferenze, nonché di uno specifico settore della prosa letteraria. Tra i moralisti non legati all,una o all'altra scuola filosofica, citazioni e riprese di temi platonici erano all'ordine del giorno, e questa usanza si andò incrementando con l'avvento del platonismo fiorentino, nella seconda metà del Quattrocento. L'etica stoica, come la troviamo in Seneca o la vediamo discussa nelle opere filosofiche di Cicerone, era stata un ingrediente familiare del pensiero morale medievale e continuò a esercitare una vasta influenza durante il Rinascimento, quando gli scritti dei due autori raggiunsero una popolarità senza precedenti. La visione stoica, secondo cui il bene supremo per l'uomo risiedeva unicamente nella
virtù, per raggiungere la quale occorre sradicare ogni passione, era molto conosciuta e spesso approvata. Alcune teorie stoiche affascinarono anche pensatori, come Pomponazzi, che non si possono de-
finire filosofi stoici tout court. Però, malgrado la diffusione di questo stoicismo popolare eclettico, fondato su Cicerone e Seneca, che permea il pensiero morale del Quattrocento e dell'inizio del Cinquecento, fu solo nella seconda metà del XVI secolo che le fonti greche dello stoicismo antico furono conosciute meglio e si fecero sistematici tentativi di riaffermare la filosofia stoica (e soprattutto l'etica stoica) nella sua originaria purezza. L'illustre umanista Justus Lipsius compilò, a partire dalle fonti antiche, un prezioso manuale di etica stoica che avrebbe avuto grande circolazione e successo nel Seicento, mentre lo scrittore francese Guillaume Du Vair conferì alla stessa dottrina una forma più letteraria. La maggior parte degli umanisti rinascimentali trovava l'etica stoica poco congeniale, per via del suo estremo rigore. La grande moda dello stoicismo puro si
affermò soltanto nel XVII secolo. Per capire il fascino che esercitò allora, bisogna ricordare che gli stoici sono rigorosi solo nel porre l”accento sulla differenza tra vizio e virtù, ma una larga porzione della vita umana è costituita da cose che vengono definite moralmente indifferenti. Laddove non sono implicate questioni di vizio
e virtù, il saggio stoico è autorizzato e perfino incoraggiato a segui39
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re l°utilità pratica: mentre vizio e virtù vengono circoscritti a poche decisioni ultime, l”ambito dell'utilità diventa assai ampio e il moralista stoico, sempre rigorosissimo in teoria, si può rivelare disinvolto, se non addirittura egoista, nelle questioni di vita pratica. La stessa cosa può accadere al seguace di Platone (o al mistico), non appena si tratta di intervenire su problemi estranei alla vita contemplativa.
L'etica di Epicuro, che proponeva il piacere intellettuale come il massimo obiettivo della vita umana, era molto nota e spesso discussa durante il Rinascimento. Influenzata dalla lettura sfavorevole che ne aveva dato Cicerone, la maggior parte degli umanisti la rifiutava. Ma con la graduale affermazione di una presentazione più favorevole, contenuta nelle opere di Lucrezio e di Diogene Laerzio, l'importanza annessa da Epicuro al piacere intellettuale fu in seguito pienamente apprezzata. Così l'etica epicurea fu adottata da alcuni umanisti come Lorenzo Valla e Cosimo Raimondi, e alcuni dei suoi principi s”imposero a intellettuali di profilo decisamente diverso, come per esempio Marsilio Ficino. Anche lo scetticismo antico, infine, ebbe un certo numero di seguaci durante il Rinascimento, soprattutto in epoca cinquecentesca, quando le opere di Sesto Empirico si diffusero grandemente. Il fascino maggiore dello scetticismo sta nella convinzione che, abbandonando ogni dottrina e opinione rigida, ci liberiamo da ogni inutile preoccupazione e siamo costretti ad affrontare solo le inevitabili necessità della vita. Se vogliamo istituire un criterio per la nostra condotta, dobbiamo seguire i costumi del nostro paese, almeno in ciò che concerne gli altri. In questo modo si rischia di smarrire il confine tra criteri morali e costumi accettati, anche se possiamo conservare un ambito, nella vita personale e individuale, nel quale siamo liberi di pensare e di comportarci come meglio crediamo. Lo scetticismo per ciò che riguarda la sfera della ragione non è in alcun modo incompatibile con la fede religiosa, come mostra l'esempio di Agostino; di conseguenza, nel Cinquecento, tale posizione ebbe un numero di seguaci ben maggiore di quanto non si creda. La massi-
ma espressione di quest'etica scettica si trova in alcuni saggi di Montaigne, e negli scritti del suo allievo, Pierre Charron. L”influenza dell'etica antica sul Rinascimento non si limita al-
l'accettazione delle più importanti teorie sistematiche classiche da 40
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parte di alcuni filosofi dell'epoca. L°uso costante di specifiche idee, detti o esempi antichi nella discussione delle tematiche morali è ben più diffusa. Quest'uso eclettico del materiale classico, per cui qualche autore prediletto come Cicerone poteva fungere da modello, è tipico degli umanisti e dei loro seguaci. Idee o brani particolari presi da un certo filosofo, come Platone o Aristotele, venivano indiscriminatamente combinati con quelli di altri filosofi che sposavano posizioni del tutto diverse su questioni fondamentali, oppure con quelle di moralisti antichi come Isocrate, Luciano o Plutarco, cui non si può attribuire nemmeno una posizione filosofica coerente; sfumano in questo modo i confini tra concetti o teorie filosofiche derivate da fonti diverse. Inoltre gli umanisti rinascimentali non erano interessati, come lo sono gli studiosi moderni, a sottolineare i caratteri distintivi di vari periodi, scuole e autori dell'antichità, né a contrapporli tra loro. Si tendeva ad ammirare la letteratura antica in tutti i suoi aspetti e autori (anche se alcuni erano più ammirati di altri) e ad essere sincretici oltre che eclettici; si preferiva cioè armonizzare i punti di vista di vari autori classici ed estrarre dalle loro opere una sorta di saggezza comune da apprendere, imitare e utilizzare. Le tante citazioni classiche che caratterizzano la maggior parte dei trattati degli umanisti, perfino di autori come Montaigne, e che possono risultare noiose o irritanti per il lettore moderno, non era-
no vane esibizioni di vuota erudizione, anche se spesso potevano avere anche quell'intento. Le citazioni rappresentavano l'autorità, confermavano la validità di ciò che l'autore stava cercando di dire. Per gli antichi teorici della retorica, le citazioni di autori celebri e ammirati erano uno dei banchi di prova della produzione di un autore. Agostino sottolineava l'autorità delle sacre scritture come fonte primaria del discorso teologico e durante il medioevo non solo la teologia, ma ogni disciplina conoscitiva si serviva delle autorità riconosciute, oltre che delle argomentazioni razionali, per so-
stenere le proprie teorie. Per un umanista del Rinascimento, un'affermazione di un autore classico rappresentava quell'autorità e quando le affiancava quella che oggi ci appare come un'interpreta-
zione arbitraria, in realtà non faceva nulla di diverso dai suoi predecessori e dai suoi contemporanei. In un periodo in cui si attri-
buisce grande importanza all'autorevolezza e alla tradizione, l”ori41
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ginalità non può che manifestarsi nell”interpretazione e nell'adattamento di quella tradizione. Inoltre ci può essere un elemento di originalità anche nella scelta dei brani citati. Fa una certa differenza se un autore continua a citare gli stessi brani già suggeriti dai suoi predecessori oppure se per la prima volta introduce citazioni nuove, isolandole dal loro contesto e scoprendone la rilevanza. La frequenza con cui citazioni e luoghi comuni ricorrono nella letteratura morale del Rinascimento conferisce a tutta quella produzione, eccezion fatta per le opere migliori, una certa ovvietà che risulta spesso noiosissima per il lettore e il critico moderno, soprattutto per chi già conosce le fonti antiche da cui provengono e all'interno delle quali i brani estrapolati sembrano avere un significato ben più sottile e preciso. Ma se vogliamo rendere giustizia a questi scrittori rinascimentali, dobbiamo cercare di capire le circostanze nelle quali scrivevano e gli obiettivi che avevano in mente. Quando si producono tanti libri dello stesso tipo, necessariamente la maggior parte risulterà noiosa e mediocre e pochi saranno quelli che si distinguono per i meriti intellettuali o letterari dei loro autori. La capacità inventiva umana sembra essere limitata, e la ripetitività è la regola, più che l'eccezione, anche laddove non si tratti di vera e propria copiatura o plagio. Del resto, nessuno pensava che uno stesso lettore dovesse leggersi tutti i trattati che si pubblicavano su un dato argomento, come oggi il normale studente non legge più di uno o due manuali sullo stesso tema. Ogni trattato si rivolge ai propri lettori, e intende fornire loro la stessa dose di informazione generale che altri lettori possono ricavare da altri testi sugli stessi argomenti. E questo E: ancora più vero nel caso delle orazioni che venivano lette in una sola circostanza e pubblicate solo nelle rare
occasioni in cui riscuotevano molto successo. L”orazione veniva composta per intrattenere ed edificare il pubblico, adattando all'occasione idee generali. Se a Firenze era diffusa l'abitudine di ac-
cogliere ogni nuovo gruppo di magistrati con un discorso in lode della giustizia, non era però così importante che ogni nuovo oratore producesse idee nuove o profonde sul significato della giustizia il suo compito era solo quello di impressionare l'uditorio, suscitando negli astanti il desiderio di osservare la giustizia nelllamministrazione dei loro uffici. Questo era certamente di grande impor-
tanza pratica per la città nel suo complesso. Poiché l'orazione era la 42
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forma principale della produzione letteraria umanistica, il suo esempio poteva essere applicato anche agli altri settori della stessa. Ogni trattato morale doveva esortare ed edificare i suoi lettori, istruendoli in materie di grande importanza umana e pratica, e questo nella maggior parte dei casi era più importante e apprezzato della presentazione di un pensiero nuovo o originale. In altre parole, non dovremmo avvicinarci alla letteratura morale del Rinascimento con eccessive aspettative rispetto alla sua profondità o al suo spessore, ma tenendo presente il limite dei suoi obiettivi e la sua adeguatezza nel conseguirli. La frequenza delle idee e delle citazioni antiche negli scritti morali degli umanisti del Rinascimento, o della letteratura umanistica in generale, solleva un'altra questione su cui si è aperto un vivace dibattito: qual era l”atteggiamento dell'umanesimo rinascimentale nei confronti del cristianesimo, e in che senso e in quale misura esi-
steva un”inclinazione verso il paganesimo? L°accusa di paganesimo fu rivolta ad alcuni umanisti da qualche teologo loro contempora-
neo, per essere poi ripresa da un gran numero di storici moderni, alcuni dei quali hanno trasformato l'accusa in elogio. Furono però davvero pochi i tentativi di riprendere le religioni pagane dell'antichità classica, come hanno sostenuto, in qualche caso, alcuni studiosi moderni e contemporanei. Anche se la mitologia pagana trionfava nella poesia e nei trattati dell'epoca, il suo senso non era quello di sostituire la religione cristiana e il suo corredo di immagini, ma di completarla. Nella maggior parte dei casi si trattava solo di un ornamento letterario sanzionato dai precedenti antichi. Lad-
dove aveva un intento più serio, il suo uso era giustificato dall'allegoria - con cui si attribuiva alle storie pagane un significato nascosto che andava a confermare la verità cristiana. Questo atteggiamento culmina in Pico della Mirandola e nella_ sua idea di teologia poetica, cioè di una verità filosofica e teologica che si può scoprire attraverso finterpretazione allegorica della poesia e della mitologia pagana. Eppure l'impatto principale del paganesimo sul pensiero morale del Rinascimento consiste nel grande debito che quel pen-
siero contrae nei confronti delle idee filosofiche antiche che già abbiamo illustrato. Il compito di assimilare il pensiero filosofico e
morale dei classici al cristianesimo si era già presentato ai Padri del43
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la Chiesa e poi ancora a tanti pensatori medievali. Da quei primi tentativi, il Rinascimento si distanziava se non altro per la diversa entità del fenomeno. I Padri della Chiesa tendevano a inserire il cristianesimo nei precedenti schemi di pensiero, ancora familiari aloro e ai loro contemporanei. Gli umanisti volevano adattare le idee classiche a una visione cristiana del mondo ormai acquisita. E comunque l'affinità tra gli umanisti e i Padri della Chiesa è già stata evidenziata da alcuni storici moderni come Toffanin e gli stessi umanisti erano in una certa misura consapevoli di quell°affinità, perché nel difendere la «poesia››, cioè la cultura umanistica e la lettura degli autori pagani, dalle critiche dei teologi del loro tempo, citavano il precedente dei Padri della Chiesa. E fuor di dubbio che la traduzione, fatta da Bnini, della lettera in cui Basilio, uno dei Padri della Chiesa, difendeva la lettura dei poeti pagani da parte di un giovane cristiano, dovette la sua enorme popolarità proprio all'argomento trattato. Moltissimi erano gli umanisti che non si occupavano di problemi teologici o religiosi e che nei loro scritti non ne facevano cenno. E tra quanti lo facevano, i più importanti non intrapresero mai una critica generale della tradizione religiosa, a
differenza di ciò che accade nel XVIII secolo. In generale lodavano i Padri della Chiesa e i classici cristiani, e attaccavano la teologia scolastica come un'arida distorsione della dottrina originaria e della devozione cristiana. Alcuni di loro attaccarono le debolezze che vedevano nella Chiesa del loro tempo, soprattutto nel monachesimo. Quando scrivevano su tematiche morali, gli umanisti cercavano di armonizzare le idee cristiane e quelle antiche alla maniera di Erasmo, oppure discutevano di argomenti morali poggiando su basi esclusivamente classiche e laiche, senza tuttavia manifestare alcuna ostilità nei confronti del cristianesimo e dando piuttosto per scontata la compatibilità tra i due mondi, sulla scia di Alberti e di tanti altri umanisti italiani. Nel XVI secolo, dopo la riforma protestante e quella cattolica, troviamo studiosi umanisti tra i seguaci di entrambe le fazioni principali, così come tra i seguaci di movimenti eretici minori, o ancora tra coloro che cercavano di tenersi a distanza dalle lotte religiose. Ciò dimostra ancora una volta che l'umanesimo rinascimentale non può essere identificato in blocco con un certo insieme di opinioni o convinzioni,
ma e piuttosto caratterizzato da un ideale culturale e da una gam44
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ma di interessi filologici, letterari e intellettuali che ciascun umanista sapeva poi combinare con una varietà di opinioni professionali, filosofiche o teologiche. Nel cercare di esaminare più da vicino il pensiero morale in epoca rinascimentale, sarà bene concentrarsi sui temi principali di quella letteratura, piuttosto che sulle idee dei singoli scrittori o intellettuali. La natura di questa letteratura, con la sua posizione incerta tra
il pensiero filosofico e quello popolare, la sua derivazione dalle fonti classiche, il diffuso eclettismo nonché l'ovvietà che la caratterizzano, sembra esigere questo tipo di approccio.
La forma più tecnica della letteratura rinascimentale di argomento morale è quella del trattato generale di etica, generalmente scritto per gli studenti. Poiché Aristotele ha sempre rappresentato la base principale dell'istruzione universitaria nelle discipline filosofiche, la gran parte dei trattati generali di etica prende la forma di commento - oppure di introduzione, parafrasi o sintesi - dell”Eti-
ca Nicomacbea o della Politica aristoteliche. Nel XV secolo meritano di essere ricordati i commenti di Donato Acciaiuoli e il Compendium di Ermolao Barbaro, mentre nel XVI ci sono quelli del padovano Francesco Piccolomini, e di altri studiosi come Alessandro Piccolomini, cui si deve un manuale dell'etica aristotelica scritto in italiano, il che ci dice la sua intenzione di rivolgersi al più vasto pubblico colto. Fuori d°Italia, l'introduzione di jacques Lefèvre d'Etaples all'opera morale di Aristotele e gli scritti di Melantone su temi etici rappresentano i tentativi più importanti di riaffermare l'etica aristotelica - in particolare l'idea secondo cui i beni naturali contribuiscono al bene supremo della felicità e le virtù morali rap-
presentano il punto intermedio tra due estremi opposti - e di conciliare quest°etica naturale con gli insegnamenti delle sacre scritture. Gli interrogativi morali su Aristotele sollevati a Oxford da John
Case sono importanti in quanto rappresentano un raro esempio di un genere letterario che dev'essere fiorito anche nelle università in-
glesi in misura ben superiore a quanto non si creda. Più eclettici, ma pure fondamentalmente aristotelici, sono i manuali di Francesco Filelfo o di Sebastian Fox Morcillo. Una prima e molto popolare introduzione all'etica, l'Isagocicon Moralis Disciplinae di Leonardo
Bruni, segue Aristotele nella trattazione delle virtù morali e intel45
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lettuali, ma contiene una visione in qualche modo eclettica del bene supremo. Bruni fonda il fine ultimo della vita umana essenzialmente sulla virtù, ma annette anche una qualche importanza ai vantaggi esterni, rimanendo con questo abbastanza vicino alle posizioni aristoteliche; al tempo stesso però sostiene che quell”impostazione è essenzialmente identica a quella di stoici ed epicurei. Il tentativo più coerente di presentare l'etica stoica in un manuale sistematico è quello fatto da ]ustus Lipsius verso la fine del Cinquecento, anche se la sua influenza si sarebbe avvertita maggiormente nel se-
colo successivo. A parte questi manuali di etica, esiste un certo numero di trattati umanistici più informali e di dialoghi in cui viene affrontato il tema centrale dell'etica antica, cioè la felicità, ovvero il bene supremo. Se Petrarca aveva criticato Aristotele per la sua teoria secondo cui l'uomo può raggiungere il bene supremo in vita, posizione riecheggiata da Bartolomeo Fazio e da altri, molti autori identificavano il fine della vita con la conoscenza di Dio e il godi-
mento che ne deriva, ma credevano che quel fine potesse essere raggiunto in vita, almeno da alcuni e per qualche tempo. Posizione questa sostenuta soprattutto dal più importante dei seguaci di Platone, Marsilio Ficino, che su quel tema scrisse una serie di trattatelli. Bartolomeo Platina sottolinea l'importanza della sopportazione e della saggezza in senso stoico e Pietro Pomponazzi si avvicina allo stoicismo piuttosto che ad Aristotele, quando nel suo trattato sull'immortalità definisce la virtù morale come il compito precipuo dell'essere umano, sottolineando come la virtù sia premio a se stessa, così come la malvagità punizione. Anche la visione epicurea, secondo cui il piacere è il bene supremo, trovò i suoi
sostenitori. Il più famoso, Lorenzo Valla, considera l”epicureismo come la migliore delle filosofie pagane, ma sottoscrive come propria una sorta di epicureismo cristiano in cui i piaceri della vita presente sono abbandonati in nome dei piaceri, fisici e spirituali, promessi al fedele cristiano nella vita futura.
Un certo numero di trattati umanistici si occupa delle singole virtù, un tema che occupa gran parte dell'Etica aristotelica e che viene scelto per un trattamento monografico. Molte delle virtù, come per esempio il coraggio, la magnanimità o la prudenza, sono discusse nei trattati morali dell'umanista napoletano Giovanni Pon46
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tano. I tentativi di definire le singole virtù sono accompagnati da una varietà di regole ed esempi morali e l'attenzione va tanto all'eleganza stilistica quanto all”edificazione morale e alla precisione di definizioni o distinzioni filosofiche. Analoghi trattati furono scritti da molti italiani e da altri umanisti in generale. Conosciamo un'intera letteratura dedicata alle virtù più alte, prima fra tutte la saggezza, che veniva identificata con il raggiungimento della conoscenza pura o con l'abilità morale e pratica negli affari della vita. Quest'ultima tendenza culmina in Pierre Charron, teologo e filosofo scettico dell'inizio del XVII secolo. Analoghi trattati furono scritti su singoli vizi come l'ingratitudine o l'avarizia. Ce n'è uno famoso, su quest'ultima, di Poggio Bracciolini, che menziona anche alcuni benefici effetti di quel vizio, tanto che alcuni storici hanno voluto vedervi un legame con lo spirito del moderno capitalismo.
Il movimento umanistico era strettamente identificato con una riforma del programma e del curriculum delle scuole secondarie. Molti umanisti erano istitutori o insegnanti di scuola, e fu grazie al-
la preparazione impartita dalle scuole che le idee umanistiche poterono influenzare la maggior parte delle persone colte del periodo; idee che poi costoro portavano con sé nella più ampia sfera della vita pubblica e professionale. E naturale dunque che gli umanisti si preoccupassero soprattutto dei problemi educativi. I trattati sull'educazione dei giovani costituiscono una gran parte della prosa umanistica ed è grazie a essi che l'umanesimo rinascimentale occupa un posto di rilievo nella storia delle teorie come in quella della pratica educativa. I primi e più importanti furono quelli di Pier Paolo Vergerio il Vecchio e di Leonardo Bruni, cui possiamo aggiungere quello sull'educazione, attribuito a Plutarco, che fu tradotto da Guarino Veronese; quest'ultimo, insieme a Vittorino da Feltre, è il più famoso
e fortunato educatore umanista dell'Italia quattrocentesca. Altri influenti trattati sull'educazione furono quelli di Maffeo Vegio e di Enea Silvio Piccolomini, un insigne umanista che intraprese la car-
riera ecclesiastica fino a giungere al soglio pontificio col nome di Pio II. Fuori d›Italia, troviamo numerosi trattati sull'educazione,
scritti da umanisti come Erasmo e come Vives, da Wimpfeling e 47
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Camerarius in Germania e da Ascham in Inghilterra. Si trattava di opere pensate per gli studenti più giovani o per i genitori dei futuri studenti, allo scopo di convincerli dell°importanza dell'educazione umanistica. Molto spazio era dedicato all'elogio dell'insegnamento della letteratura greca e latina, il cui studio era il cuore stesso dell°educazione umanistica, e al valore di tale educazione per il futuro cittadino o uomo politico. Spesso l'autore forniva vere e proprie liste di letture consigliate, discutendo dei meriti e del valore educativo di specifici autori classici e delle loro diverse opere. A parte la genuina preoccupazione di una classe dominante tutta imbevuta di un'eredità culturale di indiscusso valore intellettuale, gli educatori umanisti sottolineavano l'importanza del valore morale intrinseco nello studio della letteratura antica, della storia e della filosofia. Dalla lettura degli autori classici il giovane doveva acquisire una serie di idee morali di fondo, come anche un repertorio di detti e di esempi che gli avrebbero conferito la preparazione necessaria per affrontare le diverse circostanze della vita. Nel sottolinea-
re i valori morali dell'educazione classica, gli umanisti di fatto rispondevano all'accusa lanciata loro da alcuni teologi, secondo cui la lettura dei poeti e degli scrittori pagani avrebbe corrotto la morale dei giovani. Gli umanisti naturalmente sapevano che molti passi, nella letteratura antica, non avrebbero superato l'esame rigoroso di un censore cristiano, e molti di loro non esitarono a imitarli/in versi e in prosa, ripetendo con Marziale che la loro vita era pura anche se i loro versi potevano essere licenziosi. D'altra parte sapevano ben distinguere tra la letteratura scritta da e per adulti e le esigenze educativeidei giovani. Nei trattati dedicati all'educazione di questi ultimi, espungevano dalle letture consigliate quegli autori che avrebbero prestato il fianco alle critiche dei moralisti: Erasmo sottolineava come fosse importante non farsi influenzare dalla lettura degli antichi fino al punto da imitarne modi e costumi. In tal modo gli umanisti riuscirono a conciliare i loro ideali culturali con le aspirazioni morali del loro tempo e a rendere i loro principi educativi accettabili per tutti tranne che per i teologi più ottusi.
L'autentico ideale umano del Rinascimento è stato spesso descritto come quello dell,uomo universale, oggi diremmo della personalità completa. Raramente s'incontra quel motto nella letteratu-
ra del tempo, ma la vita di uomini come Leon Battista Alberti o 48
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Leonardo da Vinci illustra la ricerca dell'eccellenza in una gran quantità di imprese; e i trattati sull'educazione presentano un uomo capace di distinguersi nelle più diverse attività, da quelle fisiche e artistiche a quelle intellettuali e pratiche. Questo è evidente anche in un altro ampio ambito letterario che ha a che fare non tanto con lleducazione in generale, quanto con la formazione di alcuni speciali gruppi o classi sociali. C'è per esempio un gran numero di trattati dedicati all”educa-
zione del buon principe, una forma letteraria che ha suscitato forte interesse tra storici della letteratura e del pensiero politico. Lo «specchio dei principi» era un importante genere letterario duran-
te il tardo medioevo, ed è stato già dimostrato come l'ideale del re cristiano, fondato sui costumi germanici e sulle teorie teologiche, si sia gradualmente trasformato, per influsso degli studi di diritto ro-
mano e della Politica di Aristotele. Nell'Italia del XV secolo la monarchia era fortemente radicata negli stati di Napoli e Milano e, in
scala minore, anche in Piemonte, a Ferrara e a Mantova, per non parlare dei tanti minuscoli ed effimeri principati. E in questo scenario che vanno interpretati i numerosi trattati sul buon principe scritti da umanisti come Platina o Pontano e altri. Nuove e importanti fonti di tali opere erano le opere di Isocrate e di Plutarco, ampiamente diffuse in un gran numero di traduzioni. Si trattava di lavori in gran parte teorici, che si diffondevano sull”elenco delle virtù
che il principe doveva possedere nonché sugli esempi antichi di buona condotta. E significativo che il tono di queste opere sia per lo più laico e non religioso, e che il premio promesso al buon principe sia la fama imperitura piuttosto che la beatitudine nella vita futura. La ricerca della fama era la preoccupazione centrale degli
umanisti e dei loro contemporanei, e la forza del suo ascendente si può verificare in tanti episodi e in tanti scritti del periodo. Un altro dei temi discussi da quei trattati era il rapporto tra
virtù e vantaggio pratico: in generale gli autori concludevano, con Cicerone, che la condotta più virtuosa era alla lunga anche quella più vantaggiosa. E stato fatto notare, da studiosi come Allan Gilbert e Felix Gilbert, che il Principe di Machiavelli, anche se originale per il realismo estremo e per l'enfasi che pone sull'opportunità, si ricollega, per tema e per problemi affrontati, alla letteratura tardo medievale e proto-umanistica su quale sia il principe mi49
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gliore. Nel XVI secolo l'affermazione di forti monarchie nazionali fuori dall'Italia fa da sfondo a un'importante serie di trattati umanistici di Budé, Sepúlveda ed altri. Il più famoso è quello di Erasmo da Rotterdam, Educazione di un principe cristiano, che viene esplicitamente presentato come equivalente del trattato di Isocrate Ad Nicoclem, tradotto dallo stesso Erasmo. Al principe si chiede di leggere un gran numero di autori antichi, oltre alla Bibbia. Tra i suggerimenti per l'amministrazione del governo, Erasmo ricorda al principe che egli è solo un membro dello Stato, che le sue leggi si fondano sostanzialmente sul consenso del popolo, e che il bene pubblico è l”unico criterio per giudicare le leggi. Erasmo vuole limitare la pena di morte ai casi estremi e spinge i governanti a sottoporre le cause a un arbitrato, appellandosi su basi religiose all'ideale della pace universale, un tema questo che affronta anche altrove.
Nell'Italia del XV secolo, l'ideale della libertà repubblicana era vivo quanto quello dello Stato monarchico, come si vede in tante opere degli umanisti. La repubblica romana era un modello proposto all'imitazione tanto quanto l'impero, e non è un caso che Poggio, cittadino di Firenze, abbia proclamato la superiorità di Scipione, in quanto simbolo della virtù repubblicana, su Cesare difes`o da Guarino, suddito del marchese di Ferrara. Il paragone tra le diverse forme di governo illustrate nelle opere di Platone, Aristotele e Polibio trovava un parallelo negli scritti di Francesco Patrizi, Aurelio Brandolini e Machiavelli- che nella sua carriera politica e nei Discorsi su Livio dichiarava di preferire a tutte la repubblica. Quando la libertà politica fiorentina fu messa in pericolo dal regime mediceo, Alamanno Rinuccini scrisse, ma probabilmente non pubblicò, il suo De libertate. Gli storici spesso esagerano l'importanza del fatto che tante delle repubbliche cittadine del XII e del XIII secolo siano cadute sotto forme diverse di dispotismo durante il XIV
e il XV secolo. La repubblica veneziana, governata da un ristretto numero di nobili colti e responsabili, divenne sempre più potente, e fu considerata un modello da molti scrittori politici, in virtù della sua ricchezza e stabilità. La repubblica fiorentina, molto meno stabile, e agitata da una serie di cambiamenti e di rivoluzioni, riuscì a mantenere il suo potere ela sua indipendenza nei confronti di di50
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versi attacchi esterni e conquistò, soprattutto nel XV secolo, un°egemonia politico-culturale riconosciutale in tutta l'Italia e l'Europa. Quando fu minacciata, tra la fine del Trecento e l'inizio del Quattrocento, dai ripetuti attacchi dei Visconti di Milano che stavano espandendo il loro potere in vaste zone dell'Italia settentrionale e centrale, Firenze riuscì a mobilitare contro il nemico tutte le sue risorse intellettuali e materiali. In questa crisi politica, numerosissimi furono gli umanisti fiorentini che esaltarono gli ideali dello Stato repubblicano e del cittadino responsabile, chiamato al gover-
no dello Stato. I-Ians Baron, in una serie di studi, ha descritto efficacemente l'umanesimo civile che fiorì a Firenze durante la prima
metà del XV secolo e che certamente merita attenzione come una delle più straordinarie fasi dell'umanesimo rinascimentale, anche se sarebbe sbagliato identificarlo con l'umanesimo rinascimentale nel
suo complesso. C'era una buona dose di «umanesimo dispotico›› anche nell'Italia del XV secolo, e sarebbe impossibile comprendere sotto l'etichetta di «umanesimo civico›› tutta intera la letteratura
politica del periodo rinascimentale; tantomeno quindi il grande corpus di letteratura umanistica che non si occupava affatto di pro-
blemi politici. L'umanesimo civico fiorentino trovò la sua espressione migliore negli scritti di Leonardo Bruni, Leon Battista Alberti e Matteo Palmieri. Costoro presentano la cultura umanista come uno strumento al servizio della vita attiva di un cittadino fortemente impegnato in ciò che riguarda i propri affari e la propria repubblica. Un uomo, quindi, che non solo occuperà il tempo libero con la lettura dei migliori autori, ma seguirà nella sua vita e nelle sue attività gli esempi e i precetti da tali autori proposti. Anche se non era sempre detto a chiare lettere, era evidentemente sottinteso che il cittadino illustre sarebbe stato chiamato di tanto in tanto a tene-
re discorsi o a comporre lettere di interesse pubblico, e che la sua formazione umanistica gli avrebbe conferito l”abilità letteraria ne-
cessaria ad assolvere elegantemente a quei compiti, così da ottenere fama per sé e per la sua città. La storia fiorentina tra il 1434 e il 1537 fu caratterizzata da una graduale transizione dalla forma di governo repubblicano alla monarchia medicea: uno sviluppo rallentato e a volte interrotto dalla forte resistenza dei seguaci della tradizione repubblicana. Le lotte politiche tra le diverse fazioni erano accompagnate da controversie letterarie, come spesso succe51
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de: il declino e la caduta della repubblica fiorentina produsse così una lunga serie di trattati politici in difesa della forma di governo repubblicana, nei quali si illustravano i modi migliori per conferirle stabilità e perfezione. Tutte le città italiane, repubblicane o monarchiche che fossero, annoveravano una classe di famiglie nobili di ascendenza feudale o mercantile. L'influenza politica di quella classe variava da un luogo all,altro. A Venezia, i nobili erano al potere e monopolizzavano tutte le funzioni pubbliche. A Napoli, la nobiltà feudale possedeva grandi tenute terriere e godeva dei privilegi tradizionali, ma i re tendevano a ridurre quei privilegi e a costruire una monarchia e una burocrazia moderne, fatte di persone competenti e direttamente responsabili, proprio come avrebbero fatto, nel XVI secolo, i re di Francia, Inghilterra e Spagna. A Firenze, le vecchie famiglie erano divise in fazioni rivali e, a seconda del regime prevalente in un periodo o nell'altro, alcune di esse venivano escluse dalle cariche pubbliche, se non addirittura esiliate, mentre altre ammini-
stravano la repubblica insieme a persone capaci di origini più umili. Comunque, indipendentemente dalla loro posizione politica, le famiglie nobili riuscirono a conservare notevole ricchezza e prestigio sociale, e il loro stile di vita fu preso a modello dalla nuova classe emergente che si andava affermando negli affari, in politica o anche nella vita professionale. In ogni caso, ad eccezione _Napoli e, forse, di Roma, la nobiltà non era più feudale ma si era totalmente urbanizzata, poteva dunque essere più adeguatamente definita come un patriziato. Gli umanisti riuscirono a conquistare alla loro causa questa importante classe, ne educavano i figli che, come erano riusciti a dimostrare, avevano bisogno di una buona educa-
zione, secondo il modello umanistico, per essere all'altezza del loro status sociale. D'altra parte, nutrivano anche l'ambizione di raggiungere a loro volta un'analoga posizione sociale e almeno alcuni
di loro ci riuscirono. Perché l'umanista di professione poteva fare la carriera di cancelliere o segretario dei principi o della repubbli-
ca e così, insieme alla lunga schiera di avvocati, entrare a far parte di quella fascia sociale che avrebbe preso il nome di noblesse de rolre. In questo panorama si comprende meglio come mai gli umanisti del XV secolo fossero interessati al problema della nobiltà e si
domandassero se essa derivasse dalla nascita o dal merito persona52
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le. La questione era già stata discussa da un certo numero di autori tardo medievali, alcuni dei quali avevano esaltato la superiorità del merito personale come base della nobiltà. Nel XV secolo si diffuse tutta una serie di trattati, De nobilitate, che affrontano e dibattono questo particolare problema. Negli scritti di Poggio Bracciolini, Buonaccorso da Montemagno, Bartolomeo Platina, e nel dialogo ancora inedito ma molto interessante di Cristoforo Landino, viene fortemente difesa la tesi secondo cui la nobiltà si fonda sulla virtù. Nell'opera di Buonaccorso da Montemagno, che godette di grande popolarità, il problema è trattato alla tipica manie-
ra umanista. Due romani competono per la mano di una nobildonna, e sostanziano le loro credenziali con discorsi elaborati; uno dei due lodando gli antenati illustri, l”altro le sue conquiste personali. L'autore non ci dice quale dei due abbia sposato la fanciulla, ma il secondo discorso, quello che difende il merito personale, sembra molto più forte. Tale tendenza, palese in queste opere, ha condotto molti studiosi a considerare la preferenza per il merito
personale nei confronti della nobiltà ereditata come un fenomeno tipico dell'umanesimo rinascimentale. Questo è in qualche misura
giustificato, anche se non del tutto. Gli autori dei trattati che abbiamo citato erano in massima parte toscani. E non va dimenticato come le rivendicazioni della nobiltà napoletana abbiano trovato un portavoce in Tristano Caracciolo e quelle della nobiltà veneziana in Lauro Querini, nobile veneziano e illustre umanista. Ancora una volta è evidente come sia impossibile identificare l'uma-
nesimo con una data serie di opinioni, anche se le opinioni in questione possono essere state sostenute da alcuni dei suoi rappresentanti. Il denominatore comune, come sempre, non è nelle opinio-
ni, ma in un ideale culturale ed educativo. Un altro interessante gruppo di trattati morali cerca di descrive-
re, e di additare a modello, l'ideale umano del cittadino perfetto, del magistrato, del cortigiano, o del gentiluomo. Si tratta dell'ideale di un membro della classe dirigente, indipendentemente dalle sue connotazioni politiche, proposto alllimitazione di vecchi e giovani. Questo genere, che nel XV secolo è rappresentato dai trattati di Al-
berti, Platina e altri, divenne particolarmente importante nel Cinquecento. Il più famoso scritto della serie è Il libro del Cortegiano 53
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di Baldassarre Castiglione, che fu tradotto in moltissime lingue e imitato in tutta Europa. Quest'opera, di grande valore stilistico, che occupa un posto importante nella storia della prosa letteraria italiana, palesemente ritrae un membro dell'aristocrazia, e riflette numerosi tratti personali dell'autore, diplomatico attivo per diversi anni al servizio dei principi di Mantova e della curia papale. Il Cortegiano di Castiglione presenta un ideale umano di grande respiro e riflette il concetto di uomo universale. Sicuramente esercitò un”influenza civilizzatrice sulle classi dirigenti dell”Europa rinascimentale. Al di là delle virtù tradizionali di prodezza fisica e di coraggio, il cortigiano deve avere maniere educate, partecipare in modo brillante alla conversazione elegante, vantare una buona educazione letteraria e una discreta competenza nelle arti della pittura, della musica e della danza. Un equivalente inglese lo si trova nel Bolee of the Governour di Sir Thomas Elyot, in cui le considerazioni reli-
giose e morali occupano però uno spazio decisamente maggiore. In seguito, nello stesso secolo, l'accento viene posto sempre più sulla descrizione delle buone maniere in società e sulle forme dell”educata conversazione. Il Galateo di Giovanni Della Casa e il libro di Stefano Guazzo Della civile conversazione ebbero grande diffusione, furono letti, tradotti e imitati, e costituiscono l'anima di una grande produzione letteraria internazionale, generalmente catalogata come testi di cortesia, di buona condotta o di buone maniere. Louis Wright ha mostrato come in Inghilterra, sempre più spesso, tale letteratura si rivolgesse non solo ai membri dell'aristocrazia, ma anche alla classe media dei mercanti e dei professionisti, ansiosi di consolidare la loro posizione sociale imitando i modi della vecchia classe dirigente. Questa letteratura apre la strada ai trattati del perfetto gentiluomo che sarebbero stati composti nel XVII secolo, ma contiene anche una notevole serie di regole prudenziali e sembra indirizzata in parte al giovane che, dotato di talento ma di mezzi modesti, cerca di avanzare nella vita e fare carriera. L'importanza delle virtù morali viene predicata sempre di meno, anche se il possesso di quelle virtù viene dato più o meno per scontato.
A parte l'ideale generalizzato del cortigiano o del gentiluomo, esistevano numerosi trattati sui doveri di chi aveva un ruolo specifico o esercitava una determinata professione; erano libri sui dove54
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ri del magistrato o dell'ambasciatore o perfino su quelli del vescovo, in cui le prescrizioni morali si combinavano con i consigli relativi alla condotta pratica degli affari. Nell'ampia produzione letteraria di saggi sull°arte pubblicati in epoca rinascimentale, le regole tecniche del mestiere venivano abbellite dai consigli morali rivolti all'artista. Quello che Cicerone e Quintiliano avevano richiesto al-
l”oratore - soprattutto quando esigevano che allo spessore morale e alla cultura generale unisse la competenza tecnica adeguata alla sua professione -, ora veniva applicato a tutte le professioni, specie a quella dell'artista. Il pittore, lo scultore e l'architetto non solo ac-
quisirono uno status sociale più alto e un prestigio maggiore di quello che avevano avuto in passato o che avrebbero avuto in seguito, ma tesero anche ad associare l'abilità artistica con la loro competenza e i loro interessi letterari scientifici o filologici, come possiamo vedere nelle opere di Alberti, Piero della Francesca, Leonardo, Dürer, Michelangelo e Rubens, e quindi a reclamare per la
loro professione le doti morali in precedenza rivendicate dagli studiosi umanisti. Una delle maggiori innovazioni prodotte dalla riforma protestante fu l'abolizione degli ordini monastici che avevano avuto un ruolo tanto importante durante il medioevo e che conservarono, anzi accrebbero, la loro importanza nel mondo cattolico moderno. La mossa rivoluzionaria dei riformatori era stata preceduta, come è noto, da secoli di attacchi medievali ai vizi e ai difetti dei monaci e dei frati, accuse che erano, almeno in parte, giustificate e alle quali la Controriforma del XVI secolo cercò di ovviare. Gli umanisti diedero il loro contributo alla critica del monachesimo. Valla e altri scrissero contro i monaci, ed Erasmo, nel suo Elogio della follia, li
coprì di ridicolo. Va notato però che Erasmo, nella sua opera, non risparmiò nessuna delle classi della società contemporanea, neppure la sua, quella dei grammatici o dei retori; altrove, inoltre, insiste nel dire che una vita pia non è monopolio degli ordini monastici, ribadendo llideale di devozione laica ereditato dalla «Devozione moderna››, il movimento mistico olandese di cui aveva frequentato le scuole. Tuttavia, non si spinge mai ad auspicare l'abolizione degli ordini. Tra i primi umanisti italiani troviamo scrittori e studiosi insigni come Petrarca, Salutati ed Ermolao Barbaro che a dire il vero elogiarono la vita monastica; e molti furono i dotti monaci, come 55
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Ambrogio Traversari, che parteciparono in modo significativo al movimento umanista. Ancora una volta sarebbe però sbagliato identificare l'umanesimo nel suo complesso con una o con l”altra posizione in merito a questa importante questione. Molto è stato scritto da Burckhardt e da altri a proposito del posto della donna nella società rinascimentale. Le donne non avevano ancora acquisito un posto di rilievo nella vita professionale e le loro attività erano ancora essenzialmente confinate all'ambito domestico e familiare. Però, in questo ambito ristretto, erano rispettate e soprattutto le figlie dei principi, dei nobili e degli studiosi ricevevano un'educazione letteraria e si distinguevano poi a loro volta come protettrici delle lettere e delle arti, o addirittura come studiose e scrittrici loro stesse. E significativo che uno dei più importanti
trattati sull'educazione, il De studiis et litteris di Leonardo Bruni, sia dedicato a una donna. Molti trattati umanistici del Quattrocento affrontano il problema del matrimonio e della famiglia, e si sof-
fermano ampiamente sulla morale e sui doveri pratici della moglie e della madre. Esempi famosi e importanti di questo genere letterario sono il De re uxoria di Francesco Barbaro e il Della famiglia di Leon Battista Alberti. Il primo dà maggiore risalto ai consigli morali, mentre il secondo e ricco di deliziose pagine sul modo in cui la moglie di un cittadino ricco deve governare la casa, i servitori e i figli. Nel XVI secolo Castiglione, nel suo Cortegiano, dedica un capitolo a parte alla dama di corte, l'equivalente femminile del suo personaggio maschile, e Vives compone un importante trattato Sull'educazione della donna cristiana. Più tardi, in Italia come altrove, fiorisce tutta una serie di opere sulla condotta delle donne, in cui si dava grande spazio alle regole prudenziali e si arrivava persino a fornire consigli sull”abbigliamento e sull'uso dei cosmetici. Gran parte della produzione letteraria che va dalla fine del XV alla fine del XVI secolo affronta il problema dell'amore. Un illustre esempio medievale del genere era stato il libro di Andrea Cappellano, in cui la tradizione cavalleresca francese dell'amore cortese riceveva una migliore espressione teorica, anche se non filosofica, di quella che troviamo nella poesia lirica ed epica del periodo. Più filosofica era la poesia lirica di Cavalcanti, di Dante e dei loro con-
temporanei italiani; la dissertazione in prosa sull'amore comincia 56
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con la Vita nuova e il Convivio di Dante, oltre che con i commenti sull'oscura poesia del Cavalcanti. A tutto ciò diede nuovo impulso e impresse una direzione nuova Marsilio Ficino, capo dell'Accademia platonica fiorentina nonché uno dei più illustri pensatori neoplatonici del Rinascimento. Fu lui a mettere a disposizione del lettore occidentale le prime traduzioni complete del Simposio e del Fedro (di cui Leonardo Bruni aveva già tradotto qualche brano) e a lui si devono anche importanti commenti sui due dialoghi. Quello
sul Simposio soprattutto divenne particolarmente famoso. Basandosi su Platone, ma trasformandone la dottrina per influsso di altre tradizioni filosofiche, letterarie e teologiche, Ficino concepiva l”amore per un altro essere umano come una forma preliminare e dissimulata dell'amore verso Dio, un amore che trova soddisfazione e godimento solo nella conoscenza diretta di Dio, meta raggiunta in vita solo da pochi e per breve tempo, ma che sarà conquistata per sempre nella vita futura da coloro che vi hanno aspirato sulla terra. Senza rifiutare l'amore sessuale e terreno, Ficino canta soprattutto
le lodi dell'amore celeste e puro, ovvero il reciproco affetto di due persone dedite alla vita contemplativa che perciò riconoscono come il loro rapporto si fondi sull'amore che ciascuno porta a Dio. Un amore divino che Ficino sosteneva di definire secondo gli insegnamenti di Platone e che di conseguenza, creando un'espressione destinata a diventare famosa ma anche ridicola, chiama amore platonico o socratico. La teoria dell'amore platonico costituisce solo una piccola, anche se importante, parte del sistema filosofico di Ficino, ma riscosse grande popolarità indipendentemente dal resto del suo lavoro, soprattutto tra poeti e moralisti. La nozione di amore platonico fu ripresa da un gran numero di poeti, tra cui Lorenzo de' Medici e Michelangelo. Inoltre il commento di Ficino al Simposio di Platone divenne la sorgente di tutta una produzione letteraria di trattati sull”amore, in Italia e altrove, in cui la nozione filosofica di amore platonico veniva ripetuta, sviluppata, adattata e a volte distorta. Tra gli autori di questi trattati annoveriamo filosofi insigni come Pico della Mirandola, Leone Ebreo (da cui Spinoza sembra aver ereditato la nozione dell'amore intellettuale di Dio), Francesco Patrizi e Giordano Bruno, così come altri famosi scrittori, come Bembo e Castiglione. L'ultimo libro del Cortegiano di Castiglione tratta infatti di amore platonico secondo le linee trac57
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ciate da Ficino, e fu proprio attraverso quell”opera che la teoria ebbe enorme diffusione. Nei trattati successivi, il collegamento tra amore platonico e vita contemplativa si andò gradualmente perdendo, mentre il culto dell'amore platonico divenne un'ipocrita maschera della raffinata passione sessuale o un vuoto gioco popolare nella buona società. Comunque sarà bene cercare di ricordare che all'origine aveva un profondo significato filosofico e che una buona dose di dissertazioni serie e di opere sull'amore prodotte nel XVI secolo fu modellata dalla platonica «filosofia dell'amore››. Un altro modo tipicamente umanistico per discutere le varie forme della vita umana nel XV e nel XVI secolo era quello cosiddetto del paragone. La retorica antica aveva asserito che compito dell'oratore era elogiare e biasimare, pertanto l'elogio di una qualche virtù era spesso accompagnato dal biasimo del suo contrario. Per dimostrare la loro abilità, gli oratori componevano anche finti elogi di cose ignobili o ridicole, come la tirannia o la calvizie, e fu quello lo sfondo letterario, furono quelli i modelli, su cui Erasmo
compose il suo Elogio della follia. Le gare di retorica lasciarono il segno nella poesia in volgare e in quella latina medievale in cui ricorre la lotta tra inverno e primavera, tra gioventù e vecchiaia. Nella letteratura umanistica, la competizione retorica tra due contrasti o due rivali era uno degli esercizi prediletti, di cui abbiamo incontrato già una quantità di esempi: il paragone tra Scipione e Cesare, quello tra repubblica e monarchia, quello di Buonaccorso tra nobiltà di nascita e nobiltà di merito. Allo stesso modo venivano spesso discussi i meriti o la superiorità relativa delle diverse arti, professioni o modi di vita. Ci sono trattati su temi come «le armi e le lettere››, in cui si discutono i rispettivi vantaggi della vita militare e di quella letteraria. Leonardo da Vinci sosteneva seriamente che la pittura fosse superiore alle altre arti e scienze, e Michelangelo fu consultato in merito alla superiorità di pittura o scultura. La difesa umanistica della poesia, di cui si è detto, prendeva la forma di un attacco nei confronti di altre discipline, come la famosa invettiva di Petrarca contro un medico. C”era unlintera produzione letteraria sulla medicina e sulla legge, produzione che affondava le sue radici nella rivalità tra le facoltà universitarie e alla quale contribuirono
attivamente umanisti insigni come Poggio e Salutati. Salutati par58
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teggiava con i giuristi perché la legge aveva un impatto maggiore sulla vita dei cittadini e dello Stato. Molti storici vorrebbero considerare questa come la tipica posizione umanistica, ma Poggio Bracciolini per esempio, umanista esattamente come Salutati, in quel contesto votava a favore della medicina. L'argomento sfruttato da Salutati in questa e in altre occasioni tocca un altro e più serio problema, quello della superiorità della vita contemplativa o di quella attiva. Una distinzione questa già presente in Aristotele che tendeva, come tanti altri filosofi antichi, a
considerare la vita contemplativa superiore e più desiderabile rispetto a quella attiva. Eccezione notevole in questo quadro classi-
co, Cicerone insisteva invece sui doveri politici del cittadino responsabile. Nel medioevo la vita contemplativa era per lo più associata con l'ideale monastico ed era generalmente lodata. Durante il
Rinascimento invece sono molte le voci in lode della vita attiva, per esempio quelle di Salutati, di Bruni, di Alberti e di Palmieri, posizioni cui hanno dato molto risalto Hans Baron e altri studiosi che
vi hanno visto un aspetto importante del loro umanesimo civile. Eugene Rice va ancora oltre e sottolinea l'accento che questi umanisti, alcuni scrittori del XVI secolo e Pierre Charron pongono sulla vita attiva come uno sviluppo importante che prende le distanze dagli ideali monastici del medioevo e si avvia verso l'orientamento pratico e terreno dell'età moderna. Se è significativo, a partire dal Quattrocento, il numero sempre maggiore di scrittori partigiani della vita attiva, anche la scelta monastica contava i suoi difensori: abbiamo visto come perfino Salutati, uno dei maggiori sostenitori della vita attiva, abbia scritto un intero trattato in lode di quella monastica, fatto questo che ha suscitato spesso perplessità tra i suoi
studiosi. Inoltre, l”ideale della vita teoretica o contemplativa si dissociò, durante il Rinascimento, dall'ideale specifico del monachesimo, identificandosi piuttosto con la vita privata dello studioso, del-
lo scrittore e dello scienziato, senza dubbio sotto l'influsso della filosofia antica. Questa secolarizzazione della vita contemplativa non mi sembra meno caratteristica del Rinascimento (o della vita moderna) della simultanea importanza attribuita alle rivendicazioni della vita attiva. Si tratta di una tendenza che appare già nell'elogio di Petrarca alla solitudine, ed è proprio in questo senso che i platonici dell'Accademia fiorentina esaltavano la vita contemplati59
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va, che occupava un posto centrale nella loro filosofia. Il documento più famoso in cui viene affrontata questa questione sono le Disputationes camaldulenses di Cristoforo Landino, un dialogo in cui la vita attiva viene difesa da Lorenzo de' Medici e quella contemplativa da Leon Battista Alberti e in cui la vittoria sembra arridere al secondo. Nel secolo successivo, Pomponazzi considera la vita teoretica come superiore, ma si serve di quella pratica per definire il fine ultimo dell°uomo, poiché la seconda è la forma di vita propria dell”uomo, e tutti gli esseri umani sono in grado di parteciparvi. In Montaigne c'è una forte propensione, anche se assolutamente non esclusiva, per la vita solitaria della contemplazione, e la maggior parte dei filosofi in generale ne dà per scontata la superiorità, mentre i moralisti popolari insistono sulle necessità della vita attiva. Ben lungi dall'essere risolto nel Cinquecento, il problema continua ad assillarci. Mentre molti scrittori criticano la «torre d'avorio» dell”intellettuale, altri insistono sul diritto dello studioso, dell'artista o dello scienziato a dedicarsi al suo compito specifico. Le
rivendicazioni opposte della vita contemplativa e di quella attiva esemplificano un eterno problema umano, per il quale non sembra esistere una risposta definitiva, ma per cui ogni epoca, ogni professione e ogni Persona dovrà trovare un ragionevole compromesso. Un altro problema analogo, ampiamente dibattuto nel pensiero rinascimentale, è quello del rapporto tra intelletto e volontà o tra conoscenza e amore. Si tratta di una problematica che si sovrappone a quella della vita contemplativa e della vita attiva, da cui però si distingue. Per alcuni difensori della vita contemplativa, per esempio Petrarca, volontà e amore sono superiori a intelletto e conoscenza, poiché considerano il desiderio del bene e l'amore di Dio come parte, forse addirittura come la parte più importante, della vita contemplativa. Il problema riveste grande importanza nel contesto del pensiero occidentale. E stato sostenuto giustamente che il concetto
di volontà è assente dalla filosofia greca antica. Platone, Aristotele e altri filosofi greci conoscono un conflitto tra ragione e desiderio, ma riprendono da Socrate la convinzione che la ragione sia capace,
con le sue sole forze, di conoscere il bene, metterlo in pratica e superare la resistenza di ogni desiderio contrario. Secondo la visione cristiana, questa fede greca nella forza indipendente della ragione era fin troppo ottimistica. Per superare la sua originaria propensio60
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ne al male indotta dal peccato di Adamo, l'uomo aveva bisogno della grazia di Dio. Sulla base di questa concezione cristiana, Agostino formulò la sua idea di volontà. A parte la sua capacità di conoscere, l”uomo ha una capacità indipendente di volere. Ed è la volontà a essere stata corrotta dal peccato di Adamo, e a dover essere purificata dalla grazia divina perché l°uomo possa giungere al bene. Il pensiero medievale ereditò da Agostino questa distinzione tra volontà e intelletto, e i rispettivi meriti delle due facoltà divennero soggetto di importanti discussioni, con Tommaso d'Aquino, tra gli altri, a difendere la superiorità dell'intelletto e Duns Scoto e altri «volontaristi›› a insistere, d'accordo con Agostino, sulla superiorità della volontà. Della questione, malgrado la sua origine scolastica, continuarono a interessarsi gli umanisti. Sia Petrarca sia Salutati propendevano per la superiorità della volontà. Nell'Accademia platonica di Firenze il problema era uno dei temi di discussione favoriti, come si evince dalle lettere di Ficino e dai trattati di uno dei
suoi allievi, Alamanno Donati. Ficino stesso sembra aver cambiato idea sull'argomento nel corso degli anni, poiché all'inizio privilegiava l'intelletto, mentre negli scritti più tardi insiste sull'importanza della volontà e dell'amore per l'ascesa dell'anima a Dio. Le sue argomentazioni mostrano come l'idea di volontà potrebbe essere associata con la vita contemplativa non meno che con la vita attiva. Il pensiero rinascimentale non si interessava solo delle regole morali della condotta o dei diversi tipi di vita che l°individuo poteva scegliere a seconda del suo status o della sua professione, ma anche della situazione generale in cui si vengono a trovare gli esseri umani sulla terra, delle principali forze che determinano quella situazione e del posto occupato, nel più vasto universo, dall”uomo e dal suo mondo. Secondo una convinzione diffusa, gli umanisti del Rinascimento avevano una concezione ottimistica della vita e, a differenza dei loro predecessori, erano portati a godersi la vita terrena
senza preoccuparsi più di tanto di quella futura. E vero che la preoccupazione per la vita terrena tende ad assumere maggiore importanza quando si passa dal medioevo all'età moderna. E d'altra parte dobbiamo cercare di evitare le esagerazioni. Perfino nei celeberrimi versi di Lorenzo de' Medici, «Chi vuol esser lieto sia, del
doman non v”è certezza» - sempre citati come la quintessenza del61
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la visione del mondo rinascimentale, frivola e superficiale - abbiamo imparato a sentire accenni di malinconia. Storici come Walser e Trinkhaus hanno dimostrato come gli scrittori del tempo fossero acutamente consapevoli delle tristezze della nostra vita terrena. Malattie e povertà, esilio e prigione, perdita degli amici e dei parenti erano esperienze comuni, e quando Poggio Bracciolini e altri umanisti scrivevano della miseria della condizione umana, non avevano difficoltà a reperire gli esempi antichi e moderni per illustrare la fra-
gile e caduca condizione della felicità terrena. Affinché nessuno potesse credere all'esistenza di una classe di uomini privilegiati e indenni dalle disgrazie della condizione umana, gli umanisti scrissero speciali trattati sull'infelicità dei dotti e dei cortigiani e soprattutto
dei principi. Opere piene di esempi tratti dalla storia, intese a mettere in guardia i lettori perché non confidassero troppo nella felicità e a confortare gli infelici con l”elenco delle sventure altrui, ben peggiori di quelle toccate a loro. Questo coro di lamentazioni può apparire contraddittorio rispetto a tante altre caratteristiche del pe-
riodo, ma è di fatto pressoché universale. Marsilio Ficino, il filosofo platonico, invoca l'ombra di Eraclito per piangere sulla miseria degli uomini, così come ride con Democrito sulla loro follia. Quest”idea che l'uomo debba affrontare tante vicissitudini mentre gli eventi della vita, buoni o cattivi che siano, sfuggono in larga parte al suo controllo, fu interpretata da scrittori e intellettuali del periodo nei modi più diversi e non sempre tra loro coerenti, ma che comunque conferiscono una nota comune alla letteratura del Rinascimento. La provvidenza divina, esaltata dai teologi, non fu mai negata da altri filosofi, ma gli scrittori e i pensatori popolari spesso si trastullavano con la nozione della fortuna e del fato. Il concetto di caso fu ripetutamente discusso dai filosofi antichi e aveva un certo peso anche nel pensiero di Aristotele, e soprattutto in quello di Epicuro. Nel pensiero morale della tarda antichità, il caso aveva un posto importante nelle cose umane e il suo potere veniva perfino personificato da divinità come Tycbe o Fortuna. Nel medioevo cristiano Fortuna rimase viva, non come divinità naturalmente, ma come un'allegoria e uno strumento di Dio. Anche durante il Rinascimento ricorre spesso l'accenno alla sua potenza. Compare infatti in emblemi e in figure allegoriche oltre che negli scritti dell'epoca. Politici e mercanti speravano che quel62
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la forza arbitraria portasse loro il successo e Machiavelli ha dedicato pagine straordinarie alla descrizione del suo ruolo nella storia e nella politica. Molte persone ragionevoli non si accontentavano di riconoscere il misterioso ruolo di Fortuna sulle vicende umane e, non contente, credevano nel ruolo alternativo o complementare di un fato inesorabile. La convinzione secondo cui tutti gli eventi terreni sarebbero stati determinati rigidamente da un”ininterrotta catena di
cause antecedenti era stata coltivata dagli stoici antichi e fu riportata in auge, in forma più o meno modificata, da Pomponazzi e da altri intellettuali. Ancora più diffusa era la fede nell'astrologia, un sistema elaborato che si presentava come una scienza e che cerca-
va di collegare, con l'aiuto di regole precise ma flessibili, tutti gli eventi terreni all”influenza delle stelle. Quel sistema, che il mondo antico aveva ereditato dai babilonesi e che attraverso gli arabi era arrivato fino all”Europa medievale, era per lo più contestato dai
teologi, ma sostenuto da filosofi e scienziati. Durante il Rinascimento, l'astrologia ebbe alcuni detrattori, come Petrarca e Pico della Mirandola, ma nel complesso il suo prestigio andò fortemen-
te aumentando, fra gli studiosi come tra gli uomini della strada. La convinzione che tutte le cose umane fossero governate dai movimenti delle stelle incontrava il favore di molti, perché sembrava dare significato e regolarità alle vicissitudini umane. Gli astrologi sostenevano di essere in grado di predire il futuro delle persone e dei paesi: nel loro appassionato desiderio di conoscere e controllare il futuro, gli uomini non si preoccupavano delle contraddizioni
intrinseche nelle profezie (come posso cambiare il futuro a mio favore, se esso dipende da leggi immutabili? E d'altra parte, come
posso predire il futuro, se può mutare per l'azione mia o di altri?) così come erano pronti a dimenticare le numerose previsioni non
confermate poi dagli eventi. La fede nel fato è cosa ben diversa dalla dottrina teologica della predestinazione, che ebbe a sua volta una parte importante nelle discussioni del periodo. Contro i pelagiani, Agostino aveva sostenu-
to che non solo tutti gli eventi terreni, ma perfino le nostre scelte morali e le nostre azioni sono preordinate dalla prescienza e dalla volontà divina; il dilemma di come conciliare la predestinazione con il libero arbitrio umano è all'origine di molte delle difficoltà in63
M Il pensiero e le arti nel Rinascimento M
contrate dalla teologia e dalla filosofia medievali. Il problema venne alla ribalta con i riformatori protestanti, Lutero e Calvino, che negavano ogni forma di libero arbitrio, cosa senza precedenti in Agostino e nei suoi successori medievali. Si trattava di una questione fondamentale anche per i pensatori laici che precedettero la Riforma, come dimostrano gli esempi di Valla e Pomponazzi. Secondo Valla, era facile riconciliare la prescienza divina col libero arbitrio dell'uomo, ma il rapporto tra la volontà divina e la libertà umana era un mistero della fede. Pomponazzi fece una complessa e
contorta difesa della predestinazione e del fato al tempo stesso, ma il suo tentativo di conciliare il libero arbitrio con entrambi non risulta affatto convincente. Il concetto di fortuna, di fato e di predestinazione esprime in modi diversi e a diversi livelli la convinzione che la vita umana sia governata da forze divine e naturali sulle quali non esercitiamo alcun controllo e che siamo costretti a subire inermi. In generale però gli intellettuali del Rinascimento non si limitano ad affermare l”esistenza di quelle forze soprannaturali, ma cercano in qualche modo di difendere e di tenere alto il potere dell'uomo sul suo destino, di fronte alla sorte e al fato. Il tentativo è molto significativo di per sé, anche quando risulta incoerente o fallimentare. Già gli stoici antichi, i più espliciti teorici di un fato ineluttabile, avevano lottato per sostenere il ruolo della libertà umana all'interno di un sistema di rigido determinismo. Gli stoici moderni trovarono la loro soluzione nell'idea secondo cui l'uomo saggio, mentre sopporta pazientemente le circostanze esterne della vita che non può cambiare, è totalmente libero nel pensiero e nelle sue scelte morali. Seguendo una consuetudine più popolare, opponevano la forza della ragione e della virtù a quella della fortuna e attribuivano all'uomo saggio una vittoria interiore anche quando apparentemente poteva sembrare sconfitto. Questa è la nota dominante anche di tanto pensiero e di tante opere umaniste sull'argomento. Nel suo fondamentale trattato sui rimedi per la buona e la cattiva ventura, Petrarca, seguendo la migliore tradizione stoica, oppone la ragione alla passione ed esorta il lettore a vincere, con la virtù, l'influenza che la sorte ha sulle nostre menti. Salutati contrappone anche virtù e saggezza al fato e alla fortuna. Il tema ricorrente negli scritti morali di Alberti è la
vittoria della virtù sul destino e Ficino ribadisce il concetto, con 64
M Il pensiero morale dell'umanesimo rinascimentale M
l'aggiunta di una nota neoplatonica, quando fonda la virtù morale sulla vita contemplativa. Dopo aver descritto il potere della fortuna, anche Machiavelli ribadisce che il governante prudente è capace di vincerlo, o almeno di modificarlo. Guillaume Budé insegna ai suoi lettori a disprezzare le circostanze esterne della vita, che la sorte può darci o toglierci. Proprio come questi pensatori cercano di opporsi alla forza della fortuna, Pico della Mirandola si impegna strenuamente per combatterne il potere: il suo elaborato attacco all'astrologia è in realtà una difesa della libertà umana, e gli argomenti
utilizzati mostrano molto chiaramente come il suo atteggiamento fosse motivato da considerazioni morali e religiose oltre che scientifiche. La stessa preoccupazione per l”autonomia morale dell'uomo avrebbe spinto umanisti come Erasmo e Sepúlveda a difendere il libero arbitrio contro la dottrina luterana della predestinazione. Il tema e le idee che abbiamo brevemente discusso possono illu-
strare come gli intellettuali del Rinascimento fossero preoccupati dai problemi morali e umani. E spesso stato sostenuto che il pensiero rinascimentale, diversamente da quello medievale, era incen-
trato sull”uomo e non su Dio o - per citare un commento piuttosto ostile di Gilson - che Rinascimento era uguale a medioevo meno Dio. Si tratta di affermazioni palesemente esagerate, poiché il pensiero rinascimentale nel suo complesso era tutt'altro che indifferente a Dio e poiché nessuno o quasi degli intellettuali dell'epoca ne ha negato l'esistenza; è vero però che la loro concezione di Dio poteva essere alquanto diversa dalle forme dell'ortodossia religiosa. Eppure gli umanisti che hanno attratto su di sé le maggiori attenzioni degli storici del Rinascimento si occupavano soprattutto di problemi morali, spesso ad esclusione di teologia e metafisica, di filosofia naturale e di altre dotte discipline. Lo stesso nome «umanità» che avevano adottato per i loro studi ne segnalava l'interesse programmatico per l)uomo. Non meraviglia allora che fossero portati a sottolineare l'importanza dei problemi umani e ad esaltare la posizione dell”uomo nell'universo. Già Petrarca sostiene, nel trattato Della propria e dell'altrui ignoranza, che non ci serve conoscere la na-
tura degli animali se non conosciamo anche la natura dell'uomo; e nella famosa lettera in cui descrive la sua ascesa al Mont Ventoux contrappone la sua ammirazione per l'anima umana all'impressio65
i Il pensiero e le arti nel Rinascimento M
ne esercitata su di lui dalle montagne e dal mare. È interessante vedere come quest'ultimo brano sia tutto intessuto di citazioni da Seneca e da Agostino, perché la dottrina rinascimentale della dignità dell'uomo traeva alimento, per molti versi, dalle fonti classiche e da quelle cristiane. Nel XV secolo l”eccellenza umana fu il tema di trattati, come quelli di Giannozzo Manetti e di altri, specificamente dedicati all'argomento. Soprattutto nel trattato di Manetti la dignità umana si basa non solo sull'affinità biblica tra uomo e Dio, ma soprattutto sulle diverse conquiste umane in campo artistico e scientifico, conquiste lungamente descritte. Questo tema prediletto dagli umanisti ricevette poi un trattamento più metafisico da parte dei filosofi platonici. Marsilio Ficino dedicò svariati tomi della sua opera maggiore, la Teologia platonica, alle conquiste dell'uomo nelle scienze e nel governo, sottolineando l'universalità del suo sapere e delle sue aspirazioni. Quando ribadisce la concezione neoplatonica, secondo cui l'universo è fatto da vari gradi dell'essere che van-
no da Dio che sta al vertice, fino al mondo corporeo alla base, rivede intenzionalmente lo schema per poter assegnare un posto privilegiato e centrale all'anima razionale dell°uomo, facendone così il
collante e il nodo dell'universo, seconda per dignità solo a Dio stesso. Pico della Mirandola si spinse addirittura oltre: nella famosa Orazione, che solo nella prima metà tratta della dignità umana, e in altri scritti sostiene che l'uomo non occupa un posto fisso nella gerarchia dell'universo, ma è libero di scegliersi il proprio posto, poiché non è caratterizzato da una natura fissa, ma possiede tutti i doni che sono stati distribuiti singolarmente tra le altre creature. Per questo è capace di condurre molte diverse forme di vita, dalle più vili alle più nobili. La teoria di Pico trova eco nella Fabula de liomine di Vives, in cui l'uomo viene presentato come un attore, capace di interpretare i ruoli di tutte le altre creature. La posizione centrale dell'uomo nellluniverso, a metà tra gli angeli e gli animali, è accettata anche da Pomponazzi come un segno dell'eccellenza umana. Così possiamo dire che, sotto l”influenza della tradizione umanistica, i filosofi sistematici, diversi tra di loro quanto sono diversi i platonici fiorentini da Pomponazzi, hanno assegnato all'uomo una posizione privilegiata nella loro concezione dell'universo.
Llenfasi posta sull'abilità universale dell'uomo nelle arti e nelle scienze ritornerà nella nozione di Francesco Bacone del dominio 66
M Il pensiero morale dell'umanesimo rinascimentale M
dell”uomo sulla natura: percepiamo dunque un”eco della glorificazione rinascimentale dell'uomo nell°ideologia che ancora sottende gli aspetti tecnologici della scienza naturale moderna. Comunque, anche su questo tema che sembra così vicino al cuore dell'umanesimo rinascimentale, quel periodo storico non ci manda un messaggio univoco. Già nel XV secolo il trattato di papa Innocenzo III, De contemptu mundi, pietra di paragone e punto di partenza dell'opera di Manetti, fu molto letto ed ebbe numerosi
imitatori. Nel XVI secolo si può notare una forte reazione contro l”eccessiva glorificazione dell'uomo. Gli esponenti della Riforma
protestante ponevano invece fortemente l'accento sulla natura depravata dell”uomo, una posizione che esprimeva probabilmente
una protesta programmatica e consapevole contro l”eccessiva importanza attribuita alla sua dignità. Anche Montaigne, per altro verso così lontano dalla teologia della Riforma e così vicino agli umanisti, nell”/lpologia di Raymond de Sebond si accanisce a criticare le opinioni infondate circa il posto privilegiato dellluomo nel-
l'universo, per insistere sulla sua umile posizione e sulla vanità delle sue aspirazioni. La preoccupazione rinascimentale circa il posto occupato dall'uomo nell'universo può spiegare anche il grande risalto dato in quel periodo al problema dell'immortalità dell'anima. L'idea di un'anima individuale immortale era stata fortemente difesa da Platone e dai neoplatonici, mentre Aristotele e altri filosofi nutrivano in proposito opinioni ambigue o addirittura contrarie. Agostino aveva adottato la visione neoplatonica, seguito in ciò da tutti i pensatori cristiani medievali. Col platonismo rinascimentale, la questione assunse un rilievo che non aveva mai avuto in precedenza.
Ficino di fatto costmisce la sua Teologia platonica attorno a questo problema, cercando di dimostrare l'immortalità dell'anima, in opposizione agli aristotelici, con una quantità di argomenti diversi. L'importanza data all'immortalità affascinava un gran numero di poeti, filosofi e teologi, e si E: tentati di pensare che si deve all'influenza del platonismo se l'immortalità dell'anima fu adottata dal Concilio Laterano del 1513 come dogma ufficiale della Chiesa cattolica. Quando Pietro Pomponazzi, il più autorevole dei filosofi aristotelici, decise di illustrare come l”immortalità del singolo non potesse essere dimostrata con un procedimento razionale, non so67
M Il pensiero e le arti nel Rinascimento M
lo l'accettava come articolo di fede, ma sottolineava anche che l”anima umana, anche secondo ragione, è immortale, almeno per alcuni suoi aspetti (secundum quid), in virtù dell”alto posto che occupa tra le forme materiali. Inoltre, ritornando più volte sull'argomento in trattati pubblicati e in domande e conferenze inedite, Pomponazzi mostrava la sua grande perplessità in merito alla questione ela grande importanza che le attribuiva. D'altra parte, il suo trattato del 1516 scatenò un gran numero di filosofi e teologi che, in una serie di opere, attaccarono la sua posizione. La questione continuò a essere dibattuta anche dopo il XVI secolo. L'affermazione secondo cui gli studiosi del Rinascimento sarebbero stati interessati ai problemi dell'anima più che a quelli della natura, spesso ribadita sulla scia di Renan, studioso francese dell'Ottocento, si basa sull'errata interpretazione di un episodio in cui un gruppo di stu-
denti voleva seguire un corso sul De anima di Aristotele piuttosto che uno sulla sua Meteorologia, ma contiene elementi di verità che potrebbero basarsi su un fondamento più solido. A questo punto potrebbe valere la pena di indicare molto brevemente in che modo il pensiero morale degli umanisti, pur se primariamente concentrato sulla condotta individuale, li conduceva anche a sostenere più ampi ideali sociali, politici e umanitari. La teoria dell'amicizia occupava un posto importante nell'etica di Ari-
stotele, di Epicuro e di Cicerone, e il suo valore è spesso messo in risalto nelle lettere e negli altri scritti degli umanisti. Nell'Accademia fiorentina, il concetto di amicizia è strettamente associato con quello dell'amore platonico e delllamore cristiano; Ficino amava
pensare che i membri della sua Accademia fossero uniti a lui, il maestro, e tra loro da un legame di amicizia platonica, e che formassero in tal modo una comunità sul modello delle antiche scuo-
le filosofiche. Quanto al pensiero politico, gli umanisti non si preoccupavano
solo dell'educazione di principi e magistrati o dei rispettivi meriti del governo repubblicano e di quello monarchico; alcuni intellettuali cominciarono anche a riflettere sull'ideale di un bene pubblico più perfetto di quello presente. L'Utopia di Tommaso Moro, opera di grande originalità anche se fortemente debitrice della Repubblica di Platone, fu la prima di un genere importante, destinato a grande
fortuna per tutto il XVIII secolo. Il suo esempio fu seguito da Cam68
M Il pensiero morale dell'umanesimo rinascimentale M
panella, Bacone e altri minori. L'influenza di questa letteratura utopistica sulle riforme sociali e politiche dei tempi moderni è stata riconosciuta praticamente da tutti. Un altro contributo alle riforme sociali viene dal trattato di Vives sull'assistenza ai poveri, scritto in un periodo in cui, nei Paesi Bassi, le amministrazioni cittadine iniziavano ad assumersene la responsabilità pubblica. Non meno importante fu il contributo del pensiero rinascimentale allo sviluppo dell'ideale della tolleranza religiosa. Quell,ideale
sorse per la prima volta nel XV secolo sullo sfondo della controversia medievale tra ebraismo e islamismo, nonché sulla scia' delle polemiche dei Padri della Chiesa contro il paganesimo antico. Nel
Cinquecento il problema acquisì nuovo risalto alla luce del dissenso, delle persecuzioni religiose e della guerra di religione nel mondo cristiano occidentale. Senza abbandonare la fede nella superio-
rità della sua religione, Niccolò Cusano invocava la pace perpetua e la tolleranza tra i diversi credi che dividevano l'umanità. Ficino stese l'elogio della solidarietà e della fratellanza fra tutti gli esseri
umani, ribadendo che la religione era un fenomeno naturale per l'uomo e che tutte le religioni, benché diverse per pratiche e per grado di perfezione, contenevano un nucleo comune di verità ed esprimevano in qualche modo la venerazione di un solo e unico
Dio. Ficino sosteneva inoltre l'esistenza di un'armonia di fondo tra la vera religione cristiana e la vera filosofia platonica, e accettava gli
scritti apocrifi attribuiti a Zoroastro, a Ermete Trismegisto, a Orfeo e a Pitagora come testimonianze di una prima teologia e filosofia pagana che aveva aperto la strada a Platone e ai suoi seguaci, così
come il Vecchio Testamento aveva preconizzato il Nuovo. Quelle idee diedero nuova e più esplicita forza alla generale fede umanisti-
ca nella saggezza degli antichi e nella compatibilità con gli insegnamenti della religione cristiana, esercitando un'enorme influenza per tutto il XVI secolo. Altrettanto importanti furono le idee di Pico
della Mirandola, che si spinse anche oltre. Secondo lui, tutte le religioni conosciute contenevano elementi di verità, tanto che si propose di difendere in una pubblica dissertazione novecento tesi prese soprattutto da filosofi e teologi antichi e medievali, arabi ed ebrei. In particolare sosteneva che gli scritti dei cabalisti ebrei rappresentavano un”antica tradizione orale e ben si accordavano con
gli insegnamenti del cristianesimo. Nella seconda parte della sua fa69
i Il pensiero e le arti nel Rinascimento M
mosa orazione, composta in verità come discorso introduttivo per la progettata dissertazione, Pico esprime in modo eloquente la sua fede in quella universalità della verità di cui ogni filosofo e teologo partecipa, in grado maggiore o minore. Cento anni dopo, nel suo Heptaplomeres che circolò ampiamente in forma manoscritta ma non fu pubblicato fino a tempi recenti, jean Bodin difende le rivendicazioni di tutte le religioni. Nel XVII secolo, Herbert di Cherbury pose le basi del deismo, descrivendo una religione naturale, identificata in un nucleo comune a tutti i diversi credi umani. Malgrado tali ampie e interessanti ramificazioni, il pensiero mo-
rale del Rinascimento nel suo complesso era fondamentalmente individualistico. Certo, il termine individualismo ha diversi significa-
ti, e la sua applicazione al Rinascimento ha suscitato non poche controversie tra gli storici. Individui di qualità straordinarie si possono ovviamente trovare anche in altri periodi storici, compreso il medioevo, né si può negare che il nominalismo medievale esaltasse
la realtà dell'oggetto fisico individuale. Ma quando parliamo di individualismo rinascimentale dobbiamo pensare a qualcosa di diverso. Prima di tutto, il pensiero e la letteratura del Rinascimento sono estremamente individualistici, nel senso che mirano, in misura sconosciuta nel medioevo e nella maggior parte del mondo antico, all'espressione di opinioni, sentimenti ed esperienze individuali,
soggettivi. Ogni umanista si prende molto sul serio e crede che tutto quello che ha sentito e visto meriti di essere registrato. I trattati
su soggetti molto astratti si mescolano a storie personali, pettegolezzi, elogi e invettive tali che uno studioso moderno, così come i suoi predecessori antichi o medievali, se ne vergognerebbe. Di qui la diffusa preferenza, nel Rinascimento, per le forme espressive della lettera, che consente all'autore di esprimersi in prima persona, della biografia - in cui il protagonista viene vividamente descritto in tutte le sue qualità concrete - o ancora del diario e dell”autobio-
grafia, che permettono di combinare entrambi gli elementi. L'avvento del ritratto in pittura sembra un indice della medesima tendenza. Curiosamente, questo individualismo si combinava, sia in arte che nelle lettere, con un forte classicismo e formalismo solo in apparenza incompatibile, ma che di fatto contribuisce a conferirgli
il suo speciale colore e la sua caratteristica fisionomia. Quando si
ro'
M Il pensiero morale dell”umanesimo rinascimentale M
tratta di precetti morali, la letteratura naturalmente si riempie di regole generali, rivolte però alla persona singola e tratte da esempi storici individuali. Questo aspetto soggettivo e personale pervade la gran parte della letteratura umanistica ed è già evidente nel suo primissimo grande rappresentante, Francesco Petrarca. Egli esprime le sue opinioni, simpatie e antipatie, scrupoli e preoccupazioni, mentre le affermazioni oggettive su problemi generali sono piuttosto rare e incidentali persino nei suoi scritti filosofici. Sul finire del
Rinascimento, questo carattere soggettivo e personale del pensiero umanista trova la sua più consapevole e consumata espressione filosofica negli Essais di Michel de Montaigne. Montaigne aveva ricevuto unleducazione umanistica, aveva studiato il latino prima ancora del francese e le citazioni dagli autori antichi, soprattutto da Plutarco e Seneca, occupano molte pagine dei suoi scritti. Il saggio,
nella forma da lui creata e consegnata ai secoli a venire, è scritto in prima persona, come la lettera degli umanisti, ed è altrettanto libero per stile e per struttura. Potremmo dire che il saggio è una lette-
ra che l'autore scrive a se stesso. Montaigne ha in comune con gli umanisti la forte preoccupazione morale e la mancanza di interesse per logica, metafisica e altre dotte discipline, così come un certo fastidio per la cultura di tipo scolastico. Nella sua posizione filosofica, per quanto flessibile, si manifesta l'influenza dello scetticismo
antico e, in misura minore, anche dello stoicismo. Scrive su una quantità di tematiche morali, spesso prendendo spunto da esempi o detti classici, e fa sempre riferimento alla sua esperienza persona-
le, per trarne ammaestramento. Lo scetticismo che lo caratterizza, e che investe qualunque cosa eccettuata la sua fede religiosa, è su-
scitato dalfosservazione e dall'esperienza. Sa come siano complessi e mutevoli gli affari umani e come la continua variazione delle
circostanze sia capace di alterare il nostro umore. La maggior parte dei suoi pensieri scaturisce dall'introspezione ed egli dichiara apertis verbis quello che tanti umanisti hanno sentito senza artico-
larlo in modo altrettanto ricco: la decisa intenzione di parlare innanzitutto di sé, perché il suo io individuale è il soggetto principe della sua filosofia. «Gli autori comunicano con il pubblico per via
di qualche strana e peculiare qualità. Io, per la prima volta, con tutto me stesso, in quanto Michel de Montaigne, non in quanto gram-
matico, poeta o avvocato. Se il mondo lamenta che parlo troppo di 71
i Il pensiero e le arti nel Rinascimento M
me, rispondo che purtroppo il mondo non pensa solo a se stesso›› (Essais, III, 2). Però, facendo del suo particolare discorso un programma filosofico, elevando l'introspezione e l”osservazione della reale condizione umana al rango di modello consapevole, Montaigne già supera i confini del pensiero e della letteratura umanista e apre la strada verso lo studio psicologico dell”umore e del comportamento che sarebbe stato caratteristico della letteratura morale del XVII secolo.
'
Mentre lo studioso può concentrarsi sulle complessità del periodo storico che cerca di capire, l'uomo comune e lo studente
cercano un°ampia sintesi capace di isolare e mettere in luce quegli aspetti del passato che sono significativi per loro e per il loro tempo e che rappresentano di fatto un contributo alla cultura con-
temporanea. Una visione del genere sembrava ragionevole in presenza di una fede indiscussa nel presente e nel futuro della nostra civiltà e nel suo progresso continuo e inevitabile. Ai giorni nostri,
quella fede è stata per molti versi infranta. Indubbiamente abbiamo avuto un progresso notevole nella tecnologia e nelle scienze naturali, e la speranza nel miglioramento politico sociale è grande, com'è giusto che sia dal momento che il progresso dipende, almeno in parte, dai nostri sforzi e dunque ne siamo responsabili.
Ma il futuro non può essere interamente sotto il nostro controllo e rimane in buona misura incerto. In molti settori il cambiamento è costante, ma il progresso non è altrettanto stabile, mentre cre-
sce la consapevolezza che ogni conquista, per quanto necessaria e desiderabile, debba essere compensata da una qualche perdita. Il presente - mutevole, complesso e incoerente - non è più un metro sicuro di valutazione del passato. Concentrazione sul presente e rifiuto del passato sono di fatto atteggiamenti oggi molto diffusi, ma si tratta di tendenze poco sagge che non dureranno a lungo. I filosofi, i linguisti, i critici dell°arte e della letteratura e i professionisti delle scienze sociali spesso affrontano la realtà attuale come si trattasse di un assoluto, valido per tutti i tempi e per tutti i luoghi, e come se non vi fossero alternative. Si tratta di un punto di vista limitato e provinciale e uno dei compiti degli studi storici, così spesso ignorati, è proprio quello di aprirci la mente e gli
occhi sulle conquiste del passato, anche laddove sono diverse dal72
M Il pensiero morale delfumanesimo rinascimentale M
le nostre. Nel ricordo storico possiamo indirettamente rivivere, e quindi comprendere, ciò che è stato e la sua intrinseca rilevanza. E così facendo lo preserviamo, lo manteniamo in vita consegnandolo al futuro, affinché possa farne un uso che oggi non siamo in grado di prevedere. Lo studio della storia è importantissimo per ogni cultura viva, e a noi piace pensarci eredi di quella tradizione che chiamiamo civiltà occidentale. Se il futuro appartiene a una più vasta cultura mondiale che raccoglierà storie diverse dalla tra-
dizione occidentale, crediamo e speriamo che in essa possa confluire anche quella che consideriamo la parte migliore dell'eredità culturale dell'Occidente. Se ci volgiamo a guardare al pensiero morale dell'umanesimo rinascimentale, proprio in funzione di quell'eredità, lo vedremo chiaramente emergere in alcuni dei suoi tratti più generali. Tanti
di essi sono legati alla situazione sociale e professionale in cui si trovava la maggior parte degli scrittori umanisti. In quanto stu-
diosi e scrittori che si occupavano professionalmente dello studio della storia e dei classici, oltre che di problemi morali, essi furono fortemente influenzati dalle forme e dalle idee della filosofia e della letteratura antica, ma al tempo stesso erano ansiosi di dar voce alle loro esperienze e ai loro sentimenti personali. Per merito del loro lavoro e dei loro sforzi succedutisi nei secoli, lo studio delle
discipline umanistiche poté affermarsi come una branca del sapere laico, che comprendeva anche la filosofia morale come materia distinta dalla teologia e dalle scienze naturali, anche se non neces-
sariamente contrapposta ad esse. Si trattava di un particolare tipo di studi che combinava letteratura e filologia e che in seguito si sarebbe perso, lasciando però dietro di sé una traccia, una doppia preziosa eredità sopravvissuta fino ad oggi e che vale sicuramente la pena di preservare. Da una parte, l'ambito storico e filologico degli studi ha allargato immensamente il raggio dei suoi interessi, affinando gli strumenti di ricerca (un'eco dell'origine uma-
nistica e rinascimentale si avverte nell'appellativo un po' desueto di scienze morali con cui si indica questo genere di studi in francese e in italiano). Dall'altra parte esiste una tradizione culturale letteraria rinascimentale che non si limita alle tecniche formali, ma si occupa di problemi umani e filosofici più vasti, senza tuttavia
farsi carico dei limiti (e delle responsabilità) della filosofia profes73
i Il pensiero e le arti nel Rinascimento M
sionale. Quest'ultima tradizione fu ripresa dal romanticismo del XIX secolo ed ha recentemente trovato un rappresentante insigne nel filosofo americano George Santayana. Dopo aver analizzato il contributo dell'umanesimo rinascimentale al pensiero morale, contributo in qualche caso modesto e banale, non possiamo fare a meno di sperare che la sua doppia eredità, filologica e letteraria, anche se attualmente minacciata da diverse forze in concorrenza, possa sopravvivere in futuro.
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UMANESIMO
III. La diffusione europea dell'umanesimo italiano*
Il prestigio dell'Italia durante il Rinascimento e l'importanza dell'influenza italiana sulla cultura degli altri paesi europei durante il XV e il XVI secolo sono ben noti e non richiedono certo un'elaborata esposizione. L'influenza italiana è evidente nelle arti visive e nella musica, in poesia e in letteratura, in politica, nella teoria e nella pratica economica così come nelle scienze e in filosofia. All°interno di questo quadro generale, l'umanesimo italiano e la sua in* Testo a
arso in «Italica», XXXIX, 1962, pp. 1-20. L'articolo si basa su un te-
sto letto a Pfiiiladel hia, alla Modern Language Association of America, il 27 di-
cembre 1960, nonché su una conferenza un poco più lunga, tenuta alla Casa Italiana della Columbia University il 23 febbraio 1961. Aggiungendo delle note a questo saggio non mi illudo certo di aver fornito una documentazione completa. Per studi recenti sull'argomento si veda: R. Weiss, Italian Humanism in Western Europe, in Italian Renaissance Studies, A tribute to the late Cecilia M. Ady, a cura di E. F. jacob, London 1960, pp. 69-93; D. Hay, Tbe Reception of the Renaissance in the North, in The Italian Renaissance in its Historica Background, Cambridge 1961, cap. VII, pp. 179-203. Per quanto riguarda l'Inghilterra, cfr. soprattutto R. Weiss, Hurnanism in En land during the Fifteentb Century, Oxford 1941 e 1957. Per la Francia, A. Renautfet, Préréforme et Humanisme à Paris pendant les premières guerres d'Italie, Paris 1916 e 1953; F. Simone, Il rinascimento Kirarzcese, Torino 1961. Il mio obiettivo in questo breve saggio è unicamente quel o di evidenziare alcune prospettive generali, riassumendo il risultato dei più recenti studi che ho avuto occasione di conoscere, aggiungendovi alcuni dettagli frutto della mia ricerca sui manoscritti rinascimentali, nonché di sottoporre all'attenzione alcuni problemi che meriterebbero una indagine più approfondita. Non citerò le più autorevoli monografie dedicate a celebri ersonalità menzionate di sfuggita all'interno del testo. Per informazioni sulle colièzioni di manoscritti citate, valga ui anche per il seguito il rimando alla mia bibliografia (Latin Manuscript Boolesqbefore 1600, New York 1960), in cui per ciascuna biblioteca sono indicati i cataloghi stampati. 75
M Il pensiero e le arti nel Rinascimento M
fluenza occupano un posto centrale e questo, anche se è piuttosto noto in generale, forse non è stato compreso o sottolineato a sufficienza dalla gran parte degli studiosi moderni. La loro mancanza di interesse è dovuta a una serie di preconcetti o di malintesi che non possiamo certo discutere o criticare in questa sede. Per citare solo i più importanti, basti pensare che esiste ancora un diffuso disprezzo, ereditato dal romanticismo, per la retorica e per la letteratura latina degli umanisti. Il recente declino del prestigio pubblico degli
studi classici, soprattutto greci, ha fatto diminuire l'interesse per questo aspetto del contributo umanistico, mentre il sempre maggiore interesse e approfondimento nei confronti del medioevo ha fatto apparire il Rinascimento meno innovativo e meno originale di quanto non si credesse. Infine, gli studiosi di letterature e culture diverse da quella italiana hanno teso a sottolineare le tradizioni e il contributo dei rispettivi paesi europei e a minimizzare il loro debito nei confronti della cultura italiana.
Per dare un senso più preciso alla discussione che segue, vorrei definire prima di tutto il posto occupato dall'umanesimo nella civiltà del Rinascimento italiano. Il termine umanesimo, come altre espressioni che abbracciano una gamma di fenomeni altrettanto vasta, ha finito per significare molte cose diverse per persone diverse. Quando leggiamo o sentiamo parlare di umanesimo, o anche di umanesimo rinascimentale, siamo portati a pensare prima di tutto a una speciale esaltazione dei valori umani, che si suppone caratteristica del Rinascimento. Non intendo discutere qui dell'importanza
né della diffusione di questo fenomeno. Parlerò piuttosto dell'umanesimo in modo molto più specifico e intenderò per umanisti
quegli studiosi che, per professione o per vocazione, si occupavano degli studia bumanitatis, delle discipline umanistiche, e per umanesimo quel corpus letterario, filologico e di pensiero rappresentato negli scritti degli umanisti'. Gli studia bumanitatis, che prendiamo allora a fondamento della definizione di umanesimo rinascimenta-
le, comprendevano un ben preciso ciclo di discipline, come vediamo da un certo numero di documenti coevi: grammatica, retorica,
poesia, storia e filosofia morale. A questa lista possiamo aggiungere, come è ovvio, lo studio degli autori greci e romani dell'antichità classica. Questo gruppo di discipline finì per occupare un posto molto centrale nel Rinascimento italiano, ricollegandosi a molte 76
M La diffusione europea dell'umanesimo italiano M
delle sue diverse aree e influenzandole profondamente. Eppure, malgrado queste connessioni, l'umanesimo rinascimentale era sostanzialmente distinto dalle varie letterature vernacolari, dalla filosofica propriamente detta, di tipo aristotelico o platonico e dei filosofi della natura, così come dalle discipline universitarie di matematica, medicina, legge e teologia. L'umanesimo rappresentava un corpus filologico e letterario di tipo laico, seppure non scientifico, che conquistò una precisa collocazione indipendente, anche se non opposta, rispetto a quella della teologia e delle scienze. Quelli di noi che si occupano di storia e di letteratura considerano a buon diritto gli umanisti come i loro precursori e giustamente ne riconoscono le conquiste. Nel tentativo di analizzare la diffusione europea dell'umanesimo italiano intendo esaminare i vari canali della sua trasmissione,
fermandomi al momento che precede immediatamente l'effettivo manifestarsi della sua influenza nelle letterature nazionali dei vari
paesi. Prenderò in esame soprattutto il periodo tra il 1350 e il 1600 e i paesi dell'Europa centrale e occidentale, a esclusione dell'impero bizantino, della Turchia e della Russia. Il primo importante canale di diffusione dell'umanesimo italiano fu rappresentato da quelli che oggi definiremmo gli scambi in-
terpersonali. Moltissimi stranieri avevano occasione di visitare l'Italia e, a seconda della durata del loro soggiorno e dei loro interessi, di conoscere la cultura umanistica. Nel XVI secolo, come oggi,
c'erano molti turisti; c'erano i pellegrini, come nel medioevo; c'erano mercanti che viaggiavano per ragioni economiche, preti che si
recavano a Roma per i diversi affari della Chiesa e inviati politici che rappresentavano il loro governo presso varie località italiane per periodi più o meno lunghiz. In tutti questi gruppi troviamo anche studiosi che si recavano in Italia per affari diversi e coglievano l'occasione per soddisfare la loro curiosità intellettuale o artistica.
Alcuni, come Erasmo o Montaigne, ci andarono da soli o al seguito di principi, come fece Reuchlin. Molti studiosi stranieri finirono per stabilirsi definitivamente a Roma al servizio della Curia papale
o di un cardinale, come fecero Guillaume Fichet, ]ohn Free, o Jacob Questenbergì Durante il XV secolo lavorava in Italia un gran numero di copisti professionisti fiamminghi e tedeschi' e poco do77
M Il pensiero e le arti nel Rinascimento M
po, verso la fine del secolo, un gruppo ancora più folto di stampatori tedeschi finì per stabilirsi a Roma, a Venezia e in altri centri. Ma il gruppo indubbiamente più importante era quello costituito dagli studenti stranieri che rimanevano in Italia per molti anni e poi facevano ritorno nei loro paesi, dove andavano a occupare posti importanti nel governo o nelle professioni. Le università italiane erano famose soprattutto per le discipline mediche e giuridiche, una tradizione radicata nella scuola salemitana e nell'ateneo bolognese. Erano tanti gli studenti stranieri che venivano in Italia per laurearsi in quelle materie e poi tornare nei loro paesi a esercitare la profes-
sione. Durante la loro permanenza in Italia, molti di quegli studenti di legge e di medicina cominciarono a interessarsi alle discipline
umanistiche. Tra costoro possiamo citare Thomas Linacre, Hartmann Schedel e Georgius Agricola. Copernico era stato in Italia per studiare sia legge che medicina, mentre, a latere, sembra coltivasse lo
studio delle discipline umanistiche e dell'astronomia. La lista degli stranieri che studiarono legge in Italia è probabilmente ancora più
folta. Ne facevano parte l'insigne studioso tedesco Wilibald Pirckheimer e Konrad Peutinger. Molto importante era il collegio spagnolo di Bologna, tra i cui alunni si contano umanisti di rilievo
come Antonius Nebrissensis ejohannes Sepúlvedafi. Meno numerosi, ma non meno importanti, gli stranieri che venivano in Italia proprio per studiare le scienze umane. Tra gli allievi del Guarino a Fer-
rara troviamo janus Pannonius, destinato a divenire vescovo di Pec, e uno dei più famosi umanisti ungheresi, John Tiptotf, che in segui-
to avrebbe tradotto gli scritti degli umanisti in inglese e raccolto un”imponente biblioteca"'. Potremmo citare anche Niccolò Cusano che trascorse la seconda parte della sua vita in Italia, da cardinale, dopo aver studiato a Padova, o l'umanista olandese Rodolphus Agricola che studiò e insegnò a Pavia e a Ferrara e poi ad Heidelberg, il portoghese Hermicus Caiadus, allievo di Poliziano e di Be-
roaldo. L'assunzione del diritto romano nell'impero tedesco e nelle università della Germania avvenne proprio in quel periodo, ed è ancora aperta la questione se e fino a che punto quell'importante sviluppo fosse dovuto alla formazione giuridica e umanistica che tanti giuristi e uomini pubblici tedeschi avevano ricevuto in Italia7.
Non meno importanti per la diffusione dell'umanesimo furono gli italiani che andarono a vivere in altri paesi per periodi di tempo 78
M La diffusione europea dell'umanesimo italiano M
più o meno lunghi. I banchieri e gli uomini d'affari italiani erano attivi in tutta Europa e soprattutto in Francia, in Inghilterra e nei Paesi Bassi. Alcuni di loro, come Francesco Tebaldi, provarono perfino a scrivere", e moltissimi avevano interessi accademici e contatti con gli ambienti intellettuali in patria e all'estero. Principesse italiane come Beatrice di Aragona, regina di Ungheria, o Bianca Maria Sforza, seconda consorte di Massimiliano I, e poi anche Bona Sforza, regina di Polonia”, avevano eruditi e artisti italiani al loro seguito, e lo stesso si può dire dei vescovi italiani che venivano inviati in sedi straniere'°. Tra gli inviati politici mandati all'estero dai vari stati italiani
c'erano uomini di preparazione e studi umanistici. Quando Ermolao Barbaro si recò a Bruges come ambasciatore veneziano per parlare a Federico III e a Massimiliano, il suo discorso ebbe grande risonanza locale e fu stampato nei Paesi Bassi; fu in seguito a questa pubblicazione che il suo autore entrò in contatto con Arnold Bo-
stius“. La reputazione di Ermolao presso uomini come Erasmo e altri studiosi del Nord sembra dovere molto a quell'episodio. Molti dotti italiani entrarono al servizio di principi o dignitari
stranieri, come istitutori o segretari, bibliotecari, poeti o storici di corte. La lista è lunga e illustre, e include Enea Silvio Piccolomini in Germania, Antonius Bonfinius in Ungheria, Filippo Callimaco
in Polonia, Poggio, Tito Livio Frulovisi, e Polydore Vergil in Inghilterra, Paulus Aemilius in Francia, Lucius Marineus Siculus e
Petrus Martyr Anglariensis in Spagna”. Gli studenti italiani che volevano specializzarsi in teologia in ge-
nere andavano a Parigi o nelle università inglesi, poiché quelle italiane non potevano vantare una tradizione paragonabile nel settore”. Tra costoro incontriamo spesso persone che avevano forti interessi umanistici e li propagavano all'estero, come Lorenzo Guglielmo Traversagni, un frate francescano di Savona attivo a Vienna, Parigi e Cambridge, che di recente è stato oggetto di un certo
interesse, sia come autore che come copista“. Un certo numero di umanisti italiani, o comunque cultori di al-
tre discipline che avevano studiato in Italia, fu chiamato a insegnare nelle università straniere ed ebbe così modo di esercitare un'influenza accademica più o meno significativa. A Parigi troviamo Gregorius Tiphernas e Filippo Beroaldo il Vecchio e poi Fausto
Andrelini e molti altri; a Basilea, Petrus Antonius Finariensis'5. A 79
M Il pensiero e le arti nel Rinascimento M
costoro possiamo aggiungere quei modesti personaggi, avventurieri girovaghi, che offrivano i loro servigi di maestri e poeti, come per esempio Stephanus Surigonius o Johannes Michael Nagonius'°. Un caso singolare è quello di ]acobus Publicius, che insegnò in un gran numero di università tedesche e scrisse diversi manuali importanti. Credo che si trattasse in verità di uno spagnolo, o di un portoghese che in Germania si faceva passare per fiorentino e che apparentemente se la cavò brillantemente con quella favola". Ovviamente per un umanista essere italiano, e ancor meglio fiorentino, era una
bella pubblicità. Un ultimo importante gruppo di studiosi italiani è costituito dagli esiliati politici, e in seguito anche religiosi. Uno dei primi esempi famosi è quello di Cola di Rienzo, la cui breve permanenza in Boemia aveva lasciato tracce significative. Alla fine del Quattrocento, Filippo Callimaco si trasferì in Polonia come esiliato politico, e gradualmente raggiunse una posizione di notevole importan-
za culturale e politica alla corte di Cracovia. Nel Cinquecento tra gli esuli protestanti italiani, che espatriarono soprattutto in Svizzera, in Inghilterra e in Polonia, c'erano molti insigni studiosi. Pellegrino Morato e sua figlia Olimpia lasciarono Ferrara per la Germania. A Basilea gli studiosi italiani protestanti lavorarono, come au-
tori e redattori, a stretto contatto con la nascente industria libraria. Ifesponente più illustre di questo gruppo è il veneziano Celio Secondo Curionel”. Un altro importante canale di influenza umanistica erano gli
scambi epistolari degli umanisti, occasionati il più delle volte dai contatti personali. Troviamo un gran numero di corrispondenti stranieri nelle raccolte di lettere degli umanisti italiani, a comincia-
re da Petrarca che trascorse in Francia gran parte della sua vita, e un certo numero di corrispondenti italiani nell'epistolario di Reuchlin, di Erasmo e di altri stranieri”. Si tratta di una ricca fonte di infor-
mazione, ancora inesplorata malgrado esistesse un progetto internazionale, purtroppo abortito, per raccogliere tutta la corrispondenza estera degli umanisti. Un progetto del genere richiederebbe non solo la cura filologica delle lettere, ma anche lo studio della vita e dell'attività dei vari corrispondenti.
A questo fenomeno è collegato quello della protezione e del mecenatismo di alcuni personaggi stranieri nei confronti di umanisti ita80
M La diffusione europea dell'umanesimo italiano M
liani che poi dedicavano loro libri e scritti. Era ovvio che un umanista italiano al servizio di un principe straniero gli dedicasse alcune delle sue opere. Ma questi non sono gli unici casi. Molti umanisti italiani, che mai si erano recati in Ungheria, dedicarono alcuni loro scritti a Mattia Corvino o ad altri personaggi della sua corte”. Poliziano decise di scrivere per Giovanni del Portogallo una storia del suo regno". Alfonso d'Aragona divenne a tutti gli effetti pratici un principe italiano”, ma gli scritti degli umanisti dedicati a lui e ai suoi successori godettero di speciale popolarità e diffusione anche in Spa-
gna, dov'era nato: molti membri della sua corte e della sua amministrazione divennero protettori degli studiosi italiani, fungendo da di-
vulgatori della cultura umanistica italiana nei loro paesi”. Uno degli ambiti in cui l'influenza dell'umanesimo italiano è molto evidente, nel XVI secolo, è quello dell'istruzione. Molte
scuole furono istituite o riorganizzate per mettere al centro del loro programma le discipline umanistiche, ivi compresi gli autori greci e quelli romani”, e questo schema si ripete in modo evidente tan-
to nelle scuole dei protestanti come in quelle dei gesuiti. A livello universitario vennero istituite nuove cattedre per le discipline umanistiche oppure si conferì maggiore importanza e maggiore impulso a quelle di retorica e di grammatica già esistenti. Una tendenza nuova, che si esprimeva nelle persone degli insegnanti spesso for-
matisi in Italia o seguaci dei metodi italiani, così come nei testi e nei manuali adottati nei vari corsi. Questo tema non è stato ancora approfondito a sufficienza, ma possiamo ricavare alcune informazioni importanti dai manuali pedagogici del periodo, dagli statuti di scuole e università, dai manoscritti e dalle edizioni a stampa utilizzate da insegnanti e studenti. L'Università di Basilea divenne un centro di studi umanistici e la nuova Università di Wittenberg affiancò le discipline umanistiche alla teologia. Lovanio ebbe, per merito di Erasmo, il suo Collegium trilingue, e Vienna, per effetto di Celtes, ebbe il suo Collegium poetarum. A Parigi, Francesco I fondò il College de France proprio per coltivare gli studi umanistici e matematici trascurati nelle università, ed Enrico VIII fondò allo stesso scopo il Regius professorsbzp a Cambridge e Oxford”. Sembra chiaro che, insieme agli autori classici, la produzione degli umanisti italiani e dei loro seguaci stranieri occupava un posto sempre più importante nel curriculum: i trattati di grammatica e di retori81
M Il pensiero e le arti nel Rinascimento M
ca, le lettere, le orazioni e i poemi, i commenti degli autori latini e le traduzioni latine di autori greci erano diventate particolarmente popolari. La versione del Bruni della lettera di san Basilio sulla lettura dei poeti pagani era usata come libro di testo in Inghilterra e altrove”, mentre le sue traduzioni di Aristotele venivano copiate in tutta Europa. I manoscritti con le glosse del De ingenuis moribus di Vergerio, dell'Isagoge di Agostino Dati, delle lettere di Filelfo e di altri, dei poemi di Battista Mantuanus, del Synonyma di Stephanus Fliscus, del ƒesuida di I-Iieronymus de Vallibus che troviamo nelle biblioteche tedesche e di altri paesi, stanno a testimoniare come quei testi venissero letti nelle scuole. Il fatto che, in alcuni casi, au-
tori e opere acquisissero all'estero una notorietà maggiore di quella di cui godevano in patria è un fenomeno ricorrente nella storia delle lettere e delle influenze intellettuali straniere, un fenomeno
che per quanto possibile andrebbe investigato caso per caso. Per quanto riguarda Aristotele, l'adozione delle traduzioni umanistiche
al posto di quelle medievali ebbe un impatto non ancora pienamente apprezzato nella storia della filosofia”. Oggi si può dire che una diversa traduzione inglese di Aristotele è capace di produrre una diversa filosofia, e lo stesso naturalmente era vero anche durante il Rinascimento.
A parte i contatti personali dei quali abbiamo parlato finora, il più importante canale di diffusione erano i libri, sia manoscritti che a stampa. La maggioranza degli storici quasi non si rende conto
dell'enorme numero di manoscritti di umanisti italiani conservato nelle biblioteche fuori d'Italia: è una storia ancora tutta da esplora-
re per gli studiosi del Rinascimento. Se vogliamo interpretare i libri degli umanisti italiani conservati nelle biblioteche estere come la prova della diffusione dell'umanesimo italiano in epoca rinasci-
mentale, ovviamente non dobbiamo prendere in considerazione tutti quei casi in cui i libri sono arrivati a occupare gli scaffali a seguito di acquisizioni recenti: è il caso di tutti i libri di epoca rinascimentale conservati in America o in Russia, come anche di molti volumi oggi in Inghilterra o in Germania, che sono stati acquistati nel XVIII secolo o più tardi; o anche della biblioteca della Cattedrale di Toledo, che deve la sua splendida collezione di manoscritti umanistici italiani alla donazione del cardinal Zelada. Per quanto 82
M La diffusione europea dell'umanesimo italiano M
quei volumi e quelle raccolte siano di grande interesse, siamo costretti a limitarci ai manoscritti e ai libri presenti all'estero fin dall'epoca rinascimentale. E il loro numero è davvero impressionante. In alcuni casi la copia con dedica inviata o consegnata da uno studioso italiano a un mecenate straniero è ancora ben conservata, come nel manoscritto che contiene le poesie dedicate da Johannes Michael Nagonius a Enrico VII di Inghilterra". Molti esemplari di testi umanisti presenti nelle biblioteche spagnole sembrano essere stati copiati a partire dai manoscritti inviati dagli autori italiani a principi e colleghi spagnoli. In taluni paesi possiamo trovare singoli libri, o addirittura intere biblioteche che originariamente erano state donate, acquistate o rubate dall'Italia”. Alcuni di questi volumi sono ancora riuniti in
raccolta, altri sono stati dispersi e più tardi ricostruiti da studiosi contemporanei con l'aiuto dei vecchi inventari, di appunti di proprietà, o di stemmi araldici. Un esempio notevole è la biblioteca di Mattia Corvino in Ungheria, che fu dispersa nel XVI secolo e i cui
volumi sono stati rintracciati ovunque, dalla Polonia agli Stati Uniti*°. La biblioteca personale del duca Humphrey di Gloucester è stata ricostruita, e tanti dei suoi libri sono stati identificati in In-
ghilterra e altrove”. Importanti collezioni degli Sforza e dei Visconti di Milano o dei principi di Aragona a Napoli sono state por-
tate via poco prima o poco dopo il 1500, e gli attuali proprietari sono stati rintracciati o identificati”. La maggior parte dei manoscritti Sforza è ancora a Parigi, mentre i libri degli Aragona sono dispersi tra Liverpool, Stoccolma e il Vaticano, anche se il grosso del
patrimonio è rimasto, fin dal XVI secolo, a Parigi o a Valencia. I manoscritti di Bruni e di altri, copiati per il cardinal Fillastre, sono conservati a Rheims”. Verso la fine del Quattrocento, Raphael de
Marcatel, abate a Ghent e bastardo della casa di Borgogna, aveva una imponente collezione di manoscritti copiati, in parte da edizioni a stampa, nella quale trovavano posto molti scritti degli umanisti italiani. Quei manoscritti oggi sono conservati non solo a Ghent, ma anche a I-Iolkham Hall, Haarlem e Siviglia. Fernando Colombo, il figlio di Cristoforo, era un appassionato bibliofilo e la sua biblioteca è tuttora, quasi intatta, a Siviglia. Dalle sue annotazioni sugli acquisti fatti, scopriamo che i libri provenivano da tutta Europa, soprattutto dall°Italia, e che alcuni erano esemplari rarissi83
i Il pensiero e le arti nel Rinascimento M
mi se non addirittura unici”. La famosa raccolta dell'Escorial comprende molti manoscritti comprati in Italia da Filippo II. A parte queste collezioni messe insieme da ricchi bibliofili che preferivano manoscritti di lusso su pergamena e decorati da capilettera e miniature, non dobbiamo dimenticare le biblioteche e i libri più modesti copiati o comprati da studiosi stranieri durante il loro soggiorno nelle università italiane. Un esempio famoso di una biblioteca di questo genere è quello di Hartmann Schedel, i cui manoscritti oggi sono in gran parte a Monaco”. I manoscritti raccolti dall”umanista Augustinus Moravus ancora costituiscono un importante nucleo della Biblioteca del Capitolo di Olomuc, oggi di proprietà del locale Archivio di Stato. Gran parte della piccola collezione di manoscritti conservati nella Cattedrale di Strängnäs viene dalla raccolta personale di Conrad Rogge, che aveva studiato a Pe-
rugia intorno alla metà del XV secolo e che era morto vescovo di quella città. La biblioteca dell'abbazia di Fiecht in Austria possiede un nucleo di manoscritti, comprese alcune rare opere di Petrarca,
che l'abate fece copiare nel Quattrocento in Italia settentrionale”. Alcuni dei libri di Albrecht von Eyb sono ancora nella biblioteca di Eichstaett, dove questi era canonico, e la sua famosa Margarita poetica, di cui ci rimangono ancora copie manoscritte e a stampa, fu compilata in gran parte da fonti umanistiche italiane”. Più numero-
si delle biblioteche complete sono i singoli manoscritti copiati da o per gli studiosi stranieri in Italia”. Ci sono molte miscellanee di mano nordica ma che comprendono raccolte di testi degli umanisti ita-
liani, spesso accanto a scritti teologici o giuridici, oggi conservate a Vienna, Melk o St. Paul, Eichstaett, Pommersfelden o Bruxelles”.
Un'analoga raccolta messa insieme da uno studioso boemo era fino a poco tempo fa conservata nella collezione Dietrichstein a Nikolsburg: oggi si trova in una collezione privata di New York. A
volte, l”oscuro copista o il proprietario apponevano il loro nome sulla copia, permettendoci così di trarre informazioni più specifi-
che sull'origine, gli interessi o la fortuna successiva del testo”. Legata alla diffusione dei manoscritti umanistici è quella della scrittura umanista italiana nel resto d'Europa, un tema molto importante e ancora tutto da esplorare. I caratteri minuscoli che oggi usiamo senza farci caso, anche se si basano su modelli carolingi, furono generalmente adottati durante il XV e il XVI secolo al posto 84
M La diffusione europea dell'umanesimo italiano M
della scrittura gotica, per effetto di una consapevole riforma della grafia realizzata dagli umanisti dell'inizio del XV secolo e soprattutto da Poggio Bracciolini. Il corsivo umanistico, o italico, fu inventato dagli umanisti del primo Quattrocento, probabilmente da Niccoli. L'origine e la diffusione iniziale di queste due grafie è stata di recente studiata da B. L. Ullman“, ma la loro diffusione successiva e la loro adozione parziale o completa da parte degli amanuensi non italiani è ancora tutta da studiare. Quando il libro stampato cominciò a prendere il posto del manoscritto, il suo ruolo nella diffusione dell”umanesimo italiano non fu certo meno impressionante di quello che aveva avuto il manoscritto fino a poco prima. I libri editati dagli stampatori italiani venivano venduti in tutta Europa ed entrarono in tutte le biblioteche pubbliche e private, come possiamo vedere dalle lettere e dagli in-
ventari del tempo. Almeno per il XV secolo abbiamo un'analisi statistica dei libri stampati in Italia, da cui si evince che gli scritti degli
umanisti, e i testi classici da loro curati, occupavano un notevole posto in quella produzione". Per quanto prezioso per la conoscenza del XVI secolo, lo Sbort- Title Catalogue ofBooks Printed in En-
gland” non ci dà però un quadro completo delle letture a disposizione degli studiosi inglesi di quel periodo. Le biblioteche inglesi possedevano infatti una ingente quantità di libri stampati nel con-
tinente e importati poi nel paese" nel Cinquecento, come succede oggi negli Stati Uniti. Di conseguenza, anche gli studiosi inglesi si facevano stampare alcune delle loro opere nell”Europa continenta-
le”. Inoltre la diffusione degli scritti degli umanisti italiani non si li'mitava alle edizioni stampate o acquistate in Italia. Durante il XVI secolo quelle opere venivano spesso ristampate da editori stranieri, soprattutto in Svizzera, Germania, Francia e Paesi Bassi. Esistono studi recenti che si occupano delle opere degli eruditi italiani pubblicate a Basilea nel Cinquecento“', e risultati analogamente notevoli si possono attendere dallo studio di altri centri della stampa, soprattutto Lione, Strasburgo e Anversa". Se ci chiediamo quali opere degli umanisti italiani siano andate più di moda all'estero, la risposta non potrà essere semplice, né uniforme. Un gran numero dei manoscritti e delle copie a stampa
che ci rimangono appartiene alla categoria dei libri di testo di cui 85
i Il pensiero e le arti nel Rinascimento M
abbiamo già parlato, il che non deve sorprendere, dal momento che si tratta di un genere di libro di cui è necessario avere un gran numero di copie. Gli interessi del lettore colto, d'altra parte, andavano molto al di là delle esigenze scolastiche, e coprivano praticamente tutte le branche della letteratura coltivate dagli umanisti: le copie, la cura, le traduzioni e i commenti dei testi antichi fatti dagli umanisti, così come i loro trattati di grammatica e di retorica, le lettere, le orazioni e i poemi, spesso usati come modelli stilistici da imitare, le loro opere di storiografia e infine i loro trattati morali e
i loro dialoghi. I motivi per cui gli editori e i lettori stranieri preferivano certi autori o certe opere ad altre variava da caso a caso, come abbiamo già detto. Di particolare interesse per lo studioso dell'umanesimo italiano sono quei casi in cui si è conservata l'intera
opera di umanisti italiani grazie al lavoro dei copisti, degli stampatori o dei proprietari. Per esempio, l”unico manoscritto completo della corrispondenza di Bartolomeo Fazio, che contiene una quantità di lettere note solo attraverso quella fonte, è stato scoperto in una biblioteca spagnola, così come la traduzione in volgare di Isocrate, fatta dallo stesso umanista”. La produzione umanistica del
giurista pavese Cato Saccus, che s'intitolava Semideus, esiste solo nelle biblioteche fuori d'Italia e due dei tre manoscritti sono chiaramente di mano non italiana”. Tutta una serie di poesie latine del
Petrarca è stata conservata quasi interamente in manoscritti rimasti in Moravia e in Austria per molti secoli”. Il Cbrysis di Enea Silvio Piccolomini sopravvive in copia unica a Praga, dove presumibil-
mente fu copiato da uno dei suoi colleghi boemi della cancelleria imperiale”. Come ha mostrato Ludwig Bertalot, una redazione delle lettere-tipo di Gasparino Barzizza è stata conservata solo in un manoscritto che si trova a Cracovia fin dal XV secolo” e un'interessante opera di Lauro Querini, in qualche modo collegata al celebre Certame Coronario fiorentino, sopravvive esclusivamente grazie ai manoscritti copiati da amanuensi nordici e conservati in biblioteche straniere”. Il poema di Tito Livio Frulovisi in lode del duca Humphrey di Gloucester è stato scoperto a Siviglia, dove è rimasto al sicuro dai tempi di Fernando Colombo”. Un altro tipo di diffusione che mi piace menzionare è rappresentato dalle traduzioni e dalle imitazioni, fatte in altri paesi e in lingua locale, della produzione degli umanisti italiani durante il Rinascimen86
M La diffusione europea dell'umanesimo italiano M
to. A quanto mi risulta, questo aspetto non è stato ancora sufficientemente indagato o compreso. In molti casi si tratta di una sola edizione o di un solo manoscritto, ed è possibile sostenere che cose di questo genere non hanno grande importanza nel panorama complessivo del periodo. Personalmente sono invece incline ad attribuire maggiore importanza a questo tipo di fenomeni. Un solo manoscritto, se su pergamena, era destinato a una biblioteca dove poteva essere letto da molta gente; e anche la copia su carta di un testo che rechi una prefa-
zione o una dedica dimostra quanto meno che esso era inteso per la diffusione e la pubblicazione. Il caso più noto è quello della bibliote-
ca del marchese de Santillana studiata da Mario Schiff a partire dai manoscritti che un tempo appartenevano al duca di Osuna, oggi conservati nella Biblioteca Nacional di Madrid”. Caratteristica notevole di questa biblioteca è la grande ricchezza di traduzioni italiane e spagnole, alcune delle quali assai rare o addirittura uniche, degli scritti latini degli umanisti italiani. In considerazione della tendenza prevalen-
te tra gli studiosi di letteratura spagnola a minimizzare l'importanza dell'umanesimo spagnolo, l'esistenza stessa di questa biblioteca andrebbe adeguatamente sottolineata. Vorrei aggiungere anche le tradu-
zioni spagnole delle lettere cosiddette di Falaride e degli scritti ermetici che ho trovato nelle raccolte spagnole e che sono chiaramente de-
rivate dalle traduzioni latine dei testi greci approntate dagli studiosi italiani: i traduttori spagnoli infatti includono la prefazione aggiunta
dagli studiosi italiani alle versioni latine“. In un manoscritto conservato alla Hispanic Society of America, ho trovato una traduzione
catalana di una delle opere storiche di Leonardo Bruni, che di fatto è un libero adattamento di un'opera greca di Polibio". In un altro caso leggiamo che è stata fatta la traduzione italiana di un originale latino per un mecenate spagnolo, il quale evidentemente leggeva meglio l'italiano del latino”. Ci sono anche manoscritti sontuosi, su pergamena, oggi conservati a Leningrado e a L'Aia, che contengono le traduzioni francesi delle composizioni o delle versioni latine do-
vute a umanisti italiani come Aurispa, Decembrio, Donato Acciaiuoli o Andrelini”. Il De nobilitate di Buonaccorso, oggi dimenticato, ma un tempo molto popolare, fu tradotto in inglese da Tiptoft e stampato da Caxton°°, e fornì anche la trama del primo dramma laico in lingua inglese, il Fulgens and Lucres di Henry Medwall°'.
E sono certo che non sarebbe difficile continuare questa lista”. 87
i Il pensiero e le arti nel Rinascimento M
Altri documenti non ancora analizzati a sufficienza sono le lettere di presentazione aggiunte dai copisti stranieri, dai curatori o dagli stampatori ai manoscritti stranieri con gli scritti degli umanisti italiani. Una copia di Enea Silvio Piccolomini e di Leonardo Bruni, ora a Princeton, contiene una lettera di accompagnamento scritta a Roma da John Colet a un amico inglese, unica testimonianza diretta che abbiamo del viaggio italiano di Colet”. Il collegio All Souls di Oxford possiede una copia a stampa delle lettere di Ficino, un tempo posseduta e annotata da Colet, in cui si trovano alcune lettere scambiate tra lui e Ficino, assolutamente sconosciute fino a pochi
anni fa“. Una copia della traduzione di Cincius dello pseudo-platonico Axiocbus, scritta da mano inglese e ora conservata ad Abery-
stvvyth, è preceduta da una lettera, probabilmente indirizzata dallo scriba a un vescovo inglese”. Una copia della traduzione di Giovanni Crisostomo, ora a Bruges, contiene una prefazione in cui il copista fiammingo paragona i meriti delle traduzioni umanistiche e di
quelle precedenti di quel Padre della Chiesa“. In un manoscritto oggi conservato a Stoccolma, e che prima era a Frombork (Frauenburg), il De vita solitaria di Petrarca è preceduto dalla prefazione dello scriba, un frate tedesco, dedicata al vescovo di Varmia”. Le prefazioni di curatori e stampatori dovrebbero fornire molti più dati sulla fortuna degli studiosi italiani, ma purtroppo non sono state
mai né studiate né prese seriamente in considerazione. Alcuni accenni trovati in due recenti dissertazioni sulla stampa a Basilea nel Cinquecento mostrano quello che potremmo attenderci da un'ulte-
riore ricerca in quella direzione”. Un caso speciale, un po° diverso da quelli cui abbiamo accennato, è quello del manoscritto oggi conser-
vato a Dublino, in cui uno scriba inglese ha aggiunto il re Enrico V al parallelo tra Alessandro, Annibale e Scipione, all'interno di un'opera estremamente popolare composta da Aurispa alla maniera di Luciano”. Tutti questi documenti non solo dimostrano l'interesse e il rispetto che gli studiosi stranieri nutrivano per quelli italiani in ge-
nerale, ma in molti casi indicano anche le ragioni per cui amavano una certa opera o un certo autore più di altri. Tutto ciò è ben riassunto dalle parole con cui il giurista e umanista tedesco Martin Brenninger lodava gli umanisti italiani, un testo in cui mi sono casualmente imbattuto in Austria: «Petrarca, Bruni,
Guarino, Valla e Poggio sono recentemente fioriti tra gli italiani e 88
M La diffusione europea dell'umanesimo italiano M
con i loro sforzi hanno ridato vita alla lingua latina che era quasi morta. Sarebbe un crimine allontanarsi dalla pratica di uomini tanto insigni e famosi››'°. Le parole che usa sono di straordinario interesse perché vediamo che lo slogan della rinascita del sapere, usato dagli umanisti italiani per sottolineare le loro conquiste", era stato pienamente adottato da uno dei loro allievi e ammiratori tedeschi. Ho cercato di descrivere alcuni dei canali principali attraverso i quali l”umanesimo italiano si diffuse in altri paesi dell'Europa centrale e occidentale. Debbo trattenermi dal desiderio di descrivere le manifestazioni pratiche di quell'influenza, ovvero l'emergere di un
umanesimo locale nei vari paesi, con le sue caratteristiche, i suoi successi e il suo impatto sulla letteratura e sulla cultura delle diverse nazioni. Lo schema generale sembra essere di adattamento più
che di imitazione, cosa che spiegherebbe come mai l'umanesimo abbia assunto caratteristiche diverse nei diversi paesi. Sta agli storici delle diverse letterature occuparsi di quegli sviluppi: qui posso solo suggerire che sarebbe bene farlo con una qualche considerazione delle fonri disponibili e dell'influenza dell'umanesimo italiano, oltre che della letteratura italiana in volgare. Viceversa, per lo studioso dell”umanesimo italiano è importante sapere quali dei suoi tanti aspetti ebbero più influenza negli altri paesi europei. Lo studioso di letteratura italiana che in genere segue una tradizione di studi nata nell'Italia ottocentesca, farebbe bene a prestare maggiore attenzione a certi aspetti della letteratura italiana che possono apparire secondari dal punto di vista tradizionale, ma che sono sta-
ti importantissimi per la diffusione internazionale della cultura italiana. Perché l'umanesimo e il Rinascimento italiano rappresentano
al di là di ogni dubbio il periodo di massimo prestigio e influsso internazionale della letteratura e della cultura di questo paese. Note 'A. Campana, The Origin of the Word «Humanist», in «Joumal of the Warburg and Courtauld Institutes››, IX, 1946, pp. 60-73; P. O. Kristeller, Humanism and Scbobzsticism in the Italzan Renaissance, in «Byzantion››, XVII, 1944-5, pp. 346-75 (ristampato in Id., Studies in Renaissance Tbougbt and Letters, Roma 1956 e in Id., Renaissance Tbougbt, New York 1961). Non è questo il luogo per discutere le diverse interpretazioni del termine umanesimo offerte da altri studiosi, quali Baron, Garin o Toffanin. *G. Parks, The English Traveler to Italy, I, Stanford 1954; G. Mattingly, Renaissance Diplomaty, London 1955. 89
M Il pensiero e le arti nel Rinascimento M 3 F. Simone, Guillaume Ficbet, retore ed umanista, in «Memorie della Reale Accademia delle Scienze di Torino», LXIX, parte Il, Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche 1939, pp. 103-44; R. Mitchell, ]obn Free, London 1955; G. card. Mercati, Questenbergiana, in Opere minori, Iv, Città del Vaticano 1937, pp. 437-61. Un'orazione su santo Stefano, composta da Fichet negli ultimi anni trascorsi a Roma, è rimasta sconosciuta ai suoi iografi (ms. Var Chigi] V1 235). Riguardo a una lettera da Roma di John Colet, cfr. W. K. Ferguson, An Unpublisbed Letter of jobn Colet, Dean of St. Paul's, in «American Historical Review», XXXIX, 1933-4, pp. 696-9 (per questo riferimento sono in debito con il professor Sears Jayne). Il manoscritto si trova oggi nella Princeton University Library (ms. 89). ° La prova di questa affermazione è contenuta in P. O. Kristeller, Iter Italicum, 4 voll., Leiden 1963-89. Riguardo a un copista francese che fece l'a prendistato presso Poggio, cfr. B. L. Ullman, Tbe Origin and Development oƒPHumanistic Script, Roma 1960, p. 87. *Per quanto riguarda gli studenti stranieri nelle università italiane, cfr. la bi-
bliografia contenuta in P. Kibre, Tbe Nations in tbe Mediaeval Universities, Cambridge (Mass.) 1948, p . 189-208. Su Bologna, si veda S. Stelling-Miehaud, L'Université de Bologne et E pénétration des droits romain et canonique en Suisse aux XIII' et XIV' siècles, Genève 1955, pp. 280-1. Su Padova, cfr. A. Favaro, Saggio di Bibliografia dello Studio di Padova (2 voll., Venezia 1922) peri riferimenti elencati nell'indice, II, p. 410. °Riguardo ai discepoli di Guarino, cfr. C. de' Rosmini, Vita e disciplina di Guarino Veronese e de' suoi disc oli, III, Brescia 1806; Cfr. anche Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri de7i'ecolo XV, a cura di P. D'Ancona e E. Aeschlimann, Milano 1951; R. J. Mitchell, jobn Tiptoft, London 1938; Charles G. Nauert Jr, Agrippa in Renaissance Italy, in «Studies in the Renaissance», IV, 1959, pp. 195-222.
(R. Srintzing, Gescbicbte der deutscben Recbtswissenscbaft, I, München 1880; Stelling-Michaud, L'Université de Bologne cit. “P. O. Kristeller, Una novella latina e il suo autore Francesco Tebaldi, mercante fiorentino del Quattrocento, in Studi Letterari, Miscellanea in onore di Emilio Santini, Palermo 1956, pp. 159-80.
"A. Berzeviczy, Beatrice d'Aragon, Reine de Hongrie, 2 voll, Paris 1911-2; Maximilian 1, catalogo della mostra, Wien 1959, pp. 13-6; W Pociecha, Królowa Bona, 4 voll., Poznan 1949-58. ' '°Julius Caesar Scaliger arrivò in Francia come medico di Antonio della Rovere: V. Hall, Life oƒjulius Caesar Scaliger, in «Transactions of the American Philosophical Society», arte II, 1950, pp. 85-170. " Ermolao Barbaro, E istolae Orationes et Carmina, a cura di V. Branca, 2 voll., Firenze 1943. Sull'e