Cicerone interprete di Omero: un capitolo di storia della traduzione artistica 9788880967033, 8880967037


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Cicerone interprete di Omero: un capitolo di storia della traduzione artistica
 9788880967033, 8880967037

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STUDI LATINI Collana diretta da Fabio e Giovanni Cupaiuolo

-34-

CICERONEINTERPRETEDI OMERO

VALENTINACHINNICI

CICERONE INTERPRETE DI OMERO Un capitolo di storia della traduzione artistica

LOFFREDOEDITORE - NAPOLI

Proprùtà letterariariservata

LOFFREDOEDITORES.P.A. ¼a Consalvo,99 H (P.coS. Luigi is. D) 80126 Napoli http://www.loffedo.it E-mail· [email protected]

PREFAZIONE

In una conversazione tra colleghi si osservava come numerose opere ciceroniane manchino a tutt'oggi di un puntuale commento esegetico. Una constatazione, che non può non destare stupore, a portata non solo degli addetti ai lavori ma di tutti gli interessati al mondo antico. I nostri interlocutori ci confermavano nell'opinione che vuoti così paradossali, quanto, in fin dei conti, inspiegabili, andrebbero al più presto riempiti, allestendo lavori atti a colmare le lacune che si aprono, nonostante tutto, sia nel campo della produzione filosofica sia in quello della produzione retorica. Anche nel settore, in verità più elitario, delle traduzioni artistiche ... Così qualche anno fa si è deciso di affidare proprio questo tema a Valentina Chinnici quale oggetto di tesi di laurea, confidando che le sue qualità, unite a una puntigliosa ricerca dossografica, avrebbero assicurato buon esito all'impresa. Così ci sembra sia stato. Grazie all'ospitalità accordata dalla prestigiosa collana diretta da Fabio Cupaiuolo, questo lavoro, dopo opportuna revisione, può essere offerto ali'attenzione degli studiosi, e, chissà, lo si potrebbe forse continuare (possibilmente nella direzione delle traduzioni ciceroniane dei tragici greci). Quod filix faustumque sit .. .

Gianna Petrone Luciano Landolfì

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PREMESSA

"Tu fai versi senza nessuna ispirazione delle Muse e di Apollo. È un pregio: hai in comune questa virtù con Cicerone" 1• [epigramma di Marziale costituisce soltanto uno degli strali più feroci con i quali gli antichi stroncarono le velleità poetiche dell'Arpinate: anche Seneca il Vecchio, Quintiliano, Giovenale infierirono con maggior o minor livore sull'aspirante poeta, tanto che si può dire con Traglia2 che "a un certo punto, dir male di Cicerone poeta era divenuto un focus communis". Ariche la critica moderna {da Traglia a Malcovati, da Ronconi a Traina) non ha potuto esimersi dal consentire con i giudizi degli antichi, rilevando con maggiore o minor clemenza, gli innegabili limiti dell'ispirazione poetica di Cicerone. Il presente lavoro, che ha per oggetto lo studio delle traduzioni ciceroniane di Omero, non si propone di ingrossare le file dei detrattori di Cicerone poeta {sarebbetanto inutile quanto scontato) né, tantomeno, di rivalutare la Musa dell'Arpinate ricercando nei cinquantatré esametri analizzati qualche riverbero di 'autentica' poesia 3 • 1

Mare.2, 89, 3-4. La traduzione è di Traglia 19713, 50. Traglia 1971 3, 19. 3 Una sorta di poeticità 'riflessa' vede in queste traduzioni Traglia 1971 3, 23: " ...proprio questo maggiore impegno di fedeltà agli originali determina una poeticità di questi frammenti che invano cercheremmo negli altri versi ciceroniani. E si comprende bene che sia cosl. Appunto perché Cicerone non era un poeta, non ebbe un genio creatore capace di dar vita a una poesia propria, egli poté con la sua innata e innegabile sensibilità artistica assecondare e riprodurre la poesia degli altri. Poesia di seconda mano, poesia delle parole e non delle cose. Ma appunto perché queste traduzioni riproducono con maggiore fedeltà le creazioni altrui, quanto più grandi sono gli autori riprodotti in veste latina, tanto maggiore è la poeticità che dal traduttore viene trasmessa alla sua versione pur senza rinunciare alla sua personalità di scrittore". 2

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I.:approccio estetico è stato quindi evitato il più possibile poiché, come ha scritto Gentili 4 a proposito dei frammenti dell' Odysia di Livio Andronico, esso "eluderebbe, attraverso un giudizio di valore soggettivo ed arbitrario, il vero problema critico, che è quello di individuare la specifica funzione del tradurre in rapporto al pubblico cui è destinato". E ciò sarà tanto più vero nel caso delle traduzioni esaminate appresso, le quali, a differenza dell' Odysiadi Livio, hanno la particolarità di essere concepite come citazioni. Per questo motivo, piuttosto che chiederci la funzione di queste traduzioni rispetto al pubblico, dal momento che non si tratta di un'opera organica ed autonoma (come era per esempio la versione degli Aratea dello stesso Cicerone), si è cercato di chiarirne la funzione in rapporto al contesto in cui di volta in volta i nove frammenti sono stati inseriti dall'autore. Viceversa, l'altro aspetto che si è tentato di mettere in luce, è se e in che misura la tecnica di traduzione dei versi omerici sia stata condizionata dalla loro riduzione a citazione. Infatti i versi provengono tutti dalle opere filosofiche di Cicerone, che, in conformità ad un uso ormai invalso nella tradizione speculativa5, sono intercalate da citazioni di svariati autori, greci e latini. La preoccupazione costante dell'Arpinate è quella di contestualizzare accuratamente queste citazioni, in modo che non appaiano inserite ex abrupto, ma risultino calzanti ed appropriate. Il modello più vicino cui Cicerone sembra guardare è, anche in questo caso, il suo 'maestro', il filosofo Filone di Larissa6,che in un vivace scambio di battute in Tusc.2, 26, viene con4

Gentili 1977, 102. Cfr. Grilli 1987, 255: "Già Platone e Aristotele (nelle opere essoteriche) avevano inserito versi alla loro prosa, più che altro per richiamare attraverso la citazione di poeti opinioni comuni, o per controbattere comuni pregiudizi. Il loro uso misurato fu seguito da Epicuro e da Zenone; ma con Crisippo le citazioni si fecero più ampie e più frequenti, sia da Omero sia dai tragici, e negli stoici posteriori si giunse a un eccesso, che fu ridotto solo -per quanto pare- dai due maggiori esponenti dello stoicismo di mezzo, Panezio e Posidonio. Un esempio tipico di questa moda che finiva a caricare di zavorra il filo logico del pensiero, era - a quel che dice Cic. qui sotto [Tusc. 2, 26] - il suo contemporaneo stoico Dionisio, di cui non sappiamo altro (...) Cic. stesso accoglie quell'uso, ma se non esagera nel citare continuamente passi di poeti, qui, nel primo libro del de divinatione,nel secondo del de natura deorum introduce brani di lunghezza poco proponionata ali' opera". 6 Su Filone vd. nota 5 dell'introduzione al fr. 8. 5

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trapposto ad un certo Dionisio stoico al quale Cicerone rimprovera proprio l'uso indiscriminato delle citazioni:

- Animadvertebasigitur, etsi tum nemo erat admodum copiosus,verum tamen versusab is admisceriorationi. - Ac multosquidem a Dionysiostoico. - Probedicis.Sed id quasi dictata, nullo dilectu,nulla elegantia;Philo et proprionumeroet lectapoemata et locoadiungebat. E ancora: a proposito delle citazioni da Platone e Aristotele, Cicerone puntualizza (fin. I, 7): locosquidnn quosdam,si videbitur,transfa-

ram, et maxime ab iis quos modo nominavi, cum inciderit ut id apte fieri possit,ut ab HomeroEnnius,A.franiusa Menandroso/et. Ma perché Cicerone ha scelto di tradurre i passi greci da inserire nelle opere filosofiche piuttosto che citarli in lingua originale (come avviene invece ripetutamente nelle epistole)? Verisimilmente, come è stato osservato, "la inserzione di versi greci avrebbe turbato la unità stilistica della composizione" 7: il problema non era cioè quello di rendere fruibile il greco ai lettori, dal momento che si trattava di un pubblico colto e generalmente in grado di comprendere e parlare quella lingua. In effetti Cicerone compie una scelta ben precisa, sulle orme della più antica tradizione letteraria romana: quella della libera traduzione con precisi intenti artistici, in una parola quella del vertere(non a caso il verbo introduce le due citazioni omeriche di div. 2, 63 e fin. 5, 49 e ricorre nel celebre passo di Tusc.2, 26 8). Del resto non va dimenticato che la stessa letteratura latina è nata con l'Odysia di Livio Andronico: la prima "traduzione artisticà' 9• Le caratteristiche di questa traduzione, intesa come libero rifacimento, fecero sl che "nessuno che volesse citare Omero pensò di riportare passi dell'opera liviana" 10, opera che non a caso Orazio (Ep. II I, 69) definiva Carminum Livii e di cui Gellio (XVIII, 9, 5) parlava come de libro veraevetustatisLivii Andronici11• Nessuno dunque avrebbe mai

7 8

Cosl Malcovati 1943, 53. Vd. anche Ronconi 1968, 112-113. Cic. Tusc.2, 26: ltaqi« postquam adamavi hanc quasi smilem declamationem,

studiose equidem utor nostrispoetis; sed sicubi il/i defturunt, verti enim multa de Graecis,ne quo ornamentoin hocgmere disputationiscareretLatina oratio. 9

Cfr. Mariotti 19862, 17. 1 Cosl Mariotti 19862 , 14. 11 Cfr. Trencsény-Waldapfel 1961, 165.

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pensato di negare a Livio, come ad Aedo, a Plauto e a Terenzio, la qualifica di 'poetà, dal momento che è con loro, come ha sottolineato il Leo12, che "die Romer haben nun auch angefangen zu dichten; daB sie wiederdichten was die Griechen ihnen vorgedichtet haben, macht keinen Unterschied". La tecnica del vertere, che porta questi poeti latini ad ampliare, ridurre, 'contaminare' i modelli greci è finalizzata ad una 'romanizzazione' degli originali e ad un conseguente arricchimento della cultura latina 13. La posizione assunta dal letterato romano è, però, com'è noto, tutt'altro che subalterna: anche quando Plauto, adottando la prospettiva greca, parlerà di sé come di colui che vortit barbare (As. 11 e Tr. 19), egli "sa di non sfigurare completamente riguardo ai suoi illustri precedenti greci, e, nell'apparente modestia si fa portavoce di valori autonomi, che sono «altra cosa» rispetto al mondo greco di culturà'14. È con questo spirito di emulazione, quasi intrinseco al 'carattere' della letteratura latina, che Cicerone pare accostarsi ai poeti greci che riporta in traduzione. Se infatti l'autore mostra talora una umiltà e una deferenza a lui insolite nel presentare queste sue rese latine 15, pure egli si pone, almeno nel caso di Omero, in una posizione quasi paritetica, o, quanto meno, 'dialetticà rispetto al modello. Omero non è sempre e in ogni caso, come ci si potrebbe aspettare, l'autorità indiscussa da cui trarre sostegno per corroborare le proprie opinioni. Questo, invece, è il ruolo che il poeta greco riveste per Quinto, il fratello di Cicerone, che nel I libro del de divinatione ricorre diverse volte all'autorità omerica, in ossequio alle consuetudini stoiche. Al 12

Leo 1973'3.87. Osserva ancora Leo 19733, 89: "Durch ihren Inhalt die romische Anschauung zu bereichern war das Motiv der ganzen Bewegung". Vd. anche Gentili 1977, 95: "I..:artedel tradurre e il mestiere del traduttore nascono dal bisogno di una società di penetrare nel contesto di un'altra cultura ... il bisogno di impossessarsi, mediante la traduzione, del patrimonio di esperienze linguistiche, scientifiche e letterarie" di una società più evoluta, "per ampliare le proprie conoscenze e raggiungere un superiore livello di vità'. 14 Cosl Petrone 1983, 36. 15 È il caso di alcune traduzioni da Euripide: cfr. fr. 2 Soubiran (off. 3, 82): Graecosversus... quos dicam, ut potero, inconditefortasse, sed tamen ut respossit intellegi. Espressioni consimili anche in fin. 2, 105 (Eur. fr. 6 Soub.), Tusc.3, 29 (Eur. fr. 5 Soub.) e Tusc. 1, 15 (Gr. fr. 3 Soub.). 13

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contrario, come si avrà modo di notare, almeno in quattro occasioni le traduzioni omeriche funzioneranno Ka't' civti.paotv:è il caso dei primi tre frammenti analizzati di séguito, pertinenti proprio alla divi16 nazione, e del fr. 6, che presenta Achille incapace di dominare l'ira • Altrove il messaggio omerico viene accettato, ma deve sottostare ad una previa 'moralizzazione' del mito narrato (è quanto avviene nel fr. 8, in cui Ulisse viene legittimato per aver voluto ascoltare le Sirene in nome della 'conoscenza' che esse gli assicurano). Un atteggiamento cosl 'disinvolto' di fronte al contenuto dei versi citati non poteva non trovare rispondenza nello stile adottato per le traduzioni, che lungi dall' ~rimere verbum de verbo, sceglie appunto la via della 'metamorfosi' 17• Cercare di comprendere allora modalità e funzioni di queste traduzioni è stato l'oggetto del presente studio, che ha ritenuto indispensabile, a tal fine, il confronto dei versi latini con i corrispettivi esametri omerici. Lo strumento più efficace per un lavoro di questo tipo è stato individuato in una serie di sc_hedeche hanno consentito la sinossi puntuale dei versi. Analisi e commento hanno naturalmente privilegiato la versione latina, limitandosi, per quel che riguarda il testo greco, a sottolineare eventuali particolarità o difficoltà, soprattutto in coincidenza degli scarti maggiori fra il modello e la traduzione. I versi sono stati interpretati per lo più singolarmente, tranne là dove sarebbe risultata sacrificata l'intelligibilità del testo o della resa stilistica complessiva (in ogni caso non sono stati mai presi in esame più di quattro versi insieme). Si è preferito quindi circoscrivere il campo di ricerca, cercando di approfondire l'analisi di queste nove traduzioni poetiche, che, come ha scritto Traina 18, "costituisco-

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Anche in Tusc. 1, 65 Cicerone, parafrasando Il. 20, 232-235 esprime una netta presa di distanza da Omero a proposito dell'episodio di Ganimede, il 'coppiere' degli dei, rapito da Zeus per la sua bellezza: Non mim ambrosia deos aut necta" aut luvmtate pocula ministrante laetari arbitror, nec Homerum audio. qui Ganymeden a dis raptum ait propter formam, ut lovi bibere ministraret: non iusta causa cur Laomedonti tanta .fimt iniuria! Fingebat haec Homerus et humana ad deos transf~bat; divina ma/km ad nos. Vd., in proposito, il commento di Ronconi 1973, 56-57. 17 "¼rto è il verbo della metamorfosi": cosl Traina 1989, 97, che cita, e. g., Plaut. Amp_h. 121, Verg.Am. 12,891; Ov. met. 2,698; etc. 18 Cfr. Traina 19742 , 55. 11

no un capitolo di una storia che non è mai stata scritta e non potrà forse mai scriversi per intero, la storia del vertere latino" 19• I frammenti latini, citati secondo l'edizione di Soubiran (Paris 1972), sono raggruppati in base al contesto da cui provengono: i primi tre, tratti dal de divinatione,concernono appunto il tema delle pratiche divinatorie; gli altri tre frammenti, provenienti dal terzo libro delle Tusculanae,sono orientati verso posizioni stoiche e accomunati da un certo rispecchiamento autobiografico; un capitolo a sé è dedicato all'unico frammento del de finibus, che presenta una particolare riscrittura dell'episodio omerico di Ulisse e le sirene. Infine, le ultime due schede riguardano i due frammenti di tradizione indiretta, dei quali, cioè, non ci è pervenuto il contesto ciceroniano, ricostruibile, tuttavia, dalle testimonianze dei due autori che ce li tramandano: Gellio e Agostino. Un'ultima precisazione riguarda le edizioni seguite per i versi omerici: i sette passi dell'Iliadesono tratti dall'edizione di Mazon, mentre i due brani dell'Odisseadalla recente edizione di van Thiel (citate in bibliografia).

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Sul problema generale della traduzione esiste, ovviamente, una vastissima letteratura, cosl come numerosi sono gli studi che affrontano il tema specifico della traduzione artistica latina. In questa sede ci si limita a rimandare ali'ormai classico studio di Mounin, tr. it. 1965 (=Paris 1963) che individua in Cicerone l'autore delle prime riflessioni sistematiche sull'arte del tradurre, contenute soprattutto nei celebri passi del de opt. gen. 14 e 23. Alla teoria ciceroniana che contrappone la traduzione verbum de verbo,degna del pedissequo interpres,alla libera rielaborazione del vertere, si è ispirato, com'è noto, S. Girolamo con il suo De optimogenereinterpretandied è per questo che diversi studi hanno preso in considerazione entrambi gli autori: basterà ricordare in proposito i lavori di Cuendet (1933) e di Serra Zanetti (1961, 355-405). Su Cicerone traduttore dal greco, e sulle sue traduzioni da Omero in particolare, ancora valida è la dissertazione di Atzert (1908) e fondamentali restano gli studi di Malcovati, Ronconi e Traina che verranno citati in séguito. Ulteriore bibliografia verrà indicata appresso nell'analisi dei singoli passi.

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I OMERO SECONDO CICERONE: note su un identikit generico e tendenzioso

Prima di iniziare il raffronto sinottico fra i testi, ci si è chiesti quale idea avesse Cicerone di Omero e se avesse accolto qualche elemento dalla messe di vite e leggende che lo concernevano, circolanti ormai da secoli. Traditum est etiam Homerum caecumfuisse1: Cicerone riprende dunque (sulle orme di Tucidide 2 e Simonide 3) la tradizione della cecità di Omero, antichissima, se nel "cieco di Chio" del v. 172 dell'Inno ad Apollo è da riconoscere il mitico cantore epico, tradizione in ogni caso accolta dalla quasi totalità delle Vite omeriche, pur con varianti relative alle cause e alle circostanze di tale infermità. La privazione della vista non è però, secondo Cicerone, una condizione limitante per il poeta, poiché, anzi, egli riusd a dipingere più che a scrivere ciò che non vide: at eiuspicturam, non poesin videmus:quae species formaque pugnae, quae acies,quod remigium, qui motus hominum, qui ferarum non ita expictusest, ut, quae ipse non viderit, nos ut videremus . .fi . -ecent effe Cicerone riprende il tradizionale paragone fra poesia e pittura 5 e lo riporta ad Omero, il poeta-pittore per eccellenza, pur cieco. Nel contesto del V libro delle TusculanaeOmero non è diventato altro che 1

Cic. Tusc.5, 114. Thuc. 3, 104. 3 Sim. fr. 85 B. 4 Tusc.5, 114. 5 Cfr., e. g., Plat. rep.377 e; 597 e; 603 b; Arist. poet. 2, 1448 a 4; 6, 1450 a 26, b 2; 15, 1454 b 9. Vd. Malcovati 1943, 39. 2

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una incarnazione del saggio stoico, cui la vita beatanon è negata neppure in situazioni di privazione o difficoltà (oscurità, esilio, cecità, sordità) e, del resto, se anche i mali fossero superiori ad ogni umana sopportazione, la soluzione, pronta in ogni momento e alla portata di tutti, sarebbe sempre la morte 6 • Oltre ad essere cieco, tradizionalmente Omero è anche vecchio, ma, come tutti i grandi poeti e pensatori, la sua è una vecchiaia 'pro7 duttiva', lungi dall'ottunderne gli interessi ed il fervore intellettuale • Il nome di Omero, preceduto da quello di Sofocle (ma solo perché Cicerone aveva appena parlato più estesamente del tragediografo che, vecchio, aveva composto l'Edipo a Colono) e seguito da quello di Esiodo, di Simonide, di Stesicoro, di Isocrate, di Gorgia e di molti altri, serve a dimostrare che manent ingmia senibus, modo permaneat studium et industria8• Cieco e vecchio, dunque, l'Omero di Cicerone, ma non mendico, poiché non sarebbe stato motivo d'onore elemosinare con i propri canti la pietà altrui, come parte della tradizione ci tramanda, anche se non manca chi, come Proclo, deduce che Omero fosse addirittura molto ricco ("infatti i lunghi viaggi esigono molte spese"9). Ad ogni modo, Cicerone non fa parola dello status economico di Omero, mentre un altro dato che accoglie dalla tradizione, è quello, ben noto, della contesa fra le città per rivendicare i natali del poeta: Homerum Colophonii civem esse dicunt suum, Chii suum vindicant, Salaminii repetunt, Smyrnaei vero suum esse confirmant itaque etiam delubrum eius in oppido dedicaverunt, premunt a/ii praeterea pugnant inter se atque contendunt1°. Le città nominate sono quelle ricorrenti più spes6

Cic. Arch. B, 19. Nella Vìta di Isacco Porfirogenito (p. 14) la cecità, che tra l'altro Omero si è inflitta, è anche del suo suicidio: KflVà0tJµwv 6ucm.,xwçrutEflv'Oµt\pou OÒ'tOL6Lacj>Ep0V'tO>ç 'tO'UXOLT'l'tOU.

KaÌ. ;6avov.

O'toà MnmtOLOUV'taL yàp KaÌ.

13

Cic. Arch. 8, 18. Cfr. Castorina 1953, 150-154. 15 Cic. Arch. 10, 23: Nam si quis minoregloriMftuctum putat ex Gnucis vmibus 14

percipi quam ex Latinis, vehmzmtererrat,proptereaquod Gnuca legunturin omnibus /ere fimtibus, Latina suisfinibus, exiguissane,continmtur. 6 Cfr. Malcovati 1947, 46. Su Apollodoro vd. Milnzel e Schwartz in PWREI 2, 2855 sgg. 15

Cicerone fissa all'886 a. C., sulle orme di Timeo), in Tusc. 5, 7 Omero è visto quale contemporaneo di Licurgo stesso. In generale, comunque, a Cicerone interessa l'anteriorità di Omero (ed Esiodo) rispetto alla fondazione di Roma (Tusc.1, 3), mentre, per quel che riguarda la dibattuta priorità cronologica fra il poeta epico ed Esiodo, l'Arpinate fa dire a Catone 17che l'autore dell'//iade e dell'Odirsea è vissuto molti secoli prima del poeta didascalico e, a suggello di questa convinzione in Tu.se.1, 98 (un passo tradotto dall'Apologia di Socrate18), 19 . · "Es'od inverte studiatamente Ia sequenu pIatonica I o-Omero" . Sebbene antichissimo e precedente ad Esiodo, Omero non è però il primo poeta greco in assoluto: la sua perfezione non può essersi manifestata ex abrupto, ma ebbe verisimilmente dei predecessori, come li ebbero i più grandi artisti greci: Nihil est enim simul et invm-

tum et perfoctum;nec dubitari debetquin faerint ante Homerumpoetae, quod ex eis carminibusintelleg!/otest,quae apud illum et in Phaeacum et in procorumepuliscanuntu? . . I riferimenti, desunti dall'Odissea stessa, concernono Femio e Demodoco, i due cantori nei quali Cicerone individua il ricordo di poeti preesistenti ad Omero. Il solo Femio è menzionato anche nella Vita pseudo-plutarchea ed in quella pseudo-erodotea come un insegnante {btoo.cr1eaì..oç ypaµµa:toov) che divenne padre adottivo e maestro di Omero e lo Pseudo-Erodoto lo collega esplicitamente al Femio dell'Odissea,asserendo che in Il. 1, 153-155 Omero volle tributare un omaggio riconoscente proprio a colui che lo aveva allevato ed istruito21. Dunque, un simbolico rapporto di figliolanza - seppur adottiva avrebbe legato Omero ali'aedo Femio. 17

Cic. sm. 15, 54: De qua doctusHesiodusne verbumquidemfocit...; at Homerus, qui multis, ut mihi videtur,ante secu/isfait .... 18 Plat. Apol. 41 a. 19

Cfr. Schol. ad IL 12, 22 (Erbse 301): KaÌ. O'tLàvÉyvw 'Hoi.o&>ç -cà 'Oµtipou wçàv VEW'tEpoç-cou-cou.Anche in Cic. sm. 23, citato sopra, Esiodo segue immediatamente Omero nella lista degli autori menzionati. 2 Cic. Brut. 18, 71. 21 Wta Ps.-Herod., 26: èutÉbtoKEbÈ KaÌ. riµi.q> -eroÉamoù bLOOCJKaÀq> -cpo-

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cj,E1aKaÌ. bLbaCJKaÀ.Eta Èv -clj 'ObuoCJEl.'IJ µ bÈ JtOÀLvai.priooµev e'Ùpua..ytnav(vv. 328-329). I.:indovino aveva cioè messo in chiara correlazione il drago con gli Achei: come quello aveva divorato i nove passeri, cosl i Greci avrebbero preso Troia dopo aver combattuto per nove anni. In Cicerone, invece, l'accento è posto solo sul rapporto passeri/anni e davvero non si comprende che ruolo possa avere il serpente: Nam quot avis taetromac-

tatas dente videtis,I tot nos ad Troiam belli exanclabimusannos:/ quae decumo cadet et poena satiabit Achivos. I.:interpretazione è basata sulle vittime anziché sull'uccisore, e di questo si menziona solo il taeterdens (cosl come, con analogo procedimento, nel fr. 3, per ridimensionare il vincitore Ettore si parlerà di Aiace colpito dalla spada del Troiano: Hectoreoperculsusconciditense).Tutto ciò in perfetta aderenza alla contestazione che Cicerone muoverà subito dopo: perché Calcante basa la sua profezia solo sui passeri? Che analogia corre tra i passeri e gli anni? La traduzione, quindi, non appare inserita ex abruptonel contesto, ma è frutto di una scelta meditata sul piano stilistico e formale. Non già quindi, come si è a lungo pensato 15, una traduzione giovanile, compiuta come uno dei tanti Jtpoyuµvcioµa'ta oratori e ripresa per . l' occasione. A far propendere verso questa ipotesi era stata la presenza di un lapsus nell'attribuzione del discorso tradotto: loquitur Agamemnon, dice Cicerone e invece in Omero è Ulisse a parlare (il nome è riportato un po' prima, in IL 2, 278). Bisogna dire che il traduttore non era nuovo a svi-

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Cic. div. 1, 1. Cfr., e.g., Pease196J2,454.

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ste e la,psusdi questo tipo 16 : la spiegazione più plausibile del fenomeno è che, riprendendo i testi dalle stesse fonti greche che consultava per i suoi trattati filosofici e trovandoli ridotti già a citazione (e dunque, verisimilmente, privi del contesto e del nome del parlante), Cicerone aggiungesse 'a memorià le attribuzioni, senza ricontrollare l'originale omerico 17• Quello di Calcante era fra l'altro un passo famoso e molto citato e non è da escludere che facesse parte di un 'repertorio' omerico codificato dalla tradizione {magari per usi scolastici), come fanno pensare anche gli errori di attribuzione degli stessi versi in Macrobio (Sat. 5, 14, 13: il parlante viene identificato in Calcante) e nell' llias Latina (v. 144: Nestore al posto di Ulisse) 18• D'altro canto, a distanza di tempo Ovidio stesso si approprierà questa pericope omerica come introduzione alla saga troiana in met. 12, 11-23. Il poeta mostra anche una sicura conoscenza della resa ciceroniana dal momento che riprende, risistemandolo, lo stesso materiale lessicale usato dall'Arpinate. 19 Per concludere, si può notare che anche in div. 2, 82 (= fr. 4), un errore di attribuzione 'preservà Ulisse dal contesto derisorio in cui il frammento è inserito {l'attribuzione erronea è ad Aiace): sarà certamente una coincidenza, ma è suggestivo pensare che Cicerone non abbia voluto compromettere quello che secondo lui è l'eroe sapiens(Tusc.5, 7) per eccellenza, il campione della vis demostenica (Brut. 40), addirit. bo Io deIla v1ta . speculat1va, · voIta a conoscere 1·1bene "20 . tura "'l1 s1m 16

Cfr., e. g., div. 2, 82 (Aiace anziché Ulisse}; de nat. deor.2, 9 (Tullo Ostilio anziché Tarquinio Prisco, citato correttamente in div.I, 31 e in rep.2, 36); Geli. 15, 6, I (= fr. 3: Aiace anziché Ettore). Gli antichi non erano nuovi a sviste di questo genere: cfr. quanto osserva D'Ippolito (I 997, 266) a proposito di errori consimili di Aristotele e Plutarco: "Bisogna riflettere sul senso che aveva per gli antichi una citazione: già il nome che a tale procedimento i retori davano, quello di XPllOLç,indica l'impiego meramente strumentale che essi ne facevano, mentre la prassi comune rivela il poco scrupolo per la fedeltà assoluta alle parole dell'autore citato". 17 Cosl Jocelyn 1973, 76 sgg. I.:identica spiegazione forniva già Costanza 1950, I 78; vd. anche Soubiran I 972, 62 sgg. 18 I.:osservazioneè di Tolkiehn I 991, 147. 19 Per l'analisi della traduzione ovidiana cfr. Baldo 1986, I 09-117, che legge però in Ovidio la rivendicazione di "una capacità di osservazione più attenta del testo omerico" rispetto a Cicerone "di cui peraltro Ovidio sembra ricercare i punti deboli per correzioni degne del letterato-filologo". 2 Cosi Ronconi I 973, 43, a proposito di fin. 5, 49 (= fr. 8).

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Cicerone fr. 1 div. 2, 63

Omero IL 2, 299-330

1) FERTE, VIRI, ET DUROS ANIMO

299) 'tÀij'tE, LÀOL, KaÌ. µEtva't' Èn;Ì,XPOVOV, opabaroµEv

TOLERATE l.ABORES

Il verso ciceroniano "ha l'energia lapidaria di una cohortatioimperatoria". È la :rcapatvEotç del dux che si appella al valore dei suoi uomini e li chia2 • D'altronde in ma viri, non cj>1.À.0L Tusc.2, 43 è Cicerone stesso ad affermare che virorum essefortium et magnanimorumet patientum et humane vincentium toleranterdolorempati e a ricondurre l'etimologia di virtus a vir (cfr. anche Varro ling. 5, 73: virtus ut viritusa virilitate). FERTE = 'tÀ.1Ì'tEè l'unica parola che corrisponde al greco nel primo verso3• I due sinonimi, forte e tolerate,sono desunti da quella verborumconcertatio con cui Zenone definiva il dolore in Tusc.2, 30: asperum,difficileperpessu, durum, vix quod ferri tolerarique possit4. DUROS... LABORES: Cicerone avverte una certa affinità semantica tra do/ore labor (sunt finitima omnino, Tusc.2, 35), tanto che, come nota Traglia5, in un verso del Marius Cicerone riferisce durus anche a dolor (fr. 3, 6 Soub.).

Odisseo si rivolge con tono simpatetico ai suoi soldati, chiamandoli amici "and through the first person plural of baroµEv ... he claims to share their feelings" 1• [esortazione risulta, nel complesso, più blanda, meno impegnativa e circoscritta temporalmente dall'bù XPOVOV (Cerri rende infatti il sintagma , ,,, , " µELVpECJLV, Èo,;È6ÈJtClV'tEç "L'ambito della riflessione e della decisione è piuttosto descritto da termini come ker ("cuore") o phrenes (identificato nel linguaggio medico posteriore come "diaframmà', ma che in Omero vale più probabilmente "polmoni"). Il riferimento anatomico di questi termini non deve trarre in inganno: non si tratta degli "organi" corrispondenti alle funzioni psichiche del pensiero, semplicemente perché in Omero è assente qualsiasi idea di una simile correlazione psicosomatica; si tratta piuttosto di una localizzazione spontanea di questi fenomeni primari del1'esperienza psicologica, da cui tra l'altro anche la sfera della riflessione e della decisione viene connotata in modo fortemente emotivo"m. Anche in off. 3, 108 (iuravi lingua, mentem iniuratam gero) Cicerone rende pfrv con mens traducendo Eur. HippoL612 'H yÀ.Coocr'oµrox', YJ 6È PTtV àvwµo,:oç.

,

2

111

Cos} Vegetti 1985, 202.

5) QUI NON FUNESTIS LIQUERUNT LUMINA FATIS.

ouç

302) µapn,pot, µT) K'llpEç efkxveava,;01,0Épouoat

Ancora un'allitterazione (/iquerunt lumina) che ne divarica un'altra (jùnestis ... fatis} con un efficace chiasmo capace di restituire la patina poetica resa in greco dalla formula epica15• L/QUERUNT LUM/NA riprende simili espressioni enniane (Ann. 149 V 2 = 137 Sk.: lumina sic oculis. .. reliquit) presenti anche in Lucrezio (3, 542: lumina qui linquunt moribundi; 5, 989: I· L fa mmtts• ,umzna I • • ~ 16 ttnqutuant vitae, . L'immagine della morte ne esce come sfumata e raddolcita: eufemistica è la visione del morente che abbandona la luce a causa di non meglio definiti funesta fata, in una prospettiva rovesciata rispetto a quella omerica, dove i morti sono oggetti (ouç) ghermiti dalle Chere. FUNESTIS. . • FATIS: clausola dissillabica, allitterante ed omeoteleutica, dal sapore epigrafico.

µcipn,pot conferisce al verso il tragico sapore di un appello a dei sopravvissuti, che soli, appunto, possono farsi testimoni. Aristarco e quasi tutti i manoscritti leggono la forma aggettivale µap'tupot (cfr. Il. 7, 76: ... Zeùç b' ൵' Èxtµcip-rupoç eo,;w) contro quella zenodotea µap-ruptç. La scelta dell'aggettivo memori da parte di Cicerone induce a pensare che egli traducesse, pur liberamente, µcip-rupot, anche se Kirk ritiene che la lezione µap't~.Wç "may well be correct .

6) ARGOLICIS PRIMUM UT VESTITA

303) X,'ttl;,ci'tE KaÌ. Jtpootl;,',o't' ÈçA-ÙÀ.i.ba viitç 'Ax,auov

EST CLASSIBUSAULIS, PRIMUM

ur. risolve con libertà quella

che almeno per noi è un'espressione oscura e difficile: X'td;d 'tE K cxì. xpwi.l;(cx). 15

Cfr. Traina 19742 , 73. 16 Altre attestazioni in Plauto Cist. 643: lumm linque e in Nevio trag.28 R3: ubi... volucreslino linquant lumina. Nei frammenti poetici di Cicerone si trova vitalia /umina liquit (de consuL2, 24 Soubiran) e vitae... lumina linqums (fr.3).

I

X,'ttl;,ci'tE KaÌ. rtpootl;,(a) suona letteralmente "ieri e ieri l'altro". Si tratta di "an idiom not elsewhere found in Homer, but relatively common in classica! Greek in the form Jtproriv 'tE KaÌ. x,0Éç,e. g. Hdt. 2, 53, 1". Cosl Kirk, che interpreta l' e-

IV Kirk

I 9903, I 48.

29

VESTITA EST... AUIJS: immagine uma-

nizzata dell'Aulide che si veste delle navi, assente del tutto in greco poiché, come ha dimostrato Ronconi, si tratta di un complesso "giuoco semantico di origine lucreziana" 17 , quasi di una glossa all'espressione lucreziana at mare velivolisflorebat... (5, 1442) 18, "ed è glossa attinta da Ennio, che in florere omnia ... prata convestirier19 aveva già posto un verbo in funzione esegetica dell'altro". Per l'uso traslato di vestio in Cicerone, cfr., e. g., Tusc. 5, 64: sepulcrum... vestitum vepribuset dumetis; nat. deor. 2, 132: Montes vestiti atque silvestres.

spressione semplicemente come "yeste~day»V . Dal canto suo Cerri traduce: "uno o due giorni dopo che in Aulide s'era riunita la flotta ,,VJ achea .

7) QUAE PRIAMO CI.ADEM ET TROIAE

304)

PESTEMQUE FEREBANT,

IlpLaµq>TpoocrÌ. cj>ÉpoucraL,

CLADEM... PESTEMQUE:

il traduttore

rende con una dittologia sinonimica il generico e sobrio KaKa dell'originale. Secondo Ronconi l'endiadi "non sarà tanto un prodotto della copiaverborum ciceroniana quanto del formulare TproECJCJtcj>ovov Kat K'tÌfa 2 cj>ÉpovtEçdi B 352, b 273, 0 513" •

~yEpÉ0ov~o

Cfr. IL 4, 28: Ào.ÒVàyELpç bé, I ~ooµoù vxat;aç xpoç pa "\, " 3tll.U'tQVLCJ'tOV opOUOEV. ev0'icpcivri ... : l'apparizione improvvisa del drago turba la descrizione idilliaca del focus amoenus, che diventa insolitamente teatro di una scena da focusho"idus. ÈxÌ.v, OÙKÈv AÙA.tL.

45

re", come già l' euriideo È~av'tÀC.Ò xovov ( Cycl. 1 O) . A sua volta Cicerone (che non ricorre mai a questo verbo nelle orazioni), ricalca dal greco l'espressione exanclare labores (cfr. ac. 2, 108; Tusc. 1, 118). Nella traduzione omerica però, il senso della clausola exanclareannos parrebbe equivalere a "portare a termine fino in fondo", "compiere fino alla fine", (cfr., e. g., Apul. met. 6, 11: taetra nox exanclata;lui. Val. 1, 23 p. 33, 5: multo ... itineris exanclato) dal momento che il verbo, in questo caso, è completato da una determinazione temporale (annos).

28-29) QUAE DECUMO CADET ET POENA SATIABIT ACHIVOS / EDIDIT HAEC CALCHAS; QUAE 1AM MATURA VIDETIS.

Nel secondo emistichio del verso 28, Cicerone evita, come di consueto, l'epiteto formulare (qui Eupuciyu1.av: "dalle ampie strade") e sceglie un'espressione, POENA SATIABIT, nella quale Ronconi ravvisa "il suono quasi giuridico della riparazione e della soddisfazione dovuta a chi è offeso"48, il riscatto pagato da Troia per il rapimento di Elena. I.:osservazioneandrà

47

Cfr. il commento di Ussher 1978, 37: "The derived sense (transitive) of both simple verb und compound ... is "drain (to the end", È;-), i. e. suffer without respite". 48 Vd. Ronconi 1968, 115.

46

329-330) 'tqi 6EKO.'tq>6è 1tOÀLV alp'l']OOµEv E'Ùpuayutav». / Ktivoç 'tC.ÒçCÌyopEUE"i:à 6'fl vùv n:a.vi:a 'tEÀEÌ.i:at.

Cepiteto eùpua.yu1.a, formulare per Troia, si trova riferito anche a Micene (IL 4, 52) e ad Atene (Od. 7, 80).

circoscritta solo a POENA49, mentre in SATIABIT vedremo meglio "l'ira e passione di nemico" messe in luce dal Traina 50 che, per parte propria, cita l'analoga espressione di Livio (29, 9, 1O): Pleminius, impotensirae... tribunos... laceratosomnibus,quaepati corpus ullum potest, suppliciis interftcit necs a t i a t u s vivorump o e n a insepultosproiecit.

49

"Col termine poena(e) i Romani indicarono una retribuzione imposta a un offensore, in corrispondenza di un danno procurato a qualcuno": cosl Lamacchia 1970, 135 che, tra i tanti esempi, cita anche il nostro verso, avallando l'interpretazione di Ronconi. 5 Cfr. Traina 19742, 77.

°

47

Introduzione al fr. 4 Anche questa citazione è inserita nel II libro del De divinatione, ma questa volta si tratta di un solo esametro. La traduzione fa da pendant alla citazione immediatamente precedente di Ennio (Ann. 527 V 2= 541 Sk.): tum tonuit laevum bene tempestate serma. Dopo aver dimostrato l'infondatezza dell'argomentazione di Quinto che propugnava il consensusgentium come prova dell'esistenza e validità della divinazione, Cicerone prende di mira la smaccata incoerenza degli auguri e del loro 'metodo' interpretativo, inevitabilmente connessa con la relatività di concetti come 'destra' e 'sinistra': Quae autem est inter augures conveniens et coniuncta constantia? Nel verso di Ennio infatti il fulmine a ciel sereno è sl presagio propizio, ma a patto che sia laevum, mentre in Omero, per allertare Achille del fatto che Zeus si mostri benevolo ai Troiani, Ulisse parla di 011µa-ca ÈvbÉçLa.

In realtà, come ha ben chiarito Timpanaro 1, la contraddizione è solo apparente, poiché sia per i Romani sia per i Greci il signum positivo è quello proveniente da Oriente, solo che durante il rito, stante la testimonianza di Varrone2, l'augure romano era rivolto a Sud, aveva l'Oriente a sinistra, mentre il greco, pur nel diverso contesto rituale, era rivolto verso Nord. La correlazione del verso omerico con quello enniano e l'intento di mostrarli in contraddizione, condiziona l' ordo verborum della traduzione rispetto al modello: il verso omerico infatti, poneva in risalto Zeus,. perché ad Ulisse interessava sottolineare che ormai i Troiani godevano del sostegno del padre degli dèi, mentre Cicerone racchiude il nome luppiter fra prospera e dextris,dal momento che è l'equazione 'destra' = 'favorevole' (in Omero) che gli preme evidenziare. Come avevamo già segnalato nel commento al fr. 1, anche nell'introdurre questo verso omerico Cicerone commette un errore di attribuzione: At Homericus Aiax apud Achillem querens de ftrocitate Troianorum nescio quid hoc modo nuntiat. In realtà in Omero è Ulisse, non Aiace a pronunziare il verso. Sorprende come Cicerone ricordi invece perfettamente il contesto (I'ambasceria apud Achillem) e l'argo1 2

48

Cfr. Timpanaro 1988, XXXIX. Cfr. Varr.Ling.7, 7 sgg.

mento del discorso (querensdeferocitate Troianorum):di certo, se il traduttore citava a memoria {come lascia intendere l'approssimativo . nescio quid hoc modo), nell'indurlo in errore avrà giocato un ruolo importante il fatto che anche Aiace avesse preso parte all'ambasceria e che il suo nome comparisse nello stesso verso in cui viene menzionato Ulisse (Il. 9, 224), poco prima che il compagno iniziasse a parlare. Cicerone fr. 4 div. 2, 82

Omero IL 2, 236-237

PROSPERA IUPPITER HIS DEXTRIS FULGORIBUS EDIT

Zruç bé oL Kpovtbriç Èvbé;La 011µa,;a atvoov / àoi;pWt'teL"

Cicerone condensa il passo omerico in un unico esametro. PROSPERA . . • DEXTRIS: i due vocaboli sdoppiano ÈvbÉl;ta;la dittologia non è in questo caso sinonimica 1, poiché esplicita le due differenti indicazioni fornite dal termine greco, cioè il valore propizio (PROSPERA)2 dei segni divini, purché provengano da destra

La traduzione ciceroniana può essere frutto della contaminazione con un altro verso omerico (Il. 2, 353): àoi:pdJti:rov J;.''f: > eJttue1:,L, evatotµa oriµai:a atvoov {"fulminando da destra, indicando segni propizi"). O

O

I

I

(DEXTRIS). IUPPITE/t il patronimico

greco che nel verso omerico dava risalto al padre degli dèi, riservandogli quasi tutto il primo emistichio, viene, come di

1

Per i diversi tipi di resa dittologica (che rientrano nella generale tendenza alla copia verborum) in Cicerone traduttore di Platone cfr. Lambardi 1982, 55 sgg. A proposito della dittologia non sinonimica la studiosa ritiene (59) che "proprio lo scarto semantico fra i termini provoca un contrasto che illumina la nozione da rap,, presentare . 2 Vd. Le Boeuffle 1987, 33 s. v. aequus che rimanda a Cic. Somn. Scip. 4, 17.

49

consueto, abolito dal traduttore. FULGORIBUS: il sostantivo fa/gol rende il significato del verbo ào-tpcbt'tEL, interrompendo la serie omeoteleutica

I DEXIRIS. Cfr. Cic. rep.6, 17: esthominumgeneri prosperuset salutarisillefaigor qui diciturlovis.

HIS

3

Cfr. Th./.L. 1515-1517, s. v. Vd. anche Le Boeuffie 1987, I 41 s. v.

50

Introduzione al fr.5

Il verso è pronunziato da Quinto (div. 1, 52) per dimostrare l'esistenza - e la veridicità - dei sogni premonitori. In realtà si tratta di una 'citazione di una citazione', poiché Quinto fa riferimento ad un passo platonico (Crit. 44 a-b}1 nel quale il verso omerico (Il. 9, 363) pronunziato da Achille che minacciava di tornare in patria, veniva adattato alle parole di una donna, la quale, apparsa in sogno a Socrate, gli preannunziava il prossimo 'ritorno in patria', cioè la morte. Come ha dimostrato Traina2, in questo caso Cicerone 'contaminà il verso omerico con quello riadattato da Platone, dal momento che traduce, pur se molto liberamente (te... locabit}, la seconda persona del verbo (i.1e0Lo)riportata da Platone, anziché la prima (L1eoiµ11v}; Cicerone però qualifica il sostantivo tempestas con l'aggettivo laeta traducendo a distanza l'epiteto eÙ1tÀ.OLT) di IL 9,362. Una sorta di reminiscenza, di traduzione di Omero utilizzando altri passi di Omero, secondo una procedura che si è già individuata nell'analisi del primo frammento 3• I.:inserzione di laeta, apparentemente gratuita, sembra rispondere alla visione quasi rasserenante che Quinto doveva avere della morte, in coerenza con la sua adesione al pensiero stoico.

1

Cic. div. 1, 52: Est apud PlatonemSocrates,cum essetin custodiapublica, dicens Critoni,suofamiliari, sibipost tertium diem essemoriendum;vidissese in somnispulchritudine eximia feminam, quae se nomine appellansdiceretOmericumquendam eius modi versum. 2 Vd. Traina 19742, 95. Lo studioso è tornato sull'argomento in Id. 1981, 55-62, dimostrando l'influenza esercitata da questo verso su Verg. Aen. 3, 116 e confrontandolo con un verso di Calcidio (fr. 2 Mor. = p. 213 Wasz.). 3 Il maggior contributo in tal senso si deve a Ronconi 1968, 109-126 il quale ha parlato di vera e propria "tecnica centonaria" della quale Cicerone avrebbe fatto largo uso nelle traduzioni omeriche.

51

Cicerone fr. 5' div. 1, 52

Omero IL 9, 363

TERTIA TE PHTHIAE TEMPESTAS LAETA

,i µa,;( KE i:p 1,i:d.,;o;, 8 LflV

LOCABIT.

Èpt~(l)Àov LKOLµflV.

"Duplice allitterazione che lega i termini della frase in due gruppi e suggella, alla maniera enniana, la clausola esametrica: laeta locabit". TERTIA TEMPESTAS LAETA: Cicerone muta il costrutto greco per evitare il problematico eretico dell'ablativo ter-

èpi~roÀov:per il significato del1'epiteto, ignorato dal traduttore, cfr. Th.l.G. IV, 2013: Glebosus, admodum glebosus. Altre occorrenze in IL 1, 155 e 9, 479. rjµai:LKE i:pti:cii:o;,: a proposito della determinazione temporale lo scolio ad //. 9, 363 (473 Erbse) annota: ȵ~ n:Etproç-i:oooui:oç yap eoi:1.vo à:1tò 'Eì..ì..eon:ovi:ou etç i:,ìv 81.av n:Àouçàvɵq>:xproµÉvcp oùpi.paoLv, poiché Agamennone, col suo strapparsi i capelli per la disperazione, fornisce un esempio da non seguire. La terza citazione costituisce il fr. 7 che sarà analizzato in séguito, mentre poco prima (Tusc. 3, 63) viene inserita la traduzione dei due esametri (//. 6, 201-202) che descrivono l'errare di Bellerofonte per la pianura Alea, motivato, secondo Cicerone, dal dolore per la morte dei figli, che lo spinge a cercare la solitudine: Ex hoc evenit ut in animi doloribusa/ii solitudines captent, ut ait Homerus de Be/Ierofante.In Omero però -sebbene la collocazione dei versi sia piuttosto controversa 1- l'errare di Bellerofonte non è conseguente alla perdita dei figli (di cui vien fatta menzione solo nei vv. 203-205), bensl a un non meglio precisato accanimento degli dèi contro di lui (Il 6, 200 recita infatti cosl: àJ.J....' o'te l>rtKaÌ. Keivoç axtix0e'to xàot 0eoi:otv). È comprensibile che 1

Ad es., Kirk 19903, 186 nel commentare questi versi (IL 6, 201-202) ne sostiene la trasposizione dopo il v. 205, motivandola in questo modo: "Tbere are two problems bere: (i) tbese vv. seem to break tbe logical sequence, and (ii) tbey are so mysterious about Belleropbon's end. On (i) tbis information interrupts the account of the three cbildren, and would fit better, if not perfectly, after 205 as Leafthought. Tbat would bave the merit of explaining 200 KaÌ. KEi:voç, ..• wbich is unaccountable in the present sequence of vv.".

57

Glauco, il nipote di Bellerofonte che nei versi omerici sta presentando la sua progenie all'avversario Diomede, glissi sulle eventuali responsabilità dell'antenato nei riguardi degli dèi, e anzi lo definisca àµvµwv ("senza macchia": v. 190). Ma una tradizione ben nota, testimoniata anche da Pindaro 2, attribuisce all'eroe il peccato di upp1.ç per aver tentato di raggiungere l'Olimpo cavalcando l'alato Pegaso (che, imbizzarritosi per via di un tafano mandato da Zeus, avrebbe poi fatto precipitare Bellerofonte nella pianura Alea). Gli scoli, che sottolineano l'assenza del mito di Pegaso, spiegano cosl l'espressione ov 0uµòv Ka-rébwv (Il. 6, 202), (tradotta da Cicerone quasi letteralmente: ipse suum cor edens): oùx.coç ot veortepot (p'tE KaÌ. &ì..yeot euµòv tbOV'teç. :n:a.'toç(''orma, via battuta") si

trova solo in altri due passi omerici: Il 20, 137 (nella locuzione È:K:n:a.'tou·:"in disparte") e Od. 9, 119: où µÈv yàp 3tO.'tOç àv0pco:n:O>V Cl:n:EplJKEL.

avrebbe avvinto la moglie del re di Argo, Antea (il nome, omerico, è in //. 6, 160, mentre per Sofocle ed Euripide, che dedicarono ciascuno una tragedia a questo mito, la regina si chiamava Stenebea) che, respinta, si sarebbe vendicata accusando Bellerofonte al marito. Da notare il riferimento agli A/eia arva come luogo dell'atterramento da parte di Pegaso, atterramento voluto da Zeus per punire la iif3pLçdi Bellerofonte che avrebbe voluto raggiungere l'Olimpo sul dorso del cavallo; cfr. Dion. Per. 871 s.; Hyg., fab. 57. Per una trattazione generale del mito di Bellerofonce vd. Bethe in P W RE s. v., 241 sgg., mentre per il mito in Omero cfr. Buffière 1956, 146. 61

Introduzione al fr. 7

Il breve passo è inserito in Tusc. 3, 65, a poca distanza dall'altra traduzione omerica (fr. 2 in Tusc. 3, 63). Argomento del terzo libro è la cura dell'afflizione (aegritudo),causata, come tutte le altre passioni, da un'idea erronea (opinio). La prima parte della trattazione è affidata alle argomentazioni stoiche, cui seguono il concetto di opinio come fonte dell' aegritudoe, dopo una rassegna delle posizioni di Cirenaici ed Epicurei e una viva polemica con Carneade, le conclusioni: se l' afflizione è basata sull' opinio, questa convinzione erronea va eliminata con la forza della volontà. La traduzione non presenta ampliamenti né tendenza alla patetizzazione; al contrario, aderendo bene al contesto, acquista un tono sobrio e perentorio che mira a bandire l' aegritudo dalla vita del sapiens, come dimostra la conclusione immediatamente successiva:

ergoin potestateest abiceredolorem,cum velis.temporiservientem. Il ruolo decisivo rivestito dalla volontà personale per far cessare l'afflizione, estraneo al testo omerico, è esaltato dalla traduzione latina e ribadito alla fine del par. 66: Si igitur deponipotest, etiam non suscipi

potest: voluntate igitur et iudicio suspiciaegritudinemconfitendum est. I.:autorità omerica suggella in questo caso le tesi stoiche sul dolore disposate da Cicerone e la forzatura appare evidente nel modo in cui i versi sono introdotti: .. . apud Homerum cotidianaenecesinteritusque

multorum sedationemmaerendiadferunt. In realtà nel brano iliadico Ulisse replicava ad Achille, che avrebbe voluto spronare gli Achei a combattere anche digiuni e affamati, sottolineando invece la necessità di rifocillarsi, poiché i morti non si piangono "col ventre" (v. 225) ma vanno seppelliti con animo fermo e pianti un sol giorno (bt' ,iµa·n, v. 229).

62

IL 19, 226•229

Cicerone fr. 7 Tusc. 3, 65

Omero

NAMQUE NIMIS MULTOS ATQUE OMNI LUCE CADENTIS /

ÀLTJVyàp

CERNIMUS, UT NEMO POSSIT MAERORE VACARE.

3tL3t'tOUOLV'3tO'tEKEV ,:u; ava-

XOÀÀ.OÌ.KaÌ. ÈXY)'tpLµoL ,iµa,:a xcivi:a / I

NAMOUE l:flM.IS:

tipo

apofonico 1•

nesso allitterante di

OMNI LUCE'. lux= dies (cfr. lumine, fr. 9). La consecutiva ha il sapore di una lucida constatazione, rinunciando all'interrogativa retorica dell'originale che creava un effetto patetico. MAERORE VACARE: Cicerone intende ' xovoç come "dio ore" , mentre neI cor• rispondente verso omerico (227) vale "fatiche di guerra".

I

,

I

,

,

3tVEUOELE 3tOVOLO;

ÈXY)'tpLµoL:l'epiteto ricorre sol•

tanto altre due volte nell'Iliade (Il 18, 211: xupcroi. ,:e cpì..eyé0oucr Lv Èx11i:pLµOL e Il. 18,

552:

bpc:iyµa,:a b' àì..ì..a µe,:' J / ~ oyµov E3tTJ'tpLµa 3tL3t'tOV Èpat;e) e il significato è incerto, V

ma cfr. Schol. ad Il. 19, 226, 620 Erbse: àxò ,:oov Èv ,:oi:ç

'UcpEOLV Èxaì..ì.. tiì..cov

O'tTJ-

µovcov, (l fl'tpLa KaÀ.Et'taL d>', t / e,:epa e e,:epoLç ecri:Lv.

KaÌ.

àvaxveucrtLE

è il

t,

f

I

xovoLo:

riprender fiato, l'aver tregua dalla continua fatica della guer• ra (,:où Èv xoì..éµc.pÈpyou pre• cisa lo scolio al v. 227, 620 Erbse) e infatti il sintagma àvcixveucrLç xoì..éµoLo ricorre in Il. 11, 800; 16, 43; 18, 201).

àì..ì..àXPll i:Òv

µÈv Kai:a0cix-

QUO MAGIS EST AEQUUM TUMULIS MANDARE PEREMPTOS /

,:uv oç

FIRMO ANIMO ET LUCTUM LACRIMIS FINIRE DIURNIS.

VTJÌ..Éa 0uµòv Èxovi:aç, ,iµai:L baKpvcravi:aç-

KE 00.VlJOL /

Èx'

1

Secondo la definizione di Traina 1997, 190.

63

EST AEQUUM: l'invito ad 'elaborare

il

lutto' in un solo giorno, perentorio ed 'asettico' rispetto all'omerico È3t' ~µa-rt &xKpuoavtaç, è spostato sul piano di ciò che "è giusto" fare piuttosto che di ciò che occorre, conviene

(xpri). TUMULIS MANDARE PEREMPTOS: cfr.

Ov. met. 2, 326: tumulo dare corpora. PEREMPTOS: in linea col tono risoluto (quasi da consolatio)della traduzione, Cicerone condensa la perifrasi -ròv... oç KE 00.V1JOL in un unico termine, dalla valenza espressiva più forte: perimo infatti, come spiega Benveniste, significa "far sparire, annientare" 2 (da per + emo "ritirare, portar vià', "con il significato del preverbo che abbiamo in perdo"). /,Jfs;TUM

Il

LACRIMIS FINIRE DIURNIS:

l'allitterazione apofonica, a ponte della cesura, è l'unica concessione alla pietà da parte del traduttore. Il secondo emistichio si avvita come chiosa al dibattuto Èx' ~µa-rt.

xpti: perfettamente equivalente ad oportet, opus est (cfr. Th.l.G. 1643 s. v.). VT]Àia 0uµÒV: è l'unica occorrenza dell'aggettivo insieme a 1 0uµ6ç • Di frequente specifica xaì..Kc.i}("con ferro spietato") ed ~µap ("giorno fatale"). È1t' rjµa-rt: Ronconi intende "ogni . giorno . ,, o "giorno . per 11 • " 1 d d giorno eone u en o, per parte propria: "Cicerone travisa del tutto, nella traduzione e nella sua didascalia, il senso del v. 227". Non c'è però ragione di forzare il testo omerico, dal momento che l'espressione significa sicuramente "per un giorno" come attestano anche Il. 1 O, 48; 13, 234, Od. 2, 111 284 • Tanto più che, puntualmente, lo scolio ad IL 19, 229, 620 Erbse precisa: -rij TjµÉp~ -rtì ç -ract>tìç. -rau-ra 6è xpò ç ÈJtL xapaµu0lav -rriv Ila-rpoKì..q>cj>T]crL

1

2

64

Cfr. Benveniste 1976 I, 62.

I.:invito di Ulisse è ad assumere un contegno da ruta0iJç, mentre in IL 9, 947 l'aggettivo è associato a ~,:op e ha il valore di immisericors,crude/is. (cfr. Th./.G. 1487, s. v.). Usato assolutamente, riferito ad un uomo, andrà inteso come "spietato" (cfr. e. g. Il. 16, 33; 204). 11 Vd. Ronconi 1973, 50. 111 Cfr. Th.LG. 145, s. v. ~µap: uno die integro.Vd. anche Edwards 1991,

Jtapaµu0iav 'tY}V Ila'tpoKÀ.q>rioL

ÈJtÌ.

D'altro canto sarebbe illogica una esortazione a mantenere l'animo "saldo" pur "piangendo ,, ogni giorno .

e one d ay,, e 262 : "'E1t' T)µUTL means ror la traduzione di Cerri 1996, 1O13: "soltanto un giorno".

65

IV IL FRAMMENTO DI ULISSE Introduzione al fr.8

La traduzione è inserita nell'ultimo libro del De finibus (5, 49) e pone l'accento sulla sapienza delle sirene oltre che sulla bellezza ammaliante del loro canto. Le sirene 'latine', dopo aver apostrofato Ulisse come decusA1olicum (impropriamente, poiché l'eroe non era, com'è noto, Argivo, e infatti l'originale lo definisce µÉya Kù6oç 'Ax,au:i>v),lo invitano a "virare" la poppa in direzione di loro (quin puppim flectis!')piuttosto che a "fermare la nave" (vea Ka-ca.cn:rioov, v. 185), cosl da poter agnoscereauribus il loro canto (Cicerone 'traduce' con agnoscerel'à.KouELvomerico del v. 185 spostando sul piano della conoscenza sensoria ciò che per Omero bastava "ascoltare"). È un invito a cambiare rotta, a 'convertirsi' a quel sapere, a quella scienza, che esse soltanto possono dare e che farà tornare l'eroe satiatus e doctior in patria. Le sirene conoscono tutto ciò che accade sulla terra (omniaque e latis rerum vestigia terris), cosl, tra l'altro, sanno della guerra di Troia. E proprio nel riferimento ai fatti di Ilio, non vedrei "l'incongruenzà' ravvisata da Ronconi, secondo il quale "le Sirene offrono a Ulisse di renderlo più dotto ... proprio sulla sconfitta che i Greci inflissero a Troia"2, ma piuttosto un piccolo, accorto stratagemma, per convincerlo che esse sanno davvero tutto, persino le traversie e le vicende personali dell'eroe (in questo senso spiegherei anche il significativo riferimento al ritorno ad patrias... oras,estraneo al testo omerico). Le sirene di Cicerone sanno che Ulisse può anteporre alla 1 2

Ma in poesia in genere l'etnonimo Argi indica per metonimia tutta la Grecia. Cosl Ronconi 1973, 48.

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patria solo la sapienza, non certo la bellezza effimera di un canto, ed è appunto su quella che fanno leva: Neque enim vocum suavitate videntur aut novitate quaaam et varietate cantandi revoca" eossolitae qui praetervehebantur, sed quia multa se sci" prof,tebantur, ut homines ad earum saxa discendi cupiditate adh~scermt. Cicerone fornisce pertanto una sorta di 'legittimazione morale' sia ad Ulisse sia ad Omero, come risulta chiaro dal commento che fa seguire ai versi (fin. 5, 49): Vidit Homerus probari fabulam non posse, si cantiunculis tantus irretitus vir ten~tur; scientiam pollicentur, quam non erat mirum sapientiae cupido patria esse cario~. Secondo Buffière4 Cicerone attinge questa interpretazione 'moralizzata' del mito delle sirene da fonti greche a lui familiari, Antioco di Ascalona e Filone di Larissa5• Quest'ultimo, in particolare, che aveva indagato il rapporto fra studio e azione, vedeva nelle sirene il simbolo dell'attività speculativa e della contemplazione, cui Ulisse si sarebbe rivolto "avant de se lancer sur les océans de l'action". 6 3

Cic. fin. 18, 49. Per inquadrare meglio la visione ciceroniana di Ulisse come sapiensmette conto riportare anche il suo ragionamento precedente (fin. 5, 48): IJUi ingmium studiis atque artibus dekctantur, nonne videmuseos nec valitudinis nec rri fami/iaris habere rationem omniaqueperpeti ipsa cognitioneet scimtia captos et cum maximis curis et /aboribuscompensareeam quam ex discendocapiant voluptatem?Al 'carattere' odissiaco di Cicerone piuttosto che a quello omerico sembra improntato l'Ulisse dantesco, che cosl si presenta al poeta (lnf. 26, 94-99): "né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre, né 'l debito amore / lo qual dovea Penelopè far lieta, / vincer potere dentro a me l'ardore / ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore". E saranno altri celebri versi di Dante ad immortalare nel nostro immaginario l'Ulisse sapienstratteggiato da Cicerone: "Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza" (lnf 26, 118-120). 4 Vd. Buffière 1956, 385-386. 5 Filone di Larissa e il suo successore Antioco di Ascalona furono a capo della Neo-Accademia platonica tra il II e il I secolo a. C. Sotto di loro l'Accademia registrò una inversione di tendenza rispetto allo scetticismo cui l'aveva improntata il fondatore Carneade e un ritorno ai fondamenti platonici: Filone infatti tornò ad ammettere l'esistenza di una verità ontologica, mentre Antioco ne riaffermò anche la conoscibilità. Cicerone, che segul le lezioni di Antioco ad Atene nel 79 per sei mesi e forse già a Roma nell'88, lo riteneva politissimumet acutissimumomnium nostraemnnoriaephi/osophorum(Luc. 35, 113), cfr. Grilli 1971, 105. Su un trattato n:EpÌ.'tÉÀ.OUçdi Antioco come fonte per il V libro del Definibus vd. Loercher 1911, 97 che, a proposito della citazione omerica, commenta (114): "Das Beispiel hat wohl schon bei Antiochos gestanden, das direkte Zitat scheint erst Cicero hinzugetan zu haben". 6 Cfr. Buffière 1956, 386. 68

Un'ultima osservazione riguarda i termini con cui Cicerone introduce la traduzione: ... nam verti. ut quaedamHomeri.sic istum ipsum locum. Se l'uso di quaedam fa pensare all'esistenza di traduzioni di vari foci omerici da parte di Cicerone, indipendenti dalla riduzione a citazione filosofica (e questo è scontato, se si pensa all'importanza rivestita dalla traduzione come esercizio scolastico e oratorio), pure è problematico supporre un semplice recupero di una traduzione giovanile a tanti anni di distanza e in ogni caso, come abbiamo dimostrato, l'aderenza al contesto è così puntuale da 'orientare' e piegare la resa dei versi in modo da renderli perfettamente calzanti alla tesi di fondo sostenuta.

Cicerone fr. 8

fin. 5, 49 0 DECUS .ARGOLICUM, QUIN PUPPIM FLECTIS,ULIXES, / AURIBUS UT NOSTROS POSSIM AGNOSCERE CANTUS?

Omero Od. 12, 184-191

aeùp' ày' '06uoeù, 'Axauòv, I ~

1

v.

Per altri esempi vd. Th.l.L. 243-244 s.

3tOÀ."U QLV

µÉya

I

V'Y}a Ka'taO't'Y}OOV, P'YlV

0 DECUS ÀRGOUCUM: diverse le attestazioni letterarie del vocativo decus (con o senza il genitivo) riferito ad una persona: cfr., e. g., Verg.Aen. 11, 508: o decus ltaliae, virgo; Trag.inc. 910 R3: ••• Argivum decus; Lucr. 3, 30: Graiaegentisdecus1• Abolito come di consueto l'epiteto (in questo caso xoÀ:uatvoç) e sfrondata la clausola µÉya K'Ùboçriducendola al corrispettivo sostantivo decus, Cicerone recupera però le blandizie delle sirene con l'accorta disposizione dei termini nel primo verso, che obbedisce alla tecnica dell'incastro

Lù>V,

1

1eù6oç Cl

I

LVa VCùL'tt-

ox'vè:x,ot,O"t"tL due versi si caricano allora di una forte valenza: la vita è, insomma, imprevedibile, e la nostra condizione, la 'qualità' della nostra vita, dipende dalla 'qualità' del giorno che gli dei ci fanno vivere (,:o'toç ... vooç / olov ... ~µap). Non a caso Omero "raffigura gli avvenimenti significativi mediante la caratterizzazione icasticamente delineata dal giorno in cui accadono" 6, cioè connotando ~µap con aggettivi come

5

Cfr. anche div. 2, 19: Ani/e sane et plenum superstitionis fati nomm ipsum; sed tamm apud Stoicosde istofato multa dicuntur; de quo alias (aliasfa riferimento proprio al futuro libro de fato}. Cicerone inoltre rimproverava agli stoici il loro 'appropriarsi' Omero, che si spingeva fino ad interpretaZioni allegoriche del testo (cfr. nat. deor. l, 41}. È possibile però che anche il defato fosse costruito, al pari del de divinitatione, come una disputatioin utramquepartem, nel qual caso le tesi stoiche (e dunque anche il nostro frammento} potevano essere enunciate proprio da uno stoico (cfr. limpanaro 1988, 324). 6 Cosl Russo 1983, 201.

78

7 booÀ.t.OV,ÈÀ.ev0epov,V11ÀEÉç, ÒÀ.É0pt.ov, VOO'tt.µov • Si potrebbe dire che l'esistenza umana è doppiamente 'effimerà, legata com'è al giorno sia dal punto di vista quantitativo (per la sua breve durata) sia qualitativo (varia al variare dei giorni). Come ha evidenziato H. Fraenkel8, l'inviare i giorni è prerogativa fondamentale del padre degli dèi, insita nel suo stesso nome: ZEÙç:rtafflp, luppiter, ovvero Diespiter(che è l'altro nominativo latino conservato) 9• La traduzione latina, che pure, come si diceva, conferisce maggior rilievo alla figura del dio, ne fa però più un dispensatore di luce (lustravitlumine) che di giorni, marcando sul piano sensorio (visivo in particolare, ma anche fonetico col ricorso ali' allitterazione sillabica) ciò che sembra perdere sul piano concettuale e cioè la valenza cosl pregnante - e cosl omerica - di ~µap: nell'impossibilità di 'romanizzare' i Realien,si 'latinizzà almeno lo stile, in conformità ad uno dei più classici dettami della 'traduzione artisticà.

7

Cfr., e. g., Od. 5, 220, dove Ulisse dice di voler "vedere il giorno del ritorno" (voo-nµov ~µap t6Éo9at}. 8 Vd. Fraenkel 1968, 23-29. 9 Cfr. Benveniste 1976 I, 162.

Cicerone

fr.9

Omero Od. 18, 136-137

defato apud Aug. civ. 5, 8 TALESSUNT HOMINUM MENTES, QUALI PATER IPSE / IUPPITER AUCTIFERAS LUSTRAVITLUMINETERRAS.

'tOLOçyàp vooç èatì.v è:rtt.x0o, '0' pooxoov, , Ot.OV ... EXt. ,, Vt.OOV av ~µap ày1JC1L Xa'tf)p civbprov'tE 0erov 'tE.

il termine con cui anche nel Timaeus Cicerone rende solitamente vooç, alternandolo col più tecnico e specialistico intelkgentia1•

Éx' , , 'f̵ap àyl)OL: tmesi di Exayoo. ~µap: la valenza di questo termine appare più complessa rispetto ali' equivalente latino lumen, poiché " ... spesso si avvicina ali' accezione di «condizione quotidiana» e indica la qualità che ha la vita in un cer-

MENTES: è

1

Per questo aspetto del problema si rinvia a Lambardi I 982, I 00 sgg. Nel nostro caso la scelta del termine risulta obbligata sia sul piano formale (mens, come ci ricorda la studiosa, ha una "con-

79

PATERIPSEI IUPPITER:la chiusa del primo verso e l'incipit del secondo si legano nel comune riferimento a Giove, convogliando sul dio l'attenzione del lettore (a ciò concorre anche l'abolizione del "tautologico" hnx8'tOVt.c.ov e dei genitivi di specificazione àvbpcòv 'tÉ 8Ecòv'tE). AUC17FERAS: hapax assoluto, da auctus (che vale come incrementum, accessum:cfr. Th. L L. 1235, 77, s. v.) + ft"e. ~ una inserzione di Cicerone, quasi una sorta di 'traduzione a distanza' dell'omerico 3tOÀupo8ELpa che nel fr. 8 (v. 9 = Od. 12, 191) vemva mvece omesso. LUSTRAVIT LUMINE: il nesso allitterante ricorre negli Aratea2 ed è presente anche in Lucrezio3• In div. 1, 17 (= de consul. 2), come nel nostro verso, è ancora Iuppiter (v. 1) che totum conlustrat lumine mundum. Poiché lustro ""li . "4 , ,umm . ' vale ch1aramente 1 ummare solidata tradizione letteraria" che risale a Catone e Plauto, mentre intelkgmtia è solo in Terenzio, Hec. 31) sia sul piano semantico (mms ha un'accezione più lata, e infatti qui vale "pensieri", "sentimenti", "disposizione d'animo"). 2 Cfr. Cic. Arat. 237, 441: lustrantes lumine, 322: lumine lustrans;428: lustravit luce. 3 Cfr. Lucr. 5, 575: localumine lustrans; 5, 693: lumine lustrans;5, 1436: lustrantes /umine, 6, 284: /uminibus lustransloca. 4 Gli altri significati fondamentali del verbo sono "purificare" e "passarein rassegna, esaminare" (vd. Th./.L.2, 1872 sgg., s. v.): per quest'ultima accezione cfr. Verg. Am. 8, 153: totum lustrabatlumine corpus e 2, 754: vestigia... sequor... et lumine lu-

80

to giorno. Omero suole ottenere tale valore unendo ~µap ad . qu al"fi . »I . un aggettivo 1 1cat1vo

1

Cosl Russo 1983, 201. Illuminante, peraltro, il commento degli scoli ad Od. 136 (659-660 ♦LÀ.