Elementi di storia della matematica

Sotto lo pseudonimo di Nicolas Bourbaki si raccoglie un gruppo di matematici (tra i quali H. Cartan, CI. Chevalley, J. D

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Italian Pages 270 [272] Year 1963

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Table of contents :
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Avvertenza
Fondamenti della matematica
Logica. Teoria degli insiemi
La formalizzazione della logica
La nozione di verità in matematica
Oggetti, modelli, strutture
La teoria degli insiemi
I paradossi della teoria degli insiemi e la crisi dei fondamenti
La metamatematica
Numerazione. Analisi combinatoria
L'evoluzione dell' algebra
Algebra lineare e algebra multilineare
Polinomi e corpi commutativi
Divisibilità. Corpi ordinati
Algebra non commutativa
Forme quadratiche. Geometria elementare
Spazi topologici
Spazi uniformi
Numeri reali
Esponenziali e logaritmi
Spazi a n dimensioni
Numeri complessi. Misura degli angoli
Spazi metrici
Calcolo inftnitesimale
Sviluppi asintotici
La funzione gamma
Spazi funzionali
Spazi vettoriali topologici
Integrazione
Bibliografia
Indice
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Elementi di storia della matematica

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Nicolas Bourbaki ELEMENTI DI STORIA DELLA MATEMATICA Sotto lo pseudonimo di Nicolas Bourbaki si raccoglie un gruppo di matematici (tra i quali H. Cartan, CI. Chevalley, J. Dieudonné, Ch. Ehresmann, A. Weyl), che va pubblicando un'opera grandiosa dal titolo" Éléments de Mathématiques." Quest'opera, non ancora completata, mira ad una sintesi dei pio diversi rami delle matematiche in poche .. strutture" profondamente connesse. Il presente volume si fonda sulle indagini e i risultati degli .. Éléments," dai quali raccoglie la maggior parte delle

n otiz ie

storiche. Esso si propone

soprattutto di chiarire le origini e i primi sviluppi della matematica moderna, mettendo in luce la storia delle varie teorie e dei loro influssi reciproci. L. 4.500

(4.243)

r.nptrtin.

di

Ani. Storck

Biblioteca Scientifica Feltrinelli

11

Titolo dell'oper. originale

Éléments d'histoire de. mathémat,ques



11160 by H.rmann,

Pari.)

Traduzione dal francese di Maria Lui.a Ve.entini Ottolenghi

Prima edizione ital iana: m aggio 1963 Copyright by

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano

NICOLAS BOURBAKI

ELEMENTI DI STORIA DELLA MATEMATICA

FELTRINELLI

.A.vvertf1Jza

Quest'opera raccoglie, senza sostanziali modifiche, la maggior parte delle note storiche apparse fino ad ora nei miei E/émenls

de Malhémalique.1 Ne abbiamo semplicemente resa la lettura indipen­ dente dai capitoli degli E/émenls ai quali queste note fanno seguito; esse sono dunque, in linea di massima, accessibili a qualsiasi lettore provvisto di una solida cultura matematica classica. Ben inteso, gli studi separati che costituiscono questo volume non pretendono affatto di tracciare, neppure in modo sommario, una storia coerente e completa dello sviluppo della matematica fino ai giorni nostri. Interi settori della matematica classica, come la geo­ metria differenziale, la geometria algebrica ed il calcolo delle varia­ zioni, vi compariranno soltanto in brevi cenni; altri, come la teoria dei numeri, la teoria delle funzioni analitiche, quelle delle equazioni differenziali ordinarie o delle equazioni a derivate parziali sono appena sfiorati. Queste lacune divengono per forza di cose piu nu­ merose e piu gravi via via che ci si avvicina all'epoca moderna. È evidente che non si tratta di omissioni intenzionali; sono semplice­ mente dovute al fatto che i corrispondenti capitoli degli Ellm",l! non sono stati ancora pubblicati. Il lettore, infine, non troverà pra­ ticamente in queste note nessun accenno biografico o aneddotico ai personaggi che vi figurano. Si è cercato, soprattutto, di mettere in rilievo il piu chiaramente possibile, per ciascuna teoria, quelle che sono state le idee direttive, e come queste idee si siano sviluppate ed abbiano agito le une sulle altre. I numeri fra parentesi quadre rinviano alla bibliografia posta alla fine del volume.

1 N. BOUIlBAKI, Elimentr tU Mathl1ltat�, Hermann, Paris. Di quest'opera sono apparsi fino ad ora ventisette volumi [N.II.T.] .

7

Capitolo primo

Fondalllmti della matematica

Logica. Teoria degli insiemi Lo studio di quelli che vengono comunemente chiamati i " fon­ damenti della matematica," coltivato senza sosta fin dall'inizio del

XIX secolo, non ha potuto essere condotto a buon fine se non gra­ zie ad uno sforzo parallelo di sistematizzazione della logica, per lo meno in quei settori che governano la concatenazione delle proposi­ zioni matematiche. Cosi non si può dissociare la storia della teoria degli insiemi e della formalizzazione della matematica da quella della "logica matematica." Ma la logica tradizionale, come pure quella dei filosofi moderni, si estende, in linea di massima, ad un campo di applicazioni molto pili vasto della matematica. Il lettore, quindi, non deve aspettarsi di trovare nelle pagine che seguono una storia della logica, neppure in forma molto sommaria: ci limiteremo, per quanto possibile, a tratteggiarne l'evoluzione solo per quel tanto che essa ha influito sullo sviluppo della matematica. Trascureremo per­ ciò le logiche non classiche (logiche plurivalenti, logiche modali); a maggior ragione poi, non abborderemo la storia delle controversie che, dai sofisti alla Scuola di Vienna, continuano a dividere i filosofi circa la possibilità e la maniera di applicare la logica agli oggetti del mondo sensibile o ai concetti dello spirito umano. Nessuno oggi potrebbe mettere in dubbio che vi sia stata una matematica preellenica assai sviluppata. Non solo le nozioni (già molto astratte) di numero intero e di misura di grandezze sono state usate correntemente nei pili antichi documenti egizi e caldei a noi pervenuti, ma, per l'eleganza e la sicurezza dei suoi metodi, non si può immaginare l'algebra babilonese come un semplice insieme di problemi risolti con tentativi empirici. E, sebbene non si trovi nei testi nulla che rassomigli ad una "dimostrazione" nel senso formale della parola, abbiamo il diritto di credere che la scoperta di tali procedimenti risolutivi - la cui generalità traspariva dalle

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applicazioni numeriche particolari - non abbia potuto effettuarsi senza un minimo di deduzioni logiche (forse non completamente co­ scienti, ma piuttosto simili a quelle con cui un algebrista moderno inizia un calcolo prima di metterne a punto tutti i dettagli) ([166], pp. 203 sgg.). L'originalità essenziale dei greci consiste appunto in uno sforzo cosciente volto ad ordinare le dimostrazioni matematiche in una catena tale che il passaggio da un anello al seguente non permetta alcun dubbio, ma imponga una convinzione generale. Che i mate­ matici greci si siano serviti nel corso delle loro ricerche, esattamente come i moderni, di ragionamenti "euristici" piuttosto che probanti, potrebbe essere documentato, se ve ne fosse bisogno, dal Trattato

sul Metodo di Archimede [114c]; sono degni di nota, sempre in Ar­ chimede, cenni a risultati "scoperti ma non dimostrati" di mate­ matici anteriori.l Ma, fin dai primi testi dettagliati pervenuti fino a noi, (e che risalgono alla metà del V secolo), il "canone" ideale di un testo matematico è chiaramente stabilito. Esso raggiunge la sua pili matura realizzazione nei grandi classici: Euclide, Archimede, Apollonio, ed il concetto di dimostrazione, in questi autori, non dif­ ferisce in nulla dal nostro. Non abbiamo alcun testo che ci permetta di seguire i primi passi di questo" metodo deduttivo," che ci appare già quasi perfetto nel momento stesso in cui ne constatiamo l'esistenza. Possiamo solo credere che esso si inserisca abbastanza naturalmente nella continua ricerca di "spiegazioni " del mondo che caratterizza il pensiero greco e che è già evidente nei filosofi ionici del VII secolo; inoltre la tradizione è unanime nell'attribuire lo sviluppo e la messa a punto del metodo della scuola pitagorica, a un'epoca che può essere fissata tra la fine del VI e la metà del V secolo.

È appunto su questa matematica " deduttiva," pienamente co­ sciente dei suoi fini e dei suoi metodi, che si esercita la riflessione filosofica e m:l.tematica delle epoche posteriori. Vedremo a poco a l In particolare Democrito, al quale Archimede attribuisce la scoperta della formula che esprime il volume di una piramide ([114&], p. 13). Questa allusione si riferisce ad un celebre frammento attribuito a Democrito (ma di controversa autenticità), in cui si legge: NusulIQ mai mi superò nella &oIlruzione di figure per mezzo di dimostrazione, nep­ pure gli arpedonati' egiziani, come vengono eui chiamati" ([168], t. I, p. 439 e t. II, pp. 727728). L'osservazione di Archimede ed il fatto che non si siano mai trovate dimostrazioni (in senso classico) nei testi egiziani di cui siamo in possesso fanno pensare che le .. di­ mostrazioni " cui allude Democrito non fossero già piu considerate tali all'epoca clas­ sica e che tantomeno lo sarebbero oggi. "



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poco svilupparsi da una parte la logica "formale" sul modello della matematica, per giungere poi alla formazione di linguaggi formaliz­ zati; d'altra parte, soprattutto a partire dall'inizio del XIX secolo, si cercherà di investigare sempre piti sui concetti di base della matema­ tica, e si tenterà di chiarirne la natura, soprattutto dopo la scoperta della teoria degli insiemi.

La formalizzazione della logica Dai testi (peraltro molto lacunosi) che possediamo sul pensiero filosofico greco del V secolo sembra emergere l'impressione che esso sia dominato dallo sforzo sempre piti cosciente di estendere a tutto il campo del pensiero umano i procedimenti di articolazione del di­ scorso usati, con tanto successo, dalla retorica e dalla matematica contemporanee - sforzo volto dunque a creare la logica nell'acce­ zione piti generale del termine. Il tenore degli scritti filosofici subisce in quel periodo un brusco cambiamento: mentre nel VII e nel VI secolo i filosofi affermano o preconizzano (o tutt'al piu abbozzano vaghi ragionamenti, fondati su altrettanto vaghe analogie), a par­ tire da Parmenide e soprattutto da Zenone, essi "argomentano" e cercano di ricavare dei principi generali che possano servire di base alla loro dialettica: appunto in Parmenide si trova la prima af­ fermazione del principio del "terzo escluso"; e le dimostrazioni "per assurdo" di Zenone di Elea sono rimaste celebri. Ma Ze­ none scrive verso la metà del V secolo; e, quali che siano le incertezze della nostra documentazione,2 è molto verosimile che a quell'epoca i matematici, ciascuno nel proprio ambito, si servissero abitual­ mente di quei principi. Come abbiamo detto piti sopra, non è nostro compito scrivere la storia delle innumerevoli difficoltà che emergono ad ogni passo della gestazione di questa logica, e le polemiche che ne risultano da­ gli eleati a Platone ed Aristotele attraverso i sofisti; vogliamo solo rilevare qui l'importanza assunta in questa evoluzione dall'esercizio assiduo dell'arte oratoria e dell'analisi del lingl.laggio che ne è un 2

Il piu bell'esempio classico di ragionamento per assurdo in matematica è la di­

mostrazione della irrazionalità di V2alla quale Aristotele fa piu volte allusione; gli stu­ diosi moderni, tuttavia, non sono riusciti a stabilire con precisione in che epoca avvenne questa scoperta; cosi alcuni la fanno risalire all'inizio ed altri alla fine del V secolo (v. p. 149 e i riferimenti citati a questo proposito).

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corollario, sviluppi concordemente attribuiti soprattutto ai sohstl del V secolo. D'altronde, se l'influsso della matematica non è sem­ pre espressamente riconosciuto, non per questo esso è meno evidente, in particolare negli scritti di Platone ed Aristotele. Si è giunti ad affermare che Platone fosse quasi ossessionato dalla matematica; pur senza essere un inventore in questo campo, egli, a partire da un certo momento della sua vita, si tenne al corrente delle scoperte dei matematici contemporanei (molti dei quali erano suoi amici o suoi discepoli), e non smise pitI di interessarsene direttamente, ar­ rivando persino a suggerire nuovi temi di ricerca. Cosi, con il suo incoraggiamento, la matematica serve d'illustrazione o di modello, (e perfino, talvolta, come presso i pitagorici, serve ad alimentare la tendenza al misticismo). Quanto al suo allievo Aristotele, è certo che egli ricevette quel minimo di formazione matematica richiesta agli allievi dell'Accademia (ed i brani delle sue opere in cui si riferisce o allude alla matematica sono stati raccolti in volume [114dJ); non pare, tuttavia, che egli si sia mai molto curato di mantenere i contatti con il movimento matematico del suo tempo; in questo campo infatti egli cita solo risultati già da lungo tempo volgarizzati. Del resto tale disinteresse non farà che accentuarsi nella maggior parte dei filosofi posteriori, molti dei quali, mancando di preparazione tecnica, cre­ deranno in buona fede di parlare di matematica con cognizione di causa, senza accorgersi di far riferimento ad uno stadio già da lungo tempo superato nell'evoluzione di questa scienza. Il coronamento di questo periodo, per quanto concerne la logica, è l'opera monumentale di Aristotele [4], il cui grande merito è quello di essere riuscito a sistematizzare ed a codificare per la prima volta i metodi di ragionamento rimasti fino ad allora vaghi o non formulati in coloro che lo precedettero.3 Dobbiamo soprattutto tenere qui presente, per il nostro scopo, la tesi generale di quest'opera, secondo la quale è possibile ridurre qualsiasi ragionamento corretto all'appli­ cazione sistematica di un piccolo numero di regole immutabili, in­ dipendenti dalla particolare natura degli oggetti in questione (in­ dipendenza che viene posta chiaramente in luce indicando concetti 3 Malgrado la semplicità e )''' evidenza" che sembrano presentare per noi le regole logiche formulate da Aristotele, basta collocarle nella loro prospettiva storica, per ren­ dersi conto delle difficoltà che si opponevano ad una concezione precisa di queste regole e dello sforzo che dovette compiere Aristotele per pervenirvi; Platone, nei suoi dialoghi, rivolti ad un pubblico colto, permette ancora ai suoi personaggi di ingarbugliarsi con questioni cosi elementari come i rapporti fra la negazione di A C B e la relazione A n B 0 (espresse in termini moderni), salvo poi dare in seguito la risposta esatta [192]. =

=

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o proposizioni per mezzo di lettere - secondo una consuetudine che, molto verosimilmente, Aristotele prese a prestito dai matematici). Egli, tuttavia, concentra quasi esclusivamente la sua attenzione su un particolare tipo di relazioni e di deduzioni logiche, ovverossia su quello che egli definisce il "sillogismo": si tratta essenzialmente di relazioni che oggi tradurremmo, nel linguaggio della teoria degli B :;t: 0,4 e della maniera di concatenare insiemi, con A C B oppure queste relazioni, o le loro negazioni, mediante lo schema

An

(ACB e BCC)-(ACC).

Aristotele, del resto, era ancora troppo vicino alla matematica del suo tempo per non vedere che gli schemi di questo genere non erano sufficienti a esprimere tutte le operazioni logiche usate dai matematici ed, ancor meno, tutte le altre applicazioni della logica ([4], An. Pr., I, 35; [114d], pp. 25-26).5 Nondimeno, lo studio approfondito delle diverse forme di " sillogismo " al quale egli si dedica (studio quasi interamente consacrato ad illustrare le eterne difficoltà sollevate dall'ambiguità o dall'oscurità dei termini sui quali fa perno il ragionamento) gli offre, fra l'altro, l'occasione di formulare delle regole per definire la negazione di una proposizione ([4], An. Pr., I, 46). Sempre ad Aristotele va attribuito il merito di aver distinto con grande precisione la categoria delle proposizioni "universali" da quella delle proposizioni "particolari," primo abbozzo dei "quantificatori."8 Ma sappiamo fin troppo bene come l'influenza dei suoi scritti , I corrispondenti enunciati di Aristotele sono: "Ogni A è B" e " Qualche A è B "; in queste notazioni A (" soggetto") e B (" predicato") tengono il posto di concetti; e dir!' che "Ogni A è un B" significa che si può attribuire il concetto B a qualsiasi ente cui sia possibile attribuire il concetto A (nell'esempio classico A è il concetto di "uomo," e B è il concetto di "mortale "). L'interpretazione che noi ne diamo, consiste nel considerare gli insiemi di enti ai quali si applicano rispettivamente i concetti di A e B; è il punto di vista detto" dell'estensione," già noto ad Aristotele. Ma quest'ultimo considera soprattutto la relazione " Ogni A è B " da un altro punto di vista, detto della" comprensione," dove B viene considerato come uno dei concetì:i che in qualche modo costituiscono il concetto pia complesso A, o, come dice Aristotele, gli "appartengono." Ad un primo esame, i due punti di vista sembrano altrettanto naturali; il punto di vista " della comprensione" tuttavia è stato fonte costante di difficoltà nello sviluppo della logica (sembra meno accessibile del primo all'intuizione e porta facilmente ad errori, in modo particolare negli schemi dove intervengono negazioni; v. [52a], pp. 21-32). • Per una discussione critica del sillogismo e delle sue insufficienze, v. per esempio ([52a], pp. 432-441) o ([123], pp. 44-50). • La mancanza di veri quantificatori (nel senso moderno) fino alla fine del XIX secolo è stata una delle cause della stagnazione della logica formale.

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(spesso angustamente e superficialmente interpretati) - ancora molto forte nel tardo secolo XIX

-

doveva incoraggiare i filosofi a trascu­

rare lo studio della matematica, ed a bloccare il progresso della logica formale.? Quest'ultima, tuttavia, continua a progredire nell'antichità, in seno alle scuole megarica e stoica, rivali di quella peripatetica. Tutte le notizie di cui disponiamo su tali dottrine sono purtroppo di se­ conda mano, spesso riferite da avversari o da mediocri commenta­ tori. Il progresso essenziale, compiuto da quei logici, consiste, pare, nella fondazione di un calcolo "proposizionale" nel senso in cui l'intendiamo oggi: invece di ancorarsi, come Aristotele, alle proposi­ zioni della forma particolare A C B, enunciano regole che concernono proposizioni completamente indeterminate. Essi analizzano, inoltre, i rapporti logici fra tali regole con tanta perspicacia da riuscire a de­ durle tutte da cinque sole regole - assunte come"indimostrabili " secondo procedimenti simili a quelli moderni [19]. Purtroppo la loro influenza fu piuttosto effimera, ed i risultati raggiunti caddero nell'oblio fino al giorno in cui furono riscoperti dai logici del XIX secolo. Il maestro incontestato della logica resta, fino al XVII secolo, Aristotele. I filosofi scolastici - come è ben noto - sono completa­ mente sotto il suo influsso; e sebbene il loro apporto alla logica for­ male sia tutt'altro che trascurabile [20bis], pur tuttavia esso non com­ porta alcun progresso di primo piano rispetto alle conquiste dei fi­ losofi dell'antichità. Conviene del resto qui ricordare che i lavori di Aristotele o dei suoi successori non pare abbiano avuto una notevole ripercussione sulla matematica. I matematici greci proseguono le loro ricerche nella scia dei pitagorici, ed i loro successori del IV secolo (Teodoro, Teeteto, Eudosso) non si preoccupano apparentemente della logica formale nella presentazione dei loro risultati: ciò che non deve affatto stu­ pire quando si raffrontino l'agilità e la precisione acquisita, sin da questo periodo, dal ragionamento matematico con l'aspetto ancora molto rudimentale della logica aristotelica. Quando poi la logica supererà questo stadio, saranno ancora le nuove conquiste della ma­ tematica che la guideranno nella sua evoluzione. Grazie allo sviluppo dell'algebra, era impossibile non restare colpiti dall'analogia fra le regole di questa e quelle della logica for, Si può citare il caso di un eminente professore universitario che, in una recente conferenza fatta a Princeton in presenza di GodeI, avrebbe affermato che, nieme di nuovo è stato fatto neI campo della logica dai tempi di Aristotele!

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male, che avevano in comune la carattenstlca di potersi applicare ad oggetti (proposizioni o numeri) non precisati. E quando, nel XVII secolo, le notazioni algebriche assumono con Viète e Descartes la forma definitiva, si vedono ben presto apparire diversi tentativi di una scrittura simbolica destinata a rappresentare le operazioni lo­ giche; prima di Leibniz, però, questi tentativi, come per esempio quello di Hérigone (1644) per eseguire le dimostrazioni della geo­ metria elementare o quello di PelI (1659) per le dimostrazioni del­ l'aritmetica, sono assai superficiali e non portano ad alcun pro­ gresso nell'analisi del ragionamento matematico. Con Leibniz siamo invece di fronte ad un filosofo che è anche un matematico di primo piano e che saprà trarre dalla sua esperienza matematica il germe di idee che districheranno la logica formale dalle pastoie degli scolastici.8 Spirito universale, e fonte inestinguibile di idee feconde e originali, Leibniz era portato a rivolgere alla logica il suo profondo interesse in quanto essa si inseriva nel cuore stesso dei suoi grandi progetti di formalizzazione del linguag­ gio e del pensiero, che egli non cessò di elaborare per tutta la vita. Iniziato fin dall'infanzia alla logica scolastica, era stato sedotto dal­ l'idea (che risale a Raimondo Lullo) di un metodo capace di ridurre tutti i concetti umani a concetti primitivi racchiusi in un " Alfabeto dei pensieri umani" ed atti a ricombinarsi in modo quasi meccanico per ottenere tutte le proposizioni vere

([l44b],

t. VII, p. 185; v.

[52a],

c. II). Ancora molto giovane, aveva concepito un'altra idea molto piu originale, quella cioè dell'utilità delle annotazioni simboliche considerate come un "filo di Arianna" del pensiero9: " Il

vero me-

• Sebbene Descartes, e in minor misura Pascal, abbiano consacrato una parte della loro opera filosofica ai fondamenti della matematica, il loro contributo al progresso della logica formale è trascurabile. Il motivo senza dubbio sta nella fondamentale tendenza del loro pensiero, nello sforzo cioè di emancipazione dalla tutela scolastica che li portava a rifiutare qualsiasi cosa poteva riferirvisi, prima fra tutte la logica formale. Infatti Pascal, nelle sue Réj1exionI Iur l'erprit géométrique, si limita essenzialmente, come egli stesso rico­ nosce, a plasmare in formule ben coniate i noti principi delle dimostrazioni euclidee (per esempio il famoso precetto: "Jojtituire jempre mmtalmente alle fOIe definite /e definizioni" ([175], t. IX, p. 280) era sostanzialmente noto ad Aristotele ([4], Top., VI, 4; [114d], p. 87». Quanto a Descartes, le regole di ragionamento che egli pone sono soprattutto dei precetti psicologici (abbastanza vaghi) e non dei criteri logici; come Leibniz ([520], pp. 94 e 202-203) gli rimprovera, essi non hanno quindi che una portata soggettiva. • S'intende che l'interesse di un tale simbolismo non era sfuggito, per quanto con­ cerne la matematica, ai predecessori di Leibniz; Descartes, per esempio, raccomanda di sostituire intere figure con segni molto brevi (XIV Regola per la direzione dello spirito [640], t. X, p. 454). Nessuno prima di Leibniz, tuttavia, aveva insistito con tanta ener­ gia sulla portata universale di questo principio.

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todo," egli dice, " deve fornire un filum Ariadnes, Ifale a dire un certo stru­ mento duttile e maneggevole, che sia di guida al/o spirito, come lo sono le linee tracciate in geometria e le forme del/e operazioni che si prescrivono ai principianti in aritmetica. In mancanza di ciò il nostro spirito non saprebbe fare un lungo cammino senza smarrirsi" ([l44b], t. VII, p. 22; v. [52a],

p. 90). Poco al corrente della matematica dei suoi tempi fin verso i 25 anni, egli presenta dapprima i suoi progetti sotto forma di"lin­ guaggio universale" ([520], c. III); ma dopo i primi contatti con l'al­ gebra, l'adotta come modello della sua"Caratteristica universale." Con questo egli intende una specie di linguaggio simbolico, capace di esprimere senza ambiguità tutti i pensieri umani, di rafforzare il nostro po tere di deduzione, d'evitare gli errori con uno sforzo di attenzione del tutto meccanico, congegnato infine in guisa che"le chimere, che nemmeno chi le ha concepite riesce ad intendere, non possano es­ sere scritte in questi caratteri" ([l44a], t. I, p. 187). Negli innumerevoli

passaggi dei suoi scritti ove Leibniz fa allusione a questo grandioso progetto ed ai progressi che la sua realizzazione apporterebbe (v. [520], c. IV e VI), si vede con quanta chiarezza egli concepisse la nozione di linguaggio formalizzato, pura combinazione di segni la cui importanza risiede unicamente10 nella concatenazione, in modo che una macchina sarebbe in grado di fornire tutti i teoremill e tutte le controversie si risolverebbero con un semplice calcolo ([l44 b], t. VII, pp. 198-203). Sebbene queste speranze possano sembrare ecces­ sive, non è men vero che proprio a questa costante tendenza del pen­ siero di Leibniz bisogna ricollegare buona parte della sua opera mate­ matica, a cominciare dai suoi scritti sul simbolismo del calcolo in­ finitesimale (v. pp. 200-203); ne era egli stesso perfettamente cosciente, e ricollegava esplicitamente alla " Caratteristica" le sue idee circa la notazione ad indici ed i determinanti ([l44a], t. II, p. 204; v. [520], pp. 481-487) e il suo abbozzo di Ca/cul géométrique (v. pp. 68 e 79-82 e v. [520], c. IX). Nelle sue intenzioni, però, la parte essenziale doveva essere la logica simbolica o, come egli stesso la chiama, " Calculus ratiocinator," ed almeno a tre riprese lo vediamo tentare di edifi­ care tale calcolo - sia pure senza mai riuscirvi. In un primo tentativo Leibniz pensa di associare a ciascun termine "primitivo" un nu­ mero primo, mentre ogni termine composto da piu numeri primitivi lO È s orprendente vederlo citare, come esempio di ragionamento " per formule," un tonto tlel/'eral/ore o persino un testo giudiziario «(144b], t. IV, p. 295). II È noto che questa concezione di una " macchina logica" è usata ai giorni nostri nella metamatematica ove rende notevoli servigi ([131], c. XIII).

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viene rappresentato dal prodotto dei numeri primi corrispondenti 12; egli cerca di trasferire in questo sistema le solite regole del siIlogismo, ma s'imbatte in notevoli complicazioni provocate dalla negazione (che abbastanza naturalmente cerca di rappresentare con il cambiamento di segno) ed abbandona molto presto questa via ([l44c], pp. 42-96; v. [52a], pp. 326-344). Nei suoi ulteriori tentativi cerca di dare alla logica aristotelica una forma piu algebrica; talvolta conserva la notazione AB per indicare la congiunzione di due concetti; talaltra invece si serve della notazione A B13; egli osserva la legge di idempotenza AA= A (in notazione moltiplicativa), nota come sia possibile sostituire alla proposizione "ogni A è B" l'eguaglianza A = = AB, e come, di qui, sia possibile ritrovare gran parte delle regole aristoteliche con un puro calcolo algebrico ([l44c], p. 229-237 e 356399; v. [52a], pp. 345-364). Leibniz ha anche l'idea del concetto vuoto (" non Ens ") e riconosce per esempio l'equivalenza delle due proposizioni" ogni A è B" e " A.(non B) non esiste" (Ioc. cit.); inoltre osserva che il suo calcolo logico si applica non solo alla logica dei concetti, ma anche a quella delle proposizioni ([l44c], p. 377), dimostrandosi quindi molto vicino al "calcolo booleano." Sembra purtroppo che egli non sia riuscito a svincolarsi completamente dall'influenza scolastica in quanto non solo pone quasi come unico scopo del suo calcolo la trascrizione, nelle sue notazioni, delle regole del siIlogismo,14 ma arriva persino a sacrificare le sue idee piu felici al desiderio di ritrovare integralmente le regole di Aristotele, comprese quelle incompatibili con la nozione di insieme vuotO. 15 Gli scritti di Leibniz restarono in gran parte inediti fino all'inizio del XX secolo, ed ebbero ben poca influenza diretta. Durante tutto il XVIII secolo e l'inizio del XIX, diversi autori (de Segner, J. Lambert, Ploucquet, Holland, De CastiIlon, Gergonne), abbozzarono tentativi simili a quelli di Leibniz, senza mai superare sensibilmente il punto in cui egli si era fermato. I loro studi ebbero una debolissima eco, tanto è vero che la maggior parte di essi ignorava del tutto i risultati

+

12 L'idea, in forma leggermente diversa, è stata ripresa con successo da GOdei, nei suoi studi di meta matematica (v. [tOOa] e [131], p. 254). 13 Lcibniz cerca di introdurre solo in qualche frammento del suo calcolo la disgiunzione (che egli nota A + B), ma non pare che sia riuscito a servirsi simultaneamente ed in modo soddisfacente di quest'operazione e della congiunzione ([520], p. 363). I l Lcibniz aveva chiara consapevolezza che la logica aristotelica era insufficiente a tradurre formalmente i testi matematici, ma, nonostante qualche tentativo, non riusci mai a migliorarla sotto questo aspetto ([520], pp. 435 e 560). 15 Si tratta di regole dette di " conversione," basate sul postulato che" ogni A è un B " implichi" qualche A è un B," il che naturalmente suppone che A non sia vuoto.

17

dei propri predecessori.18 Nelle medesime condi.zioni d'altra parte si trova anche G. Boole, il quale deve essere considerato il vero creato­ re della logica simbolica moderna [24]. La sua idea fondamentale con­ siste nel porsi sistematicamente dal punto di vista dell'" estensione," e dunque calcolare direttamente sugli insiemi, indicando con xy l'in­ tersezione di due insiemi, e con x +y la loro unione quando x e y non abbiano elementi in comune. Egli introduce inoltre un "universo" indicato con 1 (insieme di tutti gli oggetti) e l'insieme vuoto indicato con 0, e indica con 1 x il complementare di x. Come già aveva -

fatto Leibniz, Boole interpreta la relazione d'inclusione con la rela­ zione xy = x (da cui trae senza difficoltà la giustificazione delle regole del sillogismo classico), e le sue notazioni per la riunione ed iI comple­ mentare imprimono

a

tutto il suo sistema un'agilità che mancava

ai suoi predecessori P Inoltre, associando ad ogni proposizione l'in­ sieme di " casi " in cui essa è verificata, Boole interpreta la relazione di implicazione come una inclusione, di guisa che iI suo calcolo degli insiemi gli fornisce le regole del " calcolo proposizionale." Nella seconda metà del XIX secolo, il sistema di Boole serve come base agli studi di un'attiva scuola di logici, che lo migliorano e lo completano in diversi punti.

È

cosi che Jevons

significato dell'operazione di riunione x

ey qualsiansi.

A.

(1864)

estende il

+y applicandolo al caso di de Morgan nel [1858, e �c. s. Pierce nel 1867, x

dimostrano le relazioni di dualità

((A)n((B)= ((AUB),

((A)U(( B) = ((An B).18

De Morgan affronta anche, nel 1860, lo studio delle relazioni che de­ finiscono l'inversione e la composizione delle relazioni binarie, (cioè -1

le operazioni che corrispondono alle operazioni G o G}

o

G2 sui gra-

fici).19 Tutti questi studi si trovano sistematicamente esposti e svilup18 L'influenza di Kant, a partire dalla metà del XVIII secolo, è certamente, almeno in parte, causa del poco interesse suscitato dalla logica formale in quel periodo: Kant ritiene che " noi non abbiamo alcun birogno di nuove ifl1lenzioni in logica," poiché la forma data ad essa da Aristotele è sufficiente per tutte le possibili applicazioni ([129 bis], t. VIII, p. 340). A proposito delle concezioni dogmatiche di Kant sulla matematica e sulla lo­ gica, si potrà consultare [52b]. 17 Osserviamo in particolare che Boole utilizza la distributività dell'intersezionc ri­ spetto all'unione, che pare sia stata rilevata per la prima volta da J. Lambert. 18 Bisogna tener presente che alcuni enunciati equivalenti a queste regole si trovano già in alcuni filosofi scolastici ([20bis], pp. 67 sgg.). 11 Tuttavia la nozione di prodotto " cartesiano" di due insiemi qualsiansi pare sia atata esplicitamente introdotta solo da G. Cantor ([35], p. 286); fu ancora Cantor a dc-

18

pati nella massiccia e prolissa opera di Schroder [203]. È piuttosto curioso notare come i logici di cui ci siamo finora occupati non sem­ brano interessarsi affatto dell'applicazione dei loro risultati alla mate­ matica; al contrario pare che Boole e Schroder si proponessero come scopo principale lo sviluppo dell'algebra" booleana" foggiandone i metodi ed i problemi sull'algebra classica (spesso in modo abba­ stanza artificiale). Il motivo di questo atteggiamento sta senza dubbio nel fatto che il calcolo booleano non era agevole per trascrivere la maggior parte dei ragionamenti matematici20 e non forniva che una risposta molto parziale al grande sogno di Leibniz. La costruzione di formalismi piu idonei alla matematica - la cui tappa principale è costituita dall'introduzione delle variabili e dei quantificatori, do­ vuta indipendentemente a Frege [89a, b, c,] e C. S. Pierce [179b] fu opera di logici e di matematici che, a differenza dei predecessori,

-

avevano presenti anzitutto le applicazioni ai fondamenti della ma­ tematica. Il proposito di Frege [89b e c] era di fondare l'aritmetica su una logica formalizzata in una" scrittura di concetti" (Begriffschrift), e ritorneremo piu avanti sul modo con cui egli definisce gli interi na­ turali. Le sue opere sono caratterizzate dall'esame preciso e minu­ zioso nell'analisi dei concetti; ed è appunto per questa sua tendenza che egli introduce numerose distinzioni che si rivelano molto im­ portanti nella logica moderna: è lui il primo, per esempio, a distin­ guere fra l'enunciato di una proposizione e l'affermazione che questa proposizione è vera, fra la relazione di appartenenza e quella di in­ clusione, fra un oggetto x e l'insieme {x} costituito da quest'unico oggetto ecc. La sua logica formalizzata che comporta non solo delle " variabili" in senso matematico, ma anche delle "variabili proposi­ zionali" che rappresentano delle relazioni indeterminate e suscetti­ bili di quantificazione, doveva piu tardi (grazie all'opera di Russell e di Whitehead) fornire lo strumento principale della metamatematica. Sfortunatamente i simboli da lui adottati sono poco suggestivi, di B finire per primo l'esponenziazione A (lot. cit., p. 287); la nozione generale di prodotto infinito si deve a A. N. Whitehead ([246], p. 369). L'utilizzazione dei grafici di relazione è piuttosto recente: e, ben inteso, se si eccettua il caso classico delle funzioni numeriche di variabili reali, appare per la prima volta ad opera dei geometri italiani, in particolare di C. Segre, nei loro studi, sulle corrispondenze algebriche. 20 Per ogni relazione ottenuta a partire da una o piu relazioni date, applicando i nostri quantificatori, bisognerebbe in questo calcolo introdurre una notazione ad hOf -l

del tipo delle notazioni G

e

G10 G. (cfr. ad esempio [179b]).

19

una estrema complessità tipografica e ben lontani dalla consuetudine dei matematici: difetti che allontanarono questi ultimi e ridussero notevolmente l'influsso di Frege sui suoi contemporanei. L'obiettivo di Peano era al tempo stesso piu vasto e piu ele­ mentare; si trattava di pubblicare un Formulario di matematica, scritto completamente in linguaggio formalizzato, che contenesse non solo la logica matematica, ma tutti i risultati dei piu importanti settori della matematica. La rapidità con cui egli riusd a realizzare questo pro­ getto ambizioso, affiancato da una pleiade di collaboratori entusiasti (Vailati, Pieri, Padoa, Vacca, Vivanti, Fano, Burali-Forti) testimonia l'eccellenza del simbolismo da lui adottato: seguendo da vicino la pratica quotidiana dell'attività matematica, e introducendo numerosi simboli d'abbreviazione ben scelti, egli ottiene un linguaggio abba­ stanza facilmente leggibile, grazie soprattutto ad un ingegnoso si­ stema di sostituzione delle parentesi con punti di separazione [177f]. Molte notazioni dovute a Peano sono ancora oggi adottate dalla mag­ gioranza dei matematici: ad esempio E, :::> (ma, contrariamente a quanto si fa oggi, nel senso di "è contenuto" o "implica "21), U, n, A B (insieme delle differenze a b, dove a E A e b E B). Nel" Formulario," d'altra parte, si trova per la prima volta una -

-

analisi approfondita della nozione generale di funzione, di quelle di immagine diretta22 e di immagine reciproca, nonché l'osservazione secondo cui una successione non è che una funzione definita in N. Tuttavia la quantificazione, in Peano, è sottoposta a noiose restri­ zioni (non si possono quantificare, nel suo sistema, che le relazioni della forma A=> B, A B o A B). Inoltre lo zelo quasi fanatico =

di certi suoi discepoli prestava facilmente il fianco al ridicolo; la critica, spesso ingiusta, in particolare quella di H. Poincaré, diede una sensibile scossa alla scuola di Peano e fu d'ostacolo alla diffu­ sione della sua dottrina nel mondo matematico. Frege e Peano introducono dunque gli elementi essenziali \del linguaggio formalizzato oggi in uso. Il piu diffuso è certamente quello delineato da Russell e Whitehead nella loro grande opera Principia Mathematica che unisce felicemente alla praticità di Peano la preci­ sione di Frege [194]. La maggior parte dei linguaggi formalizzati d'oggigiorno si distingue da quello solo per modificazioni di seconIl Ciò indica fino a qual punto fosse radicata, persino in lui, la vecchia abitudine di pensare .. in comprensione" piuttosto che " in estensione." 21 L 'introduzione di quest'ultima sembra si debba a Dedekind, nella sua opera Was si"" tmtI 111M soli", di, Zahl"" di cui parleremo piu avanti ([60], t. III, p. 348).

20

dada importanza, che cercano di semplificarne l'uso. Fra le piu in­ gegnose citiamo ad esempio la scrittura " funzionale" delle relazioni (per esempio

e

xy invece di

x e

y)

inventata da Lukasiewicz, grazie

alla quale si possono abolire del tutto le parentesi; la piu interessante però è senza dubbio l'introduzione da parte di Hilbert del simbolo 't',

che permette di considerare come segni di abbreviazione i quanti­

ficatori 3 e V, di evitare l'introduzione del simbolo funzionale "uni­ versale" L di Peano e di Russell (iI quale si applica solo alle relazioni funzionali), ed infine dispensa dal formulare l'assioma della scelta nella teoria degli insiemi

([l22a],

t. III, p.

183).

La nozione di verità in matematica I matematici sono stati sempre persuasi di dimostrare delle" veri­ tà" o delle " proposizioni vere." Evidentemente tale convinzione non può essere che d'ordine sentimentale o metafisico, e non si può certo giustificarla ponendosi sul terreno della matematica, né darle un significato che non ne faccia una tautologia. La storia del concetto di verità in matematica affonda dunque le sue radici nella storia della filosofia e non in quella della matematica; l'evoluzione di questo concetto, tuttavia, ha avuto un innegabile influsso sull'evoluzione della matematica, ed è proprio per questo che non possiamo passarla sotto silenzio. Osserviamo anzitutto che è altrettanto raro trovare un matema­ tico dotato di una solida cultura filosofica quanto trovare un filosofo che abbia una vasta conoscenza della matematica. I punti di vista dei matematici su questioni di ordine filosofico, anche quando abbiano attinenza con la loro scienza, sono il piu delle volte opinioni di se­ conda o di terza mano, di dubbio valore. Ma, appunto per ciò, sono queste opinioni medie che interessano lo storico della matematica, non meno di quanto lo interessino i punti di vista originali di pen­ satori come Descartes o Leibniz (per citarne due che sono stati anche dei matematici di prim'ordine), Platone (che per lo meno si tenne al corrente della matematica dei suoi tempi), Aristotele o Kant (dei quali non si può invece dire altrettanto). La nozione tradizionale di verità matematica è quella che risale al Rinascimento. Secondo questa concezione, non vi è gran diffe­ renza fra gli oggetti di cui si occupano i matematici e quelli che ri­ guardano le scienze naturali; tanto gli uni che gli altri sono conoscibili 21

ed accessibili all'uomo per mezzo sia dell'intuizione che del ragionamento; non vi è motivo di mettere in dubbio né l'intuizione né il ragionamento che sono infallibili purché se ne faccia un uso corretto. " Bisogmrebbe," dice Pascal, "essere in assoluta malafede per ragionare erroneamente su principi tanto evidenti che è quasi impossibile ci sfugga110 " ([175], t. XII, p. 9). Descartes, nel suo" polle,"23 è convinto che "soltanto i Matematici hanno potuto trovare alcune dimostrazioni, cioè alcune ragioni certe ed evidenti" ([64a], t. VI, p. 19; v. anche [64c], p. 19 [N.d.T.]), e questo, sempre secondo l'autore, molto prima di aver costruito una metafisica in cui " quello stesso che poco fa ho preso per regola, cioè che le cose che noi concePiamo con tutta chiarezza e distinzione sono tutte vere, è certo solo perché Dio è o esiste, ed è un essere perfetto" ([64a], t. VI, p. 38; v. anche [64c], p. 36 [N.d.T.]). Leibniz, benché obietti a Descartes la difficoltà di riconoscere un'idea come " chiara e distinta,"24 tuttavia considera egli stesso gli assiomi come conseguenze evidenti ed ineluttabili delle definizioni, quando se ne siano compresi i termini. 25 Non bisogna dimenticare del resto che nellinguaggio di quel tempo erano comprese nella matematica scienze che oggi non consideriamo piu come tali, talvolta persino l'ingegneria. La fiducia che esse suscitavano era dovuta in larga misura al sorprendente successo della loro applicazione alla "filosofia naturale," alle "arti meccaniche" ed alla navigazione. Da questo punto vista, gli assiomi non possono essere discussi o messi in dubbio piu di quanto avvenga per le stesse regole del ragionamento; si può tutt'al piu concedere a ciascuno 23 Descartes trascorse l'inverno 1619-1620 in una città tedesca (probabilmente Neuberg), chiuso in una stanza surriscaldata, detta appunto - con locuzione di origine russa - poNe (stufa) [N.d. T.]. 2~ " Coloro che ci hanno fornito dei metodi," egli dice a questo proposito, "dànno senza dubbio dei bei precetti, ma non indicano come osservar!i" ([144b], t. VII, p. 21). Del resto, motteggiando le regole cartesiane, egli le paragona alle prescrizioni degli alchimisti: " Prendi quanto è necessario, fai come devi ed otterrai quello che desideri! " ([144b], t. IV, p. 329). " Su questo punto Leibniz risente ancora dell'influsso scolastico; egli è sempre del parere che le proposizioni stabiliscano fra concetti un rapporto da " soggetto" a " predicato." Una volta ridotti i concetti a "primitivi" (e questa come già abbiamo visto è una delle sue idee fondamentali) tutto si riduce per Leibniz a verificare delle relazioni di " inclusione" per mezzo di quelli che egli chiama" assiomi identici" (essenzialmente le proposizioni A = A e A C A) e mediante il principio di " sostituzione degli equivalenti" (se A = B, si può sempre sostituire A con B) ([520], pp. 184-206». È interessante notare a questo proposito che, conformemente al suo desiderio di ridurre tutto alla logica, e di " dimostrare tutto ciò che è dimostrabile," Leibniz prova la simmetria e la transitività della relazione d'eguaglianza, partendo dall'assioma A = A e dal principio di sostituzione degli equivalenti ([1440], t. VII, pp. 77-78).

22

di scegliere, seguendo i propri gusti, fra il ragionare con il .. metodo degli antichi" ed il lasciare libero corso alla propria intuizione. Anche la scelta del metodo è una questione di preferenze personali e si vedono cosi apparire numerose "edizioni" di Euclide, dove la solida struttura logica degli Elementi subisce strani travestimenti. Si danno del calcolo infinitesimale e della meccanica razionale espo­ sizioni ritenute deduttive, fondate su basi singolarmente mal poste; e Spinoza era forse in buona fede quando riteneva la sua Etica dimo­ strata secondo principi geometrici:"more geometrico demonstrata." Pur essendo difficile trovare nel XVII secolo due matematici i quali fossero d'accordo su un qualsivoglia argomento, e malgrado le po­ lemiche quotidiane, acri ed interminabili, tuttavia non risulta com­ promessa la nozione di verità. " Non essendovi se non una verità di ogni

cosa," dice Descartes,"chiunque la trova ne sa quanto se ne può sapere" ([64], t. VI, p. 21; v. anche [64c ] , p. 21 [N.d.T.]). Benché non ci sia pervenuto alcun testo del primo periodo el­ lenistico su questi argomenti, è probabile che il punto di vista dei matematici greci in proposito fosse molto pili sfumato. Solo con l'espe­ rienza le regole del ragionamento hanno potuto essere elaborate fino al punto di ispirare una completa fiducia; prima di poterle consi­ derare al di sopra di ogni discussione è stato necessario passare per una serie di tentativi e di paralogismi. Sarebbe un misconoscere lo spirito critico dei greci ed il loro gusto per la discussione e per il sofisma, l'immaginare che gli stessi"assiomi" che Pascal giudicava i pili evidenti (e che, secondo una leggenda diffusa da sua sorella, avrebbe egli stesso con intuito infallibile scoperto durante la sua in­ fanzia), non siano stati oggetto di lunghe discussioni. In un campo diverso da quello della geometria propriamente detta, i paradossi degli eleati hanno conservato qualche traccia di quelle polemiche; e Archimede, quando osserva ([3 b], t. II, p. 265) come i suoi prede­ cessori in numerose occasioni si siano serviti dell'assioma che noi abitualmente gli attribuiamo,

aggiunge che quello che è stato di­

mostrato con tale assioma" è stato ammesso né piu né meno di quello che è

stato dimostrato senza di esso," e che si accontenta che i suoi risultati siano ammessi allo stesso titolo. Platone, in conformità con i suoi punti di vista metafisici, presenta la matematica come un mezzo per accostarci alla" verità in se stessa," e considera gli oggetti di cui essa tratta, come aventi una propria esistenza nel mondo delle idee; e caratterizza con ancora maggior precisione il metodo matematico in

un

celebre passaggio della Repubblica: "Coloro che si occupano di 23

geometria e di aritmetica... suppongono J'esistenza del pari e del dispari e di tre tipi di angoli; essi ne parlano come di cose note: una volta supposto questo, ritengono di non doverne piu rendere conto a neSSUfJO, neppure a se stessi, [con­ siderandolo] come chiaro a tutti; e, partendo da questo presupposto, pro­ cedono con ordine, per arrivare di comune accordo allo scopo che la loro ricerca si era prefisso" ([180], Libro VI, 510, c-e). La dimostrazione dunque è costituita, prima di tutto, da un punto di partenza, che ("sebbene chiaro a tutti") presenta qualcosa di arbitrario ed, al di là del quale, - egli dirà piu avanti - non si cerca di andare; poi da un cammino che si snoda in una serie ordinata di tappe intermedie, ed infine dal­ l'approvazione dell'interlocutore che, ad ogni passo, garantisce la esattezza del ragionamento. Bisogna inoltre aggiungere che, una volta posti gli assiomi, non si ammette, per principio, alcun nuovo richiamo all'intuizione. Proclo, citando Gemino, ricorda che" abbiamo

imparato dagli stessi pionieri di questa scienza, a non tenere in nessun conto le conclusioni soltanto plausibili, quando si tratta di ragionamenti che dev0/10 far parte della nostra dottrina geometrica" ([114e], t. I, p. 203). Si deve dunque all'esperienza ed al pungolo della critica, l'elabo­ razione delle regole della matematica; e, se è vero, come è stato sostenuto in modo plausibile[231c], che il Libro VIII di Euclide ci ha tramandato una parte dell'aritmetica di Archita, non ci sorprende il trovarvi la rigidezza di ragionamento un po' pedante che compare sempre in ogni scuola matematica dove si scopre, o si ritiene di sco­ prire, il "rigore." Ma, una volta introdotti nella pratica matematica, non appare che questi sistemi logici siano mai stati messi in dub­ bio fino ad epoca assai recente; se, per Aristotele e gli stoici, certe regole sono dedotte da altre grazie a schemi di ragionamento, le regole primitive sono tuttavia sempre accettate come evidenti.

E

cosi, dopo essere risaliti fino alle "ipotesi," agli "assiomi" ed ai "postulati" che ad essi sembrarono atti a dare un solido fondamento alla scienza del loro tempo, ( quali, con ogni probabilità, si presenta­ vano nei primi"Elementi" che la tradizione attribuisce ad Ippocrate di Chio, intorno al 450 circa a.c.), i matematici greci del periodo classico sembrano aver dedicato tutti i loro sforzi alla scoperta di nuovi risultati piuttosto che alla critica di quei fondamenti, critica che, a quell'epoca, sarebbe comunque risultata sterile. Il testo di Platone, che abbiamo poc'anzi citato, testimonia appunto, a pre­ scindere da ogni considerazione d'ordine metafisica, l'esistenza di un accordo generale fra i matematici sulle basi della loro scienza. I matematici greci, d'altronde, pare non abbiano mai ritenuto

24

di poter chiarire le "nozioni fondamentali" che servono loro da punto di partenza: retta, superficie, rapporto di grandezze; quando ne danno delle" definizioni" è evidentemente per debito di coscienza e

senza farsi illusioni sul loro valore. Per quanto riguarda invece

definizioni che non fossero quelle di "nozioni primitive" (defini­ zioni spesso chiamate "nominali "), i matematici ed i filosofi greci avevano idee perfettamente chiare.

È

a questo proposito che, cer­

tamente per la prima volta, interviene in modo esplicito in matematica il problema dell'" esistenza." Aristotele non manca di osservare come una definizione non comporti l'esistenza della cosa definita, e come perciò sia necessario un postulato od una dimostrazione. La sua osservazione senza dubbio deriva dalla sua consuetudine con i matematici; in ogni caso già Euclide si preoccupa di postulare l'esi­ stenza del cerchio e di dimostrare quella del triangolo equilatero, delle parallele, del quadrato ecc., a mano a mano che le introduce nei suoi ragionamenti

([114e],

Libro

I);

tali dimostrazioni sono delle "costru­

zioni "; in altre parole, egli presenta, poggiando sugli assiomi, degli oggetti matematici, e dimostra che essi soddisfano alle definizioni che si tratta di giustificare. Vediamo cosi la matematica greca dell'epoca classica sfociare in una specie di certezza empirica (quali che siano le basi metafisiche di questo o quel filosofo). Anche se non viene neppure sfiorata la pos­ sibilità di discutere le regole della logica, il successo della scienza greca e la persuasione della inopportunità di una revisione critica deri­ vano per lo piu dalla fiducia che ispirano gli assiomi propriamente detti, fiducia non dissimile da quella (anch'essa quasi illimitata) che nel secolo scorso si attribuiva ai principi della fisica teorica. D'al­ tronde proprio questo suggerisce il motto della scuola " nihil

intellectu quod non prius luer# in sensu,"

est in

contro il quale giustamente si

erge Descartes ritenendolo insufficiente a fornire un fondamento abba­ stanza sicuro per quanto egli voleva trarre dall'uso della ragione. Bisognerà attendere fino all'inizio del

XIX

secolo per vedere

i matematici abbandonare la perentorietà di un Descartes (senza par­ lare di quella di un Kant o di un Hegel, quest'ultimo un po' in ri­ tardo, come si sa, rispetto alla scienza della sua epoca26), e ritornare su posizioni sfumate pressappoco come quelle dei greci. Il primo colpo inferto alle concezioni classiche è l'edificazione della geometria non .6 Nella sua dissertazione inaugurale, egli dimostra che possono esistere solo sette pianeti, mentre nello stesso anno veniva scoperto l'ottavo.

25

euclidea iperbolica compiuta da Gauss, Lobacevskij e Bolyai all'inizio del secolo. Non ci soffermeremo qui a delineare particolareggiata­ mente la genesi di tale scoperta, risultante dai molti infruttuosi ten­ tativi di dimostrazione del postulato delle parallele (v. [78a e bl). Li per li il suo effetto sui principi della matematica non fu forse cosi profondo come talvolta si ritiene. Essa costrinse semplicemente ad abbandonare le pretese del secolo precedente alla" verità assoluta " della geometria euclidea ed, a maggior ragione, il punto di vista leibniziano delle definizioni implicanti gli assiomi; questi ultimi non vengono pili considerati come " evidenti," bensi come ipo­ tesi di cui dev'essere accertata l'adeguatezza alla rappresentazione matematica del mondo sensibile. Gauss e Lobacevskij ritengono che l'antagonismo fra le diverse geometrie possa essere composto dall'esperienza ([149], Riemann, la cui celebre lezione inaugurale " Sulle ipotesi che servono di fondamento alla geometria" ha per scopo di fornire un quadro mate­ matico generale ai diversi fenomeni naturali: "Resta da risolvere," egli afferma, "la questione di sapere in che misura e fino a qual punto que­ sle ipotesi sono confermate dall'esperienza" ([187a], p. 284). Ma tale pro­ blema, evidentemente, non ha pili niente a che fare con la matematica; e nessuno degli autori precedenti sembra mettere in dubbio che, an­ che se una"geometria" non corrisponde alla realtà dell'esperienza, ciò nonpertanto i suoi teoremi continuano ad essere delle " verità matematiche. "27 Tuttavia, se cosi è, certamente non è pili ad una illimitata fiducia nell'"intuizione geometrica " classica che va attribuita una tale con­ vinzione; la descrizione che Riemann si sforza di dare delle "varietà a n dimensioni," oggetto dei suoi studi, non si basa pili su consi­ derazioni "intuitive,"28 se non per giungere a giustificare l'intro­ duzione delle " coordinate locali"; a partire da questo momento sembra che egli si senta su di un terreno solido, sul terreno dell'analisi. Ma quest'ultima si fonda sul concetto di numero reale, rimasto, fino ad allora, di natura prevalentemente intuitiva; i progressi della teoria delle funzioni conducevano in proposito a risultati sconcertanti:

.. V. gl i argome nt i di Poi ncaré in favore della" semplicità" e della" prat icità" della geometria euclide a ([181& l, p. 67), ed anche l'analisi con la quale poco oltre egli arriva alla conclusione che l'esperienza non furnisce c rite ri assoluti per la scelta di una geometria p i ut tost o che un'altra come qu adro dei fenomeni naturali. !8 Per di piti questo termine è giustiticato solo per n :::; 3; per val/)ri di giori di

26

3 si tratta

in realta

di ragionamenti

per analogia.

n

mag­

con le ricerche dello stesso Riemann sull'integrazione, ed ancor piu con gli esempi di curve senza tangenti, costruite da Bolzano e Weier­ strass, ha inizio davvero tutta la patologia della matematica. Da un secolo a questa parte abbiamo visto tanti mostri di questa specie che ci siamo un po' smaliziati, e bisogna ormai accumulare i piu strava­ ganti caratteri teratologici per riuscire davvero a stupirei. Ma l'ef­ fetto prodotto sulla maggior parte dei matematici del XIX secolo andava dal disgusto alla costernazione: "Come può l'intuizione in­ gannarci fino a questo punto?" si domanda Henri Poincaré ([181d], p. 19); e Hermite (con una punta d'ironia che non tutti i commentatori della sua celebre frase pare abbiano rilevato) dichiara "di distogliersi con spavento ed orrore da questa deplorevole piaga delle funzioni continue prive di derivata" ([120], t. II, p. 318). Ed il peggio era che non si potevano pi6 addebitare tali fenomeni, cosi contrari al buon senso, a nozioni mal chiarite, come si era fatto per gli " indivisibili" (v. p. 179), poiché essi erano posteriori alle riforme di Bolzano, Abel e Cauchy, le quali avevano permesso di fondare la nozione di limite in modo altrettanto rigoroso quanto la teoria delle proporzioni (v. p. 157). Bisogna dunque far ricadere la colpa sul carattere grossolano ed incompleto della nostra intuizione geometrica, e si comprende facil­ mente come da allora essa sia rimasta screditata a giusta ragione come mezzo di dimostrazione. Una constatazione del genere doveva inevitabilmente provocare reazioni nella matematica classica e, prima fra tutte, nella geometria. Nonostante il rispetto tributato alla costruzione assiomatica di Euclide non si era potuto fare a meno di rilevare, fin dall'antichità, che in essa vi era pi6 di una imperfezione. Oggetto del piu gran numero di critiche e di tentativi di dimostrazione era stato il postulato delle parallele; ma i continuatori ed i commentatori di Euclide si erano sforzati di dimostrare anche altri postulati (in particolare quello del­ l'eguaglianza degli angoli retti) ed avevano riconosciuto l'insuffi­ cienza di certe definizioni: ad esempio quelle della retta e del piano. Nel XVI secolo, Clavio, al quale si deve un'edizione degli Elementi, nota la mancanza di un postulato che garantisca l'esistenza del quarto proporzionale; Leibniz, dal canto suo, rileva come Euclide si serva dell'intuizione geometrica senza farne esplicita menzione, per esem­ pio quando ammette (Elementi, Libro I, prop. 1) che due cerchi pas­ santi ciascuno per il centro dell'altro, hanno un punto in comune ([l44b], t. VII, p. 166). Gauss (sebbene si serva anche lui di tali con­ siderazioni topologiche) mette in risalto l'importanza avuta nelle 27

costruzioni euclidee dalla nozione di un punto (o di una retta) posto " fra" due altri, nozione che tuttavia non viene definita ([95a], t. VIII, p. 222). Infine, l'uso degli spostamenti, in particolare nei " casi di eguaglianza dei triangoli," per lungo tempo ammesso come pacifico,29 doveva ben presto apparire fondato, per la critica del XIX secolo, su assiomi non formulati. Si giunse cosi, nel periodo fra il 1860 ed il 1885, a svariate revisioni parziali delle origini della geometria (Helmholtz, Méray, Houel), volte a colmare alcune di queste lacune. Solo in Pasch [176], però, l'abbandono di qualsiasi richiamo all'intuizione assume l'aspetto di un programma chiaramente formu­ lato e rigorosamente seguito. Il successo della sua impresa fece si che ben presto sorgessero numerosi emuli, i quali, soprattutto fra il 1890 ed il 1910, presentano nei piu diversi modi gli assiomi della geometria euclidea. Le piu celebri fra queste opere furono quelle di Peano, scritte nel suo linguaggio simbolico [177d], e soprattutto i Grund/agen der Geometrie di Hilbert [1�2c] apparsi nel 1899 - libro che, per la sua esposizione chiara e profonda, doveva presto divenire giustamente il testo dell'assiomatica moderna, fino a far dimenti­ care tutti i predecessori. In effetti Hilbert, non pago di offrire un si­ stema completo di assiomi per la geometria euclidea, li classifica in piu raggruppamenti di diversa natura e si sforza di determinare l'esatta portata di ciascuno di questi gruppi di assiomi, non solo svi­ luppandone separatamente le conseguenze logiche, ma anche discu­ tendo le diverse " geometrie" che si ottengono allorché qualcuno di tali assiomi viene soppresso o modificato (geometrie di cui quelle di Lobacevslcij e di Riemann non sono altro che casi particolari)30; egli mette cosi chiaramente in evidenza, in un campo considerato fino ad allora tra i piu vicini alla realtà sensibile, la libertà di cui di­ spone il matematico nella scelta dei suoi postulati. Nonostante la confusione provocata in piu di un filosofo da queste" metageometrie" dalle strane proprietà, la tesi dei Grund/agen fu rapidamente adottata in modo quasi unanime dai matematici; H. Poincaré, immune senz'al­ tro dal sospetto di parzialità in favore del formalismo, riconobbe nel 1902 che gli assiomi della geometria sono delle convenzioni, per .9 Bisogna tuttavia osservare che fin dal secolo XVI un commentatore di Euclide, J. Peletier, protesta contro questo metodo di dimostrazione in termini non dissimili da quelli dei critici moderni. 30 Ciò che pare abbia maggiormente colpito i contemporanei è la geometria " non archimedea," vale a dire quella il cui corpo di base consiste in un corpo ordinato non archimedeo (commutativo o no), che (nel caso commutativo) era stato introdotto da Veronese [232] alcuni anni prima.

28

cui la nozione di " verità," cosi come viene generalmente intesa, non ha piu senso ([181c], pp. 66-67). La " verità matematica" sta quindi solo nella deduzione logica, partendo da premesse poste arbitraria­ mente grazie agli assiomi. Come si vedrà piu avanti (v. pp. 50-54) an­ che la validità delle regole logiche che presiedono a queste deduzioni venne ben presto rimessa in discussione, e si rese pertanto necessaria una completa revisione dei concetti posti alla base della matematica. Oggetti, modelli, strutture a. Oggetti e strutture matematiche. Dall'antichità fino al XIX se­ colo, i matematici sono concordi nell'individuare gli oggetti dei loro studi, cioè quelli stessi menzionati da Platone nel brano già citato (p. 23): i numeri, le grandezze e le figure. Se, all'inizio, si de­ vono aggiungere gli oggetti ed i fenomeni che concernono la mec­ canica, l'astronomia, l'ottica e la musica, tuttavia queste discipline " matematiche" sono presso i greci sempre nettamente distinte dal­ l'aritmetica e dalla geometria, e, dal Rinascimento in poi, ascendono al rango di scienze indipendenti. Quali che siano le sfumature filosofiche che caratterizzano gli oggetti matematici di questo o quel matematico o filosofo, si dà però almeno un punto sul quale esiste l'unanimità: che gli oggetti ci ven­ gono dati, e che non è in nostro potere attribuire ad essi proprietà arbitrarie, cosi come un fisico non può modificare un fenomeno na­ turale. A dire il vero influiscono su questi punti di vista reazioni d'ordine psicologico che non è compito nostro approfondire, ma che sono ben note ad ogni matematico quando si prodiga in vani sforzi per conseguire una dimostrazione che sembra sfuggirgli di continuo. Da qui, ad assimilare questa resistenza agli ostacoli posti dinanzi a noi dal mondo sensibile, non c'è che un passo; ed anche ' oggi piu di un matematico che manifesti un intransigente formalismo sottoscriverebbe volentieri, nel suo intimo, l'affermazione di Her­ mite: " Credo che i numeri e le funzioni dell'Analisi non siano il prodotto arbitrario del nostro spirito; penso che essi esistano fuori di noi, con lo stesso carattere di necessità che hanno le cose della realtà oggettiva, e noi ci imbat­ tiamo in essi o li scopriamo e li studiamo, come fanno i fisici, i chimici e gli zoologi" ([120], t. II, p. 398). Nella concezione classica della matematica non si pone neppure il problema di scostarsi dallo studio dei numeri e delle figure; ma -

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questa dottrina ufficiale, alla quale ogni matematico si ritiene obbli­ gato a dare la propria adesione verbale, fa si che a poco a poco si crei un intollerabile imbarazzo man mano che nuove idee vengono accumulandosi. L'imbarazzo degli algebristi davanti ai numeri nega­ tivi cessa solo quando la geometria analitica ne dà una interpretazione utile; ma, ancora in pieno XVIII secolo, d'Alembert, discutendo la questione nell'Encyclopédie ([56a], alla voce NEGATIVO) , si perde im­ provvisamente d'animo dopo una colonna di spiegazioni piuttosto confuse, e si accontenta di concludere che " le regole delle operazioni algebriche sulle quantità negative sono generalmente ammesse da tutto il mondo ed accolte generalmente come esatte, quale che sia l'idea che si attribuisce a tali quantità." Per i numeri immaginari lo scandalo è ancora maggiore; se infatti si tratta di radici " impossibili" e se (fin verso il 1800) non si vede alcun modo di " interpretarle," come si può, senza ca­ dere in contraddizione, parlare di questi esseri indefinibili, e, soprat­ tutto, perché introdurli? D'Alembert si chiude qui in un prudente silenzio ed evita persino di porsi delle domande, senza dubbio per­ ché si rende conto che non potrebbe rispondere in modo diverso da quello ingenuamente adottato da A. Girard un secolo prima ([99], f. 22): " Ci si potrebbe chiedere: a che servono queste soluzioni che sono iII/­ possibili? Ed io rispondo: per tre cose: per la certezza della regola generale, perché non vi sono altre soluzioni, e per la loro utilità." Nel secolo XVII la situazione, per quanto riguarda l'analisi, non è affatto migliore. Ed è una fortuna che la geometria analitica sia sorta, quasi invocata, per dare una "rappresentazione" sotto la forma di figura geometrica della nozione di funzione - la grande creazione del XVII secolo - e contribuire cosi (con Fermat, Pascal o Barrow) in modo determinante alla nascita del calcolo infinitesimale (v. p. 204). Sappiamo, per converso, a quante controversie filosofico-matematiche dovevano dar luogo le nozioni di infinitamente piccolo e di indivisibi­ le. Sebbene d'Alembert abbia qui la mano piu felice, e riconosca che nella" metafisica" del calcolo infinitesimale non vi è nient'altro che la nozione di limite ([56a], voci DIFFERENZIALE e LIMITE, e [56b]), egli non può, come non lo potevano i suoi contemporanei, comprendere il vero significato degli sviluppi in serie divergenti, e spiegare il pa­ radosso di risultati esatti ottenuti mediante calcoli effettuati su espres­ sioni prive di una qualsiasi interpretazione numerica. Infine anche nel campo della "certezza geometrica" lo schema euclideo cede: e certamente Stirling, quando nel 1717 non esita ad affermare che una certa . curva ha "un punto doppio immaginario all'infinito" ([217], 30

p. 93 della nuova edizione), si sarebbe trovato in serie difficoltà se avesse cercato di collegare un tale" oggetto" alle nozioni comune­ mente accettate; e Poncelet, che agli inizi del secolo XIX dà un consi­ derevole sviluppo a tali idee ponendo i fondamenti della geometria proiettiva (v. p. 131) si accontenta ancora d'invocare a sua giustifi­ cazione un "principio di continuità" del tutto metafisico. Ci accorgiamo cosi che in una tale situazione (e proprio nel mo­ mento in cui, paradossalmente, si proclama a gran voce la"verità assoluta" della matematica) la nozione di dimostrazione diviene sem­ pre piu vaga durante il XVIII secolo, giacché non vi è la possibilità di stabilire, come avevano fatto i greci, le nozioni sulle quali si ra­ giona e le loro proprietà fondamentali. Il ritorno a un certo rigore, che si manifesta agli albori del XIX secolo, migliora un po' questo stato di cose pur senza riuscire ad arrestare il flusso delle nuove no­ zioni: appaiono cosi in algebra gli immaginari di Galois ([94], pp. 15 23), i numeri ideali di Kummer [138], ai quali seguono i vettori ed i quaternioni, gli spazi n-dimensionali, i multivettori e i tensori (v. pp. 79 84), per non parlare dell'algebra booleana. Senza dubbio uno dei grandi progressi (che permettono per l'appunto un ritorno al rigore, senza rinunciare alle conquiste delle epoche precedenti) è la possibilità di dare dei"modelli" di queste nuove nozioni in termini piu classici: i numeri ideali o gli immaginari di Galois si interpretano con la teoria delle congruenze (v. pp. 102-104), la geometria n-dimensio­ nale non appare (se lo si vuole) che un mero linguaggio per esprimere risultati di algebra" a n variabili"; e per quanto riguarda i numeri immaginari classici - la cui rappresentazione geometrica con i punti di un piano (v. pp. 164-167) segna l'inizio di questa fioritura dell'algebra - si ha ben presto la possibilità di scegliere tra tale " modello" geometrico ed una interpretazione in termini di congruen­ ze (v. p. 103). I matematici cominciano infine a rendersi conto chiara­ mente che su tale possibilità si svolge la lotta che investe la naturale tendenza verso cui li sospingono i loro lavori, e che in matematica deve essere considerato legittimo il ragionare su oggetti che non hanno alcuna"interpretazione" sensibile: "Non è n ell 'essenza della matematica occuparsi dei concetti di numero e di quantità," dice Boole nel 1854 ([24], t. II, p. 13)31. La stessa preoccupazione induce Grassmann, -

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31 A questo riguardo Leibniz si mostra ancora una volta un precursore: " La ma­ tematica ulliversole," afferma, "è per COli dire la logica dell'immaginazione," e deve trattare" di tul/o ciò che, nel campo dell'immaginazione, é slIlcellibile di determinazione esatta" ([144&], p. 348; cfr. [520], pp. 290-291); secondo lui poi, l'elemento principe della matematica cosi

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nella sua Ausdehnungslehre del 1844, a presentare il suo calcolo in una forma dalla quale vengono escluse anzitutto le nozioni di numero o di ente geometrico.32 Non molto pili tardi Riemann, nella sua Lezione inaugurale, ha cura di non parlare di "punti," ma di "determina­ zioni" (Bestimmungsweise), nella sua descrizione delle "varietà a n dimensioni," e sottolinea come, in tali varietà, "le relazioni metriche" (Massverhaltnisse)" si possono studiare soltanto per grandezze astratte e rappresentare solo mediante formule,. sotto certe condizioni, si può tuttavia scomporle iiI relazioni ciascuna delle quali, presa separatamente, è suscetti­ bile di una rappresentazione geometrica, e grazie a ciò è possibile esprimere i risultati del calcolo in forma geometrica" ([187a], p. 276). A partire da questo momento, l'ampliamento del metodo assio­ matico è un fatto acquisito. Sebbene, ancora per qualche tempo, si riterrà utile controllare, quando sia possibile, i risultati "astratti" con l'intuizione geometrica, si è costretti, tuttavia, ad ammettere che gli oggetti "classici" non sono pili i soli oggetti legittimi di studio per i matematici. Il fatto è che - proprio a causa delle molteplici "interpretazioni" o "modelli" possibili - ci si è ac­ corti che la "natura" degli oggetti matematici è, in fondo, se­ condaria; poco importa, ad esempio, che un risultato venga pre­ sentato come teorema di geometria "pura," oppure come un concepita è quello che egli chiama la .. combinatoria" o .. arte delle formule," con cui intende essenzialmente la scienza delle relazioni astratte fra oggetti matematici. Ma, men­ tre fino ad allora le relazioni considerate in matematica erano quasi esclusivamente re­ lazioni di grandezza (eguaglianza, disuguaglianza, proporzione), Leibniz immagina molti altri tipi di relazioni che, a suo avviso, i matematici avrebbero dovuto studiare sistematica­ mente: ad esempio la relazione di inclusione o quella che egli chiama la relazione di .. determinazione" univoca o plurivoca (vale a dire le nozioni di applicazione e di corri­ spondenza) ([520], pp. 307-310). Leibniz è il padre di molte altre idee moderne su questo argomento: osserva come le diverse relazioni di equivalenza della geometria classica abbiano in comune le proprietà di simmetria e di transitività; concepisce anche la nozione di relazione compatibile con una relazione di equivalenza e nota esplicitamente che una relazione qualunque non è necessariamente dotata di questa proprietà ([520], pp. 313315). Naturalmente presagisce anche qui, come dappertutto, l'avvento di un linguaggio formalizzato ed introduce persino un simbolo destinato ad indicare una relazione inde­ terminata ([520), p. 301). 32 Bisogna riconoscere che il suo linguaggio, dal tono estremamente filosofico, non era certamente fatto per sedurre la maggior parte dei matematici, che non si sentivano a loro agio di fronte ad una formula come questa: . La matematica pura è lo scienza dell'es­ sere particolare, essendo essa nata flel pensiero" (Die Wissenschaft des besonderen Seins als eines durch das Denken ge/llordenen). Dal contesto appare tuttavia come Grassmann intendesse chiaramente con questo la matematica assiomatica nel senso moderno (pur essendo sin­ golarmente d'accordo con Leibniz nell'indicare come basi di questa" scienza formale" - come egli dice - le definizioni e non gli assiomi); ad ogni modo, come già Boole, anch'egli insiste sul fatto che" il nome di scienza delle grandezze non si addice al complesso della matematica" ([102], t. Il> pp. 22-23). .

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teorema d'algebra attraverso l'interpretazione della geometria ana­ litica. In altre parole, l'essenza della matematica, - questa nozione sfuggente che fino allora non si era saputa esprimere che in termini vaghi, quali "regola generale" o " metafisica" - appare come lo studio delle relazioni fra oggetti conosciuti e descritti (di proposito) solo me­ diante alcune delle loro proprietà, precisamente quelle poste come as­ siomi alla base della teoria. È quanto, già nel 1847, Boole aveva chiaramente previsto, quando scriveva che la matematica si occupa "delle operazioni in se stesse, indipendentemente dalle diverse materie a cui esse possono venire applicate" ([24], t. I, p. 3). Hankel, nel 1867, inaugu­ rando l'assiomatizzazione dell'algebra, difende una matematica " pu­ ramente intellettuale, una pura teoria delle forme, che ha per oggetto, non già la combinazione delle grandezze o delle loro immagini, cioè i numeri, ma le cose del pensiero ( "Gedankendinge" ) a cui possono corrispondere oggetti o relazioni effettive, benché una tale corrispondenza non sia necessaria" ([109], p. 10). Nel 1883, Cantor fa eco a queste rivendicazioni di una "mate­ matica libera" ed asserisce che " la matematica è del tutto libera nel suo sviluppo, ed i suoi concetti sono legati fra di loro soltanto dalla necessità di non essere in contraddizione e di essere coordinati ai concetti precedentemente introdotti mediante precise definizioni" ([35], p. 182). Infine, con la revi­ sione della geometria euclidea, si ottiene lo scopo di diffondere e di popolarizzare queste idee. Lo stesso Pasch, sebbene ancora legato ad una certa " realtà" degli enti geometrici, riconosce che la geometria è un fatto indipendente dal significato di tali enti, e consiste soltanto nello studio delle loro relazioni ([176], p. 90); concezione che viene portata da Hilbert fino al suo limite logico sottolineando che gli stessi nomi delle nozioni di base di una teoria matematica si possono sce­ gliere a proprio piacimento,33 e che Poincaré esprime dicendo che gli assiomi sono "definizioni camuffate," capovolgendo cosi completa­ mente il punto di vista scolastico. Si sarebbe tentati dunque di dire che la nozione moderna di "struttura" viene acquisita in sostanza verso il 1900; in effetti oc­ correrà ancora un trentennio di tirocinio prima che essa sia del tutto chiarita. Certamente non è difficile il ravvisare strutture dello stesso tipo quando esse siano di natura piuttosto semplice; per la struttura 33 Secondo un celebre aneddoto, Hilbert esprimeva volentieri quest'idea dicendo che si potevano sostituire ai sostantivi punto, rella e piano, quelli di la�ola, sedia e boccale di birra, senza cambiare nulla della geometria. È curioso riscontrare già in d'Alembert un'anticipazione di questa battuta: "Si PIIÒ dare a/Je parole il senso cbe si �uole," scrive nel­ l' Enryc/opédie ([56a], voce DEFINIZIONE) "; [si potrebbe] a rigore fare de/Ja geometria cor­ reI/a (ma ridicola) chiamando triangolo quel/o che di solito si chiama cerchio."

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gruppo, ad esempio, questo risultato è raggiunto fin dalla metà del XIX secolo. Ma, al medesimo tempo, vediamo Hankel tenta­ re - senza riuscirvi affatto - di chiarire le idee generali di corpo e di estensione, che riesce ad esprimere soltanto sotto forma di un semimetafisico " principio di permanenza" [109], e che saranno for­ mulate in modo definitivo soltanto da Steinitz [213], 40 anni piu tardi. È stato soprattutto ben difficile, in questa materia, liberarsi dal­ l'impressione che gli oggetti matematici ci siano" dati" con la loro struttura: soltanto una lunga consuetudine con l'analisi funzionale ha fatto si che i matematici moderni si familiarizzassero con l'idea dell'esistenza, ad esempio, di piu topologie"naturali" sui numeri ra­ zionali e di piu misure sulla retta numerica. Con questa separazione si realizza in fine il passaggio alla definizione generale di struttura. di

b. Modelli e iso11lorfts11Ii. - Il lettore avrà osservato certamente come appaia a piu riprese la nozione di" modello" o di" interpreta­ zione" di una teoria matematica mediante un'altra teoria. Certo que­ sta non è un'idea nuova, e la si può senza dubbio riguardare come una manifestazione, continuamente rinascente, di un profondo senti­ mento dell'unità delle diverse "scienze matematiche." Se si deve ritenere autentica la tradizionale massima dei primi pitagorici:"tutte le cose sono numeri," essa può essere considerata come la traccia di un primo tentativo di ricondurre all'aritmetica la geometria e l'al­ gebra dell'epoca. Sebbene la scoperta degli irrazionali sembrasse chiu­ dere per sempre questa via, la reazione che essa suscitò fra i mate­ matici greci fu un secondo tentativo di sintesi, che questa volta scelse come base la geometria, associandovi, fra l'altro, i metodi risolutivi delle equazioni algebriche ereditati dai babilonesi.M Questa conce­ zione doveva rimanere in vita - come è noto - fino alla riforma fondamentale di R. Bombelli e di Descartes, riportando tutte le mi­ sure di grandezza ad una misura di lunghezza (vale a dire, ad un nu­ mero reale; v. p. 153). Ma con la creazione, per merito di Descartes e di Fermat, della geometria analitica, questa tendenza viene di nuovo capovolta e si raggiunge una ben piu stretta fusione fra la geometria e l'algebra, questa volta però a profitto dell'algebra. Descartes, del resto, va ancora piu lontano e concepisce l'unità essenziale di" tutte quelle .. L'aritmetica, tuttavia, resta esclusa da questa sintesi; è noto che Euclide, do po aver sviluppato la teoria generale delle proporzioni fra grandezze qualsiasi, s vilup pa ind i pen­ dentemente la teoria dei numeri razionali, invece di considerarli come casi particolari dei rapporti di grandezze (v. pp. 149-151).

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sçienze, çhe ç011lllne11lente si çhia11lano j'l,fatenlatjçhe ... Sebbene i loro oggetti sieno differenti," egli dice, eue noti çessano di aççordar.ri tutte, pojçhl non çon.riderano allra çosa se non i diversi rapporti o proporzioni çhe vi si et

trovano" ([64], t. VI, pp. 19-20; v. anche [64e-], p. 20 [N.d.T.]).36 Questo punto di vista, tuttavia, tendeva solo a fare dell'algebra la scienza ma­ tematica fondamentale; contro tale conclusione protesta energica­ mente Leibniz, che pure aveva concepito - come abbiamo visto una" matematica universale," ma su un piano ben piu vasto e già molto vicino alle idee moderne. Precisando" l'accordo" di cui par­ lava Descartes, egli intravede effettivamente, per la prima volta, la nozione generale d'isomorfismo (che chiama" similitudine") e la possibilità di "identificare" delle relazioni o operazioni isomorfe; egli porta come esempio l'addizione e la moltiplicazione ([52a], pp. 301-303). Ma queste audaci visioni restarono senza eco fra i suoi con­ temporanei, e bisognerà attendere lo sviluppo raggiunto dall'algebra verso la metà del XIX secolo (v. pp. 69-71) per vedere profilarsi la realizzazione dei sogni leibniziani. Già abbiamo sottolineato che è proprio in questo momento che si moltiplicano i "modelli" e che ci si abitua a passare da una teoria all'altra, mutando semplicemente il linguaggio; l'esempio piu significativo è, probabilmente, la dualità in geometria proiettiva (v. p. 132), dove l'uso, a quell'epoca frequente, di stampare faccia a faccia su due colonne i teoremi " duali" l'uno dell'altro, rappresenta certamente la presa di contatto con la nozione d'isomorfismo. Dal punto di vista tecnico, è certo che Gauss conosce­ va la nozione d'isomorfismo per i gruppi abeliani e che Galois la co­ nosceva per i gruppi di permutazioni (v. pp. 69-71); essa diventa poi di dominio comune per gruppi qualsiasi verso la metà del secolo XIX.36 I n seguito, si sarà naturalmente portati ad associare ad ogni nuova teoria assiomatica una nozione d'isomornsmo; ma soltanto con il concetto moderno di struttura si è finalmente riconosciuto che ogni struttura porta in sé una nozione d'isomorfismo, e che non è neces­ sario darne una definizione per ogni specie particolare. .. È abbastanza curioso a questo proposito vedere Descartes avvicinare all'arit­ metica ed alle .. çombina"ioni di f/II1Ier I i" le .. arti... in ç/IÌ rlgntJ maggiormenll l'ordinI, çom, sono quel/I tltgli artigiani çbe ftlll1UJ la Illa o i tappeti, o quell, tltl/, tIonnt çbe riçamano o ftlll1UJ i merlelti " ([640], t. X, p. 403), come per una anticipazione degli studi moderni sulla simmetria ed i suoi rapporti con la nozione di gruppo (v. [245]). .. Lo stesso termine .. isomorfismo" viene introdotto nella teoria dei gruppi piu o meno nello stesso periodo; all'inizio tuttavia, esso serve a designare anche gli omomor­ fismi surgettivi, qualificati come .. isomomsmi meriedrici" mentre gli isomomsmi pro­ priamente detti si chiamano .. isomomsmi oloedrici "; questa terminologia verrà usata fino ai lavori di E. Noether.

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c. Aritmetizzazione della matematica classica. L'uso sempre piu diffuso della nozione di "modello" doveva portare nel XIX secolo all'unificazione della matematica sognata dai pitagorici. All'inizio del secolo, il numero intero e la grandezza continua sembravano altrettan­ to inconciliabili quanto lo erano sembrati nell'antichità; i numeri reali rimanevano legati alla nozione di grandezza geometrica (almeno a quella di lunghezza), ed è proprio a quest'ultima che si era fatto ri­ corso per i "modelli" dei numeri negativi e dei numeri immaginari. Anche il numero razionale era tradizionalmente collegato con l'idea della "divisione" di una grandezza in parti eguali; solo i numeri interi restavano a parte - come "prodotti esdu.rivi del nostro spirito" come aveva detto Gauss nel 1832, contrapponendoli alla nozione di spazio ([95a], t. VIII, p. 201). I primi sforzi per avvicinare l'arit­ metica all'analisi poggiarono dapprima sui numeri razionali (positivi e negativi) e sono dovuti a Martin Ohm (1822); essi furono ripresi verso il 1860 da diversi autori e, in particolare, da Grassmann, Han­ kel e Weierstrass (nei suoi corsi non pubblicati); sembra sia dovuta a quest'ultimo l'idea di ottenere un "modello" dei numeri razionali positivi o dei numeri interi negativi considerando classi di coppie di interi naturali. Ma il passo piu importante restava ancora da compiere: riuscire a trovare un " modello" dei numeri irrazionali nella teoria dei numeri razionali; verso il 1870 questo era divenuto un problema urgente a causa della necessità, dopo la scoperta dei fenomeni "pa­ tologici," in analisi, di eliminare qualsiasi traccia di intuizione geo­ metrica, e della vaga nozione di "grandezza" nella definizione dei numeri reali. È noto che tale problema fu risolto quasi simultanea­ mente, in quegli anni, da Cantor, Dedekind, Méray e Weierstrass, seguendo metodi del tutto diversi (v. p. 158). -

A partire da questo momento, gli interi diventano il fondamento di tutta la matematica classica. Inoltre i "modelli" fondati sull'arit­ metica acquistarono ancor piu importanza grazie all'estensione del metodo assiomatico ed alla concezione degli oggetti matematici come libere creazioni dello spirito. Infatti sussisteva una restrizione a questa libertà rivendicata da Cantor: la questione dell' "esistenza" che già aveva preoccupato i greci, e che si poneva qui in modo an­ cor piu pressante, dopo che qualsiasi richiamo ad una rappresenta­ zione intuitiva era stato abbandonato. Vedremo piu avanti (v. p. 5153) di quale maelstrom filosofico-matematico doveva essere centro la nozione di esistenza nei primi anni del XX secolo. Ma nel XIX

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secolo non si è ancor giunti a tanto, e dimostrare l'esistenza di un oggetto matematico con date proprietà, significa semplicemente, come per Euclide, "costruire" un oggetto avente le proprietà indicate. È appunto a questo che servivano i "modelli aritmetici": una volta "interpretati" i numeri reali in termini d'interi, l'interpre­ tazione valeva anche per i numeri complessi e per la geometria eu­ clidea, grazie alla geometria analitica; e cosi dicasi pure per tutti i nuovi enti algebrici introdotti dall'inizio del secolo; infine - sco­ perta che aveva suscitato gran clamore - Beltrami e Klein avevano persino ottenuto "modelli" euclidei delle geometrie non euclidee di Lobacevskij e di Riemann (v. p. 134) e di conseguenza "aritme­ tizzato " (e pertanto completamente giustificato) quelle teorie, che in principio avevano suscitato tanta diffidenza. d. L'assiomatizzazione dell'aritmetica. Era naturale che nel pro­ cesso di questa evoluzione l'attenzione si volgesse ai fondamenti dell'aritmetica, e questo è proprio ciò che avvenne verso il 1880. Prima del secolo XIX, pare non vi sia stato alcun tentativo di definire l'addizione e la moltiplicazione degli interi naturali se non richiamandosi direttamente all'intuizione; Leibniz è il solo che, fedele ai suoi principi, fa espressamente notare che delle "verità evidenti " come 2 + 2 4 sono tuttavia anch'esse suscettibili di dimostrazione se si riflette sulle definizioni dei numeri che vi figurano ([144b]), t. IV, p. 403; v. [52a], p. 203); egli non riteneva affatto come scontata la commutatività dell'addizione e della moltiplicazione.3? Ma non spin­ ge oltre le sue riflessioni a questo proposito,e,verso la metà del XIX secolo, nessun progresso si era ancora compiuto in tal senso: nemme­ no Weierstrass, i cui corsi contribuirono non poco a diffondere il punto di vista "aritmetizzante," pare aver sentito il bisogno di una chiarificazione logica della teoria degli interi. Sembra che i primi passi in questa direzione siano dovuti a Grassmann,il quale,nel 1861 ([102], t. 112, p. 295) dà una definizione della addizione e della moltiplicazione degli interi, e dimostra le loro proprietà fondamentali (commuta­ tività, distributività, associatività) utilizzando la sola operazione x + x + 1 ed il principio di ricorrenza. Quest'ultimo era stato chia­ ramente concepito e adoperato per la prima volta nel XVI secolo -

=

17 Come esempio di operazioni non commutative, indica la sottrazione, la divisione e l'esponcnziazione ([I44b), t. VII, p. 31); ad un certo momento egli aveva persino ten­ tato di introdurre tali operazioni nel suo calcolo logico ([52oJ. p. 353).

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dall'italiano F. Maurolico [157]88 - sebbene se ne trovino nell'anti­ chità applicazioni pili o meno consapevoli - e, a partire dalla prima metà del secolo XVII, era stato correntemente impiegato dai mate­ matici. Ma è solo nel 1888 che Dedekind ([60], t. m, pp. 359-361) enuncia un sistema completo di assiomi per l'aritmetica (sistema ri­ prodotto tre anni pili tardi da Peano e, generalmente, noto sotto il suo nome [177ç]), il quale in particolare comprendeva una formula­ zione precisa del principio di ricorrenza (che invece Grassmann ado­ pera ancora senza enunciarlo esplicitamente). Con questa assiomatizzazione si potevano considerare rag­ giunti i fondamenti definitivi della matematica. In realtà, nel momento stesso in cui venivano chiaramente formulati gli assiomi aritmetici, l'aritmetica per molti matematici (a cominciare dagli stessi Peano e Dedekind) era già decaduta dal ruolo di scienza primordiale, in favore dell'ultima arrivata fra le teorie matematiche: la teoria degli insiemi; e le controversie che dovevano sorgere attorno alla nozione d'intero non si possono separare dalla grande" crisi dei fondamenti" degli anni 1900-1930. LA teoria degli insiemi

Si può dire che in tutti i tempi matematici e filosofi abbiano fatto ricorso a ragionamenti di teoria degli insiemi in modo pili o meno cosciente; ma nella storia delle loro concezioni in proposito bisogna tenere ben distinte tutte le questioni connesse con l'idea dei numeri cardinali (ed in particolare con la nozione d'infinito) da quelle che si valgono unicamente delle nozioni d'appartenenza e d'inclusione. Queste ultime sono fra le pili intuitive e non pare abbiano mai solle­ vato controversie; su di esse è molto facile fondare una teoria del sillogismo (come dovevano dimostrare Leibniz ed Eulero) o assiomi come" il tutto è pili grande di una sua parte," senza parlare di ciò che, in geometria, concerne le intersezioni delle curve e delle super­ ficie. Fino alla fine del secolo XIX non si ha pili alcuna difficoltà a parlare dell'insieme (o "classe" per alcuni autori) degli oggetti aventi l'una o l'altra proprietà3D; e la celebre" definizione" data da Cantor (Per insieme si intende un raggruppamento in un tutto di oggetti Il

Vedi anche [34]. Abbiamo visto dianzi che Boole non esita neppure ad introdurre nel suo calcolo logico l'" Universo" 1, insieme di tutti gli oggetti; pare che a quell'epoca nessuno cri81

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ben distinti della nostra intuizione o del nostro pensiero ([35], p. 282)) non solleverà quasi nessuna obiezione al momento della sua pub­ blicazione.40 La cosa assume un aspetto ben diverso, a partire dal momento in cui alla nozione d'insieme si uniscono quelle di numero e di grandezza. Il problema della divisibilità indefinita dell'estensione (apparso senza dubbio già ai primi pitagorici) do­ veva, come è noto, sollevare notevoli difficoltà filosofiche: dagli eleati a Bolzano e Cantor, matematici e filosofi si scontreranno continuamente con il paradosso della grandezza finita composta da un numero infinito di punti senza dimensione. Non in­ teressa a noi ricordare, neppure sommariamente, le polemiche in­ terminabili ed appassionate suscitate da questo problema, che costitui­ va un terreno particolarmente favorevole alle divagazioni metafisiche o teologiche; accenniamo solamente al punto di vista su cui si soffer­ ma, fin dall'antichità, la maggior parte dei matematici. Esso consiste essenzialmente nel rifiutare la discussione, non potendo concluderla in modo irrefutabile - atteggiamento che ritroveremo nei formalisti moderni - e, come questi ultimi cercano di eliminare ogni intervento di insiemi "paradossali" (v. a questo proposito pp. 46-48), cosi i ma­ tematici classici evitano accuratamente d'introdurre nei loro ragiona­ menti l'" infinito attuale" (cioè insiemi costituiti da un numero in­ finito di oggetti, intesi come esistenti simultaneamente per lo meno nel pensiero) e si accontentano dell'" infinito potenziale," cioè della possibilità di accrescere qualsiasi grandezza data (o di diminuirla se si tratta di una grandezza "continua").41 Questo punto di vista, pur comportando una certa dose di ipocrisia, C2 permetteva tuttavia di ticasse tale concezione, benché essa fosse stata respinta da Aristotele con una dimostra­ zione, abbastanza oscura, volta a provarne l'assurdità ([4], Met. B, 3, 998b) . •• Frege sembra uno dei rari matematici contemporanei che, non senza ragione, si sono ribellati all'ondata di " definizioni" simili ([B9ç J, t. I. p. 2). U Un tipico esempio di questa concezione è l'enunciato di Euclide: Per ogni quan­ tità data tli numeri primi, M lIist. 1liia piU graruk," che noi oggi esprimeremmo dicendo che l'insieme dei numeri primi è infinito. U Secondo i canoni classici si ha evidentemente il diritto di affermare che un punto appartiene ad una retta, ma dedurre da questo che una retta è " composta di punti" si­ gnificherebbe violare il tabu dell'infinito attuale; e Aristotele consacra lunghe argomenta­ zioni a giustificare questa proibizione. È forse per sottrarsi ad obiezioni di questo genere che, nel XIX secolo, molti matematici evitano di parlare di insiemi e ragionano sistema­ ticamente " in comprensione"; Galois per esempio non parla di corpo di numeri, bens! solo di proprietà comuni a tutti gli elementi di un tale corpo. Persino Pasch e Hilbert, nelle loro presentazioni assiomatiche della geometria euclidea, si astengono dal dire che la retta ed il piano sono insiemi di punti; Peano è il solo a servirsi liberamente del linguaggio della teoria degli insiemi in geometria elementare. "

39

sviluppare la maggior parte della matematica classica (compresa la teoria delle proposizioni e piu tardi il calcolo infinitesimale)43 ; esso sembrava anche costituire un eccellente paravento, soprattutto dopo le polemiche suscitate dagli infinitamente piccoli, ed era divenuto un dogma quasi universalmente ammesso fino al tardo XIX secolo. Un primo germe della nozione generale di equipotenza appare in una nota di Galileo ([93b], t. VIII, pp. 78-80); egli osserva che l'applicazione n + n2 stabilisce una corrispondenza biunivoca fra gli interi naturali ed i loro quadrati e di conseguenza l'assioma "il tutto è maggiore di una sua parte" non si sarebbe potuto applicare agli insiemi infiniti. Ma, lungi dall'inaugurare uno studio razionale degli insiemi infiniti, questa constatazione pare non abbia avuto altro ef­ fetto che rinforzare la diffidenza di fronte all'infinito attuale; questa è già la conclusione cui pervenne lo stesso Galileo e Cauchy, ne) 1833, non lo cita che per approvarne l'atteggiamento. Le necessità dell'analisi - e particolarmente lo studio appro­ fondito delle funzioni di variabili reali, che si coltiva durante tutto il XIX secolo - sono all'origine di quella che doveva divenire la teoria moderna degli insiemi. Quando Bolzano, nel 1817, dà la dimostra­ zione dell'esistenza dell'estremo inferiore di un insieme limitato in­ feriormente in R [22c] egli, come la maggior parte dei suoi contem­ poranei, parla ancora non già di un insieme qualsiasi di numeri reali, ma di una proprietà arbitraria di questi ultimi. Ma quando, 30 anni piu tardi, egli redige i suoi Paradoxien des Unendlichen [22b] (pubblicati nel 1851, tre anni dopo la sua morte), non esita a rivendi­ care il diritto all'esistenza dell' "infinito attuale" ed a parlare di in­ siemi arbitrari. Egli definisce, nel suo lavoro, la nozione generale di .3 Bisogna senza dubbio vedere la ragione di questo fatto nella circostanza che gli insiemi considerati dalla matematica classica appartengono ad un piccolo numero di tipi semplici e in gran parte possono venir completamente descritti mediante un nu­ mero finito di " parametri" numerici, cosicché la loro considerazione si riduce in de­ finitiva a quella di un insieme finito di numeri (come accade per esempio delle curve e delle superficie algebriche che per lungo tempo furono pressoché le sole a costituire le "figure" della geometria classica). Prima che i progressi dell'analisi imponessero nel XIX secolo la considerazione di parti arbitrarie della retta o di R", solo raramente si trovano insiemi che si discostano dal tipo precedente; Leibniz, ad esempio, sempre originale, immagina come " luogo geometrico " il disco chiuso senza il suo centro o (con un curioso presentimento della teoria degli ideali), osserva che in aritmetica un intero è il "genere" dell'insieme dei suoi multipli, e nota che l'insieme dei multipli di 6 è l'in­ tersezione dell'insieme dei multipli di 2 e dell'insieme dei multipli di 3 ([l44b], t. VII, p. 292). A partire dai primi anni del XIX secolo, ci si familiarizza in algebra e nella teoria dei numeri, con gli insiemi di quest'ultimo tipo, come le classi di forme quadratiche, intro­ dotte da Gauss, o i corpi e gli ideali, definiti da Dedekind prima della rivoluzione cantoriana.

40

equipotenza di due insiemi, dimostra che due intervalli compatti in

R sono equipotenti; ed osserva infine che la differenza caratteristica fra insiemi finiti ed insiemi infiniti consiste nel fatto che un insieme infinito E è equipotente ad un sottoinsieme distinto da E, ma non for­ nisce alcuna convincente dimostrazione di questo asserto. Il tono. generale di quest'opera è del resto molto piò filosofico che matematico e, invece di separare in modo abbastanza netto la nozione di potenza di un insieme da quella di grandezza o di ordine d'infinito, Bolzano si smarrisce nei suoi tentativi di formare degli insiemi infiniti di po­ tenze sempre piò grandi e si lascia indurre, in questa circostanza, a frammischiare ai suoi ragionamenti considerazioni del tutto prive di senso sulle serie divergenti.

È

al genio di G. Cantar che dobbiamo la creazione della teoria

degli insiemi cosi come la si intende oggi. Anch'egli parte dall'analisi, ed i suoi lavori sulle serie trigonometriche, inspirati a quelli di Rie­ mann, lo conducono ovviamente, nel

1872,

ad un primo tentativo

di classificazione degli insiemi" eccezionali," che in questa teoria44 si affacciano attraverso la nozione di" insiemi derivati" successivi, da lui introdotta appunto in questa occasione.

È

senza dubbio, in

relazione alle sue ricerche, ed anche al suo metodo per definire i numeri reali, che Cantor comincia ad interessarsi dei problemi di equipotenza; infatti, nel

1873

egli nota che l'insieme dei numeri ra­

zionali (o l'insieme dei numeri algebrici) è numerabile; e nella sua corrispondenza con Dedekind, che ha inizio in quegli anni

[36],

lo

si vede alle prese con il quesito dell'equipotenza fra l'insieme degli interi e l'insieme dei numeri reali che riesce a risolvere con una rispostà negativa qualche settimana piò tardi. Poi, a partire dal

1874,

egli si

impegna nel problema della dimensione, e per tre anni si sforza in­ vano di stabilire l'impossibilità di una corrispondenza biunivoca fra R e Rn

(n

>

1),

prima di arrivare, con sua gran meraviglia, a

definire tale corrispondenza.45 In possesso di questi risultati, tanto nuovi quanto sorprendenti, egli si dedica per intero alla teoria degli insiemi. In una serie di sei memorie pubblicate nei

Anna/m

fra il

1878

ed il

1884,

Mathematische

egli affronta, uno dopo l'altro, i pro­

blemi dell'equipotenza, la teoria degli insiemi totalmente ordinati, le proprietà topologiche di R e di Rn ed il problema della misura; ed è U

Si tratta degli insiemi E

CR

+a)

tali che, se una serie trigonometrica

:Ecne"'"

conver­

-co

ge verso O, salvo che per i punti di E, si ha necessariamente Cn O per ogni n ([35], p. 99). Ci Lo "edo ma non çj credo," egli scrive a Dedekind ([36], p. 34, in francese nel testo). =

..

41

sorprendente il constatare l'eleganza con cui si districano a poco a poco fra le sue mani quelle nozioni che parevano avviluppate inestricabilmente nella concezione classica di "continuo." Dopo il 1880, si dedica all'idea di iterare " transfinitamente " la formazione degli " insiemi derivati." Ma quest'idea non prenderà corpo che due anni piu tardi, con l'introduzione degli insiemi bene ordinati, una delle piu originali scoperte di Cantor, grazie alla quale egli può affrontare uno studio particolareggiato dei numeri cardinali e formulare il " problema del continuo" [35]. Era impossibile che concezioni cosi ardite, che rivoluzionavano una tradizione bimillenaria e conducevano a risultati tanto inattesi e d'aspetto cosI paradossale, fossero accettate senza resistenza. Infatti, fra tutti i matematici allora influenti in Germania, l'unico a seguire con un po' di simpatia i lavori di Cantor, suo antico allievo, fu Weierstrass; irriducibili oppositori di Cantor furono invece Schwarz e, soprattutto, Kronecker. 46 Pare che, sia la costante tensione provocata dall' opposizione alle sue idee, sia il suo sforzo infruttuoso per dimostrare l'ipotesi del continuo, provocassero in Cantor i primi sintomi di una malattia nervosa, destinata a ripercuotersi sulla sua produttività matematica. 47 Egli non riprese piu un vero interesse per la teoria degli insiemi fino al 1887, e le sue ultime pubblicazioni sono del 1895-97 ; in esse viene sviluppata soprattutto la teoria degli insiemi totalmente ordinati ed il calcolo degli ordinali. Nel 1890 Cantor aveva anche dimostrato la disuguaglianza m < 2'"; tuttavia, non solo restava (e resta ancor oggi) insoluto il problema del continuo, ma rimaneva nella teoria dei cardinali una lacuna piu seria, poiché egli non era riuscito a stabilire l'esistenza di una relazione di buon ordinamento fra cardinali qualsiasi. Questa lacuna sarebbe stata colmata in parte dal teorema di F. Bernstein (1897), il quale dimostra che le relazioni Cl :::;: b e b:::;: Cl conducono a Cl = b'8 e soprattutto dal teorema di Zermelo [251a], che comprova l'esistenza di un buon ordinamento su qualsiasi insieme: teorema già presagito da Cantor nel 1883 ([35], p. 169). te I contemporanei di Kronecker fecero frequenti allusioni alla sua posizione dottrinale sui fondamenti della matematica. È presumibile che nei contatti personali egli si esprimesse in termini piu espliciti di quanto non facesse nelle pubblicazioni (dove, per quanto riguarda il ruolo degli interi naturali, si limita a riprendere osservazioni sull"'aritmetizzazione," abbastanza banali verso il 1880) (cfr. [241b], in particolare pp. 14-15). f7 Su questo periodo della vita di Cantor vedi [202b]. U Questo teorema era già stato ottenuto da Dedekind nel 1887, ma la sua dimostrazione non venne pubblicata ([60], t. III, p. 447).

42

Dedekind, dunque, fin dall'inizio, aveva continuato a seguire con vivo interesse le ricerche di Cantor; ma, mentre quest'ultimo con­ centrava la sua attenzione sugli insiemi infiniti e la loro classificazione, Dedekind seguiva proprie riflessioni sulla nozione di numero (che già l'avevano condotto alla definizione di numero irrazionale mediante "sezioni "). Nel suo opuscolo Was sind IIfId lIIas sollen me Zahlen pub­ blicato nel 1888, ma la cui parte essenziale è del 1872-1878 ([60], t. III, p. 335) egli mostra come la stessa nozione di intero naturale (sulla quale, come si è visto, aveva finito per basarsi tutta la matema­ tica classica) poteva essere derivata dalle nozioni fondamentali della teoria degli insiemi. Sviluppando (certamente per primo in modo esplicito) le proprietà elementari di qualsiasi applicazione d'un in­ sieme in un altro (trascurate fino allora da Cantor, il quale non si in­ teressa che delle corrispondenze biunivoche), egli introduce, per ogni applicazione f di un insieme E in se stesso, la nozione di catena di un elemento a e E relativamente a f come l'intersezione degli insiemi K C E tali che a e K e f (K) C K." Egli assume poi come definizione di un insieme infinito E il fatto che esista una applicazione biuni­ voca 'il di E in E tale che CP(E) * E50; se esiste inoltre una tale appli­ cazione 'il ed esiste un elemento a E CP(E) per il quale E sia la catena di a, Dedekind dice che E è "semplicemente infinito," osserva come gli "assiomi di Peano" siano allora soddisfatti, e (prima di Peano) mostra come, partendo da essi, sia possibile ottenere tutti i teoremi elementari d'aritmetica. Manca nel suo lavoro soltanto l'assioma dell'infinito, che Dedekind (sulle orme di Bolzano) crede di poter dimostrare considerando "il mondo dei pensieri" umani (CC Gedankenwelt") come un insieme.61 (9 Su di una nozione assai simile si basa la seconda dimostrazione data da Zermelo del suo teorema [251b]. 60 Abbiamo visto come già Bolzano avesse notato questa caratterizzazione degli insiemi infiniti, ma il suo lavoro (assai poco noto, pare, nell'ambiente matematico) era sconosciuto a Dedekind quando questi scriveva War rind lIIIIi lIIar rol/en die Zahlen" (Che cosa sono ed a che cosa servono i numeri). [N.d.T.] 61 Un altro metodo per definire la nozione di insieme naturale e per stabilime le proprietà fondamentali era stato proposto da Frege nel 1884 [89b]. Per cominciare, egli cerca di dare alla nozione di cardinale di un insieme un senso piu preciso di quello attri­ buitole da Cantor; a quel tempo quest'ultimo aveva definito solo le nozioni di insiemi equipotenti e di insiemi aventi potenza tutt'al piu eguale a quella di un'altro; e la defini­ zione di " numero cardinale" che egli doveva dare qualche anno piu tardi ([35], p. 282) è altrettanto oscura ed inutilizzabile quanto la definizione euclidea di retta. Frege, sem­ pre amante della precisione, ha l'idea di assumere come definizione di cardinale di un insieme A, l'insieme di tutti gli insiemi equipotenti ad A ([89b], §68); poi, dopo avere definito q>(a) & + 1 per ogni cardinale (§ 76), passa all'insieme C di tutti i cardinali, "

=

43

D'altra parte Dedek.ind era stato portato dai suoi lavori d'arit­ metica (ed in particolare dalla teoria degli ideali) a considerare la nozione di insieme ordinato sotto un aspetto piu generale di quello di Cantor. Mentre quest'ultimo si dedica esclusivamente agli insiemi totalmente ordinati,52 Dedek.ind affronta il caso generale, e compie in particolare uno studio approfondito degli insiemi reticolati t.

II, pp.

236-271).

([60],

Questi lavori, quando apparvero, non ebbero

alcuna risonanza e, sebbene i risultati, riesumati da altri autori, siano stati ,oggetto di numerose pubblicazioni dal 1935 in poi, la loro importanza storica non consiste tanto nelle indubbiamente esigue possibilità d'applicazione della teoria, quanto nel fatto che essi costi­ tuirono uno dei primi esempi di un'accurata costruzione assiomatica. Viceversa, i primi risultati di Cantor sugli insiemi numerabili o aventi la potenza del continuo erano destinati ad avere subito molteplici ed importanti applicazioni anche nei piu classici problemi dell'analisi53 (per non parlare naturalmente di quelle parti dell'opera cantoriana che diedero l'avvio alla topologia generale e alla teoria della misura; v. in proposito pp. 143 e 236). Inoltre, fin dagli ultimi anni del XIX secolo, appaiono le prime applicazioni del principio d'induzione transfinita, diventata - soprattutto dopo la dimostrazione del teo­ rema di Zermelo - uno strumento indispensabile in tutti i rami della matematica moderna. Nel

1922,

Kuratowski doveva dare una

versione spesso piu maneggevole di tale principio, evitando

([139a], p. 89); ed è 20rn [252], che viene

dj

utilizzare gli insiemi bene ordinati

appunto in

tale forma, piu tardi ritrovata da

soprattutto

usato oggi.54

e definisce la relazione "b è un 'Il-successore di b" intendendo con ciò che b appartient all'intersezione di tutti gli insiemi X C C tali che cp(a) e x e cp(X) e X (§ 79). Infine egli definisce un intero naturale come un 'Il-successore di O (§ 83; s'intende che tutte que· ste definizioni sono espresse da Frege nel suo linguaggio della" logica dei concetti " ) . Purtroppo questa costruzione doveva rivelarsi difettosa: l'insieme C o l'insieme degli insiemi equipotenti ad un insieme A era"paradossale" (v. pili avanti). &. È curioso osservare come Cantor, tra questi ultimi, non avesse mai voluto amo mettere l'esistenza dei gruppi ordinati "non archimedei" perché essi introducevano la nozione d'" infinitesimo attuale" ([35], pp. 156 e 172). Relazioni d'ordine di questo genere si erano naturalmente presentate nelle ricerche di du Bois-Reymond sugli ordini di infinito (v. p. 215) e furono oggetto di studi sistematici da parte di Veronese [232J. &3 Fin dal 1874, Weierstrass aveva segnalato, in una lettera a Du Bois-Reymond, una applicazione alle funzioni di variabili reali del teorema di Cantor sulla possibilità di ordinare i numeri razionali in una successione ([243b], p. 206). U In seguito a ciò, l'interesse per gli ordinali di Cantor si affievoli molto; in gene­ rale del resto, molti dei risultati di Cantor e dei suoi continuatori sull'aritmetica degli ordinali e sui cardinali non numerabili sono rimasti fino ad oggi piuttosto trascurati

44

Verso la fine del XIX secolo le concezioni essenziali di Cantor avevano dunque partita vinta.55 Abbiamo visto che, appunto in que­ sto periodo, si attua la formalizzazione della matematica e l'uso del metodo assiomatico viene ammesso quasi universalmente. Ma, con. temporaneamente, si apre una "crisi dei fondamenti" di rara vio­ lenza, che è destinata a squassare il mondo matematico per piu di 30 anni e che in qualche momento sembra compromettere non sol­ tanto le recenti conquiste, ma anche le parti piu classiche della mate­ matica.

I

paradossi della teoria degli insiemi e la crisi dei fondamenti I primi insiemi "paradossali" apparvero nella teoria dei cardi­

nali e degli ordinali. Nel 1897, Burali-Forti osserva che non si può considerare come esistente un insieme formato da

tutti gli ordinali,

perché questo insieme sarebbe bene ordinato e pertanto isomorfo ad uno dei suoi segmenti distinti da esso, ciò che è un assurdo [31].66 Nel 1899 Cantor (in una lettera a Dedekind) osserva che non si può nemmeno dire che i cardinali formino un insieme, né parlare dell'"insieme di tutti gli insiemi," senza trovarsi di fronte ad una contraddizione: (l'insieme delle parti di quest'ultimo "insieme" n sarebbe equipotente ad una parte di n, ciò che va contro la disu­

guaglianza

m


(x E z»; s'intende che tale di· mostrazione, ammesso di riuscire ad ottenerla, avrebbe come ;:onseguenza immediata la necessità di una sostanziale modificazione del sistema in questione.

47

Uno dei vantaggi di tale sistema è che esso riabilita la nozione di " clas­ se universale" usata dai logici del XIX secolo (che naturalmente non è un insieme); si osservi anche che ii sistema di von Neumann evita (per la teoria degli insiemi) l'introduzione di schemi d'assiomi, so­ stituendoli con assiomi opportuni (cosa che ne rende lo studio logico piu facile). Varianti del sistema di von Neumann sono state studiate da Bernays e GodeI

[100b).

L'eliminazione dei paradossi, che sembra ormai effettuata con i sistemi precedenti, è stata però conseguita a prezzo di restrizioni che non possono non apparire molto arbitrarie. A discolpa del sistema Zermelo-Fraenkel si può dire che esso si limita a formulare interdi­ zioni che non fanno altro che sanzionare la pratica corrente nelle ap­ plicazioni della nozione di insieme alle diverse teorie matematiche. I sistemi di von Neumann e di Godel si discostano maggiormente dalle concezioni abituali; in compenso,

non è da escludere che sia piu

agevole inserire certe teorie matematiche ancora ai loro primi passi nel quadro fornito da tali sistemi piuttosto che nel quadro piu ri­ stretto del sistema di Zermelo-Fraenkel. Non si può certo affermare che qualcuna di queste soluzioni of­ fra l'impressione d'essere definitiva. Se esse soddisfano i formalisti è perché essi rifiutano di prendere in considerazione le reazioni psicologi­ che individuali di ciascun matematico; ritengono che un linguaggio formalizzato abbia assolto ii suo compito quando possa trascrivere i ragionamenti matematici in una forma priva di ambiguità e servire cosi da veicolo al pensiero matematico; tutti son padroni, essi affer­ meranno, di pensare ciò che vogliono sulla "natura" degli enti ma­ tematici o sulla"verità" dei teoremi impiegati, purché i ragionamenti si possano trascrivere nel linguaggio comune.SO In altre parole; dal punto di vista filosofico, l'atteggiamento dei formalisti consiste nel disinteressarsi del problema posto dai "para­ dossi," abbandonando la posizione platonica che mirava ad attribuire alle nozioni matematiche un "contenuto" intellettuale comune a tutti i matematici. Molti matematici indietreggiano di fronte a questa rottura con la tradizione. Russell, per esempio, cerca di evitare i pa­ radossi analizzando in modo piu approfondito la loro struttura. 60 Hilbert, tuttavia, sembra avere sempre creduto in una" verità" matematica obiet­ tiva ([12Ze], pp. 315 e 323). Persino formalisti che, come H. Curry, si trovano in una p'osizione molto vicina a quella che abbiamo testé riassunto, respingono quasi con indi­ gnazione l'idea che la matematica possa venir considerata un semplice gioco, e vogliono assolutamente considerarla una " scienza obiettiva" ([54], p. 57).

48

Rifacendosi ad un'idea enunciata per la prima volta da J. Richard (nell'articolo [186] in cui esponeva il suo"paradosso") e sviluppata in seguito da H. Poincaré [181e], Russell e Whitehead osservano che tutte le definizioni degli insiemi paradossali violano il seguente prin­ cipio, detto "principio del circolo vizioso": "Un elemento la cui definizione implica la totalità degli elementi di un insieme non può appartenere a questo insieme" ([194], t. I, p. 40). enunciato che serve di base ai

Principia,

È

appunto questo

e, proprio per rispettarlo,

viene sviluppata in tale opera la "teoria dei tipi." Come quella di Frege, a cui si ispira, la logica di Russell e di Whitehead possiede delle "variabili proposizionali"; la teoria dei tipi procede alla classifi­ cazione di queste diverse variabili, che a grandi linee è la seguente. Partendo da un " dominio di individui" non precisati e che si pos­ sono qualificare come" oggetti di ordine O," le relazioni ove le va­ riabili

(libere o legate)

sono degli individui, vengono chiamate"og­

getti di primo ordine,"

cosicché,

variabili sono oggetti di ordine
nCx) O è ciclico). Ad ogni divisore e di n -1 egli fa corrispondere gli 1 (n -l )/ e " periodi" 'Yj. ç.+ ç,'+e+ ç,,+2e + ... + ç.+f/-ll. (1 < "V

1, la quale, attraverso le

opere di Fermat, Eulero, Lagrange e Gauss, doveva, nel XIX se• Se Diofanto nei suoi problemi indeterminati si riconduce sempre a problemi ad una sola incognita, mediante una scelta numerica delle altre incognite che renda pos­ sibile la sua equazione finale, sembra proprio che questo metodo sia dovuto soprattutto alla sua notazione che non gli permette di maneggiare piu incognite alla volta; in ogni caso, egli non perde mai di vista, nel corso del suo calcolo, le sostituzioni numeriche eseguite, e le modifica all'occorrenza, se esse non si rivelano opportune, scrivendo una condizione di compatibilità per le variabili sostituite e risolvendo preliminarmente tale problema ausiliario. In altre parole egli maneggia questi valori numerici sostituiti come noi faremmo con dei parametri, sicché in definitiva ciò che fa si riduce a trovare una rappresentazione parametrica razionale di una varietà algebrica assegnata o di una sotto­ varietà di quest'ultima. • Diversi indizi testimoniano, tuttavia, delle conoscenze aritmetiche piu avanzate di Diofanto: egli sa, ad esempio, che l'equazione x, + y' = n non ha soluzioni razionali se n è un intero della forma 4..1: + 3 (Libro V, problema 9, e Libro VI problema 14 ([700], t. I, pp. 332-335 e 425; v. anche [1141], pp. 105-110». • Anche i problemi astronomici sono stati fra quelli che hanno indotto gli indu ad occuparsi di questo genere di equazioni (v. [59] t. II, pp. 100, 117 e 135).

107

colo, far capo alla teoria degli interi algebrici. Come già abbiamo osservato (v. p. 75), lo studio dei sistemi lineari, che pare non presenti pili problemi degni di interesse, viene in questo periodo un po' trascurato: in particolare, non si cerca pili di formularè delle condizioni generali di possibilità d'un sistema qualsiasi, né di descrivere l'insieme delle soluzioni. Tuttavia, verso la metà del XIX secolo, Hermite è indotto ad utilizzare, in vista delle sue ricerche di teoria dei numeri, diversi lemmi sulle equazioni diofantee lineari e, in particolare, una " forma ridotta" di una sostituzione lineare a coefficienti interi ([119], t. I, pp. 164 e 265); infine, dopo che nel 1858 Heger ebbe trovato la condizione di possibilità di un sistema il cui rango sia eguale al numero delle equazioni, H. J. Smith, nel 1861, defini i fattori invarianti di una matrice a termini interi ed ottenne il teorema generale di riduzione di una tale matrice alla "forma canonica" ([210], t. I, pp. 367-409). Ma, nel frattempo, si precisava a poco a poco la nozione di gruppo abeliano in seguito all'importanza assunta da questa nozione - che era stata introdotta da Gauss (v. p. 78) - nell'ulteriore sviluppo della teoria dei numeri. Nello studio particolarmente approfondito quale trovasi esposto nelle Disquisitiones - del gruppo abeliano finito delle classi di forme quadratiche di discriminante dato, Gauss si era ben presto accorto che alcuni di questi gruppi non erano ciclici: " in tal caso," egli dice, " una base [vale a dire un generatore] non può bastare,. bisogna prenderne due o un numero piu grande, le quali, mediante moltiplicazione e composizione,7 possano produrre tutte le classi" ([95a], t. I, pp. 374-375). Non è certo che con queste parole Gauss abbia voluto descrivere la scomposizione del gruppo in prodotto diretto di gruppi ciclici; tuttavia, nello stesso articolo delle DisquisitiollCs, egli dimostra la esistenza di un elemento del gruppo il cui ordine è il m.c.m. degli ordini di tutti gli elementi; in altri termini, egli ottiene la esistenza del pili grande fattore invariante del gruppo ([95a], t. I, p. 373). D'altra parte, gli era nota la nozione di prodotto diretto, poiché egli schizza - in un manoscritto che data dal 1801 ma che non fu mai pubblicato mentre era vivo - una dimostrazione generale della scomposizione di un gruppo abeliano finito in prodotto diretto di p-gruppi 8 ([95a], t. II, p. 266). In ogni caso, nel 1868, Sche7 Gauss nota additiva mente la legge di composizione delle classi; per "moltiplicazione," quindi, egli intende il prodotto di una classe per un intero. 8 Anche Abel dimostra incidentalmente questa proprietà ncll;\ sua memoria sulle equazioni abeliane ([1 l. t. I, pp. 494-497).

108

ring, l'editore delle opere di Gauss, ispirato da questi risultati (e, in particolare, dal manoscritto che egli aveva appena ritrovato) dimo­ stra (sempre per il gruppo delle classi di forme quadratiche) il teo­ rema generale di decomposizione ([199], t. I, pp. 135-148), con un metodo che, ripreso due anni piti tardi in termini astratti da Kro­ necker ([136a], t. I, pp. 273-282), è essenzialmente quello ancor oggi usato. Quanto ai gruppi abeliani senza torsione, già abbiamo detto (v. p. 82) come la teoria delle funzioni ellittiche e degli integrali abeliani, sviluppata da Gauss, Abel e Jacobi, portasse a poco a poco a prendere coscienza della loro struttura; il primo e piti celebre esempio di scomposizione di un gruppo infinito in somma diretta di gruppi manogeni è offerto nel 1846 da Dirichlet nella sua memoria sulle unità di un corpo di numeri algebrici ([71], t. I, pp. 619-644). Solo nel 1879, però, Frobenius e Stickelberger ([91], § 10) riconoscono ed utilizzano esplicitamente il legame fra la teoria dei gruppi abe­ liani di tipo finito ed il teorema di Smith. Piti o meno nello stesso periodo prende forma definitiva anche la teoria della similitudine delle matrici (a coefficienti reali o complessi). La nozione di valore proprio di una sostituzione li­ neare appare esplicitamente nella teoria dei sistemi di equazioni differenziali lineari a coefficienti costanti, applicata da Lagrange ([140], t. I, p. 520) alla teoria dei piccoli movimenti e dallo stesso Lagrange ([140], t. VI, pp. 655-666) e da Laplace ([142], t. III, pp. 325-366) alle disuguaglianze "secolari" dei pianeti. Essa è implicita in molti altri problemi affrontati essi pure verso la metà del XVIII secolo, come la ricerca degli assi di una conica o di una quadri­ ca (effettuata anzitutto da Eulero ([81a], (1), t. IX, p. 384), o lo studio (anch'esso sviluppato da Eulero ([81a], (2), t. III, pp. 200-201)) degli assi principali di inerzia di un corpo solido (scoperti da De Segner nel 1755). Oggi sappiamo che è ancora la stessa teoria quella che (sia pure in una forma meno evidente) interveniva agli inizi della teoria delle equazioni alle derivate parziali, ed in particolare nelle equazigni delle corde vibranti. Ma (senza parlare di quest'ultimo caso), la parentela fra questi diversi problemi non viene riconosciuta prima di Cauchy ([42a], (2), t. V, p. 248 e t. IX, p. 174). Inoltre, poiché tali problemi fanno intervenire delle matrici simmetriche, sono appunto i valori propri di queste ultime ad essere studiati da principio: os­ serviamo qui che, fin dal 1826, Cauchy dimostra l'invarianza per si­ militudine dei valori propri di queste matrici, e prova che essi sono reali per una matrice simmetrica di 30 ordine ([42a],

(2),

t. V, p.

248): 109

risultato che, circa 3 anni piu tardi, egli estende alle matrici simmetriche reali qualsiansi ([42a], (2), t. IX, p. 174).' La nozione generale di pro­ iettività, introdotta da M6bius nel 1827 ([160], t. I, p. 217),' conduce rapidamente al problema della classificazione di queste trasformazioni (anzitutto a 2 o 3 dimensioni), il quale altro non è che il problema della similitudine delle matrici corrispondenti; per molto tempo, però, esso viene trattato solo con i metodi" sintetici" in auge verso la metà del XIX secolo, ed i suoi progressi (del resto assai lenti) pare non abbiano avuto alcuna influenza sulla teoria dei valori propri. Non accade lo stesso per un altro problema di geometria, quello della classificazione dei fasci di coniche o di quadriche, che, dal punto di vista moderno, si riconduce allo studio dei divisori ele­ mentari della matrice U + À V, dove U e V sono due matrici sim­ metriche. Proprio con questo spirito Sylvester, nel 1851, abborda tale problema, esaminando con cura (al fine di trovare delle" forme canoniche" del fascio considerato) .ciò che diventano i minori della matrice U + À V quando si sostituisca a À un valore che annulli il suo determinante ([221], t. I, pp. 219-240). L'aspetto puramente alge­ brico della teoria dei valori propri progredisce simultaneamente; è cosi che molti autori (fra i quali lo stesso Sylvester), dimostrano in­ torno al 1850 che i valori propri di Un sono le potenze n-esime dei valori propri di U, mentre nel 1858 Cayley, nella memoria in cui fonda il calcolo delle matrici ([44], t. II, pp. 475-496), enuncia il " teorema di Harnilton-Cayley" per una matrice quadrata di ordine qualsiasi, lO contentandosi di dimostrarlo con un calcolo diretto per le matrici di ordine 2 e 3. Infine, nel 1868, Weierstrass, rifacendosi al metodo di Sylvester, ottiene delle" forme canoniche" per un " fa­ scio" U + À V, dove, stavolta, U e V sono matrici quadrate non necessariamente simmetriche, soggette soltanto alla condizione che det (U + À V) non sia identicamente nullo; deduce cosI la definizione dei divisori elementari di una matrice quadrata qualunque (a termini complessi) e prova che essi la caratterizzano a meno di una similitut Un tentativo di dimostrazione di questo risultato, per il caso particolare delle di­ suguaglianze " secolari" dei pianeti, era già stato fatto nel 1784 da Laplace ([142), t. XI, pp. 49-92). Per quanto concerne l'equazione di 30 grado che dà gli assi di una qua­ drica reale, Eulero aveva ammesso senza dimostrazione la realtà delle sue radici, e un tentativo di dimostrazione di Lagrange, nel 1773 ([140), t. III, pp. 579-616), era ri­ sultato del tutto insufficiente; questo punto fu rigorosamente dimostrato per la prima volta da Haehette e Poisson nel 1801 [105]. lO Q ualche anno prima Hamilton aveva incidentalmente dimostrato questo teo­ rema per le radici di ordine 3 ([108], pp. 566-567).

110

dine ([243a], t. II, pp. 19-44); questi risultati, del resto, sono in parte ritrovati (ed in modo almeno apparentemente indipendente), due anni piu tardi da Jordanll ([129a], pp. 114-125). E ancora, è Frobenius, nel 1879, a mostrare come sia possibile dedurre semplicemente il teorema di Weierstrass dalla teoria di Smith estesa ai polinomi ([90b], § 13). Abbiamo or ora fatto allusione alla teoria della divisibilità dei polinomi di una variabile; il problema della divisibilità dei polinomi doveva naturalmente porsi, fin dagli inizi dell'algebra, come opera­ zione inversa della moltiplicazione, (quest'ultima già nota a Dio­ fanto, per lo meno per i polinomi di grado piccolo); ma si vede subito che non era possibile affrontare il problema in modo generale, prima che si fosse imposta una notazione coerente per le diverse po­ tenze della variabile. Infatti non si trova alcun esempio del proce­ dimento di divisione euclidea dei polinomi, cosi come è nota a noi, prima della metà del XVI secolo.12 E S. Stévin (il quale utilizza essen­ zialmente la notazione esponenziale) sembra essere il primo ad avere l'idea di dedurre l'estensione dell'" algoritmo di Euclide" alla ri­ cerca del M.C.D. di due polinomi ([214], t. 1, pp. 54-56). A parte ciò, la nozione di divisibilità rimane ristretta agli interi razionali fino alla metà del XVIII secolo. È Eulero che, nel 1770, inizia un nuovo capitolo dell'aritmetica, estendendo audacemente la nozione di di­ visibilità agli interi di una estensione quadratica: cercando di deter­ minare i divisori di un numero della forma X2 + 0'2 (x, y, c interi razionali), egli pone x + y V-C (p + q V c) (r + s v e) (P, q, r, s, interi razionali) e, passando alle norme dei due membri, non esita ad affermare che cosi egli ottiene tutti i divisori di X2 + 0'2 sotto la forma p2 + cq2 ([81a], (1) t. I, p. 422). In altri termini, Eulero ragiona come se l'anello Z[V=-c] fosse principale; piu oltre egli si serve di un ragionamento analogo per applicare il metodo di " abbassamento infinito" all'equazione x3 + y 3 Z3 (egli si riconduce a scrivere che p2 + 3q 2 è un cubo, ponendo p + qv 3 (r + s V 3)3). Ma, già nel 1773, Lagrange dimostra ([140], t. III, pp. 695-795) che i divisori dei numeri della forma X2 + 0'2 non sempre sono di tale =

=

=

11 Jordan non fa menzione della invarianza della forma canonica che ottiene. È interessante notare dci resto che egli non tratta la questione per matrici a elementi com­ plessi, ma per matrici su un corpo finito. È il caso di ricordare d'altra parte che, fin dal 1862, Grassmann aveva dato un mctodo di riduzione di una matrice (ad elementi com­ plessi) alla forma triangolare, ed aveva menzionato esplicitamente il legame che intercor­ re fra questa riduzione e la classificazione delle proiettività. ([102], t. I., pp. 249-254). 12 V. per esempio [26].

111

forma: primo esempio della difficoltà fondamentale che stava per presentarsi con molta piu chiarezza negli studi intrapresi da Gauss e dai suoi continuatori, sulla divisibilità nei corpi di radici dell'unità13; non è possibile, in generale, estendere direttamente a questi corpi le proprietà essenziali della divisibilità degli interi razionali: l'esistenza del m.c.m. e l'unicità della decomposizione in fattori primi. Non è qui il caso di descrivere particolareggiatamente come Kummer per i corpi di radici dell'unità [138],14 poi Dedekind e Kronecker per i corpi di numeri algebrici qualunque, riuscirono a superare questo formidabile ostacolo con la creazione della teoria degli ideali, uno dei piu decisivi progressi dell'algebra moderna. Ma Dedekind, sem­ pre curioso dei fondamenti delle diverse teorie matematiche, non si accontenta di questo successo, e, analizzando il meccanismo delle re­ lazioni di divisibilità, pone le basi della moderna teoria dei gruppi reticolari in una memoria (che non ebbe alcun seguito fra i suoi con­ temporanei, e per 30 anni rimase sepolta nell'oblio) che senza dubbio è, in ordine di tempo, uno dei primi lavori di algebra assiomatica ([60], t. II, pp. 103-147). Dalla metà del XVIII secolo in poi la ricerca di una dimostra­ zione del " teorema fondamentale dell'algebra" è all'ordine del giorno (v. p. 94). Non staremo qui a ricordare il tentativo di d'Alem­ bert, che inaugura la serie delle dimostrazioni basate sul calcolo infinitesimale (v. p. 164). Ma, nel 1749, Eulero affronta il problema in tutt'altro modo ([81a], (1), t. VI, pp. 78-147): per ogni polinomiof a coefficienti reali egli cerca di dimostrare l'esistenza di una decom­ posizione f fIh in due polinomi (non costanti) a coefficienti reali, cosa che gli avrebbe permesso la dimostrazione del " teorema fon­ damentale" per ricorrenza sul grado di f È addirittura sufficiente, =

13 Gauss sembra aver per un momento sperato che l'anello degli interi nel corpo delle radici n-esime dell'unità fosse un anello principale; in un manoscritto pubblicato dopo la sua morte, ([950], t. II, pp. 387-397), egli dimostra l'esistenza di un processo di divisione euclidea nel corpo delle radici cubiche dell'unità, e dà qualche indicazione su un analogo processo nel corpo delle radici quinte; egli utilizza questi risultati per dimo­ strare, con un ragionamento di abbassamento infinito più corretto di quello di Eulero, l'impossibilità dell'equazione x" +- y3 Z3 nel corpo delle radici cubiche dell'unità, e indica la possibilità di estendere il metodo all'equazione x· + y' t', ma si ferma all'equazione x, + f Z' costatando l'impossibilità di respingere: allora a priori il caso in cui x, y, Z, non siano divisibili per 7. 11 Già nel suo primo lavoro sui " numeri ideali," Kummer segnala esplicitamente la possibilità di applicare il suo metodo non solo ai corpi delle radici dell'unità ma anche ai corpi quadratici, e di ritrovare cOSI i risultati di Gauss sulle forme quadrati che binarie ([138], pp. 324-325). =

=

=

112

come egli osserva, fermarsi al primo fattore di grado dispari, e di conseguenza tutte le difficoltà si riducono a considerare il caso in cui il grado n di I è pari. Eulero si limita allora allo studio del caso in cui i fattori cercati siano entrambi di grado n{2, ed indica che, con un calcolo opportuno di eliminazione, si possono esprimere i coefficienti incogniti di I l e h razionalmente in funzione di una radice di una equazione a coefficienti reali i cui termini estremi sono di segno con­ trario, e quindi ha almeno una radice reale. Ma la dimostrazione di Eulero è solo un abbozzo, in cui vengono passati sotto silenzio nu­ merosi punti essenziali. Solo nel 1772, Lagrange riuscirà a superare le difficoltà sollevate da questa dimostrazione ([140], t. III, pp. 479516), mediante una analisi molto lunga e minuziosa, in cui egli dà prova di un notevole virtuosismo nell'uso dei metodi " di Galois," da lui stesso ripristinati (v. pp. 95-96). Tuttavia Lagrange, come del resto Eulero e tutti i suoi con­ temporanei, non esita a ragionare formalmente in un " corpo di radici" di un polinomio (vale a dire, nel suo linguaggio, a considerare delle " radici immaginarie" di questo polinomio). La matematica del suo tempo non aveva affatto giustificato questo modo di ragionare. Anche Gauss, per esempio, deliberatamente ostile fin dall'inizio al formalismo sfrenato del XVIII secolo, si scaglia con tutte le forze, nella sua dissertazione, contro questo abuso ([95a], t. III, p. 3). Ma non sarebbe stato se stesso se non si fosse accorto che si trattava di una presentazione esteriormente difettosa di un ragionamento in­ trinsecamente corretto. CosI qualche anno piu tardi [95a], t. III, p. 33; v. anche [95b]) lo si vede riprendere una variante piu semplice del ragionamento di Eulero, suggerita fin dal 1759 da Foncenex (ma che questi non aveva saputo condurre a buon fine), e dedurne una nuova dimostrazione del " teorema fondamentale," in cui egli evita accura­ tamente qualsiasi uso di radici immaginarie sostituendo ad esso abili aggiunzioni e specializzazioni di indeterminate. La funzione sostenuta dalla topologia nel" teorema fondamentale" si trova cosI ricondotta all'unico teorema secondo il quale un polino­ mio a coefficienti reali non può cambiare segno in un intervallo senza annullarsi (teorema di Bolzano per i polinomi). Questo teo­ rema è pure alla base di tutti i criteri di separazione delle radici reali di un polinomio (a coefficienti reali), che costituiscono uno dei soggetti prediletti dell'algebra durante il XIX secolo.15 Nel corso di tali ri15 Su tali questioni il lettore potrà consultare ad esempio [206] o [2310], pp. 223-235.

113

cerche fu subito evidente che era la struttura ordinata di R, molto piu che non la sua topologia, a sostenervi il ruolo principalel6; il teorema di Bolzano per i polinomi, ad esempio, è ancor vero per il corpo di tutti i numeri algebrici reali. Queste nuove idee trovarono il loro sbocco nella teoria astratta dei corpi ordinati, creata da E. Artin ed O. Schreier [Sb], e [6a e bl); uno dei risultati piu notevoli della quale è senza dubbio la scoperta che l'esistenza di una relazione di ordine su un corpo è vincolata a proprietà puramente algebriche di esso.

11 La tendenza ad attribuire alla struttura d'ordine dei numeri reali un posto pre­ ponderante si nota anche nella definizione di numeri reali con il metodo delle" sezioni " di Dedekind, metodo applicabile in fondo a tutti gli insiemi ordinati.

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Capitolo settimo

Algebra

non

commutativa

Abbiamo visto (v. p. 81) che le prime algebre non commuta­ tive fanno la loro apparizione nel 1843-44, nei lavori di Hamilton

[108] e di Grassmann ([102], t. 12). Hamilton, introducendo i qua­ tcrnioni, ha già una concezione molto chiara delle algebre qualsiasi di rango finito sul corpo dei numeri reali ([108], Prefazione, p. (26)­ (31)).1 Sviluppando la sua teoria, egli ha poco dopo l'idea di consi­ derare quelli che chiama i " biquaternioni," vale a dire l'algebra sul corpo dei numeri complessi che ha stessa tavola di moltiplicazione del corpo dei quaternioni; a tale proposito egli osserva che questa estensione ha l'effetto di far apparire i divisori dello zero ([108], p. 650). La posizione di Grassmann è un po' diversa, e per molto tempo la sua " algebra esterna" resterà piuttosto ai margini della teoria delle algebre, 2 ma dietro il suo linguaggio ancora impreciso non si può non ravvisare la prima idea di un'algebra (di dimensione finita o no, sul corpo dei numeri reali), definita da un sistema di generatori e di relazioni ([102], t. III, pp. 199-217). Nuovi esempi di algebre vengono introdotti nel decennio 18501860 in modo piu o meno esplicito: se Cayley, sviluppando la teoria delle matrici ([44], t. II, pp. 475-496), non considera ancora le matrici quadrate come formanti un'algebra (punto di vista che sarà chiara­ mente espresso solo verso il 1870 dai Peirce [179c)), per lo meno egli rileva già in questa occasione l'esistenza di un sistema di matrici di l Il concetto d'isomorfismo di due algebre non appare in Hamilton; ma a partire da quest'epoca i matematici della scuola inglese, e precisamente de Morgan e Cayley, sanno bene che un cambiamento di base non modifica sostanzialmente l'algebra studiata (v. per esempio il lavoro di Cayley sulle algebre di rango 2 ([44], t. I, pp. 128-130». 2 Se ne può forse vedere la ragione nel fatto che, oltre alla moltiplicazione " ester­ na," Grassmann introduce fra i multivettori anche ciò che egli chiama la moltiplicazione " regressiva" e " interna" (che per lui fa le veci di tutto quello che si riferisce alla dua­ lità). In ogni caso è abbastanza notevole che, ancora verso il 1900, nell'articolo di Study­ Cartan dell'Enciclopedia ([40a], t. IIl> pp. 107-246), l'algebra esterna non sia posta fra le algebre associative, ma goda di un trattamento a parte, e che non sia segnalato che uno dei tipi di algebre di rango 4 (il tipo VIII di p. 180) altro non è che l'algebra esterna su uno spazio di dimensione 2.

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ordine 2 che verifica la tavola di moltiplicazione dei quaternioni; osservazione che può considerarsi come il primo esempio di rappre­ sentazione lineare di un'algebra.3 D'altra parte Cayley, nella memoria in cui definisce la nozione astratta di gruppo finito, dà incidentalmente anche la definizione dell'algebra di tale gruppo, senza però nulla de­ durre da questa definizione ([44], t. II, p. 129). Nessun altro notevole progresso è raggiunto prima del 1870; ma, a partire da questa data, hanno inizio le ricerche sulla struttura generale delle algebre di dimensione finita (sui corpi reale o complesso). E B. Peirce che fa i primi passi in questa direzione; egli introduce le nozioni di elemento nilpotente e di elemento idempotente, dimostra che un'algebra (con o senza elemento unità) di cui almeno un elemento non sia nilpotente possiede un idempotente =1= O, e scrive la celebre decomposizione x

=

exe

+

(xe- cxe) + ( ex- cxe) + ( x- xc- cx +

)

cxe

(e idempotente,

x elemento qualsiasi), con l'idea (sebbene ancora im­ precisa) di decomporre un idempotente in somma di idempotenti " primitivi" a due a due ortogonali [178]. Inoltre, secondo Clifford ([51], p. 274),4 è a B. Peirce che deve attribuirsi la nozione di prodotto tensoriale di due algebre, che lo stesso Clifford applica implicitamente ad una generalizzazione dei " biquaternioni" di Hamilton ([51], pp. 181-200) ed esplicitamente, qualche anno piu tardi, allo studio delle algebre che portano il suo nome ([51], pp. 397-401 e pp. 266-276). Queste nuove nozioni vengono utilizzate da B. Peirce per la classi­ ficazione delle algebre di dimensione piccola (sul corpo dei numeri complessi), problema che è affrontato, verso iI 1880, anche da altri matematici della scuola anglo-americana, primi fra tutti Cayley e Sylvester. O si accorge cosi rapidamente della grande varietà delle 3 Veramente Cayley non dimostra tale esistenza, non scrive esplicitamente le matrici in questione, e non sembra aver allora rilevato che alcune sono necessariamente immagi­ narie (in tutta questa memoria non viene mai precisato se le " quantità" che interven­ gono nelle matrici sono reali o complesse; tuttavia un numero complesso interviene in­ cidentalmente a p. 494). Si sarebbe indotti a pensare che non resti piti che un passo per identificare i " biquaternioni" di Hamilton con le matrici complesse di ordine 2; per la verità questo risultato non sarà enunciato in modo esplicito che dai Peirce nel 1870 ([178], p. 132) L'idea generale di rappresentazione regolare di un'algebra è introdotta da C.S. Peirce verso il 1879 [179c]; Laguerre l'aveva presagito fin dal 1876 ([141], t. I, p. 235). , B. Peirce incontrò Clifford a Londra nel 1871, ed ambedue fanno parecchie volte allusione alle loro conversazioni, di cui una si svolse senza dubbio durante una seduta della London Mathematical Society, nella quale Peirce aveva presentato i suoi risultati. .

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strutture possibili, ed è senza dubbio questo fatto che negli anni suc­ cessivi orienterà le ricerche per ottenere classi di algebre con proprietà piu particolari. Sul continente, dove l'evoluzione delle idee segue un corso assai diverso, tali ricerche appaiono già prima del 1880. Nel 1878 Fro­ benius dimostra che i quaternioni costituiscono il solo esempio di corpo non commutativo (di dimensione finita) sul corpo dei numeri reali ([90a], pp. 59-63) - risultato, questo, pubblicato indipendente­ mente due anni piu tardi da C. S. Peirce [179d]. Fin dal 1861 Weier­ strass, precisando un'osservazione di Gauss, aveva, nei suoi corsi, caratterizzato le algebre commutative senza elemento nilpotente5 su R o su C come composti diretti di corpi (isomorfi a R o a C); Dedekind, da parte sua, era arrivato alle stesse conclusioni verso il 1870, in relazione alla sua concezione ipercomp/essa della teoria dei corpi commutativi; le loro dimostrazioni vengono pubblicate nel 1884-85 ([243a], t. II, pp. 311-332 e [60], t. II, pp. 1-19). Sempre nel 1884, H. Poincaré, in una breve nota estremamente concisa ([181a], t. V, pp. 77-79), attira l'attenzione sulla possibilità di considerare le e­ quazioni Zi ep, (Xl' . . . , Xn'YI' . . . ,Yn) che esprimono la legge mol­ tiplicativa (�,x,ei)(�i)'ie;) �iZiei in un'algebra, come equazioni che definiscono (beninteso localmente) un gruppo di Lie. Questa osser­ vazione pare abbia grandemente colpito Lie ed i suoi discepoli (Study, Scheffers, F. Schur e, un po' piu tardi, Molien ed E. Cartan) intenti proprio in quell'epoca a sviluppare la teoria dei gruppi " con­ tinui" ed in particolare i problemi di classificazione (vedi in proposito [198], p. 387); durante il periodo 1885-1905 tale osservazione indusse i matematici di quella scuola ad applicare allo studio della struttura delle algebre metodi simili a quelli da loro stessi impiegati nello studio dei gruppi e delle algebre di Lie: questi si basano anzitutto sulla con­ siderazione del polinomio caratteristico di un elemento dell'algebra, in relazione alla sua rappresentazione regolare (polinomio già incontrato nelle opere di Weierstrass e Dedekind poc'anzi citate), e sulla decom­ posizione di tale polinomio in fattori irriducibili; decomposizione su cui, come Frobenius scoprirà un po' piu tardi, si riflette la decompo­ sizione della rappresentazione regolare in componenti irriducibili. =

=

• In effetti Weierstrass impone alla sua algebra una condizione piu ristretta, e cioè che l'equazione 00 + o,x + ... + o"x" O =

(dove gli Oj e l'incognita x appartengono all'algebra) possa avere un numero infinito di radici solo se gli Oj sono tutti multipli di un medesimo divisore di O.

117

Durante le ricerche della scuola di Lie sulle algebre, emergono a poco a poco le nozioni " intrinseche" della teoria. La nozione di radicale appare in un caso particolare (quello in cui il quoziente per il radicale è composto diretto di corpi) per opera di G. Scheffers nel 1891 [198] e, piu chiaramente, in Molien e Cartan ([40a], t. III, pp. 7-105), che si occupano del caso generale (lo stesso nome di " radicale" è di Frobenius [90 il). Study e Scheffers [198] mettono in rilievo il concetto di algebra composta diretta di piu altre (già in­ travisto da B. Peirce ([178], p. 221)). Infine, con Molien, vengono introdotte [161a] le algebre quozienti di un'algebra, nozione essen­ zialmente equivalente a quella d'ideale bilatero (definita per la prima volta da Cartan ([40a], t. III, pp. 7-105)) o di omomorfismo (termine dovuto anch'esso a Frobenius.) L'analogia con i gruppi è qui molto evidente e, qualche anno piu tardi, nel 1904, Epstein e Wedderburn considereranno delle successioni di composizione d'ideali bilateri e ad esse estenderanno il teorema di Jordan-Holder. I risultati piu importanti di questo periodo sono quelli di T. Molien [161a]: gui­ dato dalla nozione di gruppo semplice, egli definisce le algebre sem­ plici (su C) e dimostra che esse sono le algebre di matrici, e quindi prova che la struttura di un'algebra qualunque di rango finito su C si riduce essenzialmente al caso (già studiato da Scheffers) in cui il quoziente per il radicale è una somma diretta di corpi. Questi risul­ tati, poco dopo, vengono scoperti e stabiliti in modo piu rigoroso e piu chiaro da E. Cartan ([40a], t. III, pp. 7-105), che introduce in tale occasione la nozione di algebra semi-semplice e mette in luce gli in­ varianti numerici (gli " interi di Cartan") associati ad un'algebra qualsiasi sul corpo C portando cosi la teoria di queste algebre ad un punto oltre il quale dopo di allora non si è piu progredito.6 Egli infine estende i risultati di Molien ed i suoi propri alle algebre su R. Verso il 1900 fermentano le idee che conducono all'abbandono di qualsiasi restrizione sul corpo degli scalari per quanto concerne l'algebra lineare. Bisogna in particolare segnalare l'impulso vigoroso dato allo studio dei corpi finiti dalla scuola americana formatasi at­ torno a E. H. Moore ed L. E. Dickson. Il risultato piu rimarchevole di queste ricerche è il teorema di Wedderburn [242a], secondo il quale ogni corpo finito è commutativo. Nel 1907 Wedderburn ri­ prende i risultati di Cartan e li estende ad un corpo di base qualunque -

• Le difficoltà essenziali provengono dallo studio del radicale, per la struttura del quale non si è fino ad ora trovato nessun soddisfacente principio di classificazione.

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[242b]; cOSI facendo egli abbandona completamente i metodi dei suoi predecessori (che divengono inapplicabili non appena il corpo di base non è piti algebricamente chiuso o un ordinato massimale) e riprende, perfezionandola, la tecnica degli idempotenti di Peirce, che gli permette di dare forma definitiva al teorema sulla struttura delle algebre semisemplici, il cui studio viene ricondotto a quello dei corpi non commutativi. Inoltre, il problema dell'estensione del corpo degli scalari si impone naturalmente in una siffatta prospettiva, ed egli prova che qualsiasi algebra semisemplice resta semisemplice dopo una esten­ sione separabile dal corpo di base,7 e diviene composta diretta di al­ gebre centrali di matrici se questa estensione è presa abbastanza grande ([242b], p. 202). 8 Un po' piti tardi, Dickson, per n 3 [67], e lo stesso Wedderburn, per un n qualunque [242c], dànno i primi esempi di corpi non commutativi di rango n2 sul loro centro,9 inau­ gurando cosi, in un caso particolare, la teoria dei " prodotti incro­ ciati " e dei " sistemi di fattori" che sarebbe stata piti tardi sviluppata da R. Brauer [27] e E. Noether [169c]. Infine, nel 1921, Wedderburn dimostra un caso particolare del teorema di commutazione [242d]. Frattanto, dal 1896 al 1910, si era sviluppata, per opera di Fro­ benius, Burnside ed I. Schur, una teoria analoga a quella delle algebre: la teoria della rappresentazione lineare dei gruppi (limitata agli inizi alle rappresentazioni dei gruppi finiti). Essa trae origine dalle osser­ vazioni di Dedekind, il quale (ancor prima della pubblicazione del suo lavoro sulle algebre) aveva incontrato, verso il 1880, nel corso delle sue ricerche sulle basi normali di estensione di Galois, il Grup­ pendeterminant det (XSI-I) ' ove (xs) SEG è una successione di indeter=

7 All'epoca in cui scriveva Wedderburn, la nozione di estensione separabile non era stata ancora definita, ma egli utilizza implicitamente l'ipotesi che, se un polinomio irriducibile f sul èorpo di base ha una radice x in un'estensione di questo, si ha neces­ sariamente f'(x) =1= O ([242b], p. 103). Soltanto nel 1929 E. Noether segnalò i fenomeni legati all'inseparabilità dell'estensione del corpo degli scalari [169b]. Ricordiamo qui un altro risultato legato alla questione di separabilità (ed ora colle­ gato all'algebra omologica): la decomposizione di un'algebra in somma diretta (ma non composta diretta!) del suo radicale e di una sottoalgebra semisemplice. Questo risultato, (stabilito da Molien quando il corpo degli scalari sia C e da Cartan per le algebre su R) è enunciato nella sua forma generale da Wedderburn, il quale in verità lo dimostra sol­ tanto nel caso che il quoziente dell'algebra per il suo radicale sia semplice ([242b], pp. 105-109) utilizzando d'altronde sui polinomi irriducibili la stessa ipotesi dianzi enunciata. • Le ricerche aritmetiche sulle rappresentazioni lineari dei gruppi che iniziano in quell'epoca, conducono anche a considerare la nozione equivalente di corpo neutra­ lizzante di una rappresentazione [204 e B). Esse soddisfano inoltre all'assioma detto di Archimede il quale è chiara­ mente concepito, fin dall'inizio, come chiave di volta di tutto l'edi­ ficio (ed è infatti indispensabile ad ogni caratterizzazione assiomatica dei numeri reali). La sua attribuzione ad Archimede è puramente acci­ dentale, e infatti è proprio Archimede, che nell'introduzione alla sua Quadratura della parabola ([3b], t. II, p. 265) insiste sul fatto che que­ sto assioma è stato già impiegato dai suoi predecessori, che sostiene un ruolo essenziale nei lavori di Eudosso e che le conseguenze di esso non sono meno valide delle determinazioni di aree e volumi compiute senza il suo aiuto.4 È facile vedere come da questa sistemazione assiomatica de­ rivi necessariamente la teoria dei numeri reali. Si osserverà che, per Eudosso, le grandezze di una data specie formano un sistema ad una legge di composizione interna (l'addizione), ma che questo -

3 Platone ([180], libro VII, 525) si beffa dei calcolatori" ch, scambiano l'unità con gli spiccioli" e ci dice che mentre costoro dividono, i sapienti moltiplicano: il che significa che, per esempio, per il matematico l'eguaglianza fra due rapporti alb e m'A' consegue mB > m'B ' ; con analoghi sistemi si definiscono le disuguaglianze fra rapporti. Il fatto che questi rap­ porti formino un dominio di operatori per ogni tipo di grandezza equi­ vale all'assioma (mai riferito esplicitamente, ma piu volte utilizzato nell'esposizione di Euclide) dell'esistenza del quarto proporzionale: dato un rapporto A/A' e dato B', esiste un B della stessa specie di B' A/A'. L'idea geniale di Eudosso permetteva cosi tale che B/B' di identificare fra loro i domini di operatori definiti per ogni specie di grandezza.5 In modo analogo si può identificare l'insieme dei rap­ porti di interi (vedi sopra) con una parte dell'insieme dei rapporti di grandezze e cioè con l'insieme dei rapporti razionali (rapporti di grandezze commensurabili); tuttavia, poiché questi rapporti, in quanto operatori sugli interi, sono (in generale) definiti solamente su una parte dell'insieme degli interi, era necessario svilupparne se­ paratamente la teoria (Libro VII di Euclide). Il dominio di operatori universale cosi costruito era dunque per i matematici greci 1'equivalente di quello che è per noi l'insieme dei numeri reali; è chiaro del resto che con l'addizione delle grandezze e la moltiplicazione dei rapporti di grandezze, essi possedevano 1'equi­ valente di ciò che per noi è il corpo dei numeri reali, sebbene in una forma molto meno maneggevole.6 Ci si può d'altra parte chiedere se essi avessero concepito questi insiemi (insieme delle grandezze di =

• Essa permette di fare cosi in modo assolutamente rigoroso quanto facevano abi­ tualmente i primi matematici greci quando consideravano come dimostrato un teorema sulle proporzioni qualora esso fosse provato per ogni rapporto razionale. Pare che prima di Eudosso si fosse tentato di costruire una teoria volta agli stessi scopi definendo il rapporto A/A' di due grandezze mediante quelli che in linguaggio moderno noi defi­ niremmo i termini della frazione continua che l'esprime; su questi approcci, ai quali conduceva naturalmente l'algoritmo detto " di Euclide" per la ricerca di una misura comune di A e A' qualora essa esista (o per la determinazione del M.C.D.), v. [140]. • Tanto poco maneggevole, che i matematici greci, per tradurre nel loro linguaggio la scienza algebrica dei babilonesi, si trovarono obbligati ad utilizzare sistematicamente un mezzo di tutt'altro genere, vale a dire la corrispondenza fra due "lunghezze" e l''' area .. del rettangolo costruito su queste due lunghezze assunte come lati: la quale, ad essere esatti, non è una legge di composizione né permette di scrivere comodamente le relazioni algebriche di grado superiore al secondo. Si osserverà d'altra parte che, in tutta questa trattazione, noi facciamo astrazione dalla questione dei numeri negativi (v. p. 67).

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una data specie, o insieme dei rapporti di grandezze) come completi nel senso in cui lo si intende oggi; non si capisce bene altrimenti, perché essi avrebbero ammesso (senza nemmeno sentire il bisogno di farne un assioma) l'esistenza del quarto proporzionale; ed inoltre certi testi pare facciano riferimento ad idee di questo genere. Essi infine ammettevano certamente come evidente che una curva, su­ scettibile di essere descritta con un movimento continuo, non possa passare da una parte all'altra di una retta senza intersecarla; principio, questo, di cui si sono serviti per esempio nelle loro ricerche sulla duplicazione del cubo (costruzione di -{YZ mediante intersezione di curve), e che è essenzialmente equivalente alla proprietà di cui ab­ biamo parlato; i testi che sono in nostro possesso non ci permettono tuttavia di conoscere con precisione le loro idee a tale proposito. A questo punto dunque si trova la teoria dei numeri reali nel­ l'epoca classica della matematica greca. Bisogna riconoscere che, per quanto ammirevole, la costruzione di Eudosso - che non la­ sciava nulla a desiderare dal punto di vista del rigore e della coerenza­ mancava di snellezza, e poco si prestava allo sviluppo del calcolo nu­ merico e soprattutto del calcolo algebrico. Inoltre la sua necessità logica poteva manifestarsi solo a spiriti rigorosi ed abituati all'astra­ zione. È dunque naturale che, al tramonto della matematica greca, riappaia a poco a poco il punto di vista " ingenuo," che si era con­ servato attraverso la tradizione logistica, punto di vista che domina, ad esempio, in Diofanto, [70a], il quale è il vero continuatore di questa tradizione, piu che della scienza greca ufficiale; egli, seppure formalmente riproduca la definizione euclidea di numero, intende in realtà, con la parola " numero," l'incognita di problemi algebrici la cui soluzione può essere tanto un intero, quanto un numero fraziona­ rio e anche un irrazionale.7 Benché questo mutato atteggiamento nei riguardi del numero sia legato ad uno dei momenti piu importanti nella storia della matematica, vale a dire allo sviluppo dell'algebra (v. p. 66), esso non costituisce naturalmente di per sé un progresso, ma piuttosto un regresso. Non è possibile seguire qui le vicissitudini dell'idea di numero attraverso la matematica indu, araba, ed occidentale fino al tramonto del Medio Evo: è la nozione " ingenua" di numero che vi domina; 7 .. II' numero' si presenta non razionale," Diofanto, libro IV, problema IX. Su questo ritorno alla nozione ingenua di numero, cfr. anche Eutocio nel suo Commentario su Archimede ([3b], t. III, pp. 120-126).

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e, benché gli Elementi di Euclide servissero di base all'insegnamento della matematica in questo periodo, si può ritenere verosimile che la dottrina di Eudosso sia restata generalmente incompresa poiché non se ne sentiva piu la necessità. I "rapporti" di Euclide venivano il piu delle volte qualificati come " numeri"; si applicavano loro le regole del calcolo degli interi, ottenendo cosi risultati esatti, senza cercare di analizzare a fondo le ragioni del successo di questi metodi. Già alla metà del XVI secolo vediamo però R. Bombelli esporre su tale argomento, nella sua Algebra [23b],8 un punto di vista che (se si considerano acquisiti i risultati del libro V di Euclide) è essen­ zialmente corretto; dopo aver riconosciuto che, una volta scelta l'unità di lunghezza, esiste una corrispondenza biunivoca fra le lun­ ghezze ed i rapporti di grandezze, egli definisce, sulle lunghezze, le di­ verse operazioni algebriche (supponendo, s'intende, fissata l'unità) e, rappresentando i numeri con le lunghezze, ottiene la definizione geo­ metrica del corpo dei numeri reali (punto di vista di cui spesso si at­ tribuisce il merito a Descartes) e dà cosi alla sua Algebra una solida base geometrica.9 Ma l'Algebra di Bombelli, ancorché particolarmente avanzata per i suoi tempi, non andava piu in là dell'estrazione delle radici e della risoluzione per radicali delle equazioni di 20, 30 e 40 grado; ovviamente egli ammette senza discussione la possibilità dell'estra­ zione delle radici. Anche Simon Stévin [214] assume un atteggiamento analogo nei riguardi del numero, che per lui è ciò che denota una mi­ sura di grandezza e va considerato come essenzialmente " continuo " (senza tuttavia precisare il significato che attribuisce a questo vocabolo); se egli distingue i "numeri geometrici" dai "numeri aritmetici" è solo a causa della maniera in cui essi sono definiti, senza che per questo esista secondo lui una differenza di natura: ecco del resto la sua ultima parola su tale argomento: "Noi concludiamo dunque che

non vi è alcun numero assurdo, irrazionale, i"egolare, inesplicabile od insensi­ bile,. ma che in essi esiste una tale eccellenza e concordanza da poter meditare notte e giorno sulla loro ammirevole perfezione" ([214], p. 10). D'altra parte, avendo egli per primo elevato a metodo di calcolo lo strumento delle • Si tratta qui del libro IV di quest'A�ebra, che rimase inedito fino ai giorni nostri: per quanto riguarda l'oggetto della nostra trattazione, poco importa che le idee di Bom­ belli su questo argomento fossero o no note ai suoi contemporanei. • Non entreremo qui nella storia dell'impiego dei numeri negativi che appartiene all'algebra. Notiamo tuttavia che nella stessa opera Bombelli dà con perfetta chiarezza la definizione puramente formale (come la si potrebbe trovare in un'algebra moderna) non solo delle quantità negative, ma anche dei numeri complessi.

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frazioni decimali, e proposto per esse una notazione assai simile alla nostra, si rese chiaramente conto che queste frazioni fornivano un algoritmo di approssimazione indefinita di ogni numero reale, come si può rilevare dalla sua Appendice algebrica del 1594 "contenente la regola generale di tutte le equazioni" (opuscolo il cui unico esemplare fu bruciato a Louvain nel 1914; v. però [214], p. 88). Trascritta questa equazione sotto la forma P(x) Q(x) (dove P è un polinomio di grado superiore a quello del polinomio Q, e P(O) < Q(O)), si sosti­ tuisce x con i numeri 10, 100, 1000, ... fino a trovare P(x) > Q(x), determinando cosI, egli dice, il numero di cifre della radice; poi (se la radice ha per esempio due cifre) si sostituisce 10, 20, . . . , deter­ minando cosi le cifre delle decine; e via di seguito per le cifre se­ guenti, poi per le cifre decimali successive: "Procedendo cosi all'in­ finito," egli dice, "ci si approssima indefinitamente al risultato" ([214], p. 88). Evidentemente Stévin ebbe (senza dubbio per primo) l'idea precisa del teorema di Bolzano e riconobbe in esso lo strumento essenziale per la risoluzione sistematica delle equazioni numeriche; in lui si ravvisa al tempo stesso una concezione cosi chiara del con­ tenuto numerico che ben poco resterà da fare per precisarlo defini­ tivamente. Tuttavia, nei due secoli seguenti, l'affermarsi definitivo di metodi corretti fu per due volte ritardato dallo sviluppo di due teorie, di cui non dobbiamo fare qui la storia: iI calcolo infinitesimale e la teoria delle serie. Dalle discussioni che esse sollevarono appare, come in tutte le epoche della storia della matematica, l'eterno ondeggiare fra i ricercatori preoccupati di andare avanti, a prezzo di qualche in­ certezza, persuasi che ci sarà sempre tempo dopo per consolidare le conquiste fatte, e gli spiriti critici, i quali (pur non essendo in nulla da meno ai primi per facoltà intuitiva e capacità inventiva) sono convinti di non sprecare le loro energie consacrando qualche sforzo all'espressione precisa ed alla giustificazione rigorosa dei loro concetti. Nel X VII secolo l'argomento principale del dibattito è la nozione di infinitamente piccolo, la quale, giustificata a posteriori dai risultati che essa permetteva di raggiungere, sembrava in aperto contrasto con l'assioma di Archimede; vediamo cosI che gli spiriti piu illuminati di questo tempo finiscono per adottare un punto di vista diverso da quello di Bombelli, dal quale si distingue soprattutto per l'interesse maggiore prestato ai metodi rigorosi degli antichi; Isaac Barrow (iI maestro di Newton, che ebbe pure una parte im­ portante nella creazione del calcolo infinitesimale) ne dà una brillante =

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trattazione nelle sue Lectiones Geometricae tenute a Cambridge nel 1664-65-66 [13a e b]; riconoscendo la necessità, per ritrovare, nei riguardi del numero, la proverbiale "certezza geometrica," di ri­ tornare alla teoria di Eudosso, egli presenta una lunga ed assai saggia difesa di quest'ultima (la quale, secondo la sua testimonianza, pareva incomprensibile a molti suoi contemporanei) contro coloro che la tacciavano di oscurità o persino di assurdità. D'altra parte, con il definire i numeri come simboli che denotano rapporti di grandezze, e suscettibili di combinarsi fra di loro per le operazioni aritmetiche, egli ottiene il corpo dei numeri reali, in termini che dopo di lui ver­ ranno ripresi da Newton nella sua Arithmetica e che i suoi successori fino a Dedekind e Cantor non avrebbero minimamente cambiato.

È press'a poco in quest'epoca che viene introdotto il metodo degli sviluppi in serie, il quale ben presto, nelle mani degli algebristi impenitenti, assume un carattere esclusivamente formale e distoglie l'attenzione dei matematici dalle questioni di convergenza sollevate dal sano uso delle serie nel campo dei numeri reali. Newton, princi­ pale creatore del metodo, era ancora cosciente della necessità di considerare tali questioni: e, pur senza averle sufficientemente de­ lucidate, si era per lo meno accorto che le serie di potenze da lui in­ trodotte convergevano " il piti delle volte" per lo meno quanto una serie geometrica (la cui convergenza era già nota agli antichi) per piccoli valori della variabile ([167a], t. I, pp. 3-26); piti o meno nella stessa epoca Leibniz aveva osservato che una serie alternata, a termini decrescenti in valore assoluto e tendenti allo zero, è conver­ gente; nel secolo seguente d'Alembert, nel 1768, esprime dei dubbi sull'uso delle serie non convergenti. Ma l'autorità di Bernoulli e soprattutto di Eulero fa si che tali dubbi siano un'eccezione per quei tempi.

È chiaro che dei matematici i quali avessero l'abitudine di usare le serie per il calcolo numerico non potevano trascurare in alcun modo la nozione di convergenza; e non è affatto un caso che il primo, in questo campo come in molti altri, a ritornare a metodi corretti sia stato un matematico che, fin dalla prima giovinezza, aveva amato il calcolo numerico: C. F. Gauss, il quale ancora quasi ragazzo si era servito dell'algoritmo della media aritmetico-geometrica,l° e si lO Noti

Xo, Yo

>

0, siano

Xn+l

=

(xn

+ Yn)/2, Yn+l

=

V'xnYn;

per n tendente a + 00,

Xn e )'n tendono (molto rapidamente) ad un limite comune, detto media aritmetico-geo­

metrica di Xo eyo; questa funzione è intimamente legata alle funzioni ellittiche e fu il pun­ to di partenza di numerosi lavori di Gauss su tale argomento.

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era quindi formato una chiara nozione del limite; lo vediamo, in un frammento del 1800 (ma pubblicato solo ai giorni nostri) ([95a], t. Xl p. 390), definire con precisione, da una parte l'estremo inferiore ' e quello superiore, dall'altra il limite superiore e quello inferiore di una successione di numeri reali essendo l'esistenza dei primi (per una successione limitata) ammessa come evidente, ed essendo i secondi correttamente definiti come limiti, per n tendente a + 00, di sup ulI+P' p�o

inf ull+p• Gauss d'altra parte, nella sua memoria del 1812 sulla serie i­ p�O pergeometrica ([95a], t. III, p. 139) dà anche il primo modello di una discussione di convergenza, condotta, come egli afferma, " in modo estremamente rigoroso, e fatta per soddisfare coloro le cui preferenze vanno ai metodi rigorosi dei geometri antichi" ; tuttavia questa discussione, che costituisce un argomento secondario nella memoria, non si rifà ai principi primi della teoria delle serie; è Cauchy che per primo li stabilisce nel suo Cours d'Ana!yse del 1821 ([42a], (2), t. III) in modo del tutto corretto, a partire dal criterio di Cauchy chiaramente enun­ ciato ed ammesso come evidente; poiché per la definizione del nu­ mero egli si attiene ai punti di vista di Barrow e di Newton, si può dire che per lui i numeri reali sono definiti dagli assiomi delle gran­ dezze e dal criterio di Cauchy: ciò che infatti basta a definirli. È in questo stesso periodo che viene completamente chiarito un altro aspetto importante della teoria dei numeri reali. Come già ab­ biamo detto, si era sempre ammesso come geometricamente evidente che due curve continue non potessero intersecarsi senza incontrarsi: principio che, una volta convenientemente precisato, equivarrebbe anch'esso alla proprietà della retta di essere uno spazio completo. Questo principio è ancora alla base della dimostrazione " rigorosa" data da Gauss nel 1799 del teorema di d'Alembert, per il quale ogni polinomio a coefficienti reali ammette almeno una radice reale o complessa ([95a], t. III, p. 1); la dimostrazione dello stesso teorema, data da Gauss nel 1815 ([95a], t. III, p. 31), si basa, come pure un saggio anteriore di Lagrange, sul principio, analogo ma piu semplice, per il quale un polinomio non può cambiare segno senza annullarsi (principio che già abbiamo visto utilizzare da Stévin). Nel 1817, Bolzano dà, partendo dal criterio di Cauchy, una dimostrazione com­ pleta di tale principio, che egli ottiene come caso particolare del teorema analogo per le funzioni numeriche continue di una variabile numerica [22c] Enunciando chiaramente (ancor prima di Cauchy) il " criterio di Cauchy," egli cerca di giustificarlo con .

.

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un ragionamento che, in mancanza di una qualsiasi definizione aritmetica di numero reale, non era e non poteva essere altro che un circolo vizioso; ma, una volta ammesso questo, il suo lavoro è perfettamente corretto ed assai notevole, poiché contie­ ne non solo la definizione moderna di una funzione continua (data qui per la prima volta), insieme con la dimostrazione della con­ tinuità dei polinomi, ma anche la dimostrazione dell'esistenza del­ l'estremo inferiore di un insieme limitato qualunque di numeri reali (egli non parla di insiemi, ma di proprietà di numeri reali, il che è lo stesso). D'altra parte Cauchy, nel suo Cours d'Anatyse ([42a], (2), t. III), definendo anch'egli le funzioni continue di una o piu variabili numeriche, dimostra egualmente che una funzione continua di una variabile non può cambiare segno senza annullarsi, e ciò con lo stesso ragionamento di Simon Stévin, che naturalmente diventa corretto, una volta definita la continuità, quando ci si serva del teorema di Cauchy (oppure quando si ammetta, come fa Cauchy, il principio equivalente della successione di intervalli, ciascuno contenente il successivo, che ha, come ovvio caso particolare, la convergenza delle frazioni decimali indefinite). Una volta giunti a questo punto, non restava ai matematlcI che precisare e sviluppare i risultati acquisiti, correggendo qualche errore e colmando qualche lacuna. Cauchy, per esempio, aveva cre­ duto ad un certo momento che una serie convergente, a termini fun­ zioni continue di una variabile, abbia per somma una funzione con­ tinua: questo punto fu rettificato da Abel nel corso dei suoi impor­ tanti studi sulle serie ([1], t. I, p. 219; v. anche t. II, p. 257 e oltre), e venne finalmente messo a punto da Weierstrass nei suoi corsi (che restarono inediti ma ebbero una notevole influenza) sulla nozione di convergenza uniforme (v. p. 219). Del resto Cauchy aveva ammesso, senza alcuna giustificazione sufficiente, l'esistenza del minimo di una funzione continua in una delle sue dimostrazioni dell'esistenza delle radici di un polinomio; fu ancora Weierstrass a chiarire le questioni di questo genere, dimostrando nei suoi corsi l'esistenza del minimo per le funzioni di variabili numeriche, definite negli intervalli chiusi li­ mitati; è appunto in seguito alla sua critica dell'applicazione ingiusti­ ficata di questo teorema ad insiemi di funzioni (di cui il "principio di Dirichlet" è l'esempio piu noto) che ha inizio quel movimento di idee, che sfocia (v. p. 144) nella definizione generale degli spazi com­ patti e nell'enunciato moderno del teorema. Contemporaneamente, Weierstrass aveva riconosciuto nei suoi 157

corsi come convenisse, da un punto di vista logico, separare completa­ mente l'idea di numero reale dalla teoria delle grandezze: utilizzare quest'ultima, infatti, significa definire assiomaticamente l'insieme dei punti della retta (e dunque in definitiva l'insieme dei numeri reali) ed ammettere l'esistenza di un tale insieme; benché questo modo di procedere sia essenzialmente corretto, è evidentemente preferibile partire dai soli numeri razionali e dedurne i numeri reali per comple­ tamento.n Questo appunto fecero con metodi diversi, ed indipenden­ temente gli uni dagli altri, Weierstrass, Dedekind, Méray e Cantori mentre il metodo delle "sezioni" proposto da Dedekind ([60], t. II, pp. 315-334) si avvicinava molto alle definizioni di Eudosso, gli altri metodi proposti si avvicinano al metodo utilizzato in topologia dlJ, Hausdorff in poi, per completare uno spazio metrico. In questo stesso periodo Cantor comincia a sviluppare la teoria degli insiemi di numeri reali, di cui Dedekind aveva avuto la prima idea [36], e ottiene cosi i principali risultati elementari nella topologia della retta, nella struttura degli insiemi aperti, degli insiemi chiusi, e nelle nozioni di insieme derivato, d'insieme perfetto totalmente disconti­ nuo ecc. Con Cantor la teoria dei numeri reali assume la forma quasi definitiva; indichiamo qui brevemente in quale senso sono state proseguite le ricerche. Oltre ai lavori di topologia generale Cv. p. 144) ed alle applicazioni dell'integrazione Cv. p. 239), si tratta soprattutto di ricerche sulla struttura e la classificazione degli insiemi di punti sulla retta e delle funzioni numeriche di variabili reali. Esse traggono la loro origine dai lavori di Bore! [25], orientati soprattutto verso la teoria della misura, ma che conducono fra l'altro alla definizione di "insiemi boreliani ": sono questi gli insiemi che fanno parte della pili piccola famiglia di parti di R, comprendente gli intervalli, e chiusa rispetto alle operazioni di unione ed intersezione numerabili ed al­ l'operazione C. A tali insiemi sono intimamente legate le cosiddette "funzioni di Baire," vale a dire le funzioni che si possono ottenere 11 Infatti la questione dell'esistenza, ossia, in linguaggio moderno, la non-contrad­ dittorietà della teoria dei numeri reali, viene ricondotta cosi alla questione analoga per i numeri razionali, a çondizione tut/avia çhe si mpponga açquisita la teoria degli insiemi astratti (poiché il completamento pressuppone la nozione di parte generica di un insieme infinito); in altre parole tutto si riconduce a quest'ultima teoria poiché se ne può trarre la teoria dei numeri razionali. Al contrario, se non si suppone di disporre della teoria degli insiemi, è impossibile ricondurre la non-contraddittorietà della teoria dei numeri reali a quella dell'aritmetica, e diventa nuovamente necessario darne una caratterizzazione assiomatica indipendente.

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partendo dalle funzioni continue e ripetendo "transfinitamente" l'operazione di limite di successione; esse furono definite da Baire nel corso di importanti lavori, in cui egli abbandona completamente il punto di vista della misura per affrontare sistematicamente l'aspetto qualitativo e "topologico" di queste questioni [9a]: egli fu il primo, appunto in questa occasione, a definire e studiare le funzioni semi­ continue e, allo scopo di caratterizzare le funzioni limiti di funzioni continue, ad introdurre l'importante nozione di insieme magro (in­ sieme di "prima categoria" nella terminologia di Baire) (v. p. 170). Dobbiamo qui limitarci a segnalare l'esistenza dei numerosi lavori che fecero seguito a quello di Baire, frutto soprattutto della scuola russa, ed ancora phi di quella polacca (v. p. 170).

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CaPitolo dodicesimo

Esponenziali e logaritmi

La storia della teoria del gruppo moltiplicativo Rt dei numeri reali > O è strettamente legata a quella dello sviluppo della nozione di potenze di un numero > O e delle notazioni usate per indicarla. Il concetto di "progressione geometrica" formata dalle potenze successive di uno stesso numero risale agli egiziani ed ai babilonesi; essa era nota ai matematici greci, e già in Euclide (Elementi, Libro IX , p. 11) si trova un enunciato generale equivalente alla regola ama" a'TH1! per esponenti interi > O. Nel Medio Evo il matematico fran­ cese N. Oresme (XIV secolo) riscopre questa regola, e nei suoi scritti troviamo per la prima volta la nozione di esponente frazionario > O, con una notazione già simile alla nostra e le relative regole di calcoli (sia pure enunciate in forma generale; per esempio le due regole che oggi scriveremmo (ab)l/n al/I/bl/", (am)plq (amP)I/q [55]). Ma le idee di Oresme erano troppo avanzate per la matematica dei suoi tempi, per potere esercitare una qualche influenza sui contemporanei, sicché il suo trattato cadde rapidamente nell'oblio. Un secolo piò tardi N. Chuquet enuncia di nuovo la regola di Euclide; egli introduce inoltre una notazione esponenziale per le potenze delle incognite delle equazioni ed adopera senza esitazione l'eponente O ed esponenti interi < 0.1 Stavolta (benché l'opera di Chuquet sia rimasta mano­ scritta e, a quanto pare, non molto diffusa) l'idea di isomorfismo fra la "progressione aritmetica" degli esponenti e la " progressione geometrica" delle potenze non sarà piò persa di vista. Estesa agli esponenti negativi ed agli esponenti frazionari da Stifel ([216], fogl. 35, e 249-250) essa approda infine alla definizione dei logaritmi ed alla costruzione delle prime tavole, che fu iniziata indipendentemente dallo scozzese J. Neper nel 1614-1620 e dallo svizzero J. Biirgi (la cui opera apparve solo nel 1620, benché fosse stata concepita nei primi anni del XVII secolo). In Biirgi la continuità dell'isomorfismo sta­ bilita fra R e R! è implicitamente presupposta dall'impiego dell'in=

=

=

1

Chuquet, per esempio, scrive 12', 122, 123, ecc. al posto di 12x, 12x", 12x3, ecc., 12, e 122ni per 12x-2 ([49], pp. 737-738).

120 per il numero 160

=

terpolazione nell'uso delle tavole; nella definizione di Neper, al contrario, essa è esplicitamente formulata (per lo meno tanto esplicita­ mente quanto lo permetteva la concezione piuttosto vaga che si aveva a quei tempi della continuità).2 Non ci attarderemo qui a parlare dei servizi resi dai logaritmi al calcolo numerico; da un punto di vista teorico la loro importanza data dagli inizi del calcolo infinitesimale, con la scoperta degli sviluppi in serie di log (1 + x) e di e"', e delle proprietà differenziali di queste funzioni (v. pp. 177-178). Per quanto concerne la definizione degli esponenziali e dei logaritmi, ci si limitò, fino alla metà del XIX se­ colo, ad ammettere intuitivamente la possibilità di ampliare, per con­ tinuità, l'insieme dei numeri reali con l'aggiunta della funzione o'" definita per qualsiasi x razionale. Solo dopo che la nozione di numero reale fu definitivamente precisata e dedotta da quella di numero razionale, si pensò a dare una giustificazione rigorosa di questo am­ pliamento.

• Neper considera due punti M ed N mobili simultaneamente su due rette; se il movimento di M è uniforme e quello di N tale che la velocità di N sia proporzionale alla sua ascissa, allora l'ascissa di M è per definizione il logaritmo di quella di N ([1650],

p.

3).

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Capitolo tredimimo

Spazi a n dimensioni

Già abbiamo avuto occasione di dire come lo sviluppo della geometria analitica del piano e dello spazio abbia indotto i matematici ad introdurre la nozione di spazio a n dimensioni, la quale offriva loro un linguaggio geometrico estremamente comodo per esprimere

in modo conciso e semplice i teoremi di algebra concernenti le equa­ zioni ad un numero qualsiasi di variabili, ed in particolare tutti i risultati generali dell'algebra lineare Cv. p. 80). Ma, sebbene verso la metà del XIX secolo questo linguaggio fosse entrato nell'uso cor­ rente di numerosi geometri, esso restava nondimeno puramente con­ venzionale, e la mancanza di una rappresentazione " intuitiva " de­ gli spazi a piu di 3 dimensioni sembrava escludere per essi i ragiona­ menti " per continuità" che erano possibili nel piano e nello spazio ordinario poggiando esclusivamente sull'" intuizione." Nelle sue ricerche sull'Anatysis sitm e sui fondamenti della geometria, Riemann per primo ardisce usare lo stesso ragionamento per analogia con il caso dello spazio a tre dimensioni Cv. p. 141)1; sulla sua scia, numerosi matematici cominciarono a servirsi di ragionamenti di questo tipo, soprattutto nella teoria delle funzioni algebriche di piu variabili complesse. Essendo però assai limitato a quei tempi il controllo del­ l'intuizione spaziale, si poteva a buon diritto restare scettici davanti al valore dimostrativo di tali considerazioni ed ammetterle solo a titolo puramente euristico, in quanto esse rendevano assai plausibile l'esattezza di certi teoremi. Per questo motivo H. Poincaré, nella sua memoria del 1887 sui residui degli integrali doppi di funzioni di due variabili complesse, evita per quanto possibile qualsiasi ricorso al­ l'intuizione nello spazio a quattro dimensioni: "Poiché questo lin­ guaggio ipergeometrico ancora ripugna a molti benpensanti," egli dice, " mi limiterò a farne un uso assai ristretto." Gli " artifici" dei quali egli si serve per questo scopo gli permettono di rifarsi a ragionamenti

l Si vedano anche i lavori di L. Schliifli ([200], t. I, pp. 169-387), i quali, pur essendo dello stesso periodo, vennero pubblicati solo nel XX secolo.

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topologici nello spazio a tre dimensioni, in cui egli non esita piu a fare appello all'intuizione ([1810], t. III, pp. 443 sgg.). D'altra parte le scoperte di Cantor, ed in particolare il celebre teorema che stabiliva l'equipotenza fra R e Rn (che sembrava mettere in causa la nozione stessa di dimensione)2 mostravano la necessità per fondare su base solida i ragionamenti di geometria e di topologia - di liberare il ragionamento da qualsiasi ricorso all'intuizione. Gili abbiamo notato (v. p. 140) come questo bisogno sia all'origine della concezione moderna di topologia generale. Ancor prima però che essa venisse creata, si era cominciato a studiare in modo rigoroso la topologia degli spazi numerici e delle loro generalizzazioni piu im­ mediate (le " varietà a n dimensioni") con metodi che si rifacevano soprattutto a quella parte della topologia detta " topologia combina­ toria" o meglio ancora " topologia algebrica" che non possiamo trattare qui.

• È interessante notare che, dopo essere venuto a conoscenza di questo risultato, Dedekind aveva compreso la ragione del suo aspetto cosi paradossale e segnalat o a Cantor che si poteva dimostrare l'impossibilità di una corrispondenza biunitlo(o e bjçon­ tinua fra Rm ed R" per m 7":- n ([36], pp. 37-38).

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Capitolo quattordicesiflJo

Numeri complessi. Misura degli angoli

Non faremo qui un'esposizione completa dello sviluppo storico della teoria dei numeri complessi e di quella dei quaternioni poiché queste teorie appartengono all'algebra (v. pp. 91 e 80); diremo invece qualche parola sulla rappresentazione geometrica degli immaginari che costituisce, sotto molti aspetti, un progresso decisivo nella storia della matematica. A C. F. Gauss viene riconosciuto unanimemente il merito della prima chiara concezione della corrispondenza biunivoca fra numeri complessi e punti del piano,l e soprattutto quello di aver per primo applicato questa idea alla teoria dei numeri complessi e di aver chiaramente intravisto quale vantaggio gli analisti del XIX secolo sarebbero riusciti a trarne. Durante il XVII e il XVIII secolo i matematici erano a poco a poco giunti alla convinzione che i numeri immaginari, i quali consentivano la risoluzione delle equazioni di secondo grado, permettessero anche di risolvere le equazioni algebriche di grado qualunque. Numerosi tentativi di dimostrazione di questo teorema erano stati pubblicati durante il XVIII secolo; ma, anche senza parlare di quelli che si basavano solo su un circolo vizioso, non ve n'era nessuno che non prestasse il fianco a serie obiezioni. Gauss, dopo un esame particolareggiato di questi tentativi ed una critica serrata delle loro lacune, nella sua dissertazione inaugurale (scritta nel 1797 ed apparsa nel 1799), si propone di dare infine una dimostrazione rigorosa. Riferendosi ad un'idea espressa incidentalmente da d'Alembert (nella dimostrazione pubblicata da quest'ultimo nel 1746),2 egli osserva che i punti (a, b) del piano, tali l Il primo ad avere l'idea di una simile corrispondenza fu senza dubbio Wallis nella sua Algebra pubblicata nel 1685. Le sue idee in proposito rimasero tuttavia confuse e non esercitarono alcuna influenza sui suoi contemporanei. 2 Questa dimostrazione (ove del resto d'Alembert non sfrutta l'osservazione che serve da punto di partenza a Gauss) è la prima in ordine di tempo che non si riduca ad una grossolana petizione di principio. Gauss, che giustamente ne critica i punti deboli, non manca tuttavia di riconoscere il valore dell'idea fondamentale di d'Alembert: "II nerbo della dimostrazione," egli dice, "non mi sembra indebolito da tutte queste obiezioni" ([950], t. III, p. 11). Poco oltre egli tratteggia un metodo pe~ rendere rigorosa l'argo-

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che a + ib sia la radice del polinomio P(x + iy) = X(x, y) + iY(x, y), sono le intersezioni delle curve X = O e Y = O; con uno studio qualitativo di tali curve, egli dimostra allora che un arco continuo di una di esse congiunge dei punti di due regioni distinte limitate dall'altra, e ne conclude che le curve si incontrano ([95a], t. III, p. 3; v. anche [95b]). Questa dimostrazione, per la sua chiarezza e per la sua originalità, costituisce un considerevole progresso sui tentativi anteriori, ed è senza dubbio uno dei primi esempi di un ragionamento di pura topologia applicato ad un problema di algebra. 3 Nella sua dissertazione Gauss non definisce mai esplicitamente la corrispondenza fra punti del piano e numeri immaginari; anzi, nei riguardi di questi ultimi e delle questioni di " esistenza" che essi da due secoli sollevavano, egli assume un atteggiamento assai riservato, presentando intenzionalmente tutti i suoi ragionamenti in guisa che non vi appaiano altro che quantità reali. Ma la concatenazione logica della sua dimostrazione resterebbe del tutto oscura se non presupponesse una identificazione pienamente cosciente dei punti del piano e dei numeri complessi; e le sue ricerche contemporanee sulla teoria dei numeri e sulle funzioni ellittiche, in cui intervengono anche i numeri complessi, non fanno che rafforzare tale ipotesi. Fino a qual punto la concezione geometrica degli immaginari gli fosse divenuta familiare ed a quali risultati nelle sue mani essa potesse condurre, è limpidamente dimostrato dalle note (pubblicate solo ai giorni nostri) in cui egli applica i numeri complessi alla risoluzione di problemi di geometria elementare ([95a], t. IV, p. 396 e t. VIII, p. 307). Piu esplicita ancora è la lettera a Bessel del 1811 ([95a] t. VIII, pp. 90-91), dove egli disegna i tratti essenziali della teoria dell'integrazione delle funzioni di variabile complessa: "Cosi come," egli dice, "è possibile rappresentarsi tutto il campo delle quantità reali per mezzo di una linea retta indefinita, nello stesso modo ci si può figurare (" sinnlich machen") il campo completo di tutte le quantità, quelle reali e quelle immaginarie, per mezzo di un piano indefinito in cui ciascun punto, determinato dalla sua ascissa a e dalla sua ordil/ata b, rappresenti al tempo stesso la quantità a ib. Il passaggio contimlo da un valore di x ad

+

mentazione di d'Alembert, il quale è già, con una qualche approssimazione, il ragionamento di Cauchy in una delle sue dimostrazioni dello stesso teorema. 3 Gauss ha pubblicato in tutto quattro dimostrazioni del " teorema di d'AlembertGauss"; l'ultima è una variante della prima e, come quella, fa appello alle proprietà topologiche intuitive del piano; la seconda e la terza, invece, si basano su principi del tutto diversi (v. p. 113).

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un altro si fa di conseguenza seguendo una linea, e si può dunque effettuare in un numero infinito di modi..." Solo nel 1831 però Gauss (in occasione dell'introduzione dei" nu­ meri di Gauss"

a + ib,

con

a

e

b

interi) espone pubblicamente le sue

idee su questo argomento in modo tanto chiaro

([95a], t. II, Theoria Residuorum Biquadraticorum, Commentano secunda, art. 38, p, 109, e Anzeige, pp. 174 sgg.). Nel frattempo l'idea della rappresentazione geometrica degli immaginari era venuta indipendentemente anche a due modesti ricercatori, ambedue matematici dilettanti e piu o meno

autodidatti - idea che peraltro fu il loro unico contributo alla scienza,

tanto piu :che nessuno dei due era in stretto contatto con l'ambiente

scientifico del loro tempo. Per questo fatto i loro lavori correvano

seriamente il rischio di passare totalmente innosservati; ciò è quanto per l'appunto accade al primo di essi in ordine di tempo, il danese

C. Wessel, il cui opuscolo, apparso nel 1798, limpidamente concepito e

redatto, fu ripescato dall'oblio solo un secolo piu tardi; poco mancò

che la stessa disavventura accadesse anche al secondo dei due, lo sviz­ zero]. Argand, il quale vide riesumare per un puro caso nel 1813 il suo lavoro pubblicato sette anni prima.4 Quest'opera provocò ferventi discussioni negli

Annali di Gergonne e, fra il 1820 e il 1830, il problema

divenne argomento, tanto in Francia quanto in Inghilterra, di nu­ merose pubblicazioni (dovute ad autori piuttosto oscuri). Mancava ancora, però, l'autorità di un grande nome per porre fine a tali con­ troversie ed allineare i matematici su questo nuovo punto di vista. Fu quindi necessario attendere fin verso la metà del secolo perché la rappresentazione geometrica degli immaginari venisse universal­ mente adottata, in seguito alle pubblicazioni (che abbiamo citato poc'anzi) di Gauss, in Germania, ai lavori di Hamilton e Cayley sui sistemi ipercomplessi, in Inghilterra, ed infine, in Francia, all'assenso di Cauchy,5 e solo pochi anni prima che Riemann - con una esten­ sione geniale - ampliasse ancora il ruolo della geometria nella teoria delle funzioni analitiche e creasse al tempo stesso la topologia. • All'opposto di Gauss, Wessel e Argand si preoccupano piu di giustificare i calcoli sui numeri complessi che di servirsi per nuove ricerche della rappresentazione geo­ metrica che essi propongono; Wessel non ne indica alcuna applicazione, e la sola che ne dà Argand è una dimostrazione del teorema di d'Alembert-Gauss, la quale altro non è se non una variante della dimostrazione di d'Alembert e che si presta alle stesse obiezioni. • Nei suoi primi lavori sugli integrali di funzioni di variabile complessa (fra il 1814 ed il 1826) Cauchy considera i numeri complessi come espressioni" simboliche" e non li identifica ai punti del piano; il che non gli vieta di associare costantemente al numero x + iY il punto (x,y) e di servirsi liberamente del linguaggio della geometria a questo proposito.

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La misura degli angoli, per mezzo degli archi che essi sotten­ dono su un cerchio, è antica quanto la stessa nozione di angolo, ed era già nota ai babilonesi. Da essi infatti noi abbiamo tratto e con­ servato l'unità di misura degli angoli: il grado; per loro, del resto, si trattava solo di misure di angoli compresi fra ()o e 3600, il che era suf­ ficiente, dato che ad essi gli angoli servivano soprattutto per localiz­ zare le posizioni degli oggetti celesti in punti determinati delle loro traiettorie apparenti ed a costruire tavole che dovevano servire a fini scientifici o astrologici. Per i geometri greci dell'epoca ellenica poi, la definizione di an­ golo (Elementi di Euclide, I, deff. 8 e 9) è ancora piu limitata, poiché essa non si applica che agli angoli inferiori a due retti; e poiché d'al­ tra parte la loro teoria dei rapporti e della misura riposava sul paragone fra multipli arbitrariamente grandi delle grandezze misurate, gli an­ goli non potevano per loro essere una grandezza misurabiIe, no­ nostante si trovino naturalmente anche in loro le nozioni di angoli eguali, di angoli piu grandi o piu piccoli l'uno dell'altro e della somma di due angoli, quando essa non superi due retti. Come l'addizione delle frazioni, la misura degli angoli deve essere stata dunque ai loro occhi un procedimento empirico senza alcun valore scientifico. Questo punto di vista è splendidamente illustrato dall'ammirevole memoria di Archimede sulle spirali ([3b], t. II, pp. 1-121) dove, non potendo de­ finirle con la proporzionalità fra raggio vettore ed angolo, ne dà una definizione cinematica (def. 1, p. 44; v. enun. della prop. 12, p. 46), dalla quale egli riesce a trarre, come mostra il seguito della sua opera, tutto ciò che la nozione generale di misura degli angoli gli avrebbe offerto se gli fosse stata nota. Quanto agli astronomi greci, pare che, su questo argomento come su altri, si siano accontentati di seguire i loro predecessori babilonesi. Anche qui, come per l'evoluzione del concetto di numero reale (v. p. 152), il rilassamento dell'amore al rigore, durante la decadenza della scienza greca, facilita il ritorno ad un punto di vita"ingenuo," che sotto certi aspetti si avvicina al nostro piu della rigida concezione euclidea. Cosi un malaccorto interpolatore inserisce in Euclide la famosa proposizione (Elementi di Euclide, VI, 33): "Gli angoli sono proporzionali agli archi che essi sottendono in un cerchio,"6 ed un • Il fatto che si tratti proprio di una interpolazione è assicurato dalla assurdità della dimostrazione, goffamente ricalcata sui paradigmi classici del metodo di Eudosso. È evidente del resto che questo risultato è del tutto fuori posto alla fine del Libro VI. È curioso vedere Teone, nel IV secolo d.C., attribuirsi ingenuamente il merito di aver

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chiosatore anonimo che commenta la " dimostrazione" di questa proposizione, non esita ad introdurre, naturalmente senza alcuna giustificazione, archi eguali a multipli arbitrariamente grandi di una circonferenza, e angoli corrispondenti a questi archi ([80], t. V, p. 357). Lo stesso Viète, nel XVI secolo, il quale pure sembra assai vicino alla nostra concezione moderna dell'angolo quando scopre che la equazione sen nx= sen IX ha piu radici, otteneva però solamente radici corrispondenti ad angoli inferiori a 2 retti ([233], pp. 305-313). Solo nel XVII secolo questo concetto viene superato in maniera definitiva e, dopo che la scoperta di Newton degli sviluppi in serie di sen x e cos x ebbe fornito espressioni di queste funzioni, valevoli per tutti i valori della variabile, si trova infine in Eulero, a proposito dei loga­ ritmi dei numeri " immaginari,'� il concetto preciso della nozione di misura di un angolo qualunque ([81a], (1), t. XVII, p. 220). La definizione classica di misura di un angolo per mezzo della lunghezza di un arco di cerchio, è, s'intende, non solamente intuitiva, ma essenzialmente corretta; perché tuttavia essa sia anche rigorosa, è necessaria la nozione di lunghezza di una curva, vale a dire il cal­ colo integrale. Per quanto riguarda le strutture che entrano in gioco, si tratta di un procedimento molto contorto per cui è possibile ser­ virsi esclusivamente della teoria dei gruppi topologici; l'esponenziale reale e quello complesso appaiono cosi come derivanti da una medesima fonte, e cioè dal teorema che caratterizza " i gruppi ad un parametro."

innestato su questa un'altra interpolazione in cui pretende di provare che le " aree dei settori di un cerchio sono proporzionali ai loro angoli al centro," ([80], t. V, p. 24) e tutto ciò sei secoli dopo che Archimede aveva determinato l'area dei settori di spirale.

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Capitolo quindicesimo Spazi metrici

Come abbiamo già detto (v. p. 147), la nozione di spazio metrico fu introdotta nel 1906 da M. Fréchet e sviluppata qualche anno piti tardi da F. Hausdorff nella sua Mengenlehre. Essa acquistò grande im­ portanza dopo il 1920, da una parte in seguito ai lavori fondamentali di S. Banach e della sua scuola sugli spazi normati e sulle loro appli­ cazioni all'analisi funzionale (v. pp. 230-234), e dall'altra per l'inte­ resse che presenta la nozione di valore assoluto in aritmetica ed in geometria algebrica (ove, specialmente, il completamento in rappor­ to ad un valore assoluto si dimostra molto fecondo). Al periodo 1920-1930 appartiene tutta una serie di studi intra­ presi dalla scuola di Mosca sulle proprietà della topologia di uno spazio metrico, lavori che miravano in particolare ad ottenere condi­ zioni necessarie e sufficienti affinché una data topologia sia metriz­ zabile. È questo movimento di idee che suscita l'interesse per il con­ cetto di spazio normale, definito nel 1923 da Tietze, ma la cui im­ portanza fu riconosciuta solo in seguito ai lavori di Uryson [229] sul prolungamento delle funzioni continue numeriche. Se si esclude il caso banale delle funzioni di una variabile reale, il problema del­ l'estensione a tutto lo spazio di una funzione continua numerica de­ finita in un insieme chiuso era stato trovato per la prima volta (nel caso del piano) da H. Lebesgue [143d] ed inoltre, prima del risultato definitivo di Uryson, esso era stato risolto, per gli spazi metrici, da H. Tietze [223]. L'estensione del problema al caso delle funzioni a va­ lori in uno spazio topologico qualunque ha assunto negli ultimi anni considerevole importanza in topologia algebrica. Studi recenti hanno inoltre messo in evidenza che, in tali problemi, il concetto di spazio normale è poco pratico perché offre ancora troppe possibilità di " pa­ tologia," ed il piti delle volte va sostituito ad esso il concetto piti re­ strittivo di spazio paracompatto, introdotto nel 1944 da J. Dieudonné [69a]. In questa teoria il piti notevole risultato è il teorema di A. H. Stone [218),1 per cui ogni spazio metrizzabile è paracompatto. l

Questo teorema ha permesso di dare al problema della metrizzazione una solu-

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Già abbiamo segnalato (v. p. 158) gli importanti lavori della fine del XIX secolo e degli inizi del XX (E. Borel, Baire, Lebesgue, Osgood W. H. Young) sulla classificazione degli insiemi di punti negli spazi Rn e sulla classificazione e la caratterizzazione delle funzioni numeriche ottenute iterando, a partire dalle funzioni continue, il processo di passaggio al limite (per successioni di funzioni). Ben presto ci si ac­ corse che gli spazi metrici costituivano lo sfondo naturale per le ri­ cerche di questo genere, il cui sviluppo dopo il 1910 è dovuto soprat­ tutto alle scuole russa e polacca. Sono appunto esse che hanno fra l'altro messo in luce l'importanza fondamentale sostenuta nell'analisi moderna dalla nozione di insieme magro e dal teorema sull'interse­ zione numerabile di insiemi aperti ovunque densi in uno spazio me­ trico completo - teorema dimostrato indipendentemente, prima da Osgood [173] per la retta numerica, e poi da Baire [9b] per gli spazi Rn. D'altra parte, nel 1917, Souslin [211], correggendo un errore di Lebesgue, dimostrava che l'immagine continua di un insieme bore­ liano non è necessariamente boreliana, ed arrivava cosi alla definizione ed allo studio della piu vasta categoria di insiemi, chiamati da allora in poi " analitici" o " sousliniani." Dopo la morte prematura di Sou­ slin questi studi furono proseguiti soprattutto da N. Lusin (le cui idee avevano ispirato il lavoro di Souslin) e dai matematici polacchi (v. [152] e [139b]). L'importanza attuale di questi insiemi è dovuta soprattutto alla loro applicazione alla teoria dell'integrazione (dove, grazie alle loro speciali proprietà, permettono costruzioni che sareb­ bero altrimenti impossibili su insiemi misurabili qualsiansi) ed alla teoria moderna del potenziale, dove il teorema fondamentale sulla capacitabilità degli insiemi sousliniani, dimostrato recentissimamente da G. Choquet [48], si è già rivelato ricco di svariate applicazioni.

zione piu soddisfacente che non i criteri ottenuti intorno al 1930 dalla scuola russo-po­ lacca (" criterio di Nagata-Smirnov ") Bisogna tuttavia osservare che fino ad ora questi criteri non hanno ottenuto alcuna applicazione. Come spesso accade nella storia della ma­ tematica, sembra che l'importanza del problema della metrizzazione risieda non tanto nella sua soluzione quanto nelle nuove nozioni delle quali esso ha favorito lo sviluppo. .

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Capitolo sedicesi1llo Calcolo

inftnitesimale

Nel 1604, all'apogeo della sua carriera scientifica, Galileo crede di dimostrare che, in un movimento rettilineo in cui la velocità cresca proporzionalmente al cammino percorso, la legge di movi­ mento sia appunto quella (x ct2) che egli ha scoperto nella caduta dei gravi ([93b], t. X, pp. 115-116). Fra il 1695 ed il 1700 non c'è vo­ lume degli Acta Eruditorum pubblicati mensilmente a Lipsia in cui non appaiano delle memorie di Leibniz, dei fratelli Bernoulli, del mar­ chese de l'Hòpital riguardanti, con notazioni abbastanza prossime a quelle di cui ancor oggi ci serviamo, i piu svariati problemi del cal­ colo differenziale, del calcolo integrale e del calcolo delle variazioni. È quindi pressappoco nell'intervallo di un secolo che si è forgiato il calcolo infinitesimale o, come lo definiranno poi gli inglesi, il calcolo per eccellenza (" calculus"); quasi tre secoli di uso costante non sono ancora riusciti a smussare completamente questo incomparabile strumento. I greci non possedettero né immaginarono niente di simile. Essi senza dubbio conobbero, non foss'altro che per rifiutarsi di usarlo, un calcolo algebrico, ossia quello dei babilonesi, di cui una parte della loro geometria era probabilmente soltanto una trascrizione; è tuttavia nell'ambito dell'invenzione geometrica che si sviluppa la loro crea­ zione matematica forse piu geniale: il metodo per trattare quei po­ blemi che per noi competono al calcolo integrale. Eudosso, trattando del volume del cono e della piramide, ne aveva dato i primi modelli che Euclide ci ha piu o meno fedelmente tramandato ([80], Libro XII, propp. 7 e 10). Ma a questi problemi è soprattutto dedicata quasi tutta l'opera di Archimede [3b e c ] che, per un caso singolare, ci è persino concesso di leggere nel testo originale, in quel sonoro dialetto dorico che gli era servito per redigere tanto accuratamente la maggior parte dei subi scritti (fino a quello, ritrovato recentemente, in cui espone i procedimenti " euristici" in base ai quali è giunto a qualcuno dei suoi migliori risultati ([3b], t. II, pp. 425-507)). Ma appunto in questo sta una delle manchevolezze del metodo di " esaustione" di Eudosso: =

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irreprensibile come metodo di dimostrazione (una volta ammessi certi postulati), esso non è un metodo di scoperta; la sua applicazione esige preliminarmente la conoscenza del risultato da dimostrare; ed infatti Archimede dice che "buona parte dei risultati, riguardanti il cono e la piramide... , dimostrati per la prima volta da Eudosso, risalgono a Demo­ trito, che li aveva enunciati senza tuttavia dimostrarli" (Ioc. cit., p. 430). Questa circostanza rende particolarmente difficile l'analisi dettagliata dell'opera di Archimede, analisi che, a dire il vero, non sembra es­ sere stata ancora intrapresa da nessuno storico moderno; a tale pro­ posito noi ignoriamo fino a qual punto egli conoscesse e valutasse l'importanza dei legami esistenti fra i diversi problemi da lui trattati: legami che noi esprimeremmo dicendo che lo stesso integrale in­ terviene in piu questioni sotto aspetti geometrici diversi. Conside­ riamo ad esempio i seguenti problemi, il primo risolto da Eudosso e gli altri da Archimede: il volume della piramide, l'area del segmento di parabola, il centro di gravità del triangolo e l'area della spirale detta di Archimede (p [hl in coordinate polari); essi dipendono =

tutti dall'integrale

J

x2dx, e, senza allontanarsi affatto dallo spirito

del metodo d'esaustione, possono essere ricondotti tutti al calcolo di " somme di Riemann" della forma Lan2• Cosi infatti Archimede •

tratta della spirale ([3b], t. II, pp. 1-121), in base ad un)emma secondo il quale N N N3 < 3 � n2 N3 + N2 + � n < (N + 1)3. =

n�l

n-l

Quanto al centro di gravità del triangolo, egli dimostra (per esaustione, mediante una decomposizione in strati paralleli), che esso si trova su ciascuna delle mediane, e quindi nel loro punto di incontro ([3b], t. II, pp. 261-315). Per la parabola, egli ci offre tre procedimenti: uno, euristico, destinato solo a " dare qualch everosimiglianza al risl/ltato," riporta il problema al centro di gravità del triangolo, con un ragio­ namento di statica nel corso del quale non esita a considerare il seg­ mento di parabola come la somma di un'infinità di segmenti di rette parallele all'asse ([3b], t. II, pp. 435-439); un altro metodo riposa su un principio analogo, ma è redatto in modo estremamente rigoroso per esaustione ([3b], t. II, pp. 261-315); un'ultima dimostrazione, estremamente ingegnosa, ma di minor portata, dà l'area cercata come somma di una serie geometrica in base a particolari proprietà della parabola. Nulla indica una relazione fra questi problemi ed il volume

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della piramide; ed è persino specificato ([3b], t. II, p. 8) che i pro­ blemi relativi alla spirale non hanno " nulla in comune " con certi altri relativi alla sfera ed al paraboloide di rivoluzione di cui Archi­ mede ebbe occasione di parlare nella stessa introduzione e fra i quali se ne trova uno (il volume del paraboloide) espresso dall'integrale

I

xdx.

Come si vede da questi esempi, e senza far uso di particolari arti­ fici, il principio di esaustione è il seguente: con una decomposizione in "somme di Riemann " si ottengono degli estremi superiori ed inferiori per la quantità studiata, estremi che vengono confrontati direttamente con l'espressione prevista per tale quantità, oppure con gli estremi corrispondenti per un problema analogo già risolto. Il confronto (che, non avendo a disposizione i numeri negativi, si fa necessariamente in due parti) è introdotto dalle parole rituali: " se no, effettivamente, [tale quantità] sarebbe piu grande o piu pic­ cola; supponiamo che possa essere piu grande, ecc... ; oppure: sup­ poniamo che possa essere piu piccola ecc.: " donde il nome di me­ todo " apagogico " o " per riduzione all'assurdo" ( " &1tCxy(ùy� E�C:; &Mvoc':"o'J") che gli diedero gli scienziati del XVII secolo. In forma analoga troviamo redatta la determinazione di Archimede della tan­ gente alla spirale ([3b], t. II, pp. 62-76), risultato isolato, ed il solo che si possa citare come antica fonte del " calcolo differenziale," oltre alla determinazione relativamente facile delle tangenti alle coniche, ed a qualche problema sui massimi e sui minimi. Se infatti, per quanto concerne l'" integrazione," un immenso campo di ricerche si apriva ai matematici greci, non solo per la teoria delle aree e dei volumi, ma anche per la statica e l'idrostatica, essi, mancando l'impulso di pro­ blemi di cinematica, non ebbero l'occasione di affrontare seriamente la differenziazione. È ben vero che Archimede dà una definizione cinema­ tica della sua spirale, e noi, non conoscendo cosa abbia potuto con­ durlo alla conoscenza della tangente di quest'ultima, abbiamo il diritto di chiederci se egli non avesse qualche idea della composizione dei mo­ vimenti. Ma, in tal caso, non avrebbe forse applicato un metodo cosi potente ad altri problemi dello stesso genere? È piu verosimile che egli si sia servito di qualche procedimento euristico di passaggio al limite che i risultati a lui noti sulle coniche potevano suggerirgli; codesti, s'intende, sono di natura essenzialmente piu semplice perché è possibile costruire i punti di intersezione di una retta e di una co­ nica e, di conseguenza, determinare la condizione di coincidenza di

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questi punti. Quanto alla definizione di tangente, questa è concepita come una retta che, in prossimità di un certo punto della curva, lascia l'intera curva da una stessa parte; la sua esistenza è ammessa ed è anche ammesso che ogni curva si componga di archi convessi; a questo punto, per provare che una retta è tangente ad una curva, occorre stabilire certe disuguaglianze, cosa che, s'intende, viene com­ piuta con la massima esattezza. Dal punto di vista del rigore i metodi di Archimede non lasciano affatto a desiderare; ancora durante il XVII secolo, quando i matema­ tici piu scrupolosi volevano dissipare ogni ombra di dubbio da un risultato particolarmente delicato, si servivano di una dimostrazione " apagogica" ([82], t. I, pp. 211-254; trad. francese, t. II, pp. 181-215) e ([175], t. VIII, pp. 249-282). Quanto alla fecondità di tali metodi, l'opera di Archimede ne è una sufficiente testimonianza. Ma per avere il diritto di scorgervi un " calcolo integrale," bisognerebbe rintrac­ ciarvi, attraverso la molteplicità delle apparenze geometriche, qualche abbozzo di classificazione dei problemi secondo la natura dell'" in­ tegrale" ad essi legato. Nel XVII secolo, come vedremo, la ricerca di una tale classificazione diviene a poco a poco una delle principali preoccupazioni dei geometri; il fatto che non se ne trovi traccia in Archimede non è forse un segno che tali riflessioni gli sembravano troppo " astratte" e che egli, al contrario, si è sempre tenuto di pro­ posito ed in ogni occasione il piu vicino possibile alle proprietà specifiche della figura di cui si stava occupando? E non dobbiamo dunque concludere che questa mirabile opera dalla quale è sorto tutto il calcolo integrale (come del resto ammettono coloro che l'hanno creato) è in qualche modo in antitesi con il calcolo integrale stesso? Del resto, in matematica, non si può impunemente permettere che si apra un abisso fra scoperta e dimostrazione. In momenti fa­ vorevoli, il matematico, senza venir meno al suo rigore, non ha che da mettere per iscritto le sue idee piu o meno come le ha pensate; altre volte può sperare di ottenere lo stesso risultato, a prezzo di un felice mutamento nel linguaggio e nelle notazioni. Spesso però deve rassegnarsi a scegliere fra metodi di esposizione scorretti, ma forse fecondi, e metodi corretti che gli permettono però di esprimere il suo pensiero solo deformandolo e a prezzo di un faticoso sforzo. Nessuna delle due vie è scevra di pericoli. I greci scelsero la seconda, e forse in questo, piu ancora che nell'effetto sterilizzante della con­ quista romana, va cercata la ragione del sorprendente arresto della loro matematica quasi immediatamente successivo alla sua piu bril-

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lante fioritura. È stata avanzata l'ipotesi, non inverosimile, che l'in­ segnamento orale dei successori di Archimede e di Apollonio con­ tenesse molti nuovi risultati senza che essi ritenessero necessario infliggersi lo straordinario sforzo di una pubblicazione conforme ai canoni richiesti. Non sono piu questi gli scrupoli che, in ogni caso, trattengono i matematici del XVII secolo, quando, di fronte ai nuovi problemi che li assalgono da tutte le parti, cercano nello studio assi­ duo degli scritti di Archimede i mezzi per superarli. Mentre i grandi classici della letteratura e della filosofia greca, furono tutti stampati in Italia, da Aldo Manuzio e dai suoi emuli, e quasi tutti prima del 1520, solo nel 1544, a Basilea e ad opera di Hervagius, apparve l'edizione principe di Archimede, greca e latina [3a], senza che nessuna pubblicazione anteriore in latino le prepa­ rasse la via. Assorbiti nelle loro ricerche algebriche, i matematici di quei tempi erano ben lungi dal subirne !'influsso e fu necessario attendere Keplero e Galileo, ambedue astronomi e fisici piu che matematici, perché questo influsso si manifestasse. A partire da allora, e senza interruzione fino al 1670, nessun nome, negli scritti dei fondatori del calcolo infinitesimale, ricorre piu spesso di quello di Archimede. Numerose le traduzioni ed i commenti; tutti, da Fermat a Barrow, lo citano continuamente; tutti dichiarano di trovarvi al tempo stesso un modello ed una fonte di ispirazione. Come vedremo, non tutte queste dichiarazioni vanno prese alla lettera; in ciò appunto risiede una delle difficoltà che si oppongono ad una esatta interpretazione di tali scritti. Lo storico deve anche tenere conto dell'organizzazione del mondo scientifico di quei tempi, che, ancora molto difettosa agli inizi del XVII secolo, soltanto verso la fine dello stesso secolo, con la creazione delle società di studiosi e dei periodici scientifici ed il consolidamento e lo sviluppo delle uni­ versità, finirà per essere molto simile a quella dei giorni nostri. Sprov­ visti di qualsiasi periodico fino al 1665, i matematici non avevano altra scelta, per far conoscere i loro lavori, che lo scambio epistolare o la pubblicazione di un libro, il piu delle volte a proprie spese o con il contributo di un mecenate, se pur riuscivano a trovarne uno. Gli editori e stampatori capaci di simili imprese erano rari e talvolta poco sicuri. Dopo le lunghe attese e gli innumerevoli contrattempi che una pubblicazione di questo genere implicava, l'autore doveva il piu delle volte far fronte a controversie interminabili, provocate da avversari non sempre in buona fede e che si protraevano a volte con tono sorprendentemente astioso; infatti, a causa dell'incertezza ge175

nerale in cui ci si trovava a proposito dei principi stessi del calcolo infinitesimale, non era difficile per nessuno trovare punti deboli, o per lo meno oscuri e contestabili, nei ragionamenti dei rivali. Si capisce come, in queste condizioni, molti scienziati amanti della tranquillità si contentassero di comunicare a qualche anùco scelto i loro metodi ed i loro risultati. Alcuni, e soprattutto certi scienziati dilettanti quali Mersenne a Parigi e piu tardi Collins a Londra, coltivavano una vasta corrispondenza in tutti i paesi, con la quale rendevano noti dei brani tratti ora di qua ora di là e non senza me­ scolarvi sciocchezze di proprio pugno. In possesso di "metodi" che, per mancanza di nozioni e di definizioni generali, essi non po­ tevano redigere sotto forma di teorenù e neppure formulare con qualche precisione, i matematici erano costretti a saggiarli su una quantità di casi particolari, e credevano di non poter fare niente di meglio, per controllarne la validità, che lanciare delle sfide ai loro col­ leghi, accompagnandole talvolta con la pubblicazione dei propri ri­ sultati in linguaggio cifrato. La gioventu studiosa viaggiava, e forse piu di oggi; le idee di un certo scienziato si diffondevano talvolta meglio attraverso i viaggi di uno dei suoi allievi che attraverso le sue pubblicazioni; ma questa poteva essere ancora un'altra causa di malintesi. Infine, poiché gli stessi problenù si ponevano necessaria­ mente ad una moltitudine di matematici (alcuni dei quali assai valenti) che possedevano solo una conoscenza imperfetta dei reciproci ri­ sultati, non potevano mancare le continue rivendicazioni di priorità e non era raro che ad esse si unissero le accuse di plagio. Lo storico deve dunque ricercare i suoi documenti, ancor piu nelle lettere degli scienziati che nelle pubblicazioni propriamente dette. Ma, mentre per esempio le lettere di Huygens sono state tramandate fino a noi e sono state oggetto di una pubblicazione perfetta [126b], quelle di Leibniz non sono state pubblicate che in modo difettoso e frammentario, quelle di Newton non lo sono state affatto, e molte al­ tre sono andate perdute senza rimedio. Le ricerche piu recenti; fondate sullo studio dei manoscritti, hanno messo in evidenza in modo incon­ futabile almeno un punto che le beghe di parte avevano reso oscuro: ogniqualvolta uno dei grandi matematici di allora testimoniava sui propri lavori, sull'evoluzione del proprio pensiero, sugli influssi che aveva subito e su quelli che aveva respinto, egli lo faceva in modo onesto e sincero ed in assoluta buona fede. l Queste preziose testi1

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Ciò può dirsi ad esempio di Torricelli (v. [175].

t.

VIII, pp. 181-194) e di Leibniz

monianze, pervenuteci in gran copia, possono dunque essere utiliz­ zate con piena fiducia, e non c'è bisogno che lo storico si trasformi nei loro riguardi in giudice istruttore. Per il resto, la maggior parte delle questioni di priorità che sono state sollevate sono del tutto pri­ ve di senso. È ben vero che quando Leibniz adottava la notazione dx per il "differenziale, " ignorava che da una dozzina di anni New­ ton si serviva di x per la " flussione"; ma che importanza avrebbe avuto il fatto che egli l'avesse saputo? Per fare un esempio piu istrut­ tivo: da chi ed in quale epoca è stato scoperto il teorema log x =

=

I : ? La formula,

come l'abbiamo ora indicata, è di Leibniz

poiché ambedue i membri sono scritti con sue notazioni. Lo stesso Leibniz e Wallis l'attribuiscono a Gregorio de Saint-Vincent. Questo ultimo, nel suo Opus Geometricum[103] (apparso nel 1647, ma redatto, egli dice, già da molto tempo), dimostra solo l'equivalente di quanto segue: se 1(a, b) indica l'area di un segmento iperbolico a< x < (b/a)n fa si che 1(a', b')