Alle radici del simbolico. Transoggettività come spazio pensante nella cura psicoanalitica 9788820750626


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Italian Pages 188 [184] Year 2010

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Table of contents :
Prefazione - Benedetti, Gaetano
Il pensiero dell’esperienza - Faccincani, Cristina
La grazia del no : capacità negativa dell’analista e fenomeni transizionali nel processo di cura - Faccincani, Cristina
Rottura psicotica del setting : una storia clinica - Faccincani, Cristina
Udir con gli occhi : spazi terapeutici fra sguardo e parola - Faccincani, Cristina
Il testimone non assumibile : percezione e incidenti del pensiero - Faccincani, Cristina
Paradossi del materno - Faccincani, Cristina
Poteri affettivi e disidentificazioni - Faccincani, Cristina
Itinerari minimi nel mondo dei fenomeni dell’esperienza psicotica - Faccincani, Cristina
Postfazione : psicoanalisi e filosofia - Zamboni, Chiara
Riferimenti bibliografici -
Indice dei nomi -
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Alle radici del simbolico. Transoggettività come spazio pensante nella cura psicoanalitica
 9788820750626

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Inconscio e cultura 30 Collana fondata da Aldo Carotenuto

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Cristina Faccincani

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Alle radici del simbolico Transoggettività come spazio pensante nella cura psicoanalitica

Prefazione di Gaetano Benedetti Postfazione: Psicoanalisi e filosofia di Chiara Zamboni

Liguori Editore

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Questa opera è protetta dalla Legge 22 aprile 1941 n. 633 e successive modificazioni. L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal. Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2010 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Giugno 2010 Faccincani, Cristina : Alle radici del simbolico. Transoggettività come spazio pensante nella cura psicoanalitica/Cristina Faccincani Inconscio e cultura Napoli : Liguori, 2010 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 5062 - 6 1. Psicoanalisi 2. Setting psicoanalitico

I. Titolo

II. Collana

III. Serie

Aggiornamenti: ————————————————————————————————————————— 17 16 15 14 13 12 11 10 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

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INDICE

XI

1

Prefazione di Gaetano Benedetti Il pensiero dell’esperienza Interpretazione, evidenza ed evento 4; Raccontare 9; Interrogare 13; Si può pensare una disciplina per l’evento? 15; Questioni aperte 18.

23

La grazia del no. Capacità negativa dell’analista e fenomeni transizionali nel processo di cura

37

Rottura psicotica del setting: una storia clinica La terapia 39; Separazione e fenomeni del transfert psicotico 45; Epilogo 49; Tracce per una discussione 53.

61

“Udir con gli occhi”: spazi terapeutici fra sguardo e parola

75

Il testimone non assumibile: percezione e incidenti del pensiero

89

Paradossi del materno A posteriori: sentimenti omicidi e onnipotenza del materno 101.

109

Poteri affettivi e disidentificazioni

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viii

121

indice

Itinerari minimi nel mondo dei fenomeni dell’esperienza psicotica

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Apatia 121; Tempo: invarianza e ripetizione 126; Sentire/vedere 129; Corpo psicotico 131.

139

Postfazione: Psicoanalisi e filosofia di Chiara Zamboni

161

Riferimenti bibliografici

169

Indice dei nomi

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a p. con gioia

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Ringrazio Gaetano Benedetti per la forza derivatami dall’esperienza fatta insieme nell’analisi didattica a Basilea, per i suoi insegnamenti e per i suoi incoraggiamenti alla mia autonomia di pensiero. Maria Vittoria Squillante e Chiara Zamboni hanno discusso con me a fondo e con passione intere parti del libro; Annarosa Buttarelli mi ha dato preziosi consigli; Maria Claudia Fava e Barbara Ferriani hanno letto il manoscritto e hanno condiviso con me i loro fruttuosi commenti: le ringrazio tutte per la fecondità e l’affetto del loro sostegno. Un ringraziamento va alle colleghe del gruppo del venerdì per l’intensità delle discussioni cliniche e alle amiche di Diotima per gli stimoli derivanti dalla mia partecipazione alla loro pratica filosofica. La mia gratitudine più intima e particolare va alle mie pazienti e ai miei pazienti per aver condiviso con me esperienze tanto profonde.

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PREFAZIONE

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di Gaetano Benedetti

È con vivo piacere che scrivo la presentazione di questo libro di Cristina Faccincani, libro che raccoglie alcuni suoi notevoli scritti di psicoterapia psicoanalitica clinica ed esistenziale, in parte finora inediti, in parte pubblicati; da un canto lezioni all’Università di Verona, dall’altro meditazioni sui casi dei suoi pazienti. Noi terapeuti sentiamo talora, dopo questi incontri tanto umani e significativi, l’esigenza di affidare alla scrittura i nostri pensieri e gli affetti che ci hanno colpito durante le sedute, le parole dette ed ascoltate, le nostre riflessioni. In questi appunti di Cristina Faccincani, rielaborati poi in vere lezioni, si sente tutto il fascino della psicoterapia nei suoi tanti casi, così diversi l’uno dall’altro, e nelle sue impreviste vicissitudini. Al vivo piacere di presentare quest’opera, che per la prima volta riunisce numerosi saggi e articoli, donandoci l’orizzonte tutto del pensiero dell’autrice, non è estraneo il fatto che esso non mi è noto solo ‘dall’esterno’, ossia dalla pur attenta lettura dei manoscritti, ma anche dal di dentro, dai racconti della terapeuta quali emergevano nel corso delle nostre lunghe sedute analitiche. Si trattava di analisi didattica, in cui la terapeuta andava oltre i propri problemi e faceva suoi quelli dei suoi pazienti, la cui cura era il vero centro dell’analisi personale. Ricordo l’urgenza significativamente terapeutica di trasmettere a me i propri vissuti ed ascoltare le mie risposte, anche i miei silenzi. In queste sedute tutto era già stato detto nell’esposizione della terapeuta, ma in esse, anche tacendo, si rifletteva e si ripeteva il contatto profondo di lei con i suoi pazienti. Sono orgoglioso se qualche mia concezione ha permeato la riflessione di una grande terapeuta, quale è appunto l’autrice di questo

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xii

PREFAZIONE

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libro. Ma pur essendole maestro, ho sentito sin dal principio e poi sempre l’originalità delle sue vedute, dei suoi affetti, dei suoi orizzonti di pensiero; l’originalità con cui e in cui lei sa unire psicoanalisi e comprensione esistenziale, interpretazione e presa in carico del paziente, distanza analitica dal paziente e introiezione dei suoi problemi e conflitti, riflessione e identificazione. Tale integrazione del limite con la profondità della relazione era tanto più importante nei casi clinici in questione, in quanto i pazienti erano per lo più psicotici o presentavano una fase psicotica della loro psicopatologia, a contatto con la quale noi siamo sempre sia nel pericolo di rimanere al di fuori delle esperienze psichiche dei nostri interlocutori, che in quello, contrario, di spingere la nostra partecipazione sino a trovarci immobilizzati in una pericolosa simbiosi psichica coi pazienti stessi. Negli scritti così pieni di vita qui raccolti ritroviamo lo sforzo di dar conto di questa integrazione. Dalle analisi che la terapeuta fa della propria disposizione psichica a contatto con le aree psicotiche dei propri pazienti, alla ricerca di ciò che consente tale integrazione, emerge che a costituirne il contenitore adeguato, sarebbe proprio il funzionamento continuamente fluttuante, nel sé della terapeuta, fra la propria polarità separata e la propria polarità capace di immersione simbiotica. La relazione terapeutica viene di conseguenza descritta e pensata come un contenitore psichico sufficientemente amplificato per contenere la complessità dei fenomeni transizionali. E ciò non solo sul piano dell’oggetto ma, soprattutto, sul piano del soggetto, attraverso l’esercizio di una simbiosi attentamente controllata. Sarebbero proprio queste aree transizionali riferibili al soggetto che, in prospettiva, configurando una sorta di parametro, possono costituire la matrice psichica per l’ancoraggio necessario a circoscrivere e trasformare, per quanto possibile, le parti psicotiche. È proprio da e in questa matrice che si può operare, e ciò attraverso progressive discriminazioni fra interno ed esterno, fra mondo animato e mondo inanimato, fra soggetto e oggetto, fra io e non-io. Questo lavoro di discriminazione e di differenziazione diviene il fulcro di quella trasformazione delle aree psicotiche che rende possibile una loro parziale integrazione alle parti sane del paziente, ovvero consente di integrare le sue diverse identità.

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PREFAZIONE

xiii

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Direi qui che il metodo di lavoro dell’autrice è assai simile al mio, e tuttavia tutto suo; mai imitazione, sibbene autentica espressione della sua personalità. È forse tale affinità nella diversità che, nell’ambito di mie lezioni universitarie, ha suscitato in lei, tanti anni fa, il desiderio di venire a Basilea in analisi presso di me, analisi in cui io ho imparato da lei non meno di quanto le abbia insegnato. Negli scritti qui pubblicati, possiamo cogliere con grande chiarezza ed evidenza come i pensieri e gli affetti con cui Cristina Faccincani reagisce alle costellazioni psichiche ed affettive dei suoi pazienti siano spesso promotori di una dualità terapeutica, anche nelle situazioni di rifiuto e di frustrazione. Tali reazioni sono sempre guidate da un’attenta riflessione, ma nel contempo spontanee, vere comunicazioni dell’inconscio terapeutico, che parla al paziente senza parole, ma che spesso trova le parole solo nel superamento del “timore comunicativo”, come io lo chiamo. Si tratta di quel rispetto dell’esperienza profonda del paziente, che ci fa talora dubitare della possibilità di raggiungerlo con le nostre parole e che ci dà coscienza del rischio sempre presente di aumentare, senza volerlo, la sua solitudine. Metodo sì, e sempre autovigilanza, ma anche quella improvvisa spontaneità, non garantita da alcun metodo, e semplicemente mossa e sorretta da una disposizione etica, – spontaneità che, essa sola, può rompere il ghiaccio quasi secolare (intrafamigliare, transgenerazionale) in cui vivono spesso i nostri pazienti più gravi. Ricerca della verità analitica ed esistenziale, ma al contempo ricerca della “positivizzazione nel giudizio terapeutico” sono una prerogativa di queste terapie, presentate qui, certo per sommi capi, ai lettori. Tale ricerca proviene non solo dalla tecnica analitica, ma, insieme, da una profonda fiducia nelle possibilità dei pazienti, possibilità sempre sentite e pensate dall’analista come fondamento della terapia. In tali interpretazioni, che ritroviamo parzialmente descritte nei loro momenti salienti in questi saggi, ho sempre sentito, assieme alla comune costruzione di un futuro, anche la capacità di ‘muoversi’ psichicamente fin nell’infanzia e nel passato dei pazienti, di essere con loro presso i loro genitori, di condividere anche le ansie nascoste ai pazienti stessi perché mai rappresentate, rivivendole (a volte attraverso reazioni ed affetti assai contradditori per la terapeuta stessa) in modo che essi ne diventassero coscienti, anziché tradurle in comportamenti e sintomi psicotici.

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xiv

PREFAZIONE

Negli scritti qui presentati si coglie bene, nei vari casi clinici descritti, come la possibilità di accesso ad una rappresentazione, e quindi al pensiero e all’esperienza, sia da ricondurre, a quella dimensione creatrice di soggettività che scaturisce dal progressivo svilupparsi di aree transoggettive e transizionali. Il racconto, vivo ed appassionante, di particolari situazioni cliniche mette in luce infatti come queste aree costituiscano poi il supporto per un ampliamento ed un approfondimento della soggettività stessa e, di conseguenza, per un accesso ad una autentica dimensione intersoggettiva. Quel che ne risulta è un passato non solo ricordato, ma anche forgiato dalla terapeuta, un “soggetto transizionale”, come io lo denomino, che, costruendo un passato, diviene significativamente aperto al futuro. L’esito di siffatte terapie, non è soltanto clinico, anche se il miglioramento o la guarigione ne sono un aspetto essenziale. Al di là dell’esito clinico vi è un arricchimento della soggettività e della capacità di esperienza del paziente, visibile, già nel corso del processo terapeutico, nel suo usare progressivamente e in forma trasfigurata vecchie forme psicopatologiche per comunicare al terapeuta ciò che in lui si trasforma, movimento questo che nel mio pensiero ho concettualizzato come “psicopatologia progressiva”. In conclusione, credo che la lettura di questo importante libro, in cui è raccolta, in poche e dense pagine, una lunga esperienza clinica, nell’ambito pubblico e in quello privato, contribuirà non solo al dibattito interno alla psicoanalisi nella nostra cultura (la quale soprattutto attraverso la psicoterapia di pazienti psicotici si và arricchendo di nuove conoscenze e di nuovi problemi); ma anche ad un approfondimento dei problemi di conoscenza e di etica che oggi sorgono in chiunque abbia a che fare con l’uomo nella sua esistenza. Questo libro dimostra, ancora una volta, come ciò che resta sempre decisivo, nella e per la psicoanalisi, è il vincolo intrinseco fra clinica e pensiero. È solo nel radicamento del pensiero nella clinica che, per uno psicoanalista, si può legittimare un’intuizione e una visione della vita dell’uomo. Basilea, primavera 2008

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IL PENSIERO DELL’ESPERIENZA1

Ma da dove vengono le dottrine se non da ferite e aforismi vitali che sono altrettanti aneddoti speculativi con la loro carica di provocazione esemplare? Gilles Deleuze2

La terapia delle psicosi costituisce un ambito privilegiato per la riflessione sul pensiero dell’esperienza in psicoanalisi in quanto, in rapporto alla psicosi, c’è una vera e propria necessità che impone un percorso di rifondazione della funzione stessa del pensiero. Nella psicosi infatti ci sono spazi che sono chiusi al pensiero: intere aree del mondo interno non hanno accesso ad alcun tipo di rappresentazione, né attraverso la parola né attraverso le immagini, inoltre il pensiero può essere scisso, irretito, sostituito da interpretazioni deliranti, procedendo meccanicamente da elementi sensoriali che non si sono trasformati in esperienze percettive ed emotive. Un’immagine forte del possibile statuto del pensiero e della parola per lo psicotico appare nel singolare delirio di un paziente che spiegava le sue voci come provenienti dall’interno di enormi mucchi di spazzatura che lo circondavano: “Tutta questa spazzatura – diceva – è fatta di parole”. È indubitabile che nella pratica clinica incontriamo sempre un nucleo di irriducibilità comunque presente e resistente ad ogni rappre1 Una prima versione ridotta di questo testo è stata pubblicata con lo stesso titolo in Diotima (1999) Il profumo della maestra, Liguori, Napoli. 2 Gilles Deleuze (1969), Logique du sens, Les Editions de Minuit, Paris. Tr. it. di Mario De Stefanis, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1975, p. 133.

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ALLE RADICI DEL SIMBOLICO

sentazione di parola, ad ogni attività interpretativa, ma nella psicosi esso non è la matrice di un humus vitale che fertilizza altre esperienze possibili, altre narrazioni possibili, altre interpretazioni possibili, non è lo spazio dove la parola va sospesa. Nella psicosi si tratta piuttosto di una vasta terra di nessuno, uno “spazio che ha tagliato il tempo”3, spazio chiuso al pensiero e alla parola intesa come luogo dell’apertura al simbolico, allo scambio, alla relazione. Perché la parola sia aperta al simbolico è necessario che ci sia stata l’esperienza di una parola donata, vera, insatura, quindi riutilizzabile, declinabile. Nelle aree psicotiche tutto ciò è accaduto solo parzialmente, in modo più o meno incompleto: si tratta di territori muti, nei quali l’esperienza è organizzata diversamente, dove il pensiero non si è costituito come possibilità di discrimine e di soglia fra interno ed esterno, fra soggetto e oggetto, territori psichici dove pensiero e parola non svolgono una funzione di soggettivazione a partire dalla loro possibilità di strutturare differenze. Nella psicosi ci sono da un lato contenuti psichici non rappresentati, caotici, magmatici, nei quali la parola non ha introdotto cesure, dall’altro ci sono già delle interpretazioni molto strutturate (le interpretazioni deliranti) che vengono vissute come realtà concretamente dimostrata. Per la persona psicotica quegli enunciati che noi definiamo interpretazioni deliranti hanno infatti lo statuto di realtà concreta. Così, una contesa tra interpretazioni, le interpretazioni terapeutiche da una parte e le interpretazioni deliranti dall’altra, può risultare del tutto sterile; può succedere che in taluni passaggi del processo terapeutico l’interpretazione psicotica non venga minimamente scalfita, anzi finisca per vincere, procedendo da una necessità decisamente più forte. Lo strumento dell’interpretazione terapeutica è un atto di parola-pensiero che, a partire da una analitica dell’esperienza conscia e inconscia dell’intero campo della relazione, ricostella e rinarra in un’altra forma ciò che ha già una rappresentazione, facendo emergere un nuovo significato: è per questo che, in contatto con il mondo psicotico, laddove non abbiamo a che fare con rappresentazioni, tale strumento può rivelare tutta la sua insufficienza come fattore terapeutico e lo sforzo interpretativo la sua inadeguatezza e la sua possibile inanità. In relazione a tali aree psichiche non trasformate da rappresentazioni 3 Cfr. Alain Manier (1995), Le jour où l’espace a coupé le temps: Etiologie et clinique de la psychose, Editions La tempérance, Paris.

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IL PENSIERO DELL’ESPERIENZA

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assumerebbero, d’altra parte, particolare rilevanza terapeutica tutte quelle azioni affettive di tipo pre- o protosimbolico4 e presentazionale sulle quali possono (e debbono) poi, in un secondo tempo, essere innestate delle interpretazioni. In determinate fasi del processo di cura, può accadere tuttavia che, in rapporto al funzionamento psicotico, non solo il funzionamento interpretativo, ma il pensiero stesso come funzione già costituita subisca un vero e proprio scacco. Si tratta di situazioni limite nelle quali è l’accettazione del vissuto di questo scacco nel terapeuta che può aprire un percorso a ritroso nel paziente di rifondazione del pensiero a partire dall’esperienza. La relazione terapeutica diviene qui la matrice di una strutturazione d’esperienza che procede dal contatto con un livello primario di contenuti caotici percettivi ed emotivi, i quali trovando un contenitore e un vaglio, trovano le condizioni per l’innesco di un processo trasformativo. In questo processo sarebbero le immagini a far da ponte fra diversi contenuti del mondo interno, immagini come passaggio necessario per arrivare a strutturare pensiero. L’esperienza di scacco del pensiero-parola già costituito può trasformare l’analista nel contenitore di un vuoto, rendendolo esposto, nella relazione, al divenire pura evidenza, agli occhi del paziente, di quelle particolari immagini emotive che possono costituire, per il paziente stesso, il supporto per l’accesso ad una trama d’esperienza generatrice di pensiero, proprio laddove il delirio aveva sostituito esperienza e pensiero. Se c’è una disponibilità del terapeuta a questo tipo di aperture e di rinunce radicali ad utilizzare l’interpretazione come difesa dall’angoscia, si apre nella relazione terapeutica lo spazio per il realizzarsi di un vero e proprio evento.5 Un senso può inaugurarsi: un senso da cui può scaturire pensiero nella sua forma sorgiva, pensiero che si fa laddove le parole già date vengono meno. Venendo a crearsi uno spazio vuoto, si riapre la possibilità di un contatto percettivo del senso sul quale può venire rifondato il rapporto fra senso e significati, fra pensiero e realtà: a quel punto possono essere innestate nuove interpretazioni, interpretazioni che da quel punto in poi possono vivere come tali e generare a loro volta pensiero senza venire ri-costellate nel delirio.

4 Cfr. Gaetano Benedetti e Maurizio Peciccia (1995), Sogno Inconscio Psicosi, Metis, Chieti. 5 Sul tema dell’evento vedi G. Deleuze, Logica del senso, cit., pp. 133-137.

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ALLE RADICI DEL SIMBOLICO

Interpretazione, evidenza ed evento

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L’occhio percepisce ciò che la mente non sa definire. Paul Valéry6

Per poter accostare il problema del concatenamento fra sospensione dell’interpretazione, evidenza, accesso al senso attraverso l’esperienza, e rifondazione del pensiero, voglio innanzitutto citare, a titolo di esempio, un aneddoto clinico risalente ai primi anni della mia attività terapeutica con pazienti psicotici, a partire dal quale prendere poi in considerazione e sviluppare quei concetti che possono contribuire a far luce sulla complessità di tale concatenamento. Lavoravo con un paziente che aveva la convinzione assoluta di essere nocivo, di avere una negatività che infettava la realtà. Lui si percepiva come una sorta di avvelenatore, per cui tutte le cose con cui entrava in contatto (oggetti, persone) venivano investite da questa negatività interna e, in quanto danneggiate da lui, subivano una metamorfosi negativa. Avevamo lavorato molto su questo, io mi ero prodigata in interpretazioni, cercando di dare altre spiegazioni, altre restituzioni di senso del delirio, senza alcun risultato davvero significativo fino a che un giorno successe una cosa sconcertante. Prima di andare in studio quel giorno ero andata a comperare un bellissimo mazzo di tulipani gialli, li avevo messi in un vaso poco prima di ricevere il paziente. Arrivò, raccontò le cose successe quella settimana da cui estraeva il solito significato. Io ricominciai a dire che si poteva darne un’altra interpretazione, si poteva vedere le cose in un altro modo, opponendo il mio ritornello al suo... quando lui mi disse: “Ma dottoressa, guardi sul suo tavolo, sono stato io!”. Mi sono girata e i tulipani si erano completamente afflosciati, le corolle reclinate sul tavolo, come morti. Ho avuto un’esperienza di vacillamento, di spiazzamento, nella quale, ad un iniziale vissuto di mancanza di via d’uscita, era subentrato un movimento psichico di ricerca di possibilità di arrendermi a viverne intensamente il senso, in concomitanza con l’interruzione violenta dell’attività interpretativa. Naturalmente io non potevo pensare che ciò che sosteneva il paziente si fosse prodotto su quei tulipani in modo lineare. Ma nello stesso tempo era avvenuto, nel qui ed ora dell’incontro terapeutico. Era uno di quei fenomeni che avvengono in sincronicità, ai quali appunto non si può applicare una logica di causalità lineare. Di fatto quell’esperienza ha portato, nella relazione tra me e il paziente, la possibilità di parlare di questo suo vissuto in modi completamente 6 Paul Valéry (1926), Le retour de l’Hollande. Oeuvres I, Gallimard, Paris 1957, p. 852.

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IL PENSIERO DELL’ESPERIENZA

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diversi. Io avevo avuto uno shock emotivo che mi aveva consentito di entrare in contatto profondo con ciò che il paziente provava quando viveva la realtà infettata dalla sua negatività. Avevo avuto un’esperienza di forte spiazzamento, ero stata attraversata dalle “sue” percezioni, esse in me avevano avuto un destino diverso e ciò mi dava l’autorità di riaffrontare il problema dell’interpretazione dei suoi vissuti di contagio negativo in un altro modo. Ai suoi occhi ero stata investita da quella negatività e non ne ero stata danneggiata, travolta, in un certo senso ero sopravvissuta; aveva potuto suscitare in me una reazione e il risultato non era stato un rifiuto... soprattutto aveva un testimone ed egli stesso era stato testimone dell’evidenza della mia reazione: a partire dall’evento di quell’esperienza condivisa le mie interpretazioni potevano essere credibili; a quel punto potevano anche funzionare, non prima. Le stesse interpretazioni, quanto a contenuto, ora potevano avere un’efficacia perché si innestavano in un’incarnazione. A distanza di un paio d’anni, durante una seduta con lui, si verificò un blackout elettrico, ci fu fra noi uno sguardo d’intesa e il paziente disse ridendo “non sono stato io!”.

Quando, a contatto con la psicosi, si da un’interruzione così violenta del ricorso all’interpretazione come difesa dall’angoscia psicotica, l’analista, attraverso un’esperienza limite, un’esperienza di esposizione, lascia libero uno spazio nel quale una evidenza si impone, un’evidenza che apre un contatto di prossimità particolare con la possibilità di rintracciare un senso inafferrabile altrimenti. Come opposto dialettico dell’interpretazione si può quindi ricorrere al concetto di evidenza intesa come presentazione affettiva radicata in un corpo (quello dell’analista) del fondamento sensibile a partire dal quale può costituirsi il simbolo, attraverso una iniziale indistinzione fra registro simbolico e veicolo del simbolo (l’analista stesso). Evidenza dunque sul piano del sensibile come affermazione di realtà e allo stesso tempo fondazione dello scarto da cui può emergere la parola nella sua irriducibile non coincidenza con la cosa. Evidenza di vita contrapposta all’evidenza di morte della coincidenza psicotica di parola e di cosa. Evidenza condivisa nel rapporto contrapposta a ciò che il discorso psicotico mostra: “La non evidenza dell’evidente”7 dice Piera Aulagnier, ciò che un paziente borderline esprime nell’epiteto con cui presenta sé stesso: “un cieco che ha visto”. 7 Piera Aulagnier (1975), La violence de l’interprétation: Du pictogramme à l’énoncé, Puf, Paris. Tr. it. di Alberto Lucchetti, La violenza dell’interpretazione, Borla, Roma 1994, p. 46.

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ALLE RADICI DEL SIMBOLICO

All’adesività psicotica all’immaginario (per la quale A. De Waelhens8 usa l’immagine della adesività della falena alla luce), all’evidenza di morte con la quale essa appare nel transfert delirante (il convincimento del paziente che io sarei rimasta infettata e sopraffatta dal contatto con la sua negatività), si contrappone l’evidenza di vita di una trasformazione possibile, di una condivisione possibile. Ciò che nell’episodio narrato esordisce nelle parole del paziente come dimostrazione delirante della sua nocività, può trasformarsi, se nell’analista c’è una disponibilità a non difendersi dall’angoscia psicotica attraverso l’uso dell’interpretazione, nella epifania di un senso inaspettato. Lo stesso incipit (sul piano della percezione) può dar luogo ad un diverso destino (sul piano della rappresentazione e del significato) proprio perché passa attraverso il contatto con il senso che, nell’evidenza, compie la sua epifania. L’evidenza appartiene dunque al registro dell’epifania contrapposto a quello della dimostrazione. Joyce9 descrive così l’epifania delle cose: finalmente, quando la relazione fra le parti è perfetta, quando le parti si sono calettate in un punto speciale, riconosciamo che è quella cosa che è. La sua anima, la sua identità, balzano fuori a noi dai veli dell’apparenza. L’anima dell’oggetto più comune, la struttura del quale è stata così calettata, ci appare radiante. L’oggetto compie la sua epifania.

Nelle esperienze limite in rapporto alla psicosi, l’epifania riguarderebbe il soggetto e il suo emergere da quel punto speciale di equilibrio fra le parti (paziente e terapeuta) che renderebbe “radiante” la relazione stessa per quello che è, spogliata di ogni reciproco transfert. Nella situazione clinica descritta, la testimonianza del vissuto di spiazzamento ed il mancato ricorso all’interpretazione come difesa dall’angoscia, potrebbe essere stato il perno di questo particolare equilibrio e di quell’accesso alla realtà che ne è derivato, al di qua dei reciproci transfert, con la conseguenza per il paziente di trovarsi a contatto con i presupposti di una trasformazione, generatrice, in prospettiva, di una possibilità di discrimine fra malattia e salute. Si tratta del presupposto a quella scelta alla quale, secondo Searles10, 8 Cfr. Alphonse De Waelhens (1972), La Psychose, Nauwelaerts, Louvain. Tr. it. di Antonio Di Ciaccia, La psicosi, Astrolabio, Roma 1974. 9 James Joyce (1904) Le gesta di Stephen. In: Racconti e romanzi, Mondadori, Milano 1974, p. 767. 10 Harold F. Searles (1965), Collected Papers on Schizophrenia and Related Subjects, The

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IL PENSIERO DELL’ESPERIENZA

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il paziente delirante non ha mai potuto accedere e che, a suo avviso, è fondamentale nei processi di guarigione degli stati psicotici e borderline. L’esperienza e la testimonianza nella relazione terapeutica di ciò che si impone come evidente, rompendo la catena interpretativa, può costituire l’equivalente di un evento inteso come il darsi nell’esperienza, attraverso l’elemento di novità e l’elemento di incontro (non prevedibilità), della apertura, della sorpresa, del bagliore del senso11, non del significato. Nell’evento, inoltre, la dimensione della temporalità avrebbe uno statuto del tutto particolare, dato che in esso, paradossalmente, il tempo può essere ricapitolato e insieme ri-fondato: compimento e inaugurazione si troverebbero così a coincidere per poi differenziarsi. In un evento come quello descritto avviene, infatti, una ripetizione che dà luogo alla catastrofe di sé stessa, inaugurando la possibilità di un discrimine fra presente e passato. L’evento sarebbe dunque lo spazio riconoscibile della trasformazione, laddove una forma data, ripetendosi, può dare origine ad una nuova forma, passando attraverso l’incontro con una verità psichica non ancora simbolizzata, che nell’evento può entrare in gioco e aprirsi ad una possibilità di simbolizzazione. Questo tipo di avvicinamento, che si dà nell’evento, ad una verità psichica non ancora simbolizzata avverrebbe attraverso il contatto, veicolato da una evidenza, con un sentire esperienziale tutt’affatto particolare, contrassegnato da una indistinzione fra soggetti, da qualcosa di impersonale, inteso come ciò che ha una proprietà in sé, prima della appropriazione da parte di qualcuno e di qualcosa: prima di una qualsivoglia rappresentazione. Per dirlo con le parole del filosofo J.-L. Nancy, si tratterebbe di un sentire caratterizzato dal fatto che in esso è il sentito che si fa sentire integralmente come la proprietà più propria. Allo stesso modo questa proprietà non è la mia, non è quella di un Io. Assolutamente essa è la proprietà in quanto semplice interiorità del sentimento12. Hogarth Press, Londra. Tr. it di Alda Bencini Bariatti e Adriana Bottini, Scritti sulla schizofrenia, Boringhieri, Torino 1974, pp. 618-619. 11 G. Deleuze (1969) Logica del senso, cit., pp. 133-137. 12 Jean-Luc Nancy (1984), Identité et tremblement, in Hipnoses, Galilée, Paris. Tr. it. di Elettra Stimilli, Identità e tremore, in L’essere abbandonato, Quodlibet, Macerata 1995, p. 34.

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ALLE RADICI DEL SIMBOLICO

È così che ci si avvicina a ciò che sta prima di ogni transfert, di ogni rappresentazione, a quello stato psichico che può essere definito

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stato originario della rappresentazione che, circolarmente, per la fondamentale estraneità del suo carattere puramente formale e affatto impersonale, e per l’indistinzione di soggetto e oggetto, è anche agonia del soggetto o suo punto di emergenza.13

La possibilità dell’agonia e quella dell’emergenza del soggetto inerisce alla relazione, e in particolare alla disponibilità/capacità dell’ analista di immergersi e nel contempo distaccarsi dall’identificazione con ciò che esperisce nel transfert psicotico, quando è sollecitato dall’angoscia. È proprio in funzione della presenza o dell’assenza di questa disponibilità nell’analista che un accadimento analogo a quello prima descritto può o meno trasformarsi in evento. Se l’evento si dà, si produce una breccia in un concatenamento dato, che libera la possibilità di una rifondazione della parola dentro un aggancio nuovo con una esperienza emotiva di relazione che, con la sua evidenza, può opporsi all’interpretazione psicotica e costituire un ancoraggio ad una forma possibile di verità condivisa attraverso il linguaggio. Nella dimensione dell’evento ogni “immagine di parola”14 incarnata nell’esperienza emotiva presente nello spazio della relazione può, con la sua evidenza, opporsi alla interpretazione delirante. Nella visione si configura così la possibilità di un rispecchiamento, di una riflessione: vedere la negatività e non coincidere con essa, differenziarsi, poterla pensare e ri-conoscerla. Dall’esperienza dell’evento potrebbe così scaturire il pensiero, nella sua forma sorgiva, un pensiero fondato in una nuova incarnazione. Va detto che il realizzarsi di un evento nella relazione analitica ha un carattere di eccezionalità, ma, quando un evento si realizza, come nella situazione clinica che andrò ad illustrare per esteso, segna un punto di svolta nel lavoro analitico, per il carattere che riveste di vera e propria esperienza fondativa.

13 Alberto Lucchetti (1994), Il “grado zero” della rappresentazione, prefazione a P. Aulagnier, La violenza dell’interpretazione, cit., p. 27. 14 Cfr. P. Aulagnier, La violenza dell’interpretazione, cit.

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Raccontare

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Ho detto alla mia anima: taci e attendi senza speranza Perché la speranza sarebbe speranza mal collocata: attendi senza amore Perché l’amore sarebbe mal collocato; rimane la fede Ma la fede e l’amore e la speranza stanno tutti nell’attesa. Attendi senza pensiero perché non sei pronta al pensiero: Così il buio sarà la luce, e la quiete la danza. Thomas S. Eliot15 Ma, a volte, proprio nel momento in cui tutto ci sembra perduto, giunge il messaggio che ci può salvare: abbiamo bussato a porte che davano tutte sul nulla; e nella sola per cui si può entrare, e che avremmo cercata invano cent’anni, urtiamo inavvertitamente, ed essa si apre. Marcel Proust16

L’evento che voglio qui interrogare si situa al nono anno della relazione terapeutica17 con una paziente gravemente depressiva, orfana di entrambi i genitori. Il suo male si era manifestato in una grave bulimia; sentiva delle voci, queste allucinazioni acustiche le ri-narravano fatti quotidiani, a volte erano rassicuranti, a volte critiche, malevole, colpevolizzanti; assumeva quotidianamente (cosa confessata con vergogna dopo anni) grandi quantità di psicofarmaci tranquillanti che si procurava per conto suo; ma soprattutto viveva stati di grave torpore, simili al dormiveglia, che potevano durare anche molti giorni chiusa nella casa in cui vive da sola. Quando, dopo anni, fu in grado di avere quella minima distanza sufficiente per parlare con me di tali stati trovò queste parole: “paralizzata... né veglia né sonno... letargo... non sentire, non pensare... senza memoria ... senza tempo... e mangiare, ingurgitare”. Ciò poteva protrarsi anche per molti giorni, fino a quando ne usciva come ci era entrata – lei diceva – “senza come né perché” e veniva poi colta da sensi di colpa terribili. 15 Thomas S. Eliot (1943), East Coker, in Four Quartets. Tr. it. a cura di Roberto Sanesi in Opere, II vol., Bompiani, Milano 1993, p. 357. 16 Marcel Proust, Il tempo ritrovato. Tr. it. di Giorgio Caproni, Einaudi 1975, p. 201. 17 Il racconto di una esperienza clinica è sempre un atto di esposizione sia per il paziente che per l’analista: ho modificato ovviamente nel racconto, per il vincolo del segreto professionale, tutti quegli elementi per cui la persona della mia paziente potrebbe essere riconoscibile, identificabile. Non ho modificato in nulla invece quello che riguarda me, ciò che narro è esattamente ciò che mi è successo. Ho chiesto inoltre alla mia paziente il consenso di utilizzare questo materiale, che appartiene ad entrambe, per uno scopo non strettamente terapeutico. Le stesse precauzioni sono state prese ogni qual volta in questo volume espongo storie cliniche.

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ALLE RADICI DEL SIMBOLICO

Nel corso degli otto anni di terapia precedenti l’evento che narrerò, ho accompagnato la paziente in un processo estremamente lungo e complesso a contatto con i temi profondi del suo masochismo psicotico. Gli stati di letargo, in particolare, erano stati collegati alla relazione fortemente disturbata della paziente con la madre morta, la quale era stata affetta da una grave depressione presente probabilmente fin da prima la nascita della figlia, madre che spesso aveva avuto atteggiamenti di tipo sadico nei confronti di lei bambina e ragazza. Contemporaneamente al lento dispiegarsi dei movimenti profondi nella terapia, in quegli anni si era manifestato un miglioramento clinico apprezzabile e delle modificazioni positive nella sua vita quotidiana e nelle sue relazioni; gli stati di letargo in particolare si erano grandemente ridimensionati, fin quasi a sparire. Durante il nono anno di terapia, avevo ricevuto la paziente il giorno prima di partire per le vacanze di Capodanno per le quali sarei rimasta assente per dieci giorni. Appena rientrata ricevo una sua telefonata, mi riferisce, molto angosciata, che dal giorno del nostro ultimo incontro è chiusa in casa, non ha visto nessuno, ha staccato il telefono: “era tanto che non succedeva così... la paralisi assoluta... il letargo... per giorni... per tutti questi giorni”. La invito a raggiungermi in studio il giorno stesso, tre giorni prima dell’appuntamento concordato. È agitata, mi dice che sta male che pensa che io non potrò fare più niente per lei, che abbiamo fatto molte cose insieme, ma che per questo suo male forse ci vuole dell’altro, ma non sa cosa, forse non c’è proprio più niente da fare. Aggiunge con fermezza e determinazione che non accetterà da me alcuna interpretazione che colleghi tutto ciò alle mie vacanze. Era successo diverse volte che in mia assenza lei era stata male e insieme eravamo arrivate a fare un collegamento tra i suoi vissuti di abbandono e questi stati di grave malessere, però in quel momento mi dice con una determinazione impressionante che tale collegamento questa volta lei non lo accetterà. E lo dice con una forza tale da lasciarmi assolutamente senza parole; in particolare il suo diffidarmi dal replicare con una interpretazione lo percepisco come una verità accecante. E resto in silenzio. Il mio silenzio non la scoraggia ed inizia a parlare concitata della morte nella quale è immersa, dell’angoscia insopportabile della solitudine, dei farmaci che ogni notte ha ripreso ad ingurgitare; dice che “il pensiero del suicidio, un suicidio riuscito, è qualcosa di troppo vitale per poter essere formulato dentro quella morte”. A quel punto piange. Piange parlando di questa morte che, dice, “è peggio della morte fisica”.

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Io comincio a percepire in me il sorgere di un pianto irrefrenabile. Vivo un grande disagio, un’esperienza di spiazzamento rispetto all’immagine e al vissuto di me terapeuta, abituata ad una neutralità espressiva. In una frazione di secondo un pensiero in me cerca una scelta, penso semplicemente che un controllo in quel momento non ha senso e forse non è nemmeno possibile. E quindi piango, piango copiosamente in silenzio con una percezione tutt’affatto particolare: sento il pianto che mi attraversa assolutamente vero e nel contempo non mio, al di fuori del sentimento riconoscibile di me piangente. In quel momento vivo rispetto a questa percezione un’ulteriore esperienza di spiazzamento. Lei mi guarda incredula; continua a piangere e a quel punto cambia discorso: parla del suo pianto, del convincimento che sia falso, una esibizione, qualcosa fatto per qualcos’altro. In quell’attimo, con sorpresa, sono chiaramente confrontata con una sua interpretazione delirante dei suoi stessi sentimenti che non era mai emersa nel corso di tutti quegli anni e che mi appare come qualcosa di veramente terribile. Il mio pianto si calma, ritrovo le parole: le chiedo se ha la medesima impressione di falsità di fronte al mio pianto. Lei mi risponde di no, non ha dubitato nemmeno per un istante, lo ha visto che era vero. La incalzo chiedendole per quale motivo non può pensare la stessa cosa di sé... le dico che ai miei occhi il suo pianto era il dolore, la disperazione che finalmente lei poteva esprimere, condividere, del tutto diverso dal suo piagnucolare vittimistico che tante volte avevamo incontrato. Continuando a piangere risponde che non aveva mai pensato che fosse possibile una cosa simile, che non era mai accaduto... Ora era dunque la paziente a vivere un’esperienza di spiazzamento! La seduta si chiude qui. La separazione mi lascia in uno stato di attesa, di sospensione. Non sapevo come l’evento, lo spiazzamento avrebbero ‘lavorato’ dentro di lei. Nella seduta successiva tre giorni dopo mi porta una lettera, una lettera scritta a me la notte stessa della seduta precedente, mi dice che ha scritto perché aveva paura di falsificare, di far sparire ciò che era avvenuto. Ecco un brano di questa lettera: “... la profonda solitudine che ogni notte (con sempre più farmaci) devo combattere per non morire e addormentarmi, non c’è più, non ha più ragione di esistere. Ormai la conosco, non mi strazia più il cuore stanotte: lei l’ha esplorata con me ed è sopravvissuta. Ora sto piangendo, c’è che le pastiglie, tutte le pastiglie che ho preso, fanno il loro effetto, si fanno sentire in tutta la loro quantità. Giuro che prima non l’ho mai

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sentito, perciò aumentavo le dosi. Se ciò succede vuol dire che sono libera, libera di diminuirle perché nella solitudine che mi attanaglia la notte ora qualcuno mi tiene per mano. Non c’è più bisogno di un surrogato, è come se mi fossi liberata di una cosa vergognosa da dire, ma vitale per continuare...”

Io leggo la lettera, lei mi guarda finché la leggo; poi comincia subito a parlare e mi svela un altro contenuto delirante trasferito su di me, riguardante chiaramente la madre: parla del convincimento che la sua sofferenza potesse uccidermi, del suo doverla vivere in solitudine per proteggermi, farmi vivere e, di conseguenza, proteggersi, ma al prezzo di una mutilazione, di un vivere nella morte. Vivere nella morte per controllare e sconfiggere la morte dell’altro. È stato così con sua madre, gravemente depressa fin da quando lei era piccola. Erano state complici, anche sui farmaci. Lei procurava per sé e per la madre sonniferi ed anfetamine. La paziente a quel punto dice: “Poi successe qualcosa per me di inspiegabile. Non avevo pianto alla morte di mio padre, non ero nemmeno andata al funerale... eppure mia madre preferiva stare con mia sorella, mi escludeva. Quando mia madre si ammalò gravemente io volevo restare con lei, ma tutto si ruppe, io non capivo, stavo male, lei non voleva vedermi, mi allontanava, voleva mia sorella, io insistevo, la odiavo, facevo delle cose apposta perché vedesse quanto stavo male, ma ciò la faceva diventare ancora più fredda e distante, non c’era possibilità di parlare, di capirsi. Quando morì ero convinta di averla uccisa io, non ero riuscita a salvarla, come tutte le altre volte fin da quando ero bambina, quando lei passava le sue giornate al buio chiusa nella sua stanza ed io le portavo cibo e farmaci... Nei miei letarghi ero con lei, nella morte. Allora mangiavo e mi dicevo ‘se mangio sono viva’, ma adesso non vorrei più continuare a seppellirmi dietro il cibo.”

Una chiusura, una impermeabilità si era rotta, qualcosa di nuovo, ora, era finalmente possibile per lei, qualcosa che evidentemente prima di allora non era nemmeno immaginabile.

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Interrogare

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Il bagliore, lo splendore dell’evento è il senso. L’evento non è ciò che accade (accadimento), è in ciò che accade, il puro espresso che ci fa segno e che ci aspetta... è ciò che deve essere compreso, ciò che deve essere voluto, ciò che deve essere rappresentato in ciò che accade. Gilles Deleuze18

Riflettere su una vicenda così particolare contiene tutti i rischi impliciti legati al fatto di racchiuderla in una cornice troppo angusta rispetto alla complessità dell’esperienza in sé. Con questa precauzione vorrei ora ripercorrerla per rintracciarne il senso. Che cosa ho visto in questa vicenda? La paziente non riconosce la sua disperazione, ma è disperata. La sua scissione psicotica non le consente di ri-conoscersi, di vedersi come soggetto di sentimenti autentici. Io, la sua disperazione, la colgo tutta. Il suo diffidarmi dall’interpretare, dall’essere attiva utilizzando quindi un pensiero su ciò che è già dato, incontra in me un assenso. Consenziente al guardare la morte in faccia – perché così mi sentivo – , privata della mia facoltà di essere attiva, entro in una sorta di stato psichico di sospensione prima e di abbandono poi, fino al pianto. Lo stato di coscienza in cui questo pianto avviene è sorprendentemente simile allo stato di una trance ipnotica come stato di passività, di abbandono, come stato psichico nel quale si da la percezione di una momentanea dissociazione senza ansia e senza negazione. In un simile stato di coscienza la percezione interiore della non appartenenza del pianto come pianto non mio può coincidere con la verità del pianto stesso: in un pianto impersonale c’è infatti la verità possibile di ogni pianto, c’è la proprietà del pianto in sé, prima della appropriazione da parte di qualcuno e di qualcosa, al di qua di una rappresentazione e del costituirsi di un significato. Se il pianto in me non è saturato dal mio Io, si configura come una sorta di stato originario del pianto stesso, prima di ogni transfert, di ogni rappresentazione già data. Per il suo carattere impersonale e per l’indistinzione di soggetto e oggetto, l’evento pianto può essere luogo di sparizione e/o punto di emergenza del soggetto. 18

G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 134.

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La possibilità dell’agonia e quella dell’emergenza del soggetto potrebbero peraltro essere rispecchiate nella simmetria presente fra lo stato letargico della paziente da un lato e dal mio stato ipnotico dall’altro. Lo stato ipnotico in me potrebbe essere visto come il doppio vitale dello stato di ‘letargo’ della paziente, configurando una duplicazione ad esito paradossale19. Attraverso lo stato ipnotico, se l’Io non satura, non abita il pianto in me, allora quel pianto può essere un luogo da abitare, che si offre per essere abitato: il pianto in me sarebbe dunque donato alla paziente. Un dono in senso radicale, senza intenzione, fuori da una volontà di circolazione e di scambio. Donare, dice Derrida, è donare l’impossibile [... ] se c’è dono, il donato del dono non deve ritornare al donante [...] non ci sarebbe dono che nell’istante in cui l’istante paradossale lacera il tempo20.

L’evento è dunque evento di dono nella misura in cui è al di qua dei transfert e delle intenzioni; è paradossale, e può, nel suo rapporto con il tempo, essere contemporaneamente compimento e inaugurazione. Il pianto sarebbe dunque il donato che, in quanto “immagine di parola”21 potrebbe con la sua evidenza opporsi alla interpretazione psicotica che la paziente ha del piangere e donare accesso al pianto, ri-fondarlo, darne un senso nuovo in un rapporto possibile con la verità e con la realtà della disperazione. Attraverso la visione del pianto in me, la paziente accede alla possibilità di un rispecchiamento: vedere la disperazione e sopravvivere; non coincidere con essa, differenziarsi, ri-conoscerla e poterla pensare. All’adesività psicotica all’immaginario, all’evidenza di morte con la quale essa appare nel transfert delirante nella convinzione della paziente che io sarei rimasta uccisa dal contatto con il suo dolore 19 In diverse narrazioni mitiche è possibile rintracciare il paradosso particolare della lotta contro un demone, quando, per sconfiggerlo, bisogna prendere le sue sembianze. Un esempio di ciò lo si trova in un passaggio del Libro egiziano dei Morti, testo magico-religioso degli antichi egizi sul percorso iniziatico ultraterreno dell’anima per la sua salvazione, un percorso denso di prove; una di queste prove è la lotta fra un demone, il serpente Anophis, e la barca dell’anima nel suo viaggio verso la salvezza, nell’Al di Là. Anophis, per fermare il movimento dell’anima nella sua barca sul fiume, prosciuga il Nilo bevendone tutta l’acqua; la barca si trasforma allora in serpente che striscia sul fondo del fiume e prosegue il suo viaggio. Si tratta dunque di entrare nel linguaggio del demone per stravolgerlo e sconfiggerlo. 20 Jacques Derrida (1991), Donner le temps, Galilée, Parigi. Tr. it. di Graziella Berto, Donare il tempo, Cortina, Milano 1996, Cap. 1. 21 Cfr. P. Aulagnier, La violenza dell’interpretazione, cit.

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rabbioso e disperato, al punto tale da doverlo pensare falso, subentra l’evidenza di vita della sopravvivenza al dolore. Nell’evento, attraverso l’evidenza del senso, si produce un rovesciamento del significato: il significato psicotico si disfa e un nuovo significato può farsi, significato che ha il suo fondamento in una partizione. La disperazione, che nel mondo psicotico della paziente innescava una uscita dalla realtà, attraverso l’evento, diviene il punto di innesco di quell’accesso alla realtà di cui l’evento stesso è l’elemento inaugurale. Quando un evento come questo si dà nella relazione analitica, si realizza, come abbiamo visto, in uno speciale equilibrio fra le parti (paziente e terapeuta) che può consentire alla relazione di manifestarsi per quello che è: nell’evento è la relazione analitica stessa che si fa evidente nella sua componente di verità e quindi nella sua componente separabile di transfert, e ciò è di fondamentale importanza in presenza, come in questo caso, di un transfert psicotico delirante. Il sentimento della disperazione e dell’attesa potrebbe essere stato il medium di questo speciale equilibrio e di quell’accesso alla realtà che ne è derivato, al di qua dei reciproci transfert, con la conseguenza per la paziente di trovarsi confrontata effettivamente con la propria malattia e con la propria possibilità di salute, come lei stessa scrive nella sua lettera.

Si può pensare una disciplina per l’evento? L’utilità del vasellame dipende da ciò che non c’è. Tao Tê Ching22

Tutto questo però pone un enorme problema: se l’evento è un incontro che procede da uno spiazzamento, da una discontinuità, in un certo senso anche da una casualità, non è riproducibile in sé, le condizioni del suo verificarsi non sono controllabili. Nel contempo nella terapia della psicosi un evento può costituire, come abbiamo visto, il darsi nella relazione di una esperienza necessaria. Siamo dunque in una specie di paradosso. Per tentare di affrontarlo si può forse porre il problema nei termini di una disciplina che faccia spazio, che crei il luogo dove l’evento possa 22 Tao Te Ching, tr. it. di Anna Devoto, Il libro della Via e della Virtù, Adelphi, Milano 1973, p. 49.

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ALLE RADICI DEL SIMBOLICO

aver luogo. Vorrei perciò tornare ad una riflessione sullo stato di coscienza della trance ipnotica alla quale ho assimilato lo stato psichico della effettuazione in me del pianto, dato che, mentre il pianto (come contenuto dell’evento) può essere visto a posteriori come necessario in una particolare fase di questa particolare relazione, sullo stato psichico che lo rende possibile si possono fare delle considerazioni più generali. La trance è innanzitutto uno stato di passività e di dissociazione; in quanto tale potrebbe rappresentare lo stato psichico opposto a quello della ricerca di un equilibrio di saturazione23 che, nel contatto con la psicosi, è così fortemente sollecitato come difesa dall’angoscia. Il tratto fondamentale dello stato psichico di trance mi sembra, come sostiene il filosofo Jean-Luc Nancy, quello della passività nel suo rapporto con l’identità a partire da una differenza fuori di sé. Scrive Nancy: nel soggetto ipnotizzato è il presente stesso della sua presenza che è sospeso... è una pura presenza che... non si presenta, né rappresenta niente, ma è soltanto offerta alla rappresentazione dell’altro. Questo soggetto non è più il soggetto della rappresentazione: non è più il soggetto... Nell’ipnosi l’anima è un corpo offerto all’esistenza in altri... L’ipnosi è una morte immobilizzata [che] ... affetta l’anima nel suo proprio corpo dell’anima di un altro. Ne è la partizione24.

Apparterrebbe dunque a questo stato di passività la possibilità di una partizione dell’anima di un altro. Si tratta naturalmente di qualcosa di tutt’affatto diverso, direi di opposto, rispetto a quelle forme di confusione con l’altro in cui, ad esempio nel sentimentalismo, l’Io campeggia e l’alterità dell’altro è violentemente cancellata, e nessun pensiero può sorgere. Nello stato di passività come partizione si darebbe invece una forma di sapere immemoriale, proprio dell’affettività, un sapere dell’affezione al di qua di ogni sapere. Il modello potrebbe essere lo stato della gestazione, il rapporto magico del bambino e della madre nella gestazione, magico perché legato ad una sorta di atto di fede nella condizione di impossibilità di un controllo. La passività non è individuale: si può essere attivi da soli, ma si può essere passivi solo in due o più. La passività è, nell’individuo, ciò che trema e che si scosta dal tratto di chiusura dell’individualità stessa. Questo tremore è l’originarsi di una differenza da sé che dona identità. Scrive Nancy: 23 Wilfred R. Bion (1970), Attention and Interpretation, Tavistock Pubblications, Londra. Tr. it. di Antonello Armando, Attenzione e interpretazione, Armando Editore 1973, Cap. 4, passim. 24 J.L. Nancy, Identità e tremore, cit., pp. 38-39.

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[nello stato ipnotico] la monade è attraversata da un tremore ad opera del sé dell’altro individuo... Qui il soggetto nasce... La nascita ha luogo in una comunità della partizione, quella del seno della madre, quella dell’amore, quella dell’essere-insieme-e-in-molti25.

Passività, dunque, non come confusione emotiva ed affettiva, ma innanzi tutto come disciplina della coscienza, senza apparato scenico, senza enfasi, stato di coscienza senza proprietà, senza qualità, una coscienza paziente in cui possano avere ospitalità immagini, affetti e pensieri nei quali si può poi, a nostra volta, temporaneamente abitare. Essere abitati ed abitare senza coincidere. Una disciplina della coscienza che potrebbe somigliare a quel particolare stato mentale che Wilfred Bion definisce “senza memoria e senza desiderio”, stato che permette all’analista di divenire, in parte, i fenomeni della realtà psichica del paziente e che sarebbe essenziale per sperimentare la parte psicotica della sua personalità. Tale disciplina dice Bion “aiuterebbe l’analista a realizzare la condizione psichica di recettività nei confronti della cosa in sé dell’esperienza analitica”26. C’è poi per Bion un rapporto molto stretto fra disciplina della sospensione della memoria, del desiderio e della comprensione, da una parte, e formazione del pensiero, dall’altra. Il desiderio e la memoria precluderebbero la pre-concezione (una sorta di grado zero del pensiero) in quanto occupano lo spazio che dovrebbe restare non saturato perché dalla pre-concezione si possa arrivare al pensiero. Per Bion la disciplina consistente nell’evitare la memoria e il desiderio aumenta la capacità [dell’analista] di esercitare ‘atti di fede’... L’‘atto di fede’ è peculiare al procedere scientifico... ha come proprio sfondo qualcosa che è inconscio e ignoto perché non è accaduto27.

Disciplina difficile per l’analista, che deve, dice Bion, “diventare infinito”28. Per poter fare questo l’analista deve essere in grado, all’interno di una cornice fortemente disciplinata, di attraversare stati di indeterminazione e di indiscernibilità, esperienze di istanti in cui è ‘come morto’ nelle sue funzioni più evolute. È proprio questo spazio di morte apparente dell’Io, lo spazio nel quale un evento può darsi. Accettando 25

Ivi, pp. 48-51. W. R. Bion, Attenzione e interpretazione, cit., Cap. 4, passim. 27 Ibidem. 28 Ibidem.

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ALLE RADICI DEL SIMBOLICO

di sospendere l’attaccamento ai propri contenuti identificanti, accettando di divenire contenitore di un vuoto, l’analista si rende disponibile, in modo rigoroso, a divenire spazio transizionale di soggettivazione29: è questo lo spazio possibile della nascita del soggetto.

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Questioni aperte E se la psicoanalisi non avesse mai luogo se non a condizione di mai sottomettersi ad una teoria o ad una scienza? Se la sua singolarità le venisse dal non poter mai concludere? Ridursi ad un corpo già finito, ad un sapere già costituito, ad una legge già determinata? Dal suo restare ‘interminabile’? Se ogni analisi fosse un’elaborazione della pratica e della teoria…? Per cui un modello d’analisi non esisterebbe, altrimenti nessuna analisi sarebbe più possibile?... ogni corpo vivente, ogni inconscio, ogni economia psichica porta all’analisi il suo ordine. Basta intenderlo. Il che impedisce il costituirsi di un ordine che premette la sua legge. Luce Irigaray30

Nella lettura di una esperienza come quella presentata può sorgere un problema legato al fatto stesso di darne una interpretazione. Mantenere una forma di meraviglia (intesa come tensione di conoscenza capace di accettare l’oscurità e mantenere la sorpresa) ed assegnare a ciò un valore, significa accettare l’irriducibilità dell’evento alle sue possibili interpretazioni, ammetterne una eccedenza di senso che riapre infinitamente la relazione con l’evento stesso quando l’interpretazione

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Faccio qui riferimento al concetto di “soggetto transizionale” introdotto da Gaetano Benedetti come strumento concettuale necessario a descrivere il processo terapeutico nella psicoterapia psicoanalitica delle psicosi: “Il soggetto transizionale, che agisce talora indipendentemente dal terapeuta e dal paziente (come tutti i fantasmi psicotici) è dunque il terzo soggetto accanto al paziente e al terapeuta, la terza realtà accanto a quella psicotico-regressiva e a quella logico-terapeutica; è sempre un soggetto, e cioè il presoggetto del futuro Soggetto del paziente”. In Gaetano Benedetti (1991), Paziente e terapeuta nell’esperienza psicotica, Bollati Boringhieri, Torino, p. 111. Vedi anche Id. (1992), Psychoterapie als exsistentielle Herausforderung, Vandenhoech & Ruprecht, Gottingen. Tr. it. di Giorgio Maria Ferlini, La psicoterapia come sfida esistenziale, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997, e inoltre G. Benedetti e M. Peciccia, Sogno Inconscio psicosi, cit.; infine la bella intervista a G. Benedetti fatta da Patrick Faugeras, L’expérience de la psychose, Erès, Paris 2003. 30 Luce Irigaray (1977), Misère de la psychanalyse, in Parler n’est jamais neutre, Les Editions de Minuit, Paris 1985. Tr. it. di Giuliana Cuoghi e Gabriella Lazzerini Miseria della psicoanalisi, in Parlare non è mai neutro, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 256.

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potenzialmente chiude questa relazione, saturandola. La meraviglia, come tensione di apertura, mantiene un movimento, una relazione con la capacità di sorprendersi, a partire dall’accoglienza dell’enigmaticità inalienabile all’evento stesso. Un’altra questione nodale riguarda il rapporto fra passività e attività nella posizione dell’analista e i suoi intrecci con il sapere. Re-interrogando la posizione di passività a cui faccio riferimento rispetto alle sue articolazioni con il sapere, aggiungerei che vi è implicato qualcosa che somiglia al concetto musiliano di passività attiva, che viene definita come “l’attesa del prigioniero che gli si presenti un’occasione di fuga”31. È dunque una passività vigile, che accoglie in grado estremo la realtà senza averla prima addomesticata e piegata al proprio volere; in modo che dall’interno di essa qualcosa riluca, nasca, come segnale di possibilità, sulla quale, solo successivamente, una attività si innesti. Nel grado estremo di intensità della recettività, l’attuazione dell’idea è abolita, una impotenza è accettata. È tuttavia, paradossalmente, proprio a partire dall’accettazione di questo grado zero di attività e di intenzionalità, che si dà la possibilità di una attività efficace e di un sapere come potenza, forza, capacità, potenzialità creatrice. Sapere dell’affettività e sapere acquisito nell’analista sono compresenti e sono fra di loro in rapporto complesso, forse si potrebbe dire dialettico. L’analista deve essere in grado di incrociare, senza sovrapporre, le due traiettorie che lo pongono in relazione, da un lato, con l’esperienza del qui ed ora dell’incontro analitico, e dall’altro, con la propria tradizione teorica, con il sapere che gli deriva dal rapporto con i maestri, con il sapere dell’esperienza che gli deriva dalla propria storia di analista, dalla propria arte. D’altra parte il sapere dell’affettività che si dà nell’evento, necessita, per darsi, di una sorta di sospensione del sapere acquisito, che deve essere reso temporaneamente inoperoso, inattivo. Ciò è possibile se il sapere acquisito non viene utilizzato dall’analista come difesa dall’angoscia. L’angoscia in rapporto al mondo psicotico tende ad attivare la ricerca di un equilibrio di saturazione che viene molte volte realizzato attraverso il rimando ad un sapere acquisito. Nell’analisi, un sapere che si autoconcepisce come modello già dato, proprio per questo, fallisce: l’analista fallisce 31 Robert Musil, L’uomo senza qualità, tr. it. di Anita Rho, Einaudi, Torino 1957, Vol. I, cap. 82, p. 344.

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ogni volta che scivola nella onnipotenza di una autorità del sapere data puramente dalla posizione che occupa, e/o dal difendersi dalla propria angoscia. Un’altra questione aperta ha a che fare con la dimensione temporale. Nel registro dell’evento il problema del tempo, mi pare, abbia uno statuto particolare. Se l’evento non è ciò che accade, ma è dentro, in ciò che accade, allora l’attesa, il ritardo sono forse nient’altro che il tempo necessario perché si crei lo spazio, il luogo nel quale l’evento possa avere luogo. Dato che nel darsi dell’evento è implicata la capacità di accorgersene, accettarlo, volerlo, l’evento non può essere disarticolato dal tempo che lo precede. È solo a posteriori che quel tempo può venire connotato come attesa dell’evento. In realtà è un tempo, anche molto lungo, di costruzione paziente, attraverso stasi e lenti cambiamenti, nell’avvicinamento alle condizioni per le quali una irreversibilità si dia. Per di più, nella terapia delle psicosi, il vero problema non è il ritardo nell’accadere dell’evento, ma la possibilità che l’evento non accada affatto. È questo ciò che sconcerta: che possano esserci relazioni nelle quali non si diano mai le condizioni perché un evento, come quello narrato, accada; che non si diano cioè mai le condizioni di un cambiamento irreversibile con queste caratteristiche di sblocco repentino per la sua potenzialità puntuale di ri-costellazione. L’evento infatti, come spero sia risultato chiaro dal racconto, è esso stesso un punto di contrazione e ricapitolazione del tempo: è il luogo del cambiamento del passato essendo contemporaneamente il punto a partire dal quale il passato diventa ciò che è. Nel tempo dell’evento il passato diventa di nuovo possibile: attraverso una sorta di redenzione, le stesse cose ritornano, ma in un posto cambiato, in una relazione cambiata, in un’altra sequenza. È così che il passato diventa ciò che è, acquista il suo significato: per la paziente diventa il suo passato e finalmente si inaugura per lei la possibilità della memoria. Nell’evento, grazie all’apertura di uno squarcio affettivo, avviene così qualcosa di simile a ciò che Ferenczi descrive come il delinearsi del contrasto tra il presente e l’intollerabile passato traumatogeno, il contrasto indispensabile, dunque, perché il passato possa essere rivissuto, anziché come riproduzione allucinatoria, come ricordo oggettivo32.

32 Sandor Ferenczi (1932), Confusione delle lingue tra adulti e bambini, tr. it. di Elena Ponsi Fianchetti, Fondamenti di Psicoanalisi, Guaraldi, Rimini 1974, Vol. III, pp. 415-427.

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IL PENSIERO DELL’ESPERIENZA

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Infine, la questione forse più complessa e più aperta è quella che riguarda la dimensione impersonale. Ricorro nuovamente a Musil: …la storia nasce anche senza autori. Non dal centro insomma, ma dalla periferia33...

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si dovrebbe prima di tutto smettere l’atteggiamento di cupidigia personale di fronte alle vicende della vita... stati intensi di personali esperienze possono servire ad uno scopo impersonale, un contesto di significati e di immagini che li separa in parte dalla persona34.

Nella relazione con l’altro psicotico, con il suo vuoto di soggetto, si vive lo scacco dell’Io nel suo rapporto di ‘proprietà privata’ della realtà. A quel punto o si rientra nella chiusura della propria soggettività costituita, o si accetta di desoggettivarsi e risoggettivarsi in una processualità scevra delle certezze di un possesso. In questa processualità, accanto all’Io e al Tu, c’è un soggetto terzo, o meglio un terzo impersonale, contenitore possibile di contenuti psichici, di parti di oggetti-soggetti animati e inanimati. È impersonale perché attraversa, taglia le chiusure dell’analista da una parte e del paziente dall’altra: è un soggetto senza ‘autore’, serbatoio dal quale e nel quale le persone individualizzate traggono e immettono tutto ciò che consente loro di garantire il processo. Il terzo impersonale potrebbe essere la matrice del processo stesso, una matrice in continuo divenire, continuamente attraversata da flussi complessi, ai quali il soggetto analista simultaneamente partecipa e si distacca operando discriminazioni.

33 34

R. Musil, cit., Cap. 83, p. 349. Ivi, Cap. 84, p. 354.

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LA GRAZIA DEL NO. CAPACITÀ NEGATIVA DELL’ANALISTA E FENOMENI TRANSIZIONALI NEL PROCESSO DI CURA1

Il paradiso è serrato e il cherubino ci sta alle spalle. Noi dobbiamo fare il viaggio intorno al mondo e vedere se vi si trovi forse qualche ingresso dal di dietro... Heinrich von Kleist2

L’interrogazione di questo tema, la “grazia” del negativo nel processo analitico, prende avvio dall’esplorazione di una figura letteraria creata dalla scrittura di Melville, figura profondamente enigmatica per la singolarità della sua posizione negativa. Bartleby è il personaggio chiave di uno splendido racconto3 che porta lo stesso nome. La qualità della presenza di Bartleby è resa in modo magistrale da una formula che scandisce ogni qualsiasi relazione che Bartleby intrattiene: ciò che egli ripete ogniqualvolta viene interpellato è: “I would prefer not to” PREFERIREI DI NO. Questa formula non è solo l’unica proposizione pronunciata da Bartleby con qualche variante nelle diverse circostanze, ma anche l’esplicitazione letterale della sua forma di presenza: una presenza ferma che, rendendosi indeterminata, abolendo ogni particolarità, ogni referenza, sconvolge le relazioni creando un vuoto di presupposti. È questo vuoto 1 Una prima versione ridotta di questo testo è stata pubblicata in Diotima (2005), La magica forza del negativo, Liguori, Napoli. 2 Heinrich von Kleist, Il Teatro delle Marionette, tr. it. di Leone Traverso, Il Melangolo, Genova 1978, p. 14. 3 Herman Melville, Bartleby in Opere Scelte, Vol. I, tr. it. di Enzo Giachino, Mondadori, Milano 1972, pp. 737-790.

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che costringe gli interlocutori e in particolare l’interlocutore principale, il notaio che lo ha assunto come scrivano copista, a mobilizzare il proprio mondo di presupposti, dai quali è costretto ad uscire. L’inamovibilità di Bartleby costringe il notaio al movimento, il suo silenzio lo costringe alla parola, il vuoto di contenuti proposto da Bartleby. implica nel notaio l’attivazione incessante dell’emotività, dell’immaginazione e del pensiero. La qualità della presenza di Bartleby è infatti capace di sconvolgere, di disorganizzare, le forme date di presenza altrui: ritraendosi, abolendo contemporaneamente ogni accettazione e ogni rifiuto, devasta e sabota i presupposti di ogni reattività abituale, di ogni automatismo reattivo, rendendolo impossibile. La relazione con lui, attraverso la ripetizione della formula, diventa un contenitore, che facendosi vuoto di contenuti consolidati e familiari, apre spazi al processo, all’ignoto, alla differenza, al cambiamento, alla creazione. In un bellissimo saggio dal titolo Bartleby o la formula4, sulle implicazioni filosofiche di questa figura di “infermità leggendaria”, Gilles Deleuze parla della presenza di Bartleby come “essere in quanto essere e nient’altro” e della sua formula come qualcosa che “scava nella lingua una specie di lingua straniera”, vanificando le assunzioni della lingua stessa. Da questo punto di vista Bartleby non è una figura simbolica, bensì una figura che, con la sconcertante e scarna letteralità della sua ricusazione del confrontare le copie dei documenti rispetto all’originale e del copiare in generale (compiti per i quali il notaio lo ha assunto), riapre all’infinito lo spazio della creazione, consentendo il raggiungimento di una sorta di grado zero del procedimento simbolico, prima di ogni qualsivoglia rappresentazione. L’interesse di questa figura letteraria rispetto al tema trattato, sta nella sua stupefacente esemplarità, che richiama immagini evocatrici e analogie con le concettualizzazioni di Lacan sull’analista come il morto nel gioco del bridge5 che, con la sua astensione, attiva nell’interlocutore il processo simbolico, e con quelle di Bion, sulla posizione dell’ana4 Gilles Deleuze (1993), Bartleby, ou la Formule, in Critique et Clinique, Les Editions de Minuit, Paris 1993. Tr. it. di Alberto Panaro, Bartleby o la formula, in Critica e Clinica, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996. Sullo stesso tema delle implicazioni filosofiche della figura melvilliana vedi anche Giorgio Agamben (1993), Bartleby o della contingenza, in Gilles Deleuze e Giorgio Agamben, Bartleby, la formula della creazione, Quodlibet, Macerata 1993. 5 Jacques Lacan (1958), La direction de la cure et les principes de son pouvoir, in Ecrits, Edition du Seuil, Paris 1966. Tr. it. a cura di Giacomo Contri, La direzione della cura e i principi del suo potere, in Scritti Vol. II, Einaudi, Torino 1974.

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LA GRAZIA DEL NO

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lista nel lavoro e nel processo analitico come attivamente capace di disciplinarsi ad una astensione dalla memoria e dal desiderio, allo scopo di creare conoscenza la cui fonte sia l’esperienza.6 La forma di presenza di Bartleby, infatti, è senza referenza, senza passato e senza intenzione, una presenza che vanifica la logica dei presupposti, proponendo una logica della preferenza, il cui unico contenuto è una astensione dalla volontà positiva. Si tratta di una astensione che può ben illustrare la dimensione negativa della volontà dell’analista come resistenza passiva: il no dell’analista, come quello di Bartleby, non è un no oppositivo, è un no che può sostanziare la forma di presenza come presenza non consenziente, ma senza intenzione, senza contenuto. È un no privo di simmetria speculare con ciò che viene affermato, qualità che consente a questo no, spogliato di volontà di contrapposizione, di avere grazia, di essere fecondo, creando le condizioni adatte a mobilizzare spazi e possibilità per la realizzazione di nuove realtà psichiche in entrambi i partecipanti alla relazione. Nella relazione analitica è una forma di presenza con questi tratti che viene a costituire il contenitore necessario al processo analitico nell’intero campo intersoggettivo e transizionale attraversato da relazioni altamente complesse: pur trattandosi ovviamente di due partecipanti, il campo relazionale ha, infatti, una complessità più simile a quella di una molteplicità. È come dire che la funzione recettiva-intuitiva, per esplicarsi, deve immergersi in questa complessità, e, per farlo, necessita di questo nulla di volontà, di questa sospensione dei presupposti dati, come condizione per la creazione di uno spazio vuoto nel quale una nuova esperienza si dia. È infatti a partire da una esperienza e dalla realizzazione psichica che la contrassegna che possono movimentarsi quelle trasformazioni che possono creare pensiero. Accade così che 6 Secondo Bion (Attenzione e interpretazione, cit., Cap. 4), l’analista dovrebbe lavorare, disciplinandosi attivamente ad una opacità della memoria e del desiderio. Tale posizione è difficile da realizzare, ma Bion ritiene necessario per l’analista tendervi, in quanto, tentando di abolire i presupposti provenienti dal passato (memoria) e quelli riferibili al futuro (desideri), l’analista può configurare proprio quella forma di presenza capace di realizzare la condizione psichica di recettività nei confronti di ciò che egli definisce “cosa in sé dell’esperienza analitica” che è inscindibilmente legata al presente, all’hic et nunc. Bion ritiene in questo modo di collocarsi nel cuore della tradizione analitica, rafforzando, con le sue raccomandazioni, i consigli espressi da Freud in uno scritto del 1912 “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico” (tr. it. in Opere Vol. 6, Boringhieri, Torino 1974). Cita inoltre, a suffragio della propria tesi sul funzionamento psichico auspicabile per l’analista, un passo di una lettera di Freud a Lou Andreas-Salomé nel quale Freud parla di un’accecarsi artificialmente per giungere ad una condizione mentale che consenta di ovviare all’oscurità, allorché l’oggetto investigato è particolarmente oscuro.

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contenuti psichici non ancora pensati riescano a trovare un pensatore che li pensa: a quel punto possono innestarsi le interpretazioni e la qualità della presenza cambia. Nella attività interpretativa, trattandosi di uno sguardo sull’interlocutore o sulla relazione, la qualità della presenza dell’analista ha le caratteristiche di una presenza separata, cioè di una presenza che presuppone una delimitazione precisa sé / altro da sé; invece, perché la funzione recettiva si esplichi, la presenza deve avere delle caratteristiche che consentano la possibilità del divenire qualcos’altro o un altro. Si tratta di una forma di presenza che consente la creazione di uno spazio di ospitalità verso un divenire altro attraverso l’apertura di una “zona di indeterminazione o di indiscernibilità”7 fra i soggetti implicati, avvicinando così il punto che precede la loro rispettiva differenziazione. L’immagine di questo punto potrebbe essere quella del punto centrale di un chiasma come punto di annullamento delle divaricazioni precedenti e successive. Deleuze, nel proprio saggio su Bartleby, parla di un processo di identificazione che diviene “psicotico”8, non implicando più un modello, ma una qualità dislocata, una molteplicità, un divenire, una indeterminazione appunto fra sé / altro da sé. In effetti, alle prese con questi fenomeni di indeterminazione, il processo di identificazione non può restare all’interno del recinto delle delimitazioni derivanti da una identità data, e lavora verso la possibilità della costituzione di un soggetto plurale il cui principio coesivo non è la derivazione identitaria ma la fratellanza, l’orizzontalità. L’analista sarà tanto più capace di avventurarsi in una simile forma di identificazione, dislocandosi in questa area di indiscernibilità attraversata da movimenti psichici complessi, senza perdersi in un sintomo di angoscia da perdita di identità, quanto più sarà in grado di allenare la propria capacità di mantenersi contemporaneamente nella forma di presenza neutrale, ferma, salda, ritratta, indifferente ad ogni volontà di accettazione e di rifiuto. Questa forma di presenza, così ben evocata dalla figura dello scrivano di Melville, che resiste intatta ad ogni fenomeno di pressione ambientale, è accostata da Deleuze ad un’altra figura letteraria, quella dello Scapolo di Kafka9, come presenza che, per mantenersi salda, necessita solamente della piccolissima zolla di terra su cui poggiare i propri piedi. Questa condizione può essere as7

Cfr. G. Deleuze, Bartleby, la formula, cit. Ibidem. 9 Ibidem. 8

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similata a ciò che Bion definisce come capacità negativa dell’analista, mutuando questa definizione da J. Keats che, in una lettera al fratello, definisce in questo modo la “capacità che un uomo possiede se sa perseverare nelle incertezze, attraverso i misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare ad una agitata ricerca di fatti e ragioni”10. Nel linguaggio psicoanalitico essa potrebbe essere ricondotta alla particolare forza di coesione del nucleo del sé dell’analista, coesione disciplinata a resistere agli eventi psichici implicati dalla immersione nel campo della intersoggettività transitiva e capace di mantenere una integrità anche ospitando identità diverse, incompatibili, frammentarie e frammentanti, realtà psichiche generatrici di angoscia. Attraverso la sua capacità di perseverare sottraendosi, attraverso la grazia del suo no che interrompe la tentazione speculare e simmetrica, l’analista può mantenere contemporaneamente sia una soggettività separata sia una soggettività transizionale11, nella quale il soggetto è come un patchwork fatto di parti dell’analista e di parti del paziente. Vediamo ora come, nella pratica clinica, la capacità negativa dell’analista funge da contenitore che consente alle forme diverse di presenza nell’analista di entrare in gioco nella relazione terapeutica con le forme diverse di presenza nel paziente. Della vicenda clinica della relazione con una donna, che chiamerò D., ho scelto due momenti decisivi nei quali sono particolarmente evidenti i fenomeni transitivi e transizionali che caratterizzano il soggetto patchwork, momenti nei quali la mia presenza passa, piuttosto repentinamente, da una forma di presenza-contenitore di questi fenomeni, ad una forma di presenza interpretante. Entrambi questi momenti sono caratterizzati dal contatto diretto con fenomeni appartenenti alla realtà psichica di D., conosciuti ma non ancora pensati12: fenomeni presentati, non rappresentati. Con D., mi era capitato di notare che a volte il mio atteggiamento accogliente veniva accettato, a volte invece, inspiegabilmente, più le mie parole e i miei atteggiamenti erano accoglienti e rassicuranti, più D. entrava in ansia dopo la seduta, e tornava la seduta successiva angosciata da pensieri che avevano come contenuto l’essere rifiutata e cacciata da me. Questi pensieri erano così vividi e reali per lei che si sentiva e si comportava come chi sta per subire un destino ineluttabile. Non riusciva 10

W. R. Bion, Attenzione e interpretazione, cit., p. 169. A proposito del concetto di “soggetto transizionale” vedi supra, nota 29, p. 18. 12 Vedi a questo riguardo il concetto di “conosciuto non pensato” di Bollas in Christopher Bollas (1987), The Shadow of the Object, Free Association Books, London. Tr. it. di Daniela Molino, L’ombra dell’oggetto, Borla, Roma 2001. 11

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a vedere questi pensieri collegati, come le proponevo, ai suoi fantasmi di abbandono e riusciva a malapena a condividerli con me, presa com’era dalla paura che la condivisione stessa di questi contenuti sarebbe stata l’innesco di una catena di eventi che avrebbero finito per realizzare proprio ciò che la terrorizzava. Di questo fenomeno non ero riuscita a farmi un’idea convincente, anche perché le interpretazioni proposte, legate alle numerose esperienze di abbandono vissute con la madre (fino a quel momento descritta da lei genericamente come distante e collerica), non avevano avuto alcun effetto, cadevano nel vuoto. Intuivo di trovarmi di fronte a qualcosa di enigmatico e inquietante, che rimase tale finché un giorno D. venne in seduta molto scossa e mi raccontò di aver subito il giorno precedente una molestia sessuale nell’ambiente di lavoro e di non essere riuscita a difendersi, al contrario si era paralizzata in una specie di indifferenza. Era abbattuta, profondamente apatica, depressa, rassegnata. Era seduta di fronte a me, la guardavo intensamente ascoltandola, lei non mi guardava, stava ad occhi bassi. Mentre parlava con un tono spento e mortificato, il mio sguardo è stato catturato dalle sue mani, da un movimento tormentoso delle mani unite una dentro l’altra. Quella visione suscitò in me l’intuizione fortissima di qualcosa che appariva nelle mani, di qualcosa di contrastante, eccedente e dislocato rispetto al racconto, alle sue parole, che stranamente non mi suscitavano una risposta empatica. Ero come indifferente al racconto, l’unica cosa viva erano le sue mani. La paziente continuava a parlare, ma in quegli istanti per me si è fatto silenzio, non seguivo più le parole, come se l’immagine delle sue mani avesse occupato tutto il campo percettivo come può occuparlo un enigma. Si è fatto silenzio nei miei pensieri, come si fosse creato uno spazio vuoto, il vissuto di un’area di non conoscenza, di un non contatto attraverso la parola, il pensiero. Credo sia stata questa percezione di non contatto che mi portò a decidere di avvicinarmi a lei prendendo le sue mani tormentate dentro le mie, in un gesto di contatto senza mediazione di parola. La sua reazione fu tempestiva e sorprendente: si ritrasse piena di paura, ma con una certa violenza, come fosse stata colpita, aggredita. Sorpresa io stessa dello squarcio inatteso che si era aperto, le dissi che pensavo dovesse esserle accaduto qualcosa di grave, lontano nel tempo, se ora le succedeva di non riuscire a capire, a distinguere il venir trattata bene dal venir trattata male, l’essere accolta, amata e cercata dall’essere aggredita, allontanata, rifiutata. Il mio gesto era di vicinanza e lei aveva reagito come si fosse trattato di una aggressione. Se questo le accadeva rispetto ai gesti, immaginavo che fosse ancora più difficile, per lei, capire il senso delle parole, distinguere le parole affettive dalle parole aggressive, le parole che avvicinano dalle parole che allontanano. Forse per questa incapacità a distinguere non era riuscita a reagire altrimenti che con la paralisi e l’indifferenza, il giorno prima, quando era stata molestata. Se per lei non era stato possibile percepire con chiarezza l’aggressione nel gesto dell’ uomo che aveva violato il suo spazio fisico, allora, per questo motivo non era riuscita ad arrabbiarsi e a ritrarsi. Mentre parlavo, D. si

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distendeva, si rilassava. Prima di congedarci, mi disse che, per la prima volta, si era sentita davvero creduta. A questa seduta seguì una lunga interruzione dovuta a un mio problema di salute. Nei contatti telefonici intercorsi in quel periodo, la paziente mi diceva di essere stupita di non sentirsi disperata per la separazione da me, ma di percepire che qualcosa le faceva compagnia dentro e che, questo qualcosa, era legato alla nostra ultima seduta. Alla ripresa degli incontri emersero molte cose prima inaccessibili. Mi disse che non solo si era sentita creduta, ma si era accorta che credeva alle mie parole, si fidava di ciò che coglieva nelle mie parole. Emersero ricordi infantili prima inaccessibili alla memoria, spariti in forme di amnesia; parlò della relazione con la propria madre in modo per me del tutto nuovo e inaspettato: “era un serpente a sonagli, mi blandiva con le parole, mi attraeva a sé e poi mi aggrediva, mi scagliava contro proprio le persone da cui mi lasciava intendere che mi avrebbe difesa, così ero tradita ogni volta, e la verità non veniva mai fuori, forse io stessa non la sapevo più. Se ero mogia mogia magari si avvicinava, ma per me era pericoloso perché non potevo essere arrabbiata, se lo ero mi scagliava contro proprio le persone con cui io ero arrabbiata. Se era lei mogia e io mi avvicinavo, mi cacciava in malo modo come se l’avessi attaccata”.

Come si può descrivere quello che era accaduto e l’effetto che si era realizzato per D.? Quando nel lavoro analitico si ha a che fare non con rappresentazioni, ma con presentificazioni, è il campo della relazione che può costituire la matrice di una trasformazione, attraverso l’esperienza della transitività (che caratterizza il soggetto patchwork) per la quale possono coesistere, come abbiamo già detto, presenze diverse e incompatibili fra di loro secondo la logica lineare delle delimitazioni identitarie. Questa esperienza, quando si realizza, dà luogo, apre uno spazio psichico transizionale in cui può essere esercitata una nuova facoltà di scelta. Nell’arco di pochi istanti, nel campo della relazione fra me e D. si erano date contemporaneamente forme di presenza diverse per qualità e intensità: una qualità attiva e una qualità passiva; una qualità indifferente e una qualità animata da forti correnti emotive; una qualità aggressiva che viola lo spazio corporeo (in una relazione implicante un non contatto fisico), e una qualità accogliente e innocente capace di cercare un contatto di vicinanza affettiva attraverso un gesto fisico; una qualità aggressiva sana che si difende da una violazione e una qualità aggressiva distruttiva incapace di cogliere l’innocenza del gesto. In momenti come questo la coppia analitica funziona come contenitore di forme di presenza legate a identità incompatibili appartenenti alla realtà psichica del paziente: D. aveva dentro di sé parti dell’identità

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materna, incompatibili con parti più ‘autentiche’ del suo sé (incompatibili con il suo “vero sé” per usare la formulazione di Winnicott13), e ciò era fonte per lei di sofferenza e ambiguità. La mia disponibilità ad ospitare la forma di presenza indifferente confusa con l’aggressore, ha consentito a lei di assumere il suo sé capace di rabbia protettiva di fronte ad una aggressione; ovvero, proiettando su di me l’identità confusa con l’aggressore14, D. ha potuto vivere il suo gesto di sana rabbia distanziante verso un altro che la tocca senza il suo permesso. D’altra parte, nello stesso tempo, in quell’esperienza io ho incarnato contemporaneamente anche la presenza in lei della bambina vivace, che si avvicina alla madre ritirata in sé stessa, per offrirle un sollievo, e viene respinta con rabbia dalla madre stessa. Da questo spazio transizionale denso di fenomeni transitivi, la presenza-contenitore dell’analista deve essere in grado di passare repentinamente ad una forma di presenza separata interpretante, in grado di riordinare le appartenenze, riconducendole ad una delimitazione di soggetti separati all’interno della coppia analitica. Questa esperienza, nel suo complesso, ha consentito a D. la realizzazione psichica di una nuova delimitazione possibile fra sé e la madre, che ha permesso l’accesso alla memoria infantile. In questa nuova delimitazione D. ha potuto separare ciò che voleva per sé da ciò che voleva lasciare alla madre. Se l’analista è capace sia di ospitare le identità presenti nel paziente sia di discostarsene trasformandole, si produce per il paziente una esperienza in cui le identità cercano una delimitazione attraverso una trasformazione reciproca e sul piano della relazione avviene un consolidamento delle differenze sé / altro da sé. Quando questo succede in modo così chiaro, per così dire ‘in diretta’ dentro la relazione, gli effetti sono molto potenti. Passiamo ora al secondo momento decisivo della relazione terapeutica con D. avvenuto a distanza di circa due anni dal primo. D. aveva avuto un padre che lavorava all’estero e durante tutta la sua infanzia lo vedeva solo a Natale. Il padre tornò a vivere con la fami-

13 Cfr. Donald W. Winnicott (1960), Ego Distortion in Terms of True and False Self, in The Maturational Processes and the Facilitating Environment, Hogarth Press, London 1965, tr. it. di Alda Bencini Bariatti, Sviluppo affettivo e ambiente. Armando, Roma 1970 e Id., (1971), Playing and Reality, Tavistock Pubblication, London. Tr. it di Giorgio Adamo e Renata Gaddin, Gioco e realtà, Armando, Roma 1974. 14 Su questo tema della identificazione con l’aggressore faccio riferimento alle concettualizzazioni espresse da S. Ferenczi in Confusione delle lingue tra adulti e bambini, cit., passim. Vedi anche Judit Mészàros, I mattoni della moderna teoria del trauma, in AA. VV. (a cura di Carlo Bonomi), Sandor Ferenczi e la psicoanalisi contemporanea, Borla, Roma 2006.

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glia durante la adolescenza di D. perché una grave forma depressiva gli impediva di lavorare. D. per tutto il periodo di assenza del padre aveva potuto crearsi una immagine di lui totalmente idealizzata, sostenuta da quel contatto sporadico natalizio, in compagnia della quale si rifugiava per difendersi dalle delusioni della relazione con la madre. Si può dire che aveva creato un mondo parallelo di benessere grandioso illusorio e idealizzato nel quale era in compagnia del padre e a questo mondo ricorreva difensivamente per rispondere alle frustrazioni insopportabili e ai sentimenti di impotenza che scaturivano dal rapporto con la madre. Quando il padre tornò a convivere col loro, ammalato e chiuso pesantemente in sé stesso, non fu più possibile per D. mantenere quella idealizzazione così importante per il suo equilibrio, andò incontro a una disillusione grave. Nel contatto con la realtà il suo idolo andò in pezzi e assunse una valenza del tutto negativa (questo è infatti il primo passaggio della disillusione). D. era piena di rabbia sprezzante nei confronti del padre che non era come lei lo voleva, ma anche piena di rabbia sprezzante nei confronti di sé stessa che non riusciva a guarirlo, e si sentiva per questo piena di sensi di colpa. La situazione per D. precipitò quando suo padre morì. D. si sentiva responsabile per quella morte e cominciò a nutrire sentimenti gravissimi di autosvalutazione e fantasie di suicidio. Iniziò a sentirsi senza via d’uscita “perché lui era morto e nulla si poteva più aggiustare”. Questa mobilizzazione pesantissima di sentimenti autoaggressivi, sentimenti di colpa e suicidari provocò un blocco del processo di disillusione, propedeutico alla esperienza di lutto e un ricorso nuovamente a difese di scissione e di proiezione. Cominciò così a frequentare ogni sorta di maghi, medium, sedute spiritiche, che temporaneamente contenevano le fantasie suicide. Voleva in qualche modo annullare la propria rabbia nei confronti del padre per il fatto che la rabbia metteva in pericolo, anzi tendeva ad annientare quelle componenti buone della relazione già così precarie; ed inoltre, ciò che era terrorizzante, la rabbia si trasformava immediatamente in fantasie suicide legate al senso di colpa. Nello stesso tempo aveva bisogno di provare quella rabbia da cui si difendeva strenuamente, per uscire dalla identificazione con suo padre depresso e da quella identità, che voleva mantenere a tutti i costi, di guaritrice del padre anche nell’al di là (questo era un ulteriore motivo della frequentazione dei medium). Questa ricostruzione della storia interiore di D. rispetto al padre è stata faticosissima. D. era continuamente alle prese con amnesie e negazioni, ma nello stesso tempo l’inconsapevolezza di questi passaggi conviveva con la riproduzione dei tratti della sua relazione con il padre in una relazione affettiva nella quale l’altro era idealizzato grandiosamente come il padre, nella distanza, nella assenza, mentre gli incontri reali “in carne ed ossa” erano minacciosi, costellati di rifiuti, per mantenere a tutti i costi “il sogno”. In ogni caso le stranezze e le bizzarrie difficilmente comprensibili di questa relazione affettiva sono state per me la guida per ricostruire la relazione con il padre, dovendomi comunque destreg-

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giare sul filo di un rasoio rispetto allo scatenamento, sempre temuto e minacciato, delle fantasie suicide. Il punto di svolta ci fu nell’estate del quinto anno di terapia, l’ultima seduta prima dell’interruzione estiva. Per l’ennesima volta D. aveva iniziato col raccontarmi un episodio legato all’aver interpellato un medium, ma a differenza delle altre volte aveva aggiunto: “non ne posso più di andare in giro a fare queste cose, dobbiamo trovare una soluzione”. Questa frase era stata detta furtivamente, come un inciso, e D. era immediatamente passata a difendere quello che aveva fatto. Probabilmente legittimata dal suo appello (anche se subito negato), mi sono ritrovata a esprimere una grande rabbia e a dirle che era ora di finirla con quelle frequentazioni di maghi e simili, e che ora io ritenevo incompatibile continuare con lei che da un lato veniva da me e dall’altro coltivava questa area a parte, segreta, di tentativi assurdi di contatto con l’al di là; avrebbe dovuto scegliere: o investire le sue energie nell’analisi o continuare a frequentare maghi e santoni. Mano a mano che parlavo, ero sempre più spaventata di quello che poteva succedere, mi rendevo conto che stava prendendo corpo proprio la paura massima di D., essere esposta alla mia rabbia e di conseguenza al ridimensionamento drastico della sua immagine di me come grandiosamente disponibile in modo illimitato, immagine gemellare dell’immagine grandiosa di sé con gli stessi tratti. Ciò, fino a quel momento, era stato per lei intollerabile, e legato non solo a fantasie di essere rifiutata e abbandonata, ma anche a fantasie di crollo e di suicidio. Guardavo D., che, esposta alle mie parole subiva quasi una trasformazione fisica, diventando curva, schiacciata, l’emblema fisico posturale della vittima. Mano a mano che la guardavo il campo percettivo si è improvvisamente ristretto come se tutto si fosse sospeso tranne la percezione fortissima di trovarmi di fronte ad una presenza titanica, caratterizzata da una immensa aggressività passiva. A quel punto, dopo una pausa di silenzio, con un tono di voce completamente diverso, le ho detto che non potevo diventare complice di quella parte di lei che la voleva morta, e con quella parte ero arrabbiata, non con lei, volevo stare dalla sua parte, non dalla parte del suo vittimismo. Con mia grande sorpresa, dopo pochi istanti, D. ha iniziato a parlare della sua rabbia verso il padre che la soffocava con il suo vittimismo, che non la lasciava vivere. Lo aveva odiato, le faceva paura, tutto il giorno chiuso in casa immobile, inerte, ma intollerante verso la sua vitalità di ragazza. Per questo provava rabbia e si sentiva in colpa di provarla, non poteva esprimerla, e quando è morto è arrivata la paralisi per i sensi di colpa che sono diventati insopportabili, anche perché qualche giorno prima della morte del padre, un pomeriggio, si era talmente spaventata di stare da sola con lui che aveva chiesto aiuto a una zia, e per questo aveva provato disprezzo di sé. Era andata per tutti quegli anni dai medium per trovare una soluzione, ma forse finalmente non ce sarebbe più stato bisogno. Quel giorno, diceva D., io le avevo restituito la possibilità di arrabbiarsi: “qui è successo qualcosa come a riscattare la relazione fra me e mio padre... è stato come se io fossi lui

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e lei, Cristina, me... una me stessa che può essere arrabbiata non contro di lui, ma contro la sua passività da vittima... ”.

Come si può commentare l’evento descritto? In questo caso D., sorprendentemente disinvolta nella possibilità di utilizzare il campo analitico come campo attraversato dai fenomeni complessi della soggettività transizionale, arriva rapidamente a ricollocare le forme di presenza in gioco e a delimitare le soggettività sé / altro da sé nella relazione con il padre. L’assunzione su di me dell’identità adolescente vitale di fronte all’identità adulta depressiva, la legittimazione da parte mia della mia rabbia, e la connotazione che ho dato di una rabbia per lei, contro la sua identità vittimistica, ha consentito a D. di appropriarsi della propria rabbia verso il padre, legittimandola e forando la corazza dei sentimenti di colpa che la tenevano vincolata e legata al padre attraverso una identificazione con lui come vittima. Questa identificazione non le aveva consentito, fino a quel momento, di ridimensionare la figura paterna componendo una immagine più reale del padre: fino a quel momento infatti erano rimaste scisse le componenti dell’odio e della idealizzazione infantile, sostenendo da un lato il sé depressivo vittimistico della paziente e dall’altro il sé grandioso. Questa separazione dalla presenza interna del padre in lei, ha realizzato per D. l’accesso alla costellazione di una nuova soggettivazione possibile. In entrambi i momenti descritti, inizialmente i miei interventi hanno caratteristiche simili a quelle di un agito (mi riferisco al mio gesto di prendere la mano di D. e alla mia presa di posizione sulla sua frequentazione dei maghi espressa con rabbia attraverso un aut-aut). In effetti la tendenza all’agire, esposta alla continua minaccia di trasformarsi in ‘passaggio all’atto’15, caratterizza tutte quelle situazioni nelle quali l’analista non si trova di fronte a rappresentazioni, ossia modelli (verbali o non) del problema da affrontare, ma è “direttamente coin-

15 Viene definito “passaggio all’atto” o “acting-out” un agito che sostituisce il pensiero o comunque un contenuto appartenente alla realtà psichica; trattandosi di una sostituzione si evita così un contatto, una relazione con quel contenuto, contatto che, proprio attraverso l’atto, viene escluso. In situazioni come quelle descritte l’agire può, al contrario, in una cornice fortemente disciplinata, svolgere una funzione ponte verso realtà psichiche non rappresentate e non ancora pensate. L’importante funzione dell’agire dell’analista come passaggio verso la simbolizzazione è stata proposta ed approfondita, a partire dalla propria esperienza clinica con pazienti psicotici, da Marguerite A. Sechehaye con il suo concetto di “realizzazione simbolica”, vedi Id. (1950), Journal d’une schizophrène, PUF, Paris. Tr. it. di Cecilia Bellingardi, Diario di una schizofrenica, Giunti, Firenze 1955.

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volto con l’originale”16. Ciò implica l’inadeguatezza dello strumento interpretativo che, appoggiandosi alla conoscenza già raggiunta, opera sulle rappresentazioni, attraverso sostituzioni di senso che offrono un modello diverso. La rinuncia alla interpretazione è particolarmente importante quando nell’analisi ci si trova ad affrontare la parte psicotica della personalità, che può essere più o meno sviluppata nei diversi soggetti. Incapace di pensare, la parte psicotica lavora, infatti, esclusivamente con oggetti presenti, e come oggetti presenti e concreti tratta sia alcune parti del mondo interno, sia l’analista stesso che funge da contenitore di queste parti, sia le parole. L’analista dunque deve allenare la propria disponibilità intuitiva come organo di senso necessario per cogliere la qualità della realtà psichica non rappresentata dell’analizzando, realtà che sta dentro l’esperienza emotiva complessa e transizionale, a cui come analista si sottopone, improvvisando un adattamento del proprio apparato psichico a ciò che di volta in volta è richiesto dal processo analitico stesso. L’analista per fare questo deve esercitare la propria capacità negativa, deve cioè essere capace di reggere alla pressione dei molteplici contenuti psichici legati alla componente transizionale della relazione, senza cercare di ridurre l’angoscia precipitandosi a trovare definizioni e spiegazioni derivanti da ciò che già conosce, saturando in questo modo lo spazio che deve restare libero perché l’esperienza e il pensiero sorgivo che l’accompagna si diano. Tutto ciò presuppone l’accettazione di una posizione di passività. Si tratta però di una passività particolare e per certi versi paradossale: una forma di passività attiva il cui tratto saliente è quello di volere una impasse e di accettare la traversia che si apre esattamente a partire dal punto in cui si dà per esaurita la conoscenza. Accettando di raggiungere questo punto cieco si apre quello spazio laddove si rende possibile lo squarcio di una nuova visione, la creazione della possibilità di pensare un pensiero non ancora pensato, l’accesso ad una nuova conoscenza. La grazia che può scaturire da questa dimensione negativa della conoscenza17 sta proprio nella possibilità che essa dà di arretrare fino al punto in cui, dopo averla sentita allontanarsi all’infinito, ricompare vicinissima e accessibile la speranza. Nell’iconografia rinascimentale la figura allegorica della speranza è a volte rappresentata come figura 16 Wilfred R. Bion (1967), Second Thoughts, Heinemann, London. Tr. it. di Sergio Bordi, Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Armando, Roma 1970, pp. 224-225. 17 Su questo tema vedi il racconto di Kleist, Il teatro delle marionette, cit., pp. 22 e 25.

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femminile con una benda sugli occhi18: immagine straordinariamente efficace di una essenza centrata sulla rinuncia alla certezza suffragata dalla conoscenza. La speranza infatti è una dimensione raggiungibile tramite una resa e l’accettazione di un rischio: la rinuncia al rassicurante controllo che potrebbe essere esercitato attraverso la certezza della visione immediata che la conoscenza già raggiunta può dare. È questo passaggio attraverso il buio che crea le condizioni in cui può forse darsi l’esperienza di una nuova epifania.

18 Uno splendido esempio di questa immagine allegorica lo si trova a Firenze nel Chiostro dello Scalzo affrescato da Andrea del Sarto all’inizio del cinquecento.

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ROTTURA PSICOTICA DEL SETTING: UNA STORIA CLINICA1

Se volere l’evento è innanzitutto liberarne l’eterna verità, come il fuoco che lo alimenta, tale volere raggiunge il punto in cui la guerra è condotta contro la guerra, la ferita, tracciata vivente, come la cicatrice di tutte le ferite, la morte rovesciata voluta contro tutte le morti. Gilles Deleuze2

Un giovane fisico per darmi un’immagine di ciò di cui si occupava nelle sue ricerche – i cambiamenti nello stato della materia – mi raccontò questa storiella: C’è un mucchio di sabbia, come un cono, c’è una formica che lo percorre ripetutamente. Per mille volte la formica scala il mucchio compiendo il suo tragitto. Si muovono granelli, si spostano, si alterano i rapporti fra un granello e l’altro, ma la forma del mucchio resta identica. Al milleunesimo passaggio della formica c’è un crollo della sabbia, si altera la forma del mucchio, è avvenuto un cambiamento catastrofico della configurazione che non potrà più tornare allo stato precedente. Ciò che studio, concluse il fisico, è il problema della differenza fra i tragitti che non cambiano la configurazione e quel tragitto che la cambia e la loro reciproca relazione. Superata la meraviglia, sono molte le domande che si aprono su questa relazione: c’è sì una interdipendenza, ma non si può certo 1 Una prima versione ridotta di questo scritto è stata pubblicata in AA.VV., a cura di Stefano Baratta e Giulia Valerio, Regola e trasgressione nello spazio analitico, “Quaderni di Metis” 1, Moretti & Vitali, Bergamo 1996. 2 G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 133-134.

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dire che si tratti di una causalità, semplice o complessa che sia... e poi c’è lo spazio, c’è il tempo... c’è una precisione dell’evento... la mutazione catastrofica avviene ad un determinato passaggio, ad una determinata ripetizione... Quali sono le condizioni necessarie perché ciò accada? Avrebbe potuto avvenire prima, dopo... o non avvenire mai? Queste sono le domande attraverso cui vorrei ripensare alla forma particolare di una esperienza terapeutica con una paziente psicotica ed interrogarmi sul problema della separazione e della regressione come possibile accesso a cambiamenti irreversibili in rapporto alla psicosi. La terapia con S., iniziata dopo una grave crisi psicotica con prolungata ospedalizzazione, si era snodata nell’arco di sette anni senza che si verificasse nessuno scompenso acuto. In vista della conclusione del percorso immaginata, concordata e pronunciata per l’inizio dell’ottavo anno, ma ancora indefinita, improvvisamente, da un giorno all’altro, ‘caduta dal cielo’, scoppia una crisi violenta ma, a posteriori decisiva rispetto all’originarsi delle condizioni per una reale possibilità di futura separazione. Per la paziente una condizione di angoscia, confusione psicotica acuta, stato d’animo ed interpretazioni deliranti; per me una forte esperienza di vacillamento e di insicurezza che accompagnava azioni e decisioni ferme e risolute prese per lei e per me. E poi, la risoluzione della crisi, in tempi brevi. Alla fine una nuova configurazione, qualcosa di tutt’affatto diverso dal ripristino di uno status quo ante. Qualcosa di simile alla potenza di una bastonata del Maestro Zen all’allievo nel percorso della conoscenza: io e la paziente nella posizione dell’allievo e cos’altro nella posizione del Maestro se non il processo terapeutico nella sua autonomia dalle intenzioni di entrambi i soggetti? Ciò a dire che le considerazioni che farò vengono dal ‘senno di poi’, mentre il racconto ho cercato di svolgerlo nel modo più rispondente possibile alle reali condizioni in cui si sono svolti gli eventi. E qui sorge per me una prima domanda: questi spazi oscuri che coesistono con aree di luce come a formare una pelle di leopardo che ci accompagnano nel lavoro con gli psicotici, aree di cecità che siamo più o meno disposti e portati a vedere come resistenze, come ostacoli al processo, non possono forse essere visti anche come una condizione senza la quale non avremmo mai il coraggio di stare a contatto, di immergerci nella realtà insopportabile della psicosi? Non è forse

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anche questa condizione, dell’essere parzialmente all’oscuro, una di quelle paradossie che sono al tempo stesso sbarramento ed accesso al mondo psicotico? Questi saranno dunque i nodi della trattazione di questa esperienza clinica: l’assunto fondamentale della autonomia del processo terapeutico rispetto alle intenzioni di entrambi i soggetti; il rapporto complesso fra carattere discontinuo del cambiamento e coscienza che tende ad una rappresentazione di continuum; ed infine il nodo cruciale della ripetizione e del cambiamento in rapporto alla ripetizione, quasi che la ripetizione (la regressione) abbia in sé un nucleo irriducibile, non riducibile cioè alla ripetizione stessa, un ‘ombelico’ per il quale si potrebbe forse usare il concetto filosofico di esigenza intesa come non necessità, non mera possibilità, ma volontà di possibilità3 immanente al processo stesso come “ripetizione diversa”4.

La terapia All’epoca del nostro primo incontro S. aveva 34 anni. Arrivò accompagnata dalla sorella maggiore che la conduceva lì come avesse per le mani qualcosa di scomodo e vergognoso. Era confusa, in uno stato assolutamente caotico, nel panico. Una coppia di amici armati di buona volontà l’aveva ospitata, ma lei se ne era andata anche da lì ed aveva vagato per tre giorni nei campi, senza che nessuno sapesse dov’era. Mi fece l’impressione di qualcuno che stava subendo una compressione insopportabile. Stetti con lei un’ora alla fine della quale le dissi che avremmo potuto lavorare insieme se lei lo avesse voluto, ma non subito, in quel momento c’erano necessità più urgenti, percepivo troppa confusione intorno a lei e pensavo che un ricovero in una clinica avrebbe potuto temporaneamente aiutarla. Notai un sollievo. Erano tutti contrari, mi disse, ma per lei forse era la cosa migliore. Accettò. Tornò dopo tre mesi, la fase acuta era passata e voleva iniziare la psicoterapia.

3 Uso questo concetto nel senso in cui è stato trattato dal filosofo G. Agamben nel corso di lezioni sul tema del linguaggio da lui tenute all’Università di Verona nell’Anno Accademico 1994/95. 4 Come si vedrà più oltre, la paziente ha utilizzato queste parole per connotare l’esperienza di regressione psicotica vissuta all’interno della relazione con me.

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Nella prima fase della terapia, durata quasi due anni, si lavorò vis à vis. Ripensando a quel periodo, direi che la accompagnavo nella sua convalescenza dalla crisi e dal ricovero senza farle fretta. Quella era stata la sua seconda crisi psicotica acuta; S. la attribuiva ad un ennesimo fallimento in una relazione amorosa conclusasi con un aborto. Per di più, tutto si era verificato qualche tempo dopo il suo ritorno da un soggiorno all’estero, dove aveva passato un periodo di qualche mese per un corso di perfezionamento nell’ambito della sua attività, e dove meditava di trovare un lavoro stabile e di trasferirsi. Era tornata perché richiamata dalla famiglia in occasione di un’ennesima crisi depressiva della madre: “tu sei l’unica che può fare qualcosa”, le era stato detto. La sua prima crisi si era verificata sette anni prima dopo qualche mese di trattamento psicoterapeutico in un setting piuttosto confuso, e S. la attribuiva alla rottura del primo ed unico fidanzamento importante. Anche allora era stata ricoverata in clinica. Si parlò della famiglia. S. è l’ultima di 4 figli, due maschi e due femmine; “io e mia sorella... due zitelle... anzi, mia sorella eternamente fidanzata, ancora a casa con mamma e papà”. Si parlò dei traumi reali, la depressione e la distanza della madre, il rapporto di preferenza segreto con il padre, malato e marginalizzato, ma nello stesso tempo idolatrato e temuto, e per questo isolato dagli altri membri della famiglia. Si parlò del lavoro che S. non riusciva a valorizzare, nonostante l’enorme quantità di energie spese, la passione e la competenza, delle quali non si accorgeva, disturbata com’era dal carattere paranoide dei suoi vissuti nei confronti delle colleghe. Si parlò dei rapporti di amicizia numerosi, caratterizzati dal suo prendersi cura lei dell’altra persona, senza sentirsi mai compresa, dal suo grave e continuo con-fondersi con l’altra persona ed approdare inevitabilmente ad una serie di dubbi sulla propria realtà e sulla propria identità. Emersero ricordi del periodo delle elementari: “una maestra che voleva vedermi a tutti i costi come un angelo, come la sua bambina che aveva perso, che era morta” ed una specie di ricordo precoce molto confuso: “giocavo con la cacca ed imbrattavo tutto, i muri persino e nessuno faceva niente, nessuno puliva...”. Attraverso questi ricordi (o costruzioni mnestiche?) S. cominciò a mettere in comune con me le immagini scisse di sé come angelo e di sé come diavolo, entrambe intrise di grandiosità e onnipotenza. In quel tempo ho lavorato sul riconoscimento, sulla differenzia-

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zione, soprattutto in rapporto alle figure femminili, su una minima valorizzazione di sé in un clima caldo colloquiale, ma fondamentalmente molto neutro, più probabilmente neutralizzato. Solo verso la fine di questo primo periodo si impongono nel controtransfert sbilanciamenti decisamente negativi verso familiari ed amiche. Questi contenuti costituiscono per me l’indizio della possibilità di accesso ad una nuova fase del lavoro: si erano mobilizzati elementi di rabbia distanziante, la paziente aveva potuto depositarli in me e a questo punto potevano così venirle molto gradualmente restituiti e resi disponibili per una reintroiezione, come elementi di realtà dei conflitti emotivi all’interno di relazioni affettive significative, come elementi salutari di separazione rispetto alla sua tendenza alla fusionalità. La seconda fase della terapia, che considero come l’effettiva entrata nel vivo della psicoterapia psicoanalitica, ha una durata di circa tre anni5 ed è concomitante sul piano di realtà con avvenimenti importanti: lo stabilizzarsi del suo lavoro con l’acquisizione di funzioni di coordinamento; la decisione di vivere sola; il matrimonio della sorella; e soprattutto la morte del padre e le conseguenze di questa morte nelle relazioni famigliari. Nel corso di tutto questo periodo nel processo profondo si è verificata un’alternanza notevole di regressioni ed integrazioni successive, e nel lavoro terapeutico un’importante spazio è stato riservato all’analisi di sogni e di ondate di eventi somatici correlati. La sicurezza minima acquisita da S. nel rapporto con me nei mesi di lavoro precedente, attraverso proiezioni, identificazioni e introiezioni, consente infatti l’affioramento di una intensa e significativa produzione onirica che si presenta in concomitanza con sintomi somatici di carattere primario (afonia, enuresi notturna, vomiti, diarree, allergie), sintomi somatici che vedo come fenomeni somatopsicotici6 equivalenti concreti di intense angosce di separazione. I sogni sembrano presentare i temi profondi più che rappresentarli, e, il più delle volte, il contenuto latente ed il contenuto manifesto tendono a coincidere. 5

In questo periodo nella terapia si verifica una variazione nel setting, S. decide di stendersi sul lettino. Quella posizione sarà mantenuta in tutta questa fase con continuità, tranne che in qualche seduta isolata in cui si mette a sedere per riprendere il contatto visivo. 6 Sul concetto di fenomeno somatopsicotico vedi le concettualizzazione di Bion sugli stati protomentali in W. R. Bion (1961), Experiences in Groups, Tavistock, London; tr. it. di Sergio Muscetta Esperienze nei gruppi, Armando, Roma 1971, pp. 109-113 e Id., (1991), A Memoir of the Future, Karnak, London, pp. 433-434.

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Essi vengono analizzati ed arricchiti da ricordi. Il ritmo è abbastanza preciso: ad ogni integrazione più o meno segue una nuova fase di regressione, con una certa lieve disorganizzazione, ma mai invalidante e disgregante. Sembra che il materiale interpretativo funzioni come piattaforma per scendere nelle esperienze di regressione ben contenute nello spazio onirico e nella dimensione dello spazio terapeutico, lasciando a S. la possibilità di affrontare piuttosto bene gli importanti passi concreti di autonomia di questo periodo. I sogni che si presentano, in prevalenza intensamente angoscianti, popolati di morti, sono inizialmente densi di immagini di incorporazioni ed evacuazioni. Gatti che la penetrano, raggiungono la gola piantandovi le unghie e che poi le portano un bambino; pezzi di bambini sul pavimento evacuati sotto forma di feci; escrementi che ricoprono un bambino, lei che lo tocca e come per contagio viene ricoperta a sua volta di escrementi; gravidanze obbligate, senza saperlo; fino ad una sorta di acme dato da un sogno in cui degli uomini che la rincorrono, con un coltello le fanno un grosso taglio che attraversa tutta la testa formando un grande labbro. Accanto a queste immagini del caos magmatico dei movimenti pulsionali primari ed alle immagini orrifiche dell’onnipotenza e della castrazione immaginaria, zeppe di angosce di annientamento, cominciano a comparire immagini oniriche acquietanti, di me insieme a lei, ad intervallare, in un rapporto quasi ritmico, gli altri sogni. Improvvisamente compaiono immagini più simboliche: la casa dei genitori viene ristrutturata, e, sotto il colore della ristrutturazione c’è il colore originario: “il colore della storia della casa”; un’altra casa bella fuori, ma dentro orrenda, abitata dai genitori di una ragazza malata; ragni, in sogno, in fantasie, oggetto di sintomi fobici: “immagine di mia mamma cattiva, i ragni non riconoscono i loro piccoli e li mangiano”. Anche la mia immagine entra con forza in un registro più decisamente simbolico: “eravamo in questa stanza, era molto più grande, io ero appoggiata con la testa sulle sue ginocchia, si giocava a scacchi, ogni mossa era qualcosa di nuovo, senza competizione”; in un altro sogno nella stanza della terapia mi trova con una bambina in braccio accanto ad un uomo che le piace; inizialmente pensa che la bambina è sua poi pensa che non è possibile, è mia: “non potevo piacergli com’ero, potevo piacergli in un diventare un futuro, dove io parlo io ci sono”. In un episodio in cui incontra i genitori di un bambino difficile, si trova a vivere una acuta sofferenza: “lo trattavano umiliandolo e isolandolo”. La stessa notte sogna di vivere sola in una casa ai bordi

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del mare, il mare in tempesta, vengono madre e sorella, la sorella le dice “non ti sei accorta di essere malata?” e con un fax le fa una radiografia in cui compare un polmone bucherellato, mentre la madre non diceva niente, faceva finta di niente. “Mi aveva umiliato ed isolato”. Così entra nel discorso analitico il tema della malattia e della cura. E quindi la possibilità del dolore. Fantasie che un bambino che si era fatto male a scuola (dalla ferita era uscito molto sangue) avrebbe potuto morire dissanguato, perché la madre non lo avrebbe curato. E da qui il tema della morte e il poter finalmente piangere la morte del padre. Le tre configurazioni profonde presentatesi nella fase precedente (la bimba dell’epoca preverbale, la bambina alle prese con il tema edipico, la morte, la malattia e la sua cura, ognuna accompagnata dalle sue forme di aggressività) compiono nei successivi quindici mesi il loro percorso onirico ed analitico. I temi si intrecciano trasformandosi, mentre vengono analizzate le componenti grandiose. Non ci sono più, se non eccezionalmente, sintomi somatici e le fasi regressive sono progressivamente sostituite dai vissuti di dolore. Inizialmente compaiono sogni in cui scrive con tre calligrafie, in cui ha i capelli di tre colori, ed in cui pare che i simboli della malattia in cura fungano da ponte: in un sogno in cui ad un concorso deve svolgere un tema sul tempo, è un suo alunno handicappato, “che aveva fatto cambiamenti enormi nel corso dell’anno scolastico”, che è collocato al posto di chi trova la soluzione: “mi diceva che dovevo pensare al tema e farlo, invece che stare lì a domandarmi perché ero lì...”. Cominciano a comparire immagini sempre più chiare di trasformazione. Per quanto riguarda la prima configurazione (il campo preverbale), con i suoi intrecci, potrei citare questa sequenza: S. sogna di essere alla seduta: “lei mi parlava in tedesco, lingua che non so, ma sorprendentemente capivo. Nel sogno penso: il capire è legato all’atto del parlare non al significato delle singole parole”. Questa immagine accompagnata dalla sua concettualizzazione onirica, che può ben rappresentare la fondazione interpersonale del linguaggio,prima della costituzione di significati oggettivi, viene comparata da S. per opposizione ad un ricordo della prima crisi psicotica, ricordo che mi racconta piangendo: “allora facevo dei suoni in un linguaggio inventato simile al tedesco; mi ero sentita cambiare il colore dei capelli;

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mia mamma mi guardava spaventatissima ed io avevo visto uscire dai suoi occhi due ragni”7. Per quanto riguarda la seconda configurazione (il tema edipico), attraverso una serie di sogni passa dalla situazione descritta nelle fasi precedenti (quella cioè di occupare tutti i posti) alla possibilità di occupare il suo proprio posto, collocando me nella posizione transferale di volta in volta più utile. Ciò da accesso a ricordi precoci di un periodo di insonnia grave che nell’analisi viene messo in relazione ad una costellazione di sentimenti di colpa riferiti ai desideri incestuosi: il padre aveva una gamba ingessata che appoggiava su uno sgabello, lei ci si metteva a cavalcioni “mi sedevo sulla sua gamba, lui mi faceva delle carezze... mi sono ritrovata poi defraudata dalla mia parte sessuale per quelle carezze...”. Le due configurazioni sono continuamente intrecciate in un andamento come di due spirali che si intersecano: ad ogni movimento nel campo della relazione con il materno corrisponde l’innesco di un nuovo movimento nel campo della relazione triadica. Per quanto riguarda la terza configurazione (morte, malattia, cura) appaiono sogni in cui si separano chiaramente i vivi dai morti, sogni in cui entra con forza il tempo; ad esempio: “dovevo partire per Parigi ma non potevo partire perché era morta mia mamma. Me lo diceva mia sorella. Mi ritrovavo vestita con vecchi abiti di mia sorella, orribili, nessuno porterebbe vestiti simili, così vecchi e datati. Mi guardavo e mi vedevo vestita come un’extracomunitaria psichica, grassa come una persona immobile da psicofarmaci, un obbrobrio... altro che sentirmi onorata di portare quella roba solo per il fatto che era stata di mia sorella!” Piangendo dice: “per quanto tempo mi sono maltrattata...”. Si lavora sulla malattia in rapporto alla dimensione invidiosa ed in rapporto alla separazione vissuta come colpa e come morte. Iniziano fantasie sulla fine della terapia diverse da quelle precedenti (sempre intrise d’angoscia): “la partita di scacchi può avere una soluzione, infondo sono stata una persona che è stata male ma che può anche riscattarsi”, ma anche “ho letto su un giornale questa frase: ‘per qualcuno c’è l’ergastolo a vita della terapia’ ho avuto una reazione di panico, ho pensato sono sette anni che ho questo ergastolo... quest’espressione l’ho sentita come una condanna”. A partire da questa immagine entriamo nel vivo del problema della separazione da me 7 I concatenamenti fra questo sogno e questo ricordo nei processi di trasformazione implicati nell’accesso al simbolico per il tramite della lingua materna sono trattati nel capitolo dal titolo “Udir con gli occhi”: spazi terapeutici fra sguardo e parola alle pp. 62-65.

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e dalla terapia, lasciando tuttavia tutta l’indefinizione necessaria sul piano del progetto concreto.

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Separazione e fenomeni del transfert psicotico Il lavoro analitico su questo tema si snoda in un periodo di otto mesi, alla fine dei quali esploderà la crisi psicotica. C’è un evento in particolare che contrassegna in modo quasi assoluto questi mesi: una sua amica di infanzia sieropositiva, va incontro ad una fase di peggioramento della malattia. S. si dedica intensamente ed assiduamente alla cura dell’amica. Io temo degli eccessi, ma vengo tranquillizzata dalla disponibilità di S. ad affrontare nelle sedute le possibili implicazioni profonde di quel rapporto di cura: doppi processi di identificazione con me e con l’amica gravemente ammalata, intense reazioni di lutto mobilizzate dalle fantasie di fine della terapia spostate in quella relazione, vissuto dell’equivalenza fra separazione e morte, pericolo di attivazione delle fantasie onnipotenti relative alla difficoltà di accettare l’impotenza rispetto alla malattia, contemporanea presenza di angosce di morte e desideri di morte per l’amica per allentare la tensione, pericoli di riattivazione della propria identità grandiosa (pericoli tanto più insidiosi quanto più legati a dati di possibile verità): “sono l’unica che ha il coraggio di parlare apertamente con la mia amica della morte, gli altri fanno finta di niente e pretendono che anche lei faccia finta di niente per non stare male loro, un po’ come succedeva a me nelle crisi... quando mia sorella mi obbligava ad imparare a memoria le cose da dire a mio fratello perché non si accorgesse di nulla”. Accanto a questi temi viene affrontato il problema dell’immagine fortemente e grandiosamente idealizzata investita su di me. L’interruzione estiva della terapia (di sette settimane) passa senza particolari problemi. All’inizio dell’autunno compare un sogno, che voglio riferire per esteso, per il suoi rapporti con gli accadimenti successivi ed in particolare con lo scompenso acuto che si verificherà qualche mese dopo: “dalla finestra vedevo la mia amica passeggiare su e giù lentamente nel cortile, aveva una pancia da gravidanza deformata, una pancia a punta per un masso di granito nero, fatto come una piramide, che doveva uscire per via naturale. Sua madre mi diceva al telefono che la mia amica non c’era più, minimizzava tutto e questo mi faceva una gran rabbia. Il masso, pensavo guardando la scena, come ha potuto entrare? Da un orifizio; se resta lì può portare a morte, ma farlo uscire può portare ad

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altrettanta morte... questa punta può veramente squartare. Si potrebbe fare una grande cerniera a zip che consentirebbe di toglierlo. Una cerniera? Come se il suo corpo fosse solo la tuta che indossa... era pericoloso”. Seguono le associazioni della paziente: “il masso è una presenza maschile... la via naturale di uscita poteva essere l’ano... Era come un bluff che faceva, si era riempita di questo sasso enorme per non essere evanescente... ma, la testa, gli occhi, ... era viva...”. Raccogliendo le sue associazioni propongo (in maniera decisa, ma con una certa inquietudine interna in un clima di dubbio e di perplessità) di leggere il sogno come un’immagine attuale della malattia: il problema del liberarsi dalla presenza paterna dentro di lei sotto forma di tomba (evacuazione/espulsione di un oggetto incorporato) – la piramide nera come monumento sepolcrale –, in rapporto a questa tomba il corpo è un puro involucro; fin che il padre è trattenuto lì per non perderlo, nessun uomo reale può davvero esistere per lei, può essere davvero desiderato; ma, anche, propongo di leggere la piramide nera come la psicosi stessa, ormai ridotta a sepolcro, della quale compaiono le radici remote (“per non essere evanescente”), che ora, nel presente, sono viste come un bluff. La paziente assente, dicendo che il vuoto, l’evanescenza non esiste più; io replico che può esserci la paura di questa evanescenza, ma che dobbiamo accettare il pericolo di fare uscire quel masso, proprio per il fatto che, come dice il sogno, “se resta lì può condurre a morte”. Interpretando, la mia inquietudine si stempera; anche la paziente si distende e si attiva in lei la memoria di immagini oniriche dimenticate di quella stessa notte: “mia sorella aveva addobbato il negozio di mio padre. Aveva smontato il lampadario, al posto del quale aveva fatto scendere dal soffitto tre banane disposte in piedi, verso l’alto, a mezzaluna. Io sono assolutamente indignata e le dico arrabbiatissima: ‘ma dove siamo?!’ Lei mi risponde: ‘in un negozio di frutta e verdura’. Entra mio padre che le dice: ‘che stupida che sei’, minimizzando. Io mi sento come in colpa, perché, se sono quella più intelligente, devo tollerare una cosa così assolutamente ridicola”. Propongo di leggere questo sogno nella scia del precedente; la figura della sorella viene interpretata come una figura della parte psicotica della personalità; interpreto le tre banane come i tre falli del padre e dei fratelli e l’addobbo come l’operazione psicotica di fare degli uomini dei trofei da esibire (operazione che viene collocata al di sopra di tutto – al posto del lampadario –) in un registro di assoluta letteralità, di mancato accesso al simbolico; metto in evidenza il rapporto fra le sue

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parole (l’espressione indignata “ma dove siamo!?”) capaci di separare la realtà interna dalla realtà delle cose, nelle quali il simbolo è acquisito attraverso l’uso linguistico dell’allegoria, e le parole pronunciate dalla sorella che mettono in scena nel sogno il carattere concretistico cosificato appartenente al nucleo della sua relazione psicotica con la realtà, fondata sulla negazione della realtà interiore. Segue uno sblocco emotivo, emergono altri ricordi delle crisi psicotiche, prosegue il processo del lutto per la malattia dell’amica e per la separazione da me. Nel contempo sogna se stessa dapprima come una persona che soffre di “mal di terra”, e che pertanto deve “tenersi ben attaccata”, e successivamente sogna di frequentare una scuola di volo: “da un grande prato si saliva su una montagna lì sopra si sarebbe trovato il velivolo, un’ala, come un deltaplano. Vedevo due amici, Cristina e Vittorio, e, nel momento in cui incontro lo sguardo di queste persone, mi sembra di cogliere il nocciolo fondamentale di come si fa a volare. L’istruttore dice che ci sono 5 punti, uno di questi è mimesi, incrocio di diagonali. Sono questi incroci che consentono di volare con un volo controllato. Parlo con Vittorio che mi rassicura, mi dice che devo mettere gli scarponi per salire sulla montagna...”. L’interpretazione verte sulla differenza fra la malattia, “il mal di terra”, come eccesso di adesività, letteralità, cosalità, e la salute, come necessità di un volo controllato, diverso da un salto nel vuoto. Per questo volo sono necessari degli strumenti (gli scarponi e l’ala), ma soprattutto la conoscenza (di rappresentazione ed affettiva) per usare questi strumenti, conoscenza che si dà nella terapia attraverso la concettualizzazione (le parole dell’istruttore), ma soprattutto attraverso il rispecchiamento identificante (gli sguardi che si incontrano con Cristina e Vittorio) che la precede. Resto stupita della precisione dei termini usati dal pensiero onirico: la mimesi, l’imitazione come termine ad indicare una corrispondenza non identica, l’identificazione non adesiva, arricchita dall’immagine spaziale dell’incrocio di diagonali come chiasma (contatto e separazione nella loro reversibilità). Nell’ultima seduta prima delle vacanze natalizie mi racconta di aver molto pianto per la possibile fine della terapia e di aver pensato che è strano sentire contemporaneamente che il lavoro analitico potrebbe non finire mai e che deve finire; parla della paura di tornare a non avere nulla: “poi mi rendo conto che è falso... non sono più la stessa persona di allora”. Nella seduta successiva, immediatamente precedente lo scompenso psicotico acuto, riferisce tre sogni: “un professore di filosofia, giovane

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ma saggio, mi diceva: ‘dai, S., parlami del Risorgimento’ ed io rispondevo: ‘sono ancora ai Carbonari’”. In seguito: “ero al matrimonio di una regina, in un castello, c’era tantissima servitù. Ero stata invitata in chiave personale, ma avevo portato una serie di amici all’insaputa di chi mi aveva invitato. Un’amica ha vomitato sul pavimento. Stavolta non devo pulire io, c’era un servitore”. Da ultimo: “ero in una casa grande a R. (paese della casa d’infanzia) c’erano una serie di persone che erano grandi sagome di cartone che piano piano morivano. Ero con mia sorella, ma in realtà era lei, Cristina. Insieme potevamo veder cadere queste maschere. Io stavo soffrendo, ma mi sentivo al sicuro perché eravamo insieme”. Io, benché presa da inquietudine e dalla sensazione di qualcosa di enigmatico che mi sfuggiva, tuttavia commento brevemente l’importanza di questa possibilità di non dover essere lei ad occuparsi del male altrui, ed interpreto l’ultimo sogno come rappresentazione del processo di lutto per la separazione dalle identificazioni e dalle immagini illusorie, processo che io e lei stiamo affrontando in questa fase della terapia. Riesaminando questo materiale interpretativo alla luce della crisi psicotica che di lì a poco sarebbe scoppiata, mi stupisce il fatto che si parla in continuazione di una evidenza assolutamente non evidente in tutto quel periodo. Ciò mi fa ripensare alle mie interpretazioni di allora come restituzioni che potevano essere corrette, adeguate, ma altrettanto indubitabilmente riferite ad un oggetto supposto assente. In altre parole non ero pienamente cosciente del mio assenso alla paziente ad espellere l’identità psicotica accettando la ferita di una regressione grave, così come non ero cosciente del progetto inconscio di regressione terapeutica nella sua qualità di “volo controllato” che avrebbe consentito di abbandonare la reificazione psicotica (“il mal di terra”). Si tratta quindi di un fenomeno in cui appare uno scarto, per così dire verticale, fra una chiarezza cognitiva che è all’oscuro di ciò che afferma ed una forma oscura di coscienza, inaccessibile cognitivamente, che nell’oscurità conosce ciò che afferma, o, meglio ancora, lo vuole. Si potrebbe forse parlare di una trans-coscienza o di una oltre-coscienza di carattere relazionale, basata sull’identificazione e sul processo, una componente del processo terapeutico che eccede la dimensione della coscienza individuale dei due soggetti e che non può essere ascritta all’inconscio. Si potrebbe anche ipotizzare che è proprio questa forma di coscienza che consente l’accesso a questa area limite dell’esistenza psichica, nella confrontazione con un nucleo psicotico. Una coscienza di tipo diverso non mi avrebbe fatto forse recalcitrare, recedere, non sarei stata fermata dai dubbi e dalle difese

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dall’angoscia? Oppure: come avrebbe fatto questa autentica speranza di una guarigione a fare i conti con l’enunciato cosciente di una sua relativa impossibilità?

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Epilogo Dopo tre giorni ricevo, attraverso il fiorista, una pianta bonsai di bosso, dell’età di 10 anni, carica di fiorellini bianchi, con un biglietto: “Finalmente ho trovato una piccola pianta che sta fiorendo. Sempre e solo grazie. S.”. Ho una fugace reazione di perplessità di fronte a questo regalo inaspettato, alla fine mi dico che avrei potuto capirci qualcosa di lì a due giorni quando la paziente sarebbe tornata per la sua seduta. All’ora della seduta, due giorni dopo, S. mi telefona: “non vengo, devo andare dalla parrucchiera... ho fatto tardi... i tre orologi di casa non sono sincronizzati... ”. Intuisco, sbalordita, incredula, che è molto confusa, angosciata, in uno stato apertamente delirante; le dico con garbo che non mi sembra assolutamente il caso di saltare la seduta, le do il numero del radiotaxi e la prego di raggiungermi in studio il prima possibile. Accetta, remissiva. Mentre l’aspetto, provo un’intensa ansia, mi chiedo come sia possibile che io non mi sia accorta di nulla, vivo una forte esperienza di vacillamento, una sorta di disorientamento, grado minimo di derealizzazione, in cui arrivo a mettere in dubbio tutto il lavoro fatto in quegli anni. Incontrarla mi fa sentire un po’ meglio, anche se sono davvero di fronte all’evidenza dello scoppio di una crisi psicotica acuta. Mi racconta in modo confuso e frammentato che qualche sera prima, poco dopo essere stata avvicinata da un uomo sconosciuto in un locale dove era andata con due amiche, aveva portato quest’uomo, uno straniero, a casa sua, “per avere rapporti sessuali” aveva passato la notte con lui, e dice: “ad un certo punto l’ho visto come la personificazione dell’angelo delle tenebre... ho fatto il numero telefonico di mia madre, ma una voce ha detto che il numero era inesistente... potevo sparire e non se ne sarebbe accorto nessuno. Ho passato con lui anche il giorno dopo e poi non so quale istinto vitale mi ha consentito di difendermi nonostante tutto, di mandarlo via”. Il racconto è faticosissimo, spezzettato, ritmato dalla frase: “i tre orologi di casa fanno ore diverse”. Si sente fortemente minacciata, in pericolo. Mi accorgo che anche in me c’è una sorta di a-sincronia, di dissociazione fra un’esperienza interiore estremamente turbinosa ed un comportamento fermo, calmo e deciso. Le chiedo se ha mangiato, mi risponde di no “perché non

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c’è più luce in cucina”. Le do una coperta, una mela, dei biscotti, le preparo delle gocce di Valium, le dico che possiamo provare a fare senza ricovero, ma che avremo bisogno di aiuto, di altre persone, di farmaci, e che dovremo pazientare fino al giorno dopo, in modo che io abbia il tempo di organizzare ogni cosa. Lei è remissiva, si affida. Ha il permesso di fermarsi in studio mentre lavoro con gli altri pazienti in un’altra stanza, ed il permesso di interrompermi, se davvero necessario. Si addormenta. Concluse le altre sedute senza venire interrotta, l’accompagno a casa e rimaniamo in contatto telefonico. Ci saremmo riviste in studio la mattina dopo. Nel frattempo chiedo collaborazione ad una collega dell’ospedale che mi offre la possibilità di accogliere la paziente in day-hospital per il tempo necessario, due volte al giorno, per somministrazioni endovenose di neurolettici e di mantenere un contatto telefonico stretto con me. Per il giorno successivo organizzo un incontro a casa della paziente con il medico di base suo amico per sistemare il problema del certificato di malattia per il lavoro (cosa che la preoccupava molto) e per esplorare le possibilità di contare sui familiari di S. per le necessità basilari: che non fosse lasciata sola, che potesse essere nutrita e che potesse essere accompagnata ogni giorno da me per la seduta e all’ospedale per le terapie neurolettiche (avevo bisogno di un tramite con la famiglia di S., con la quale ovviamente non avevo avuto in quegli anni nessun contatto; non sapevo nemmeno se i suoi famigliari fossero al corrente della mia esistenza). Camminando per la strada con lei verso l’auto che avremmo preso per raggiungere la sua casa, ho una strana percezione fisica, anzi, una sorta di fenomeno dispercettivo: S. mi sembra piccolissima di statura confronto a me (molto di più di quanto non sia in realtà). Questa immagine percettiva, per così dire senza oggetto, ha la forza di trovare il suo proprio enunciato: penso che per la prima volta lei dipende completamente da me ed in un certo senso solo da me, sento la pesantezza di questa responsabilità, ma sento anche che non voglio sottrarmi. L’osservazione attenta dei movimenti controtransferali che precedono e contrassegnano lo scoppio della crisi fa emergere che, in parallelo al manifestarsi dello scompenso psicotico in S., c’è uno scoppio, un turbinare di fenomeni percettivi ed emotivi controtransferali che fa seguito al debole tratto del clima emotivo presente in me nei mesi precedenti, riassumibile in una sfumatura di perplessità, una sorta di: “c’è qualcosa che non so, c’è qualcosa che mi sfugge”. Nel momento della crisi, nel controtransfert c’è una frattura verticale fra un’espe-

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rienza caotica di ansia, di disorientamento/derealizzazione minante le radici della realtà delle sicurezze sedimentate nel corso del tempo della terapia (“allora è tutto falso”), e un’esperienza di fermezza, calma, semplicità e ordine nei gesti e negli atteggiamenti relazionali con la paziente; il clima di fondo del rapporto percettivo con la realtà è caratterizzato da un’evidenza percettiva-dispercettiva che precede la possibilità di enunciazioni, di pensieri. Questi tratti possono rappresentare il problema emotivo della confrontazione diretta con la psicosi e riflettere i fenomeni psichici vissuti dalla paziente, con intensità e qualità in lei amplificate e invasive. Nella paziente la regressione potrebbe essere stata preceduta da un’“aura”, una sorta di Wahnstimmung. La successiva esplosione di fenomeni psicotici manifesti, essendo comunque calata nel percorso analitico e vissuta all’interno della relazione terapeutica, pur avendo una intensità drammatica con la sua componente di derealizzazione, con le angosce di annientamento e di sparizione, con le elaborazioni deliranti paranoidee, convive, in parallelo, con una possibilità di fiducia e di contatto, con una forte esigenza di relazione e con la ricerca di un accesso al pensiero. Anche nella paziente, alla componente percettiva è riservata una posizione centrale: la possibilità di vivere nuove percezioni con l’evidenza che è loro propria, riapre la possibilità di costruire nuovi enunciati. Da subito, non potendo lavorare con lei sul piano del discorso, lavoro in parallelo a lei, reinterpretando i sogni precedenti lo scompenso: questa sua crisi era, forse, il masso nero di granito che doveva essere fatto uscire dalla pancia; lei, che aveva visto me come una regina e lo studio come un luogo bellissimo e intangibile, con la sua crisi, potendo espellere lì il suo male, come il vomito del sogno, mi offriva la possibilità, che io infondo non avevo mai avuto, di condividere il suo male nel momento in cui c’era, la morte che aveva dentro... e così era possibile anche per lei poter guardare il suo male, alleggerirsene, potersene staccare... forse tutto questo era necessario per veder cadere, insieme a tutti gli altri fantocci di cartone, anche quello dei ricoveri in clinica, il fantasma della malattia come qualcosa da tenere segreto, come colpa, e della cura come “ergastolo”, come segregazione. S. non interagisce direttamente con le mie parole, ma intuisco che più o meno mi segue e che non sono affatto inutili. La fase acuta della crisi regressiva si esaurisce nell’arco di due settimane. Sul piano organizzativo le cose avvengono come previsto, vive temporaneamente a casa con la vecchia madre, gli altri familiari

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la portano avanti e indietro fra casa, ospedale, e il mio studio, tutti i giorni; sono disponibili, non invadenti, accettano di ricevere istruzioni ed, anche con loro, i contatti sono abbastanza caldi. Nei primissimi giorni di questo regime la regressione si approfondisce, poi la direzione si inverte. Nelle sedute quotidiane mi rendo rapidamente conto che, nonostante i sintomi, non c’é fissità: nella prima settimana viene costantemente ripetuto da S. il racconto della notte e del giorno passato con lo straniero, ma ogni volta arricchito di nuovi particolari, di nuovi vissuti, con un progressivo abbandono dei tratti paranoidei ed una graduale integrazione di vissuti depressivi salutari.8 Pian piano l’esperienza di quei giorni viene rielaborata ed iniziano a comparire sentimenti di puro dolore per quello che sta succedendo: “sono tutta bucherellata per i farmaci, capisco che sono necessari... ma mi fa tanto soffrire... dover essere curata, accompagnata dappertutto, controllata...”. Continuano, sempre più sporadici, in queste sedute momenti di contatto fisico con la paziente soprattutto quando ci separiamo. S. si riprende in modo graduale, ma sorprendentemente breve. Dopo tre settimane vengono sospesi i farmaci antipsicotici; non solo non c’è più nessun sintomo psicotico, ma mi stupisce la comparsa di un insospettato senso dell’umorismo. Abbiamo gradualmente allentato la frequenza delle sedute, fino a ripristinare il ritmo settimanale. Dopo aver analizzato l’esperienza della regressione come “ripetizione diversa” (sono parole della paziente), si è aperta la possibilità di ripercorrere tutti i temi dell’analisi sotto la luce nuova di ciò che nella crisi si è rifondato, come se tutto il discorso analitico prendesse corpo, avesse trovato la sua propria incarnazione. La separazione, il congedo, allora, saranno in futuro davvero possibili. 8 A proposito dell’importanza prospettica degli agiti sessuali nelle forme di psicosi trovo scritto in Sullivan: “tutto il materiale fattuale originato da concrete attività sessuali volontarie o involontarie, ha un effetto benefico in quanto porta le concettualizzazioni e le fantasie di natura sessuale entro la sfera dei criteri di realtà... l’esperienza incorporata nella personalità, diventa per così dire un ormeggio, al quale resterà probabilmente attaccato anche durante i momenti più gravemente fantasmatici della sua infermità”; Herry S. Sullivan (1962) Schizophrenia as a Human Process, Norton & Company, New York-London. Tr. it. di David Mezzacapa, Scritti sulla schizofrenia, Feltrinelli, Milano 1993, pp. 239-240. In questo caso la ricerca attiva di una relazione sessuale proprio in questa particolare circostanza interiore, potrebbe configurare il tentativo di attivare una difesa simbiotica per arginare l’incipiente confusione e frammentazione psicotica. Il ricorso alla relazione sessuale in simili circostanze è ben descritto in José Bleger (1967), Simbiosis y ambiguedad, estudio psicoanalitico, tr. it. di Antonella Donazzan, Simbiosi e Ambiguità, Editrice Lauretana, Loreto 1992, Cap. II, passim.

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Tracce per una discussione

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Nella relazione analitica una regressione con questi tratti configurerebbe ciò che Margaret Little, a partire da Winnicott,9 chiama “regressione alla dipendenza per la vita”. Per la Little i pazienti psicotici ...sono persone che in nessuna circostanza possono considerare la sopravvivenza come un fatto acquisito. Nei loro ricordi inconsci esistono delle esperienze di qualcosa che dobbiamo realmente considerare come annientamento10. Nella regressione alla dipendenza... il paziente permette a se stesso di raggiungere lo stato primario di non integrazione e affida le funzioni di sperimentazione e di osservazione del proprio io all’analista, diventando ‘uno stato di esistenza’, una rabbia, un caos ,un grido, ecc. Tale stato è sperimentato come disintegrazione e depersonalizzazione con una totale perdita di contatto, come caos e annientamento11.

M. Little sostiene che il particolare stato che il paziente cerca di stabilire rispetto all’analista non è uno stato di simbiosi, ma piuttosto di totale identità e di non differenza rispetto all’analista... è uno stato al quale sembra che i pazienti di questo tipo abbiano bisogno di regredire, allo scopo di riparare il difetto fondamentale, o la frattura scomposta psichica12.

Questo tipo di regressione sarebbe per l’autrice l’unica possibilità di risoluzione del “transfert delirante” inteso come delirio inconscio esistente soltanto in certe aree della psiche del paziente. In tali aree deliranti inconsce esisterebbe una fede assoluta, tenacemente mantenuta, nella totale identità dell’analista con il paziente e con i suoi genitori, entrambi deificati e demonizzati (cioè dotati di qualità magiche buone e cattive). Questa convinzione si 9 Sulla centralità nel pensiero di Winnicott della regressione come “ritorno dal genitale al fallico, dal fallico all’escretorio, dall’escretorio all’ingestivo [in rapporto alla] possibilità di correggere il difetto originario [in presenza di un] io con una organizzazione sufficientemente complessa” vedi lo scritto del 1954 Gli aspetti metapsicologici e clinici della regressione nell’ambito della situazione analitica. In Id., (1958) Collected Papers, Tavistock, London. Tr. it. di Corinna Ranchetti Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze 1975, Cap. XXII, passim. 10 Margaret Little (1986), Toward Basic Unity, Free Association Book, London. Tr. it. di Franca Pezzoni Verso l’unità fondamentale, Astrolabio, Roma 1994, p. 121. 11 Margaret Little (1990) Psychotic Anxieties and Containment, J. Aronson, London. Tr. it. di Franca Pezzoni Il vero sé in azione, Astrolabio, Roma 1993, p. 130. 12 M. Little, Verso l’unità fondamentale, cit., pp. 121, 123.

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estende anche a chiunque sia in qualsiasi rapporto tanto con il paziente che con l’analista... (di conseguenza) coloro che si curano del paziente (nella realtà effettiva) diventano psichicamente non solo espressioni dell’analista, ma identici a lui.13

La regressione psicotica che raggiunge questo livello all’interno di una relazione terapeutica potrebbe infatti mobilizzare e rendere disponibile al lavoro terapeutico un nucleo all’interno del quale permane una totale indifferenziazione fra Io e corpo, fra Io e Non-Io, fra Io e mondo: in esso possono così iniziare a prodursi delle differenziazioni, delle discriminazioni, delle relazioni, attraverso il contatto, veicolato da una evidenza, con esperienze percettive somatiche e psichiche che possono costituire la base per una smentita del delirio di transfert (ad esempio l’evidenza e l’esperienza della sopravvivenza dell’analista e della sua capacità di pensare esposte alla distruttività del paziente). A proposito di ciò che può verificarsi in questo tipo di nuclei attraverso una regressione psicotica, José Bleger (che li definisce nuclei agglutinati, caratterizzati a suo avviso da un funzionamento sincretico) sostiene che la psicosi può costituire qui un momento di passaggio verso una discriminazione che non è avvenuta normalmente nel corso dello sviluppo e portare alla guarigione arricchendo la personalità14

D’altra parte, ovviamente la possibilità che si verifichi una regressione psicotica suscita terrore e angoscia, come mette bene in evidenza il sogno che precede di tre mesi la crisi regressiva di S., sogno in cui era comparso il masso di granito nero nella pancia. Un simile sogno può essere letto come una rappresentazione (possibile per la parte non psicotica della personalità) della necessità e della paura rispetto alla regressione psicotica. L’inconscio, creando questa immagine, aveva potuto dar forma a quella sorta di buco nero che può essere il nucleo di funzionamento totalmente indifferenziato, lo aveva inscritto in un’immagine di morte, lo aveva discriminato dal corpo proprio. Il sogno poneva poi, con particolare efficacia, il problema della necessità della evacuazione di questo nucleo, ma nello stesso tempo della pericolosità connessa all’espulsione di una parte riconosciuta come morta 13 14

Ivi, pp. 123, 128. J. Bleger, Simbiosi e ambiguità, cit., p. 125

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e nel contempo potenzialmente mortale, proprio perché non percepita come propria pur avendola dentro. Attraverso la visione del contenuto di morte da espellere (pena il contagio mortifero), appartenente come una gravidanza e nello stesso tempo estraneo come un oggetto incorporato indesiderato, il sogno entra nel vivo della complessità paradossale del dilemma fra tener dentro e portare fuori il proprio nucleo psicotico: “se resta lì può portare a morte, ma farlo uscire può portare ad altrettanta morte... questa punta può veramente squartare”. La paura è proprio quella del morire andando in pezzi, lacerandosi, e se una via d’uscita è prefigurata con l’immagine onirica della cerniera, sorprendentemente precisa nell’indicare ciò che contiene in sé la possibilità di unire e separare, il dubbio è che ciò possa riguardare solo uno strato di superficie e che il pericolo si mantenga: “si potrebbe fare una grande cerniera a zip che consentirebbe di toglierlo. Una cerniera? Come se il suo corpo fosse solo la tuta che indossa... era pericoloso”. Si tratta del pericolo di una ripetizione della crisi senza che avvenga alcuna modificazione profonda... Ma, se malgrado le intenzioni coscienti di paziente e terapeuta, l’espulsione si compie effettuandosi attraverso la regressione psicotica all’interno della relazione analitica, essa può costituire un vero e proprio evento nel processo terapeutico e diventare la straordinaria occasione di una profonda esperienza di cambiamento. Anche nei pazienti psicotici gravemente regrediti coesistono infatti, accanto alla regressione, funzioni dell’Io evolute e complesse La regressione non è mai completa, nemmeno nei pazienti psicotici gravemente regrediti. Esistono e sono operative anche delle funzioni dell’Io più progredite… Di conseguenza, nella situazione analitica troviamo non soltanto l’alternarsi di processi regressivi con altri adeguati all’età, ma anche… una alterazione qualitativa degli aspetti regressivi dell’Io; non soltanto una successione, ma una miscela fra i due aspetti… Il lattante di cui facciamo conoscenza nella seduta analitica, ‘il lattante psicoanalitico’ non è identico al lattante originario15.

La qualità del trattamento ricevuto da parte dell’analista e la sua capacità di coordinare le proprie ‘propaggini’, potrebbe avere un peso decisivo rispetto alla possibilità che una regressione psicotica si trasformi in una “ripetizione diversa”, ossia in una esperienza capace di 15 Paula Heimann (1989), About Children and Children-no-Longer. Collected papers 194280, The New Psychoanalytical Library, London. Tr. it. di Ludovica Grassi Bambini e non più bambini, Borla, Roma 2005, p. 174.

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costellare un mutamento profondo. Un atteggiamento attivo, non intrusivo, fatto di gratificazioni reali, cure effettive, concrete, contatti fisici, avvenimenti somatici, messo in rapporto con verbalizzazioni interpretative precedenti e future, consentirebbe al paziente l’inaugurarsi di un nuovo campo psichico proprio nelle aree in cui non può venire usata l’inferenza, l’analogia, la simbolizzazione: Le realtà che sono effettive concrete e fisiche sono usate per mostrare l’irrealtà effettiva delle idee deliranti. Queste cose sono secondariamente collegate alle parole che le mettono in relazione con quelle altre aree dove il delirio non predomina. Sto parlando di cose quali rispondere alle domande, toccare o essere toccati dal paziente o usare gli oggetti come fossero le cose che rappresentano (la ‘realizzazione simbolica’ come è descritta dalla Sechehaye) o l’uso diretto delle emozioni dell’analista16.

Si configurerebbe così un processo di “interpretazione in due stadi”17, in cui il primo stadio sarebbe preverbale eidetico, basato su eventi somatici, il cui risultato sarebbe la scoperta, mentre il secondo stadio sarebbe verbale in collegamento prospettico con l’esame di realtà e l’insight che ne deriverebbero. In effetti, le fasi di regressione psicotica attraversate all’interno della relazione terapeutica, possono trasformarsi in un passaggio decisivo del trattamento stesso: in esse infatti può realizzarsi la possibilità di incastonare l’interpretazione in un tessuto d’esperienza di relazione (attraverso la forma particolare del rispecchiamento analitico che si dà in queste fasi) proprio laddove, prima della regressione, sussisteva una immobilizzazione. Attraverso ciò che la regressione rende disponibile al lavoro analitico, investendo la relazione, si realizzerebbero cioè le condizioni per un passaggio effettivo dalla frammentazione psicotica ad una nuova configurazione, offerta proprio dal rispecchiamento restituito al paziente dall’analista. A questo proposito, Piera Aulagnier, parlando del suo lavoro con gli psicotici, descrive in questo modo il processo di rispecchiamento: prima della mia interpretazione, lo sguardo vede ‘il senza forma di se stesso’, con la mia interpretazione, permetto a colui che guarda di rimettersi insieme e, a partire da quel ‘contenuto’ e quel ‘contenitore’ ricostituiti, di vedere al di fuori di sé una scena, un’immagine, la conseguenza dell’atto di un corpo, rendendogli possibile essere qualcuno

16 17

M. Little, Verso l’unità fondamentale, cit., p. 128-129. Cfr. P. Aulagnier, La violenza dell’interpretazione, cit.

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che può provare disgusto, paura... senza essere per questo ‘ciò che disgusta’, ‘il puro terrore’.18

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Si può aggiungere che in ciò che avviene in una regressione grave restitutiva, come fase di un processo terapeutico, può venir discriminato, tracciato e delimitato uno spazio psichico di relazione che può fungere da matrice di soggettività, qualcosa che potrebbe essere definito come soggetto transizionale19 originario, mancante nella storia psichica di questi pazienti. Per soggetto transizionale originario intendo qualcosa di simile a ciò che Piera Aulagnier, riprendendo Freud, descrive come avere un bambino dalla propria madre: la prima domanda, quella mediante cui ogni essere umano chiede un primo bambino alla propria madre, non è altro che l’oggetto per eccellenza del desiderio, di ogni desiderio... ciò che il bambino domanda in questa fase che direi di nascita dell’Io, è di partecipare alla ricreazione di un nuovo bambino che non è altri che lui stesso.20

È sorprendente a proposito di ciò un sogno fatto da S. a distanza di due mesi dalla crisi: “in una casa nuova a R. con tutta la mia famiglia, dico a mio papà: siamo solo io e te a non aver visto il bambino. Dov’è? Vado a prenderlo al terzo piano. Ha due cuffiette in testa sovrapposte. Sembra che lo debba curare io... Mi rendo conto che questo bambino è mio. Tutti fingono indifferenza, era una cosa normale... Mi ero sbagliata a pensare che fosse di mio fratello. Era mio, non c’era nessun papà di questo bambino. Quelle due orribili cuffiette... un’immagine di altri tempi, la prima cosa che faccio è toglierle, ha tutti i capelli impiastricciati lo lavo, lo cambio, è mio...”. Tornando alle caratteristiche del trattamento in questa fase, va innanzi tutto premesso che, a mio avviso, una conduzione di questo tipo è possibile solo se si ha un significativo lavoro alle spalle. Gli eventi catastrofici riguardanti il setting e il contenitore analitico funzionano nell’ambito dell’analisi del delirio di transfert in rapporto all’ordine precedente e a quello che verrà a configurarsi. Senza un simile fondamento sarebbe semplicemente ‘analisi selvaggia’ o qual-

18 Piera Aulagnier (1981), Du langage pictural au langage de l’interprète, “Topique” 26, pp. 29-54. Tr. it. (della citazione) di Alberto Lucchetti in Id., La violenza dell’interpretazione, cit., p. 30. 19 Sul concetto di soggetto transizionale vedi supra, nota 29, p. 18. 20 P. Aulagnier, La violenza dell’interpretazione, cit., p. 397.

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cosa di aleatorio e di veramente pericoloso21. Fatta questa premessa, si può affermare che la rottura catastrofica dell’inquadramento può avere in sé un importante impatto, facendo entrare nel processo elementi immobilizzati e resi indisponibili proprio dall’inquadramento stesso: l’allineamento obbediente alle regole del setting può costituire infatti il contenitore dentro il quale spariscono gli indizi di sacche di funzionamento simbiotico22. Lo sbalordimento relativo al carattere, per S. del tutto inaspettato, del mio comportamento e della rottura del setting delle nostre sedute (regole, tempi, spazi, modalità, sequenze) rompe la certezza psicotica dell’ineluttabilità della ripetizione dell’identico come destino. Si rompe anche la sua certezza psicotica inconscia di possedermi onnipotentemente ed onniscientemente nelle mie reazioni e nei miei comportamenti: la sopravvivenza stessa dell’analista alla dimensione distruttiva dell’onnipotenza e della coincidenza psicotica ci fa ricordare, come dice Aulagnier, che “se il desiderio di piacere non è onnipotente, lo stesso può dirsi per il desiderio di morte”23. Credo che l’esperienza vissuta insieme a me della sua regressione nel male psicotico abbia offerto a S., attraverso l’impatto di una evidenza, la possibilità della realizzazione simbolica del contatto e nel contempo della smentita della coincidenza fra sentimenti e desideri di separazione e crollo psicotico con un annientamento del sé e dell’oggetto. Credo infatti che questa regressione possa esser stata ‘necessaria’ come campo in cui esperire la propria amabilità, desiderabilità anche del tutto ammalata, inerme e bisognosa (l’esperienza mancante dell’essere voluta per quello che è), e soprattutto come contenitore dell’esperienza di sopravvivenza dell’altro alla sua distruttività. È da qui che la fantasia e l’aspettativa della fine dell’analisi si svela nella sua profonda differenza dall’essere pura ripetizione di ciò che era avvenuto nella sua storia traumatica: la violenza e l’irretimento nella domanda materna (e dell’inconscio famigliare) che la figlia dovesse star bene senza di lei per far sparire la colpa della propria malattia depressiva. 21

M. Little, Verso l’unità fondamentale, cit., p. 130. Sul problema di come il setting può mantenere sacche di funzionamento simbiotico fra paziente e analista vedi: Psicoanalisi dell’inquadramento psicoanalitico di J. Bleger, cit., Cap. VI. Lo stesso saggio è pubblicato anche nel volume Setting e processo psicoanalitico, a cura di Celestino Genovese, Cortina, Milano 1988, pp. 243-256. 23 Piera Aulagnier, Penser l’originaire, “Topique” 49, Dunod, Paris 1992, pp. 7-29. Tr. it. con il titolo Vie d’ingresso nella psicosi, riportato in appendice del volume Id., La violenza dell’interpretazione, cit., p. 373. 22

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Se, come sostiene Piera Aulagnie, l’Io nasce dallo scarto che emerge a partire

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dalla primitiva indifferenziazione tra l’Io anticipato, portato in gestazione nella psiche dell’Io materno, e l’Io che avviene sulla scena psichica dell’infans24,

allora, nello scoppio improvviso della crisi regressiva, S. sperimenta all’interno della relazione analitica con me, il ri-prodursi di questo scarto, il ri-crearsi delle condizioni per le quali questo scarto sarà finalmente accettato. In questo senso nella crisi si sarebbe così configurata una vera e propria “esperienza io-morfica”25. Fuori dall’area dell’onnipotenza, posso così essere percepita da S. oggettivamente come altro, e la paziente può percepirsi come soggetto separato, fondamento su cui si costituisce la realtà di un’autentica possibilità di futura separazione ed indipendenza da me, la possibilità reale di immaginare la fine dell’analisi. Da ultimo vorrei soffermarmi sulla questione della gestione della crisi senza un ricovero. Penso che in questo caso il mancato ricorso all’ospedalizzazione abbia avuto un impatto efficace sull’andamento veloce e rapidamente positivo della crisi. Ho avuto peraltro la fortuna di poter realizzare una effettiva riconduzione a me di tutte le componenti di cura, cosa a mio avviso decisiva per il tipo di decorso che si è verificato. Non sempre d’altra parte è possibile evitare il ricovero, come è accaduto nella situazione descritta, anzi, alcune volte, un ricovero non solo è necessario, ma può essere del tutto auspicabile. In questi casi, comunque, un ricovero in assenza di contatti o non contestualizzato dal terapeuta all’interno della relazione analitica prima e dopo il ricovero stesso, potrebbe costituire in sé e per sé una sacca di mantenimento del transfert delirante; al limite potrebbe infatti contribuire a mantenere un livello di dissociazione tra una realizzazione priva di dimensione simbolica (la dimensione di cura materiale del reparto psichiatrico) ed un simbolo che, privo di supporto d’esperienza, non trova la propria incarnazione (il discorso analitico quando, sollecitato dall’angoscia psicotica, procede solo difensivamente, arrivando a sospendersi).

24 25

Ivi, p. 388. Ivi, p. 392.

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Ciò pone il problema di difficile soluzione nella cura delle psicosi, della divaricazione sempre più clivata fra psicoterapia psicoanalitica e cura psichiatrica che può avere come esito amaro un inesorabile impoverimento di entrambe.

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“UDIR CON GLI OCCHI”: SPAZI TERAPEUTICI FRA SGUARDO E PAROLA

Udir con gli occhi si addice al fine ingegno dell’amore. William Shakespeare1

L’immagine poetica shakespiriana di occhi capaci di udire è un’immagine forte del legame fra sguardo e parola, del legame fra una disposizione di attenzione, di intelligenza amorosa, e la possibilità di capire, di tradurre in pensiero/parola ciò che passa attraverso uno sguardo che è contemporaneamente ascolto: è questa la condizione inaugurale della buona riuscita della trasmissione e dell’accesso al linguaggio, condizione per la quale il comprendere, il capire, precede il sapere, dato che il capire veicola in modo più diretto l’impronta dell’essere in relazione. All’opposto, quando lo sguardo non è ascolto, quando il saper già sostituisce il capire, l’accesso al linguaggio porta l’impronta sia dell’isolamento sia della confusione fra soggetti. In questo percorso esplorativo attraverso il mondo delle connessioni fra follia e lingua materna, cercherò di presentare come, nella relazione terapeutica, possa darsi una esperienza di rifondazione della struttura relazionale profonda dell’accesso alla lingua, quando questa struttura è compromessa con la follia. Seguirò un itinerario attraverso due esempi clinici, che spero possano aiutare ad entrare in rapporto 1 William Skakespeare, Sonnets, tr. it. a cura di Alessandro Serpieri, Sonetti, Rizzoli, Milano 1991, 23° sonetto, pp. 112-113. La stessa citazione da Skakespeare è stata utilizzata da M. Masud R. Khan come titolo di un suo saggio del 1971 in Id. (1974), The Privacy of the Self, Hogarth Press, London. Tr. it. di Corinna Ranchetti Varon ed Ermanno Sagittario, Lo spazio privato del sé, Bollati Boringhieri, Torino 1979, cap. 16.

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con la complessità dei problemi legati all’intreccio fra accesso alla lingua e accesso al simbolico per il tramite della madre. Il primo esempio clinico ci consente di entrare direttamente al cuore della questione. Si tratta di un breve stralcio di seduta nel quale, una donna con una storia di psicosi2, mi racconta in sequenza uno straordinario sogno ed un ricordo che si era presentato al risveglio. Vedremo come, da un lato, nel sogno è rappresentato l’accesso ad una lingua che ha nella sua struttura la possibilità di costituire un tramite di relazione con sé e con l’altro, mentre, dall’altro lato, nel ricordo, è rappresentata la lingua psicotica che ha nella sua struttura l’incomprensibilità e l’angoscia: “Io e lei eravamo insieme in una seduta, lei mi parlava in tedesco, lingua che non so, ma sorprendentemente capivo. Nel sogno penso: il capire è legato all’atto del parlare non al significato delle singole parole. Poi, quando al mattino mi sono svegliata, ho ritrovato un ricordo della mia prima crisi psicotica: allora succedeva l’opposto, facevo dei suoni in un linguaggio inventato simile al tedesco; mi ero sentita cambiare il colore dei capelli; mia mamma mi guardava spaventatissima ed io avevo visto uscire dai suoi occhi due ragni”.

Cominciamo con l’affrontare il sogno. Il sognare è come un pensare3 per immagini, ma in questo caso nel sogno stesso la sognatrice formula un pensiero concettuale. Immagine onirica e pensiero del sogno testimoniano sulla fondazione relazionale affettiva del linguaggio prima della costituzione di un sapere legato ai significati per così dire oggettivi. Nel sogno il verbo sapere si trova messo in contrapposizione al verbo capire. La relazione terapeutica è rappresentata nella sua qualità di relazione al tempo stesso asimmetrica e simmetrica: asimmetrica sul piano del sapere (“lei mi parlava tedesco, una lingua che non so”); simmetrica nel profondo e sorprendente intreccio posto in essere fra il capire e il parlare “sorprendentemente capivo... il capire è legato all’atto del parlare, non al significato delle singole parole”. Nel sogno è l’atto del parlare infatti, che contiene in sé un rivolgersi a, un appello a, un lasciare spazio a4, ed è questo che veicola il desiderio di relazione 2 Si tratta della paziente la cui storia clinica è narrata nel capitolo precedente dal titolo Rottura psicotica del setting. 3 Sigmund Freud (1895), Entwurf einer Psychologie, tr. it. di Cesare L. Musatti, Progetto di una psicologia. Opere vol. II, Boringhieri, Torino 1968. 4 Su questo tema vedi il concetto formulato da Jean Laplanche di “significante enigmatico”

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quando non si condivide un linguaggio, ed è questo che costituisce il fondamento del capire: in tal senso sia l’atto del parlare sia l’atto del capire appartengono alla componente simmetrica della relazione, al contrario del sapere. Questo intreccio fra il capire e il parlare è un intreccio fatto di desiderio e affettività, intenzioni affettive desideranti, intensive, forse tanto più percepibili quanto più è data e accettata la condizione di asimmetria sul possesso dei significati. Ciò che risalta è che viene comunicata la comunicabilità stessa. Nel sogno la lingua da me parlata e, capita, anche se non conosciuta, dalla mia interlocutrice, è una lingua straniera. Questa immagine di una lingua straniera che può essere capita anche se non la si possiede, è suggestiva sia della condizione inaugurale, originaria, per tutti noi, dell’accesso alla lingua materna, sia di aspetti costitutivi del linguaggio stesso. In un certo senso il linguaggio a cui siamo consegnati è sempre una lingua straniera nella quale dobbiamo cercare e poter trovare ospitalità così come offrirla. La lingua dà ospitalità proprio nel senso che in un sistema codificato di significati, la non coincidenza fra parola e cosa consente una beanza, ossia un margine di apertura del significato stesso oltre che del senso. È così che la lingua straniera può essere anche nostra/materna. Al contrario, nel linguaggio psicotico caratterizzato fra l’altro dalla coincidenza fra parola e cosa, non c’è spazio libero in cui essere ospitati: non è possibile alcuna beanza, alcuna apertura, tutto è saturato, non possono esserci territori intermedi, punti di incontro o di scontro, metafore, vuoti, e nemmeno esitazioni. La condizione psicotica è una condizione isolata/autistica, rispetto alla lingua lo psicotico è come il parlante unico di una lingua morta o mai esistita; dunque lo iato fra parlare e capire è massimo. Il linguaggio psicotico è preso così al laccio del destino paradossale di essere una lingua che comunica la sua incomunicabilità, una lingua che esprime il senso del proprio non senso. Tornando al racconto della mia interlocutrice, ciò è bene evidente dal ricordo che la donna incontra al risveglio dal sogno. È il ricordo dell’esperienza psicotica passata, di sé come parlante un linguaggio (che a posteriori definisce inventato) “simile al tedesco”, un linguagin Id. (1987) Nouveaux fondements pour la psychanalyse, PUF Paris. Tr. it. Maria Luisa Algini e Carlo Traversa, Nuovi Fondamenti per la psicoanalisi, Borla, Roma 1989.

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gio estraniato che non trasmette contenuti, ma trasmette in modo drammatico la propria incomunicabilità, in una condizione di estraneità da sé (il colore dei capelli cambiato) e dall’altro (la madre). Il clima emotivo di questa sequenza è per entrambi i soggetti (madre e figlia) una affezione di terrore, minaccia, violenza; per lei il sentirsi terrorizzata e minacciata è sostituito dalla allucinazione dell’essere esposta ai ragni/occhi materni. Faccio notare la potenza di questa immagine: siamo di fronte ad occhi materni che non vedono, non odono, fanno un movimento contrario, dall’interno verso l’esterno, emettono qualcosa (secernono ragni), qualcosa che può avviluppare, immobilizzare. La lingua straniera inventata della crisi psicotica può essere vista anche come tentativo disperato e fallimentare di separazione da una lingua materna confondente e avviluppante5 come una ragnatela, fallimentare perché non inscritta in alcuna relazione con l’altro ma nemmeno in una relazione interna al soggetto, fallimentare perché onnipotente. Quando la relazione di base dell’accesso alla lingua ha queste caratteristiche, è la relazione terapeutica che deve dunque strutturarsi come spazio per la creazione di un linguaggio che comunichi la propria comunicabilità indipendentemente dall’accesso ai contenuti di significato, un linguaggio per il quale ci si capisca, che contenga l’essere in relazione anche se i significati restano oscuri. Se questa posizione è la posizione dell’analista come parlante, al paziente viene lasciato libero uno spazio per accedere alla possibilità di rispondere assumendo a sua volta la stessa posizione, cioè quella del desiderio del trasmettere il senso del rivolgersi a, anche quando i contenuti sono enigmatici o addirittura deliranti. Di fatto il sogno è per la sognatrice una presa d’atto della sua propria possibilità di capire, rimanendo in relazione con l’altra pur senza conoscere i significati delle parole. Nel sogno, rispetto al ricordo della sua crisi psicotica, la paziente colloca la terapeuta nel posto di parlante la lingua straniera, ma l’esito non è lo stesso. Questa reversi5 Sul rapporto fra necessità di differenziazione dalla lingua materna e psicosi vedi l’interessantissimo scritto autobiografico di Louis Wolfson, Mia madre, musicista, è morta…, tr. it. di Giancarlo Ravanello, SE, Milano 1987. Piera Aulagnier ha compiuto un’analisi approfondita di questo testo e delle sue implicazioni nella teoria e nella pratica psicoanalitica della terapia delle psicosi in Id. (1991) Un interprète en quête de sens, Payot, Paris. Cfr. anche Nicos Nicolaïdis (1984), La représentation: essai psychanalytique, Bordas, Paris. Tr. it. di Agostino Racalbuto e Caterina Olivotto, La rappresentazione, Bollati Boringhieri, Torino 1988.

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bilità dei soggetti in un contesto in cui è accolta la differenza e la asimmetria, (al contrario del transitivismo psicotico6), delinea la possibilità per ognuna di capire la lingua dell’altra anche se non la sa. Intendo dire che, costellato con il ricordo, il sogno riguarda anche la presa d’atto della paziente che la propria lingua può essere capita dalla terapeuta anche se la terapeuta non la conosce. Il sogno in costellazione con il ricordo ritrovato al risveglio, può essere visto anche come presa d’atto, come realizzazione dell’avere un passato: attraverso l’esperienza emotiva della consapevolezza di ciò che avviene sulla scena onirica, e l’accesso alla memoria della lingua psicotica, attraverso il contatto con la differenza fra le due lingue, presente e passato si delimitano, si configurano, ossia prendono forma nel loro differenziarsi. Tramite la presa d’atto della propria possibilità di appartenenza nel presente ad un linguaggio che può essere condiviso, può strutturarsi un punto di vista interno sul passato come passato, e può aprirsi un nuovo territorio d’esperienza di identità e differenza da sé. È dunque nello spazio affettivo della relazione terapeutica che si è creata una nuova lingua attraverso l’esperienza di passaggi di ripetizione e differenza dalla lingua psicotica, come se la nascita della nuova lingua si trovasse a coincidere con la possibilità di separazione dalla lingua precedente, di differenziazione dall’impronta psicotica della lingua materna originaria. Nell’esperienza umana è la relazione con la madre l’ambiente affettivo nel quale una lingua viene trasmessa e sono i tratti di questa relazione, a sua volta inscritta nelle relazioni con le generazioni precedenti, ad essere decisivi per la buona riuscita o per la compromissione dell’accesso al simbolico. Accesso al simbolico e trasmissione della lingua sono strettamente interconnessi. Con l’accesso al simbolico si strutturano i concatenamenti fondamentali fra realtà psichica, capacità desiderante e capacità di relazione con la realtà esterna. Nel primo anno di vita, la graduale perdita dell’onnipotenza come processo di un rispondersi reciproco nella relazione madre-bambino/infante apre gli spazi transizionali fra madre e bambino, spazi necessari perché si schiudano al bambino un mondo 6 Vedi G. Benedetti, Paziente e terapeuta nell’esperienza psicotica, cit., p. 174, e anche Salomon Resnik (1972), Personne et psychose, tr. it. di Ursula Risso Trenkel e Luca Fontana, Persona e psicosi, Einaudi, Torino 1976, pp. 91-92.

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interno e un mondo esterno come creazioni differenziate fra loro, e intrinsecamente molteplici. La buona riuscita di questo processo graduale e reciproco di perdita della onnipotenza, consentirà al bambino/infante di raggiungere un funzionamento psichico separato in presenza della madre e della sua disponibilità emotiva, e sarà la trasmissione e la convalida da parte della madre di questa possibilità di separatezza in presenza il presupposto dell’accesso al registro simbolico, al pensiero, al linguaggio, come forme di relazione/legame in assenza di oggetto concreto designato dalla parola. Sarà poi la progressiva acquisizione del linguaggio a nutrire e consolidare nel bambino lo spazio delle possibilità del pensiero e della parola in quanto non-cose. Quando, intrinsecamente al linguaggio, la madre trasmette l’impronta di questa separatezza in presenza come ossatura dell’essere in relazione, la lingua materna può esercitare la sua funzione di separazioneunione nella relazione madre-bambino e può divenire viva matrice di possibilità molteplici di soggettivazione e di scoperta creativa della realtà per il bambino/infante. Insieme ai contenuti e alla struttura del linguaggio viene trasmessa infatti una qualità di relazione con la realtà, così come (e soprattutto) la forma della relazione all’interno della quale la lingua viene donata, la sua qualità. L’inclusione della forma e della qualità della separatezza, come matrice dell’essere in relazione, è decisiva, perché essa costituisce lo sfondo non onnipotente necessario per la differenziazione (fra soggetti, fra realtà interna e realtà esterna, fra cosa e parola, fra contenuti del mondo interno…), ma soprattutto lo sfondo necessario per l’accesso al pensiero e per l’accesso al desiderio. Pensiero e desiderio infatti sono mobilizzati dalla perdita, dalla mancanza, dalla percezione di uno spazio lasciato libero dalla madre, non saturato dai contenuti psichici di lei. Se il rispondersi reciproco fra madre e bambino è compromesso e/o sono compromesse le relazioni della madre con le generazioni precedenti (in termini di “contratto narcisistico”7), se la madre non è in grado di portare in gestazione, nella sua propria psiche, la psiche del lattante, ma se ne appropria, colonizzandola, può essere deteriorato il processo di graduale perdita dell’onnipotenza sia del bambino che della madre. L’esito di ciò può essere una compromissione dell’accesso al registro simbolico. La lingua materna allora, trasmessa dalla

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P. Aulagnier La violenza dell’interpretazione, cit., pp. 207-217.

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madre come soggetto porta-parola8 di un mondo di relazioni famigliari e sociali nel quale è lei stessa immersa e di cui porta la distorsione e la ferita, in luogo di offrire una matrice dell’essere in relazione, trasmette una matrice di confusione e di isolamento. Si possono così sedimentare e strutturare aree di follia, nelle quali la lingua manca dell’ossatura fondamentale dell’essere in relazione, e diviene una lingua che comunica la propria alienazione psicotica, ossia la propria non comunicabilità. È la relazione terapeutica in questi casi che deve trovare la via per costituirsi come spazio transizionale di soggettività, per il tramite dell’analista come agente di soggettivazione e non semplicemente come interprete. La relazione analitica può divenire allora la matrice, lo spazio potenziale per un accesso alla possibilità trasformativa verso una lingua viva capace di divenire espressione e tramite di relazione. Nella coppia terapeutica, la parola, per esistere laddove non poteva formarsi (cioè come parola dell’essere in relazione), deve ancorarsi dunque innanzitutto ad una relazione fra corpi, al corpo proprio e dell’altro. Uno degli elementi fondamentali di questo ancoraggio è lo sguardo: l’essere visti, il vedere, e il vedere di essere visti. La meraviglia che qualcuno fuori di me esista indipendentemente da me, qualcuno su cui possa dirigere il mio sguardo, dal cui sguardo essere visto e attraverso quello sguardo vedere qualcosa di me. Lo sguardo di cui stiamo parlando è anche un ascolto di ciò che, nella relazione, si fa evidente allo sguardo stesso, è un ‘udire’, e diventa fondamentale quando nella relazione non si può ancora condividere un linguaggio. Sull’importanza della dimensione dell’evidenza come ancoraggio per la parola vorrei raccontare una storia clinica. Si tratta di un mio paziente maschio con un problema di grave follia schizofrenica, un giovane uomo che chiamerò O. Quando ho conosciuto O. l’allucinazione e il delirio erano il suo modo d’essere, la struttura del suo pensiero, del discorso e dei suoi contenuti, erano quasi per intero colonizzati da deliri. Il carattere di questi deliri era per lo più grandioso e sconfinato, intriso di tematiche di colpa. Tutto tendeva a coincidere con tutto, senza alcuna possibilità di un punto di vista soggettivo attraverso cui tracciare differenze. In mancanza di questo, dovendosi destreggiare in un mondo interno angosciante, fatto di un caos di impressioni sensoriali prive di forma, e 8

Ivi, pp. 156-160.

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in un mondo esterno, altrettanto angosciante, costituito di una massa affastellata di segni, tentava di rintracciare nel registro delirante una forma sostitutiva di coesione interna, e decifrava il mondo esterno e interno appoggiandosi in modo meccanico ad alcuni di questi segni. I colori, ad esempio, avevano per lui un rigido significato, il più delle volte performativo: colori che significano no, altri che significano sì, altri ancora significano forse, non so. Un nucleo delirante forte e ricorrente riguardava la madre: egli era nel contempo figlio e padre di sua madre. Nel flusso delirante un’immagine campeggiava. La madre, mi diceva O., era seduta dentro di lui. Per di più tutti i parenti (le genealogie paterna e materna) gli stavano addosso all’esterno del suo corpo, erano tutti seduti su di lui, e gli impedivano di muoversi, pesando terribilmente. (Un elemento fondamentale nella vita della madre – altrettanto malata quanto il figlio – era il suo essere vissuta in un clima omertoso rispetto alle sue origini. Il mistero riguardava l’identità di suo padre…). Ascoltando i deliri di O. sulla madre, l’immagine che mi facevo di lei era quella di una madre regina seduta in trono che tendeva ad occupare tutto lo spazio interno, tutto il mondo interno di O., ma anche di una madre debolissima che aveva bisogno di stare annidata in lui e protetta dal mondo esterno e in particolare dalle famiglie allargate. Quest’immagine risuonava in me come se per O. fosse possibile unicamente inglobare o essere inglobato. Il corpo di O. e tutto il suo essere era come una soglia chiusa, un confine rigido fra la madre dentro e la frotta di parenti fuori. Ma mi appariva anche come una gestazione mortifera, una gestazione senza prospettiva di parto. In questo senso riuscivo a trovare un aggancio intuitivo con il delirio di O. di essere padre di sua madre… padre protettivo che poteva separarla da un esterno minaccioso per lei. Un’altra immagine che O. mi offriva della sua condizione era quella di un salame appeso… qualcosa che non ha nessuna possibilità di movimento proprio… immagine di una condizione di passivizzazione estrema, di disperante immobilizzazione, ma anche immagine di qualcosa di parcellizzato, tagliuzzato, senza una coesione interna, tenuto insieme da un involucro, come l’impasto di un salame dal budello. E ancora, immagine di una frammentazione di un mondo fatto di impressioni sensoriali caotiche e disordinate affidate al delirio come contenitore, affidate al delirio come forma sostitutiva di una coesione interna, essendo gravemente compromessa la possibilità di accesso al pensiero e alla parola come principi simbolici ordinatori.

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“UDIR CON GLI OCCHI”: SPAZI TERAPEUTICI FRA SGUARDO E PAROLA

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A volte mi diceva che le presenze (sequestrate) al suo interno tentavano di uscire affiorando sotto la pelle, ma erano momenti di terribile tensione e angoscia perché non c’era via d’uscita, potevano al massimo un po’ evaporare, come sudore… o tornarsene nelle profondità del corpo. Parlando con lui, però, avevo spesso una esperienza percettiva particolare in rapporto alla qualità e all’intensità della sua voce: la sentivo come una voce mobilissima, piena di una forza che poteva trapanare i muri, che attraversava le barriere fisiche penetrandole. Mi chiedevo se quella voce era la sua voce che tentava di superare l’ingombro interno (la madre seduta dentro) e l’ingombro esterno (tutti i parenti addossati su di lui), o se, al contrario era la voce della madre che come un proiettile superava le barriere… In ogni caso era una voce nella quale riuscivo a immaginare una volontà di raggiungermi, uno spazio vocale quindi con una qualità diversa dalla qualità ermeticamente isolata della sua lingua psicotica. Dopo un certo periodo di lavoro terapeutico e di sedimentazione di un minimo territorio comune fra me e lui, fatto anche di un lessico, O. riesce ad esplicitare una immagine nuova, molto potente: “quando due persone sono in relazione, si forma fra di loro un ossicino metafisico e da lì molte cose possono passare”.

Poco tempo dopo la scoperta dell’“ossicino metafisico”, O. aggiunge che nella relazione con me, vedendomi di fronte, io sono sia lui stesso, sia “il prossimo”. Ecco che siamo in presenza di un passaggio fondamentale: l’accesso ad una immagine e ad una possibilità di relazione come fra, fra persone, fra spazi, fra sguardi, fra contenuti del mondo interno. Ora, accanto alla condizione di follia nella quale si può solamente essere inglobanti o inglobati, la relazione terapeutica inizia a divenire lo spazio di un transito fra, un transito soggettivante attraverso un legame, un supporto solido e affidabile, anche se incorporeo (l’“ossicino metafisico”). Questo legame può essere immaginato come l’ossatura di un ponte, infatti, sia copre la distanza fra le due persone, sia la mantiene, non la annulla: ciò che O. esprime quando dice che io sono contemporaneamente lui stesso e il suo prossimo; ponte come possibilità di relazione fra sé e altro da sé, ma anche fra sé e sé. Dopo una seduta in cui io e lui accostati guardavamo entrambi un gruppo di quadri dipinti da lui che per la prima volta mi mostrava, e

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che io avevo appoggiato alla parete opposta a quella delle nostre due poltrone, la seduta successiva O. mi dice che ha un po’ più di spazio… i parenti che normalmente si porta addosso si sono scostati, e inoltre mi dice che la stanza della terapia è più grande, perché la parete di fronte si è spostata più in là, creando più spazio9. Pur essendo espresso in forma delirante, questo annuncio mi fa pensare che possa essersi creata la possibilità, attraverso la relazione terapeutica, di un ampliamento dello spazio psichico di O., la possibilità di uno spazio potenziale in cui possano articolarsi differenze, distanze, movimenti, rispecchiamenti, curiosità. Io e lui accostati possiamo condividere uno sguardo su qualcosa di lui. Si tratta di uno sguardo che crea spazio, dà forma, attraverso la creazione di un punto di vista. È la possibilità della apertura di una prospettiva per O. di accedere ad un punto di vista su di sé, invece che essere consegnato a coincidere con le proprie impressioni sensoriali o con i contenuti dei propri deliri. Penso anche che questo nuovo spazio psichico ancorato alla relazione attraverso “l’ossicino metafisico” possa costituire il contenitore necessario perché O. possa tollerare una apertura verso il cambiamento, ossia la mobilizzazione di qualcosa di immobilizzato… La relazione stessa dovrà attraversare l’inevitabile destabilizzazione implicata in un processo di cambiamento di portata strutturale. Tale cambiamento infatti, può essere percepito dal paziente come catastrofico, dato che l’accesso al pensiero e alla parola, come principi simbolici ordinatori, comporta la paura di una catastrofe dell’ordine delirante come principio di coesione. Questa destabilizzazione infatti si manifesta di lì a poco. Inizialmente si apre un periodo di deliri grandiosi con un contenuto ‘letteralmente’ catastrofico e cosmico: O. sostiene che ci sono in atto cambiamenti nella geografia terrestre, interi enormi territori scompaiono ed emergono nuove terre dai mari e dagli oceani. O. dice che bisogna ritracciare le carte geografiche e che c’è da sperare che il nostro territorio non sprofondi… Un breve ricovero in ospedale si rende necessario per il livello di angoscia insostenibile. Il ricovero sottolinea, anche grazie alla separazione fisica di O. da sua madre, questo passaggio decisivo che, attraverso la disorganizzazione, conduce verso una possibilità di accesso a nuove facoltà psichiche. 9 Cfr. Salomon Resnik (1970), L’esperienza dello spazio nella situazione analitica, in Persona e psicosi, cit., pp. 185-202.

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O. emerge infatti, da questi sommovimenti, portando nella relazione terapeutica qualcosa di decisamente nuovo. Mi racconta di aver rivestito le pareti della sua stanza, prima del tutto spoglie, con tutti i quadri da lui dipinti. Raccontandomelo, così commenta il suo gesto:

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“guardando quello che ho dipinto imparo a conoscermi, come succede qua con lei”.

Ecco che un poco dell’essere in relazione attraverso lo sguardo e del condividere un punto di vista su di lui, esce dalla stanza della terapia, entra nel suo quotidiano ed inizia a generare movimento. Contro il parere della famiglia, in particolare della madre, acquista dei piccoli animali. Penso che il desiderio di essere in relazione acquista spazio ulteriore, non solo attraverso lo sguardo, ma anche attraverso il silenzio o attraverso la voce animale. Osservando gli animali dice di accorgersi se soffrono… Penso che O. sta cercando una relazione con parti di sé dotate solo di voce, parti da osservare, da ascoltare, con cui entrare in contatto, anche se prive di parola. In questa progressione si apre un nuovo spazio di esperienza. O. offre al mio sguardo una serie di piercing che pian piano compaiono in sequenza alle orecchie e al naso. Inizio a pensare che sono segni, evidenze… ma la novità è che non riguardano solo la superficie del corpo… lo attraversano… stanno fra l’esterno e l’interno. Ad una minima espressione della mia attenzione curiosa O. mi dice che significano la sua sofferenza, una sofferenza inequivocabilmente sua perché attraversano le sue orecchie e il suo naso: “i piercing dicono che la sofferenza è mia, nessuno può metterlo in dubbio… tutti sanno che bucare la carne fa male”.

Penso che per lui, questo passaggio attraverso il dolore fisico riconosciuto e percepito come suo, può divenire un passaggio di accesso alla dimensione soggettiva del dolore come dolore psichico. I segni infatti non sono più rappresentativi di un universo di meri segni concreti, si sono fatti soggettivi, e, entrati in contatto con le parole della relazione, hanno acquistato una qualità di ponte gettato verso il simbolico. Attraverso il rispecchiamento nella relazione terapeutica, l’universo dei segni letteralmente si incarna, si fa soggetto, e può aprirsi al pensiero dell’esperienza interiore, alla sua parola. Per il tramite

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delle parole della relazione, O. può mettere in parola i suoi piercing. L’orecchio destro e il sinistro con i diversi orecchini sono il supporto di evidenza per un accesso al pensiero di aver dentro vissuti diversi, pensieri diversi “pensieri diversi, separati come la testa separa le orecchie”, “il naso è un numero uno, è unico… l’essere uno è importante… se sono uno, mia madre è fuori”.

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La comparsa di un piercing sulla lingua, piercing che O. definisce “numero uno dei numeri uno”, diviene un ponte per pensare e dirmi “ho voluto questo piercing per impedire a ciò che è dentro di uscire a fiotti e a ciò che è fuori di entrare così come è tutto intero… Posso avere un filtro…”

Questa straordinaria immagine mi fa pensare alla differenza fra la bocca di un neonato che può solo rigurgitare o succhiare, e la bocca trasformata che accede al linguaggio, al pensiero, alla parola come funzioni strutturanti un soggetto e un mondo, al linguaggio come fra, come soglia viva fra un interno e un esterno, come soglia mobile e selettiva dell’essere in relazione, come spazio transizionale fra soggetto e mondo. Il linguaggio, che apre e consolida lo spazio di possibilità del pensiero e delle parole in quanto non-cose, nella misura in cui è strutturalmente agganciato ad una relazione affettiva aperta alla differenza e alla separatezza, si differenzia dalla lingua materna di O. La nuova lingua può riproporsi come forma aperta di relazione con la realtà interna e con la realtà esterna e si affranca dalla condizione a-simbolica della lingua psicotica, condizione a-simbolica dove tutto è cosa, come nell’allucinazione e nel delirio, e dove tutto può coincidere con tutto essendo mancanti quegli ancoraggi fondamentali perché il senso non slitti all’infinito. Si arriva così ad un ulteriore passaggio. O. mi parla di un tatuaggio che ha immaginato… che non si è fatto fare… Si tratta della fantasia di un tatuaggio di colore rosso, ben visibile sul polso, una doppia croce di Sant’Andrea. Ecco il suo commento: “questa doppia croce di colore rosso indica un uomo crocefisso che non è morto…il rosso è il sangue della ferita di qualcuno che è vivo… la seconda croce è lì ad annullare la precedente… io mi sento quest’uomo”.

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Nello stesso periodo parla di ciò che per lui è il massimo dell’umana esperienza: il partorire. Ne parla come qualcosa che gli appartiene nel suo presente, aggiungendo che ovviamente come maschio non può partorire fisicamente. Penso che siamo alle prese con un ulteriore movimento verso il simbolico: O. può immaginare qualcosa e sentire l’appartenenza a sé di ciò che immagina senza bisogno di passare concretamente dal corpo. Anche un tatuaggio immaginato consente un pensiero su di sé, un pensiero sulla propria sofferenza, che può venir formulato anche in assenza di sofferenza fisica. Si tratta di un pensiero per immagini che diviene un punto di vista su di sé come sopravvissuto a quella morte psichica data dalla dispersione grandiosa dove tutto coincide con tutto. La parola partorire pronunciata da O. come sua facoltà d’essere nell’attuale, mi fa pensare, sia alla possibilità di espellere sua madre da dentro e poterla guardare fuori di lui, sia alla possibilità di mettere al mondo la sua soggettività viva, mettere al mondo il proprio sé separato. E qui mi fermo con la storia di O., ma voglio, per concludere, riassumere sinteticamente i passaggi attraverso cui, nella relazione, si è ricreato l’accesso alla lingua come universo simbolico: 1) presenza nell’analista di un funzionamento psichico con qualità materne, capace di rêverie10, ossia capace di vedere come in sogno, nel paziente e per il paziente, e attraverso i suoi sintomi, l’esistenza di una qualità psichica vitale a cui poter e dover dare forma. Attraverso questo funzionamento l’analista si dispone a portare in gestazione nella propria psiche, la psiche del paziente, senza appropriarsene. Si dispone quindi a restituire al paziente, non tanto e non solo i suoi contenuti deliranti riformulati secondo modalità simboliche, quanto piuttosto, attraverso la qualità della relazione, delle nuove matrici di funzionamento psichico con un’impronta simbolica. 2) Questo tipo di legame terapeutico, che il mio paziente chiama “ossicino metafisico”, funziona come precursore simbolico, ancoraggio e sostegno dell’essere in relazione come fra, fra contenuti del mondo interno, fra soggetti, fra io e mondo. 3) L’accesso alla possibilità di essere in relazione crea un punto di vista su di sé e sul mondo.

10 Wilfred R. Bion (1963), Learning from experience, Heinemann London. Tr. it. di Antonello Armando, Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma 1972, pp. 72-75.

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Il punto di vista come relazione crea spazio, spazio fra sé e sé, e fra sé e mondo. Il desiderio, il pensiero e la parola in quanto non-cose si mobilizzano per percorrere questi spazi.

Prima di concludere, collateralmente al tema che ho sviluppato, ma in profondo rapporto con esso, vorrei offrire alla riflessione, un ulteriore breve spunto: un spunto per pensare alla nostra condizione contemporanea di soggetti esposti ad una continua, seriale e disordinata proliferazione di segni. È qualcosa che può mettere a dura prova il rapporto fra questa massa di segni e la possibilità di filtrarli attraverso una relazione simbolica. In questa condizione, se cediamo alla tentazione di lasciar cadere il desiderio11 e il pensiero, se cediamo alla tentazione di uno stato apparentemente confortevole di abdicazione alla fatica e all’incertezza che il pensare e il desiderare comportano, possiamo effettivamente ricadere in un funzionamento privo di filtri simbolici. Voglio dire che, anche quando il funzionamento simbolico è acquisito, il pericolo di tornare ad un funzionamento a-simbolico esiste, soprattutto quando è massiccia l’esposizione a stimoli psicotizzanti, ossia a stimoli che attaccano l’immaginazione, il pensiero, la complessità. Può succedere allora che, rispetto alla fatica di resistere attraverso il pensiero e il desiderio, ci troviamo ad abdicare e a scivolare in un adattamento che, insidiosamente, ci conduce ad una condizione di adesività, di alienazione. Questo adattamento, come potenziale adattamento a qualunque cosa12, si realizza attraverso un funzionamento psichico di complicità con gli stimoli psicotizzanti che ci colpiscono, complicità che si realizza attraverso un attacco interno al pensiero e al desiderio, che si somma all’attacco che subiamo dall’esterno. Per sbrogliare allora la matassa confusa di questa condizione alienata, l’unica possibilità è quella di ritrovare il filo del gioco simbolico che può condurci fuori dal labirinto, accettando il prezzo del disagio, del rischio, dell’incertezza, ma anche della necessità della resistenza all’adattamento e alla conformità per ritrovare la gioia del pensiero e dell’immaginazione. 11

Sul tema del “desiderio come un dovere etico rispetto al quale il soggetto ha la responsabilità di non cedere” e sulle conseguenze di un cedimento in termini di ottuso conformismo e adattamento, vedi Massimo Recalcati, Elogio dell’inconscio. Dodici argomenti in difesa della psicoanalisi, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 38-54. 12 Cfr. Silvia Amati Sas (1996) L’ovvio, l’abitudine e il pensiero, Setting 1, Moretti & Vitali, e Id., (2004), La violenza sociale traumatica: una sfida alla nostra adattabilità inconscia, in Ferenczi oggi, a cura di Franco Borgogno, Bollati Boringhieri, Torino.

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IL TESTIMONE NON ASSUMIBILE: PERCEZIONE E INCIDENTI DEL PENSIERO

Il sogno del potere, come mostrato da Orwell, sarebbe spossessare il soggetto di ogni possibilità di pensare. Piera Aulagnier1

È sempre più frequente nel lavoro analitico osservare fenomeni di indebolimento o di alienazione della funzione del pensiero in rapporto all’esperienza e quindi in rapporto alla realtà interna ed esterna. Vorrei approfondire il collegamento fra questi incidenti del pensiero in rapporto alla realtà e il proliferare di elementi di irrealtà. Lo farò parlando di situazioni soggettive, ma molte delle cose che dirò potrebbero descrivere fenomeni collettivi, sociali. Vorrei iniziare con un’immagine presa a prestito da Lacan2. Un bambino riceve uno schiaffo e, anziché reagire con il pianto, chiede alla persona adulta che glielo ha dato “è una carezza o un ceffone?”. Solo dopo aver ricevuto la risposta, il bambino sorride se l’adulto risponde che è una carezza, piange se l’adulto risponde che è uno schiaffo. Il bambino in questione reagisce in modo conforme all’attribuzione, alla connotazione che il suo interlocutore adulto dà al proprio gesto.

1 Piera Aulagnier (1979), Les destins du plaisir: Aliénation-amour-passion, Puf, Paris. Tr. it. di Alberto Lucchetti I destini del piacere: alienazione amore passione, La Biblioteca, BariRoma 2002. 2 Jacques Lacan (1955-1956), Le séminaire de Jacques Lacan. Livre III: Les psychoses, Editions du Seuil, Paris 1981. Tr. it. a cura di Giacomo Contri, Il seminario. Libro III: Le psicosi, Einaudi, Torino, 1985, p. 9.

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Come osservatori di questa scena abbiamo a disposizione diversi elementi; vorrei scegliere quelli che mi paiono rilevanti per tentare di interrogare il problema del rapporto fra realtà, esperienza e pensiero. Ci sono due persone, una relazione asimmetrica fra queste due persone, un elemento di realtà, il ceffone, l’assenza di un rapporto diretto del bambino con la realtà del ceffone e con le proprie percezioni somatiche, la consegna da parte del bambino al discorso dell’adulto della facoltà di pensiero su ciò che gli è accaduto. Siamo di fronte ad uno scompaginamento del rapporto fra realtà e pensiero, fra percezione, esperienza e pensiero, linguaggio. Siamo di fronte all’evidenza che il discorso dell’altro, in questo caso dell’adulto che picchia il bambino, occupa il posto della realtà, ciò che lascia il pensiero del bambino nel pericolo di uno sganciamento dall’ esperienza della propria percezione, anzi può relegare la percezione a non poter divenire esperienza pensabile. Il bambino reagisce al discorso dell’adulto, non al suo gesto. Il pensiero che pensa il gesto non è creato dal bambino, diviene un pensiero subíto, passivo, come il gesto è un gesto subíto dal bambino. È proprio questo problema della sostituzione della realtà da parte del discorso che vorrei sviluppare, sostituzione che pone la realtà in una radicalizzazione della sua funzione di testimone non assumibile da parte del discorso. È la realtà stessa ciò che può svolgere questa funzione di testimone non assumibile da parte del discorso, testimoniando il proprio esserci in continuo divenire, e consentendo al discorso di mantenersi agganciato senza sostituirsi, senza occupare il posto della realtà. Il carattere decisivo per la nostra vita psichica dell’incontro o dello scontro con questa testimonianza di sé che la realtà offre è reso evidente dagli effetti della sua labilità o della sua inaccessibilità, effetti che costellano una caduta nell’irrealtà. Innanzitutto va premesso che in ogni caso, nel nostro spazio psichico, nello spazio psichico di tutti noi, le tracce di questa testimonianza tendono a essere labili, incerte, sfumate, deboli. Esse infatti si trovano alle prese con gli ostacoli che provengono dalla struttura del nostro Io che tende ad autostostenersi, autoconfermandosi nell’essere identificato a sé stesso. Per fare presa dunque, queste tracce hanno bisogno di un pensiero che le pensi, di una parola che le parli, della traversia di un desiderio che le voglia incontrare. Il collasso di questo desiderio di incontro o di scontro con la realtà, l’indebolimento o il vanificarsi

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IL TESTIMONE NON ASSUMIBILE: PERCEZIONE E INCIDENTI DEL PENSIERO

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della funzione del pensiero in rapporto all’esperienza, provocano così una caduta nell’irrealtà, la quale a sua volta, rinforza ulteriormente il cedimento della capacità di desiderare e di pensare, anche attraverso uno stordimento delle percezioni. Ora, prima di procedere sul problema degli incidenti a cui può andare incontro questa testimonianza di realtà non assumibile dal discorso, ho bisogno di fare un passo indietro e partire dalla struttura che deve avere il rapporto fra le cose o i vissuti e le parole, il pensiero, perché non si realizzi una caduta nell’irrealtà o l’entrata in un delirio. C’è un’altra immagine utilizzata da Lacan che può aiutare. È un’immagine presa a prestito dall’arte della tappezzeria, l’immagine dei punti di capitone. Non intendo qui parlare del senso preciso di quest’immagine nel pensiero di Lacan3. Intendo semplicemente adottarla come un utensile nello sviluppo del mio discorso. Punto di capitone è un punto di aggancio fra due superfici parallele separate da uno spazio che, nell’arte della tappezzeria contiene una imbottitura o delle molle. Pensiamo più semplicemente ad un materasso di lana: i punti di capitone agganciano le due superfici parallele della tela di rivestimento, superfici che debbono stare agganciate l’una all’altra e nel contempo debbono mantenersi parallele e distanziate perché si possa realizzare un materasso. Stiamo parlando dunque di un aggancio che unisce qualcosa con qualcos’altro, qualcosa e qualcos’altro che debbono agganciarsi in determinati punti perché, per collegarsi, combinarsi, debbono mantenere anche una distanza. Sono punti di aggancio nei quali coincidenza e separazione tendono a realizzarsi nel medesimo punto. Ora immaginiamo che una delle due superfici corrisponda alle cose o ai vissuti e l’altra superficie corrisponda alle parole. I punti di capitone allora li possiamo vedere come aggancio fra le parole e le cose o i vissuti, fra il mondo del pensiero, delle parole e il mondo delle cose, mondi che debbono mantenersi agganciati in questo modo speciale perché non possono coincidere, pena la caduta nell’irrealtà, oppure nella costruzione di una realtà ex-novo, come avviene nel delirio. Il senso di realtà è dato dalla difficile coesistenza fra questi punti di aggancio per i quali la parola vuole corrispondere alla cosa, e la 3 Jacques Lacan (1966), Ecrits, Editions du Seuil, Paris. Tr. it. a cura di Giacomo Contri, Scritti. Volume II, Einaudi, Torino 1974, Cap. VII, Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano, p. 807.

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condizione per la quale questa corrispondenza non può, e non deve, essere la certezza assoluta di una coincidenza altrettanto assoluta. In questo senso siamo consegnati alla vitale instabilità di continuare a desiderare e ad aspirare ad una corrispondenza fra parole e cose che non deve mai essere esaurita in una realizzazione, deve restare sempre aperta, insatura: questa è la condizione della garanzia dell’esistenza del simbolico e della realtà come effetto della mediazione simbolica. Accettare l’esistenza della realtà implica accettare che essa non può essere nostra proprietà privata, accettare l’esistenza della realtà implica accettare la condizione per la quale la realtà è sempre anche dell’altro, dell’altro al nostro interno (innanzitutto il nostro inconscio) e dell’altro fuori di noi, delle alterità plurali e dei loro mondi e di tutte le infinite differenze che li attraversano. Desiderare che le parole dicano le cose deve dunque restare un desiderio che si alimenta continuamente del proprio incompleto appagamento, ciò che consente al pensiero di esistere e di avventurarsi a voler pensare la realtà nel suo divenire… ciò che consente alla realtà di esistere perché noi contribuiamo, dentro di noi, a garantirne l’esistenza fuori di noi, indipendentemente da noi. Rispetto a questa dimensione del problema, la caduta nell’irrealtà si realizza attraverso la fascinazione esercitata da una arroganza della parola e del pensiero che si proclamano certi di coincidere con le cose, in una inquietante trasparenza che pretende appunto l’elisione della barriera fra cosa e parola. L’indebolirsi della funzione di questa barriera indebolisce la capacità desiderante e la funzione stessa del pensiero come pensiero capace di pensare l’esperienza. Il carattere arrogante del pensiero e del discorso si basa infatti sull’eliminazione dell’esperienza, e ciò avviene attraverso l’eliminazione di ogni funzione di testimonianza non assumibile da parte del discorso stesso. Con questi strumenti torniamo all’immagine iniziale del bambino che riceve il ceffone e cominciamo ora ad addentrarci nei pericoli derivanti dallo scompaginamento del rapporto fra discorso e realtà che caratterizza quella sequenza. Cos’è che può spingere un bambino a consegnare all’adulto il senso della propria esperienza percettiva quando già possiede una comprensione del linguaggio per la quale distingue il significato della parola carezza dal significato della parola ceffone? Dobbiamo pensare alla condizione asimmetrica, alla condizione di dipendenza, alla paura della sproporzione che la dipendenza implica, alla paura della perdita della relazione, al bisogno di ritrovare la certezza, di escludere il dubbio, di evitare il conflitto fra le proprie per-

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cezioni, l’esperienza del proprio vissuto e il pensiero dell’adulto da cui il bambino dipende, adulto che il bambino idealizza in quanto adulto, e soprattutto che idealizza come portatore di un linguaggio sicuro, di una lingua capace di testimonianza sicura. È possibile perciò che una idealizzazione e una paura troppo intense portino il bambino a volere che l’adulto pensi al suo posto, lasciando cadere le proprie percezioni; è possibile che il bambino impari a rinunciare alla fatica e al rischio del pensiero, ma anche alla gioia e alla fierezza di pensare i propri pensieri con la propria testa, in rapporto alla propria esperienza percettiva. Vediamo ora come la traccia di una condizione infantile di questo tipo può comparire nell’attività onirica di una persona adulta. È il sogno di una donna che nella relazione analitica utilizzava me come possibilità esterna/interna di uscita dalla fascinazione della cattura nell’irrealtà, mi utilizzava cioè come funzione pensante capace di pensare la realtà, non essendo sostenibile per lei soggettivare questo desiderio dentro di lei (era cresciuta con una mamma con un grave disturbo di personalità, una realtà che per lei era appunto insostenibile). Questo sogno compare ad un certo punto del nostro lavoro come accesso inconscio alla possibilità di uno sguardo suo e di un pensiero suo sulla realtà, proprio attraverso la messa a fuoco della tentazione della caduta dentro l’irrealtà. Ecco il sogno. “Una figura umana di carnagione chiara, un essere umano forse, o meglio un demonio chiaro, ha delle grosse catene a cui egli stesso è legato che servono per fare del male. Io vengo formalmente e sistematicamente accusata delle sue azioni malvagie”.

Nel racconto del sogno in seduta, la sognatrice lo sviluppa in questo modo: “Si tratta di qualcosa di animalesco, di feroce…come non avesse scelta… non ha una vera personalità…poteva essere uno schiavo, un gladiatore… era come ci fosse uno stampo che operava una ripetizione indipendentemente dai contenuti… era una cosa talmente assurda quella che si produceva, così assurda che pensavo che la verità sarebbe comunque venuta a galla…ma l’equivoco può essere sempre possibile…tutto può essere distorto, attraverso occultamenti, operazioni arbitrarie, deformazioni…”

Vorrei accostare questo sogno lasciando da parte il tema affettivo dell’accusa, della colpa e del lutto che pure sono presenti, per concen-

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trarmi su ciò che le immagini del sogno offrono rispetto al problema di cui ci stiamo occupando, e cioè di ciò che avviene sulla scena psichica quando il discorso pretende di sostituirsi alla realtà eliminandone la testimonianza. In questo senso potremmo vedere il demonio chiaro come una figura della tentazione esercitata dal carattere seduttivo della caduta nell’irrealtà. Il demonio chiaro è portatore di un discorso che pretende di occupare il posto della realtà, di sostituirsi ad essa: la forma seduttiva del suo discorso è data da una promessa di sicurezza basata sull’esclusione della fatica e del rischio del pensiero, sulla pretesa di una certezza che si realizzi senza alcuna traversia emotiva. Si tratta di una pretesa che funziona come lo stampo che riproduce una ripetizione indipendentemente dai contenuti, come dice la sognatrice nelle sue associazioni al sogno. Il demonio chiaro ci appare in tutta evidenza come figura del carattere demoniaco di questa tentazione della riproduzione della certezza, attraverso la proposta di un discorso contrassegnato da una forma inquietante di chiarezza che, come una luce sempre e solo allo zenit, non vuole e non accetta che nulla sia in ombra. La straordinaria immagine del sogno riesce inoltre a condensare questa chiarezza demoniaca con una totale cecità su di sé, sulla propria malvagità e soprattutto sulla propria condizione di prigionia. Il demonio chiaro è portatore di un discorso irreale proprio attraverso il carattere formale e sistematico della pretesa certezza di verità delle proprie proposizioni e delle proprie attribuzioni che derivano al contrario da un punto cieco su di sé. Il lavoro del sogno mette dunque in scena, porta all’evidenza come il soggetto del discorso irreale si trova in una condizione di vincolo tragico alla cecità su di sé e sulla realtà, in una condizione di schiavitù: si tratta di un soggetto consegnato come uno schiavo ad una forma di dipendenza dalla propria cecità. La pretesa di certezza assoluta ci incatena infatti ad una condizione di irrealtà che allettandoci ci tiene in ostaggio, agisce come una forma di schiavitù. Le associazioni della sognatrice propongono, come opposizione alla figura del demonio chiaro, se non si cede alla tentazione, la possibilità di vedere e di pensare la “assurdità” di questo funzionamento, il suo carattere demoniaco: si apre così la difficile alternativa costituita dalla traversia e dal rischio del pensiero, ossia la difficoltà di sostenere il desiderio di realtà e di verità del discorso sottoposta alla prova del dubbio.

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IL TESTIMONE NON ASSUMIBILE: PERCEZIONE E INCIDENTI DEL PENSIERO

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In altre parole: il soggetto accede alla possibilità di ancorare il discorso alla realtà accettando la traversia del dubitare, dell’ interrogarsi sulla verità o sulla falsità del discorso stesso. Nelle associazioni al sogno, associazioni che la sognatrice stessa ha fatto, il desiderio di realtà e di verità deve farsi largo fra le insidie continuamente possibili degli equivoci, degli occultamenti, delle deformazioni, delle distorsioni… insidie e limiti che provengono dalla realtà dell’esistenza dell’altro, dentro e fuori di noi, e che avvertiamo come minacce rispetto al nostro bisogno di certezze. Si tratta di quelle traversie del pensiero che sono connaturate al fatto stesso che le parole e le cose non possono coincidere. La realtà è lì a testimoniare sé stessa, ma perché questa testimonianza esista è necessario che si apra la traversia profonda del dubbio, dell’incertezza, del dolore della mancanza, accettando l’insicurezza derivante dall’assenza di ogni garanzia a priori, dall’assenza di ogni certezza assoluta. Il desiderio di realtà e di verità può essere sostenuto a patto di una rinuncia ad un potere di manipolazione sulla realtà, di una rinuncia alla certezza di un possesso che ci attrae a tal punto da diventarne schiavi. È proprio la rinuncia a questa tentazione a costituire la trama da cui il desiderio di realtà e di verità prende forma come processo di pensiero dell’esperienza. Per opposizione all’immagine della tentazione incatenante raffigurata dal demonio chiaro, la peripezia faticosa di sostenere il desiderio di realtà e di aspirare ad un discorso che si ponga il problema della verità, costituisce il nostro accesso alla libertà, alla fierezza e alla gioia del pensiero. Ossia: sembra non esserci nessuna libertà veramente possibile per noi se non lasciando libera la realtà di esistere dentro e fuori di noi, se non lasciando all’altro la sua libertà e la sua differenza d’essere. A questo punto possiamo affrontare un ulteriore passaggio che riguarda il rapporto fra l’aggancio del discorso alla realtà e la soggettività. Lo vedremo attraverso un altro sogno della stessa sognatrice, un sogno complementare a quello del demonio chiaro, fatto nello stesso periodo e appartenente alla stessa costellazione profonda: “Volevo scrivere una lettera di condoglianze che desideravo scrivere, ma il computer aveva fatto dei taglia/incolla sbagliati che facevano confusione… e che, oltretutto, rendevano impossibile firmare il testo con una firma vera… c’erano tre firme, ma quella vera era scomparsa dentro la confusione… se volevo scrivere quella lettera avrei dovuto scriverla a mano…”

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ALLE RADICI DEL SIMBOLICO

In questo sogno, la riproduzione procedurale della certezza, il computer, è vista come effetto confusivo e impedimento all’accesso ad un pensiero chiaro, ad un discorso vero, capace di parlare della realtà degli affetti, capace di soggettività. Nel sogno ciò si rende visibile attraverso l’immagine di un taglia/incolla sbagliato, che non consente al testo di essere davvero il testo soggettivo (ossia firmato) della lettera di condoglianze che la sognatrice vuole scrivere. Troviamo qui un passaggio che concatena lo scompaginamento verso l’irrealtà alla difficoltà di soggettivarsi attraverso l’esperienza del lutto, della perdita, della ferita, della rinuncia all’onnipotenza. Il taglia/incolla è una funzione del computer che importa o esporta un testo (un contenuto) all’interno di un altro contesto, di un’altra cornice; un taglia/incolla sbagliato può richiamare un errore che deriva non tanto dal contenuto in sé per sé, ma dal contesto in cui viene più o meno arbitrariamente collocato: il risultato può essere confusivo e minaccioso sulla realtà del soggetto che non può pensare e parlare i propri vissuti. Il taglia/incolla sbagliato può rappresentare il tentativo di produrre pensieri senza pensare ossia senza incrociare la fatica di estrarre pensiero dall’esperienza soggettiva. Per riuscire a scrivere la lettera, dice il sogno alla sognatrice, è necessario scriverla a mano, ossia accettare di uscire dalle sicurezze illusorie di una procedura, di un dispositivo, dispositivo che nel sogno cancella la realtà della differenza fra sé e gli altri (la pluralità delle firme che si confondono). La portata di queste immagini e di questi pensieri onirici per la sognatrice sta proprio nell’indicazione che ne deriva: per pensare e per parlare i propri affetti è necessario rinunciare a quella confusione/sostituzione di lingue e di soggetti con il suo derivato di irrealtà: il suo confondersi anonimo per uscire da una realtà insostenibile quale è stata per lei la realtà dei disturbi psichici della madre, realtà che in questo modo non poteva essere pensata, non poteva diventare davvero esperienza, il cui lutto non poteva diventare un lutto reale da elaborare. Quando lo scompaginamento dei punti di aggancio fra realtà e rappresentazione della realtà, fra vissuto e rappresentazione del vissuto, è particolarmente persistente nel comportare una confusione di contesti, di termini, di soggetti, si realizza un vero e proprio tentativo di annullamento della realtà, una sorta di allucinazione negativa della realtà che viene sostituita da una dimensione di irrealtà o nel

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caso della psicosi da un delirio, ossia dalla costruzione di una realtà ex-novo. Una forma particolare e particolarmente grave di confusione di soggetti e di “confusione di lingue”4 è quella che si realizza in quelle forme di cattura dentro l’irrealtà che possono essere definite alienazione5 nelle quali si realizza una forma di uccisione del pensiero agganciato all’esperienza, all’interno di una relazione nella quale sono implicati elementi di potere, dipendenza e idealizzazione. Per accostare il problema torniamo nuovamente all’esempio iniziale del bambino che riceve il ceffone. Possiamo ora provare ad immaginare l’effetto prodotto in quella sequenza da un interlocutore adulto che per motivi propri voglia far sparire la qualità aggressiva del proprio gesto: stiamo immaginando un adulto che dopo aver dato il ceffone al bambino risponderà alla domanda del bambino che si trattava di una carezza. Questo adulto offrirà al bambino una rappresentazione contenente una perversione del senso del gesto. Il bambino si potrà trovare allora alle prese con una rappresentazione di parola, di pensiero che oltre a smentire un dato di fatto, smentisce un dato sensoriale, smentisce una percezione fisica, la percezione del ceffone appunto. In questo caso il bambino si troverebbe così a pensarsi come oggetto dell’azione dell’adulto non in base alla propria percezione, ma in base al pensiero dell’adulto, ovvero più precisamente, in base al pensiero che l’adulto ha su se stesso. Stiamo immaginando un adulto che abusa dei poteri della parola e della posizione che occupa in quanto adulto da cui il bambino dipende: in rapporto a questo adulto il bambino preso, impigliato nel gioco di potere dell’adulto tenderà a pensarsi attraverso il pensiero dell’abusante su sé stesso, pensiero nel quale l’abuso è cancellato, la colpa dell’abusante è cancellata. L’esperienza del bambino viene relegata ad essere un vissuto non nominabile e va incontro ad una sorta di derealizzazione, fino a rischiare di diventare un vissuto non percepito, non percepibile. Quando questo accade si realizza una sorta di allucinazione negativa della propria percezione, mentre il pensiero cade in uno stato di alienazione al pensiero dell’altro, fino alla possibilità di una inversione per la quale l’abusato assume su di sé la colpa dell’abusante. 4 Il concetto di “confusione di lingue” viene da S. Ferenczi, Confusione delle lingue fra adulti e bambini, cit., testo fondamentale anche sul concetto di “introiezione dell’aggressore”. 5 Sul tema dell’alienazione e sulle sue differenze rispetto alla psicosi faccio riferimento alla trattazione che ne fa Piera Aulagnier in I destini del piacere: alienazione amore passione, cit.

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ALLE RADICI DEL SIMBOLICO

Se poi la dipendenza dall’adulto è contrassegnata dallo stato di terrore e di minaccia di perdita irreparabile della relazione, è chiaro che questi processi si stabilizzano nel bambino come processi di conformità, di adattamento a qualunque cosa6, processi che hanno come sottofondo un vissuto di impotenza, di assoluta insostenibilità del conflitto, alle prese con le terribili angosce legate alle paure (o alle minacce) di ritorsione. Posso citare l’esempio di una donna che non appena subiva un torto si sentiva responsabile del torto subito ed era terrorizzata a tal punto da immobilizzarsi… se difendeva qualcuno che veniva aggredito o messo in pericolo dall’arbitrio di qualcun altro entrava in uno stato di angoscia tale rispetto alla paura della ritorsione che si spingeva al punto da diventare autodelatrice di sé stessa rispetto alla colpa, rispetto ad una colpa quindi non solo non commessa, ma subíta. Un passaggio importante nel percorso di questa donna fu la comparsa in un sogno dell’immagine di sé stessa che sotto forma di bambino-cane, presa dal terrore, si consegnava per così dire “spontaneamente” alla catena del proprio aguzzino adulto vestito di un camice bianco. Per anni questa donna ha risposto ai miei continui tentativi di aiutarla a ripristinare un senso attendibile della propria esperienza dicendomi, piena di disperazione: “ma come faccio a sapere a cosa credere, come faccio se non c’è un testimone?” La forza alienante infatti non può mai assumere la testimonianza di realtà: qualsiasi funzione di testimonianza è infatti pervertita dentro un discorso e un pensiero impostato alla cancellazione, alla contraffazione della realtà. In virtù della componente asimmetrica della relazione terapeutica si realizzano le condizioni per una ripetizione: il soggetto paziente è esposto al discorso del soggetto analista, al pensiero dell’analista. Si tratta di condizioni favorevoli a far sì che le esperienze traumatiche possano venir rivissute dal paziente sul piano fantasmatico nella relazione analitica. L’analista si troverà a dover accettare di essere investito dal paziente come depositario dell’identità alienante e dovrà riuscire nel difficile compito di costituirsi contemporaneamente come baluardo del desiderio di realtà e di verità. In questo modo potrà progressivamente realizzarsi, nella relazione, la creazione di uno spazio per un’esperienza della restituzione di una facoltà di pensiero soggettivo capace di testimoniare la realtà del vissuto. 6 Silvia Amati Sas (2003), Honte, ambiguité et espaces de la subjectivité, Rev. Franc. Psychanal., 5/2003.

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I percorsi profondi di uscita dalla condizione di alienazione del pensiero sono spesso contrassegnati da esperienze di shock. Si tratta di esperienze estremamente importanti perché attraverso di esse si realizza la possibilità di una rottura dello stato di alienazione del pensiero sostenuto dall’immobilizzazione, dalla passivizzazione. Voglio precisare che uso il termine passivizzazione proprio per indicare l’aspetto indotto, vincolato di una simile condizione; la condizione per cui il soggetto è reso passivo sia dall’altro, sia dalle proprie difese. Si tratta quindi di qualcosa di ben diverso da una posizione soggettiva di passività come accoglienza, come partizione: quest’ultima anzi viene impedita dalla passivizzazione, come succede ad esempio nel rapporto con le percezioni. Attraverso lo shock possono realizzarsi le condizioni di una esposizione che sblocca le percezioni soggettive rendendole disponibili per un pensiero soggettivo che le pensi in immediatezza. Vediamo come questo passaggio attraverso lo shock può comparire in un sogno. La donna che aveva sognato sé stessa come bambinocane, a distanza di un paio d’anni porta quest’altro sogno: “sono di fronte ad una donna, tutto è in penombra, forse la donna ha un camice bianco, c’è un tavolo in mezzo, non c’è nulla che fa pensare che questa donna sia pericolosa… ma io sento che lo è… sto per essere presa dalla passività, dalla paralisi… ma succede una cosa incredibile sento una mano che si appoggia sopra alla mia testa, come un casco… comincio a sentire un dolore fortissimo… è una specie di elettroshock… devo svegliarmi, voglio svegliarmi… quando finisce mi sento incredibilmente liberata, sento che mi sono liberata, sono uscita da un incubo!”

Sono immagini molto efficaci sulla realtà dell’esperienza del dolore e dell’accesso alla lucidità che il contatto con il dolore consente, come via d’uscita dallo stordimento, dall’adattamento a qualunque cosa, dalla tentazione della passivizzazione e dell’alienazione del pensiero. Attraverso l’esperienza onirica di shock si realizza il punto di aggancio fra dolore, lucidità e senso di libertà. Svegliarsi, uscire dall’ottundimento, sentire il dolore e pensare il proprio dolore, coincide con l’affrancamento dalla schiavitù della immobilizzazione e del pensarsi attraverso il pensiero dell’aguzzina che si presenta come figura innocua. Un altro esempio sull’importanza dell’esperienza di uno shock percettivo come innesco della possibilità di uscita dalla condizione di stordimento e di alienazione del pensiero lo troviamo nel sogno di un giovane uomo:

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“sono fermo, seduto davanti ad un uomo, non c’è un tavolo fra di noi. Questa persona mi parla a lungo, io non ascolto. Ad un certo punto questa persona con un gesto improvviso molto professionale mi infila qualcosa in bocca e mi dice: ‘è la terapia’. Dopo un’altra sequenza di parole lontane, con un altro gesto improvviso, molto professionale, mi blocca, mi immobilizza in posizione sdraiata, mi preme sul diaframma con violenza e mi provoca un’apnea e un forte dolore. Dal secondo gesto e dalla mia reazione capivo che era un abuso, mi ricordavo la frase precedente (‘è la terapia’) e capivo che erano parole che volevano far sparire l’abuso, le parole facevano parte dell’abuso…”

Il sogno si apre con un’immagine di immobilizzazione, passivizzazione, stordimento e adattamento. Attraverso lo shock si realizza in immediatezza il contatto fra esperienza percettiva onirica (dolore, apnea), sblocco della memoria e accesso al pensare come pensiero soggettivo agganciato alla propria esperienza della relazione. Si tratta di un evento onirico che ha il valore di offrire, se messo in relazione dinamica con le traversie del transfert/controtransfert nella relazione analitica, una possibilità di riparare lo scompaginamento fra discorso e realtà. Riprendendo l’immagine dei punti di capitone, si realizza, in un evento onirico come questo, un punto di aggancio fra realtà e soggettività, percezione e pensiero, con il sostegno di un accesso alla memoria altrimenti inaccessibile. Se l’evento onirico può ricevere uno spazio, adeguato alla sua portata, nella relazione analitica, la relazione stessa diviene il contenitore per un accrescimento della sensibilità percettiva grazie al quale si apre l’accesso ad una più ampia sfera di consapevolezza. Per il tramite del nuovo contesto percettivo, allargato alla relazione, l’esperienza può essere simbolizzata attraverso parole che giungono a rappresentarla. Nella relazione possono così aprirsi spazi di riconoscimento in cui le parole possono simbolizzare, invece che sostituire, l’esperienza. Il recupero di aree di memoria soggettivanti, che possiedono la forza di smentire costruzioni mnestiche difensive relative allo stato alienato, è dunque un elemento fondamentale dell’uscita dallo stato di alienazione, proprio per la possibilità della memoria soggettiva di fare storia, di consolidare la funzione di testimonianza. La memoria che si sblocca è la memoria di sé nella relazione, memoria che dà accesso alla rappresentazione della forma relazionale del danno, una forma ambigua nella quale può esserci qualcosa di allettante, l’illusione di un sollievo… Ricordare la forma del danno può contribuire a consolidare quella funzione di testimonianza che costituisce la possibilità di un

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baluardo sia nei confronti della forza alienante, sia nei confronti della propria caduta nello stordimento, nella passivizzazione delle percezioni e del pensiero. Recuperare la memoria consente di vedere chiaro come la forza alienante sia portatrice di un discorso impostato allo scopo di sostituirsi alla realtà, di occuparne il posto, volendola annullare: è per questo che la via d’uscita dalla alienazione del pensiero passa necessariamente attraverso il recupero delle percezioni e della memoria delle percezioni. Questo recupero consente di ristabilire una funzione di testimonianza come punto di partenza, come possibilità di partire da un’altra parte per la rifondazione di un pensiero soggettivo che possa davvero corrispondere a quelle percezioni e non smentirle, che possa davvero pensare la realtà. Dicevo all’inizio che tutto questo potrebbe aiutare a descrivere fenomeni collettivi sociali. A questo proposito voglio solo dire che gli incidenti soggettivi di cui abbiamo parlato del rapporto con la realtà e con il pensiero della realtà, possono fornire degli spunti per provare a pensare la nostra condizione collettiva attuale sempre più consegnata a idealizzazioni senza ideali, a pensieri senza pensare, a individualismi senza soggetti, a discorsi sull’altro senza relazioni con l’altro7… Tutti fenomeni cioè che mi sembrano carichi di quelle perversioni del senso che abbiamo visto appartenere alla condizione per la quale il discorso si sostituisce alla realtà, occupandone il posto.

7 Per un approfondimento sulle mutazioni antropologiche e sulle nuove forme del sintomo nella clinica contemporanea vedi Massimo Recalcati, L’uomo senza inconscio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010.

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PARADOSSI DEL MATERNO1

proprio così, felici come siamo certe volte io e te nel nostro canto sbandato di orfanine Mariangela Gualtieri2

Nel lavoro dell’analisi con le donne il discorso conscio sulla madre e sulla relazione con la madre è continuamente intrecciato, confermato o smentito, come accade in ogni situazione analitica, da ciò che viene alla luce nel discorso inconscio e soprattutto da ciò che viene esperito nella relazione fra analista e analizzanda (paziente), ossia da ciò che nella relazione analitica si realizza, cioè avviene sulla scena analitica, non essendo dicibile o, in alcuni casi, non essendo nemmeno pensabile. È l’insieme di tutte queste funzioni, come riescono ad essere comprese e contenute nello sguardo dell’analista, che pone in evidenza la dimensione paradossale del materno. Questa paradossalità è insita nella questione cruciale della identità e della differenza, che, nella relazione madre-figlia, è funzione, in modo particolarmente intenso e talora drammatico, del bisogno d’amore. La relazione madre figlia implica infatti il problema originario della coesistenza fra dimensione speculare identitaria e dimensione asimmetrica, ossia appartenente alla differenza di posizione (chi accudisce e chi viene accudita, chi nutre e chi viene nutrita, chi contiene e chi 1 Una prima versione ridotta di questo testo è stata pubblicata con lo stesso titolo in Diotima (2007), L’ombra della madre, Liguori, Napoli. 2 Mariangela Gualtieri (2006), Voci tempestate, in Senza polvere senza peso, Einaudi, Torino.

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ALLE RADICI DEL SIMBOLICO

viene contenuta, chi cura e chi viene curata, etc.) e la realizzazione del bisogno d’amore segue nella relazione il destino delle possibilità, degli spazi lasciati aperti dalle traversie, dalle vicissitudini di questa difficile coesistenza fra simmetria identitaria e asimmetria della differenza (estesa a qualsiasi differenza d’essere). A questo si aggiunge che, diversamente da ciò che accade nel bambino, nella bambina, per la quale il primo oggetto d’amore è dello stesso sesso, il modellarsi delle regole interne che riguardano ciò che è lecito e ciò che non lo è, così come il modellarsi di ciò che costituisce l’ideale di riuscita, di realizzazione (quindi quell’insieme di regole e di aspirazioni che sostanziano il funzionamento della dimensione psichica definita super-io/ideale dell’io3) avviene in rapporto alla minaccia di perdita dell’amore o addirittura della sopravvivenza della relazione. La fonte dell’angoscia è proprio il rischio di perdita dell’amore, la minaccia è quella dell’agonia legata al crollo della relazione. Nella mia esperienza clinica di lavoro con le donne in analisi ho potuto osservare che il paradosso più difficile, ingombrante e, nel contempo indicibile, riguarda la dimensione trigenerazionale del problema della funzione materna, funzione che nella sua componente interiorizzata concerne l’accettazione e l’accoglienza di sé, l’ospitalità a sé. In un certo senso la forma, l’intensità o la gravità del problema nella terza generazione (la figlia) è correlata in modo altamente complesso ai contenuti inconsci della madre in rapporto alla propria madre. Ossia il residuo psichico non elaborato, rimasto impermeabile, non modificato dalle diverse relazioni, comprese quelle con il maschile, passa in questo stato grezzo dall’una all’altra (di madre in figlia) fino a quando produce una ferita manifesta, fino a quando incontra una disponibilità a vivere la ferita, una disponibilità a scongelarla, aprendone la crisi. Di conseguenza accade che nell’analisi occorre avventurarsi a ritroso nei territori emotivi della relazione fra la madre e la madre della madre (la nonna) per rintracciare il senso di tutto ciò che la figlia si ritrova a incarnare, sia come eredità vivente di quella relazione, sia come vincolo alla riparazione delle falle di quella relazione, ciò che paradossalmente la pone in posizione di madre della propria madre. Cosicché il percorso dell’analisi come possibile salutare percorso d’esperienza per portare avanti la propria individuazione femminile, 3 Catherine Millot (1984), Le surmoi féminin, “Ornicar” Xe année, numéro 29, Navarin Editeur, Paris.

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PARADOSSI DEL MATERNO

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oltre ad essere soggetto alle minacce a cui si è accennato (quella della perdita dell’amore e quella della perdita o addirittura del crollo della relazione), è ostacolato da molte altre difficoltà, non ultima quella di far venire alla luce questa dimensione trigenerazionale della lacuna del materno che comporta il vedere la propria madre in posizione di figlia nell’altrove di un’altra relazione e di un altro tempo. Questa capacità di sguardo sulla propria madre come figlia (in un’altra relazione e in un altro tempo) richiede l’accettazione, dentro il legame affettivo, di una componente di alterità radicale, di una componente di estraneità nel legame affettivo che è molto difficile da raggiungere perché implica una traversia emotiva che comporta la rinuncia a vedere e volere la madre come qualcuno che nasce con me in una sorta di con-generazione, a cui appartengo e che mi appartiene, e che al massimo devo condividere in una spartizione con qualcun altro. Ho usato un termine, “estraneità”, che può generare equivoci. Voglio precisare che uso il termine estraneità come descrittivo di ciò che all’interno del legame affettivo costituisce un punto irriducibile di alterità, in rapporto al quale prendono forma le vicissitudini di una identificazione non speculare e di una differenza non conflittuale, una differenza che non implichi necessariamente una contrapposizione. L’inclusione di questo punto di estraneità nello spazio affettivo diviene l’ancoraggio dell’innesco di una dialettica di relazione che rende possibile un incontro autentico. È quel punto in cui, nella dimensione affettiva, resiste l’altro in quanto inappropriabile, irriducibile rispetto alla confusione, alla sovrapposizione, al conflitto, e perciò è proprio in quel punto che paradossalmente prende forma il movimento verso il desiderio di contatto, di incontro e di autentico rispecchiamento della differenza. È a partire da quel punto di distanza che non pretende di essere colmata, di separazione fondamentale, che ciò che separa diviene rapporto; è a partire da quell’intervallo fra sé e l’altro, da quella interruzione d’essere che non autorizza a disporre dell’altro, che possono crearsi le condizioni di accesso alla possibilità di una gaiezza della differenza, che, nella condizione di appartenenza allo stesso sesso, diventa generatrice feconda di leggerezza d’essere e di apertura ad una relazione gioiosa. Nei percorsi di individuazione femminile uno degli obiettivi del lavoro analitico è proprio la creazione della possibilità dell’inclusione di una zona di estraneità nel legame affettivo profondo: si tratta del paradosso felice per il quale, l’accettazione di aree di estraneità, apre spazi per una autentica possibilità di relazione con la madre e

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con l’altra dello stesso sesso. Gli ostacoli al suo raggiungimento sono numerosi e decisamente complessi. Essi provengono infatti non solo, come facilmente possiamo pensare e constatare, dalla dimensione speculare dell’identificazione e dalla dimensione conflittuale e dolorosa della differenziazione, ma anche, e forse soprattutto, dalle dimensioni inconsce, oscure e gravose del paradosso infelice del vincolo ad una funzione materna rovesciata nel rapporto con la madre, vincolo nel quale la figlia può rimanere impigliata. L’esplorazione di queste zone oscure e paradossali di vincolo nella relazione madre figlia è necessaria per poter rintracciare tutto ciò che impedisce o annulla (indipendentemente dal padre e dal maschile) il darsi delle condizioni per un rapporto di reale reciproca gratitudine fra madre e figlia, fuori dalle suggestioni della idealizzazione, con tutti i guasti che una idealizzazione può portare. Nel lavoro di analisi ho potuto incontrare le possibili declinazioni di queste aree di inversione della funzione materna, inversione per la quale la figlia si trova collocata nella posizione di madre della propria madre bisognosa di madre. Le osservazioni che farò appartengono alla mia esperienza di analista, ma sono convinta che il carattere esemplare, a volte estremo, di storie rivissute e ricostruite nella stanza di analisi faccia emergere il lato oscuro e paradossale di ogni relazione madre-figlia, anche quando l’esito non sia quello di una ferita aperta vivente, anche quando la figlia non si trovi impigliata nel dover essere il rammendo vivente di un buco, di un vuoto di sostanza materna (quel vuoto di sostanza materna che André Green definisce “la madre morta”4). Nella stanza di analisi questi fenomeni si impongono e vengono alla luce nella relazione analitica affinché possano trasformarsi in esperienze pensabili, ma infondo, come ho detto, si tratta di amplificazioni, deformazioni e perversioni di quello strato oscuro inquietante, perturbante, che, in misura più contenuta, può giacere, non visto, nel fondo di ogni relazione madre figlia. In questo senso sono debitrice e grata, per la mia possibilità di accesso a queste dimensioni nascoste del materno, a tutte 4 Cfr. André Green (1983), Narcissisme de vie Narcissisme de mort, Les Editions de Minuit, Paris. Tr. it. di Laura Felici Montani Narcisismo di vita narcisismo di morte, Borla Editore, Roma, 1992. Intorno e in rapporto al “complesso della madre morta” introdotto da Green vedi il volume curato da Gregorio Kohon: Aa.Vv. (1999), The Dead Mother. The Work of André Green, Routledge, London-New York. Tr. it. di Luciano Paoli e Maria Irmgard Wuehl La madre morta, La biblioteca di Vivarium, Milano 2007. Fa riferimento alle concettualizzazioni di Green anche Luisa Muraro (2006), in Psicoanalisi e femminismo: il complesso della madre morta, appendice alla seconda edizione di L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma, pp. 147-159.

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PARADOSSI DEL MATERNO

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coloro che mi hanno domandato e permesso di ascoltare e rivivere insieme a loro la loro storia e la storia delle loro madri. Il lato oscuro e paradossale che appartiene ad ogni relazione madre-figlia implica che ogni figlia, in un certo senso, mette al mondo la propria madre come madre, madre che le chiede di essere confermata come tale e che ha bisogno di lei per riparare le proprie lacune materne, innestate sulle proprie lacune infantili. Un indizio di questa zona d’ombra lo ritroviamo nelle pieghe del linguaggio comune, a svelare e a coprire nello stesso tempo, questo scomodo paradosso del materno. Quanto spesso nel linguaggio comune sentiamo dire e diciamo “voglio fare di tutto perché mia figlia non viva quello che ho vissuto io con mia madre”!… Il piano inconscio e oscuro che fa da sfondo a questo piano cosciente è, accanto e al di là dei contenuti coscienti di contrapposizione, attraversato dalla domanda e/o dal desiderio di collocare la propria relazione con la figlia in funzione della relazione con la propria madre: la posta in gioco è così il riscatto di sé rispetto a quella relazione del passato, e lo strumento è la riparazione nella relazione presente. In questo piano inconscio la relazione madre-figlia nel presente è pensata dalla madre come territorio del riscatto di un’altra relazione (quella con sua madre nel passato) e la figlia, nella sua posizione di partner in questo riscatto, è inscritta in questa missione riparatrice e può condividerne il godimento narcisistico. A proposito di questo elemento narcisistico insito nel rapporto fra generazioni, la psicoanalista Piera Aulagnier propone il concetto di “contratto narcisistico”5 come forma di legame inconscio che lega il bambino ai genitori, alle generazioni precedenti e all’insieme del gruppo sociale. Questo contratto prescrive la missione di cui è portatore il nuovo nato in cambio del riconoscimento da parte del gruppo. Appartiene a questa missione, come componente importante del contratto narcisistico, proprio la componente di riparazione: tutti gli adulti hanno sempre qualcosa da riparare della loro storia infantile e tutti i bambini hanno sempre qualcosa da riparare della storia dei loro genitori. Il genitore chiede implicitamente al bambino di far vivere a lui genitore che è un buon genitore, un buon genitore di un buon bambino, per mantenere in vita un buon genitore capace di amore proprio nelle stesse aree laddove il genitore ha vissuto la lacuna nella propria infanzia, nelle stesse aree in cui ha vissuto la ferita nel biso5

P. Aulagnier, La violenza dell’interpretazione, cit., pp. 207-217.

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gno d’amore rispetto ai propri genitori, percepiti in quelle aree come insoddisfacenti, insensibili, emotivamente indifferenti. Su questo tema dell’inscrizione inconscia del nuovo nato all’interno del contratto che prescrive la sua missione in cambio del riconoscimento da parte del gruppo, vorrei portare l’esempio della storia di una donna che chiamerò E., esempio che, mi pare, mette in luce la complessità del problema e che può poi consentire di coglierne meglio le successive concettualizzazioni. E., all’inizio dell’analisi, quando non stava del tutto bene (sia fisicamente che emotivamente) non veniva alle sedute. La ricerca del senso di questo particolare comportamento ci aveva condotte al fatto che il trovarsi in condizione di debolezza era incompatibile per lei con l’essere accettata e accettabile per i suoi genitori, entrambi infantili e fragili, portare la sua debolezza nella relazione significava per lei essere esclusa irreparabilmente, cosicché aveva imparato ad autoescludersi, e ciò era stato esteso a qualsiasi relazione intrattenesse. L’esplorazione analitica di questo tema ci consentì pian piano di ricostruire la genealogia psichica inconscia del femminile famigliare. La famiglia di E., già da prima della sua nascita, comprendeva la nonna paterna, donna che faceva da sempre vanto del proprio stato vedovile, iniziato ancora prima della nascita del figlio. Questa nonna occupava nella famiglia la posizione di genitore onnipotente, dispotico e continuamente accusante verso la giovane coppia, i futuri genitori di E., che, pur essendo adulti, si trovavano nella posizione di due adolescenti: una adolescente caotica e litigiosa (la madre) che aspirava ad una autosufficienza non potendola tuttavia sostenere; e un adolescente passivo, bisognoso, depresso che covava vissuti persecutori e fantasie vendicative (il padre). L’assenza emotiva della propria madre, da sempre depressa, inconsistente e incapace di contenimento, aveva portato la mamma di E. a legarsi alla suocera che costituiva una figura certamente forte sul piano normativo, ma incapace di sostegno affettivo verso la nuora, incapace di sollevare la nuora dai propri sentimenti di inadeguatezza e di colpa verso la propria madre, estesi poi a vissuti di incompetenza come donna adulta e come madre. La nascita della bimba primogenita (E.) si inscriveva così in questo spazio psichico, nel luogo vacante della riparazione di questi sentimenti di inadeguatezza e di colpa della madre e anche del padre: il posto che si trovò ad occupare fu progressivamente quello della bambina difficile, esasperante, intrattabile, attraverso il quale riusciva anche a non schierarsi rispetto alla componente di rivalità oscura fra la mamma e la nonna paterna su di lei. Con l’uscita della nonna dal nucleo famigliare, il posto della nonna fu occupato da E., già grandicella e già predisposta e allenata a diventare ciò di cui i genitori avevano bisogno: una figlia insensibile, indifferente al fatto di ricevere o non ricevere qualcosa da loro, dispotica, che gli insegnasse a vivere, come aveva preteso di fare la nonna paterna, ma

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che, in più, con la forza tirannica del suo carattere intrattabile e la sua rabbiosità continua, li sollevasse dai loro sentimenti di colpa e di inadeguatezza come genitori: “nessun genitore ce l’avrebbe fatta con una figlia così!” si diceva di lei in famiglia. E. si è ritrovata così, nella sua crescita, ad essere una figlia con la responsabilità paradossale di prendersi cura degli altri membri della famiglia (del fratello, oltre che dei genitori) e di costituire contemporaneamente il polo negativo della famiglia, quella intrattabile, con un pessimo carattere, che nessuno sarebbe stato in grado di domare. E. non poteva integrare le parti femminili del suo sé sensibili, tenere, incerte, deboli, bisognose di una sana dipendenza, bisognose di ricevere qualcosa dall’altro, così come la sue parti creative, fantasiose, felicemente intuitive. Queste parti, quando si affacciavano dentro di lei, la spaventavano a morte, a tal punto che doveva ubriacarsi per annullarle e per rientrare in una arroganza spavalda che tentava di ripristinare quella immagine di tiranna indifferente con cui sentiva di dover fare di tutto per coincidere. Dopo qualche tempo dall’inizio della terapia, una volta E. venne in seduta e mi raccontò che la sera prima aveva visto un documentario sugli gnu e che era ancora piena di rabbia perché aveva visto una scena dove uno gnu debole e collocato alla periferia del branco, nell’attraversamento di un fiume, era stato preso da un coccodrillo per una zampa e lo gnu era riuscito a divincolarsi e a scappare. E. aveva commentato questa scena dicendo che il fatto che lo gnu avesse voluto sopravvivere l’aveva molto disturbata e riempita di rabbia perché si era ribellato a una legge del gruppo che, in qualche modo, proteggeva sé stesso come gruppo sacrificando proprio quell’individuo perché più debole; “scappando, ha distrutto un ordine, una legge che avrebbe dovuto accettare”. Ricordo ancora la profonda impressione e il senso di inquietudine che ho provato di fronte alle sue parole e alla sua rabbia, e il sentimento di essere disarmata di fronte ad un attacco di quelle proporzioni al diritto di ogni essere umano a stare dalla parte di sé stesso come individuo, ad identificarsi con la propria vitalità. Di fatto quell’episodio mi fece capire che non solo E. non poteva accettare la propria debolezza, ma soprattutto non poteva accettare di utilizzare la propria forza per sé stessa. Attraverso il lavoro analitico progressivamente E. arrivò a sperimentare che in quelle sue parti rifiutate poteva esserci la sua possibilità di individuazione, la sua autentica vitalità e che poteva valere la pena esplorarle ed assumerle finalmente come proprie. La ricostruzione del senso del suo rinnegamento di sé la aiutò a descrivere sé stessa come “qualcuno che non riesce a essere quello che davvero è, perché viene travolto da qualcosa che deve per forza essere… per quella parte di me, l’individuo e la famiglia sono la stessa cosa, ma ora sento questa confusione come pericolosa perché mi accorgo che io sparisco, non so più dove sono, e questo mi fa provare angoscia”.

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Ecco che siamo di fronte alla complessità della dimensione temporale del rapporto fra generazioni, dimensione che non è solo unilineare (di scorrimento dal passato al presente) come siamo abituati a pensarla, ma che contiene anche una componente retroversa, presente appunto in questo riscatto e in questa riparazione che le generazioni successive sono chiamate a fare su quelle precedenti. Rispetto alla dimensione femminile di questo contratto e di questa missione, è chiaro che la funzione riparatrice della figlia sulla madre può rendere difficoltoso o addirittura inceppare il percorso di individuazione nella figlia alla ricerca del proprio sé attraverso il labirinto della dimensione speculare identitaria dell’appartenenza allo stesso sesso; l’inversione della funzione materna nel rapporto può ostacolare infatti proprio quei passaggi fondamentali di differenziazione, di distacco, e, come abbiamo visto all’inizio, di inclusione nel legame affettivo di esperienze di estraneità. Siamo dunque alle prese con un problema che potremmo definire di eredità psichica inconscia rispetto al materno. In che cosa può consistere questa eredità? È chiaro che stiamo parlando di un’area più oscura che non quella delle eredità più accessibili, più pensabili, se pur complesse, come quelle che riguardano i modelli del femminile tramandati sia per acquisizione sia per contrapposizione (quelli riferiti al corpo femminile, al rapporto con il maschile, alla sessualità, alla procreazione, alla maternità, alla realizzazione di sé, alla posizione femminile in rapporto agli affetti e al mondo, al rapporto con il pensiero, al rapporto con la realtà, con le istituzioni, etc.). Innanzitutto questa eredità più oscura è costituita da quei bisogni infantili della madre che non sono stati sufficientemente riconosciuti, presi in considerazione, accolti, non solo nella storia passata dell’infanzia materna, ma che non hanno trovato riparazione nella sua storia successiva; bisogni che sono rimasti allo stato grezzo, non elaborati, non trasformati, non reinvestiti, confinati in uno stato di impermeabilità alle relazioni successive, come un corpo estraneo incluso. Simili contenuti psichici possono tuttavia risvegliarsi e riattualizzarsi in rapporto ad eventi traumatici e possono infiltrare la relazione madre figlia in misura più o meno intensa a seconda, sia del loro grado di intensità, sia del grado di permeabilità della figlia alla comunicazione inconscia. È attraverso questo canale di comunicazione infatti che passa, come un’infiltrazione sotterranea, la domanda della madre

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alla figlia di essere una madre per lei, ed è attraverso l’adattamento inconscio a questa domanda che la figlia eredita, insieme ai bisogni infantili insoddisfatti della propria madre, quella missione riparatrice a cui le è difficile o a volte addirittura impossibile sottrarsi, dato che la posta in gioco è il riconoscimento, l’appartenenza, o persino la possibilità della relazione. Si tratta quindi di una doppia eredità in quanto avviene contemporaneamente in rapporto al materno di due generazioni, in una dimensione temporale di sincronicità. In queste zone psichiche di annodamento oscuro fra madre e figlia, incastonato nelle generazioni femminili precedenti, più l’annodamento è intricato e vincolante, più è probabile che un prototipo relazionale vada a ripetersi e a conservarsi, e il futuro finisca per essere investito più o meno pesantemente come attesa delle condizioni di un ritorno di ciò che è avvenuto prima, nell’illusione di poterlo sanare. In questo annodamento fra madre e figlia può succedere così che i tempi si mescolino e può venire a mancare la possibilità di una cesura, di una differenza, di una opposizione o di un accostamento fra il tempo di un soggetto e il tempo dell’altro, il ché equivale ad una dimensione di assenza di storia e, come abbiamo visto dalla vicenda di E., di assenza di sicurezza identitaria. L’annodamento si mantiene attraverso la ricerca di un equilibrio di saturazione che non ammette vuoti, cesure, discontinuità, e la ricerca di tale equilibrio di saturazione si innesca proprio a partire dalla lacuna nella sostanza del materno e dall’angoscia possibile nel contatto con la lacuna. Ciò che risulta compromessa è dunque quella creazione relazionale che può introdurre una amalgama nuova fra il prototipo del materno che appartiene all’esperienza della madre con la propria madre e tutto ciò che il nuovo incontro madre-figlia apporta di non ancora conosciuto, di non ancora sperimentato, di radicalmente estraneo al prototipo; risulta compromessa cioè quella componente della relazione per la quale la relazione possa essere la creatura proprio di quei due soggetti che la intrattengono. Quando le lacune del materno, come accade per molte delle donne che si rivolgono all’analisi come cura, sono così massicce da prevalere in modo schiacciante sulla dimensione creatrice della relazione, e l’angoscia che le accompagna è così intensa da mettere in pericolo la vita psichica, si arriva a relazioni madre-figlia parassitarie e tiranniche, nelle quali il prezzo pagato dalla figlia per far vivere la madre (e di conseguenza la relazione), è la propria alienazione. Si tratta di situazioni dove il tratto oscuro e paradossale dell’inversione del materno

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raggiunge delle forme di perversione distruttiva, come abbiamo visto prima nella storia di E. Queste relazioni parassitarie e tiranniche implicano nella figlia una sorta di mortifera responsabilità del mondo interno di una madre che le chiede inconsciamente di dipendere da lei (dalla figlia) per la propria vita psichica; un carico di responsabilità mortifera alla quale la figlia si trova vincolata attraverso il fantasma (e/o l’esperienza) del crollo della relazione. La figlia può allora tentare di evitare il crollo della relazione attraverso un modellamento inconscio del proprio essere, realizzato tramite una forma di alienazione che implica lo strutturarsi di una costruzione ad hoc, di un falso Sé, di una sorta di robot, fatto a immagine e somiglianza della domanda che viene dall’inconscio materno. La costruzione di questo falso Sé va di pari passo con il proprio svuotamento realizzato attraverso l’indifferenza e la denegazione dei propri contenuti emotivi, creata anche attraverso una sorta di vuoto pneumatico che comporta la perdita di memoria come funzione emotiva soggettiva. Questa situazione psichica di svuotamento di sé è ben illustrata dal sogno di una donna che era stata fin da piccola il sostegno occulto della propria madre psicotica: “sentivo male alla spalla, alla schiena, lo dicevo a mio padre che diceva ‘sì, c’è un grosso problema, vieni allo specchio che ti faccio vedere’; mi guardavo e vedevo attraverso una sorta di crepa l’immagine di una intelaiatura interna di ferro che teneva su il corpo come fosse un involucro esterno, come una bella statua di gesso tenuta insieme da questa anima metallica e che ha dentro il vuoto: dentro si intravedeva il vuoto”.

A questo sogno ne era accostato un altro nel quale compariva un angelo di pietra a custodia del sepolcro della madre. Questo vuoto di sé corrispondeva per lei ad essere piena di contenuti di sua madre e di contenuti funzionali al rapporto con sua madre, tanto che la possibilità di una sua incarnazione psichica richiese un passaggio crudamente espresso da un sogno inquietante che la fece risvegliare molto turbata: “mi trovavo davanti ad un enorme tritacarne, stavo buttando lì dentro gli organi interni di mia madre, cuore, cervello, fegato, quello che si fa per rendere la carne più digeribile… nel sogno non avevo angoscia, è stato difficile dopo, quando mi sono svegliata”.

Gravide del male materno del quale portano il peso, queste figlie si sentono custodi dell’equilibrio interiore della propria madre, illudendosi

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di mantenerlo attraverso la messa in comune del proprio falso Sé e la rinuncia ad incarnarsi in una identità propria, svincolata dalla domanda inconscia materna6. A ciò bisogna aggiungere che, in queste relazioni, il cerchio si chiude attraverso la dimensione di vincolo per la quale l’alienazione viene rinforzata dal fatto di costituire l’unica forma di accesso ad un contatto, ad un riconoscimento che viene cercato e ricercato per quanto si possa trattare di un surrogato illusorio. Una simile relazione con la madre nel contempo implica un sequestro dentro di sé della dimensione del male, del negativo materno, che si confonde con il proprio. Il male materno è custodito e sequestrato come in una enclave all’interno della figlia7 e lì si confonde con quello proprio della figlia, con quello che la figlia ha bisogno di incontrare per incarnarsi in sé e liberarsi della falsa identità, funzionale alla relazione con la madre. Può accadere così che figlie di madri depresse e chiuse nel rischio di una indifferenza emotiva, si trovino vincolate ad alienarsi in un sé provocatorio ed esasperante per poter risvegliare le madri dal loro letargo depressivo e farle sentire in questo modo buone madri, capaci di contenimento proprio laddove queste madri vivono sentimenti di colpa e di incapacità; sono figlie che, in questa alienazione, non possono integrare parti tenere e delicate del loro essere, che sono temute, perché vissute come incompatibili alla forma vincolata della relazione con la madre, parti fondamentali del loro essere la cui perdita, tuttavia, apre, al loro interno, la loro ferita depressiva, legata appunto a questa perdita di sostanza del Sé, lasciandole nella condizione di una perenne nostalgia senza oggetto. Può accadere che figlie di madri folli si trovino vincolate ad alienarsi in un sé oggetto inanimato per contenere l’angoscia materna di fronte ad ogni movimento vitale, e non possano integrare parti del loro essere capaci di slancio, di sorpresa, di vitalità, parti che finiscono per venire da loro stesse disprezzate perché vissute come una minaccia all’integrità psichica della madre e di conseguenza come una minaccia al mantenere in vita la relazione. Può accadere che figlie di madri caotiche, sempre in bilico sull’orlo dell’evanescenza e dello sfilacciamento, si trovino alienate in un 6 Su questo tema vedi Wanda Tommasi (2004), La scrittura del deserto, Liguori, Napoli. 7 Sui processi di incorporazione di contenuti traumatici vedi Maria Torok e Nicolas Abraham (1987), L’écorce et le noyau, Flammarion, Paris. Tr. it. di Francesca Ortu, La scorza e il nocciolo, Borla, Roma 1993.

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sé che pretende la perfezione, quindi un Sé sempre potenzialmente colpevole e normativo, che ricompatta la madre dandole un confine; queste figlie finiscono per non poter integrare parti fantasiose, eteree, creative e desideranti del loro essere, parti trattate con sospetto perché confuse con la caoticità materna e percepite come minacciose perché potenzialmente disgreganti la relazione. Queste diverse forme di alienazione, funzionali alle diverse problematiche materne, possono poi, nell’analisi, ricevere nuova luce tramite la possibilità di rintracciare un supplemento di senso attraverso l’apertura di squarci sulla realtà delle relazioni delle madri con le loro madri, realtà che può essere molto diversa da quella costruita nelle narrazioni e nei miti famigliari. Questo allargamento della prospettiva ha di solito l’effetto benefico di allentare il circuito della rabbia distruttiva e della colpa vincolante. Potrei continuare con altre immagini di alienazioni del sé come strutture di sutura psichica che l’essere della figlia opera sull’essere della madre, ma credo che, già dalle immagini che ho dato, si possa cogliere l’elemento vitale che un crollo emotivo può portare in sé, dato che il crollo emotivo, diventa, in queste esistenze mancate, l’unico accesso possibile allo sgretolamento di questo falso Sé8, l’unica forma di insubordinazione possibile a questo Sé robotico conforme alla posizione speculare alla domanda inconscia materna, a questo adattamento a qualunque cosa, pur di salvare la madre e la relazione con lei. Di nuovo ritroviamo un elemento paradossale: in questo caso si tratta del paradosso interno ad ogni forma di crollo emotivo, ad ogni forma di crisi psichica. La crisi è infatti nel contempo esperienza di prossimità massima e massima distanza dal proprio nucleo autentico. Il sogno di una donna inaugura il suo lavoro in analisi, lavoro che con lei si snoderà in questo territorio di decostruzione del falso Sé e di emersione della sua verità soggettiva attraverso il dolore della crisi: “una donna si guardava allo specchio, era una geisha il cui trucco bianco perfetto, con la perfezione della imperturbabilità di una statua, aveva dei buchi, delle chiazze, da cui, attraverso il disfarsi del trucco, si vedeva il viso sotto, brandelli, frammenti di volto sofferente”.

È dalla crisi dunque che il percorso di analisi può cominciare come percorso di incarnazione in sé attraverso una rifondazione del tempo e della storia, separando, in una sorta di microchirurgia degli affetti e delle 8

Cfr. D. W. Winnicott, Ego distortion in terms of true and false self, cit.

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identità, la sostanza psichica della figlia da quella della madre, anche attraverso la separazione del tempo della madre dal tempo della figlia, attraverso la rinuncia ad eliminare la lacuna, attraverso la rinuncia ad una onnipotenza del materno tanto più ricercata quanto più il materno è lacunoso. E quando il percorso riesce a compiersi resistendo alle secche, ai vortici e a tutte le tentazioni di interromperlo, può capitare di arrivare a vivere la lacuna come qualcosa di completamente trasfigurato, come una donna che rideva e mi faceva ridere dicendo: “ho scoperto l’allegria dell’orfanitudine, è strano, è una allegria contagiosa…chissà se riuscirò a contagiare mia madre…”. Sorprendentemente nelle parole di questa donna emerge tutta la potenzialità della gioia di un materno svincolato dalla onnipotenza: madre e figlia alleate nella condivisione di questa condizione di orfane, orfane appunto di un materno onnipotente.

A posteriori: sentimenti omicidi e onnipotenza del materno Le ulteriori elaborazioni che voglio qui sviluppare prendono avvio dalle conversazioni con donne che mi hanno sentito parlare in una conferenza su questo tema, e dalle reazioni suscitate in loro dalla mia proposta di lettura del problema del materno. Queste reazioni hanno stimolato in me una serie di riflessioni che hanno consentito un ampliamento e un approfondimento sul tema della mia ricerca. Per lo più il discorso è stato accolto con un senso di sollievo, come se l’apertura trigenerazionale facesse spazio nella dimensione del corpo a corpo con la madre, allentasse i sentimenti di responsabilità e colpa, e consentisse di rifondare uno sguardo diverso sulla dimensione dei sentimenti di amore e di identificazione a partire proprio dalla accettazione delle aree del negativo, a partire dalla rinuncia all’onnipotenza del materno. Rispetto a questa reazione di sollievo, mi pare che non c’è molto da aggiungere: sappiamo bene che questa reazione si realizza ogni volta che una prospettiva altra, uno sguardo altro allarga lo spazio… e un ampliamento dello spazio consente l’incipit per un nuovo movimento psichico, così lo spostamento emotivo consentito dall’apertura di nuovi spazi può generare pensiero: pensieri non ancora pensati incontrano le condizioni per essere pensati. La reazione che ho trovato più interessante, e che ha generato in me gli ulteriori passaggi di questo post scriptum, è stata quella di alcune donne che hanno interpretato la mia lettura dei paradossi del

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materno come qualcosa che poteva condurre ad una sorta di matricidio simbolico. Ero di fronte all’evidenza che il discorso ha fatto affiorare il fantasma del matricidio, con il suo reciproco di figlicidio, fantasma che, al suo comparire ha ovviamente suscitato inquietudine, perplessità, paura e una presa di distanza. Ipotizzo che tale contenuto abbia fatto irruzione proprio in rapporto alla forte evocazione, lungo tutto il testo, della complessità della traversia di separazione nella relazione madre-figlia e di sviluppo di una identità separata, i cui passaggi si snodano grazie a passaggi di rinuncia all’onnipotenza del materno. Sembra che toccare l’onnipotenza del materno, così ben difesa e custodita dall’idealizzazione, sia positiva che negativa, abbia fatto emergere un elemento inconscio estremamente inquietante che attraversa l’oscuro annodamento madre figlia: l’elemento dei sentimenti omicidi inconsci che attraversano il materno come rovescio della condizione di dipendenza per la vita: il dare vita che si rovescia in dare morte, in una dimensione psichica in cui non sono separabili, cioè nella dimensione dell’onnipotenza. Ciò porta a pensare che, all’interno della dimensione dell’onnipotenza del materno, i reciproci sentimenti omicidi costituiscano il contrassegno grezzo dei fantasmi di separazione nella loro qualità primaria di interdetto. Vedo l’irruzione di questi fantasmi di matricidio/figlicidio come l’emersione di contenuti psichici fortemente inquietanti che costituiscono l’ostacolo più forte per l’accesso e l’elaborazione della complessa traversia della separazione emotiva inconscia dalla madre, contenuti che hanno appunto la forza di un interdetto e si presentano privi di mediazione simbolica. A questo punto trovo necessario, prima di procedere, proporre un tentativo di inquadramento di questi contenuti psichici grezzi, privi appunto di mediazione simbolica. L’inquadramento può essere collocato in quello strato psichico primario legato alla dimensione di reale dipendenza per la vita, e alla dimensione somatica della simbiosi nel rapporto madre-bambino, nel quale i sentimenti di separazione non hanno la forma simbolica resa possibile dal successivo sviluppo di aree transizionali, ma mantengono la forma nuda e cruda di reciproci sentimenti omicidi. Normalmente questi sentimenti contrassegnano i fantasmi inconsci della relazione madre-bambino infante nei primi mesi di vita, e poi si trovano confinati in forma silente nella parte psicotica della

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personalità come in una enclave. Abbiamo, d’altra parte, una sorprendente prova della loro esistenza nella relazione terapeutica proprio con persone psicotiche e borderline nelle quali questo tratto ovviamente non è confinato in una enclave e fa la sua comparsa come contrassegno inesorabile dei movimenti psichici evolutivi di separazione che si innescano in certe fasi del processo terapeutico: in ogni importante passaggio di separazione i sentimenti omicidi vengono sollecitati. Attraverso queste relazioni si può dunque avere un’idea del rapporto fra sentimenti omicidi e formazione dell’identità. Se Melanie Klein e la scuola kleiniana hanno introdotto e approfondito il tema dei fantasmi distruttivi nelle fasi precoci della vita psichica del bambino, pochissimi autori hanno avuto il coraggio di parlare in modo esplicito di questa area come tratto della relazione madre-bambino. H. Searles lo ha fatto in modo diretto e, come sempre, generoso. In particolare nello scritto dal titolo Sviluppo di una identità (1966), contenuto nella raccolta pubblicata sotto il nome Il controtransfert9, dedica un capitolo al rapporto fra sentimenti omicidi e formazione dell’identità. Le riflessioni di Searles portano a pensare che l’importanza dei sentimenti omicidi reciproci nella relazione madrebambino risiede proprio nel fatto che costituiscono i precursori dell’accesso all’area transizionale: i sentimenti omicidi, come taglio della simbiosi, consentirebbero un accesso alla dimensione separata, alla creazione di uno spazio, spazio nel quale comincerebbe a strutturarsi l’area transizionale, attraverso l’esperienza della quale, i sentimenti omicidi stessi possono largamente trasformarsi in sentimenti e desideri di separazione con la conseguente possibilità di accesso al lutto della sparizione, e al desiderio e al giubilo della ricomparsa dell’oggetto. Un altro effetto dei sentimenti omicidi e della capacità inconscia della madre di attraversarli e di rispecchiarli nel bambino sarebbe quello di innescare il processo di discrimine fra le componenti del funzionamento simbiotico stesso, distillandone quella dimensione feconda che fa da sfondo, da matrice da cui staglia l’identità del piccolo come identità separata. Ora con questi utensili torniamo al nostro tema. L’ipotesi che faccio è che nella relazione madre-figlia, l’annodamento oscuro di cui ho trattato contenga in sé recessi di funzionamento non simbolico, proprio nella 9 Harold F. Searles (1979), Countertransference and Related Subjects, International University Press, New York. Tr. it. di Raffaella Bortino e Anna Gilardi, Il Controtransfert, Boringhieri, Torino 1994, pp. 62-67.

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transitività del materno, nella quale appunto resistono identità interscambiabili e che ha come sfondo quella trama indifferenziata sostenuta e rinforzata dalla appartenenza allo stesso sesso, che contrassegna la relazione, e che rende infinitamente più complessa la traversia della formazione di una identità separata. Apparterrebbe dunque a questo luogo psichico l’incompleta differenziazione fra sentimenti omicidi inconsci e desideri di separazione nel rapporto madre figlia, con la conseguente mobilizzazione di contenuti di colpa e di angoscia, che, privi di ossatura simbolica, esclusi dalla possibilità di articolarsi in pensiero, equiparano la separazione alla morte e all’annientamento della relazione. Ciò che può appunto costituire una minaccia per il buon esito dell’accesso alla legittimazione dei desideri di separazione e quindi alla aspirazione di una compiutezza relativamente felice dei processi di separazione emotiva di entrambe, madre e figlia, condizione necessaria per l’accesso a quella forma di estraneità che sola può garantire una reale reciproca ospitalità. In che modo contenuti psichici con queste caratteristiche possono attraversare la relazione terapeutica? Trattandosi di contenuti psichici privi di mediazione simbolica, dai quali la psiche si difende attaccando la facoltà stessa del funzionamento del pensiero, essi attraversano il campo come contenuti che si ‘realizzano’, ossia si fanno reali nella relazione al di fuori dello scambio linguistico. Il più delle volte compaiono in dettagli di comportamento, di uso dello spazio e del tempo, in sintomi somatici, nel controtransfert o nel sedimentarsi di un clima, di uno sfondo. Cogliere questi elementi diventa dunque fondamentale per poter lavorare su queste aree, tentare di articolare questi segni in processi associativi, tracciare eventuali connessioni con elementi di sogni e fantasie che, attraverso la messa in immagine, cercano il presupposto per un accesso al registro simbolico. Il percorso per arrivare a ciò può essere particolarmente complesso e accidentato, non avviene mai in modo lineare, ma è piuttosto tortuoso e può comportare passaggi sconcertanti per la loro concretezza. Ho ritrovato elementi particolarmente significativi della possibile estrema difficoltà generata da questo intreccio fra sentimenti omicidi e desideri di separazione, così come della difficile e pericolosa traversia per arrivare a poterli pensare ed elaborare compiutamente, nella vicenda di una giovane donna mia paziente che chiamerò A.: A. è figlia unica, in una famiglia prestigiosa e tradizionalista. La madre già prima del matrimonio era stata ricoverata in ospedale psichiatrico

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con sintomi che fanno pensare ad una patologia schizoaffettiva con un’importante componente persecutoria, cosa che, nell’ambiente famigliare, suscitava vergogna e comportamenti di omertà. Dopo una prima fase di esplorazione della relazione con me, nel lavoro analitico emerge che A. si sentiva già da piccola colpevole dei problemi emotivi della madre, in ciò che provava era come se il suo essere viva, la sua stessa esistenza fossero alla base della depressione della madre, del suo male. In effetti era come se qualunque segno di vitalità della figlia facesse violenza alla madre interrompendo il mondo di fantasmi in cui la madre era immersa; questo mondo veniva distrutto all’improvviso suscitando angoscia intensa ogni volta che doveva occuparsi della figlia ed ogni volta che la figlia con la sua vitalità usciva dai confini angusti tracciati dalla madre. La madre non era minimamente consapevole dei propri sentimenti omicidi nei confronti della figlia come essere vivente, probabilmente se ne difendeva minacciando il suicidio. Tuttavia queste minacce di suicidio manifestate alla figlia stessa, conservano nel vissuto della bambina la qualità percettiva (non certo la rappresentazione di pensiero) di un attacco omicida. Era come se A. dovesse essere un soprammobile, un oggetto inanimato, qualcosa che deve stare dove viene messo, completamente passiva. Ciò naturalmente creava in lei la sensazione che gli altri non si accorgessero della sua esistenza, cosa che, a sua volta, le suscitava continuamente una rabbia feroce, una invidia della vitalità altrui, un desiderio di provocatorietà per poter avere la sensazione che gli altri si accorgessero di lei e che la esponeva facilmente e inesorabilmente a ripetute esperienze di rifiuto. Nella relazione con sua madre, da cui non si viveva come separata, aveva sviluppato una iperprotettività fino ad arrivare ad una evidente inversione della funzione materna, per tutelare la madre dalla sua malattia e contemporaneamente per tutelare se stessa, per proteggersi dalla violenza inconscia della madre, nella illusione di poterla controllare. A partire da questa situazione profonda, qualunque cosa ne portava il segno, compresa la scelta di intraprendere il percorso analitico, che veniva interpretata da A. come “colpa della madre”. Non avevo mai avuto paura di questa paziente che non dava segni evidenti di violenza fino a quando un giorno in una seduta è emersa tutta l’ammirazione idealizzante che A. aveva per una donna che occupava le pagine di cronaca come probabile assassina del proprio bambino e che si presentava in pubblico come emblema di inquietante indifferenza. Se fino a quel momento avevo provato un disagio che non capivo, avevo fatto fantasie che non capivo di subire un danno da lei, a quel punto, attraverso una sorta di shock emotivo, sapevo che avevo paura di una sua parte assassina, una parte che viveva la propria esistenza come sottoposta ad una regola crudele: o si è assassinati o si è assassini. Dalla atrocità di questo contenuto la paziente si era strenuamente difesa. A. si era difesa dai sentimenti omicidi della madre nei suoi confronti idealizzando la madre come vittima, della propria malattia, della propria

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famiglia di origine, della famiglia del marito, e soprattutto del marito stesso (il padre di A.) percepito come pericoloso anche se non lo era. La paziente si era difesa dai propri sentimenti omicidi nei confronti della madre idealizzando una “capacità di tener testa... di indifferenza” ostentata ed esibita come quella della donna che occupava con la sua imperturbabilità le pagine dei giornali. In questo modo A. non aveva accesso al dolore atroce del lutto di avere una madre così malata, troppo presente e troppo assente al tempo stesso, inaccessibile, sadica nei suoi confronti, una madre che vive la figlia come la propria persecutrice: questa inaccessibilità del dolore contribuiva ovviamente a rinsaldare la relazione adesiva con la madre. In quella seduta trovai la forza di dire che lei stava ammirando una possibile assassina e che questo mi faceva molta paura. L’effetto di quelle mie parole sulla paziente è stato dirompente, suscitando innanzitutto in lei incredulità sbalordita: non poteva credere che io non ammirassi l’indifferenza impassibile della donna di cui stavamo parlando. Si era creata una breccia: la neutralità espressiva dell’inquadramento analitico aveva contribuito a mantenere immobilizzato, fino a quel momento, nella relazione con me, un contenuto simbiotico di idealizzazione dell’indifferenza. Da lì è stato possibile per A. cominciare a mettersi in relazione con la propria aggressività. A. ha cominciato a discriminarne le componenti che ricalcavano quella della madre; ha cominciato a capire quanto quella aggressività le impedisse di sviluppare una forma sana di relazione con sé stessa e con gli altri, nella quale poter sentire la sicurezza di sapersi difendere dai pericoli; ha cominciato a potersi fidare di me, potendo accettare di ricevere quei nutrimenti che poteva trovare nella relazione con me senza rischiare di venire annientata: abbiamo, riassumendo, potuto lavorare sulla sua aggressività distruttiva in modo franco ed esplicito, cosa necessaria perché la paziente potesse imparare a difendersene, e ad accedere a una rabbia sana. Tuttavia, in parallelo a questo sblocco, continuavo a percepire nel controtransfert un senso di minaccia, una diffidenza, soprattutto presente nel clima dell’incontro, come se, sullo sfondo, il pericolo si mantenesse costante, nonostante il discorso procedesse con un certo agio. Queste percezioni tuttavia, nonostante gli sforzi, i tentativi di incrociarle con associazioni, immagini oniriche, fantasie, rimanevano prive di un pensiero che le potesse pensare. In quel periodo la paziente aveva un’intensa attività onirica. Attraverso i sogni siamo venute in contatto con immagini estremamente crude ed inquietanti sulla morte e sull’uccisione di bambini. In alcune di queste immagini oniriche i bambini sono contemporaneamente bambini e bambolotti, subendo continuamente reversibili trasformazioni degli uni negli altri e viceversa. Queste immagini potevano dar conto della instabilità della trasformazione simbolica, o meglio della minaccia proveniente dalla parte psicotica della personalità incapace di accesso al registro simbolico.

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PARADOSSI DEL MATERNO

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Improvvisamente irrompe un dato di realtà drammatico: A. scopre di avere una grave malattia fisica che, per poter essere curata, comporterà l’impossibilità alla procreazione e alla gestazione. Lo shock è fortissimo, si alternano dolore disperato e negazione. La accompagno nelle vicissitudini di questi vissuti fino a che emerge un contenuto che mi sbalordisce. Sua madre era stata concepita dalla nonna prima del matrimonio, la nonna aveva portato avanti la gravidanza (fantasticando probabilmente un aborto) ma ciò, nel contesto sociale famigliare, era stato vissuto come l’equivalente di un’onta incancellabile. In questo nucleo traumatico un fantasma mortifero sembrava aleggiare: i bambini, venendo al mondo, rovinano la vita delle madri, in un certo senso le uccidono. La madre di A., che pure probabilmente aveva voluto, con la sua gravidanza desiderata, tentare una riparazione, si portava dentro, tuttavia, questo contenuto non simbolizzato, non elaborato che aveva incorniciato il suo venire al mondo. Nel mondo fantasma della relazione della mamma di A. con sua madre, la nascita, la vita stessa della figlia coincide con la rovina della madre. Nel passaggio generazionale successivo, la relazione della madre di A. con la figlia e della figlia con lei era infarcita di quel nucleo mortifero. Da lì emanava un vincolo che era come il destino di una condizione senza via d’uscita, insolubile: presenza e assenza, stare e separarsi, attivavano comunque il fantasma dell’omicidio inferto o subito, dell’uccidere e dell’essere uccise come equivalenti. Il corpo di A. ora ne portava le stimmate: nel reale era uccisa in lei la possibilità biologica di diventare madre, al posto di, o, piuttosto, come equivalente di uccidere la madre. La tragedia della mutilazione fisica per A. costituì nel contempo un vero e proprio evento psichico: l’evidenza crudele della perdita era a quel punto l’aggancio della possibilità di una trasformazione simbolica proprio in quelle aree dove non era ancora avvenuta. Attraverso il lavoro analitico sulla malattia e le sue conseguenze diventava possibile fare di questa esperienza una vera e propria esperienza fondativa della caduta dell’onnipotenza. Ciò aveva ora la potenza di costellare il lavoro analitico precedente e futuro sulla separazione come possibilità sganciata dalla morte e dall’omicidio.

D’altro canto, in questo nucleo di vischiosa indistinzione fra le tre donne di generazioni diverse, i sentimenti omicidi, come abbiamo visto, possono contenere al loro interno un potenziale di apertura alla via della separazione, come precursori dell’accesso ad una identità psichica propria compiutamente separata: questo potenziale può però, ovviamente, essere mobilizzato solo attraverso una complessa transizione da contenuto concreto in contenuto psichico, per dare accesso poi ad una trasformazione simbolica in sentimenti e desideri di separazione. È questo compito che diviene con forza il compito dell’analisi attraverso il lavoro puntuale, dentro la relazione terapeutica, del rispecchiamento di tali sentimenti omicidi come sentimenti diretti all’analista, i quali,

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confrontati con l’evidenza della sopravvivenza e dell’integrità psichica dell’analista stesso, possono uscire da una condizione di stallo distruttivo e trasformarsi simbolicamente in un divenire elementi vitali di individuazione.

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POTERI AFFETTIVI E DISIDENTIFICAZIONI

gli altri si sono insediati nei nostri cuori, e noi crediamo che si tratti di noi stessi. Ronald Laing1

Ogni relazione che abbia una importante componente asimmetrica ha da misurarsi con una soglia, varcata la quale, una relazione che potremmo definire di autorità può compiere o subire una metamorfosi verso una relazione di potere. Se da un lato la relazione di autorità può costituire lo spazio per una ‘politica dell’esperienza’2 di relazione per entrambi i soggetti, dall’altro lato, varcata quella soglia, diviene un territorio bloccato nella ripetizione di un esercizio di potere o nella ripetizione di una lotta per il potere. L’incistarsi di queste microstrutture di potere nelle relazioni asimmetriche è tanto più insidiosa quanto meno il potere ha i contrassegni evidenti di un abuso o di un arbitrio eclatante. Come psichiatra e psicoanalista mi interessa esplorare e possibilmente approfondire le implicazioni di questo problema del pericolo di una metamorfosi “maligna” dell’autorità in quelle relazioni asimmetriche contrassegnate da – o depositarie di – forti componenti affettive, di dipendenza, di identificazione e di idealizzazione. Sto parlando delle relazioni primarie genitori-figli e di tutte le relazioni che, essendo caratterizzate da una asimmetria di posizione, possono divenire depositarie sia della ripetizione della traversia affettiva di quelle relazioni originarie, sia del desiderio e 1 Ronald D. Laing (1967), La politica dell’esperienza, tr. it. di Aldo Tagliaferri, Feltrinelli, Milano 1971, p. 73. 2 Cfr. R. D. Laing, La politica dell’esperienza, cit.

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della esigenza di modificarne l’evoluzione e il destino ampliandone i confini. Fra queste possiamo trovare le relazioni che hanno a che fare con la formazione/insegnamento e ovviamente quella forma del tutto particolare di relazione asimmetrica che è la relazione psicoanalitica. Si tratta di relazioni nelle quali possono realizzarsi forme di potere per vie indirette e il più delle volte poco evidenti, e per questo più insidiose, mantenute in essere anche attraverso le inevitabili forme di identificazione e di idealizzazione che queste relazioni comportano. L’analista, per la posizione che occupa e per il metodo che propone di lavoro sulla relazione, si trova, per effetto del transfert, ad essere investito il più delle volte dal suo interlocutore di idealizzazioni accentuate e attribuzioni di potere. Esposti a queste proiezioni, abbiamo il problema di riuscire a mantenere una posizione di autorità riuscendo contemporaneamente a non identificarci, a disidentificarci rispetto ad un eccesso di idealizzazione e all’esercizio di un potere. A partire dalla mia esperienza di psicoanalista, farò dunque esempi che mi sembra possano essere utilizzati per un approfondimento del pensiero su tutte quelle relazioni nelle quali, a partire dalla componente asimmetrica, possono ricorrere fenomeni analoghi. In questo percorso sul pericolo dell’instaurarsi di forme di potere nelle relazioni affettive nelle quali c’è una asimmetria di posizione, dovremo fondamentalmente occuparci del funzionamento dell’Io, dato che è la struttura psichica più implicata con la questione del potere. È l’Io infatti che si può trovare ad operare l’adesione al potere e alle sue forme, proprio attraverso le funzioni psichiche di identificazione e di idealizzazione. Identificazione e idealizzazione sono infatti funzioni dell’Io che, messe al servizio del mantenimento del potere, si immobilizzano, perdono quella plasticità e quella mobilità che consentirebbe di disidentificarsi e di de-idealizzare il potere stesso. Le premesse che farò ci consentiranno quindi di affrontare, attraverso gli esempi mutuati dalla mia esperienza clinica, la questione del fare e disfare identificazioni, e le questioni implicate nei processi di idealizzazione e de-idealizzazione, questioni che riguardano la possibilità di una rimessa in gioco delle relazioni in una politica dell’esperienza, laddove tendono ad essere irretite in un gioco di potere. La prima premessa riguarda il fatto che è da una asimmetria necessaria che inizia a prendere forma il soggetto come soggetto umano capace di pensarsi attraverso il linguaggio.

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È quella asimmetria originaria3 dentro la quale il nostro Io prende forma: l’asimmetria decisiva per la quale l’infante accede al pensiero e al linguaggio attraverso un altro essere, la madre, a sua volta immersa in un sistema di relazioni complesse consce e inconsce con le loro componenti simmetriche e asimmetriche e le loro componenti di identificazione e di idealizzazione. L’Io dunque prende forma da questa asimmetria che risulta decisiva per la struttura dell’Io stesso. All’origine del soggetto, nella condizione di massima vulnerabilità, il pensiero del soggetto su di sé coincide con il pensiero cosciente e inconscio di un altro essere che lo pensa4, la madre; madre che è portatrice lei stessa di desideri, pensieri, affetti, consci e inconsci di una rete di relazioni in cui è immersa e di cui è portavoce5. L’Io come struttura e come funzione pensante si plasma dentro questa asimmetria e la vita dell’Io, provenendo da questa matrice, sarà da lì in poi contrassegnata dal conflitto fra identificazioni, a sé, all’altro, ai dispositivi di relazione, sia coscienti che inconsci. Questo conflitto, che ha come calco la relazione con l’oggetto d’amore primario, con i primi oggetti d’amore e soprattutto con il fantasma della loro perdita, prenderà la forma di un conflitto fra sé e sé, fra sé e i propri ideali, fra sé e i propri desideri, fra sé e il proprio inconscio, ma anche fra sé e la realtà, fra sé e l’altro. Sarà questo conflitto che diverrà la cifra del lavoro psichico necessario perché sia garantito il senso di continuità del proprio sé alle prese con i continui cambiamenti a cui l’Io è esposto se mantiene una relazione con tutto ciò che non è riducibile all’Io stesso: l’inconscio (e quindi il desiderio), il corpo, la realtà, l’altro, il mondo animato e inanimato. In altre parole l’Io per mantenere la propria stabilità tenderebbe ad intrattenere una relazione di potere (di dominio) su tutto ciò che l’Io percepisce come non-Io, mentre per evolvere e progettarsi deve saper operare continue mediazioni e ibridazioni che implicano stati di vulnerabilità. È questa la sostanza della conflittualità interna all’Io. 3

Cfr. P. Aulagnier, La violenza dell’interpretazione, cit. Una interessante trattazione filosofica di questo problema, centrata sul rapporto fra soggettivazione e assoggettamento, la troviamo in Judith Butler (1997), La vita psichica del potere, tr. it. di Elena Bonini e Carlotta Scaramuzzi, Meltemi, Roma 2005. 5 P. Aulagnier, Il contratto narcisistico, in La violenza dell’interpretazione, cit., pp. 207226. 4

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La vitalità di questo conflitto fondamentale in seno all’Io è decisiva per la plasticità e la progettualità dell’Io stesso. È attraverso la riapertura della ricerca di soluzioni a questo conflitto che l’Io attraversa i processi di identificazione e di disidentificazione, di investimento affettivo, disinvestimento e reinvestimento affettivo, che deve continuamente compiere per mantenere vivo il suo rapporto con la funzione desiderante e con il futuro, nonostante la condizione di finitezza data dal nostro essere esseri viventi e quindi vulnerabili, esposti ai cambiamenti, alle perdite, alle malattie e alla morte6. Per ampliare i nostri orizzonti dobbiamo continuamente affrontare esperienze di perdita che ci rendono vulnerabili, e il più delle volte dobbiamo dolorosamente rinunciare a forme di identificazione e di idealizzazione da cui abbiamo tratto sicurezze, mentre il nostro Io tende a conservare e a difendere le sicurezze acquisite e gli oggetti d’amore su cui ha investito. In questo processo del fare e disfare identificazioni assume un ruolo fondamentale la possibilità di idealizzazione e di de-idealizzazione degli Io degli altri che occupano posizioni di autorità e soprattutto della relazione con questi Io. Nella relazione con la madre troviamo il prototipo di ogni deidealizzazione necessaria. La relazione con la madre infatti ha bisogno di essere de-idealizzata rispetto alla dimensione originaria di un tutto onnipotente, perché il bambino possa cominciare a desiderare e a pensare. È la progressiva accettazione da parte della madre di questa de-idealizzazione della relazione come tutto onnipotente, che consente all’Io del bambino di consolidarsi come funzione pensante e di formarsi un inconscio proprio: avere un inconscio in luogo di essere puro e semplice contenitore inconscio dell’inconscio materno, e poter affrontare la relazione psichica con il desiderio. Nella crescita e nell’ampliarsi della soggettività, è la vitalità del desiderio che sostiene questi processi di disidentificazione e di de-idealizzazione rispetto alle relazioni primarie, processi che generano la possibilità di fare spazio perchè si configurino degli Ideali che anticipano l’Io-futuro. È così che l’Io, al posto di credere di essere un Io ideale in relazioni idealizzate, può mobilizzarsi verso il futuro per il tramite 6 Il rapporto fondamentale fra lutto e futuro non ha solo una dimensione decisiva per il soggetto, può essere visto anche come problema della collettività; a questo proposito vedi Judith Butler (2004), Violenza, lutto, politica, tr. it. di Fiorenzo Iuliano, in Vite precarie. Contro l’uso della violenza in risposta al lutto collettivo, Meltemi, Roma 2004; ed inoltre le profonde e raffinate analisi storiche della studiosa Nicole Loraux (1997), La città divisa, tr. it. di Stefano Marchesoni, Neri Pozza, Vicenza 2006.

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dei propri Ideali, progettarsi in altre relazioni e di ampliare i confini del proprio mondo. All’opposto, la fissità delle identificazioni e delle idealizzazioni, la loro immobilizzazione, corrisponde a forme di potere, di dominio all’interno del mondo psichico che immobilizzano la ricerca di soluzioni creative di composizione e di compatibilità fra Io e tutto ciò che l’Io percepisce come non-Io (inconscio/desiderio/corpo/altro/realtà). Queste forme di potere all’interno del soggetto che fanno deperire o mettono in scacco la vitalità del desiderio, rispecchiano le forme di potere che si sono strutturate nelle relazioni affettive primarie e tendono a venir riprodotte in tutte le relazioni significative e affettivamente intense in cui è implicata l’autorità. Sulla componente asimmetrica della relazione analitica si trasferiscono questi dispositivi di relazione che tendono a ripetersi. Il loro riprodursi pone l’analista nella condizione di dover continuamente vigilare sui pericoli di una omogeneità di pensieri, di giudizi, di posizioni affettive, sui pericoli insiti nell’assenza di contraddittorio, sui pericoli legati agli eccessi di idealizzazione. Se questi pericoli si realizzano (e si realizzano tanto più facilmente quanto meno vengono percepiti, immaginati, pensati), la relazione analitica può trasformarsi da relazione di autorità a relazione di potere e restare impigliata in quelle stesse maglie di potere nelle quali è rimasto impigliato il paziente nelle sue identificazioni7. Vediamone ora un primo esempio. L. entrava nello studio con una sorta di rituale che iniziava appena mi vedeva e ancora prima di varcare la soglia e salutarmi: “ho sbagliato orario?” “ho sbagliato qualcosa?” oppure “ho fatto quello che mi ha detto”, “aveva proprio ragione la volta scorsa”, “era come ha detto lei”. Frasi che apparentemente facevano riferimento implicito a contenuti che il più delle volte io non avevo modo di collegare, dandomi la forte sensazione che lo scambio da lei proposto non aveva a che fare con contenuti, ma con una dichiarazione d’obbedienza ad un potere costituito. Pronunciate queste frasi, la seduta allora per L. poteva cominciare. Per poter accedere alla seduta e ai suoi contenuti doveva mettere sempre le mani avanti, doveva rimettere ogni volta a posto lo stesso identico contenitore con il suo rituale che, nel suo sottotesto implicito, potrebbe essere ritradotto grosso modo così: “ora che ho premesso che io L. ho torto e tu dottoressa hai ragione, possiamo stare insieme e procedere”. Era come se fossi di fronte a qualcosa che mi ricordava ciò che avevo 7

Cfr. P. Aulagnier, I destini del piacere, cit.

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più volte osservato nei rituali fra i miei due gatti, laddove ogni scambio è solidamente incorniciato nel rituale di ripetizione e consolidamento della riproposizione del rapporto di dominanza esistente fra di loro. D’altro canto nel corso del tempo cominciavo a notare un altro rituale: prima di esprimere un pensiero autenticamente suo, un suo giudizio, una sua presa di posizione (cosa che non avveniva spesso) era costretta ad anticiparlo con un ritornello “mi scusi, ma penso che…”, “mi scusi, ma ho detto che…”, “mi scusi, ma ho deciso che…”. Sembrava che L. dovesse chiedere scusa a me ogni volta che pensava con la sua testa. Quando qualche mia osservazione, interpretazione o comportamento smentiva l’assioma di questa cornice, L. entrava in ansia e si verificavano delle sorte di vuoti angosciosi, momenti in cui sembrava paralizzata. A volte avevo l’impressione che entrasse in una specie di stato di terrore. Di questo tipo di esperienza di paura paralizzante non c’era alcuna traccia nei racconti di L., se non nel racconto dei sintomi con i quali era arrivata. Nel momento di prendere sonno o mentre faceva la doccia a casa sua (dove viveva da sola) veniva assalita dal terrore che qualcuno entrasse in casa a sua insaputa e la uccidesse o le facesse del male. L. pian piano, parlandone con me, si era accorta di fare cose assurde e contraddittorie rispetto a quel terrore: da un lato controllare in casa, ispezionare, lasciare le luci accese, dall’altro lato rifugiarsi sotto le coperte soprattutto con la testa “per non vedere” chi la terrorizzava. In rapporto a stimoli di questo tipo cosa può accadere nell’analista? Se ci si lascia affascinare da una attribuzione così seduttiva, così appagante dal punto di vista del piacere narcisistico, si può insidiosamente, senza pensare, scivolare in una collusione con questa immagine di analista perfetta che ha sempre saputo e capito tutto, e finire per credere che sia davvero così. In un caso come questo la caduta in questo rispecchiamento narcisistico può imbalsamare il pensiero in una sorta di schematismo psicoanalitico, deviarlo ad essere un pensiero pensato, occludendo lo spazio per un pensiero pensante. Se l’analista scivola nell’ identificazione con l’immagine di perfezione continuamente ripropostale dalla paziente può ritrovarsi “involontariamente” a riconfermarla, conformandosi a quell’immagine attraverso la magnanima elargizione di un sapere psicoanalitico calato dall’alto, e contribuendo così al mantenimento inconsapevole da parte dell’analista di forme di identificazione nella paziente che mettono fuori gioco le possibilità di cambiamento. Nella situazione prima descritta, solo la possibilità di disidentificarmi, di non voler essere conforme a quella attribuzione fattami da L., mi ha consentito di mantenere viva l’attenzione, in particolare l’attenzione ad una qualità perturbante di quelle stesse frasi ritornello della mia paziente. Contro ogni logica razionale, in un frammento della mia esperienza di quelle frasi, vi percepivo una componente aggressiva. Solo l’accettazione del rischio e della fatica di pensare questo contenuto perturbante in ciò

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che appariva solo rassicurante e innocente, mi ha messo di fronte ad una ipotesi di pensiero che tracciava un collegamento fra terrore, rabbia e idealizzazione. È stata una associazione ad una immagine, che mi ha consentito di mettere in pensiero questa qualità perturbante, l’immagine del somministrare al leone il suo cibo preferito pieno di sonnifero per non essere sbranati: alimentare il narcisismo di chi nella relazione occupa la posizione forte, per non essere aggrediti e totalmente dominati. Tutto ciò ha consentito un importante passaggio: l’idealizzazione di me e l’idealizzazione di un dispositivo di relazione in cui io avevo sempre ragione e lei sempre torto, era un tratto della relazione di potere fra sua madre e lei. I suoi ritornelli idealizzanti costituivano una misura di contropotere seduttivo nei confronti di ciò che di sua madre era trasferito su di me, una madre che aveva il potere di terrorizzarla perché a ciel sereno poteva arrivare a picchiarla con violenza quando la bambina, senza volerlo, rompeva la bolla narcisistica in cui la madre era rinchiusa. La madre, piena di sensi di colpa e di insicurezza, non solo cercava di rassicurarsi attraverso l’esercizio di un dominio sulla bambina, ma chiedeva alla bimba di riconfermarle la propria idealizzazione di sé come madre perfetta e ineccepibile. Per mantenere la madre in equilibrio, la bambina doveva farlo attraverso una denigrazione di sé, illudendosi così di avere un potere sulla impulsività materna. Ecco che dietro l’idealizzazione della asimmetria e della sua accentuazione, appare un dispositivo di potere: il potere di terrorizzare da parte del soggetto che occupa la posizione di forza e il potere di sedurre da parte del soggetto debole per controllare l’oggetto d’amore terrorizzante.

Credo che risulti molto chiaro che, potenzialmente, ogni relazione che comporti una asimmetria di posizione, può stimolare, in chi occupa la posizione di autorità, la ricerca di un facile appagamento di desideri narcisistici; e che questo appagamento può favorire un’insidiosa inconsapevole trasformazione della relazione in relazione di potere, proprio attraverso il mantenimento di una distorsione della naturale componente di idealizzazione. Nelle relazioni di potere si realizza una perversione del senso di questa naturale (e persino necessaria) componente di idealizzazione che ha come esito una preoccupante immobilizzazione della funzione pensante del pensiero e della funzione desiderante del desiderio, in entrambi i soggetti implicati, e sottolineo in entrambi. Questo ci consente di fare un ulteriore passaggio. C’è di fatto una ricorsività nel rapporto con il desiderio per la quale il soggetto riesce a mantenere e sostenere la funzione desiderante proprio attraverso la rinuncia dell’Io a rispecchiarsi come Io ideale. Mantenere aperta la funzione desiderante implica infatti per l’Io una

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ALLE RADICI DEL SIMBOLICO

rinuncia a darsi ragione, una rinuncia ad autoconfermarsi nella propria identità a sé stesso, nella ricerca di un appagamento narcisistico. Darsi ragione equivale a riconfermare le proprie premesse, tendere allo stato ‘confortevole’ del ritrovarsi nella ripetizione di quel che già si è; ciò che corrisponde ad una tendenza e ad una funzione dell’Io di essere identificato a sé stesso, di autostostenersi, autoconfermandosi, idealizzandosi (sia in senso positivo che, ovviamente, anche in senso negativo8), ponendosi cioè come Io Ideale. Ciò può avvenire, fra l’altro, attraverso una perversione dell’immaginazione e del pensiero, per la quale, la funzione potenzialmente creatrice dell’immaginazione e del pensiero, è pervertita e quindi mortificata, mistificata ed annullata nella funzione di conferma dell’esistente, anche quando appare sotto le spoglie della ricerca di un qualcosa a venire. Un esempio di ciò può essere l’irretimento dell’immaginazione e del pensiero nella forma persecutoria e vittimistica che può costituire uno strumento principe dell’autoconferma dell’Io, quando ingaggia una lotta per il potere. L’Io quando funziona in modo persecutorio opera una proiezione del male sull’altro; attraverso il ‘farsi vittima’ e il ‘sentirsi vittima’ (della propria aggressività negata e proiettata sull’altro) cerca di occupare una posizione di potere nella relazione. Sentirsi dalla parte della ragione o della ‘vittima’, procura all’Io un godimento narcisistico che ha una qualità particolarmente insidiosa e immobilizzante, soprattutto perchè costituisce un elemento di vincolo. La ricerca di questo godimento non solo produce un immiserimento del soggetto, ma implica inevitabilmente il restare impigliati nella lotta di potere. Sto parlando di quelle forme di relazione in cui le strutture di potere si mantengono attraverso ciò che potremmo definire una oscillazione e una confusione continua fra la posizione della vittima e quella del persecutore, e che possono celarsi dietro una superficie di indifferenza. Vediamone un esempio che riguarda la relazione terapeutica con una giovane donna. A. diceva di avermi scelto perché ai suoi occhi avevo una freddezza che la tranquillizzava. Questa dichiarazione mi era sembrata piuttosto 8 “Sebbene la sottovalutazione di sé sia contraria alla superbia, tuttavia chi si sottovaluta è vicino al superbo… coloro che si sottovalutano… lodano soltanto la sottovalutazione di sé e di essa si glorificano; ma in modo tale da apparire umili”: Baruch De Spinoza, Etica dimostrata con metodo geometrico, a cura di Emilia Giancotti, Editori Riuniti, Roma 2004, p. 271.

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POTERI AFFETTIVI E DISIDENTIFICAZIONI

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strana. All’inizio della nostra relazione e per un certo tempo non ero riuscita a fare un’ipotesi soddisfacente su questa sua affermazione fino a che nel lavoro terapeutico emerse un inquietante contenuto psichico di ammirazione idealizzante dell’indifferenza emotiva connotata da A. come “capacità di tener testa”. Se fino a quel momento la neutralità espressiva dell’inquadramento analitico aveva contribuito a mantenere immobilizzato9, nella relazione con me, questo contenuto appartenente al mondo interno di A., incrinata la corazza dell’idealizzazione dell’indifferenza, si apriva una nuova fase: per A. era possibile cominciare a mettersi in relazione con la forma della propria aggressività, avviluppata in percorsi persecutori zeppi di fantasmi di ritorsione. Avevo da tempo notato che quando A. entrava nella stanza della terapia collocava la sua borsa sul tavolo, esattamente dove io collocavo la mia, generando in me un certo fastidio. Non avevo dato peso a questa osservazione e avevo finito per trascurarla fino a che un giorno casualmente il tavolo era ingombro di libri e carte. A. era rimasta immobilizzata nel suo gesto e restava bloccata in piedi davanti al tavolo con la borsa in mano senza muoversi, in grave difficoltà ma con un’espressione intensamente rabbiosa nei miei confronti, come se io fossi la sua persecutrice. Invitata da me a parlare di ciò che le stava succedendo, con molta difficoltà mi disse che non poteva mettere la sua borsa in nessun altro posto perché io l’avrei sicuramente aggredita e mandata via, cacciata dallo studio: se faceva esattamente ciò che facevo io non sarebbe stata attaccabile. In un’altra occasione, era andata in bagno a lavarsi le mani e, volendo asciugarle, si era trovata paralizzata di fronte a una serie di piccoli asciugamani colorati riposti su uno scaffale. Aveva inizialmente pensato che fossero solo per le dottoresse e poi si era detta che erano troppo numerosi per due sole persone, perciò si era data il permesso di prenderne uno di colore rosso, ma ahimè qualche filamento della spugna aveva, ai suoi occhi, sporcato il candore del lavandino e così si era trovata a lungo immobilizzata in bagno preda di pensieri persecutori: io l’avrei sicuramente aggredita e non sarebbe più potuta venire. Capivo che queste strutture persecutorie, come strutture di potere, si avventavano sulla relazione fra me e lei come su qualsiasi relazione (esterna alla famiglia) nella quale sperimentare una possibilità di fiducia, di affidamento, di legame buono, e desideri di reciprocità all’interno di asimmetrie e differenze. Erano strutture di potere perché tenevano in scacco il suo desiderio di relazione. Erano tenaci e implicavano una confusione continuamente possibile fra vittima e persecutore; erano strutture di potere che continuamente avevano attraversato e attraversavano le relazioni familiari con entrambi i suoi genitori e fra i suoi genitori e le loro famiglie di origine.

9

Cfr. J. Bleger, Psicoanalisi dell’inquadramento psicoanalitico, in Simbiosi e ambiguità, cit.

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ALLE RADICI DEL SIMBOLICO

Avevano l’effetto di immobilizzarla, obbligandola ad identificarsi in modo altalenante con entrambe le posizioni, e nella relazione con me le imponevano di identificarsi con la pretesa di avere un potere su di me, esercitando un potere sul proprio desiderio di relazione con me. Caduta l’idealizzazione della sua indifferenza, proiettata su di me, si era verificato un forte aumento della tensione e una forte istigazione su di me ad occupare la posizione complementare a quella occupata da lei nell’ingaggiare una sfida di potere. Questa pericolosa istigazione costituiva un attacco perverso al desiderio di un legame affettivo in cui avessero spazio desideri di reciprocità in una relazione asimmetrica. In una situazione come questa, solo una forte disciplina a mantenere gli occhi ben aperti per non entrare nella sfida di potere e non scivolare nella identificazione difensiva con nessuna delle posizioni (dominante/dominata) mi ha consentito di difendere uno spazio di relazione libero, una zona franca neutrale, ma non emotivamente neutralizzata; e ciò proprio attraverso una difesa della relazione di autorità come spazio pensante, affettivo e desiderante. Tale spazio di relazione ha potuto così divenire il territorio di esperienza per A. di un conflitto vitale fra le forme della propria identificazione al potere e il desiderio di disidentificarsi, aprendosi a nuove possibilità identificatorie mobilizzate da una riapertura della funzione desiderante. Disidentificandosi dal gioco di potere ha potuto sostenere il proprio desiderio di relazione.

In effetti è proprio la mobilizzazione e la tenuta della funzione desiderante che mantiene viva, nutre la capacità plastica, trasformativa dell’Io, che si esplica proprio attraverso la possibilità di rimettersi in gioco, tramite la traversia di un conflitto continuamente riaperto fra ciò che l’Io è, e ciò che desidera come divenire, accettando di contaminarsi con ciò che gli è estraneo. È questo rimettersi in gioco che apre ad una politica dell’esperienza di relazione. Accettando di contaminarsi con la dimensione di estraneità dell’inconscio e con l’estraneità della realtà, con l’altro interno ed esterno, con il corpo, con la natura animata e inanimata, con il tempo, con le perdite e con la morte, l’Io può emergerne trasformato: indeterminandosi, disidentificandosi, si apre al suo divenire, attraverso una politica dell’esperienza. È la possibilità di mantenere costantemente riaperto lo spazio per questa contaminazione, che costituisce la garanzia di una vita psichica non desertificata, non mortificata dalla glorificazione e dalla amplificazione dell’autosufficienza dell’essere quell’Io che siamo, proprio così com’è. Nello stesso tempo il desiderio, come funzione psichica vitale, può cambiare forma proprio attraverso le traiettorie di questa contami-

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POTERI AFFETTIVI E DISIDENTIFICAZIONI

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nazione che costituiscono l’ordito per lo strutturarsi stesso della trama della soggettività come soggettività desiderante e pensante. L’Io dunque contiene all’interno del proprio funzionamento un carattere anfibio che l’Io come struttura tende a non riconoscere e a contrastare. L’Io si trova esposto a partecipare alla soggettività in continuo divenire, attraverso la propria capacità plastica, sostenuta dal desiderio di divenire altro per poter mantenersi in un divenire; ma, nello stesso tempo, come struttura psichica tende ad un equilibrio conservativo-omeostatico, alla pretesa di essere un Io Ideale, ad una arroganza delle proprie ragioni sulla realtà interna ed esterna, arroganza che conduce all’irrealtà, all’immobilizzazione delle identificazioni, all’immobilizzazione delle idealizzazioni. Si tratta di una differenza fra sé e sé che implica la differenza fra due forze di attrazione opposte: la forza di attrazione dell’irrealtà che da sostanza alle produzioni leggendarie dell’Io su sé stesso come Io Ideale, e la forza di attrazione della realtà, che implica per l’Io la capacità di disidentificarsi da questo Io Ideale per poter aver accesso, attraverso il desiderio, ad un contatto con i propri Ideali in trasformazione, ad un contatto con il proprio divenire. Questa condizione di una differenza fra sé e sé impegna l’Io in un conflitto vitale potenzialmente sempre aperto e nel contempo sempre esposto alla tentazione di un evitamento, alla tentazione di una condizione a-conflittuale, alla confortevolezza di tutte quelle forme di autoinganno che si realizzano attraverso i rituali di pensiero dell’Io su sé stesso. “Il sogno del potere – scrive Piera Aulagnier, riprendendo Orwell – è spossessare il soggetto di ogni possibilità di pensare”10, creando contemporaneamente l’illusione nel soggetto stesso di partecipare di quel potere a cui è assoggettato, illusione scambiata per certezza. Ossia il potere crea automatismi / comportamenti / posizioni affettive / pensieri immobilizzati/ che immobilizzano desideri, pensieri, posizioni affettive e comportamenti altri, non funzionali al mantenimento del potere stesso. È per questo che il vero pericolo per il pensiero sta nella ricerca di una condizione a-conflittuale rispetto ai presupposti, ai pregiudizi che l’Io tende a mantenere immobilizzati nella propria ideologia e nelle proprie identificazioni, proprio quando si trova esposto al desiderio che mobilizza la trasformazione e l’ampliamento degli spazi identificatori. 10

P. Aulagnier, I destini del piacere, cit., p. 41.

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ALLE RADICI DEL SIMBOLICO

Le forze opposte (di conferma delle identificazioni e di movimenti di disidentificazione generati dalla vitalità del desiderio e del rapporto con la realtà), restano in gioco dunque solo attraverso una dimensione conflittuale che, come abbiamo visto, è connaturata all’Io stesso e può prendere in ognuno di noi forme e destini diversi più o meno vitali, dando forma e destino diverso alle nostre relazioni affettive, alle nostre relazioni sociali, e alla nostra possibilità di farne pensiero. A contatto con l’esperienza l’Io può continuamente autoingannarsi nei rituali della propria ideologia di pensiero, ed è così che la sua funzione pensante viene immiserita nell’esercizio di un pensiero-pensato per padroneggiare l’esperienza e averla in pugno. Fuori da questo autoinganno, l’Io deve entrare in contatto con la vulnerabilità, stare nel proprio conflitto intestino, correre il rischio del dubbio, dell’incertezza, dell’insicurezza derivanti dall’esposizione al carattere perturbante di ogni nuovo contatto d’esperienza, perturbante perchè può avere in sé elementi di inquietudine e di estraneità proprio in ciò che può esserci famigliare. Ma è proprio questo spazio così destabilizzante lo spazio dal quale può scaturire pensiero, lo spazio della possibilità di fare pensiero dell’impensato. Vorrei concludere con una immagine che mi è molto cara per la sua qualità di invocazione etica paradossale. Si tratta di un’opera di Jenny Holzer11, artista statunitense che ha utilizzato fin dall’inizio degli anni ’80 il dispositivo pubblicitario mimandolo per stravolgerlo e ribaltarlo: in mezzo ai display luminosi dei grandi spazi urbani, il suo gesto artistico faceva apparire, in una striscia altrettanto rossa e luminosa della pubblicità della Coca-Cola, la scritta PROTECT ME FROM WHAT I WANT, invocazione che potremmo tradurre così: Proteggimi da ciò che il mio Io vuole. Un’invocazione alla protezione della possibilità di desiderare, possibilità che può essere oscurata e annichilita da ciò che l’Io vuole in base alle pretese delle proprie identificazioni e idealizzazioni.

11 “Kunst Heute” Nr. 9, Jenny Holzer im Gespräch mit Noemi Smolik, Kiepenheuer & Witsch, Köln 1993, p. 16.

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ITINERARI MINIMI NEL MONDO DEI FENOMENI DELL’ESPERIENZA PSICOTICA

Nella tematica del clinico la purezza dello sguardo è legata ad un certo silenzio che permette di udire. Michel Foucault1

Apatia A partire dalla comparsa dei sintomi psicotici, dopo un periodo prolungato di intensa angoscia caratterizzato da una spiccata espressività dei propri contenuti deliranti, un giovane era divenuto totalmente apatico, impassibile, silenzioso, passivo e remissivo, come qualcuno che volesse essere invisibile. Questo stato di apatia e di uniformità veniva a tratti interrotto da segnali di angoscia psicotica quando egli era, suo malgrado, esposto a stimoli nuovi anche minimi, angoscia che poi, comunque, abbastanza rapidamente, lasciava di nuovo il posto alla sua grave apatia che lo rendeva simile a un oggetto inanimato. Fu in quel periodo che ebbi occasione di incontrarlo e di osservarlo su richiesta del padre che mi interpellava come consulente per un parere su quale progetto terapeutico si potesse fare per il figlio. Nella iniziale ricostruzione minima di una anamnesi, emerse che il ragazzo aveva sempre vissuto con la madre con la quale intratteneva 1 Michel Foucault (1963), Naissance de la clinique. Une archéologie du regard médical. Presses Universitaries de France, Paris. Tr. it. di Alessandro Fontana, Nascita della clinica, Einaudi, Torino 1977, p. 126.

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una relazione distruttivamente simbiotica. La madre e il padre si erano separati prima della sua nascita e vivevano in luoghi geograficamente molto distanti. Alla fine della scuola superiore, con l’inizio dell’Università, erano comparsi i primi sintomi psicotici. Si trattava di deliri a contenuto religioso e sulla imminente fine del mondo, isolamento dai coetanei, atteggiamenti oppositivi verso la madre, etc. La madre aveva avuto una risposta estremamente ambivalente verso il malessere psicotico del figlio: da un lato si comportava negando la gravità della situazione e dall’altro, contemporaneamente, reagiva al figlio con una angoscia intensa che faceva pensare a gravi contenuti di colpa. Si era inoltre innescata una sequenza ripetitiva fra la madre e il padre, per la quale il padre veniva coinvolto sul problema, ma non appena prendeva una iniziativa in rapporto alla condizione del figlio, questa iniziativa veniva boicottata dalla madre; così madre e padre finivano per litigare fra di loro e i loro litigi finivano per occupare le loro energie, mentre il figlio viveva nella condizione paradossale di diventare del tutto marginale, pur essendo l’oggetto dell’innesco del litigio. In particolare emerse che, in tutto il periodo dei sintomi floridi, il giovane, di fronte alla madre, (il cui atteggiamento era caratterizzato dall’intensa ambivalenza descritta prima, per la quale i sintomi acuti del figlio venivano verbalmente negati, mentre contemporaneamente sul piano emotivo suscitavano uno stato di grave angoscia), viveva l’angoscia materna come responsabilità propria e tendeva ad assumere su di sé i sentimenti di colpa della madre come colpa propria. Dopo un periodo di circa tre anni caratterizzati da questo andamento c’era stata una progressiva chiusura del giovane che era entrato in quello stato apatico da oggetto inanimato che lo caratterizzava già da qualche mese quando ebbi l’occasione di incontrarlo. Nei primi tentativi di dialogo da parte mia, il paziente rimaneva completamente zitto, indifferente e impassibile. Ero io dunque a parlare, e, dato che non rispondeva a nessuna mia sollecitazione, né verbalmente né con reazioni mimiche, decisi di entrare anch’io nel silenzio, un silenzio partecipe, concentrato su di lui, ma anche alla ricerca di una soluzione interna dentro di me che mi consentisse, accettando la condizione di impotenza che percepivo, di fare qualcosa per uscirne senza pretendere la soluzione da lui, cioè senza pretendere che fosse lui a liberarmi dal mio sentimento di impotenza rispondendo alle mie domande.

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(Per inciso, di fronte a questi pazienti capita di fare degli errori ricorrenti: facilmente possiamo oscillare fra il dimenticarci di loro proprio perché si rendono invisibili, e il tentare di prender contatto con loro sfidando il loro silenzio, cosa che innesca inevitabilmente in noi, data la loro impassibile inamovibilità passiva, sentimenti piuttosto intensi di impotenza di cui li riteniamo responsabili e che accentuano la sfida, con la pretesa che venga da loro la soluzione al nostro malessere). Dunque facendo io, attraverso il silenzio, un passo indietro rispetto all’innesco di questa posizione emotiva controproducente, ho potuto emergere dal silenzio e riprendere a parlargli su altri presupposti. Solo dopo parecchio tempo ho ricominciato a parlare, ma questa volta senza cercare di sollecitare una risposta da lui, semplicemente esprimendo ciò che io mi immaginavo di lui. In particolare cominciai col dirgli che pensavo avesse dovuto avere dei buoni motivi per diventare così invisibile2 come essere umano, e così simile a un albero o a un marziano, ossia a qualcuno che aveva sì una vita, ma una vita diversa da quella che gli altri si aspettavano da lui come proprio simile. Gli dissi che immaginavo che questa vita doveva avere una logica, delle modalità, dei criteri così diversi, che per me era difficile capire, e sentivo tutta la mia incapacità di mettermi in relazione con la sua forma di vita, tutta la mia insufficienza a raggiungerlo là dove lui era. Non c’erano reazioni emotive sue che mi conducessero, la sua impassibilità e la sua docilità mi disarmavano, ma, se questo accadeva doveva certamente avere un senso, dovevano esserci senz’altro dei buoni motivi per cui lui aveva rinunciato alle sue reazioni emotive e vitali. Rispetto a quelle che io immaginavo essere cause di forza maggiore del suo stare dentro quella apatia, i miei tentativi di fargli domande, di farlo parlare, erano senz’altro stupidi e goffi. Con mia grande sorpresa il giovane cominciò a parlare. Inizialmente disse due frasi per me molto enigmatiche: “sono cieco agli occhi degli altri” e “non mi vedo in mezzo agli altri”; e poi disse che esprimersi, avere una reazione, avere un moto interiore di desiderio lo portava a peccare, che aveva molto peccato, che era stato per questo punito, e 2 Nella confrontazione con il desiderio di invisibilità mi hanno guidato le immagini grandemente suggestive del mimetismo e del camuffamento animale così come sono trattate e suggerite nel volume di John L. Cloudsley-Thompson (1980), Tooth and Claw Difensive Strategies in the Animal World, J.M. Dent & Sons, Londra. Tr. it. di Maria Teresa Pilla, La zanna e l’artiglio, Boringhieri, Torino 1982.

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che ora Dio gli aveva indicato la via: non avere desideri, non avere reazioni, non avere iniziative per proteggersi dal peccato e dalla terribile punizione, così avrebbe guadagnato il paradiso, mentre coloro che aveva intorno sarebbero andati all’inferno. Il delirio in quel momento usciva di nuovo alla luce e possiamo vedere come in un certo senso il contenuto di questo delirio costituisca la spiegazione per il paziente (ed in un certo senso anche per me) della sua apatia: l’apatia poteva essersi instaurata come difesa estrema da sentimenti grandiosi di colpa verso i genitori, in particolare verso la madre a cui era legato tramite un legame simbiotico distruttivo. Prima di ripararsi nella apatia, il suo malessere, espresso, urlato, dichiarato attraverso deliri e agiti aggressivi nei confronti della madre, aveva innescato reazioni emotive di angoscia, di colpa, di paralisi nella madre stessa, incapace di contenere i propri vissuti, reazioni di cui il figlio si sentiva responsabile in prima persona e che si aggiungevano ai sentimenti di colpa già estremamente distruttivi per i propri sentimenti aggressivi nei confronti di una madre che si proponeva come vittima degli uomini e della società. Attraverso la soluzione apatica il giovane riusciva a mantenersi al riparo dalla violenza distruttiva di questi sentimenti di colpa legati ai vissuti onnipotenti e grandiosi che caratterizzano le relazioni psicotiche (come il vissuto di coincidenza e di responsabilità per le reazioni emotive dell’altro, in questo caso innanzitutto la madre). Nello stesso tempo l’apatia probabilmente gli consentiva una separazione ‘autistica’ dagli altri, che poteva permettergli una certa quota di rabbia distanziante di tipo passivo, ciò che gli altri potevano avvertire come rifiuto, dal quale tuttavia lui si chiamava fuori proprio con il suo essere apatico. Attraverso questa difesa psicotica, il male, la negatività vengono lasciati nel mondo esterno (sono gli altri ad andare all’inferno, lui potrà andare in paradiso); in questo modo il paziente si preserva sia da vissuti depressivi di tipo psicotico sia da vissuti persecutori troppo intensi, frutto di proiezioni massicce nel mondo della propria aggressività, tendenzialmente attivati dal contatto con l’altro rispetto a cui non c’è una chiara delimitazione. Le prime due frasi pronunciate dal paziente dopo le mie dichiarazioni sembrano essere molto eloquenti a questo proposito in quanto in entrambe la cecità, come elisione dello sguardo del e sul mondo, riguarda lo stare in mezzo agli altri. “Sono cieco agli occhi degli altri” potrebbe essere letto come: lo sguardo altrui vede in me un cieco, ovvero gli altri non devono vedere che io vedo, che io percepisco. La seconda frase ossia “non mi vedo in mezzo agli

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altri” potrebbe essere letta come: non vedo, non percepisco me stesso se sono in mezzo agli altri (ciò mi ricorda un paziente psicotico che definiva sé stesso “un cieco che ha visto”). Ecco che la difesa apatica con la sua chiusura percettiva realizza una sorta di soluzione difensiva estrema di sopravvivenza rispetto alla confusione di affetti, di desideri, di contenuti emotivi pericolosi (come la colpa psicotica), o di invalidazione delle difese deliranti, esperienze che possono scaturire dal contatto percettivo della realtà quando non c’è una chiara delimitazione fra esterno e interno. Mi sono chiesta come mai il paziente aveva rotto il silenzio con me; sono portata a pensare che abbiano contribuito il mio atteggiamento di rinuncia a sollecitare una risposta da parte sua, la valorizzazione del suo essere apatico pur non riuscendo a capirlo, ma, soprattutto, l’aver esplicitato una posizione emotiva di resa, con questo implicito: “non solo rinuncio ad avere un potere su di te, ma dichiaro la mia insufficienza, e nel contempo, il mio dispiacere di non poterti raggiungere”. Nell’insieme, credo che le mie dichiarazioni possono aver funzionato nel senso di segnalargli che il suo essere apatico, ‘marziano’, aveva sì un effetto emotivo su di me, era cioè efficace a produrre una reazione di dispiacere in me, ma non chiedevo a lui di uscire dal suo stato per sollevare me dalla mia condizione di dispiacere. Si potrebbe concludere dicendo che, se il paziente sente profondamente rispettata la propria difesa apatica come qualcosa che non è semplicemente difettuale, ma come qualcosa che è, sotto l’apparenza contraria, una particolarissima forma di rapporto con il mondo che consiste nella rinuncia a percepire e ad essere percepiti, può recuperare un minimo interesse all’uso della parola, dal momento che il suo particolare linguaggio è stato riconosciuto proprio come linguaggio. A posteriori sono venuta a sapere che, dopo essere entrato in una comunità per giovani pazienti psicotici, il giovane si era per così dire appropriato della propria apatia, cominciando ad ostentarla come resistenza passiva (ad esempio partecipando alla visione collettiva di uno spettacolo con le spalle girate al palcoscenico). Significava dunque che la difesa apatica poteva cominciare ad allentarsi, cominciando a lasciare emergere segnali di ostilità. Questi sono momenti estremamente delicati. Infatti il nostro compito in questa fase, dovrebbe essere quello di proteggere queste manifestazioni aggressive aiutando pian piano il paziente a contenerle e a

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ALLE RADICI DEL SIMBOLICO

valorizzarle elaborandole insieme a lui. Spesso purtroppo si attivano invece, nei contesti di cura psichiatrica, risposte censorie, difensive (anche se spiegate da nobili motivi come l’importanza della ‘partecipazione’) e pretese verso il paziente che esca dalla propria apatia senza fare i passaggi che gli sono necessari, e che, inevitabilmente, comportano l’emergere dell’ostilità prima di qualsiasi altra risposta emotiva. Con i pazienti cronici queste problematiche sono estremamente importanti e rischiamo noi stessi, di fronte alla cronicità delle loro difese apatiche, di cronicizzare le nostre risposte in un circolo vizioso: stimolare il paziente ad uscire dalla sua apatia, ma poi quando il paziente cerca di farlo come può, cioè manifestando segnali di ostilità, lasciarlo solo di fronte a ciò che più lo terrorizza (la propria aggressività) e così, ‘senza volerlo’, ricacciarlo dentro la sua apatia.

Tempo: invarianza e ripetizione Una donna si rivolse a me per sottopormi questo singolare problema: aveva spesso la forte impressione di aver già vissuto gli eventi che mano a mano si verificavano nella sua vita o le situazioni che sapeva avrebbe dovuto affrontare nell’immediato futuro. Questa forte impressione diventava poi nei suoi pensieri il tenace convincimento che quell’evento o quella situazione si era già realizzata concretamente, identica a se stessa, apparteneva alla realtà dei fatti del suo passato ed era stata da lei dimenticata. Era inoltre tormentata dal ripresentarsi alla mente di memorie mutilate di eventi terribili (violenza fisica su una bambina, rapimento di una ragazza da parte di uomini incappucciati) dei quali sarebbe stata testimone oculare da bambina, e che avrebbe poi parzialmente dimenticato. Per questo motivo passava moltissimo del suo tempo a cercare di ricostruire questi anelli mancanti nella memoria, ad interrogarsi sulla possibile causa di un simile oblio, e tormentava i suoi genitori ed il marito con domande estremamente dettagliate sull’evento passato, da lei dimenticato e da loro, sicuramente (questa era la sua convinzione) ricordato. Le risposte altrui non solo non la tranquillizzavano, ma accentuavano e rivificavano il suo convincimento che a quel punto si arricchiva di una ulteriore terribile possibilità “se non mi dicono ciò che chiedo vuol dire che sono colpevole di qualche cosa di terribile che ho dimenticato, qualcosa di così terribile che loro pensano sia meglio che io non sappia”.

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In questa esistenza psicotica l’incompleto e fortemente compromesso accesso al registro simbolico comportava l’impossibilità di riconoscere l’autonomia stessa della realtà psichica dalla realtà dei fatti: i contenuti del mondo interno non potevano essere separati dalle circostanze e dai contesti di realtà. Una qualsivoglia forte esperienza emotiva, non potendo venir rappresentata come evento psichico, non poteva venire riconosciuta nella sua relativa invarianza rispetto alla estrema variabilità delle circostanze reali nelle quali si riproduceva. Così veniva letta come inequivocabile riattualizzarsi di quell’evento, di quella circostanza reale in quanto fatto concreto, e dato che si trattava di un fatto concreto doveva dunque essere già accaduto e doveva essere stato in seguito dimenticato. Quell’esperienza emotiva era quel fatto. Se l’accesso al simbolico consente ad esempio di riconoscere l’identità relativa di un vissuto rispetto alle differenti costellazioni di realtà, per cui un dolore è un dolore, una rabbia è una rabbia indipendentemente dall’oggetto e dalla circostanza, nel mondo psicotico di questa paziente l’invarianza non decifrabile come dato interno, ritornava nel reale come ripetizione identica di una costellazione di realtà. La memoria di una esperienza onirica infantile (violenza fisica su una bambina, rapimento di una ragazza da parte di uomini incappucciati), con il suo naturale carattere frammentario, non poteva venir rappresentata come memoria di un sogno. Se non c’è la rappresentazione di un io sognante, allora l’io è testimone oculare dei fatti narrati dal sogno che sono fatti concreti, realmente accaduti e parzialmente dimenticati. Se per questa paziente l’aver fatto un sogno è sostituito dall’essere stata testimone oculare unica del contenuto manifesto del sogno, ciò comporta per lei l’essere esposta nel reale alle conseguenze possibili di tale testimonianza: aver visto qualcosa che non doveva vedere (il rapimento e il sequestro della ragazza ad esempio) la esponeva alla minaccia costante di una persecuzione da parte dei rapitori che l’avrebbero prima o poi individuata e raggiunta. Solo l’accesso al registro simbolico consente di riconoscere la propria identità come soggetti del sogno, nel senso che si tratta di una identità nella quale è implicata una differenza, la differenza d’essere fra sogno e veglia. Il contatto con un desiderio, una aspettativa, con il suo naturale rimando ad un futuro più o meno prossimo, diventa anch’esso un contatto mnestico con l’oggetto del desiderio realizzato: desiderare

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ALLE RADICI DEL SIMBOLICO

cambiare lavoro, ad esempio, diventa essere sicuri di aver già svolto quel lavoro, essere stati mandati via ed averlo dimenticato. Qui risulta chiaramente evidente la struttura di sovvertimento delle sequenze temporali. Il futuro è da sempre già avvenuto, è, in un certo senso, passato, già conosciuto, mentre è il passato ad essere sempre largamente ignoto, per lo meno fino a quando una circostanza presente, carica di emotività, svela all’ improvviso, impietosamente, un supposto passato identico all’imminente futuro. Queste aree in cui il tempo è totalmente sovvertito possono coesistere con aree in cui le sequenze temporali sono rispettate. La differenza sembra essere legata, come accennato sopra, a particolari costellazioni cariche di emotività che fanno probabilmente saltare un ordine più appreso che strutturale. Il buco, la mancanza di trama simbolica, con l’effetto devastante della solitudine abissale dell’essere collocati fuori del mondo comune, tenta di venire riempita attraverso l’elaborazione delirante. Così si realizza il paradosso del delirio come tentativo ed insieme fallimento del rientrare nel mondo comune. Da un lato il delirio tenta di ripristinare significati condivisibili (in questo caso attraverso la spiegazione psicologica basata sul dimenticare ed il ricorso su questa base alla possibilità di interpellare l’altro), dall’altro lato il delirio accentua il fossato e lo approfondisce nel suo attivare risposte che confermano inesorabilmente le premesse, dato che l’altro non è mai interpellato davvero come alterità. Il carattere di scacco, di vicolo cieco della formazione delirante è chiaro ad esempio nel delirio della paziente di essere perseguitata dai rapitori incappucciati in quanto testimone oculare unica del rapimento: l’incontro con i delinquenti rappresenta infatti per la paziente la chiave d’accesso per dare realtà condivisibile a quei vissuti, aver finalmente la conferma che “è tutto vero”, ma, nello stesso tempo, rappresenta il massimo pericolo di morte. Fra le diverse elaborazioni deliranti di questa paziente ce ne è una in particolare che voglio ricordare per il suo aggancio al possibile vissuto psicotico del corpo come corpo fisico e non come corpo proprio, quindi senza memoria e senza esperienza: a volte sospettava a volte era convinta di aver avuto una bambina, di averla abbandonata e di averlo dimenticato. La sua ricerca impossibile per ristabilire la “verità” l’aveva portata ad un certo punto persino a consultare una ginecologa, chiedendole se si poteva dedurre dall’esame dei genitali l’avvenuto parto. Anche in questo caso la paziente cerca nel reale ciò che è irrappresentabile come contenuto del mondo interno: ciò che nel registro simbolico sarebbe vissuto come una forte ambivalenza fra desi-

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derio e indifferenza verso la funzione materna, diventa nel reale l’aver partorito una figlia, averla abbandonata ed essersene dimenticata.

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Sentire/vedere Per la parte psicotica della personalità l’interno tende ad essere vissuto come l’esterno e viceversa. C’è una incompleta distinzione fra tre tipi di rapporti che nella parte non psicotica sono ben distinti fra di loro: il rapporto fra sé e il proprio corpo, il rapporto fra il proprio corpo e il mondo e il rapporto fra sé e il mondo. Una giovane donna mi dice: “se mi guardo allo specchio e vedo che sono stanca allora smetto di fare e mi riposo” Alla mia domanda: “ma, si sente stanca?” la sua risposta è: “assolutamente no”. In lei la stanchezza non è percepita come sensazione somatica interna, è percepibile come immagine speculare; è come se il suo rapporto con il suo Sé come oggetto3 fosse contrassegnato concretamente da un passaggio attraverso lo sguardo di sé come un altro, come se fosse: “se qualcuno mi vede stanca, sono stanca”, e per estensione “la mia stanchezza è visibile da tutti, sono trasparente”. Le accade di fatto di non poter uscire di casa se è mestruata: “lo saprebbero tutti”. Il contenuto somatico della sensazione interna non diventa un contenuto percettivo interno, non può avere lo statuto di realtà psichica, è assunto visivamente come una realtà di fatto, una realtà concreta, non discutibile. Manca la capacità di rappresentare la realtà interna ed esterna sotto forma di immagine, di parola, di pensiero, ossia di compiere quei passaggi che contribuiscono a tenere separata la realtà interna dalla realtà esterna. Nel mondo interno non psicotico un dato sensoriale viene elaborato come percezione somatica interna e può, attraverso l’accesso ad una pensabilità (stanchezza), tradursi in una relazione motoria con il mondo, in una azione (mi fermo e mi riposo), nella quale è conservato il vissuto della scelta, cosicché la stanchezza resta un dato di fatto soggettivo, che può essere percepito o no dal mondo esterno. Nella psicosi il difetto di simbolizzazione, che è uno dei noccioli della incompleta separazione fra realtà esterna ed interna, comporta che un dato sensoriale non riesca a trasformarsi in una percezione somatica, incontri una assenza di rappresentazione interna, una assenza di pensabilità: la stanchezza allora può esistere solo perché 3

Ch. Bollas, L’ombra dell’oggetto, cit., pp. 50-72.

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ALLE RADICI DEL SIMBOLICO

la vedo, vedo la stanchezza nello specchio come dato di fatto concreto (allucinazione?). Nella azione che ne deriva, “mi riposo”, manca il vissuto della scelta, l’azione è determinata dallo sguardo esterno e ad esso è vincolata, l’io è l’oggetto di quell’azione, non il soggetto. La stanchezza diventa un dato di fatto solo perché è visto, perché ha una evidenza: la stanchezza è come una cosa, un oggetto concreto e l’essere coincide con ciò che si vede: “io sono ciò che si vede”. A distanza di parecchio tempo dalla seduta in cui la paziente aveva parlato della stanchezza come visione, ritrova un disegno infantile e la memoria di una sequenza in relazione alla madre (rispetto alla quale è simbioticamente fusa). Nel disegno è raffigurata la madre con le braccia al cielo e in una nuvoletta da fumetto si legge “non ce la faccio più”. La paziente commenta: “era il segnale che noi bambini dovevamo immobilizzarci, altrimenti poteva diventare cattiva...”. Il segnale per fermarsi è fuori nella visione della stanchezza della madre e poi attraverso un processo intrusivo è incorporato come un calco, come lo stampo di una procedura. In un’altra configurazione del problema del rapporto fra sguardo e percezione si può rintracciare il fenomeno dell’annullamento della percezione, qualcosa di simile ad una allucinazione negativa. Il sogno di un’altra paziente rappresenta questo fenomeno con chiarezza: la donna è al ristorante con il marito, ha già mangiato, non ha fame. Il marito la guarda, è uno sguardo che impone il cibo che è nel piatto, cibo che per di più non le piace. Lei tenta di dire il suo no, ma nello sguardo del marito cresce la disapprovazione. Allora lei mangia, ma non c’è la sensazione, non sente il sapore: “era come non mangiare”, commenta la sognatrice, a conclusione del suo racconto. Al posto di esporsi al vissuto emotivo del conflitto, c’è un attacco alla percezione. Nell’infanzia di questa donna, la madre (psicotica e particolarmente intrusiva) proponeva a lei bambina una sfida attraverso lo sguardo: “mi sentivo umiliata da quello sguardo, ma contemporaneamente subivo il fascino del giudizio negativo di mia madre su qualsiasi reazione che non fosse restituirlo, non riuscivo a farla smettere come riusciva mio fratello che si angosciava e si metteva a piangere... io diventavo insensibile per riuscire a sostenere quello sguardo...”. La trasformazione di questa sequenza è visibile in un sogno successivo che costituisce un passaggio importante verso una possibile integrazione della percezione: nel sogno la paziente vede una donna svestirsi, guardandola percepisce in sé le sensazioni dell’atto di svestirsi

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“allora… ero io che mi stavo svestendo?”. Lo sguardo che prima costituiva il segnale dell’interruzione della percezione, ha ora, nel sogno, la potenza di costellare il rapporto con la percezione.

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Corpo psicotico Ho già accennato, parlando del caso della donna che era convinta di aver già vissuto tutto e aver dimenticato tutto, ad un particolare vissuto psicotico del corpo come oggetto fisico e non come corpo proprio: quella donna era andata da una ginecologa per sapere da lei se aveva partorito dato che era convinta di aver messo al mondo una bambina e poi di averlo dimenticato. Per lei non c’era quindi la possibilità di un vissuto di appartenenza del corpo come proprio: il corpo è ridotto a qualcosa che gli altri guardano come un puro segno e intorno a cui fanno deduzioni. Senza esperienza, senza memoria e senza storia, cioè senza una soggettività, sono interrotti quei legami vitali che fanno sì che possa essere vissuta una relazione e non una coincidenza con il proprio corpo, ed una relazione fra le parti del corpo e la totalità. Nello stesso tempo il corpo psicotico può essere un campo sotto il dominio di sensazioni che si alternano come intermittenza di sensazioni assolute, un campo di intensità incomponibili che hanno bisogno di rappresentazioni deliranti per venir pensate. Un paziente parlava del proprio corpo attraverso immagini deliranti di tipo geografico: continenti sparivano ed altri emergevano, territori prima presenti erano elisi e il loro posto era occupato da nuove terre… occorreva continuamente ritracciare nuove carte geografiche... Il suo corpo terra era percorso da movimenti materici che dalle profondità affioravano in superficie, diceva che potevano incontrare l’ostacolo della pelle e allora sperava che potessero avvenire evaporazioni di materia “per non impazzire”. Nella psicosi ed in massimo grado nella schizofrenia l’immagine del proprio corpo, alla quale si riferisce consciamente o inconsciamente il soggetto, resta in qualche maniera quella di un corpo spezzettato. Questa immagine spezzettata del proprio corpo, che può essere più o meno cosciente, facilmente appare nei disegni o nei sogni. Il soggetto ha un’immagine non coerente e frammentata del corpo nella quale alcune parti differenti del corpo sono rappresentate come confuse fra di loro (soprattutto gli orifizi), mentre certe altre potranno trovarsi escluse o proiettate all’esterno. È così che il soggetto schizofrenico

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può arrivare per esempio a mutilarsi un orecchio per far cessare le voci che lo tormentano. Gisela Pankow nel suo libro “L’uomo e la sua psicosi” scrive: La dissociazione dell’immagine del corpo può apparire sotto aspetti differenti; o una parte prende il posto della totalità del corpo in tal maniera che esso può ancora essere riconosciuto e vissuto come corpo limitato; o si produce la confusione specifica della psicosi fra l’interno e l’esterno. In questo modo alcuni frammenti dell’immagine del corpo ricompaiono nel mondo esterno sotto forma di voci o di allucinazioni visive. Con il termine di dissociazione definisco una distruzione dell’immagine del corpo tale che le sue parti perdono il loro legame con il tutto, per riapparire nel mondo esterno [...]. Questa assenza di legame fra interno ed esterno caratterizza la schizofrenia; non vi sono catene di associazione che permettano di trovare il legame fra i frammenti [...]. Prima di afferrare la proiezione nel mondo esterno di un conflitto interiore, lo schizofrenico dovrebbe essere capace di sapere chi egli è, ossia ha bisogno di ritrovare un corpo limitato e afferrato come unità.4

La Pankow sostiene dunque che nella psicosi la dissociazione e la frammentazione comportano una esperienza psicotica del corpo che può essere di due tipi: o c’è un conservato senso del limite, ma estremamente angosciante perché legato alla percezione di una singola parte come tutto; o non c’è un senso del limite, e quindi, le parti sono confuse fra di loro e c’è confusione fra esterno ed interno, con vissuti di dispersione o di inglobamento. Nel primo caso prevalgono vissuti di impotenza devastante e nel secondo vissuti di angosciante dispersione grandiosa o di annientamento. Possono esserci poi pazienti che oscillano fra questi due poli di esperienza. I sintomi dismorfofobici costituiscono un esempio di una percezione conservata del limite, con vissuti di impotenza e angoscia che possono essere particolarmente intensi, legati alla percezione di una singola parte come tutto. Una parte del corpo (vista dal soggetto, e in genere solo da lui, come brutta, sbagliata, deforme) condiziona in modo decisivo la percezione e l’immagine di sé nella totalità; nell’elaborazione delirante, solo attraverso l’eliminazione e la sostituzione di quella parte, il soggetto psicotico intravede una via d’uscita, a quella parte viene attribuita la responsabilità di ogni fallimento e di ogni dif4 Gisela Pankow (1969), L’homme et sa Psychose, Flammarion, Paris 1993, pp. 121122.

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ficoltà: si realizza così un paradosso per il quale tutto l’essere coincide con una parte fisica rinnegata. Possiamo ritrovare tratti simili nelle esperienze che taluni soggetti fanno del dolore fisico. In una paziente ad esempio, la sensazione del dolore provocato dall’ago di una iniezione endovenosa aveva scatenato una reazione somatopsicotica5 con le caratteristiche di un panico organismico6, cioè di quel vissuto di angoscia panica scatenata dal contatto con una esperienza estrema di angoscia per la vita come se la propria vita dipendesse da quell’evento. Esperienze di questo tipo sono ovviamente caratterizzate dall’assenza di qualsiasi dialettica possibile, di qualsiasi relazione fra la parte dolente e il resto del corpo. Per la paziente il resto del corpo non c’era: era come se tutto il corpo coincidesse con quel punto dolente, il che rendeva impossibile qualsiasi iniziativa psichica o semplicemente motoria per alleviare la propria condizione. Non essendo possibile per la paziente alleviare in nessun modo la condizione penosa che stava vivendo, si sentiva confinata in una impotenza devastante, dalla quale cercava di difendersi attraverso la pretesa grandiosa di un corpo fantoccio, totalmente immerso in un silenzio percettivo, come inesistente, come morto. Ovviamente perché si strutturi la possibilità psichica di vivere in relazione e non solo in coincidenza al corpo è fondamentale l’esperienza di una relazione con una madre capace di offrirsi come corpo che supplisce all’impotenza del corpo del lattante, una madre capace di rêverie. Secondo F. Dolto7 queste esperienze primarie della vita restano come immagine inconscia del corpo, costituendo la struttura di fondo della capacità o della incapacità di relazione con sé e con il mondo. Vi sono poi esperienze psicotiche che differiscono da quelle fino ad ora prese in considerazione per l’angosciante assenza della percezione del corpo come limite, contrassegnate da dispersione grandiosa e onnipotenza. Il paziente può non percepire il pericolo fisico, non provare il dolore fisico di un insulto, di una ferita, e, in alcuni casi, è solamente la vista del sangue che riporta ad un minimo di contatto con il limite. 5

Vedi supra, nota 6, p. 41. Ping-Nie Pao (1979), Schizophrenic Disorders, International University Press, New York. Tr. it. di Maria Augusta Olivetti Disturbi schizofrenici, Cortina, Milano 1984. 7 Françoise Dolto (1984), L’image inconsciente du corps, Editions du Seuil, Paris, e Id. (1987), L’enfant du miroir, Editions Payot, Paris 1992, pp. 104-105. 6

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In questo caso è il passaggio attraverso il fuori di sé di una evidenza a costellare la possibilità di recuperare un contatto con il limite. Attraverso il canale visivo il soggetto riesce ad avere un contatto con il corpo, ma come si trattasse del corpo di un altro, non potendo averne una percezione interna. Ad una paziente era capitato di non sentire i dolori di una grave appendicite acuta; era arrivata a pensare che doveva andare dal medico solo perché toccandosi l’addome lo aveva sentito duro come il legno, arrivando così in ospedale con una peritonite. In un’altra occasione non aveva reagito ad una seria emorragia mestruale: il luogo vacante dell’esperienza psicosomatica era stato saturato da una spiegazione psicosomatica delirante. L’assenza inquietante del limite percepito attraverso il corpo può essere messa in evidenza da formazioni deliranti attraverso le quali il soggetto vive tutto l’orrore e l’angoscia propria di questa assenza di limiti, di tutto il male, di tutta la negatività, di tutta la solitudine che c’è nel non avere un corpo che sente il pericolo, il dolore, eccone un esempio: “sono attorniata da fiamme potenti, dato che non brucio e che non sento male, vuole dire che sono una strega”.

Oltre ai deliri, i sogni (così come i disegni) possono essere per noi un accesso all’immagine che il paziente psicotico può avere del proprio corpo, soprattutto quando il paziente non è in grado di darne una rappresentazione attraverso le parole, cosa che accade molto spesso; sono i sogni allora che ci danno delle immagini di come la parte psicotica del paziente vive il corpo. Ecco un sogno in cui si fanno visibili immagini della configurazione non unitaria del corpo psicotico: “mi trovavo in una buca nelle fondamenta di una chiesa. C’era un animale peloso senza occhi. Un ragazzo tende la mano e lo tira su. Non riuscivo a stare in piedi, a camminare. Avevo una maschera triangolare con gli occhi rivolti all’interno. Una voce risuonava ‘ti verrò a prendere’. È qualcuno che vuole togliermi l’anima”.

Ora senza entrare nel dettaglio delle singole immagini, si può vedere come non vi sia un soggetto coeso, si passa dalla bestia infera senz’occhi ad una sorta di essere composito, fatto di una immagine divina (la maschera a triangolo) posta su di un corpo che non riesce

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a reggersi, mentre una voce disincarnata minaccia un terrifico furto d’anima. La chiusura psicotica al mondo è richiamata dall’assenza d’occhi della bestia, ma anche dagli occhi rivolti all’indentro del diobambino barcollante. L’assenza d’occhi così come il risuonare della voce estranea e minacciosa rimanda al corpo psicotico come corpo spezzettato e irriconoscibile. Qui ci sono parti rovesciate (gli occhi), parti irriconoscibili (il volto), parti proiettate all’esterno e percepite come estranee (la voce). Un’altra paziente psicotica ripeteva ossessivamente alla sua terapeuta di avere un terribile mal di schiena che nessuno dei numerosissimi medici consultati aveva capito, nessuno l’aveva aiutata e a nulla erano valsi i tanti farmaci assunti. La terapeuta le chiese di disegnare la propria schiena. Con sorpresa si trovò di fronte ad un disegno nel quale la paziente si rappresentava come una testa attaccata ad un torace monco e i quattro arti staccati dal torace. Al posto della zona lombare, quella, per così dire dolente, un vuoto, un buco. È il delirio a presentificare la parte mancante, ma solo attraverso l’inalienabilità di un dolore: in questo caso il delirio funziona da rammendo che da un lato chiude il buco e dall’altro, rendendosi visibile, lo evoca continuamente. Analogamente una paziente si rivolge ad una terapeuta per dei dolori lancinanti al torace, sconquassato per giunta, in continuazione, da tachicardie resistenti a qualsiasi terapia: dopo quasi un anno di psicoterapia la paziente sogna sé stessa come “un corpo appeso a testa in giù mutilato di tutta la parte dalla vita in giù che non c’è, da questo moncone scola del sangue dentro delle bacinelle e mano a mano che il sangue esce, il corpo-moncone si rattrappisce e invecchia fino a rinsecchirsi”.

Nel sogno di un altro paziente compaiono all’inverso corpi straziati non sofferenti: “ai tempi dei romani cercavano tesori nascosti prendevano dei campi e li dividevano in appezzamenti. Ci sono degli uomini piantati in terra con solo la testa fuori. Intorno alla testa hanno delle cinghie. Sono aratri, con cavalli e altri uomini che tiravano. Gli uomini tirati sotto terra perdevano pezzi di corpo, ma non sentivano male, lo facevano convinti dello scopo finale. Tutti hanno uno scopo e sono convinti; cercare forzieri e ciò lo fanno in nome di una divinità per uno scopo divino. Gli uomini piantati in terra sono grandi e massicci come Polifemo”.

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In questo sogno sono visibili i tratti dell’arcaismo e della grandiosità psicotica del corpo e non solo del corpo: il carattere divino dell’impresa acceca gli uomini aratro, i loro corpi vanno in pezzi senza che ci sia dolore o sentimento di perdita. Regna l’alienazione, in virtù appunto dell’impresa grandiosa. Letteralmente gli uomini aratro sono strumento di un’impresa divina, come il sognatore si è sentito fin da piccolo lo strumento del desiderio onnipotente della madre. Un’altra paziente aveva sognato il proprio corpo come cuscino parlante, portato in giro per le fiere dal marito come fenomeno da baraccone. Nell’immagine spezzettata del corpo psicotico, la frammentazione può comportare aree di confusione di parti differenti, che vengono rappresentate appunto come confuse fra di loro, ad esempio gli orifizi (proprio perché per lo psicotico il corpo non è come abbiamo detto una soglia, una delimitazione fra interno ed esterno). Anche qui possiamo farci aiutare dalle rappresentazioni offerte dai sogni. A questo proposito posso citare l’immagine onirica di una mia paziente che sognò di essere incinta di una piramide di granito nero. Nel sogno la paziente si poneva il problema del parto, “come farla uscire, quella piramide, dato che lì può provocare uno squarcio con la sua punta acuminata”; inizialmente compare il pensiero di “una grande cerniera, una zip da aprire come si apre una tuta”, sostituito poi dal pensiero di far uscire questo blocco “per la via naturale”. Alla mia domanda di quale fosse per lei la via naturale di tale fuoriuscita, rispose che la via naturale era l’ano. Un’altra paziente aveva sognato di avere l’intestino capovolto, rovesciato all’incontrario e nel sogno la consapevolezza di questo la portava a pensare che solo un dottore avrebbe potuto raddrizzarlo. Quello che colpisce molto in questi sogni è la sovrapposizione fra funzionamento psichico e funzionamento fisico per cui l’immagine del corpo psicotico coincide con quell’aspetto del funzionamento psichico psicotico che il paziente sta vivendo. Se la compromissione del senso del limite ancorato al corpo è particolarmente grave, come nella schizofrenia, il paziente si trova a vivere nell’impossibilità di distinzione fra nascita e morte8. Il paziente grave – schizofrenico – può parlare della nascita come di una morte e della morte come di una nascita. Il paziente del sogno della bestia infera, citato più sopra, chiamava sé stesso “colui che non è mai nato”. 8

A. De Waelhens, La psicosi, cit., p. 108.

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Oppure il paziente può parlare di sé come di qualcuno già morto, dei propri funerali avvenuti9. Il corpo psicotico può assumere anche la valenza di una superficie psichica: come in un guanto rovesciato vengono alla luce strutture psichiche in movimento, attraverso grafismi organici (patologie dermatologiche ad andamento bizzarro) o attraverso intenzionali costruzioni di segni. A questo proposito posso citare il caso di un paziente che in una certa fase del processo di cura si presentò con le unghie dipinte di nero in una mano e di bianco nell’altra, per passare poi ad una alternanza in entrambe le mani di un’unghia bianca e di un’unghia nera. La trasformazione successiva, a distanza di tempo, fu la comparsa di un colore azzurro perlaceo su tutte le unghie e ad una mia domanda su quella novità il paziente rispose che era il colore del manto della Madonna, ciò che rendeva possibile il suo essere lì tranquillo insieme con me.

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G. Benedetti, Paziente e terapeuta nell’esperienza psicotica, cit., p. 206.

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POSTFAZIONE PSICOANALISI E FILOSOFIA

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di Chiara Zamboni Ho incominciato ad essere sorpresa ed attratta dal mondo di Cristina Faccincani e a considerare che in realtà non ne sapevo molto nonostante fosse mia amica da tempo, quando, alla mia domanda su quanto il suo lavoro di psicoanalista fosse dettato da necessità, lei mi ha dato una risposta del tutto diversa da quella che mi aspettavo.1 C’entrava, questa necessità, con il fatto che i suoi pazienti erano intrappolati in una specie di tela di ragno, e che con il suo lavoro poteva aprire all’interno un passaggio imprevisto, che rimettesse in movimento la loro vita? La sua risposta fu subito: non era certo questa la necessità cui obbediva, piuttosto si trovava ad entrare in un conflitto aperto a favore delle parole di vita contro le parole di morte. Non aggiunse altro che mi potesse un po’ orientare, e rimasi spaesata per il suo stile ellittico e un gusto per la brevità, che ho poi ritrovato in lei più volte. Con la sua risposta ero posta di fronte improvvisamente ad un modo di intendere il suo lavoro molto più drammatico ed arrischiato di quanto mi aspettassi. Drammatico nel senso etimologico della parola drama, azione. Un’azione che mostra un conflitto tra due parti. Qui le parti 1 Stavamo ragionando assieme sul suo intervento al seminario di Diotima, che si sarebbe tenuto all’università di Verona. Nel seminario volevamo capire in che forma e seguendo quali pratiche le donne sono state nel passato e sono tuttora capaci di creare un sapere mettendo a frutto quel che imparano dall’agire e dal vivere quotidiano. E quanto questo abbia a che fare con l’autorità personale. Lei era una psicoanalista: sicuramente ci avrebbe potuto parlare di quel che aveva guadagnato di pensiero in rapporto alla sua esperienza di lavoro. Il seminario poi si tenne con il titolo Saperi e sapori dell’esperienza. Si trattava dell’autunno 1997. L’intervento di Cristina Faccincani è stato poi pubblicato nel libro Aa.Vv., Diotima. Il profumo della maestra, Liguori, Napoli 1999, pp. 109-124. È presente in forma ampliata in questo volume con il titolo Il pensiero dell’esperienza.

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erano le parole di vita e di morte. Lei entrava nel conflitto combattendo a favore delle prime contro le seconde. Che fosse impegnata profondamente in questo era segnalato dal fatto che l’avvertiva come una necessità. Non nel senso che ne era determinata, piuttosto che questo era il vero orientamento del suo lavoro. Quel che potevo concretamente fare era iniziare a capire cosa lei dicesse e scrivesse della sua pratica analitica con i pazienti, in particolare psicotici, perché era soprattutto con loro che l’orientamento del suo lavoro prendeva forma.

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Se si va a vedere la conferenza qui pubblicata con il titolo Il pensiero dell’esperienza, si trovano diversi esempi di parole di morte, ma non è chiaro quali siano poi gli esempi di parole di vita. Non è un caso e questa asimmetria è già un segnale fondamentale di modi di stare nel linguaggio che hanno uno statuto completamente diverso. Le parole mortifere, deliranti, mostrano la coincidenza senza residui di parole e cose2. Il legame è letterale, assoluto. Quel che si pensa è. Ad esempio un suo paziente era convinto, senza ombra di dubbio, di avere una influenza malefica su tutto ciò che accostava. Si tratta di una adesività psicotica all’immaginario, tanto che non c’è più spazio di gioco simbolico tra le parole e le cose3. Questo atteggiamento costretto, non libero, è un modo di stare nel linguaggio molto vicino a quello magico, per il quale – spiegandomi con un’analogia – ci sembra pericoloso pensare alla morte di un altro, perché allora ci pare che la sua morte si debba realizzare. Pensare, mettere in parole qualche cosa, renderebbe quella cosa reale, effettiva. Tra le parole e le cose nessun gioco simbolico che implica scoperta, dubbio, scommessa, ma solo una aderenza immaginaria. In questa situazione la parola psicotica è come un’isola di linguaggio chiusa in se stessa e, proprio per ciò, chi la pronuncia non ha la possibilità di condividerla. L’evidente di quel che viene detto è senza un’evidenza spartibile con altri4. A niente serve in questo caso contrapporre alla interpretazione delirante un’altra interpretazione basata sui fatti, dato che questa non entra nell’isola chiusa 2 Su questa formazione del simbolico e del discorso delirante, cfr. supra, p. 77 il saggio Il testimone non assumibile: percezione e incidenti del pensiero, in cui è ripresa e modificata l’immagine del materasso e dei nodi di capitone per spiegare il simbolico e il suo sciogliersi adoperata da Lacan. 3 Questo caso è raccontato in Il pensiero dell’esperienza, supra, pp. 4-5. 4 Cfr. supra, p. 5.

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del delirio e scivola via come acqua. Al paziente, che è convinto che la sua sola presenza sia nociva a chi gli sta attorno, la psicoanalista può anche rispondere più volte che non è vero, che i fatti dicono altro, ma ciò non cambia niente della convinzione del delirante5. È successo al paziente che il simbolico si sia smagliato, sfrangiato, che la circolarità condivisa ed elastica tra il piano del linguaggio e quello della realtà si sia interrotta. Ora le parole di morte, per le quali c’è un’adesione immediata tra le parole e le cose, vanno a riempire la smagliatura, creatasi nel simbolico, e si rinchiudono a bozzolo. È una mossa inconsapevole di sopravvivenza e al medesimo tempo una trappola. Una cosa che ho imparato leggendo i testi e le conferenze che qui sto commentando è che il delirio è comunque un atto riuscito per non soccombere6. E che ha in sé delle potenzialità. Tuttavia murate. Non c’è porta per entrare. O per uscire, che è lo stesso. Che fare allora? È qui che si comprende cosa sia evidenza di vita nella sua asimmetria nei confronti delle parole mortifere. Non si tratta di enunciati contrapposti ad altri. Piuttosto di un cambiamento radicale nell’andamento dell’analisi e nel rapporto tra analista e paziente a causa dell’accadere di un’esperienza imprevista ad entrambi. Esperienza non costruibile da parte dell’analista: avviene quando avviene. Però è attesa, sperata da parte sua nel procedere lento e paziente dell’analisi7. Questa esperienza di rottura è evento fondamentale. Capita e coinvolge sia analista sia paziente, posti improvvisamente entrambi in una condizione di passività modificatrice. Avviene spiazzando le interpretazioni consuete della realtà, tanto che rispetto ad essa il pensiero già pensato è inadeguato e mancante. Il punto fondamentale è che tale esperienza è vissuta assieme da entrambi, senza pensiero interpretante disponibile. In questo senso rappresenta un’occasione unica: all’interno del processo analitico si apre la possibilità di condividere un’esperienza, mentre fino a quel 5

Cfr. supra, pp. 4-5. Sull’idea che il delirio sia l’effetto di un tentativo di guarigione e non un deficit si sono pronunciati sia Jung, sia Freud, in rapporto alle particolarità del linguaggio schizofrenico. È stato ripreso anche da Gaetano Benedetti. Cfr. Gaetano Benedetti, L’expérience de la psychose. Rencontre proposée par Patrick Faugeras, Érès ed., Ramonville Saint-Agne 2003, p. 24. Cfr. su questo supra, p. 128: “Il buco, la mancanza di trama simbolica, con l’effetto devastante della solitudine abissale dell’essere collocata fuori dal mondo comune, tenta di venir riempita attraverso l’elaborazione delirante. Così si realizza il paradosso del delirio come tentativo e insieme fallimento del rientrare nel mondo comune”. 7 Scrive su questo in supra, p. 15 e p. 20. 6

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momento chi era in situazione di sofferenza dimorava nella sua abissale solitudine. Si è creato un legame di fiducia. A questo punto fare pensiero dell’esperienza condivisa, donandole spazio nel linguaggio, è l’unica via per avere parole sentite come vitali, con la qualità di un’evidenza di vita, e che possono finalmente entrare in rotta di collisione nei confronti dell’interpretazione delirante, sottraendosi allo sterile gioco contrappositivo tra interpretazioni. Alla parola-isola chiusa nella sua solitudine viene accostato – più che contrapposto – un pensiero che dà voce all’esperienza vissuta assieme. È come se, da questo pezzetto di simbolico riconosciuto da entrambi, l’analista possa poi continuare a tessere, assieme al paziente, una trama di tessuto simbolico abbastanza solido. Fa parte della stretta drammatica della necessità dare forma dunque al pensiero di questo evento irripetibile, vissuto come kairós. Ha tutta la discontinuità di un momento di grazia, che in genere avviene dopo alcuni anni che è iniziata l’analisi. D’altra parte non è importante tanto il tempo, molto o poco, che occorre attendere, ma che poi tale evento avvenga, il che non è detto. Il rischio è che non lo si incontri mai, o anche che non lo si riconosca o che non si sappia farne pensiero. I termini come evidenza di vita e parole mortifere possono sviare e confondere. Quando l’autrice di questi saggi li adopera non fa riferimento ad uno slancio vitale che superi e fluidifichi genericamente una esistenza meccanica, bloccata nella ripetizione, bensì a questioni precise legate al particolare rapporto con la lingua, l’esperienza, il simbolico e la realtà, che un’analista si trova ad affrontare nell’analisi con una paziente o un paziente psicotico. Niente di legato al biologico nel senso di muffa della vita così come ne parlava Lacan, mostrando come sotto di essa ci sia il nulla angosciante della morte come potenziale di modificazione8. Niente a che fare con un uso astrattamente metateorico delle pulsioni di vita e di morte di Al di là del principio di piacere di Freud9. Si è posti di fronte, piuttosto, al dramma vissuto dal paziente, dramma sempre concreto e singolare. Ad esso la psicoanalista partecipa entrando direttamente nello scontro che il

8 Cfr. Jacques Lacan, Il seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi, tr. it. a cura di Antonio Di Ciaccia, Einaudi, Torino 1991, pp. 294-295. 9 Cfr. Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, tr. it. di Anna Maria Marietti e Renata Colorni, Boringhieri, Torino 1990, pp. 85-101.

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PSICOANALISI E FILOSOSFIA

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dramma disegna. Vi prende le parti a favore degli elementi di evidenza di vita che sono in gioco. Si aiuta in questo con il pensiero sorgivo – quando c’è – e con la speranza di una modificazione. Il suo entrare in campo a fianco dei pazienti, attendere, accogliere quel che avviene, stare nella posizione di significare l’evento, apre (ma non sempre) la possibilità a chi è sofferente di scegliere, ad un certo punto, la salute o la malattia10. Perché questo poi significa fare i primi passi nello spazio del simbolico: vedere assieme ad altri, attendere, scegliere, inventare. Mentre l’aderenza psicotica all’immaginario – l’adesione delle parole alle cose come le falene alla luce – non lasciano spazio a nessuna scelta. Proprio il fatto che tra il piano del linguaggio e il piano della realtà ci siano sì legami, ma anche scarto, non adesione, è in fondo ciò che provoca il senso di una mancanza, a causa di quella imperfetta e lacunosa corrispondenza. È proprio ciò a suscitare in noi il desiderio di trovare parole vere, che poi sono quelle nelle quali si ricrea circolarità viva tra le parole e le cose, ben diversa da qualsiasi rispecchiamento11. So tuttavia che questo stesso scarto tra linguaggio e realtà può anche essere vissuto come angosciante per il sentimento di un allontanamento irrimediabile tra le parole e le cose, che non trovano più una qualche rispondenza tra loro. Mi sembra siano soprattutto le donne a soffrire l’impressione di svuotamento delle parole, quando sono sentite come convenzionali e disancorate dalla pienezza del vissuto. Alcune a volte si rifugiano nel silenzio per non tradire tale esperienza di pienezza intensa. Per questo invito a leggere i casi clinici che Cristina Faccincani racconta e a fermarsi in particolare sugli eventi di esperienza condivisa. Suggeriscono indirettamente che occorre avvicinarsi con grande delicatezza a quei momenti nei quali c’è partizione dell’esperienza e con grande cura alla formazione di un pensiero sorgivo che ne esprima la verità. Cos’è pensiero? So che questo, del pensiero, è un riferimento essenziale per l’autrice e nel dire così mi baso su quel che scrive, ma anche su conversazioni tra noi, che non riguardano solo il suo lavoro di analista. Qualche volta, ad esempio, le ho sentito dire, di un incontro, che in esso non c’era stato pensiero ma solo psicologia. 10

Cfr. supra, pp. 6-7. Sul desiderio di parole sensate, che nasce dallo scarto tra il piano del linguaggio e il piano della realtà si veda, supra, Il testimone non assumibile, pp. 75-87. 11

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In Il pensiero dell’esperienza scrive che nella pratica psicoanalitica pensiero può sorgere là dove, da parte dell’analista, c’è un esercizio di attenzione non distratto né dalla memoria, né dal desiderio né tanto meno dall’istinto di capire. Riporta questa citazione di Bion: «La disciplina consistente nell’evitare la memoria e il desiderio aumenta la capacità [dell’analista] di esercitare “atti di fede”.(…) L’atto di fede è peculiare al procedere scientifico (…), ha come proprio sfondo qualcosa che è inconscio e ignoto perché non è accaduto»12. Condizione perché emerga pensiero è sospendere quelle attività proprie dell’ “io”, come ricordare in vista del voler ottenere qualcosa e cercare di capire. La coscienza si slaccia dall’io. Si colloca in una condizione di passività e di vuoto. Di sospensione. Per dare l’idea della coscienza senza ego la si potrebbe immaginare, con Lacan, come «il riflesso della montagna in un lago» e finisce per essere molto vicina al soggetto inconscio13. Pensare è per Bion simile al ruminare, al digerire l’esperienza. Il ruminare si appoggia alla rêverie, cioè alla capacità di immaginare che «sta a designare lo stato mentale aperto alla ricezione di tutti gli “oggetti”», che provengono dalla situazione amata. È una capacità di immaginare simile a quella di una madre che fa spazio dentro di sé a ciò che proviene dal suo bambino14. Mentre l’adesività psicotica all’immaginario è aderenza senza fessure e senza speranza ai fatti, di ben altra pasta è la pratica immaginativa così come l’intende Bion. L’atto di fede, io direi la scommessa, è che si fa pensiero di ciò la cui verità non è nel registro dei fatti. È reale, però non è riconosciuto dal linguaggio condiviso. Non è simbolizzato. Portarlo a pensiero significa creare una evidenza simbolica valida per l’analista e per il paziente. La pratica immaginativa della rêverie sa dare figure simboliche all’esperienza dell’inconscio. A qualcosa di reale che non è un fatto. Non ci troviamo forse davanti, in questa pratica psicanalitica, ad una specie di meditazione profana, che ha bisogno di visioni per stare in rapporto all’ignoto, che pure sperimentiamo? La nostra cultura è carente nel saper elaborare, ruminare con cura, esattezza e amore l’esperienza del non conosciuto, ma esistente, di ciò che non ha refe12 Wilfred R. Bion, Attenzione e interpretazione, Armando, Roma 1973, cap. 4. Cfr. supra, p. 17. 13 Si tratta di una immagine che ho ripreso da Jacques Lacan, Il seminario. Libro II, cit., p. 226. 14 Wilfred R. Bion, Apprendere dall’esperienza, tr. it. di Antonello Armando, Parthenope Bion-Talamo, Sergio Bordi, Armando ed., Roma 1972, pp. 72-73.

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rente né significato eppure è vivo e orientante per noi. Fare pensiero nel contesto analitico è una pratica di questo genere, che richiede una vera e propria disciplina. A questo punto posso spiegarmi l’affermazione che in certe discussioni comuni non s’è fatto pensiero ma solo della psicologia. È probabile voglia dire che non s’è creato quel vuoto della coscienza, che è la condizione più adatta per una condizione di passività caratterizzata dall’attenzione al discorso proprio e altrui. Ognuna è rimasta abbarbicata al suo io, con la sua storia non decantata e i suoi desideri, i suoi pensieri già pensati. È quando l’io si immedesima con i propri vissuti ed emozioni invece di porsi da parte per permettere di ruminare l’esperienza e fare pensiero a partire da quell’ignoto all’io stesso, che è sperimentato come inconscio. Fanno parte dello stesso mondo della psicologia dell’io quelli che l’autrice a volte chiama i sentimenti finti. Sentimenti che sono l’effetto di una perdita di esperienza, di una incapacità di porci in rapporto a quel che veramente ci capita. L’esperienza viene sostituita da sentimenti convenzionali, nati in rapporto allo sguardo degli altri su di noi. Nella perdita di esperienza reale ci si affida all’impatto delle emozioni, vissute nell’immediatezza e senza una rielaborazione di qualche genere. Emozioni previste, emozioni collettive, che, in quanto considerate socialmente come giuste per quella situazione, ci fanno sentire nel giusto. Ben diversa la sua attenzione nei confronti dei sentimenti ‘finti’ vissuti dai pazienti psicotici. In genere si tratta di un sentimento inconfessabile di inautenticità costretta, subita, vissuto come colpa, come mancanza. Penso alla paziente che avverte come finto il proprio piangere, e si sente in colpa per questo, tanto da nascondere per molto tempo la percezione di inautenticità nei confronti della sua emozione15. La psicoanalista vede una sofferenza reale nell’impossibilità della paziente di rispecchiarsi nel suo personale pianto. Una disperazione autentica. C’è molta più realtà in questa percezione sofferta di inautenticità che nelle emozioni immediate, quando sono vissute come forte presenza dell’io che se ne impossessa. Quando si perde contatto con la realtà? Quando il vissuto diventa irreale? Viene dedicato un intero saggio a questo tema, Il testimone non assumibile, nel quale l’irrealtà viene descritta come un sentimento 15

Cfr. supra, pp. 11-12.

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provocato dalla seduzione esercitata dal discorso di chi ha avuto potere su di noi, confondendoci16. Discorso seduttivo che si sostituisce alla nostra stessa esperienza. Esso crea una condizione di ambiguità, rinforzata dal fatto che di frequente diventiamo mimetici in queste situazioni, identificandoci non solo con il discorso seduttivo, ma anche con chi ci ha sedotto, di cui assumiamo le emozioni facendole nostre. Ovvio pensare ai pericolosi effetti sociali e politici che questa dinamica può provocare su larga scala. Anche in conversazioni informali l’autrice mette di frequente in luce tali effetti. È infatti soprattutto il suo studio di psicoanalista a farle toccare con mano l’irrealtà dei rapporti umani, vissuti senza consapevolezza e senza rielaborazione d’esperienza. I finti sensi di colpa, la finta gentilezza, l’incapacità di misurarsi con i sentimenti, con se stessi in rapporto agli altri, con la confusione tra sé e i luoghi istituzionali e di lavoro. E come questo si stia accentuando per un processo in corso, che avviene indipendentemente dalle intenzioni individuali. Forse, io aggiungo ripensando al caso della sua paziente psicotica, il primo passaggio per cogliere e modificare quello che sta avvenendo è avere la percezione dell’inautenticità e soffrirne. Sentirne il peso. Trovare le parole per parlarne agli altri. Farne appunto pensiero. Vorrei ora dare spazio ad una delle forme simboliche più importanti della sua pratica analitica con pazienti psicotici: quella di soggetto transizionale, che lei ha rielaborato dall’insegnamento di Gaetano Benedetti17. Sugli aspetti più tecnici di questa figura non mi fermo, non essendo psicoanalista e non avendo una esperienza diretta in questo senso18. Vorrei piuttosto raccontare come è affiorato il discorso nei nostri scambi. Avevo posto a tema di un corso di filosofia del linguaggio, all’Università di Verona, come l’esserci in presenza modifichi il modo di ragionare e di fare pensiero e le avevo chiesto di tenere una lezione nel corso per portare un contributo sull’esperienza della presenza a partire dalla sua pratica di analista. La lezione, poi modificata per un seminario di Diotima, è qui pubblicata con il titolo La grazia del no, rielaborata e arricchita. 16

Cfr. supra, pp. 75-87. Su come Gaetano Benedetti abbia formulato la figura del soggetto transizionale si veda la sua introduzione a questo testo, pp. XI-XIV e anche G. Benedetti, L’expérience de la psycohose, cit., pp. 77-79 e p. 84. Nello stesso testo ne parla in una sua bella introduzione Patrick Faugeras. Vedi Patrick Faugeras, L’homme qui marche, in ivi, pp. 41-43. 18 Per averne una descrizione precisa si veda supra, p. 18, nota 29; p. 27 e sgg.; p. 57. 17

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Vi descrive la particolare qualità di presenza che lei ha vissuto con una paziente psicotica. Essa si crea come effetto del sottrarsi della psicoanalista ad ogni rappresentazione, svincolandosi da ciò che le è noto e familiare, e facendo quel vuoto di contenuti consolidati che «apre spazi al processo, all’ignoto, alla differenza, al cambiamento, alla creazione»19. Questo esserci dell’analista è senza un significato dato e senza referente. Ciò permette al lato inconscio della relazione tra lei e la paziente di far sperimentare una presenza che ha la forma di una soggettività multipla all’interno di un processo di cambiamento di tutte e due. Si tratta di un divenire altro, di una modificazione sostanziale. Un’analista che accetta che il suo inconscio entri in contatto con il mondo della paziente, lascia anche che la propria identità vada a modificarsi in modo imprevisto, accogliendo una situazione di impersonalità modificatrice per entrambe. In questo modo si fa indirettamente garante della modificazione dell’altra. Si arriva al cuore della questione quando ci si domanda: che presenza ha la relazione tra due, qui analista e paziente, quando ci si sottrae ai significati già accettati dalla coscienza e alla posizione dell’io agganciata a quella del tu? È la relazione a diventare una figura terza. Molteplice. Plurale. Una specie di patchwork di identità parziali, incompatibili tra loro, che coesistono senza fondersi e senza sentimentalismo. «Nell’arco di pochi istanti, nel campo della relazione fra me e D. si erano date contemporaneamente forme di presenza diverse per qualità e intensità: una qualità attiva e una qualità passiva; una qualità indifferente e una qualità animata da forti correnti emotive; una qualità aggressiva, che viola lo spazio corporeo (in una relazione implicante un non contatto fisico) e una qualità accogliente e innocente capace di cercare un contatto di vicinanza affettiva attraverso un gesto fisico; una qualità aggressiva sana che si difende da una violazione e una qualità aggressiva distruttiva incapace di cogliere l’innocenza del gesto»20. Il patchwork è composto di tutti questi aspetti. Di questa realtà terza nessuna è la proprietaria o l’autrice. Non solo non è possibile darne una rappresentazione, ma anche non c’è soggetto che possa dire “è una mia esperienza”. Non appartiene all’area semantica del “proprio”, ma neppure a quella dell’intersoggettività o a quella della comunità. Viene vissuta come presentificazione, cioè 19 20

Cfr. supra, p. 24. Cfr. supra, p. 29.

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come pura presenza senza memoria del passato e senza aspettative per il futuro. Esperienza di una realtà vissuta qui e ora. Una realtà che non è un fatto. In che senso il soggetto patchwork multiplo è così importante nel percorso analitico con gli psicotici? Rileggendo i testi di Faccincani e quelli di Benedetti cui essi si ispirano, possiamo meglio capire questo complesso argomento. Il termine “soggetto transizionale” rimanda a quello più noto di “area transizionale” di Winnicott e indica una zona tra me e non me, di non distinzione netta tra soggetto e oggetto, e tra soggetti. Per Winnicott si tratta di un’esperienza comune della prima infanzia, che rappresenta la condizione di creazione di gioco simbolico e che si può ripetere nell’età adulta. Al contrario, quella di un soggetto transizionale non è per niente un’esperienza comune, in quanto riguarda appunto il contatto tra l’inconscio dell’analista e l’esperienza di un paziente psicotico. Tuttavia essa è la leva di possibilità inerente al formarsi di elementi di simbolico per il paziente. Nei racconti dei casi clinici qui raccolti il crearsi del soggetto multiplo è indice di una svolta positiva, di un evento modificatore nel processo analitico. È il momento in cui c’è condivisione oltre le singole individualità e la paziente o il paziente può incominciare a fidarsi. In questo sgelarsi, che va di pari passo con l’aver fede, la presenza del soggetto transizionale – e l’esperienza che ne viene fatta – è essenziale. Ed è a partire dall’aprirsi della fiducia nell’altro, che ha vissuto in questa esperienza quel che abbiamo vissuto noi, che c’è la possibilità che si formi il simbolico. Il legame tra fiducia nell’altro e crearsi del tessuto simbolico è quello che viviamo nell’esperienza comune della lingua nei suoi momenti sorgivi e che avvertiamo intimamente vivi. Nella esperienza della psicosi tale legame si crea a certe condizioni che presuppongono forme di presenza “altre” tra analista e paziente, un lavoro analitico di anni, accadimenti propizi. Allora anche in questo caso il simbolico si costituisce, come momento sorgivo di esistenza. A partire dal soggetto transizionale vorrei ora commentare una delle figure più belle dei testi qui presentati: quella della partizione, della passività attiva. La troviamo in Il pensiero dell’esperienza. Siamo posti di fronte ad un evento: il piangere dell’analista, sentito come vero dalla paziente, che percepisce invece il proprio piangere come finto. Leggiamo: «Sento il pianto che mi attraversa assolutamente vero e nel contempo non mio, al di fuori del sentimento riconoscibile di

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me piangente»21. Un pianto impersonale, prima di ogni appropriazione dell’io e di ogni attribuzione di senso. In questo presente sospeso, senza memoria e senza aspettative, c’è soggettività plurale. È l’analista stessa a darcene la chiave: «Apparterebbe dunque a questo stato di passività la possibilità di una partizione dell’anima di un altro. Si tratta naturalmente di qualcosa di tutt’affatto diverso, direi di opposto, rispetto a quelle forme di confusione con l’altro in cui, ad esempio nel sentimentalismo, l’io campeggia e l’alterità dell’altro è violentemente cancellata, e nessun pensiero può sorgere. Nello stato di passività come partizione si darebbe invece una forma di sapere immemoriale, proprio dell’affettività, un sapere dell’affezione al di qua di ogni sapere. Il modello potrebbe essere lo stato della gestazione, il rapporto magico del bambino e della madre nella gestazione, magico perché legato ad una sorta di atto di fede nella condizione di impossibilità di un controllo»22. C’è dunque bisogno di fede per vivere consapevolmente l’inconscio in modo non individuale. Nella relazione si crea un tessuto composito, nel quale frammenti di tale tessuto sono connessi affettivamente, ma senza confusione, senza sentimentalismo. Questo avviene in analogia alla relazione di fiducia, che permette il legame inconscio e affettivo tra il bambino e la madre. Il testo suggerisce che si è di fronte ad un’esperienza simile a quando, senza garanzie verificabili, senza controllo, ma per fede, si vivono esperienze di legame passivo, affettivo e non sentimentale con gli altri. Si tratta di una passività attiva, che apre a profonde modificazioni. Credo che qui si possa trarre profitto dalla psicoanalisi, se si è interessati ai nodi essenziali dell’essere al mondo. Quel che si può imparare dalle pratiche appena descritte illumina il nostro legame inconscio con gli altri, corporeo, affettivo, slegato dalla proprietà dell’io e del tu. Non fusionale né sentimentale. Diverso dall’empatia e dallo scambio simbolico, e al medesimo tempo terreno pre-personale di ogni scambio personale. Non individuale ma plurale: insistenza vissuta passivamente di pezzi di sé e di altri, ignoti a noi stessi. Tessuto invisibile tra individui. Come anche si può imparare dalla posizione proposta: quella di accogliere la passività attiva accanto, rigorosamente, all’esercizio dell’attenzione, che accompagna e sa leggere quel che avviene in que21 22

Cfr. supra, p. 11. Cfr. supra, p. 16.

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ste esperienze senza referente e senza rappresentazione. Entrambi i passaggi sono essenziali: fare un passo indietro, permettendo che il tessuto inconscio sia creativo, e contemporaneamente fare pensiero di questa esperienza, perché di pensiero si ha bisogno per arrivare ad una espressione autentica e condivisa di ciò che si è vissuto23. La psicosi: ne avevo letto nel libro terzo dei seminari di Lacan24. La psicosi vi è descritta come una questione che può essere colta a livello del linguaggio. Una smagliatura, un buco, si è venuto a creare nel simbolico e l’immaginario ha finito per avere la meglio, tanto che lo psicotico vive una coincidenza di immaginario e realtà25. Uscivo dalla lettura senza però avere nessuna idea di come si comportasse Lacan con i suoi pazienti. Su questo, acqua in bocca. Almeno in questo seminario26. Nei testi qui raccolti, di teoria ce n’è molta, ma tutta guadagnata a partire da quel che avviene tra l’analista e la/il paziente. La pratica è il luogo a partire da cui ragionare e questo diviene nei suoi testi uno stile preciso. Ricordo una lezione che aveva tenuto all’università. Aveva portato come esempio dello smagliarsi del simbolico il caso di una giovane donna, che aveva sognato di aver messo al mondo un figlio. Il bucarsi del simbolico era tale che la paziente non sapeva distinguere sogno da realtà. Era dunque sicura di avere questo figlio e però – ovviamente – non lo trovava più. Allora aveva incominciato ad accusare i genitori di averglielo sottratto27. Una studentessa aveva chiesto come si poteva intervenire in questi casi, quando il simbolico non fa più la sua parte di separare il sogno dalla veglia e quando in esso si aprono falle così gravi. Lei aveva risposto che il simbolico è smagliato, sì, ma non completamente. Alcune pezzature della trama – per dir così – rimangono connesse. Quello

23 Cfr. Chiara Zamboni, Pensare in presenza. Conversazioni, luoghi, improvvisazioni, Liguori, Napoli 2009. Vedi in particolare il primo capitolo della parte seconda, pp. 95-105. 24 Cfr. Jacques Lacan, Il seminario. Libro III. Le psicosi. 1955-1956, tr. it. di Ambrogio Ballabio, Piergiorgio Morerio, Carlo Viganò, Einaudi, Torino 1985. 25 Cfr. ivi, pp. 172-178. 26 Naturalmente Lacan affronta spesso la questione della cura. Basti pensare a Jacques Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere, in Id., Scritti, vol. II, a cura di Giacomo Contri, Einaudi, Torino 1974, pp. 580-642. E anche Jacques Lacan, Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità, tr. it. di Gabriella Ripa di Meana, Einaudi, Torino 1980. La differenza è che Lacan non si pone all’interno del quadro descritto. 27 Questo caso è descritto supra, p. 126-128.

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che poteva fare era di mettersi in dialogo con questa parte non smagliata del simbolico, che poi era anche quel lato della paziente che desiderava guarire e che chiedeva di essere aiutato28. Ciò non aveva impedito a questa giovane donna di avere una vita all’apparenza abbastanza normale. Aveva un lavoro. Lo portava avanti stentatamente ma ci riusciva. Contemporaneamente viveva momenti di immaginario – in questo caso il sogno – come se fossero reali. Il simbolico dunque, nella psicosi, non si sgrana completamente. Alcune maglie del tessuto rimangono e perciò si poteva far conto su questo per aiutare la paziente a rimbastire l’ordito, proprio là dove il buco è più grande. E mi sembra, il suo, un navigare a vista, provando ora qua e ora là nella foschia, senza avere la mappa complessiva del luogo. Se si legge soltanto il libro terzo dei seminari di Lacan – quello dedicato alla psicosi – e ci si ferma a questo, tralasciando altri altrettanto importanti, sembra che la psicosi sia una questione prima di tutto del simbolico e del suo disfarsi. Un’immagine, che egli adopera, è molto efficace in questo senso. Il simbolico è come un materasso, la cui lana interna è tenuta assieme da dei punti di filo grosso che lo attraversano e che i materassai segnalano con dei piccoli batuffoli di lana sui lati esterni del materasso. In gergo li chiamano punti di capitone. Potremmo pensare i punti di capitone come quei nodi che tengono assieme il vivere comune e il vivere individuale, il significato condiviso e le significazioni personali. “Dio”, ad esempio, è un significato condiviso, a cui noi diamo una significazione personale. Quando i punti di capitone si disfano, la lana va dappertutto e non sta più al suo posto. Il simbolico pone la distinzione tra immaginario e realtà e se si sciolgono alcuni nodi di capitone assolutamente essenziali, allora ci troviamo a vivere in un immaginario che prende il posto sia del simbolico sia della realtà29. A ciò si aggiungono altri passaggi per il formarsi della psicosi, che ruotano attorno a tale nucleo. Quando parlavo a C.F. di questa posizione di Lacan, lei mi guardava con fare perplesso e un po’ scontento, come a dire: non è soltanto così, non è proprio così, ma come spiegartelo? Mi ha dato allora da leggere Diario di una schizofrenica, di Marguerite Sechehaye30. È un 28

Su questo vedi anche W.R. Bion, Apprendere dall’esperienza, cit., pp. 49-55. Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro III. Le psicosi, cit., pp. 310-320. Cristina Faccincani parla dei nodi di capitone e del materasso, immagine del simbolico in Il testimone non assumibile: percezione e incidenti nel pensiero, supra, p. 77. 30 Cfr. Marguerite A. Sechehaye, Diario di una schizofrenica, tr. it. di Cecilia Bellingardi, 29

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libro bello e doloroso, nel quale Renée, la paziente, racconta in prima persona l’inizio di una percezione di irrealtà vissuta da ragazzina, che poi si è ampliata fino a diventare una luce accecante, che illumina tutte le cose irrigidite attorno a lei e che crea un deserto siderale. Solo dopo Marguerite Sechehaye ricostruisce l’intera vicenda di Renée e del suo rapporto con lei all’interno di una prospettiva analitica. È un libro che pone chiaramente di fronte al fatto che c’è un rapporto molto stretto tra formazione dell’io, affettività e simbolico. Renée riesce ancora a mantenere aperto uno spazio di realtà, non invaso dalla luce accecante dell’irrealtà, per quel tempo in cui c’è una corrente di affettività molto forte con l’analista, simile a quella di una figlia nei confronti della madre nei primi mesi di vita. Dopo che la luce siderale ha corroso anche la madre-analista per un lungo periodo, l’irrealtà ha il primo momento di cedimento solo quando l’analista dona a Renée un oggetto che viene vissuto come simbolo della madre-analista. La cosa-simbolo porta con sé la carica affettiva del loro legame. Renée, quando recupera il sentimento della realtà e si libera dall’avvolgimento della luce rigida, ha ricreato con l’analista la formazione del suo io, che è legato alla costituzione del simbolo e al rapporto affettivo con la madre. Ho capito da Sechehaye che la psicosi non è solo questione di simbolico, ma che il formarsi di simboli fa da ponte nel legame tra un io in formazione e la figura materna. E che dunque la psicosi mette in evidenza uno sfilacciamento a questo livello del rapporto dell’io con il simbolo e con l’affettività. Che la psicosi abbia a che fare con un “io” non ben costituito, è suggerito anche dal saggio La violence de l’interprétation di Piera Aulagnier31. Una delle idee portanti di Aulagnier è che noi nasciamo al mondo come “io” attraverso quella culla di parole che nostra madre ha creato per noi, pensandoci nella nostra singolarità a venire. È stato quando ha fantasticato su di noi, immaginandoci prima della nostra nascita: è allora che ha donato spazio simbolico ad una individualità distinta da sé. Invece quelle madri, che vedono il figlio, la figlia, solo come una parte di sé e la maternità come un fatto puramente biologico, non creano lo spazio simbolico necessario perché Giunti Barbèra, Firenze 1955. 31 Cfr. Piera Aulagnier, La violence de l’interprétation, Presses Universitaires des France, Paris 1991, in particolare pp. 222-244.

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una soggettività vi trovi il proprio luogo. Considerano i figli parte del corpo biologico. Solo se chi viene al mondo è un’alterità accolta, si individua in modo autonomo. Una psicosi può avere come origine questa incertezza dell’io32. Dunque il simbolico è molto di più dell’ordine dei significanti dati, a cui accediamo imparando a parlare: è anche il tessuto di parole di una madre, che si immagina la propria creatura a venire. Un essere umano ha bisogno di questa culla di parole perché il suo io si costituisca. La psicosi è sì, come sostiene Lacan, una smagliatura nel simbolico, la cancellazione di un significante portante nella catena dei significanti, ma tale situazione ha a che fare con un soggetto che non ha trovato posto nella stessa catena di significanti. Da questi libri, assieme a quello di Margaret Little, dove è descritta la sua analisi con Winnicott33, ho capito meglio il senso di uno stile che avevo notato nel rapporto dell’autrice con pazienti psicotici: una disponibilità ad esserci con una presenza fatta di gesti, oltre che di parole. Lo scrive lei stessa: «Un atteggiamento attivo, non intrusivo, fatto di gratificazioni reali, cure affettive, concrete, contatti fisici, avvenimenti somatici, messo in rapporto con verbalizzazioni precedenti e future»34. Aggiunge poi che questo scompaginare le regole dello spazio e del tempo fisso stabilito per l’analisi può essere provocato solo se c’è alle spalle un lavoro lungo e attento con il paziente35. Questa disponibilità è rigorosamente accompagnata dalla lettura di quel che avviene con i pazienti per poter dare una interpretazione a discorsi, sogni, sentimenti, atmosfere. E questo è assolutamente essenziale per gli psicotici, che trovano nell’interpretazione data dall’analista la possibilità di esserci in quanto individualità, di esistere come soggetti finalmente separati dai propri vissuti. Di essere qualcuno che può provare disgusto, paura, senza essere per questo “ciò che disgusta”, “il puro terrore”36. 32 Scrive a questo proposito Margaret I. Little in Il vero sé in azione. Un’analisi con Winnicott, a cura di Franca Pezzoni, Astrolabio, Roma 1993, p. 86: «Non è possibile considerare mia madre come capace di un qualsiasi grado di ‘preoccupazione materna primaria’. Ciò non vuol affatto dire che il bambino che stava per nascere non fosse importante per lei – soltanto che non poteva mai pensarlo se non come parte di sé e che la sola idea della separatezza le suscitava angoscia, in quanto per lei significava annientamento». 33 Cfr. Margaret I. Little, Il vero sé in azione, cit. 34 Cfr. supra, p. 56. 35 Cfr. supra, p. 57. 36 Si veda a questo proposito la citazione da Piera Aulagnier, supra, p. 57.

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Ogni saggio di questo libro può essere letto anche come il racconto di una storia. Il resoconto di un caso clinico, come si dice, certo. Allo stesso tempo però si tratta di una vera e propria fabula. Queste narrazioni hanno una forma che si ripete: c’è un periodo di latenza, un acme, un precipitare e rivoluzionarsi della situazione. L’acme corrisponde a quell’evento che nella pratica con gli psicotici è così importante e così delicato: il momento di partizione dell’esperienza tra paziente e analista, una esperienza senza rappresentazione. Si può avere un’idea di questo acme con la metafora adoperata da un amico fisico per descrivere i cambiamenti dello stato di materia: «C’è un mucchio di sabbia, come un cono, c’è una formica che lo percorre ripetutamente. Per mille volte la formica scala il mucchio compiendo il suo tragitto. Si muovono granelli, si spostano, si alterano i rapporti fra un granello e l’altro, ma la forma del mucchio resta identica. Al milleunesimo passaggio della formica c’è un crollo della sabbia, si altera la forma del mucchio, è avvenuto un cambiamento catastrofico della configurazione che non potrà più tornare allo stato precedente. Ciò che studio, concluse il fisico, è il problema della differenza dei tragitti che non cambiano la configurazione e quel tragitto che la cambia e la loro reciproca relazione»37. Dopo il crollo può avvenire una esperienza di condivisione e che parole di vita siano possibili. La narrazione dell’analista scandaglia prima del crollo i tragitti necessari e più importanti. Ma perché più importanti e in che senso? C’è sempre il rischio, nel raccontare, di scegliere di dire quel che non è essenziale. C’è poi il fattore tempo: quanto tempo occorre perché si abbia quell’unico tragitto che determina il crollo? Chi ascoltava l’autrice parlare di questo evento, al seminario di Diotima, poneva più volte la domanda: perché tanto tempo, anche sette, anche otto anni e più? La sua risposta era disarmante: non era questione di quanto tempo, bensì che questo evento ad un certo punto ci fosse. E fosse possibile dunque la modificazione della situazione. Una crisi violenta, in una pratica analitica di questo genere, è accolta dall’analista come “caduta dal cielo”, nel senso anche fausto, felice del termine38. 37 38

Cfr. supra, pp. 37-38. Cfr. ibidem.

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Certo molto si gioca, nelle sue narrazioni, sul momento discontinuo costituito dall’evento che provoca il cambiamento della situazione. A volte, leggendole, si sottovaluta il racconto di quel che precede e di quel che segue, tanto la dimensione drammatica sembra concentrarsi per intensità in quel momento. E in un certo senso è la narratrice a spingerci a fare attenzione solo alla rottura, distraendoci dal fatto che il lavoro precedente, non solo dell’analista ma anche della o del paziente, è necessario. Non è quel singolo tragitto in se stesso che provoca il crollo e il mutamento. Tuttavia quel che avviene nell’evento è questione di evidenza di vita o di morte. Quel che colpisce, leggendo questi racconti, è quanto lei, l’analista, sia coinvolta in questo percorso. Con la sapienza necessaria, ma anche con un esserci che ha a che fare con il fidarsi dell’inconscio. Infatti più volte si coglie come lei, per capire quel che si andava trasformando nel paziente che seguiva, aveva bisogno di ascoltare quel che avveniva in se stessa. Rivolgeva lo sguardo ai propri sentimenti, in quanto segnali dell’andamento della relazione inconscia piuttosto che espressione del suo “io”. Non solo, aveva attenzione per le modificazioni percettive che si trovava a sperimentare, perché indicavano qualcosa che stava avvenendo nella pratica analitica. Ad esempio il percepire un divenire piccola, minuscola, della paziente vicino a lei mostrava che qualcosa stava avvenendo tra di loro. Ancora, il suo aver sentito per un certo periodo un gran freddo sedendo vicino ad un paziente, le sembrava il segno che quel paziente si stesse “sgelando” dopo più di un anno di incontri. Per difendersi dal freddo si era trovata a coprirsi con un vestito di stoffa pesante. I due esempi, che ho portato, mostrano come nella pratica analitica l’inconscio non sia mai personale e si manifesti in forme diverse, tra le quali anche i sentimenti e le percezioni sperimentate. Per questo gli eventi trasformativi, che avvengono in analisi, toccano l’analista e modificano l’immagine inconscia del suo corpo proprio, oltre e accanto a quello dei pazienti. In questi racconti la maggior parte delle protagoniste sono delle

donne. Mi sono tante volte chiesta come l’autrice abbia ragionato, in quanto psicoanalista, sul fatto che lei è una donna analista e che quasi tutti i casi raccontati riguardano donne. Come dire quel che avviene tra due donne in questi casi? E quando sono uomini? Che succede di diverso nel soggetto plurale, nel patchwork? Come gioca la diffe-

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renza nel fidarsi dell’inconscio? A queste domande non so rispondere e lei non dà elementi sufficienti per capirlo dai suoi scritti. Qualche accenno indiretto lo si può cogliere nel saggio Paradossi del materno, dove parla dell’annodamento oscuro della relazione madre-figlia, nel quale «resistono identità interscambiabili e che ha come sfondo quella trama indifferenziata sostenuta e rinforzata dalla appartenenza allo stesso sesso, che contrassegna la relazione e che rende infinitamente più complessa la traversia della formazione di una identità separata»39. L’indistinzione vischiosa tra madre e figlia può provocare sofferenze tali, per le quali una figlia può decidere di farsi aiutare in analisi. Nei casi clinici descritti in Paradossi del materno queste figlie hanno scelto lei come analista e dunque, in modo significativo, una donna. L’analista accoglie i sentimenti aggressivi, facendoli rivivere come rivolti verso di lei. Mostrando alla paziente la propria sopravvivenza di fronte a questi attacchi, sopportati al posto della madre, permette che tali sentimenti, vissuti con immediatezza, siano trasformati e elaborati in modo da dare forma ad una distanza simbolica dalla madre, che riesce paradossalmente proprio nel momento in cui la figlia sa condividere con la madre la posizione nuova guadagnata, liberata dall’ombra della madre onnipotente. Mi sembra che sia evidente in questo percorso il valore simbolico che l’analista sia una donna40. In una conversazione mi spiegava che in genere i pazienti psicotici non vivono un legame semplice e fluido tra il corpo fisico, oggettivo, visibile e il sentimento inconscio del proprio corpo, che ce lo rende intimo. Di frequente scindono il corpo biologico dal sentimento del corpo proprio, e ciò coinvolge la simbolizzazione della differenza sessuale. Ricordava una paziente che, in dubbio sulla sua femminilità, inseguiva la prova della differenza femminile nella sessualità biologica da verificare, piuttosto che nel sentimento di sé e del proprio corpo aperto allo scambio con gli altri. Penso che nella passione per il raccontare ci sia anche qualcosa di più rispetto al vincolo clinico di descrivere un caso. Credo ci sia l’esigenza di meditare l’esperienza. Di avere a disposizione una pratica 39

Cfr. supra, p. 104. Cfr. supra, p. 101 dove si accenna ad una figlia che ha trovato un legame più libero con la madre, che viene così descritto: «Sorprendentemente nelle parole di questa donna emerge tutta la gioia della potenzialità di un materno svincolato dalla onnipotenza: madre e figlia alleate nella condivisione di questa condizione di orfane, orfane appunto di un materno onnipotente». 40

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che le permetta di ampliare la risonanza di quello che è avvenuto, tenendolo davanti a sé, creando visione di esso. Scrive Hannah Arendt: «Senza rivivere la vita nell’immaginazione non si può mai vivere pienamente, la “mancanza di immaginazione” impedisce alla gente di ‘esistere’. Il precetto “sii ligia alla storia” (…) non significa altro che esser ligi alla vita, non creare la finzione ma accettare quel che la vita ci sta dando, mostrarsi degni di tutto ciò che può accadere ricordandolo e meditandoci sopra (…); questo è il modo per restare vivi»41. Nel ruminare l’esperienza l’immaginazione è essenziale: è essa a rendere il pensiero una forma di ricordo e illuminazione, a partire da qualche cosa che è avvenuto. Non a caso in questi casi clinici, o nei corsi di formazione tenuti dall’autrice, compaiono spesso racconti e romanzi. I racconti di Schnitzler, ad esempio, e penso in particolare a Fuga nelle tenebre e La signorina Else. Certo Schnitzler era scrittore e anche psichiatra e conosceva la follia dal punto di vista medico. Tuttavia il racconto permette di vedere qualche cosa che la disciplina medica non può facilmente dire. Amplia, illumina, segue l’andamento della follia e dei suoi paradossi mortiferi e catturanti. È la contraddizione irrisolvibile a far perdere la signorina Else, mentre Robert, di Fuga nelle tenebre, si rinchiude nel cerchio soffocante del paradosso paranoico. I passi, gli sguardi, i discorsi, le sfumature d’atmosfere sono seguiti con rigore e compassione. Non giudicati, non classificati. Il racconto è meditazione d’essere. Visione. C’è molto uso della filosofia in questi testi di una psicoanalista. Questo non deve sorprendere dato che gli scambi con la filosofia si situano alla radice stessa della psicoanalisi e li troviamo sia in Freud, sia in Lacan sia in molti altri psicoanalisti. Quello che mi interessa capire è il suo modo particolare di ricorrere alla filosofia e l’intenzione che la spinge. Credo che la filosofia le serva per aprire dall’interno i limiti definiti dai concetti disciplinari della psicoanalisi e per avere più spazio di interrogazione e libertà di pensare. Prendiamo ad esempio il suo riferimento a Logica del senso di Gilles Deleuze. In questo testo troviamo descritto l’evento come una singolarità preindividuale, senza spaziatura temporale, che compare 41 Hannah Arendt, Isak Dinensen (1885-1962), «aut aut» n. 239-240, settembre-dicembre 1990, p. 163.

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nell’enunciato pur non avendo referente42. Questo concetto evidentemente le sembra il più adatto per esprimere qualcosa che avviene tra lei e una paziente, quando di tale esperienza non c’è ancora né significazione né referente. Così da L’essere abbandonato di Jean-Luc Nancy riprende l’idea di una soggettività, che nasce per partizione in una condizione di passività, e che si scosta dall’identità43. Ne ha bisogno per esprimere una esperienza vissuta con una paziente, che non è fondata né sulla fusione tra l’individualità sua e quella dell’altra né sul semplice sommarsi delle loro identità. Allora riprende e ricrea il concetto di partizione e di esperienza passiva di con-essere di Nancy scrivendo: «La passività non è individuale: si può essere attivi da soli, ma si può essere passivi solo in due o più. La passività è, nell’individuo, ciò che trema e che si scosta dal tratto di chiusura dell’individualità stessa»44. Abbiamo visto come il concetto di soggettività transizionale non sia facile da esprimere e comprendere. Tenere conto di un soggetto multiplo nel quale sono coinvolte passivamente parti della psicoanalista e della o del paziente fa nascere la domanda di dove inizi e finisca l’individuo. Il concetto di passività come ciò che si scosta dal circuito chiuso dell’individuo, passività come esperienza di con-essere, è la via per immaginarsi questa esperienza e poterla allora anche pensare. La filosofia viene adoperata dunque per allargare i limiti dl linguaggio e per accogliere in esso ciò che viene sperimentato nella pratica analitica e che non ha ancora un nome. Ne emerge un’idea di filosofia come via che apre il linguaggio alle sue potenzialità, per una ricerca dettata da motivi stringenti. Non è un caso che i concetti filosofici compaiono nei momenti più inventivi e arrischiati del suo pensiero. Vengono inseriti nella pratica psicanalitica stessa, quando c’è da ruminare simbolicamente quel che avviene. In questo senso il quadro di riferimento resta rigorosamente quello di tale pratica e il ricorso alla filosofia è sempre legato alla situazione contestuale. A differenza di altri psicoanalisti che usano la filosofia per descrivere i punti più importanti della loro pratica in generale – cioè in una prospettiva metateorica –, l’autrice fa entrare direttamente i concetti filosofici come elementi essenziali nel dramma concreto e singolare a 42 Cfr. Gilles Deleuze, Logica del senso, tr. it. di Mario De Stefanis, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 53-54. 43 Cfr. Jean-Luc Nancy, L’essere abbandonato, tr. it. di Elettra Stimilli, Quodlibet, Macerata 1995, pp. 46-51. 44 Cfr. supra, p. 16.

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PSICOANALISI E FILOSOSFIA

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cui partecipa con i pazienti. Assieme al sapere disciplinare tali concetti rappresentano il sale in quel ruminare simbolico che le permette non solo di fare pensiero di quel che sta avvenendo nel processo analitico, ma anche di arrivare a formulare l’interpretazione necessaria al paziente. Il fatto è che per certi casi il sapere tecnico della psicoanalisi è troppo limitato, e anche troppo risaputo, tanto da diventare a volte una formula senza più pensiero. Mi sono chiesta, leggendo questi testi, quanto la filosofia stessa ha a sua volta beneficio da uno scambio con la psicoanalisi. Sicuramente essa cambia statuto, se il pensiero nel suo percorso tiene conto dell’inconscio. Inoltre la pratica analitica è uno scambio orale, che si sostiene su alcune regole specifiche e proprie, ma che intrattiene analogie con la pratica antica del dialogo filosofico. Complessivamente dalla pratica psicoanalitica emergono saperi che riguardano il rapporto tra affetti, esperienza, verità, pensiero. Obbliga la filosofia a stare all’interno di questioni stringenti, legate al bisogno, alla sofferenza, con la fiducia però che la formulazione di pensiero – il trasformare i segni in simboli – abbia come effetto quello di liberare il desiderio su strade autonome e sconosciute. Come scrive Françoise Dolto, riuscire a dire la verità di quel che ci costringe libera il desiderio per strade che esso stesso va creando. È per questo, credo, che l’amore per la filosofia, che aiuta l’analista a pensare, risuona nei testi raccolti in questo volume come allegria, scoperta di mondi, molteplicità di prospettive che si aprono, invenzione del desiderio.

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ALLE RADICI DEL SIMBOLICO

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INDICE DEI NOMI

Abraham, Nicolas 99 Agamben, Giorgio 24, 39 Amati Sas, Silvia 74, 84 Andrea Del Sarto 35 Andreas-Salomé, Lou 25 Arendt, Hanna 157 Aulagnier, Piera 5, 8, 14, 56, 57, 58, 59, 64, 66, 75, 83, 93, 111, 113, 119, 152, 153

Freud, Sigmund 25, 57, 62, 141, 142, 157 Green, André 92 Gualtieri, Mariangela 89 Heimann, Paula 55 Holzer, Jenny 120 Irigaray, Luce 18

Benedetti, Gaetano 3, 18, 65, 137, 141, 146, 148 Bion, Wilfred R. 16, 17, 24, 25, 27, 34, 41, 73, 144, 151 Bleger, José 52, 54, 58, 117 Bollas, Cristopher 27, 129 Butler, Judith 111, 112

Joyce, James 6 Jung, Carl Gustav 141 Kafka, Franz 26 Keats, John 27 Khan, M. Masud R. 61 Kleist, Heinrich von 23, 34

Cloudsley-Thompson, John L. 123 De Waelhens, Alphonse 6, 136 Deleuze, Gilles 1, 3, 7, 13, 24, 26, 37, 157, 158 Derrida, Jacques 14 Diotima 1, 23, 89, 139, 146, 154 Dolto, Francoise 133, 159 Eliot, Thomas S. 9 Ferenczi, Sandor 20, 30, 74, 83 Foucault, Michel 121

Lacan, Jacques 24, 75, 77, 140, 142, 144, 150, 151, 153, 157 Laing, Ronald 109 Laplanche, Jean 62 Little, Margaret 53, 56, 58, 153 Loraux, Nicole 112 Lucchetti, Alberto 8 Manier, Alain 2 Melville, Herman 23, 26 Millot, Catherine 90 Muraro, Luisa 92

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170 Musil, Robert 19, 21 Nancy, Jean-Luc 7, 16, 158 Nicolaidis, Nicos 64

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Orwell, George 75, 119 Pankow, Gisela 132 Pao, Ping-Nie 133 Peciccia, Maurizio 3, 18 Proust, Marcel 9

INDICE DEI NOMI

Sechehaye, Marguerite A. 33, 56, 151, 152 Shakespeare, William 61 Spinoza, Baruch 116 Sullivan, Herry S. 52 Tommasi, Wanda 99 Torok, Maria 99 Valéry, Paul 4

Recalcati, Massimo 74, 87 Resnik, Salomon 65, 70 Schnitzler, Arthur 157

Winnicott, Donald W. 30, 53, 100, 148, 153 Wolfson, Louis 64

Searles, Harold F. 6, 103

Zamboni, Chiara 150

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Inconscio e cultura

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01. 02. 03. 04. 05. 06. 07. 08. 09. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30.

J. Wortis, Frammenti di un’analisi con Freud J.W. Perry, La dimensione nascosta della follia B. Grunberger, J. Chasseguet, Freud o Reich? L. Zoja (a cura di), Problemi di psicologia analitica: una antologia post-junghiana Ch. David, La dimensione amorosa. Studio psicoanalitico sull’amore O. Andersson, Studi sulla preistoria della psicoanalisi S. Benvenuto, La strategia freudiana V.D. Catapano, Le Reali Case de’ Matti nel Regno di Napoli S. Spielrein, Comprensione della schizofrenia e altri scritti C. Albarella, V. Donadio (a cura di), Il Controtransfert H.F. Ellenberger, I movimenti di liberazione mitica J.W. Perry, Le radici del rinnovamento nel mito e nella malattia mentale A. Angelini, La psicoanalisi in Russia. Dai precursori agli anni trenta S. Di Lorenzo, La donna e la sua ombra G. Antoneili, La profonda misura dell’anima: relazioni di Jung con lo gnosticismo J.Ch. Gille-Maisani, Psicologia della scrittura V.D. Catapano, Medicina a Napoli nella prima metà dell’Ottocento N. Abraham, M. Torok, Il verbario dell’Uomo dei Lupi J.W. Perry, Il cuore della Storia V.D. Catapano, Matti agli ‘Incurabili’ di Napoli G. Pulli, L’inconscio come essere e come nulla. Saggio su Freud e Matte Blanco P. Santangelo, L’Amore in Cina, attraverso alcune opere letterarie negli ultimi secoli dell’Impero G. Roccatagliata, La mente, il cervello e la psichiatria A. Arigelini (a cura di), Pionieri dell’inconscio in Russia V.D. Catapano, Il manicomio era il mio destino L. Rispoli, Il sorriso del corpo e i segreti dell’anima G. Antonelli, Origini del fare analisi G. Pulli, Sul desiderio G. Pulli, Freud e Minkowski. L’inconscio e il tempo C. Faccincani, Alle radici del simbolico

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