Altruisti per natura. Alle radici della socialità positiva 9788842053071, 8842053074

Chi l'ha detto che gli esseri umani siano sostanzialmente tutti egoisti? Molti ritengono che la tendenza a sopraffa

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Italian Pages 160 Year 2012

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Altruisti per natura. Alle radici della socialità positiva
 9788842053071, 8842053074

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Universale Laterza 933

Silvia Bonino

Altruisti per natura Alle radici della socialità positiva

Editori Laterza

© 2012, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione ottobre 2012

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Edizione 5 6

Anno 2012 2013 2014 2015 2016 2017

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-5307-1 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Introduzione

Perché scrivere di altruismo

1. La normalità del bene Quando si pensa all’altruismo vengono in mente sovente situazioni eccezionali, in cui la storia ed eventi straordi­ nari hanno imposto scelte pericolose e difficili, come è avvenuto nel caso dei giusti che hanno aiutato le vittime dell’olocausto. Oppure si pensa alle situazioni di emer­ genza, in cui in una frazione di secondo una persona deve decidere se intervenire o meno a favore di qualcuno. C’è però un altruismo che potremmo definire più normale e quotidiano, che si realizza nella vita di tutti noi e che non riguarda situazioni eccezionali. Questo altruismo prende forme molto diverse e permea la vita di tutti nella famiglia, nel lavoro e nelle relazioni con le persone con cui veniamo abitualmente in contatto. Si va dall’aiuto dato ai genitori anziani a quello agli amici in difficoltà, dall’attenzione per gli altri all’impegno per il bene altrui nelle diverse profes­ sioni. Pensiamo, per esempio, al personale sanitario e a quanto sia importante che sappia mettere al primo posto il benessere fisico e psicologico delle persone che cura, ma anche all’impiegato, che allo sportello può trattare gli utenti come dei “seccatori” da mandare via al più presto, oppure come suoi simili a cui dedicare tutta l’attenzione ­v

e l’impegno che vorrebbe lui stesso ricevere nell’espleta­ mento di una pratica. C’è insomma un altruismo nascosto nella vita fami­ liare, lavorativa e sociale di ognuno di noi che non viene nemmeno riconosciuto con questo nome, tanto appare naturale e scontato. Esso viene attuato tutte le volte che una persona, qualunque sia il suo ruolo, opera a vantaggio degli altri e del loro benessere e non in modo grettamente egoistico e per il suo solo tornaconto personale. Quanto queste azioni abbiano diritto a essere chiamate altruisti­ che, e non siano affatto banali, lo si comprende facilmente dal senso di disagio che la loro assenza immediatamente provoca: la tensione tra le persone aumenta e non solo i rapporti si fanno difficili, ma le stesse mete materiali ben presto non trovano più realizzazione. In tempi di pace, e in una società democratica, tutti noi siamo implicati in queste azioni quotidiane e anonime di altruismo molto più che in gesti eclatanti: eppure esse danno un contri­ buto decisivo al benessere degli individui e della società. Questo benessere viene a mancare quando gli individui, sia singolarmente sia collettivamente all’interno dei vari gruppi sociali, pensano solo al proprio particolare inte­ resse, senza tenere conto anche di quello degli altri: in una parola, senza tenere conto del bene comune. Sovente si ha l’impressione che i singoli comportamenti altruistici individuali siano una goccia che si perde nel mare della società e abbiano scarsa influenza su questa. Si dimenti­ ca così, anzitutto, che i comportamenti collettivi sono il frutto di molti comportamenti individuali, e che i singoli comportamenti hanno il potere, soprattutto in alcuni mo­ menti critici, di incidere in modo profondo sulla società e sui suoi cambiamenti. Accanto agli atti altruistici che intessono la quotidiani­ tà della vita sociale, si sono diffuse sempre più negli ultimi anni nel mondo occidentale anche forme più organizzate di altruismo, attraverso il volontariato o le associazioni senza scopo di lucro. Esse testimoniano l’esigenza di molte ­vi

persone, in una società che gode di alti livelli di benessere materiale e di tutele sociali, di farsi carico in modo attivo delle necessità dei propri simili e di contribuire al bene comune, sia all’interno del proprio paese che in altri terri­ tori più svantaggiati. Il numero delle persone coinvolte in queste attività, che si svolgono in forme diverse e hanno destinatari anch’essi molto differenziati, è molto elevato e rappresenta da solo una smentita a chi continua a ritenere che gli esseri umani siano sensibili solo al proprio vantag­ gio e non anche a quello altrui. 2. I pregiudizi contro l’altruismo La convinzione che gli esseri umani siano motivati solo dall’egoismo è molto diffusa, e fonda i numerosi pregiu­ dizi nei confronti dell’altruismo. In un mondo in cui gli esempi di violenza, cinismo e sfruttamento degli altri so­ no quotidiani, parlare di una socialità umana positiva po­ trebbe quindi sembrare un’illusione per anime belle, cioè sprovvedute, prive di conoscenze sulla reale natura degli esseri umani e sul suo funzionamento. La cultura attuale ha a tal punto assorbito l’idea che esista solo una socialità negativa, fatta di lotta e di sopraffazione, da non riuscire più a riconoscere l’esistenza di altri tipi di rapporto, e da non avere nemmeno più le parole per indicarli. Rimasta per troppo tempo racchiusa negli stretti confini dell’uti­ litarismo economico e materiale, essa sembra aver perso la capacità di immaginarsi l’ampia gamma di relazioni positive che siamo capaci di stabilire e aver dimenticato gli innumerevoli termini di cui la nostra lingua è ricca: aiuto, benevolenza, conforto, compassione, comprensio­ ne, indulgenza, disponibilità, accettazione... Eppure, se guardiamo alla nostra vita con occhi sgombri da precon­ cetti, ci accorgiamo che ogni giorno viviamo rapporti volti a stabilire legami, a condividere, a ricercare il bene altrui, a dare aiuto, nei quali sacrifichiamo qualcosa di noi per gli ­vii

altri, per essere solidali, per raggiungere insieme obiettivi comuni. Ma tutto viene sempre più etichettato con il ter­ mine sprezzante di “buonismo”, e non manca chi teorizza la liceità dell’usare gli altri e addirittura del vendere se stessi come merce. Questo libro è stato scritto, anzitutto, per dimostrare che queste convinzioni sono stereotipi che non trovano sostegno nelle conoscenze che le scienze dell’uomo hanno accumulato da molti decenni, almeno dalla seconda metà del Novecento. Sebbene da secoli non pochi filosofi ed economisti occidentali abbiano posto la mitezza e la fratel­ lanza alla base delle relazioni tra gli esseri umani, per non parlare degli insegnamenti della religione cristiana, queste affermazioni continuano a essere considerate illusioni che non reggono al vaglio delle scoperte scientifiche. In realtà non è affatto così. C’è forse nella resistenza ad abbandonare questi mo­ delli anche molta pigrizia, poiché essi ci esonerano dalla fatica di guardare al mondo intorno a noi con maggiore attenzione e profondità. Questi comodi stereotipi ci di­ spensano anche dal lavorare per tradurre in pratica quelle possibilità di relazione positiva cui la biologia ci ha predi­ sposti. Infatti, diversamente da quanto molti credono, non siamo programmati dalla biologia in modo obbligato per la violenza e la sopraffazione, ma al contrario siamo na­ turalmente inclini alla sensibilità verso gli altri e alla con­ divisione delle loro sofferenze. Prendere coscienza delle predisposizioni biologiche che ci permettono di ricono­ scere negli altri esseri umani dei nostri simili, con tutte le conseguenze che ne derivano, dà al rispetto per gli altri un fondamento universale, ma di certo non infallibile. Infatti, poiché non siamo rigidamente predeterminati a compor­ tarci in modo fisso e prestabilito, queste inclinazioni van­ no coltivate e favorite dall’ambiente e dalla cultura con un lavoro continuo e attento.

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3. Altruismo e socialità positiva Il libro considera le azioni altruistiche all’interno della socialità positiva umana, così come emerge dall’insieme degli studi psicologici, etologici, evoluzionistici e dalle neuroscienze. Questa scelta è fondata sulla convinzione che non si possano comprendere gli atti altruistici, volti a beneficiare gli altri a scapito del proprio personale inte­ resse, se non collocandoli nel quadro delle relazioni sociali che ognuno di noi stabilisce con i propri simili. Senza il riferimento a questa cornice più generale, fatta di dispo­ sizioni sociali positive e della capacità di stabilire legami, lo studio del comportamento altruistico rischia di fram­ mentarsi nell’analisi giustapposta delle numerosissime va­ riabili che intervengono nella decisione di aiutare un’altra persona oppure di ignorarne la sofferenza: variabili che appartengono all’individuo e alla cultura, alla situazione e anche al potenziale beneficiato. La scelta di esaminare l’altruismo all’interno della so­ cialità positiva, per quanto necessaria, non semplifica di certo l’analisi, ma anzi la rende più complessa. Infatti il ventaglio di possibilità di relazione sociale di cui l’essere umano dispone fin dalla nascita è molto ampio e articola­ to, e il lettore comune rischia di perdersi nelle distinzioni che sono state fatte, per chiarezza di ricerca, riguardo ai suoi diversi aspetti e nell’analisi dei numerosi fattori che le influenzano. Per citarne solo alcune, la socialità umana è fatta di relazioni d’affetto, di legami di amicizia, di ca­ pacità di condivisione e di cooperazione. In questi diversi aspetti entrano in gioco predisposizioni biologiche e in­ fluenze culturali, emozioni e cognizioni, difese individuali e strategie sociali, affetti e principi filosofici, e molto altro ancora, in un fitto intreccio spesso difficile da decifrare. Ne emerge il quadro di una socialità umana che si rea­ lizza nel continuo, appagante, ma anche faticoso e spesso contraddittorio, rapporto tra sé e l’altro: tra l’individuo che tende ad affermare se stesso e le proprie esigenze, e gli ­ix

altri senza i quali l’individuo stesso, in qualunque momen­ to della sua vita, non può esistere. In quanto essere biolo­ gicamente sociale l’individuo, pur dotato di una propria identità, fisica e psicologica, ben differenziata e specifica, non può realizzare se stesso, e più banalmente nemmeno sopravvivere, senza gli altri. Per questo in moltissime si­ tuazioni agire per il benessere degli altri significa in realtà agire anche per il proprio, e l’altruismo e la socialità po­ sitiva sono argomenti che toccano intimamente ciascuno di noi. Per aiutare il lettore a districarsi in questo quadro complesso, il libro prende in esame i principali punti di arrivo della ricerca nell’ultimo mezzo secolo, sui quali esi­ stono risultati convergenti e consolidati; allo stesso tempo esamina alcuni aspetti che presentano una maggiore im­ portanza, sia dal punto di vista teorico che applicativo. Non si tratta, di conseguenza, di una rassegna completa ed esauriente dei numerosi studi sull’altruismo e delle di­ verse posizioni, e non solo per evidenti questioni di spa­ zio. Ho preferito soffermare di più l’attenzione su alcuni aspetti che costituiscono oggi dei nodi teorici importanti e promettenti, come l’empatia, oppure su altri che sono di particolare interesse per chiunque si interroghi, come edu­ catore o come cittadino, sulla possibilità di promuovere interazioni sociali positive all’interno della nostra società. 4. L’azione umana tra biologia e cultura Nelle pagine che seguono esamineremo le disposizioni biologiche che favoriscono, nell’incontro faccia a faccia con gli altri esseri umani, l’attenzione nei loro confronti e l’attuazione di comportamenti positivi e altruistici. Vedre­ mo come la nostra specie ha un ricco repertorio espressivo che favorisce il contatto e la condivisione con gli altri; esso porta a riconoscere negli altri degli esseri simili a sé, verso i quali si attiva la tendenza a fare ciò che si vorrebbe fosse ­x

fatto a noi stessi e a non fare, invece, ciò che non si vorreb­ be fosse fatto a noi. Gli esseri umani però non si limitano ai rapporti faccia a faccia, poiché posseggono strumenti cognitivi che permettono loro di andare oltre il momento concreto dell’incontro con l’altro, attraverso il pensiero e la parola. Queste capacità cognitive aprono scenari nuovi, che possono favorire la socialità positiva: per esempio, la rappresentazione del vissuto altrui permette l’immedesi­ mazione negli altri e una condivisione empatica matura. Ma questi strumenti cognitivi possono anche portare a co­ struire categorie che separano gli altri da noi, nelle quali essi vengono raggruppati sotto un’etichetta svalutante e perdono gradualmente la loro umanità. Ancora, l’essere umano non è dotato di rigide pro­ grammazioni comportamentali, ma di plasticità e di possi­ bilità di indirizzare il suo stesso sviluppo. Le sue specifiche capacità cognitive lo rendono un animale speciale, dotato di autocoscienza, di capacità di riflettere su di sé e di agire in modo consapevole per raggiungere obiettivi anche non immediati. In altre parole, pur all’interno dei molti limiti che gli provengono dalla natura, l’essere umano è in gra­ do di prendere in mano il proprio destino: non in modo assoluto, ma di certo con gradi di libertà molto maggiori di qualunque altro essere vivente. Proprio lo sviluppo del­ la cultura, specifico della nostra specie, ha grandemente contribuito a svincolare gli esseri umani dalle costrizioni biologiche, con esiti che, anche per l’altruismo, possono essere molto diversificati. Infatti la cultura può sia pro­ muovere valori universali e di rispetto per gli altri, sia es­ sere intrisa di pregiudizi e di rigide chiusure. Ogni essere umano si muove all’interno di questa com­ plessità e l’azione altruistica emerge come decisione di un individuo, nella concretezza di una specifica situazione, da un ricco intreccio di disposizioni biologiche e influenze culturali, emozioni e categorie astratte, immedesimazione emotiva e valori. Ognuno di noi agisce all’interno delle opportunità e dei vincoli offerti sia dalla natura che dalla ­xi

cultura cui appartiene, dei quali ha la possibilità, se pure limitata, di prendere coscienza e di dare una valutazione critica. In questa opportunità di riflessione c’è il ruolo che ciascuno può svolgere nell’indirizzare la propria azione e nell’operare le proprie scelte; il fatto che essa sia limitata, come lo è tutta la realtà umana, non può costituire un pre­ testo per rinunciarvi, ma al contrario deve rappresentare uno stimolo per allargare sempre di più il nostro potere di comprensione. Le scienze umane sono uno dei mezzi di cui oggi disponiamo per meglio comprendere la nostra realtà, sia biologica che culturale, e le loro conoscenze pos­ sono esserci di grande aiuto su un tema così rilevante, sul piano individuale e sociale, come l’altruismo.

Altruisti per natura

agli altruisti nascosti

1.

Altruismo e socialità positiva

1.1. L’altruismo nella prospettiva biologica I biologi evoluzionisti hanno affrontato il tema dell’al­ truismo in termini di fitness genetica, cioè di vantaggio biologico di un individuo nella sopravvivenza e nella tra­ smissione dei propri geni alle generazioni successive. In realtà il significato dell’espressione non è univoco, e varia a seconda che si consideri la selezione come una forza che opera a livello dell’individuo, della popolazione oppure dei geni. Il comportamento altruistico pone una sfida al concetto di fitness; infatti, favorire la probabilità di so­ pravvivenza e riproduzione di un altro individuo a danno di se stessi, fino al rischio di morte, contrasta con la ten­ denza “egoistica” dei geni a determinare strutture fisiche o comportamenti che aumentano la loro probabilità di replicazione e quindi la loro frequenza nella popolazione. Per superare questa contraddizione, l’altruismo è stato spiegato in diversi modi. Una prima spiegazione fa riferimento alla selezione di gruppo: in particolari situazioni una popolazione, grazie al fatto di essere altruista al suo interno, sopravvive meglio di altre, che vengono soppiantate ed eliminate; di conse­ guenza i geni “altruisti” vengono trasmessi alla discen­ denza. Anche se già Charles Darwin aveva contemplato questa possibilità, che è condivisa da molti etologi, questa ­3

spiegazione è controversa. In specifico, essa è osteggiata da coloro che ritengono il gene, e non l’individuo e tan­ to meno il gruppo, l’unità fondamentale della selezione naturale. Una seconda spiegazione fa ricorso alla selezione di parentela. Le azioni a favore dei parenti permettono in­ fatti la riproduzione del patrimonio genetico, che è condi­ viso, attraverso la sopravvivenza dei soggetti cui esse sono rivolte: l’individuo muore, ma i geni dei parenti vengono trasmessi. Per questo l’altruismo dipende dalla porzione di eredità condivisa; a questo riguardo è stata formulata un’equazione, secondo la quale la frequenza di un gene associato all’altruismo è maggiore quando il coefficiente di parentela, cioè la possibilità di trasmissione genetica, supera il rapporto tra costi e benefici. Ne deriva che i comportamenti altruistici, in una determinata situazione, saranno maggiori verso i fratelli e minori verso i cugini. Questo modello riesce a spiegare i comportamenti d’aiu­ to verso i parenti, ma si è rivelato insufficiente negli stessi animali, a mano a mano che si esaminavano specie dalla vita sociale più articolata, perché non è in grado di ren­ dere ragione dei comportamenti d’aiuto verso gli estranei, con i quali un individuo non condivide il proprio patri­ monio genetico. Per ovviare a questi limiti, è stato elaborato il modello dell’altruismo reciproco, che spiega i comportamenti a favore degli altri con la reciprocità: l’animale riduce tem­ poraneamente la propria probabilità di sopravvivenza o riproduzione, ma verrà ricambiato in futuro dal bene­ ficiato. La reciprocità richiede una certa omogeneità di comportamento, in modo che prima o poi tutti nel grup­ po abbiano un beneficio. L’altruismo reciproco chiama in causa la complessità della rete sociale che si stabilisce tra i diversi individui all’interno di un gruppo. In parti­ colare, esso rimanda alla possibilità di distinguere i pro­ fittatori, che ricevono aiuto ma non sono disponibili a darlo: la capacità di riconoscerli permette di escluderli ­4

come beneficiati, riducendo il rischio di aiutare senza poi essere aiutati, anche se in realtà non esiste mai la certez­ za che il proprio comportamento d’aiuto venga in futuro ricambiato. Negli stessi animali, quindi, il proseguire degli studi ha reso evidente che i comportamenti altruistici non sono spiegabili solo negli stretti termini del vantaggio genetico, ma rimandano alle relazioni sociali che si stabiliscono tra i componenti del gruppo e alle specifiche capacità sociali dei diversi individui. Ciò è particolarmente evidente quan­ do si considerano i primati più vicini all’uomo. Gli studi sulle scimmie antropomorfe mostrano a questo riguardo che le varie specie attuano comportamenti altruistici e di conforto anche molto elaborati, all’interno di interazio­ ni sociali di gruppo anch’esse assai evolute, nelle quali la reciprocità non è solo di tipo diretto o unicamente ma­ teriale. Queste constatazioni hanno portato gli etologi a concludere che vi sono chiare evidenze dell’esistenza di un primordiale ordine morale nei primati, volto ad armo­ nizzare la vita sociale nel gruppo, in modo da migliorare la cooperazione e i comportamenti altruistici al suo interno, e di conseguenza anche la sopravvivenza. Una conferma in questo senso viene dall’esistenza in molti animali di pre­ cursori delle emozioni cosiddette morali, come vergogna e senso di colpa. 1.2. L’uomo come essere biologico e culturale Se dagli animali passiamo agli esseri umani, il discorso si fa ancora più complesso, perché in essi non agiscono rigide determinazioni comportamentali, ma si può solo parlare di predisposizioni biologiche. L’essere umano, infatti, non dispone di programmi prefissati che stabiliscono in mo­ do obbligato il suo comportamento, ma si caratterizza per plasticità di adattamento e per la possibilità di trasmissione culturale. La cultura è il frutto, a sua volta, delle specifiche ­5

capacità cognitive dell’uomo, in grado di andare oltre il dato percettivo immediato per rappresentarsi realtà non presenti, e costruire di conseguenza simboli e segni astratti, primi fra tutti quelli verbali (ne parleremo più diffusamen­ te nel capitolo 3). Per tutte queste ragioni il concetto di istinto non è applicabile all’uomo ed è stato abbandonato, perché inadatto a spiegare la varietà e la complessità dei suoi comportamenti. Di conseguenza, la contrapposizione tra innato e appreso, tra patrimonio genetico da un lato e ambiente dall’altro – e in particolare ambiente culturale – è oggi del tutto superata, anche se purtroppo continua a essere presentata dai media (per esempio quando par­ lano, per accattivarsi l’attenzione del pubblico, di “gene del divorzio”). In realtà questo superamento è avvenuto da tempo, e solo una visione limitata e semplificata può continuare a far ritenere che il comportamento umano sia influenzato in modo univoco solo dalla biologia e dai geni, oppure al contrario solo dall’ambiente e dalla cultura. La recente mappatura del genoma umano ha confer­ mato la complessità dei rapporti tra patrimonio genetico e ambiente, deludendo le aspettative di coloro che si aspet­ tavano una precisa corrispondenza tra geni e comporta­ mento. Essa ha infatti mostrato che il numero di geni è molto più basso (circa 23.000) di quello atteso (100.000), e in proporzione di gran lunga inferiore a quello di orga­ nismi molto meno complessi. Inoltre esiste un’elevatissima quantità di DNA non codificante, che era stata definita in modo sbrigativo e piuttosto presuntuoso come “DNA spazzatura”, di cui si stanno cominciando a scoprire im­ portanti funzioni di regolazione dell’espressione dei geni. La flessibilità del genoma, capace di formare numerose proteine partendo da un numero piuttosto ristretto di ge­ ni, e la complessità delle relazioni tra i vari elementi che costituiscono il patrimonio genetico richiamano in causa il ruolo dell’ambiente, sia fisico che sociale, nel corso dello sviluppo di ciascun individuo, dal concepimento fino alla morte. ­6

1.3. L’altruismo e la socialità positiva umana La ricchezza e complessità della vita sociale umana e l’assenza di rigide determinazioni comportamentali ob­ bligano a considerare l’altruismo nel più vasto contesto della socialità umana; senza questa collocazione più am­ pia, che non limita l’analisi al vantaggio genetico, esso non può essere compreso. In specifico, l’altruismo va considerato nell’ambito della socialità positiva, cioè del­ la capacità umana di stabilire rapporti costruttivi, e non solo oppositivi oppure strumentali, con i propri simili. Questo perché l’altruismo non è che un aspetto della più generale attitudine degli esseri umani a stabilire legami con gli altri, occuparsi di essi, comprendere che cosa essi provano, entrare in sintonia, costruire qualcosa di importante insieme agli altri. Aiutare gli altri mettendo in secondo piano il proprio interesse è quello che tutti noi, in misura maggiore o minore, facciamo quotidiana­ mente nei rapporti d’amore e d’amicizia, che non esiste­ rebbero senza la disponibilità a rinunciare a qualcosa di sé a vantaggio degli altri. Crescere i figli, mantenere un legame d’amore o d’amicizia, lavorare insieme per un ­risultato importante: sono tutti obiettivi che non pos­ sono essere raggiunti senza la capacità di andare verso gli altri e dare loro qualcosa di noi, della nostra dispo­ nibilità e del nostro tempo, sapendo che noi stessi non possiamo vivere al di fuori di questi rapporti. Ma anche nei confronti delle persone estranee siamo legati da fili molto stretti, benché meno visibili e più impersonali. Per esempio, quando prendiamo il treno o entriamo co­ me pazienti in un ospedale, ci affidiamo a persone sco­ nosciute, che talvolta non vedremo mai, dalle cui azioni responsabili e dal cui impegno professionale a nostro favore dipendono la nostra sicurezza e spesso la nostra stessa vita. Per questo, nel parlare di altruismo, occorre s­empre tenere conto della complessità delle relazioni che si stabi­ ­7

liscono sia all’interno della famiglia e del piccolo gruppo, sia della società più allargata. In queste relazioni l’altrui­ smo non è spiegabile solo in termini di reciprocità diretta, riassumibile nella formula “io aiuto te e tu aiuterai me”. L’altruismo umano, nella grande maggioranza dei casi, chiama in causa la reciprocità indiretta: “io aiuto te e qual­ cun altro aiuterà me”. In realtà si tratta di una scommessa, sulla quale non vi è mai certezza. Essa è resa possibile sia dalle specifiche capacità cognitive umane, che permetto­ no di andare oltre il presente e l’interazione faccia a fac­ cia, grazie all’uso del linguaggio e dei simboli, sia dalla straordinaria ricchezza della vita sociale. Ne deriva che la relazione con l’altro non è spiegabile in termini di costi o benefici presenti o futuri, e tanto meno come secca al­ ternativa tra perdita e guadagno, ma rimanda a un ricco intreccio di rappresentazioni e aspettative, sia individuali che sociali, all’interno di una cultura. Di conseguenza, l’a­ zione altruistica può anche essere del tutto gratuita e priva di alcuna possibilità di reciprocità, come avviene in chi consapevolmente dà la propria vita a favore di un altro. È dunque alla complessità della socialità umana che oc­ corre fare riferimento per comprendere l’altruismo, che si realizza nell’incontro tra due persone, tra un sé e un altro, con la loro storia e le loro attese. Il limite insuperabile di modelli teorici – che hanno avuto peraltro molta fortuna, come la teoria dei giochi e il “dilemma del prigioniero” – nel considerare l’altruismo e la cooperazione risiede sia nel restringere l’analisi a interazioni molto semplificate e del tutto innaturali, sia in un presupposto teorico di razio­ nalità economica e utilitaristica, avulsa dalla realtà della vita emotiva e sociale degli esseri umani. Come è noto, la teoria dei giochi analizza attraverso modelli matematici le decisioni razionali che consentono di ottenere il massimo beneficio, tenuto conto del comportamento dell’avversa­ rio, in una situazione di conflitto in cui agiscono due o più attori, definiti giocatori. Queste situazioni possono con­ figurare giochi cooperativi, in cui i partecipanti possono ­8

accordarsi per programmare strategie congiunte, oppure giochi non cooperativi, in cui non è possibile un accordo preventivo per adottare la strategia più vantaggiosa per entrambi. Il dilemma del prigioniero è il più conosciuto esempio di teoria dei giochi; in esso due prigionieri, en­ trambi sospettati di un crimine, devono decidere se con­ fessare o non confessare, senza conoscere la scelta fatta dall’altro e correndo il rischio di diversi anni di detenzione (per esempio, se uno confessa e l’altro non confessa, chi non ha confessato sconterà 10 anni mentre l’altro sarà li­ bero; se entrambi non confessano, saranno condannati a un solo anno; se invece confessano entrambi, la pena da scontare sarà di 5 anni di carcere). Nonostante la loro popolarità, l’analisi di queste si­ tuazioni artificiali e semplificate non è nemmeno lonta­ namente capace di rendere ragione dell’altruismo e della socialità positiva negli esseri umani. È quindi alla concreta realtà delle relazioni sociali, al loro intreccio di emozione e cognizione nelle specifiche situazioni di vita, lungo tutto il ciclo della vita stessa, che bisogna fare riferimento. Se si assume questa prospettiva, con il concorso necessario di discipline diverse, ci si rende conto che la scommessa dell’altruismo, per quanto rischiosa perché non sempre ricompensata, è a tal punto necessaria nella vita sociale che gli esseri umani sono dotati di specifiche predisposizioni biologiche che la favoriscono, di cui parleremo diffusa­ mente nei capitoli 3 e 4. 1.4. I diversi volti della socialità positiva I comportamenti che vengono comunemente raggruppati sotto questa etichetta sono moltissimi e molto articolati: dalla capacità di stabilire legami di affetto duraturi al saper condividere le emozioni degli altri, dall’attenzione per la loro sofferenza all’aiuto nei loro confronti, dall’agire al­ truistico al cooperare per un fine comune. Sono compor­ ­9

tamenti diversi tra loro ma per molti aspetti intrecciati, e queste caratteristiche fanno allo stesso tempo la ricchezza e il limite di questa definizione. Infatti sotto un’etichet­ ta così ampia rischia di affastellarsi una grande massa di conoscenze differenti, provenienti da svariate discipline e che riguardano comportamenti diversi, i quali a loro volta chiamano in causa processi molto differenziati. Il risultato può essere la dispersione dell’analisi in una miriade di spe­ cificazioni molto minuziose. Se queste ultime interessano lo studioso che ha la necessità di meglio comprendere i fenomeni e di definirli con precisione, esse appassionano assai meno la persona comune. Quest’ultima è interessata a comprendere le articolazioni principali e le connessioni tra le conoscenze, in modo da avere un quadro unitario che risulti chiaro sul piano teorico e utile su quello pratico, vista la rilevanza del tema nella vita di ciascuno. Ad aumentare la difficoltà, per il lettore comune, con­ tribuisce l’uso di definizioni espresse con un linguaggio lontano da quello quotidiano, spesso derivato dall’inglese, che è diventato ormai la lingua universale per i ricercatori, non solo nel campo delle scienze biologiche ma anche in quello delle scienze umane. Per esempio, il termine prosocialità, così usato in letteratura per designare compor­ tamenti diversi attuati a favore degli altri, non è presente nel vocabolario italiano e non si ritrova nemmeno nei di­ zionari più aggiornati. A fronte di questa frammentazione e scarsa comprensibilità, la socialità negativa si presenta invece in modo molto chiaro e ben identificabile: termini come aggressione o violenza sono ben noti a tutti ed è chia­ ro a che cosa si riferiscono. Gli aspetti più negativi della socialità umana rischiano così di apparire più veri e reali, a scapito di quelli positivi, che sembrano erroneamente più oscuri e fumosi. È quindi necessario chiarire anzitutto, a grandi linee, quali sono i principali comportamenti che cadono sotto la definizione di socialità positiva. Anche se non tutti sa­ ranno presi in esame in questo libro, che altrimenti di­ ­10

venterebbe un tomo ponderoso, è necessario averne una panoramica generale. I legami di attaccamento, affetto, amore, amicizia Un primo importante ambito della socialità positiva ri­ guarda le relazioni di affetto e attaccamento che gli esseri umani stabiliscono con i propri simili. Come vedremo, l’essere umano è capace di legami profondi con gli al­ tri, che non sono motivati dalla sessualità e non deriva­ no da essa. Non ci occuperemo in modo specifico dei legami d’affetto o di amicizia, ma vi faremo riferimento frequente, per diversi motivi. In primo luogo perché è stata proprio la scoperta dell’esistenza di una socialità primaria nel legame di attaccamento tra madre e figlio, indipendente dalla sessualità, a mettere al centro della teo­rizzazione e della ricerca la capacità umana di stabilire con gli altri legami profondi, individualizzati, duraturi e “gratuiti”. In secondo luogo, moltissimi dei comporta­ menti che favo­riscono rapporti positivi e d’aiuto con i nostri simili sono derivati proprio dalla relazione con le figure di attaccamen­to e dai legami parentali; questa tra­ sformazione è avvenuta lungo l’evoluzione filogenetica, cioè lungo quel processo evolutivo che ha portato allo sviluppo delle diverse specie, uomo compreso. Inoltre, le persone cui siamo affettivamente legati sono i destinatari privilegiati dei comportamenti d’aiuto, che risultano nei loro confronti più facili e più frequenti. La condivisione di emozioni, sentimenti, pensieri, intenzioni Un secondo importante ambito della socialità umana ri­ guarda quella che si può genericamente definire come la capacità di entrare in relazione con la soggettività altrui, fatta di emozioni, sensazioni, affetti, intenzioni, pensieri. Si tratta in particolare della capacità di fare proprie le emozioni degli altri, di condividerne gli stati d’animo, le ­11

preoccupazioni e anche le sofferenze. Tratteremo in modo approfondito nei capitoli seguenti questi aspetti, che sono chiamati in causa in modo specifico nel comportamento d’aiuto, così come nella cooperazione. Si tratta in realtà di modalità assai differenziate, che vanno dalla tendenza imitativa innata e dal contagio fino all’empatia più evoluta e alla rappresentazione di ciò che gli altri pensano. Queste capacità si accompagnano a compassione, pietà, preoccu­ pazione per gli altri, ma anche a disagio personale e a vera e propria sofferenza: tutte risposte che sono coinvolte nel comportamento d’aiuto così come nell’indifferenza. Comportamento prosociale, aiuto, altruismo Un terzo ambito della socialità positiva riguarda le azioni che hanno lo scopo di arrecare agli altri volontariamente, e quindi senza alcuna costrizione, un beneficio. Mentre nella letteratura esse sono designate sia come comporta­ menti prosociali che come altruismo, nella lingua comune si parla piuttosto di aiuto e altruismo. In realtà nella stessa letteratura psicologica la definizio­ ne di altruismo non è univoca. Secondo alcuni non sareb­ be corretto parlare di comportamento altruistico, perché l’altruismo sarebbe una motivazione: in specifico, la mo­ tivazione ad accrescere il benessere di un’altra persona, contrapposta a quella egoistica, volta ad accrescere il pro­ prio benessere. Le motivazioni di un’azione sono però difficilissime da individuare e distinguere, anche perché spesso non sono chiare nemmeno a chi la attua; di conse­ guenza valutare la motivazione altruistica di un compor­ tamento può rivelarsi impossibile. C’è poi un’altra ragione che consiglia di centrare l’analisi non sulla motivazione bensì sull’azione: è quest’ultima a essere significativa per chi riceve aiuto, e non le ragioni che le stanno dietro. In altri termini, conta che chi aiuta lo faccia in modo tale da arrecare un reale beneficio alla persona bisognosa, indipendentemente dai mille motivi che possono averlo ­12

portato a intervenire. Come purtroppo sappiamo, avere la genuina intenzione di fare del bene a un’altra persona non è sufficiente per garantire un risultato capace di favorire il benessere altrui. Per queste ragioni è opportuno parlare di altruismo in riferimento al comportamento, o meglio, come vedremo, all’azione. Secondo altri la parola altruismo andrebbe riservata a quei comportamenti che richiedono un notevole sacrificio personale, nei quali ci sono totale dedizione e disponibilità a favore degli altri, e non è implicato alcun interesse per­ sonale. Questa definizione restrittiva rimanda nuovamente al problema della motivazione al comportamento d’aiuto. Oltre alle considerazioni appena fatte, bisogna sottolineare che, come meglio vedremo nel corso del libro, le ragioni per cui si aiutano gli altri non sono forse mai del tutto altrui­ stiche e totalmente pure. Infatti si aiutano gli altri per ra­ gioni diverse, tra le quali vi sono anche quelle, non sempre consapevoli, di ottenere dei vantaggi personali di diversa natura, sia materiale sia psicologica e sociale. La reciprocità diretta, che abbiamo visto esistere anche tra gli animali, e ancor più quella indiretta sono esempi dei vantaggi possi­ bili, anche se mai del tutto certi, di un’azione a favore degli altri. Anche gli effetti positivi che le azioni altruistiche han­ no su chi le compie, a livello psicologico, rappresentano un vantaggio che nulla toglie al beneficio che ne deriva alla persona aiutata. Per queste ragioni non è utile considerare l’altruismo un caso particolare del comportamento proso­ ciale, e giudicare altruistiche solo le azioni che richiedono totale abnegazione e purezza d’intenti: sul piano teorico una tale definizione appare irrealistica, mentre sul piano pratico essa è scarsamente praticabile, vista la difficoltà di distinguere il vero altruismo. Ancor più, essa rischia di essere controproducente, perché svaluta comportamenti vantaggiosi sia per il singolo che per il gruppo, che sarebbe invece opportuno valorizzare e promuovere. Altri studiosi utilizzano invece il termine altruismo co­ me equivalente a quello di prosocialità, intendendo quin­ ­13

Box 1 Un popolo di cacciatori e raccoglitori: i pigmei Così Luca Cavalli-Sforza descrive i pigmei, la cui organizza­ zione sociale è ritenuta molto simile a quella dei nostri antichi progenitori cacciatori-raccoglitori. Sono nomadi o seminomadi. Una tribù può comporsi di 500, 1000 o 2000 persone, talora anche più, ma vivono sem­ pre in bande, in gruppi di una trentina di persone in media – possono variare da dieci a cinquanta comprese le donne e i bambini – che vanno a caccia insieme. A intervalli di tempo più bande, o l’intera tribù, si riuniscono per feste o celebrazioni in cui danno vita a grandi danze e a riti collettivi. Le danze e i cori sono le loro attività sociali più importanti. [...] Sono la gente più pacifica che abbia mai conosciuto. Gentili, di grande dignità, anche spiritosi. Detestano la vio­ lenza e ne rifuggono. Se sono in disaccordo discutono, litiga­ no rumorosamente, magari si picchiano – anche tra marito e moglie, sono tutti più o meno forti eguali – ma è rarissimo che ricorrano alle armi. Gli omicidi sono rari. [...] Uno dei punti fermi dell’etica pigmea – possibile solo in una zona a bassissima densità di popolazione – è che se due litigano forte si separano. Gli altri, nel campo, si seccano a sentire la gente che urla e cercano di farli stare zitti. Se quelli

di con esso tutti i comportamenti che hanno lo scopo di portare un vantaggio a un’altra persona, indipendente­ mente dalla motivazione e dal grado di rinuncia persona­ le. In accordo con questa impostazione, in questo libro i termini prosocialità e altruismo verranno utilizzati come sinonimi. La cooperazione Un altro ambito in cui si esprime la socialità positiva è la coo­perazione. A differenza della competizione, in cui ognu­ no lavora per ottenere un obiettivo rilevante a livello indivi­ duale, anche a danno degli altri, nella cooperazione si lavora ­14

insistono, li allontanano. Non sopportano chi “fa rumore”, chi “disturba la pace”, per esprimersi con le loro parole. Non esistono capi, gerarchie o leggi. C’è parità tra uomini e donne. Le questioni che riguardano tutti vengono discusse in comune intorno al fuoco. La punizione più grave che può esse­ re inflitta dalla comunità è l’allontanamento dal campo, che in foresta in pratica equivale quasi ad una condanna a morte: la vita in foresta è magnifica in gruppo, ma è impossibile soprav­ vivere da soli. Naturalmente, l’esiliato può sempre unirsi ad un’altra banda, se questa è disposta ad accoglierlo. [...] Vi è una forte solidarietà verso gli anziani e i disabili, alme­ no finché è possibile aiutarli senza mettere in pericolo la vita del gruppo. [...] Tutti i cacciatori-raccoglitori esistenti oggi hanno ancora costumi in comune fra loro. [...] Vivono sempre in piccoli gruppi, non hanno un’organizzazione gerarchica, in genere non esistono capi e la loro vita sociale è basata sul rispetto re­ ciproco. Di solito hanno un’etica avanzata. Un aspetto impor­ tante delle popolazioni ai livelli più bassi della scala economica è che non sono affatto primitive sul piano morale. (Luca e Francesco Cavalli-Sforza, Chi siamo. La storia della diversità umana, Mondadori, Milano 1993, pp. 16-38)

insieme agli altri per raggiungere un fine comune, impor­ tante per tutte le persone coinvolte. Cooperazione e altrui­ smo sono connessi, perché l’azione coordinata verso uno scopo comune comporta anche la rinuncia temporanea a raggiungere un proprio personale obiettivo, in vista però di un risultato di maggiore importanza, più lontano nel tempo. Nella cooperazione l’altro non è un avversario da superare, ma qualcuno con cui entrare in rapporto e lavorare per ri­ solvere i diversi problemi che la realtà, sia fisica che sociale, ci pone. Si tratta di una capacità essenziale per la sopravvi­ venza individuale e dei gruppi, perché sono numerosissimi i compiti che non possono essere realizzati individualmente, così come innumerevoli sono gli obiettivi che una persona ­15

Box 2 Una forma aberrante di altruismo: il terrorismo suicida La storia contemporanea ci offre purtroppo molti esempi di terrorismo suicida, di cui l’attacco dell’11 settembre 2001 non è che il più clamoroso. Questo tipo di terrorismo trova spie­ gazione proprio nella tendenza all’altruismo, che assume in questi casi una forma aberrante. Il punto di partenza è la tendenza a sacrificarsi per le per­ sone con cui si è imparentati; essa ha, secondo gli psicologi evoluzionisti, una base genetica soprattutto nell’altruismo parentale. La capacità umana di stabilire legami, unita alla preferenza per chi è simile a sé, permette di ampliare oltre la stretta famiglia biologica l’identificazione degli individui che vengono considerati come appartenenti al proprio gruppo. Si viene così a distinguere un gruppo di persone a cui si è legati da vincoli di appartenenza alla stessa religione, credo politico, tradizione, ecc. Quanto più il gruppo è chiuso, tanto più chi non vi appartiene viene visto come estraneo e, attraverso il processo prima di categorizzazione e poi di deumanizzazione (infra capitolo 5), gli altri finiscono per essere classificati come non pienamente umani, quasi come appartenenti a una specie diversa, e quindi come totalmente dissimili da sé. A questo

non può raggiungere da sola. Come la storia e l’antropo­ logia insegnano, gruppi coesi e cooperativi al loro interno sono maggiormente in grado di fare fronte alle sfide che provengono dall’ambiente: soprattutto nei contesti difficili la soluzione dei problemi di adattamento passa attraverso la cooperazione e il contributo dei vari membri del gruppo. Inoltre la cooperazione permette di fare meglio fronte ad altri gruppi ostili, perché rafforza i legami tra i componenti, che sono invece minati da comportamenti egoistici. Il tema è molto vasto, perché nelle società evolute le organizzazioni umane sono diventate molto complesse e in esse la cooperazione può realizzarsi in forme assai differen­ ti e strutturate; noi ci limiteremo a esaminare le prime for­ ­16

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punto non è più possibile alcun riconoscimento dell’altro co­ me essere umano simile a sé; di conseguenza vengono a cadere le inibizioni nei confronti degli atti aggressivi così come tut­ te quelle propensioni a non fare del male, e anzi a ridurre la sofferenza, che si fondano proprio sul riconoscimento della comune umanità. Questo processo è reso possibile dalla propaganda e dal­ l’indottrinamento, che sfruttano la tendenza a beneficiare la propria famiglia e il proprio gruppo di appartenenza ed enfa­ tizzano, o inventano di sana pianta, la minaccia che proviene da gruppi esterni. Quanto più un gruppo ha atteggiamenti di deferenza e dipendenza nei confronti di un capo, tanto mag­ giore sarà l’effetto della propaganda, in forza della tendenza imitativa. Come conseguenza, l’atto terroristico finirà per ap­ parire una missione necessaria e meritoria. Il valore di immolazione altruistica attribuito a queste azioni spiega perché esse possano essere attuate anche dalle donne, il cui ruolo materno e di cura dei deboli sembrerebbe costituire un antidoto contro la violenza. In realtà, in quanto spesso culturalmente molto sensibili al richiamo del sacrificio e alla fedeltà verso il proprio gruppo e le sue tradizioni, le donne possono addirittura essere più facilmente indottrinabili degli uomini.

me di cooperazione nelle istituzioni sociali che il bambino incontra al di fuori della famiglia, nel nido e nella scuola. 1.5. L’azione altruistica nell’incontro tra sé e l’altro Anche se si parla spesso di comportamento altruistico o coo­perativo, il termine più appropriato è quello di azione. La differenza non è nominale; infatti con il termine azione si fa riferimento in psicologia a un comportamento intenzio­ nale, volontario e sottoposto a controllo personale, anche se queste caratteristiche possono variare moltissimo e andare da un minimo a un massimo. L’azione, a differenza degli au­ tomatismi e dei riflessi, implica una decisione e una scelta: ­17

l’individuo ha agito in un certo modo, ma avrebbe potuto fare diversamente. Il concetto di azione è più appropriato di quello un po’ meccanico ed esteriore di comportamento, perché fa riferimento a una concezione attiva dell’indivi­ duo. Questi è considerato non come un organismo unica­ mente reattivo, in balia degli eventi ambientali o delle di­ sposizioni innate, ma come un soggetto attivo, dotato di ca­ pacità cognitive che gli permettono di riflettere su di sé e sul suo operato, e di conseguenza di svolgere un ruolo decisivo nella costruzione di sé e della propria esistenza, attraverso i processi di autoregolazione e autorganizzazione. Su questa base, il concetto di azione sottolinea il ruolo decisivo svolto dall’insieme dei sistemi simbolici che l’essere umano utilizza nella costruzione di sé e del proprio rapporto con il mondo. Si tratta di interpretazioni, significati, credenze e valori che provengono sia dalla cultura sia dalla rielaborazione atti­ va dell’individuo. Come meglio vedremo più avanti, questi aspetti occupano un posto di primo piano nell’azione al­ truistica, accanto alle predisposizioni biologiche. L’azione altruistica si realizza dunque nella relazione tra due esseri umani: un sé e un altro da sé. Entrambi portano nella relazione la loro individualità, con tutte le differenze che derivano dalla straordinaria plasticità della specie uma­ na, ma anche con le similarità che provengono dalla comune appartenenza alla medesima specie. Questa relazione non avviene in astratto, ma nel concreto di una specifica situa­ zione, collocata nel tempo e nello spazio, che contribui­sce alla costruzione di significati diversi. Nella concretezza di questo rapporto, ognuno porta il proprio desiderio di af­ fermazione e di realizzazione personale, che può potenzial­ mente condurre al conflitto con l’altro. Ma ognuno porta anche la necessità del confronto con l’altro, perché la stessa realizzazione personale non può avvenire al di fuori della relazione: l’individuo non può sopravvivere, e tanto meno vivere e svilupparsi, da solo. È quindi dalla complessità e nella concretezza di questa relazione che deriva la decisione di agire a favore di un’altra persona. ­18

2.

“Homo homini lupus”?

2.1. La socialità negativa In una prima classe della scuola primaria un bambino di sei anni picchia un coetaneo che ha avuto il solo torto di non cedergli, nonostante le insistenze e le numerose mo­ lestie, un pennarello di colore verde fluorescente, molto attraente. Il bambino picchiato, stufo del comportamento del compagno che non è nuovo ad azioni del genere, va a lamentarsi dalla maestra. Questa, oberata da mille altre ri­ chieste, gli risponde sbrigativamente: “Difenditi: picchialo anche tu!”. L’episodio è del tutto vero e non è nemmeno isolato. Sovente non sono gli insegnanti, ma gli stessi geni­ tori a rispondere in questo modo a un bambino che a casa si lamenta delle angherie che ha subito, a scuola o sul campo di gioco, da un compagno particolarmente litigioso. Anche se è più frequente che questa risposta venga data ai figli ma­ schi, nemmeno le bambine ne vengono oggi risparmiate. Le parole degli adulti, insegnanti o genitori che siano, mostrano quanto sia diffusa, e quanti danni continui a fare, una concezione che considera l’essere umano fondamental­ mente aggressivo: nelle relazioni con gli altri, ognuno ten­ de solo al proprio tornaconto e l’aggressione reciproca è la regola. Nel linguaggio colto, questa concezione è riassunta nell’espressione homo homini lupus (“ogni uomo è lupo per l’altro uomo”), entrata nell’uso comune, alla quale ha dedi­ 19

cato particolare attenzione il filosofo Thomas Hobbes. In questa concezione filosofica ogni individuo è dominato dal bisogno di soddisfare i propri istinti e desideri; di conseguen­ za egli si scontra inevitabilmente con gli altri poiché questi, mossi dalle stesse esigenze, non possono che essergli nemici. Nella ricerca del cibo, così come di un partner sessuale, gli esseri umani lottano per soddisfare i propri desideri a danno degli altri, in una guerra continua di tutti contro tutti per la sopravvivenza, intesa non solo nel senso stretto del termine. Per quanto questo modo di considerare la socialità umana sia molto radicato nel senso comune, esso non è oggi sostenibile sul piano scientifico. Le scienze dell’uo­ mo hanno cominciato a occuparsi della socialità quan­ do si è passati, a partire dalla fine dell’Ottocento, dalla speculazione filosofica a uno studio sistematico, attento a usare metodi il più possibile oggettivi e a basare le proprie affermazioni su prove empiriche, in modo da ridurre le valutazioni soggettive. La nascente psicologia, nelle sue di­ verse correnti e focalizzazioni, ha cominciato allora a dare un contributo importante, che si è via via irrobustito nel tempo. Gli studi hanno progressivamente portato ad ab­ bandonare l’enfasi sugli aspetti oppositivi della socialità, come aggressione e competizione, a favore della scoperta di sempre più evidenti forme di socialità positiva, che svol­ gono un ruolo fondamentale nella sopravvivenza e nel be­ nessere sia degli individui che dei gruppi. Vediamo allora i passaggi essenziali di questa evoluzione storica. 2.2. La psicoanalisi: pulsione di vita e pulsione di morte Nei primi decenni del ventesimo secolo, l’attenzione de­ gli studiosi era focalizzata soprattutto sullo studio degli aspetti oppositivi della relazione sociale, in specifico del comportamento aggressivo, nelle sue diverse manifesta­ zioni. Dominava la scena la teorizzazione freudiana, che postulava, nella sua formulazione finale, l’esistenza di due ­20

pulsioni fondamentali: la pulsione di vita (eros) e la pulsio­ ne di morte (thanatos). Per meglio comprendere questa posizione, apriamo una piccola parentesi per ricordare che la pulsione è una forza costante e interna all’individuo, alla quale questi non si può sottrarre, che agisce innescando l’attività psichica e il comportamento. È diversa dall’istinto, perché quest’ul­ timo rappresenta una predeterminazione biologica a uno specifico comportamento, mentre la pulsione può trovare mete e oggetti diversi; si tratta di un processo dinamico di cerniera tra il biologico e lo psichico. Essa condivide con l’istinto la comune tendenza a spingere in modo obbliga­ to alla sua soddisfazione, attraverso azioni specifiche, che permettono di ridurre la tensione interna. Riguardo alla relazione sociale, in apparenza, la con­ cezione freudiana sembra dare uguale importanza alla socialità positiva e a quella negativa, dal momento che po­ stula un dualismo pulsionale. In realtà la bilancia pende su una valutazione negativa della socialità umana. Anzitutto si postula una pulsione distruttiva, che tende necessaria­ mente alla sua realizzazione. In quest’ottica l’aggressività non solo è inevitabile ma deve trovare necessariamente una valvola di sfogo, pena danni all’equilibrio psichico individuale e la manifestazione di forme ancora più gravi di violenza. È una concezione che tanta parte ha avuto nell’accettare e giustificare il comportamento aggressivo sia a livello individuale (in particolare nei bambini), sia a livello sociale (per esempio nell’attività sportiva). La pulsione di vita, dal canto suo, è di natura sessuale e tende anch’essa necessariamente al proprio soddisfacimen­ to. Di conseguenza, le relazioni affettive non sono il risultato di un bisogno sociale basilare dell’individuo, ma derivano dalla pulsione sessuale. In specifico, fin dalla nascita il bam­ bino si lega alla madre non primariamente, per un’esigenza affettiva, ma perché la mamma soddisfa la sua pulsione ero­ tica a livello orale, e anche i legami che la persona instaurerà in seguito saranno sempre derivati dalla pulsione sessuale. ­21

Inoltre, lungo tutto il ciclo dell’esistenza, la pulsione di vita non apre l’individuo alla socialità positiva e a una relazione gratuita, ma tende al contrario a trovare un egoistico soddi­ sfacimento, anche a scapito degli altri; essa infatti è sempre dominata dal principio del piacere. Ciò significa che non solo la sessualità tende alla propria soddisfazione, ma che anche i ­comportamenti sociali non sono motivati se non dal soddisfacimento dei propri impulsi e desideri, che sono in ultima istanza sessuali. In questa visione, comportamenti positivi come l’altruismo, nei quali una persona agisce non in modo egoista a favore di sé e del proprio interesse, bensì a favore degli altri, sono considerati forme difensive nei con­ fronti dell’ansia e dei conflitti. In altre parole, non ci si può genuinamente prendere cura degli altri dal momento che l’essere umano è essenzialmente egoistico, e se ciò avviene è segno di un qualche disagio psichico irrisolto. 2.3. I modelli energetici dell’aggressività La concezione psicoanalitica della pulsione è un esempio di modello energetico di funzionamento psichico, detto anche “psicoidraulico” o, in modo più irriverente, “della pentola a pressione”. In questo modello si postula che i comportamenti abbiano un andamento alternante: all’ac­ cumulo pulsionale corrisponde l’esigenza di trovare sfogo alla tensione, cioè di mettere in atto un comportamento aggressivo o sessuale. A questo momento di liberazione fa seguito una fase di quiescenza, fino a quando un nuovo accumulo porterà alla necessità di scaricare nuovamente la tensione. Il modello pulsionale si fonda a sua volta sui modelli meccanicistici tipici della fisica ottocentesca: esiste una forza o energia psichica che, in analogia al concetto di forza in fisica, spinge al comportamento e lo dirige in una certa direzione. Il modello non è specifico della psicoana­ lisi: anche alcuni etologi, in particolare nei primi decenni di sviluppo della disciplina, hanno ipotizzato un funziona­ ­22

mento di questo tipo. Oggi esso è superato, perché il con­ cetto di energia o forza psichica non trova corrispettivo nei processi neurali che stanno alla base del comportamento. Anche Konrad Lorenz ha fatto riferimento a un modello energetico, ritenendo che il comportamento aggressivo fos­ se necessario e inevitabile. La concezione di Lorenz rappre­ senta però un passo in avanti sulla strada del superamento di una visione unicamente negativa della socialità umana. Egli infatti ha dimostrato che il comportamento aggressivo svolge importanti funzioni adattive, in specifico per la difesa della prole, la selezione del partner sessuale, la difesa del territorio. Il comportamento aggressivo, definito per questo “il cosiddetto male”, non è il frutto di una tendenza innata alla distruzione, bensì uno strumento utile alla sopravviven­ za dell’individuo e del gruppo. Per questo esso deve essere controllato: per essere adattiva, infatti, l’aggressione deve realizzarsi in forme tali da escludere il più possibile il danno grave o la morte dei propri simili, che devono essere even­ ti rari. Per raggiungere questo scopo durante la filogenesi, cioè durante la storia evolutiva delle varie specie animali, si sono elaborate forme diverse di ritualizzazione del compor­ tamento aggressivo. La ritualizzazione è una parata in cui si mima un’aggressione in modo stereotipato, con un copione prestabilito, fatto di segnali espressivi esagerati. Molti di questi comportamenti sono degli infantilismi, cioè derivano dai moduli comportamentali con cui i neonati richiedono l’attenzione e il cibo ai genitori. Il combattimento ritualizzato porta così ad avere un vincente e un perdente senza spargimento di sangue. In realtà, la ritualizzazione non è infallibile nemmeno tra gli animali, dove l’uccisione e il danno ai congeneri non sono rari. Nonostante questi limiti, essa costituisce senz’altro negli animali un’importante forma di controllo dell’ag­ gressione, geneticamente predisposta. Nell’uomo, essere plastico e privo di rigide predeterminazioni al comporta­ mento, la ritualizzazione non è assente ma non è di certo l’unica o la più importante modalità di controllo del com­ ­23

portamento aggressivo. In particolare le specifiche capa­ cità cognitive dell’uomo non permettono di ridurre né il controllo dell’aggressività né, più in generale, la sua socia­ lità al solo comportamento ritualizzato. Basti pensare allo sport, dove le illusioni di poter incanalare l’aggressione nella tifoseria sportiva, agìta secondo regole cavalleresche, sono andate ben presto deluse, per i significati simbolici che l’appartenenza a un gruppo comporta. 2.4. L’apprendimento dei comportamenti aggressivi e della socialità positiva Gli studi dei teorici dell’apprendimento possono essere considerati per certi aspetti un esempio di quanto la so­ cialità negativa continuasse a polarizzare l’attenzione degli studiosi nel secolo scorso. Essi hanno infatti riguardato per molti anni prevalentemente il comportamento aggressivo, al più nelle forme socialmente accettate della competizione, come se i bambini non potessero fare altro che canalizzare in questo modo la loro propensione a dominare, ma non fossero in grado di cooperare o agire per il bene altrui. No­ nostante questa focalizzazione prevalente, gli studi sull’ap­ prendimento hanno nei fatti contribuito in modo decisivo a scardinare una concezione negativa della socialità umana, dominata dalla tendenza ineluttabile ad aggredire. Essi han­ no infatti dimostrato che il comportamento aggressivo non è il frutto necessario e inevitabile dell’istinto o della pulsione, ma che si può imparare. Decisive sono state le ricerche di Albert Bandura sull’influenza dei modelli aggressivi. Questi studi non solo hanno permesso di superare la convinzione che l’aggressività e la violenza sono inevitabili e anzi neces­ sarie, ma hanno anche aperto la strada a considerare quanto l’apprendimento può influire su tutte le altre caratteristiche della relazione sociale: se l’aggressività si può apprendere, anche la cooperazione e l’aiuto possono essere appresi. Socialità negativa e socialità positiva sono così state ­24

ricondotte ai processi d’apprendimento e l’attenzione è stata rivolta a identificare le situazioni che possono, lungo tutta la vita ma soprattutto nell’età evolutiva, favorire la comparsa e il mantenimento dell’uno o dell’altro tipo di socialità. Queste situazioni sono state ricercate nella sto­ ria dell’individuo, dando vita ad ampi filoni di studi sulla socializzazione in famiglia, a scuola e attraverso i mezzi di comunicazione di massa come la televisione. L’attenzione alle influenze ambientali ha poi avuto un importante so­ stegno dagli studi antropologici sulle diverse culture, che hanno dimostrato la grande varietà di modi di vita, sia de­ cisamente aggressivi sia pacifici e altruisti. Nonostante la loro positiva influenza nel superare una concezione obbligata del comportamento aggressivo e nello stimolare gli studi sulla socialità positiva, i model­ li dell’apprendimento sociale non hanno considerato la socialità come un’esigenza primaria della persona. Ciò in coerenza con una concezione che vedeva il comporta­ mento umano come il risultato unicamente delle influenze ambientali e considerava il bambino alla nascita una tabula rasa sulla quale solo l’ambiente lascia la sua impronta, in assenza di alcuna programmazione o predisposizione biologica. Questo modo di considerare lo sviluppo è stato sempre più messo in crisi nella seconda metà del secolo scorso, quando è risultato via via più chiaro che i bambini vengono alla luce con una serie di predisposizioni alla re­ lazione sociale e di preadattamenti che li rendono capaci di precoci comportamenti positivi nei confronti degli altri. Proprio perché la socialità non era ritenuta un bisogno primario, i teorici dell’apprendimento spiegavano il legame tra la madre e il bambino come il risultato della dipenden­ za dall’adulto e di una serie di rinforzi e condizionamenti ambientali, grazie al fatto che la madre risponde ai bisogni alimentari del bambino. Questa spiegazione considera il legame di attaccamento come derivato dall’alimentazio­ ne, e non come il frutto di un’esigenza primaria di contat­ to sociale. Se pure in modo ben diverso, date le premesse ­25

teoriche totalmente differenti, la spiegazione è analoga a quella psicoanalitica. In contrasto con quest’interpreta­ zione si venivano accumulando molte osservazioni, effet­ tuate sia sugli animali (come gli studi sull’imprinting) sia sui piccoli dell’uomo, che mostravano come la relazione di attaccamento non fosse spiegabile in termini di derivazione né dalla pulsione sessuale né dal gioco degli apprendimen­ ti ambientali. Queste conoscenze trovarono, alla fine degli anni Sessanta del Novecento, il loro punto di convergenza nel riconoscimento dell’attaccamento tra madre e bambino come espressione della socialità primaria dell’essere umano. 2.5. Il legame di attaccamento: la socialità positiva come fatto primario L’elaborazione della teoria dell’attaccamento da parte di John Bowlby segna una tappa fondamentale. Essa nasce dalla profonda insoddisfazione per i modelli – psicoana­ litico e dell’apprendimento – che spiegavano il legame tra il bambino e la madre. In specifico Bowlby, che era uno psicoanalista, si era sempre più reso conto, a mano a mano che studiava i bambini e il loro legame di profondo attacca­ mento con la madre, che questo non poteva essere spiegato in base al modello pulsionale. Secondo questo modello, il bambino si lega alla madre perché questa è la fonte della sua soddisfazione erotica, e i comportamenti di vicinanza alla madre sono messi in atto a seguito del bisogno di sca­ ricare l’energia psichica accumulata. La lunga esperienza con i piccoli aveva però insegnato a Bowlby che il legame con la madre è fortissimo e primario, e non presenta un andamento alternante, cioè non manifesta alcuna fase di quiescenza dopo essere stato attuato. Al contrario, i com­ portamenti caratteristici dell’attaccamento, come la ricerca della vicinanza, tendono a ripresentarsi e a rinforzarsi, se hanno portato a una risposta appagante. Queste osserva­ zioni convergevano con quelle degli etologi sul legame dei cuccioli con i genitori, che negli stessi anni criticavano sia i ­26

modelli energetici sia quelli dell’apprendimento. A questo riguardo, molto note sono le ricerche dei coniugi Harlow sulle scimmie, che mostravano la primarietà del bisogno di contatto e conforto rispetto a quello alimentare. Tutto questo ha portato Bowlby ad abbandonare la spiegazione psicoanalitica per considerare la relazione di attaccamento il frutto di un bisogno primario di relazione e di contatto sociale, indispensabile alla sopravvivenza del piccolo dell’uomo e indipendente dalla sessualità. L’attacca­ mento è quindi il risultato di un sistema di controllo a base innata, che ha lo scopo di mantenere una vicinanza ottimale con la madre, in relazione con la pericolosità dell’ambiente. Questa regolazione avviene attraverso precisi schemi com­ portamentali, che sono filogeneticamente programmati; essi compaiono nei primi mesi di vita e si organizzano a partire dal primo anno di vita verso una figura ben precisa e individualizzata (la mamma, ma anche gli altri familiari) che risponde in modo sensibile e adeguato alle esigenze di protezione del piccolo. Questi schemi comportamentali innati, presenti in tutti i piccoli della specie umana, sono: aggrapparsi, piangere, succhiare, seguire (prima con gli occhi e poi con il corpo), sorridere. Tutti hanno lo scopo di mantenere la prossimità e il contatto con la madre, e di conseguenza di assicurare la protezione del bambino. Se la madre è sensibile ai segnali del bambino e vi risponde in modo pronto e adeguato, si costruisce nel tempo un lega­ me d’affetto profondo, ben individuabile già nella seconda metà del primo anno. Il bambino vedrà nella madre la fonte della sua sicurezza, e la userà come base sicura da cui partire per esplorare il mondo circostante, pronto a ricercare la sua protezione in caso di pericolo. 2.6. Il primato della socialità positiva umana Bowlby non è stato certamente il primo autore a dare gran­ dissima importanza alla socialità umana. Tutti i principali ­27

Box 3 Sessualità e affetti Secondo gli etologi, lungo l’evoluzione filogenetica la sessualità non ha dato luogo alla formazione di legami individualizzati duraturi: benché sia una delle pulsioni più antiche, essa non ha portato alla creazione di legami stabili tra i partner, salvo raris­ sime eccezioni in alcune specie. I legami personali tra adulti de­ rivano invece, a livello filogenetico, dalla cura della prole, cioè dal rapporto tra genitori e figli, e sono tanto più stretti quanto più la specie è evoluta; essi sono massimi nella specie umana, che è quella con l’infanzia più lunga. Ciò significa che lungo la filogenesi sessualità e amore hanno seguito percorsi evolutivi differenti e che quest’ultimo non si radica nella sessualità. Gli studi neurofisiologici hanno confermato a questo riguardo che le strutture cerebrali che mediano il comportamento sessuale e quello di legame sono diverse, e sono comparse in tempi diffe­ renti lungo l’evoluzione della specie umana. Se i legami d’affetto tra gli adulti non derivano dalla ses­ sualità, e diverse sono anche le aree e i processi cerebrali coin­ volti, che rapporto vi è allora negli esseri umani tra sessualità e legame? La risposta degli etologi e degli evoluzionisti è che l’amore si serve della sessualità per un rafforzamento secondario del legame di coppia. In altri termini, la natura ci ha predisposti alla costruzione di duraturi rapporti affettivi, che derivano dalla relazione tra genitori e figli, e considera il loro mantenimento talmente importante per il successo riproduttivo da usare la ses­ sualità non solo per la procreazione, come in tutte le altre specie, ma anche per rinforzare questi rapporti. Infatti una relazione affettiva esclusiva e duratura tra i genitori garantisce ai piccoli dell’uomo, che hanno un’infanzia lunghissima, di essere accu­ diti per molti anni sia dal padre che dalla madre, in modo da sopravvivere e svilupparsi in modo adeguato fino alla maturità. Il legame di attaccamento tra i genitori svolge quindi una funzione biologica essenziale nel successo riproduttivo, e uti­

esponenti della psicologia dello sviluppo del Novecento hanno sottolineato la natura sociale dell’essere umano, e l’hanno studiato riguardo sia alle relazioni con i propri simili sia allo stesso sviluppo cognitivo. Pensiamo a Lev S. ­28

lizza la sessualità per rinforzare il legame stesso. La “iperses­ sualizzazione” della specie umana è la conseguenza del ruolo assunto dal sesso nel consolidare l’unione dei partner. Nella nostra specie, infatti, la sessualità è per molti aspetti sovrab­ bondante e non unicamente deputata alla procreazione: per esempio, non esiste un periodo specifico di estro per la donna, ma essa è sempre sessualmente ricettiva, e il momento dell’o­ vulazione non è identificabile in base a segni esterni ben visi­ bili. Inoltre, gli studi neurofisiologici mostrano che l’attività sessuale comporta modificazioni ormonali e biochimiche nel cervello che favoriscono la sensazione di benessere e il deside­ rio di vicinanza, rafforzando quindi il legame. D’altro canto, la capacità di stabilire legami affettivi pro­ fondi permette di costruire relazioni durature che non sono accompagnate da alcuna relazione sessuale. Queste possono riguardare molti altri individui, primi fra tutti gli altri coetanei con cui si è cresciuti in seno allo stesso nucleo familiare. A questo proposito gli etologi ritengono che il tabù dell’incesto non sia solo di origine culturale, ma derivi proprio dai legami di attaccamento che si costruiscono con i fratelli all’interno della stessa famiglia. Inoltre gli esseri umani sono capaci di stabilire con gli altri, sia del proprio sesso che di sesso diverso, relazioni di amicizia che possono avere grandissima profondi­ tà e durata, tanto da persistere per tutta la vita. Su un piano più astratto, i legami di attaccamento possono ampliarsi grazie alle caratteristiche di pensiero specifiche dell’essere umano, che permettono di andare oltre la concretezza immediata delle situazioni vissute. Si possono così stabilire legami con persone cui si è accomunati da vincoli di parentela, contiguità fisica, comunanza ideologica o religiosa, e così via. In questo modo si passa dall’attaccamento alle persone della propria famiglia a quello verso i componenti del clan, villaggio o paese. In modo ancora più astratto, l’attaccamento si può estendere, oltre le persone, all’idea stessa di famiglia, chiesa o patria.

Vygotskij, per il quale i processi psichici superiori hanno una natura sociale, e il loro sviluppo avviene grazie agli strumenti che l’umanità ha elaborato nel corso della pro­ pria evoluzione culturale. Anche Jean Piaget, per il quale ­29

l’intelligenza è la forma più alta di adattamento biologico e lo sviluppo cognitivo è un processo di autorganizzazione legato alla maturazione neurofisiologica, ha sottolineato l’importanza del confronto con gli altri bambini e della coo­perazione. Sempre fin dai primi decenni del Novecen­ to la psicologia sociale, che ha come oggetto di studio spe­ cifico la relazione tra processi psicologici individuali e di­ namiche sociali, ha elaborato modelli interpretativi fecon­ di e ha fornito importanti contributi empirici. Ricordiamo in particolare George Mead, per il quale la mente umana, strumento fondamentale di adattamento, è essenzialmente un prodotto sociale, e Kurt Lewin, che ha concettualizzato il rapporto dinamico tra individuo, ambiente e società. Si può quindi affermare che il merito di Bowlby è stato quello di aver saputo fare tesoro della grande massa di studi psicologici ed etologici che erano ormai disponibili. La sua teorizzazione rappresenta un punto di svolta fon­ damentale perché non si limita ad affermare l’importanza della socialità umana e a considerare i rapporti tra svilup­ po cognitivo e relazione sociale. La rilevanza delle sue sco­ perte, ampiamente confermate dagli studiosi nei decenni seguenti, sta nell’aver identificato fin dall’inizio della vita una socialità primaria, indipendente dalla sessualità, filo­ geneticamente programmata e regolata secondo modelli cibernetici e non energetici. Bowlby ha in questo modo dimostrato che l’essere umano è predisposto fin dall’inizio della vita a ricercare e stabilire legami sociali positivi, cioè relazioni affettive profonde e durature, indipendentemen­ te da qualunque altro motivo che non sia il bisogno stesso di rapporto. In altre parole, l’essere umano ha la tendenza fondamentale a stabilire rapporti positivi con i propri si­ mili, non subordinati ad altri bisogni. È così cambiato in modo profondo il modo di consi­ derare il rapporto tra sessualità e socialità positiva, e in specifico tra sessualità e affetti (v. box 3). Sulla base sia della teoria dell’attaccamento sia degli studi etologici, cor­ roborati da quelli evoluzionistici e neurofisiologici, gli stu­ ­30

diosi sono arrivati ad affermare che i legami affettivi non derivano dalla sessualità: secondo la formulazione incisiva di René Zazzo, noto psicologo francese dell’età evolutiva, “l’amore non deriva dal sesso”. Sia sul piano filogenetico che nel corso dello sviluppo individuale, i legami d’affetto tra gli adulti sono il punto di arrivo di uno sviluppo che ha alla sua origine il rapporto tra genitori e figli e i profondi vincoli che tra essi si stabiliscono.

3.

I geni altruisti

3.1. Le predisposizioni biologiche alla socialità positiva Affermare che l’essere umano è predisposto dalla biologia a stabilire con i propri simili legami d’affetto indipendenti dalla sessualità significa riconoscere che la socialità po­ sitiva è parte essenziale dell’umanità. Si badi bene: non la socialità in genere, ma proprio la capacità di entrare positivamente in rapporto con gli altri, con modalità che non sono regolate solo dal desiderio di sopraffazione o di realizzazione del proprio egocentrico desiderio, anzitutto sessuale. Queste modalità di relazione sono funzionali alla sopravvivenza e per questo fanno parte del nostro baga­ glio filogenetico. Esamineremo in questo capitolo le predisposizioni biologiche che rendono possibile nella specie umana le relazioni positive con gli altri e favoriscono in specifico i comportamenti altruistici. Il titolo del capitolo non va ov­ viamente preso alla lettera, perché non di geni altruisti in senso stretto si tratta ma di predisposizioni genetiche alla socialità positiva, dal momento che non esiste una corri­ spondenza univoca tra un gene e un comportamento, co­ me abbiamo visto nel capitolo 1. Dedicheremo particolare attenzione a queste disposizioni per mostrare che la biolo­ 32

gia ci predispone a stabilire con gli altri rapporti positivi e che non siamo condannati da essa all’egoismo e alla so­ praffazione. Al contrario, siamo orientati verso il contatto, la condivisione, la compassione, il riconoscimento della comune umanità, l’identificazione degli altri come simili a noi. La socialità positiva umana, insomma, non è soltanto il frutto dell’influenza culturale, e molte evidenze si sono accumulate negli ultimi decenni a favore delle sue basi ge­ netiche; per questo possiamo parlare, in senso generale, di geni altruisti, vale a dire di un patrimonio genetico che ci predispone alla socialità positiva. Le disposizioni utili a entrare in rapporto positivo, come abbiamo anticipato, si sono sviluppate e trasmesse nel corso della filogenesi perché sono indispensabili per la sopravvivenza dell’individuo, che non può crescere e vivere se non grazie a buone relazioni con gli altri, sia nel gruppo familiare, sia in quello più allargato, fatto anche di estranei. Infatti tali disposizioni riguardano non solo le persone a noi conosciute, ma tutti gli esseri umani in quanto tali. Abbiamo già visto che il neonato non può so­ pravvivere da solo, ma soltanto se c’è un’altra persona che si occupa amorevolmente di lui e a cui egli si lega. Questo vale sia per la sua sopravvivenza fisica, impossibile senza le figure di attaccamento nella lunga infanzia umana, sia per il suo sviluppo psicologico; infatti lo sviluppo cognitivo del bambino, oltre a quello affettivo e sociale, passa attra­ verso il legame con gli adulti, prima fra tutti la madre. Ma anche in età adulta la capacità di stabilire legami e rapporti positivi con i propri simili è indispensabile per mantenere nel gruppo relazioni pacifiche e armoniche, senza le quali gli individui non riuscirebbero a sopravvivere e non sa­ rebbero in grado di far fronte ai pericoli esterni in modo adeguato. Come vedremo, molte di queste disposizioni biologi­ che nascono, nel corso della filogenesi, dalla relazione tra genitore e figlio, così cruciale per la sopravvivenza indivi­ duale e della specie. È da essa che deriva la capacità adulta ­33

di stabilire legami duraturi, ed è sempre da essa che deri­ vano quelle modalità di entrare in rapporto con gli altri, conosciuti o sconosciuti che siano, che permettono agli esseri umani di condividere e interagire in modo positivo. Le disposizioni biologiche alla socialità positiva so­ no caratteristiche o moduli comportamentali universali, cioè presenti in tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla cultura e dall’etnia, che compaiono prestissimo nel corso dello sviluppo e per questo non sono riconducibili al­l’apprendimento. Considereremo in particolare i segna­ li che inibiscono l’aggressione e favoriscono l’aiuto, e le capacità che permettono agli esseri umani di riconoscere immediatamente l’umanità dei propri simili e di rispec­ chiarsi in essa. 3.2. I segnali infantili Racconta Adrian Pracon, sopravvissuto alla strage del luglio 2011 nell’isola norvegese di Utoya: “Io mi finge­ vo morto... Ma mentre giacevo là, mi si è avvicinato un bambino di undici anni e mi ha detto che un tale gli aveva ucciso il papà. Sentendolo parlare, Breivik è tornato sui suoi passi e gli ha puntato contro il mitra. Allora il bam­ bino ha gridato, singhiozzando: ‘Non ti sembra di averne uccisi già abbastanza? Hai ammazzato mio padre e allora risparmia almeno me che sono soltanto un bambino. Non sparare ai bambini’. E in quel momento il gelido Breivik deve aver vacillato per un attimo davanti a quel ragazzino disperato, perché si è allontanato mentre io non credevo ai miei occhi. È stata una scena meravigliosa. [...] Avevo assistito a un miracolo” (Francesco S. Alonzo, «La Stam­ pa», 26 luglio 2011, p. 3). A che cosa era dovuto il miracolo? Si può ritenere che non siano state soltanto le parole a far decidere al freddo sterminatore, in una frazione di secondo, di non premere il grilletto e di andarsene altrove, per non sentire e soprat­ ­34

tutto per non vedere. Il bambino infatti aveva rafforzato con le parole ciò che i suoi tratti somatici ancora infanti­ li dicevano in quel momento in modo molto chiaro: ai bambini non si fa del male, ma anzi li si deve s­ occorrere. Sono questi imperativi che gli esseri umani si portano ­dietro dall’evoluzione filogenetica, anche se, come tutte le predi­sposizioni umane, possono essere disattesi. Sono le caratteristiche stesse del corpo dei piccoli ad avere, anche nell’uomo, una chiara funzione segnaletica. L’esistenza di caratteristiche fisiche tali da suscitare attenzione, conforto e aiuto è considerata un’astuzia dell’evoluzione non solo per impedire che i piccoli subiscano aggressioni, ma per garantire che gli adulti se ne prendano cura. Non solo i neonati non possono sopravvivere se non vengono accu­ diti con continuità e affetto per lungo tempo, ma anche in seguito, per molti anni ancora, i bambini necessitano della presenza di adulti che si occupino di essi in modo stabile e responsivo. L’infanzia umana è la più lunga nel regno animale, a causa della complessità delle capacità co­ gnitive dell’uomo e del lungo periodo necessario, dopo la nascita, per il loro pieno sviluppo. Durante questo perio­ do, che dura fino alla pubertà, i piccoli dell’uomo presen­ tano caratteristiche particolari che non solo segnalano la loro condizione di immaturità sessuale, ma che suscitano in modo automatico – anche se non infallibile, a causa della plasticità umana – reazioni di attenzione, soccorso, conforto. Questi segnali infantili, presenti anche negli altri mammiferi, includono: testa arrotondata e molto grande in proporzione al corpo, occhi grandi, fronte alta e bom­ bata, guance paffute, arti corti, corpo tozzo, superficie corporea soffice, voce “bianca”. Questi tratti sono molto sfruttati dalla pubblicità, dai fumetti e dai cartoni animati per dare maggiore at­ trattiva ai loro personaggi. Ugualmente, è assai comune che i bambini vengano usati dai politici per accattivarsi le simpatie del pubblico, ammorbidire la loro immagine di personaggi potenti, e inviare un messaggio di rassicu­ ­35

razione, presentandosi come difensori dei deboli. Anche le campagne di reperimento dei fondi delle associazioni umanitarie utilizzano sovente immagini infantili, proprio allo scopo di coinvolgere in modo diretto l’osservatore e provocare così reazioni di soccorso e di aiuto nei con­ fronti di popoli lontani e quasi sconosciuti. Purtroppo questa predisposizione può essere allo stesso tempo ini­ bita e sfruttata a scopi disonesti; è quanto avviene con i mendicanti di mestiere, che maltrattano i piccoli e li usa­ no come esca per suscitare tenerezza e aumentare così i loro introiti. Si può ritenere che anche i terroristi che nel settembre 2004 sequestrarono i bambini di Beslan, nel loro primo giorno di scuola, abbiano bloccato la loro tendenza a proteggere i bambini con lo scopo di usare le piccole vittime per costringere il governo russo a cedere alle loro richieste. Questi esempi mostrano come negli esseri umani le disposizioni biologiche non agiscono mai in modo automatico e possono essere superate dall’aber­ razione morale e dal fanatismo ideologico. 3.3. Dalle cure parentali ai legami tra adulti I moduli comportamentali caratteristici della socialità positiva adulta derivano sul piano filogenetico dalla re­ lazione tra il piccolo e la madre, e più in generale tra il piccolo e chi si prende cura di lui. Come abbiamo visto nel capitolo 2, tutti i neonati appartenenti alla specie uma­ na presentano degli schemi comportamentali innati, che hanno lo scopo di mantenere il contatto con la madre, vitale per la protezione del bambino e la sua sopravvivenza (suzione, aggrappamento, pianto, sorriso, contatto visivo e fisico per mantenere la vicinanza). Su questa base, i mo­ duli espressivi e comportamentali che mediano la socialità positiva tra adulti sono anch’essi simili in tutte le culture e ripropongono, in forme a volte del tutto uguali a volte modificate, i canoni espressivi e comportamentali che so­ ­36

no caratteristici della relazione tra il bambino e le figure di attaccamento. Essi sono usati tra gli adulti sia per suscitare negli altri reazioni positive di legame, conforto o aiuto, sia per rispondere a chi è riconosciuto come bisognoso di consolazione e soccorso. Esamineremo nelle pagine se­ guenti i più importanti. La ricerca di contatto e di legame Irenäus Eibl-Eisfeldt ha mostrato fin dagli anni Settanta del secolo scorso come i moduli comportamentali che, tra gli esseri umani, mediano la relazione affettiva, amicale o di aiuto con i propri simili siano derivati dalla relazione tra il piccolo e la madre, di cui rappresentano una for­ ma semplificata e ritualizzata. A livello biochimico, studi più recenti suggeriscono che essi sarebbero mediati dalla produzione nel cervello di endorfine e di ormoni come l’ossitocina. Nonostante la grandissima variabilità cultu­ rale delle situazioni in cui questi moduli sono stati inseriti dalla tradizione, è possibile rintracciare la loro similarità e comune origine filogenetica in tutte le culture. Questa derivazione è in continuità con quanto avviene in specie animali anche da noi lontane sul piano evolutivo, come gli uccelli, dove molti riti di legame e di corteggiamento ripropongono i cosiddetti “infantilismi”, vale a dire com­ portamenti caratteristici dei piccoli (pigolare, mendicare il cibo) e atti a suscitare la cura sollecita del partner, come se questi fosse un genitore. A livello umano, il sorriso è tra i più importanti stru­ menti per entrare in contatto e in relazione benevola con gli altri. Nonostante le grandi differenze che nelle varie culture regolano l’espressione emotiva, il sorriso è uni­ versalmente considerato uno strumento per acquietare gli altri e stabilire con essi una relazione amichevole, e a tale scopo viene usato. Il sorriso è universale nei neonati di tutte le culture, dove compare precocemente in risposta alla voce materna e soprattutto al volto umano (appro­ fondiremo tra poco questo aspetto). Esso non è frutto di ­37

apprendimento, come mostra il fatto che anche i bambini ciechi e sordi dalla nascita sorridono, se pure più tardiva­ mente. Come Bowlby ha evidenziato, la capacità di sorri­ dere ha una base filogenetica funzionale alla relazione tra il bambino e la madre. Per quest’ultima, esso è un potente segnale che suscita forti reazioni positive che favoriscono l’accudimento e la relazione; questo effetto si estende agli altri adulti, anche estranei: nessuno, nemmeno la persona più indifferente, riesce a resistere al sorriso di un neonato senza rispondere con sorrisi e moine. Un’altra modalità caratteristica della relazione con la madre, e poi passata a mediare le relazioni con gli altri, è la vicinanza fisica. Nel neonato la ricerca del contatto è veicolata fin dalla nascita dal riflesso di aggrappamento (grasping). Anche nell’adulto i rapporti significativi con gli altri – d’affetto e d’amicizia – sono mediati dalla vicinanza fisica, realizzata in forme diverse a seconda della cultura e della situazione. Si va da comportamenti in cui il contatto è ampio e può essere prolungato, come l’abbraccio o le ca­ rezze, ad altri in cui il contatto è più ridotto e breve, a volte appena accennato, come mettere la mano sul braccio, il capo o la spalla, o toccarsi e stringersi le mani. Questa vicinanza è mantenuta, nel bambino così come tra gli adulti, anche dal contatto oculare, che permette di stabilire una relazione rassicurante anche a distanza. Poi­ ché lo sguardo può esprimere anche intenzioni aggressive (come indicano le espressioni “sguardo di sfida” e “non abbassare lo sguardo”), nella ricerca di vicinanza il contat­ to oculare è in genere accompagnato da altre espressioni positive, come il sorriso, o da atteggiamenti di sottomis­ sione, come la testa lievemente inclinata di lato. Sempre il sopravvissuto alla strage di Utoya racconta: “Giunto alla riva, mi sono trovato faccia a faccia con Breivik. L’ho guar­ dato negli occhi, implorando che non mi uccidesse. Egli mi ha voltato le spalle e se n’è andato”. Anche il pianto è un potente richiamo all’aiuto e alla sollecitudine altrui, passato dalla relazione tra il piccolo e ­38

la madre ai rapporti tra adulti. Le regole culturali che di­ sciplinano questa modalità espressiva sono molto diverse tra le culture, e anche al loro interno esse possono essere diversificate: basti pensare, in alcune culture, alla censu­ ra molto maggiore, in alcuni casi totale, del pianto negli uomini adulti rispetto alle donne. Ciò nonostante, anche quando le regole sociali considerano il pianto sconvenien­ te, esso è universalmente riconosciuto come un segno di disagio e di sofferenza, e come tale può facilmente mobili­ tare atteggiamenti e comportamenti positivi. Il bacio Tra i gesti usati in età adulta per stabilire un legame, anche il bacio, sia linguale che labiale, ha origine nella relazione tra il piccolo e la madre. Il bacio linguale, in specifico, è derivato da operazioni alimentari legate allo svezzamen­ to, come dimostra la pratica ancora abbastanza diffusa in differenti culture di nutrire i piccoli bocca a bocca. Le os­ servazioni sui neonati confermano che essi non presentano soltanto il riflesso di suzione, necessario per l’allattamento al seno, ma risultano adattati anche a protendere le labbra e a prendere il cibo con la lingua. Questa forma di alimen­ tazione è frequente tra le scimmie antropomorfe, dove tra gli adulti può diventare ritualizzata ed essere usata come gesto di amicizia. Negli esseri umani il bacio linguale è usato nelle relazioni di affetto e di amicizia; esso, infatti, contrariamente a quanto ritengono molti occidentali, non è specifico della relazione sessuale, ma si presenta in alcu­ ne culture anche in altri rapporti d’affetto. Nella nostra cultura effettivamente il bacio linguale accompagna molto sovente la relazione sessuale, ma solo quando questa non si limita a un rapporto unicamente fisico e comporta anche un coinvolgimento psicologico; per questo esso è evitato dalle professioniste del sesso. Molto più diffuso è il bacio labiale, comune in tutte le relazioni, sia d’affetto che d’amicizia; esso rappresen­ ta una semplificazione ritualizzata del bacio linguale, al ­39

punto da essere molto sovente appena accennato. Con la ridondanza che caratterizza tutti i gesti ritualizzati, il bacio viene ripetuto perlopiù sulle due guance, mentre in alcune culture i baci devono essere tre. Questo tipo di bacio è usato quasi universalmente per sancire rapporti di affetto e amicizia. I comportamenti di conforto, accoglienza e partecipazione Sono molte le posture e gli atteggiamenti che dalla relazio­ ne tra il piccolo e la madre sono passate a indicare, nell’età adulta e nelle relazioni con le persone sia conosciute che sconosciute, una richiesta o una risposta di consolazione, conforto, acquietamento, o comunque un atteggiamento positivo di partecipazione. È il caso, per esempio, di tutte le posture che comportano un esteso contatto fisico, come l’abbraccio, oppure un contatto appena accennato, come la mano sul capo o su un braccio, o una fugace carezza. Nei momenti di lutto, per esempio, le persone si abbracciano e si confortano con il contatto fisico; anche nella pratica sanitaria è comune che gli infermieri mettano una mano sulla spalla o sul braccio per tranquillizzare un paziente che sta facendo un esame particolarmente doloroso o per il quale manifesta paura. In generale, tutti i moduli comportamentali identificati da Bowlby come mediatori dell’attaccamento tra il bam­ bino e la madre si ritrovano nelle relazioni di conforto tra adulti: il pianto come ricerca di soccorso, il sorriso per ras­ sicurare, il contatto oculare per indicare interessamento. Anche l’aggrappamento è usato nelle situazioni di perico­ lo alla ricerca della protezione e per mantenere una stretta vicinanza fisica. In alcune culture vi è addirittura, o forse vi era, vista l’omologazione culturale in atto, l’uso di una breve suzione del seno di una donna anziana o influente come gesto di pacificazione e accoglienza.

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3.4. Il riconoscimento del volto Il sorriso non è soltanto nel neonato un segnale funzionale alla relazione con la madre e gli adulti in genere, perché capace di suscitare forti reazioni positive di attenzione e di accudimento. Esso è anche la prima chiara risposta con cui il bambino mostra di riconoscere il volto umano: questo riconoscimento è molto precoce e fonte di intenso piacere. Già circa sessant’anni fa lo psicologo infantile René Spitz aveva dimostrato che i neonati, a partire dai due mesi cir­ ca, e in modo evidente intorno ai tre mesi, riconoscono il volto umano e vi rispondono con il sorriso e altre espres­ sioni di contentezza, come sgambettare e vocalizzare. A essere precisi, la loro risposta di piacere non è suscitata da tutto il volto, ma da una sua parte, e in specifico da una “forma privilegiata” o forma-segnale, costituita da occhi, naso e fronte, il tutto in movimento. I piccoli non reagi­ scono solo al volto della madre (alla quale risponderan­ no selettivamente soltanto verso la fine del primo anno), ma a qualunque volto, anche sconosciuto o bruttissimo, e perfino a una maschera, purché queste forme si presen­ tino di fronte e abbiano le caratteristiche indicate. Spitz ha dimostrato che il volto presentato di profilo non viene invece riconosciuto e non suscita una risposta positiva; al contrario, provoca evitamento e segni di disagio. Il precocissimo riconoscimento della configurazione di base del volto, nella quale gli occhi sono un elemento cru­ ciale per mobilità e contrasto, non è spiegabile unicamente in termini di apprendimento, per quanto venga favorito dall’esperienza che il bambino fa fin dalla nascita, quando vede di fronte a sé questa configurazione durante l’allat­ tamento e le cure da parte della madre. La precocità della risposta e la sua universalità (ricordiamo che anche i bam­ bini ciechi e sordi sorridono) rimandano a una predispo­ sizione biologica nel riconoscimento del volto umano, cioè nel riconoscimento degli altri come nostri simili. Il fatto che il primo stimolo a cui tutti i neonati rispondono sia di ­41

tipo sociale indica che gli esseri umani sono predisposti a riconoscere gli altri e a rispondere a questo riconosci­ mento con intenso piacere; questa connotazione emotiva positiva si manterrà, come abbiamo appena visto, anche nelle età seguenti, quando il sorriso inibirà gli atti aggres­ sivi e promuoverà i rapporti positivi. Si può affermare che il sorriso al volto è il primo segnale di riconoscimento degli altri come esseri umani: l’identificazione degli altri come simili a sé trova qui la sua prima espressione. 3.5. Entrare in sintonia con gli altri Oltre a essere dotati di predisposizioni alla socialità positi­ va che derivano, sul piano filogenetico, dalla relazione tra i genitori e i piccoli, tutti gli esseri umani, indipendente­ mente dalla cultura, sono dotati anche di capacità che permettono di entrare in immediata sintonia con i propri simili. Anch’esse hanno un’origine biologica e se ne stanno gradualmente identificando i meccanismi neurofisiologici e le aree cerebrali coinvolte. Queste capacità consentono di stabilire in modo immediato e riflesso un contatto tra le per­ sone, innanzitutto tra il neonato e la madre, e poi, nelle età seguenti, tra i componenti della coppia o del gruppo. È vero che queste capacità non portano sempre necessariamente a conseguenze positive e a interazioni sociali a favore degli altri: come vedremo, si possono imitare i comportamenti aggressivi e si può essere contagiati dall’ira. Ciò nonostan­ te, queste capacità sono dei potenti strumenti per mettere in sintonia le persone e testimoniano della predisposizione umana a stabilire con facilità e immediatezza interazioni con gli altri, con le loro emozioni, intenzioni e vissuti. In que­ sto modo esse favoriscono comportamenti sincroni e coesi all’interno del piccolo gruppo di appartenenza. Si tratta in­ fatti di modalità che sono funzionali soprattutto all’interno della coppia (nella relazione sia tra adulti e bambini sia tra adulti) e del gruppo (famiglia, clan, tribù), talvolta in op­ ­42

posizione all’esterno. L’esistenza di queste predisposizioni conferma ancora una volta la profonda socialità degli esseri umani, per i quali è vitale entrare immediatamente in sinto­ nia con gli altri componenti del gruppo. L’imitazione L’interazione con i nostri simili si basa su una tendenza la cui attuazione è permessa, su base innata, da specifiche strutture del nostro cervello: quella a imitare gli altri, rico­ noscendo che si tratta di un’azione umana e riproducendo in modo automatico i loro movimenti e la loro mimica. L’imitazione è determinante per la socialità perché stabi­ lisce una comunanza di azioni che sono essenziali per la relazione sociale e per la coesione dei gruppi umani. Ciò non significa certo che l’imitazione riguardi soltanto com­ portamenti positivi o a favore degli altri: si possono imitare i gesti di aiuto così come il comportamento aggressivo. Spesso l’imitazione reciproca degli atti aggressivi serve per aumentare la coesione del gruppo e la sua mobilitazione contro un nemico esterno. Ma ciò che è importante sotto­ lineare è il ruolo determinante dell’imitazione nel fondare il rapporto con gli altri; essa infatti stabilisce fin dall’inizio della vita un solido ponte tra noi e le altre persone, fatto di reciproco rispecchiamento. La tendenza a imitare è precocissima, universale e im­mediata; essa comporta la riproduzione di numerosi e complessi movimenti, gesti, mimiche e azioni tra loro coor­dinati. Per tutti questi motivi essa non può essere spiegata con l’apprendimento. Come gli studi di psicolo­ gia infantile hanno mostrato, i neonati di due settimane sono in grado di imitare le smorfie di un adulto di fronte a loro, per esempio la protrusione della lingua. La capa­ cità imitativa è fondata, nel nostro cervello, sui neuronispecchio, presenti in alcune parti della corteccia, che si attivano “a specchio” quando osserviamo i movimenti, i gesti e la mimica di un’altra persona, ma non di un og­ getto. Questi neuroni, di cui è stata dimostrata l’esistenza ­43

dapprima nei primati e poi nell’essere umano, si attivano come se il bambino, o l’adulto, stesse facendo il gesto che invece sta solo osservando, e spingono poi all’imitazione motoria vera e propria. I neuroni-specchio fondano quin­ di la tendenza innata all’imitazione motoria (o mimicry): le azioni degli altri hanno una risonanza immediata dentro di noi, che inconsapevolmente le ripetiamo. Poiché in un’interazione sociale – sia tra un piccolo e un adulto che tra adulti – la tendenza a imitare è presente in entrambi gli attori, ne risulta un’imitazione reciproca, che dà luogo a una specie di balletto, in cui ognuno si specchia nell’altro e lo imita. In questo modo la coesione e la sintonia emotiva aumentano, in un crescendo di coin­ volgimento motorio ed emotivo, dal momento che molti dei gesti imitati esprimono emozioni. Basta osservare uno scambio tra il neonato e la madre, o tra due innamorati, per rendersene conto; ma anche molte interazioni della quo­ tidiana vita sociale, se pur emotivamente meno c­ ari­che, hanno queste caratteristiche, come ben sanno gli esperti venditori che sfruttano consapevolmente a loro favore la reciproca imitazione. La tendenza all’imitazione motoria dei propri simili è alla base dell’identificazione con l’altro, processo psicolo­ gico che accompagna gli esseri umani per tutta la loro esi­ stenza; esso coinvolge numerosi meccanismi di tipo affet­ tivo e cognitivo e riguarda, in modo più profondo, anche l’immedesimazione nei sentimenti, atteggiamenti e valori. Il contagio emotivo La tendenza innata a imitare in modo immediato e au­ tomatico riguarda in primo luogo le espressioni emotive, cioè la mimica e i gesti che rendono visibile a un osserva­ tore esterno lo stato emotivo di una persona. I moduli di base che esprimono ciascuna delle emozioni fondamentali (paura, rabbia, tristezza, gioia, a cui alcuni aggiungono sor­ presa e disgusto) sono sostanzialmente gli stessi in tutte le culture, anche se possono essere sottoposti a livelli diversi ­44

di regolazione e censura dalle differenti norme sociali. At­ traverso l’imitazione immediata di un modulo espressivo altrui, l’essere umano “simula” automaticamente dentro di sé le emozioni altrui e le fa inconsapevolmente proprie: l’imitazione infatti provoca contagio emotivo perché attiva in chi imita la stessa emozione. La tendenza al contagio emotivo si spiega con l’utilità di fare proprie in modo riflesso le emozioni degli altri per favorire la coesione nel gruppo e far fronte rapidamente ai pericoli. Già Charles Darwin, circa centocinquant’an­ ni fa, aveva sottolineato la natura sociale dell’emozione, capace di segnalare in modo immediato agli altri compo­ nenti del gruppo il proprio stato emotivo (per esempio la paura), in modo da provocare la rapida sintonizzazione di tutto il gruppo su questa stessa emozione, per reagir­ vi di conseguenza (per esempio con la fuga). Il contagio emotivo si propaga anzitutto grazie alla ricca espressività ­emotiva, che agisce da segnale per gli altri. Ciò significa, per ­esempio, che l’espressività della paura non serve sol­ tanto a preparare il corpo dell’individuo alla difesa, attra­ verso l’immobilità oppure la fuga, ma serve anche a co­ municare agli altri un pericolo imminente e a farli reagire in modo automatico. Entra poi in gioco la tendenza, pre­ sente anche nel bagaglio filogenetico dell’uomo, a reagire ai segnali espressivi dei propri simili in modo imitativo, riflesso, automatico e involontario: l’espressione emotiva e la gestualità di un’altra persona vengono automaticamente imitate, provocando un’attivazione emotiva congruente a quella della persona osservata. È la tendenza automatica all’imitazione mimetica delle espressioni e delle posture al­ trui a provocare come effetto l’attivazione, in chi osserva, dell’emozione corrispondente a quella osservata. Il contagio avviene indipendentemente d ­ all’accesso al­ l’emozione dell’altro, e dalla sua discriminazione e com­ prensione; esso si realizza attraverso l’imitazione di espres­ sioni e posture che provocano a loro volta l’attivazione fi­ siologica. Il contagio costituisce la forma filogeneticamente ­45

più antica di condivisione delle emozioni dei propri simili, presente sia negli animali sia nell’uomo. Nel contagio l’e­ mozione di un individuo si trasmette a un osservatore che automaticamente risponde anch’egli con la stessa emozio­ ne. Così un grido di paura suscita paura, il pianto provoca tristezza e pianto (come è documentato negli esseri umani fin dai primi mesi di vita), il riso suscita allegria. Il contagio è stato anche definito mimetismo affettivo o mimesi; esso è riscontrabile nelle situazioni sia di coppia che di gruppo, e in particolare nei riti, nei quali esso provoca vere e proprie “comunioni sociali” favorite dal canto e dal ritmo. È quan­ to avviene durante una festa, un ballo, un concerto rock, ma anche una celebrazione religiosa. Riguardo al comportamento aggressivo, va notato che il dilagare del contagio, soprattutto nelle situazioni di gruppo e di folla, porta a compiere azioni violente che l’individuo da solo non attuerebbe. È quanto avviene sovente negli sta­ di, durante una manifestazione, negli atti di vandalismo, nel linciaggio, ma anche nella scuola quando un ragazzo è preso di mira da un gruppo di bulli. In questi casi non vi è spazio per la condivisione del dolore della vittima, perché prevale l’eccitazione emotiva aggressiva, di tipo riflesso. 3.6. Il riconoscimento dell’umanità altrui “Non sono uomini, questi?”, chiedeva retoricamente in un suo famoso sermone, cinque secoli fa, nel 1511, il fra­ te domenicano Antonio de Montesinos, denunciando lo stato di servitù “crudele e terribile” in cui i conquistatori spagnoli tenevano gli indios nell’isola di Hispaniola (l’at­ tuale Santo Domingo-Haiti), considerandoli esseri inferio­ ri; a questo atteggiamento egli contrapponeva la naturale evidenza della umanità degli indios. Le predisposizioni genetiche che abbiamo visto in que­ sto capitolo indicano che la consapevolezza dell’umanità altrui ha solide basi: siamo portati a riconoscere nell’altro ­46

un essere umano simile a noi, che condivide la nostra stes­ sa umanità, diverso sia dagli oggetti sia dagli altri anima­ li, con il quale intrattenere di conseguenza una relazione speciale. Questo riconoscimento fonda le interazioni con i nostri simili e favorisce la socialità positiva. Il divieto di fare agli altri ciò che non si vorrebbe fosse fatto a sé e l’imperativo di fare agli altri ciò che si vorrebbe fosse fatto a sé sono principi morali presenti in molte religioni e fi­ losofie, ma la loro origine non è solo culturale: essi hanno un fondamento biologico nel riconoscimento dell’umanità altrui e nell’identificazione dell’altro come simile a sé. Se, come in uno specchio, siamo portati a riconoscere negli al­ tri dei nostri simili e a entrare in sintonia con loro, diventa più difficile fare loro del male ed è più facile fare loro del bene, perché in entrambi i casi è come se lo facessimo a noi stessi. Le predisposizioni biologiche che abbiamo considera­ to dimostrano dunque che esistono robuste basi filogene­ tiche in questo riconoscimento: esso non è primariamente il frutto di un ragionamento o di una riflessione mentale, di stampo filosofico o religioso. Il ragionamento viene do­ po, e si fonda proprio sull’evidenza biologica. Anzi, come vedremo nel capitolo 6, è proprio il ragionamento, con le sue categorie e valutazioni, che può paradossalmente por­ tarci a negare quell’umanità che siamo immediatamente pronti a riconoscere nell’incontro faccia a faccia con l’al­ tro. Certamente queste predisposizioni biologiche, come abbiamo detto più volte, non sono infallibili, perché non determinano il comportamento in modo rigido, in un es­ sere plastico come l’uomo. Ma è confortante sapere che la predisposizione a riconoscere gli altri come nostri simili ha delle buone basi biologiche, che la cultura può sì favorire o contrastare, ma non distruggere. Un sostegno a questa “normalità” del riconoscimento dell’altro come essere umano, e quindi della necessità di aiutarlo quando è in difficoltà, proviene dalle testimonian­ ze dei soccorritori, che si trovano spesso in imbarazzo di ­47

fronte a intervistatori che considerano le loro azioni come eccezionali e chiedono di spiegare il perché del loro com­ portamento. Le persone che hanno aiutato gli altri, anche in situazioni molto difficili, sottolineano perlopiù la nor­ malità dell’aiuto: c’erano esseri umani in difficoltà ed era di conseguenza del tutto naturale, e quasi ovvio, aiutarli. 3.7. Oltre il rapporto faccia a faccia Nonostante la loro importanza, le predisposizioni biolo­ giche esaminate non sono sufficienti per rendere ragione della complessità delle relazioni di legame e di aiuto che gli esseri umani intessono tra loro. Esse infatti agiscono tutte – e non potrebbe essere altrimenti, data la loro ori­ gine – nell’interazione faccia a faccia con i propri simili. Ma gli esseri umani, grazie alle loro specifiche capacità cognitive, non hanno soltanto interazioni dirette con gli altri. Come notava Lorenz, già l’invenzione della freccia, la prima arma che consente di colpire a distanza, ha per­ messo ai nostri più antichi progenitori di uccidere supe­ rando l’inibizione che proviene dal vedere in volto l’altro. Da allora gli esseri umani hanno inventato armi ben più micidiali, che permettono di sterminare migliaia di per­ sone premendo un banale bottone come nel caso della bomba atomica. Nello stesso tempo, però, essi hanno an­ che inventato strumenti, come la parola scritta o i moder­ ni mezzi di comunicazione di massa, che permettono di interagire con persone lontane e di beneficiare qualcuno che nemmeno si conosce. Per comprendere davvero la complessità delle inte­ razioni sociali, sia dirette che indirette, bisogna sempre tenere presente che la nostra specie è dotata di caratteri­ stiche cognitive specifiche e uniche. In particolare l’essere umano è capace di rappresentarsi la realtà anche quando questa non cade direttamente sotto i suoi sensi. Questa capacità di rappresentazione mentale diventa evidente in­ ­48

torno ai due anni in tutti i bambini con un normale svi­ luppo neurofisiologico, e rende possibile il linguaggio e il pensiero simbolico. Infatti la capacità di rappresentazione mentale permette di usare dei simboli per indicare una certa realtà; questi simboli possono essere personali, come avviene nel gioco infantile del fare finta, oppure conven­ zionali, come avviene nel linguaggio o nella matematica. Su questi simboli gli esseri umani diventano capaci, a partire dalla fanciullezza, di compiere operazioni mentali sempre più svincolate dal reale, fino al pensiero formale o ipotetico-deduttivo, caratteristico della scienza, che di­ venta possibile in adolescenza. Queste specifiche capacità, unite alla grandissima pla­ sticità della mente umana, sono alla base della costruzione di strumenti o “artefatti cognitivi”, secondo la definizione di Vygotskij, che permettono di svincolarsi in una certa misura dal proprio patrimonio biologico, per costruire complessi sistemi culturali che hanno dato un impulso straordinario alla storia umana. Tali sono in particolare la scrittura (non sviluppata da tutti i popoli), la scienza e la tecnologia (dalla ruota ai moderni strumenti telematici), l’arte. Grazie alla cultura le conoscenze vengono trasmesse a distanza, sia nello spazio che nel tempo. In questo modo gli scambi tra le persone si ampliano e possono andare al di là dell’incontro faccia a faccia, in un ricco intreccio di racconti, interpretazioni del mondo, principi religiosi e morali, tradizioni, ecc. È nel quadro della specificità delle capacità cogniti­ ve degli esseri umani da un lato, e della ricchezza della cultura di appartenenza dall’altro, che va inserita l’analisi della socialità positiva. Mentre l’uso della parola cambia i modi di compatire e confortare, l’uso del pensiero con­ sente di collegare in modo ampio persone e situazioni, di immaginarsi condizioni ipotetiche, di riflettere sugli avvenimenti, di ricercare cause e spiegazioni, fino ad ar­ rivare a elaborare sistemi ideologici, valori e visioni del mondo. Nell’essere umano, cioè, la socialità positiva fa ­49

Box 4 Il senso di umanità di un giusto Aristides de Sousa Mendes, in qualità di console portoghese a Bordeaux, salvò nel giugno 1940 decine di migliaia di rifugiati (la stima è di 30.000 persone, di cui 10.000 ebrei), rilasciando loro i visti per uscire dalla Francia ed emigrare, soprattutto verso gli USA. Operò in modo consapevole, con l’aiuto della sua famiglia, contro il preciso ordine del dittatore Salazar che proibiva di rilasciare visti a stranieri di nazionalità incerta, rus­ si ed ebrei. Pagò questa sua disubbidienza con la destituzione e la proibizione di esercitare la professione di avvocato, e morì in povertà nel 1954. Quando decise di andare contro gli ordini del suo governo, Aristides de Sousa Mendes sapeva bene che cosa lo aspettava. Non era certo un sovversivo, ma un aristo­ cratico di famiglia cattolica, conservatrice e monarchica, padre di dodici figli (altri due erano già morti). Sembra che la sua decisione definitiva sia venuta dopo l’in­ contro con un rabbino d’Anversa, al quale egli aveva proposto di fornire i visti per lui e la famiglia. Dopo l’osservazione del rabbino che non solo lui, ma tutta la folla che si accalcava in strada, aveva bisogno dei visti, il console discusse a lungo con lui la situazione; era emotivamente molto scosso, tanto da re­ stare isolato a letto per tre giorni. Quando riemerse da questo stato di prostrazione, la sua decisione era presa: avrebbe rila­ sciato il maggior numero di visti possibile, e così fece fino a che il regime non intervenne a fermarlo. È interessante soffermarsi su alcuni aspetti della decisione presa da Aristides. Questa è stata una decisione ben consape­ vole, cui egli è arrivato dopo una profonda riflessione, in con­ dizioni di forte coinvolgimento emotivo. Un aspetto rilevante nella sua vicenda è la consapevolezza che egli poteva realmente garantire la salvezza a quella moltitudine di disperati: era infat­

riferimento sia a predisposizioni filogenetiche che chia­ mano in causa le parti più antiche del nostro cervello, sia all’insieme delle costruzioni mentali di origine culturale, che rimandano al funzionamento della neocorteccia. È a questa complessità di funzionamento della psiche umana, in cui parti più primitive del cervello e altre più evolute ­50

ti in suo potere rilasciare il visto e questo, valido per l’espatrio, significava la salvezza. La sua responsabilità era quindi molto grande, poiché solo sua era l’autorità di rilasciare il visto: o lo faceva lui, o nessun altro lo avrebbe potuto fare, e i derelitti che sostavano in strada e, dopo un po’, sulle sue stesse scale di casa sarebbero stati tutti perduti. La sua azione non era soltanto unica, cioè non delegabile a nessun altro, ma anche efficace, cioè non velleitaria ma realmente utile. È probabil­ mente questo il conflitto che sconvolse per tre giorni il console: abbandonare i questuanti al loro destino di morte e salvare se stesso, oppure disobbedire, sapendo di firmare anche la pro­ pria rovina? Egli ne uscì, secondo alcuni, con i capelli tutti incanutiti, a testimonianza di quanto era stata emotivamente sofferta la decisione di assumersi la propria responsabilità. Una frase che egli aveva scritto l’anno precedente, quando per la prima volta aveva disobbedito agli ordini ricevuti rila­ sciando il visto a un professore austriaco, può forse aiutarci a capire che cosa lo aveva mosso: “mi aveva informato che, se non avesse potuto lasciare la Francia quel giorno, sarebbe stato internato in un campo di detenzione, lasciando da soli la mo­ glie e il loro bambino. Ho considerato un dovere di elementare umanità impedire un tale grave esito”. Il console dice dunque di avere ubbidito a un dovere, cioè a un obbligo interiore al quale non è possibile sottrarsi e che è considerato quasi ovvio, per il quale non sono necessarie particolari spiegazioni. Questo dove­ re impone di comportarsi in modo “umano” verso degli esseri indifesi, cioè la moglie e il figlio del professore; è per impedire loro di essere abbandonati a se stessi, ancor più che per salvare il rifugiato, che il console sente il vincolo di agire secondo uma­ nità. Egli riconosce in questo modo l’esistenza di un obbligo, derivante dalla comune e condivisa umanità, che impone l’aiuto verso chi è in pericolo e senza difese.

della neocorteccia lavorano insieme, ma non necessaria­ mente e non sempre in modo coerente, che va ricondotto il comportamento sociale umano attuato a beneficio dei propri simili. Il limite maggiore di molti studi di imposta­ zione evoluzionistica è sovente proprio quello di dimen­ ticare questa complessità. ­51

4.

Provo ciò che provi e so ciò che pensi

4.1. La rappresentazione della soggettività altrui e la condivisione Gli studi sulle capacità delle persone di comprendere ciò che gli altri provano – emozioni, intenzioni, sentimenti e pensieri – hanno dato un contributo importante, negli ulti­ mi decenni, all’approfondimento delle caratteristiche della socialità positiva e delle sue modalità d’azione. In particola­ re sono risultate importanti due capacità tra loro connesse: quella di rappresentarsi la soggettività altrui e quella conse­ guente di condividere in modo empatico i vissuti delle altre persone. Sono capacità che caratterizzano a tal punto gli esseri umani da essere date perlopiù per scontate; in altre parole, le usiamo tutti i giorni senza renderci conto della loro complessità e importanza. Purtroppo, anche in questo caso, l’attrazione per gli aspetti negativi più che per quelli positivi ha fatto sì che al grande pubblico arrivassero so­ prattutto i casi di quelle persone cui queste capacità fanno difetto, in misura più o meno grande. È la situazione del­ le persone con disturbi di tipo autistico, caratterizzate da difficoltà, di diverso livello di gravità, nel comprendere gli altri, le loro emozioni e i loro pensieri. In alcuni casi queste difficoltà di rappresentazione della soggettività altrui e di empatia si accompagnano a un’intelligenza generale infe­ ­52

riore alla media. In altri casi, più spesso descritti dal cinema e dalla letteratura, l’intelligenza, limitatamente alle capacità di trattare gli oggetti e i simboli astratti (per esempio quelli matematici), è normale o anche superiore alla media. 4.2. L’intersoggettività: le nostre menti entrano in contatto Secondo molti psicologi dello sviluppo esiste fin dall’i­ nizio della vita un’intersoggettività innata primaria, resa possibile dalla precoce capacità imitativa e dall’automatica sintonizzazione emotiva, di cui abbiamo parlato nel capi­ tolo precedente, e fondata sulla programmazione genetica che permette al neonato di distinguere le persone dagli oggetti inanimati. Ciò significa che le menti degli esseri umani, di qualunque età siano, sono in grado di entrare in facile e immediato contatto tra loro: il ponte che permette questa relazione è costituito dalle emozioni e dalle azioni che queste implicano. È grazie a esse che il neonato e la madre, ma anche gli altri adulti, riescono a entrare in rap­ porto, a comunicare e in qualche modo a capirsi, benché si tratti di persone che sono diversissime tra loro per età e livello di sviluppo. Il neonato entra così in relazione con l’altro come se ne comprendesse le intenzioni e gli stati emotivi interni. In realtà non c’è ancora consapevolezza; questa si sviluppa gradualmente e la comparsa dei primi barlumi di comprensione risulta, a mano a mano che gli studi procedono, sempre più precoce. A questa intersoggettività primaria fa infatti seguito un’intersoggettività secondaria, cioè una rudimentale con­ sapevolezza dell’esistenza negli altri di stati mentali sog­ gettivi, che può manifestarsi anche prima del compimento del primo anno di vita. Tale capacità è evidente nei bambi­ ni in diverse situazioni di rapporto con gli adulti: quando cercano di orientare l’attenzione di un’altra persona, per esempio indicando un oggetto, fissandolo e nello stesso tempo vocalizzando; quando cercano di ottenere aiuto o ­53

attenzione tirando la mano o il braccio dell’adulto; quan­ do obbediscono a una richiesta o ricambiano un gesto af­ fettuoso. In specifico, la capacità di rilevare la direzione dello sguardo e di condividere l’attenzione guardando nel­ la stessa direzione, così come quella di interpretare corret­ tamente il gesto di indicare (guardando quindi non il dito, ma l’oggetto indicato) si realizzano in genere intorno ai dodici mesi, e rappresentano una tappa importantissima nella condivisione e nello scambio sociale. Va sottolineato che si tratta sempre di scambi che av­ vengono all’interno di un’interazione emotivamente ricca e piacevole. È quindi la condivisione emotiva a fondare, all’inizio della vita, quella capacità di rappresentarsi la soggettività altrui che emergerà negli anni seguenti, e che approfondiremo tra poco. Ci siamo dilungati su queste prime fasi dello sviluppo per mostrare quanto sia precoce e complesso l’accesso agli stati mentali altrui, per il quale la mente e il cervello umani sono predisposti; in specifico i neuroni-specchio sarebbero coinvolti nella comprensione dei livelli più semplici di intenzionalità, mentre altre parti del cervello sarebbero chiamate in causa per i livelli su­ periori. Come abbiamo ricordato, la comprensione degli stati mentali altrui manca nei bambini autistici, a causa di un difetto o di un danno nel loro sviluppo neurofisiologi­ co, la cui origine è al momento sconosciuta. 4.3. La metarappresentazione: so quello che pensi Su questa base molto precoce si sviluppa poi la capacità di rappresentarsi i pensieri che l’altro ha in mente. Per com­ prendere questo sviluppo, occorre ricordare che nel corso del secondo anno di vita il bambino conquista la capacità di rappresentazione mentale, o rappresentazione di primo li­ vello. Essa consiste nell’immaginarsi mentalmente qualcosa che non è percepito (per esempio, il bambino imita il verso di un gatto che ha udito il giorno precedente, o gioca a fare il gatto, o parla del gatto). Possiamo definire questa capacità ­54

con la semplice formula: “io penso”. La rappresentazione di secondo livello, o metarappresentazione, consiste invece nell’immaginarsi che cosa un’altra persona ha in mente, vale a dire a che cosa sta pensando. In altre parole: “io penso che tu pensi” (per esempio: io penso che tu pensi al gatto). La comparsa di questa metarappresentazione è necessaria­ mente più tardiva, perché richiede un maggiore grado di distacco dalla realtà e dal proprio punto di vista. La rap­ presentazione della soggetti­vità altrui è stata anche definita “teoria della mente”, a sottolineare che i bambini non sono chiusi alla mente ­altrui, ma agiscono sulla base di un insieme elaborato di conoscenze circa il suo funzionamento. Fino ai quattro-cinque anni i bambini hanno difficoltà a svincolarsi dalla realtà e sono egocentrici; di conseguenza tendono ad attribuire agli altri le proprie rappresentazio­ ni. Ne deriva che essi applicano anche alle altre persone, in modo ancora egocentrico, la conoscenza che hanno di una situazione. Per esempio, se – come avviene in un espe­ rimento classico – sotto lo sguardo di un bambino alcune caramelle, prima contenute nella loro scatola originaria, vengono sostituite da matite, questi ritiene che un altro bambino saprà che nella scatola ci sono delle matite, anche se non ha visto fare l’operazione di sostituzione. Ancora più tardive sono rappresentazioni più complesse, definibi­ li come “io penso che tu pensi che io pensi” (per esempio: io penso che tu pensi che io stia mentendo), oppure “io penso che tu pensi che egli pensi” (per esempio: io penso che tu pensi che lui stia mentendo). Un bell’esempio si ritrova in Dante (Inferno, Canto Decimoterzo, vv. 25 sgg.): “Cred’io ch’ei credette ch’io credesse”. Lo sviluppo della metarappresentazione è fondamen­ tale per la vita sociale, e molti psicologi ritengono oggi che le capacità di pensiero formale o ipotetico-deduttivo, che compaiono in adolescenza e sono alla base del ragionamen­ to scientifico, si siano sviluppate nel corso della filogenesi proprio per far fronte ai problemi di adattamento posti dalla vita sociale, e non dal mondo fisico. In specifico lo ­55

sviluppo della metarappresentazione è legato alla socialità positiva, perché permette di assumere il punto di vista e la prospettiva di un’altra persona: è quello che viene de­ finito dalla letteratura psicologica come role-taking. Que­ sto “sapersi mettere nei panni altrui” richiede infatti, sul piano cognitivo, la capacità di uscire dalla propria visione autocentrata per guardare la realtà con gli occhi di un’altra persona, e per immaginarsi che cosa passa nella sua mente: quali sono i suoi vissuti, i suoi sentimenti inespressi, le sue emozioni anche nascoste o negate. La conquista di questa capacità è legata sia allo sviluppo cognitivo che all’appren­ dimento sociale, e avviene intorno ai sei anni. Lo sviluppo cognitivo procede con la maturazione neurofisiologica, che rende possibile il decentramento da sé e il saper tenere con­ to, allo stesso tempo, sia del punto di vista proprio che di quello altrui come due pensieri separati. Lo sviluppo co­ gnitivo però non apre che una possibilità, la cui concretiz­ zazione è legata anche all’apprendimento sociale, cioè alle richieste ambientali di immaginarsi che cosa può provare e pensare un altro bambino. Come vedremo meglio parlan­ do dell’educazione all’altruismo, la capacità di assumere il punto di vista di un’altra persona trova quindi nello svilup­ po cognitivo una condizione necessaria ma non sufficiente. 4.4. L’empatia: capisco ciò che provi e vi sono partecipe Abbiamo visto nel capitolo precedente che gli esseri uma­ ni hanno una disposizione innata all’imitazione motoria dei propri simili, che riguarda in particolare la loro espres­ sività emotiva e si traduce nella condivisione automatica e riflessa delle emozioni altrui. Il contagio emotivo è la prima forma di condivisione emotiva, nella quale l’emo­ zione di un’altra persona diventa automaticamente anche la propria. Il contagio non esaurisce però le possibilità di condivisione emotiva; con lo sviluppo cognitivo le capaci­ tà di comprendere ciò che gli altri provano si ampliano e ­56

la condivisione non è più automatica, ma cognitivamente mediata. In questo caso non parliamo più di contagio, ma di empatia. Questo termine è ormai transitato dal linguag­ gio psicologico a quello più quotidiano, dove è però so­ vente usato in modo improprio. Nella vita di tutti i giorni, esso è sostituito da termini diversi: compartecipare, con­ dividere le emozioni e gli stati d’animo altrui, compatire. Sono tutte parole che hanno a che fare con la capacità di immedesimarsi in ciò che gli altri provano, e anche di ado­ perarsi per alleviare la loro sofferenza nel caso di emozioni negative. Nel linguaggio comune una persona empatica è quella che sa capire gli altri e partecipare alla loro sofferen­ za, e di conseguenza sa intervenire per ridurla. Storicamente il termine empatia è stato coniato come traduzione del termine tedesco Einfühlung (“sentire den­ tro”), usato all’inizio in ambito filosofico per designare il godimento estetico, e poi passato alla psicologia, mante­ nendo la sottolineatura sul fatto che i sentimenti delle per­ sone (al pari degli oggetti dell’esperienza estetica) sono non solo osservati, ma compartecipati e sentiti internamente come propri. La parola ha conosciuto una certa notorietà negli ultimi anni anche grazie agli studi sui neuroni-spec­ chio, di cui abbiamo già parlato; si è così finito per fare una certa confusione tra empatia e contagio emotivo. In realtà la condivisione empatica è ben diversa da quella che si veri­ fica nell’imitazione mimetica, o contagio: pur discendendo dal contagio emotivo, l’empatia non si identifica con esso, perché richiede una mediazione cognitiva e una precisa dif­ ferenziazione tra sé e l’altro che nel contagio non ci sono. L’empatia si colloca quindi in continuità con il contagio, di cui può essere considerata un’evoluzione legata alle specifi­ che capacità cognitive degli esseri umani, che si sviluppano lungo gli anni dell’età evolutiva. Nell’empatia le emozioni di un’altra persona non su­ scitano più una risposta riflessa, ma una reazione vicaria, poiché vengono correttamente riconosciute e vissute co­ me esterne a sé, cioè come appartenenti a un’altra persona. ­57

Questa capacità inizia a comparire verso la fine del primo anno, nasce dalla vita sociale e si affina in seguito per tutta la vita, nella complessità delle relazioni sociali. La persona impara così a decodificare le emozioni e i vissuti interiori altrui, anche in assenza di espressioni plateali o chiara­ mente leggibili, per i limiti imposti dai codici sociali di espressione delle emozioni. Va sottolineato che il corretto riconoscimento delle emozioni non comporta necessaria­ mente condivisione empatica; esso infatti può dare luogo a indifferenza, negazione, fuga, o addirittura ad azioni le­ sive (per esempio: un bambino non restituisce a un altro il giocattolo preferito che gli ha sottratto, ben riconoscendo che l’altro prova dispiacere ed anzi avendo come obiettivo proprio di fargli dispetto). L’empatia è sempre caratteriz­ zata da risonanza emotiva, mediata e differenziata. Per quanto importanti, gli stimoli espressivi non sono gli unici riferimenti per riconoscere le emozioni altrui: anche la situazione viene presa in considerazione, per essere con­ frontata con la propria esperienza (per esempio, sappiamo che cadere può far male). Gli stimoli e le caratteristiche della situazione osservata che possono, per via associativa, richiamare circostanze simili vissute dall’osservatore so­ no potenzialmente infiniti. Tali situazioni possono essere trasmesse attraverso il linguaggio ed essere generalizzate. Per esempio, non abbiamo bisogno di vedere un incidente stradale, ma può bastarne un racconto per renderci con­ sapevoli della sofferenza della vittima; ugualmente, non c’è bisogno di avere personalmente subito un incidente per sapere che cosa prova una persona ferita, poiché può bastare una qualunque esperienza simile di dolore fisico. 4.5. Le diverse forme di empatia Le forme più semplici di empatia, di cui sono capaci anche i bambini di due anni ma che non scompaiono nell’età adulta, sono caratterizzate ancora da grande egocentrismo. ­58

Nell’empatia egocentrica (o per condivisione parallela) l’osservatore non ha ancora una rappresentazione chiara e distinta dei vissuti interni della persona che ha davanti: è colpito soprattutto dalla situazione, e tende di conseguen­ za ad attribuire all’altro lo stato emotivo che egli stesso ha sperimentato in situazioni simili. Di conseguenza questo tipo di partecipazione emotiva può non realizzare una ve­ ra condivisione, ma portare all’attribuzione di quelle che sono le proprie reazioni in una situazione simile, sulla base di associazioni personali. Così uno studente può attribuire al proprio amico a cui è andato male un esame sentimenti di rabbia, perché questa è la sua esperienza in situazioni simili; per l’amico, invece, il cattivo risultato può essere fonte di profonda tristezza. Le forme più evolute di empatia sono mediate dalla capacità di sapersi mettere nei panni di un altro, guardare la realtà con gli occhi di un’altra persona, rappresentarsi il suo vissuto e ciò che passa nella sua mente. In concreto, si tratta di comprendere che i vissuti di un altro possono essere diversi dai propri, ma di sapervi partecipare ugual­ mente. Per esempio, possiamo partecipare all’emozione di tristezza vissuta da chi ha subito un’aggressione, anche se in una situazione simile noi reagiremmo piuttosto con la rabbia. Questo tipo di empatia è stato definito da Martin L. Hoffman, uno dei più importanti studiosi dello svilup­ po dell’empatia, “per condivisione partecipatoria”, perché in essa si realizza una vera condivisione e partecipazione ai vissuti altrui. Infatti l’empatia è sempre un’esperienza affettiva di condivisione, seppure ben differenziata: imma­ ginare come potrebbe essere il vissuto di un’altra persona, senza alcuna risonanza emotiva, non è empatia, ma solo un atto cognitivamente elaborato di assunzione di ruolo, che potrebbe portare, come avviene per i torturatori o i se­ questratori, a fare deliberatamente ciò che maggiormente provoca sofferenza a un’altra persona. Lo sviluppo del pensiero formale, che avviene a partire dalla prima adolescenza, permette livelli di rappresentazio­ ­59

ne ancora più astratti. Diventa così possibile l’empatia per le condizioni di vita di un’altra persona (per esempio, una condizione di malattia cronica), al di là della contingenza di una specifica situazione. La capacità di rappresentazione può inoltre generalizzarsi e andare oltre il singolo indivi­ duo, per riguardare intere categorie, come i poveri o i ma­ lati. Inoltre diventa possibile rappresentarsi i vissuti di una persona in situazioni non reali, ma solo ipotetiche. In quanto condivisione dell’emozione di un altro, l’em­ patia può essere attivata non solo dal disagio altrui o da emozioni negative (come paura o vergogna), ma anche da emozioni positive o complesse: così un individuo può partecipare alla gioia o all’orgoglio di un amico. Sia che si tratti di emozioni negative o positive, è necessario che la persona che osserva sia disponibile non solo a riconoscere l’emozione dell’altro, il che costituisce il primo passo per la sua accoglienza, ma anche a condividerla. Anche i sen­ timenti aggressivi possono essere condivisi; in questo caso l’empatia non favorisce l’aiuto e la socialità positiva, ma al contrario l’attacco. Ne è un esempio la mobilitazione della popolazione, spesso favorita dalla propaganda, contro un nemico comune a cui si sta per dichiarare guerra. La lette­ ratura sull’empatia ha perlopiù ignorato questo aspetto, e oggi il termine è riservato alla condivisione delle situazioni di disagio e di sofferenza, e di conseguenza ai comporta­ menti d’aiuto che tendono ad alleviarle. 4.6. La simpatia Le reazioni emotive che gli altri possono suscitare in noi so­ no numerose e spesso mescolate, e per chiarezza la simpatia va distinta dall’empatia, che in passato era spesso definita invece come simpatia. Quest’ultima consiste in un orienta­ mento positivo verso un’altra persona, cui corrisponde una reazione emotiva orientata verso l’altro, che non è però in senso stretto di condivisione delle sue emozioni, ma di ac­ ­60

cettazione del suo vissuto, di giustificazione delle sue azioni, di preoccupazione o pietà per la sua condizione (per esem­ pio, nel caso di una situazione di bisogno, subordinazione, segregazione); di conseguenza la simpatia è positivamente collegata all’aiuto e alle azioni favorevoli agli altri. Si può, per esempio, guardare con simpatia a una persona che su­ bisce passivamente un’ingiustizia, provare di conseguenza rabbia per la sua condizione e adoperarsi per alleviarla. La simpatia non riguarda necessariamente le condizioni di sof­ ferenza: si può provare simpatia per un delinquente, guar­ dando con indulgenza al suo operato, ma senza per questo condividere i suoi sentimenti di rivolta verso la società. La simpatia può essere sia il risultato sia l’origine di una con­ divisione empatica, ma può anche derivare direttamente da processi cognitivi, quali la rappresentazione della condizio­ ne di difficoltà o bisogno di un’altra persona. In generale, nella simpatia verso una persona o un grup­ po hanno un ruolo importante non solo le affinità personali ma anche le valutazioni sociali e i pregiudizi. Per esempio, le persone del proprio gruppo sociale sono viste con mag­ giore simpatia, con la tendenza a una maggiore accettazio­ ne. Al contrario, la simpatia verso certi gruppi sociali (gli appartenenti a una certa etnia come i rom, o categorie più ampie come gli immigrati) può essere molto bassa, al punto da prendere il segno opposto di antipatia, con il risultato di indurre a guardare con indifferenza alle condizioni di sofferenza di queste persone e di interi gruppi. In questi casi proprio il riconoscimento dell’altro come simile a sé può rompere il muro dell’indifferenza, e portare a essere toccati dalle sue condizioni di disagio e a riflettere su esse. Di conseguenza, quello che era fino a quel momento un nemico verrà visto anche con maggiore simpatia e quest’a­ pertura potrà anche portare alla condivisione empatica. Anche caratteristiche fisiche, come la bellezza, o morali, come la modestia, possono favorire un maggiore sentimen­ to di accettazione dell’altro e di simpatia nei suoi confronti, in relazione ai valori di riferimento di una persona. ­61

5.

Rispecchiamento, condivisione e socialità positiva

5.1. I timori verso la condivisione emotiva I rapporti tra condivisione e socialità positiva non sono lineari, come invece spesso si ritiene. Ciò significa che la condivisione delle emozioni altrui non porta sempre e ne­ cessariamente a comportamenti altruistici e d’aiuto. Non dobbiamo mai dimenticare che stiamo parlando di una re­ lazione, in cui un sé e un altro si incontrano, e quest’incon­ tro può dare luogo anche ad ansie e timori. Di conseguen­ za, per comprendere i rapporti complessi tra condivisione e socialità positiva, e in specifico l’altruismo, dobbiamo considerare anche le paure e il disagio che la condivisione delle emozioni altrui può provocare nelle persone, e di conseguenza le difese che possono essere messe in atto nei confronti della partecipazione emotiva; questi timori e difese non riguardano solo la forma più primitiva del contagio, ma anche l’empatia vera e propria. Il timore del contagio emotivo Il contagio automatico da parte delle emozioni altrui, at­ traverso l’imitazione motoria e il rispecchiamento riflesso, è visto come un pericolo dall’essere umano man mano che questi, durante lo sviluppo, è sempre più consapevole di ­62

avere una propria identità separata da quella degli altri. Va ricordato a questo proposito che già intorno ai tre anni il bambino raggiunge una prima definizione di sé come esse­ re differenziato dagli altri, come testimonia la sua capacità di usare il pronome “io”; ci vorranno poi ancora molti anni per arrivare, anche grazie al pensiero formale caratteristi­ co dell’adolescenza, all’autoconsapevolezza matura e alla capacità di riflessione su di sé. Nel contagio le emozioni di un’altra persona, o di più persone, diventano automaticamente le proprie, e questo provoca disagio a un individuo che ha ormai chiari i confini di sé, sia fisici che psicologici. L’intrusione delle emozioni altrui dentro di sé, se non è accettata dai particolari legami che esistono con l’altro, non può che essere vissuta come un’esperienza negativa. Il contagio è inopportuno non so­ lo per l’individuo, ma anche per la società. Infatti il ruolo positivo dell’immediata risonanza emotiva è limitato alle relazioni sociali della coppia, del rapporto con i figli o del piccolo gruppo familiare o tribale. In questi gruppi ristretti, legati da vincoli affettivi, è utile che l’emozione di uno dei componenti venga compartecipata dagli altri. Non lo è più, invece, in un gruppo sociale più allargato, dove convivono persone estranee. Quanto più la struttura sociale è articola­ ta, tanto meno è utile che l’emozione di una persona dilaghi e coinvolga tutti; infatti nelle società complesse i compor­ tamenti individuali si fanno sempre più differenziati, ed è sempre meno adattiva una risposta indifferenziata, comune a tutti. Una situazione che rivela la pericolosità del contagio è la folla, nella quale l’automatica sintonizzazione emotiva sulla paura o la rabbia ha conseguenze spesso devastanti, come abbiamo visto nel capitolo precedente. Il timore dell’empatia Anche l’empatia, per quanto basata su una relazione ormai differenziata, può essere vissuta come pericolosa, per di­ verse ragioni. Vi è anzitutto il timore di non saper modulare la condivisione e di ricadere quindi nel contagio, come può ­63

accadere di fronte a una persona che esprime molto dolore. Inoltre la sofferenza altrui può far riemergere, per via as­ sociativa sia diretta sia simbolica, ricordi a forte contenuto emotivo, a malapena controllati, e riattivare la propria per­ sonale sofferenza (per esempio, la sofferenza di un anziano può farci ricordare quella di nostra madre anziana, anche se morta da anni). In altri casi, può accadere che la perso­ na si trovi in un momento di particolare difficoltà, ansia o depressione, e la condivisione della sofferenza altrui, per quanto distaccata, appare dolorosa e non sostenibile. Co­ me meglio vedremo nel capitolo 6, contrariamente a una diffusa opinione, le persone sono molto più disponibili a condividere la sofferenza degli altri quando sono serene, e non quando sono esse stesse sofferenti. Non sono dunque pochi i casi in cui la sofferenza de­ gli altri, anziché condivisione e partecipazione empatica, provoca disagio, cioè una reazione di tipo negativo, in cui prevalgono emozioni di ansia o di sconforto. Si tratta di una risposta centrata su di sé, in cui nell’osservatore pre­ valgono le reazioni negative che la vista del dolore altrui gli provoca. Il disagio personale si manifesta non solo negli adulti ma anche nei bambini, quando sono testimoni della sofferenza di un altro bambino: per esempio piangono, si mettono il dito in bocca, ricercano il contatto confortante con l’adulto. La risposta di disagio viene spesso confusa con l’em­ patia, e anche in letteratura il disagio non è stato sempre chiaramente distinto dalla condivisione vicaria. È vero che spesso questa distinzione non è facile, perché nella con­ cretezza della vita le risposte emotive che gli altri ci susci­ tano sono numerose e anche contraddittorie; per questo il disagio non è sempre incompatibile con la condivisone empatica, ma può accompagnarsi ad essa con diversi gradi di intensità. A questo riguardo, le ricerche indicano che è soprattutto nelle donne, già in età evolutiva, che l’empa­ tia si accompagna maggiormente a disagio, in particolare a depressione, ansia e instabilità emotiva. Le bambine, a ­64

causa di una maggiore pressione sociale in questo senso, sembrano meno in grado di modulare l’empatia e di at­ tuarla solo quando sono davvero capaci di viverla senza sofferenza, mentre i maschi sono più in grado di scegliere in modo selettivo e differenziato in quali situazioni condi­ videre e in quali no. 5.2. Le difese nei confronti della condivisione emotiva I codici sociali di esibizione delle emozioni Come difesa dall’immediato rispecchiamento emotivo, tutte le culture hanno sviluppato dei codici sociali di esibi­ zione delle emozioni, più o meno restrittivi, e molto diversi a seconda della cultura. Questi codici limitano la manife­ stazione pubblica delle emozioni forti a momenti partico­ lari e a contesti specifici. Uno di questi è il funerale, nel quale sono permesse manifestazioni di grande sofferen­ za, che sarebbero ritenute sconvenienti in altri momenti. Queste regole non riguardano solo le emozioni negative, ma anche quelle positive, e sono acquisite molto preco­ cemente durante lo sviluppo. Per esempio, verso i sette anni i bambini sono ormai consapevoli della necessità di inibire la manifestazione di emozioni negative allo scopo di non creare sofferenza agli altri: essi motivano il control­ lo della propria emozione di tristezza con il desiderio di non rattristare un’altra persona. Le regole di esibizione delle emozioni hanno lo scopo di impedire che la propria emozione si propaghi ad altri; allo stesso tempo, in base alla reciprocità, evitano a ciascuno di noi di essere esposto in modo troppo marcato alle emozioni altrui: è in forza di un contratto sociale che non esprimiamo ciò che non vorremmo ci fosse espresso. Va sottolineato che le regole di esibizione possono li­ mitare, e anche di molto, la richiesta di aiuto da parte di chi invece ne è bisognoso. È quanto non di rado avviene nelle persone malate o anziane, che non osano esprimere ­65

la propria sofferenza, in ossequio alle regole sociali, so­ prattutto quando queste regole sono molto rigide. Tor­ neremo su questo argomento a proposito dell’imparare a chiedere aiuto. Le difese contro la condivisione Quando ci si trova di fronte all’espressione di emozioni di un’altra persona che sono vissute come pericolose per sé, vengono mobilitate numerose difese per impedire un coinvolgimento, sia che si tratti di contagio che di empa­ tia vera e propria. Se nei casi estremi si può avere la fuga dalla situazione che spaventa, abbandonare fisicamente il campo perlopiù non è possibile e le persone devono quindi trovare altri modi per difendersi. Poiché l’espres­ sività altrui è il veicolo principale della risonanza emo­ tiva, si cerca soprattutto di evitare di guardare l’altro in volto; in particolare il contatto oculare è accuratamente evitato. Anche il dialogo è evitato o ridotto al minimo, e le persone si rifugiano nei loro compiti, o in monolo­ ghi, per prendere le distanze (per esempio, un impiegato si immerge nella pratica burocratica che sta svolgendo). Quando l’esposizione alla sofferenza è forte e continua­ tiva, come nel caso delle professioni d’aiuto (infermieri, medici, poliziotti, ecc.), in mancanza di un’adeguata pre­ parazione professionale si può arrivare a forme di nega­ zione della sofferenza altrui. Queste vanno dal minimiz­ zare un’espressione di dolore, a ritenerla esagerata, fino al considerarla non vera e genuina. L’abitudine all’uso di questi meccanismi di difesa porta a un progressivo atteggiamento di evitamento dell’altro (nell’espressività e nella postura) e delle situazioni che possono essere fonte di disagio. Sul piano psicologico si realizza una crescente indifferenza nei confronti dell’altro e della sua sofferen­ za, che può arrivare fino a trattarlo come un oggetto e non più come una persona. È quanto avviene non di rado nella pratica sanitaria, complice la strumentazione me­ dica che favorisce il distacco dal paziente come persona ­66

reale, e lo fa considerare un insieme di funzioni organi­ che, un corpo inerte privo di emozioni e interiorità (per esempio, si chiama il malato con il termine che indica la sua patologia o con il suo numero di letto, e non con il suo nome proprio). 5.3. Dalla condivisione all’aiuto Il contagio impedisce l’aiuto Il contagio, cioè la forma più primitiva e automatica di condivisione delle emozioni altrui, non favorisce i com­ portamenti altruistici, volti ad alleviare la sofferenza de­ gli altri. Infatti, se un individuo fa proprio in modo totale e riflesso il dolore altrui, il risultato sarà una personale angoscia che renderà impossibile l’attuazione di un com­ portamento d’aiuto, che deve essere pensato e attuato in modo coerente. Così un medico o un infermiere che, di fronte alla sofferenza di un paziente per una pratica sanitaria dolorosa, provasse anch’egli in modo mimetico dolore non sarebbe in grado di eseguire quella pratica in modo professionale, e quindi utile al malato. Piangere con un bambino che piange perché si è fatto male impe­ disce a una madre di attuare azioni coordinate e capaci di raggiungere il risultato di alleviarne in modo utile la sofferenza. Per dare aiuto è necessario un certo grado di distanziamento e di mediazione cognitiva, quale si rea­ lizza nell’empatia. Nella pratica, sovente le persone, dopo una prima reazione di contagio emotivo, cercano di prendere con­ sapevolmente le distanze e spesso riescono a farlo, pas­ sando a una condivisione più mediata che rende possi­ bili i comportamenti d’aiuto. Nelle professioni d’aiuto è indispensabile uno specifico addestramento in questo senso, per impedire che le difese dal contagio siano tal­ mente massicce da impedire anche un’empatia più dif­ ferenziata. ­67

Disagio personale e comportamento d’aiuto Quando il confronto con la sofferenza altrui è fonte non di condivisione empatica ma di disagio personale, la persona non è motivata direttamente all’aiuto, ma al contrario prin­ cipalmente all’evitamento, alla negazione, all’indifferenza, e nei casi estremi alla fuga. La centratura su di sé non im­ pedisce peraltro completamente l’attuazione di comporta­ menti d’aiuto; tuttavia, questi sono motivati dall’esigenza primaria di ridurre la propria sofferenza, provocata dalla vista di quella altrui. A questo scopo la persona fa, spesso intuitivamente, una valutazione dei vantaggi e dei costi che l’intervento di aiuto comporta e vi ricorre solo quando non ci sono altri modi per ridurre il disagio personale. Ciò significa che il disagio personale spinge all’aiuto solo quando le persone si trovano in una situazione da cui non possono fuggire. In questi casi, il modo più facile e imme­ diato per ridurre il proprio disagio è aiutare l’altro, anche se costa una certa fatica, perché si ottiene così il risultato di eliminare la causa della propria sofferenza. In questi casi le azioni altruistiche non sono principalmente motivate dal desiderio di ridurre la sofferenza altrui, ma da quello di ridurre il proprio personale disagio. Va notato che, per la complessità dell’organizzazione psichica individuale, l’impossibilità di fuga non va consi­ derata solo in senso strettamente fisico. Per persone con un’alta coscienza morale può trattarsi di un’impossibilità psicologica, perché la fuga dalle proprie responsabilità e dai propri principi distruggerebbe completamente l’im­ magine che l’individuo ha di sé, minando in modo profon­ do l’autostima e provocando una sofferenza ancora mag­ giore, sia nell’immediato che nel futuro, ben superiore alla fatica che si deve affrontare nel dare aiuto. In particolare, il rimorso per non aver ubbidito ai propri principi morali si prospetta come una sofferenza futura intollerabile, ben peggiore di quella che si deve affrontare con l’aiuto, anche quando questo espone a molti rischi. ­68

Empatia, controllo dell’aggressione e socialità positiva La convinzione che la condivisione emotiva dello stato di disagio di un’altra persona possa spingere ad attuare com­ portamenti sociali positivi, come l’aiuto e il conforto, sia materiale che morale, era già presente in molti pensatori del passato, ben prima della nascita della psicologia. Alcu­ ni filosofi del Settecento, come David Hume, hanno messo la sensibilità affettiva verso gli altri e la condivisione alla base del comportamento morale. I recenti contributi della psicologia confermano il ruolo cruciale svolto dall’empa­ tia nel favorire la socialità positiva. Anzitutto, l’empatia inibisce direttamente il comporta­ mento aggressivo. I famosi esperimenti di Stanley Milgram sull’obbedienza all’autorità, nei quali le persone riceveva­ no da un ricercatore l’ordine di dare scosse elettriche di intensità crescente a una vittima (in realtà un attore che ne simulava gli effetti), in nome di un importante esperimen­ to scientifico, hanno mostrato che il numero di coloro che accettavano di continuare l’esperimento diminuiva drasti­ camente se essi erano nella condizione di vedere la vittima. L’esposizione diretta al dolore altrui provocava infatti una maggiore partecipazione emotiva che rendeva intollerabile continuare a procurarlo. Nelle relazioni sociali quotidiane, la condivisione empatica riduce il ricorso all’aggressione anche per altre ragioni. In specifico, la capacità di metter­ si nei panni di un’altra persona permette una valutazione distaccata delle motivazioni altrui, e di conseguenza una minore attribuzione di intenzionalità aggressive, che ridu­ ce a sua volta anche le proprie risposte aggressive. Inoltre, la capacità di assumere la prospettiva di un’altra persona rende l’individuo consapevole delle conseguenze dei pro­ pri atti aggressivi sugli altri (“se lo insulto, o peggio se lo picchio, ne soffrirà”) e può quindi ridurre il ricorso all’ag­ gressione. Gli studi confermano che esiste un rapporto inverso tra empatia e atti come violenze, liti e violazioni delle norme sociali. ­69

L’ipotesi che la condivisione empatica spinga diretta­ mente ad agire in modo altruistico, allo scopo di alleviare la sofferenza altrui, è stata sostenuta soprattutto da Daniel Batson e ha trovato numerose conferme: la condivisione in­ nesca una preoccupazione attiva per la condizione dell’al­ tro, che spinge ad agire per ridurre il suo stato di bisogno, indipendente dalla ricerca di vantaggi p ­ ersonali, emotivi o sociali. Se si può quindi affermare che c’è un nesso diretto tra empatia e aiuto, sono però assai diversi i tipi di aiuto che possono venire dati, in relazione con le differenti forme di condivisione empatica. Come ­abbiamo detto, a un primo li­ vello si colloca l’empatia cosiddetta egocentrica (o parallela, o centrata sull’evento), in cui il bambino, ma anche l’adulto, sono colpiti in modo prevalente dall’evento negativo che coinvolge la persona osservata. Ne consegue una parteci­ pazione emotiva basata sulle associazioni personali che una certa situazione suscita nell’osservatore e non sulla rappre­ sentazione dei vissuti dell’altro, e manca la consapevolezza che questi potrebbero essere diversi dai propri. In questo tipo di empatia prevalgono le forme di aiuto autocentrate, nelle quali l’individuo soccorre gli altri con azioni che egli sa essere utili per sé in situazioni analoghe, senza decentra­ mento e senza chiedersi se esse siano davvero adatte all’al­ tro. I risultati nei bambini possono essere paradossali: per esempio, un bambino di tre anni, che vede un adulto triste, lo consola offrendogli il proprio orsacchiotto. Ma anche l’a­ dulto, soprattutto quando la risonanza emotiva personale è molto forte, può presentare queste forme di aiuto ancora centrate su di sé: per esempio, può confortare un amico con le parole che sarebbero utili a lui in quel contesto. In questi casi il rischio di azioni sbagliate, che non sono di reale aiu­ to all’altro, è molto concreto: nell’esempio appena fatto, le parole possono non essere affatto di conforto, ma risultare addirittura irritanti per l’amico. Soltanto con lo sviluppo della capacità di decentramen­ to cognitivo – che compare intorno ai sei anni, ma la cui piena espressione è influenzata nello sviluppo seguente ­70

anche dall’educazione – gli individui sono in grado di con­ siderare la situazione dal punto di vista dell’altro, e posso­ no di conseguenza attuare comportamenti d’aiuto sempre più decentrati. Le azioni altruistiche in grado di aiutare davvero gli altri hanno alla loro base la capacità di metter­ si nei panni di un’altra persona. Bisogna ricordare che la capacità di rappresentarsi il vissuto altrui è minore, anche nell’adulto che ne è ormai cognitivamente capace, tutte le volte che il legame associativo tra la situazione e la propria esperienza personale è molto forte. Gli studi sono concor­ di nel mostrare che le persone maggiormente capaci di al­ truismo e di azioni d’aiuto utili agli altri sono quelle più in grado di regolare le proprie risposte emotive. Ciò significa che esse sono capaci di evitare non solo il contagio, ma anche un’attivazione emotiva troppo forte che rischierebbe di dare luogo ad azioni troppo centrate su di sé. Si tratta quindi di persone poco impulsive, che non sono travolte o spaventate dalle situazioni, e che non le vivono con di­ sagio; per questo possono rispondere con la condivisione e l’aiuto, e non con l’indifferenza o la fuga. C’è dunque uno stretto rapporto tra capacità di regolazione emotiva e azioni d’aiuto, sia nei bambini che negli adulti. Come abbiamo visto, in adolescenza diventa possibile la condivisione verso intere categorie umane che vivono particolari condizioni di vita, così come verso situazioni ipotetiche. Queste forme di empatia motivano a loro volta l’altruismo verso intere categorie sociali o condizioni di vita (come i rifugiati), al di là delle specifiche persone; es­ se permettono inoltre di compiere azioni preventive, allo scopo di evitare situazioni di sofferenza possibili ma non ancora avvenute. Questo tipo di altruismo non è legato so­ lo allo sviluppo cognitivo, ma ai modelli di socializzazione e ai valori introiettati. Gli studi sul nesso tra empatia e altruismo hanno dun­ que mostrato in modo chiaro che l’azione a favore degli altri è sempre legata anche a una dimensione affettiva: Hoffman ha parlato a questo riguardo di “affetto morale ­71

empatico”. Ciò significa che il comportamento morale non può essere spiegato solo dagli aspetti cognitivi, come av­ veniva in autori come Lawrence Kohlberg; questi in realtà non sono in grado, da soli, di rendere ragione delle azioni concretamente attuate dalle persone a vantaggio degli al­ tri. Nelle azioni a favore di un proprio simile le compo­ nenti emotive, cognitive e sociali sono indissolubilmente legate. Se negli atti occasionali ed eroici di altruismo sem­ brano prevalere il riconoscimento dell’umanità altrui e la necessità di intervenire a favore di chi è in difficoltà, nelle azioni altruistiche continuative hanno un peso importante la coscienza morale e il pensiero morale. 5.4. Dalla persona alla categoria Il ruolo non univoco svolto dagli aspetti cognitivi è ben mo­ strato dai processi di categorizzazione. Essi possono interve­ nire anche nell’incontro faccia a faccia, accanto alle emozioni e ai meccanismi di origine filogenetica che portano al rico­ noscimento, per così dire “naturale”, ­dell’altro come simile a sé. Come abbiamo più volte ricordato, nel­l’essere umano agiscono anche processi simbolici, che ci permettono di an­ dare oltre la situazione contingente per costruire categorie più astratte. Ne deriva che l’individuo con il quale entriamo in rapporto viene inserito in una classe più generale. Alcune di queste categorie fanno rife­rimento a dati prevalentemen­ te biologici, come il sesso e l’età, mentre altre riguardano ­aspetti squisitamente sociali, come la nazionalità o l’appar­ tenenza religiosa. In concreto, l’essere umano che incontria­ mo non è soltanto quell’individualità concreta e fisicamente identificabile (per esempio, una donna giovane), ma viene anche identificato come appartenente a una categoria più generale, sulla base di diversi indicatori e conoscenze (quella giovane donna è un’immigrata di fede mussulmana). L’inserimento di una persona in una delle numerose categorie cui ognuno di noi appartiene ha effetti diversi. ­72

Alcuni sono positivi, perché, come abbiamo visto, di­ venta possibile condividere non solo la sofferenza di una singola persona, ma anche quella di interi gruppi sociali, e agire di conseguenza per alleviarla. La categorizzazione può però avere anche effetti molto negativi, nel momento in cui essa ci impedisce di vedere una persona nella sua nuda umanità, per considerarla invece come anonimo e astratto esemplare di una categoria verso la quale nu­ triamo sentimenti e atteggiamenti negativi. Il passaggio dall’individuo alla categoria è quindi insidioso, perché l’altro perde in questo modo la sua specificità e umanità direttamente riconoscibili, per diventare un rappresen­ tante astratto di una classe generale. In questo modo, paradossalmente, le abilità cognitive, comunemente con­ siderate tra le funzioni più evolute e nobili della nostra psiche al confronto delle emozioni, vengono di fatto a ostacolare il riconoscimento dell’altro, impedendo l’ini­ bizione dell’aggressività e la spinta all’aiuto che tale rico­ noscimento comporta. Per ovviare a questo, è necessaria una teorizzazione che consideri la comune umanità di tutti gli appartenenti alla nostra specie, al di là delle innumerevoli categorie in cui ognuno di noi può essere catalogato. In concreto, c’è biso­ gno di individuare una categoria sovraordinata alla quale tutti gli esseri umani ugualmente appartengono. Poiché la stessa predisposizione biologica ci orienta in questo senso, la costruzione della categoria “umanità” è in realtà meno difficile di quanto si possa temere. È vero che nelle varie culture umane vi sono esempi di teorizzazioni che disco­ noscono la comune umanità, per esempio attraverso con­ cetti come quello di razza privi di alcuna base scientifica, come oggi è universalmente riconosciuto dagli studiosi di genetica. Ma la naturale predisposizione a riconoscersi nel volto altrui ha sempre costituito una potente forza di con­ trasto delle categorie che negano l’umanità, e oggi come ieri essa è la base su cui costruire una categorizzazione cognitiva che riconosca tale umanità. ­73

Box 5 I meccanismi di disimpegno morale Albert Bandura ha considerato la deumanizzazione tra i cosid­ detti meccanismi di disimpegno morale. Questi sono dei ragio­ namenti che consentono di disimpegnare temporaneamente la propria condotta dai principi morali; in altre parole, la persona riesce, facendo ricorso a questi meccanismi, a comportarsi in mo­ do contrario ai propri principi e ai valori del suo ­ambiente, senza essere gravata da sensi di colpa e senza mettere in discussio­ne la stima di sé, ma anzi ottenendo sovente dei vantaggi personali. Essi hanno quindi una funzione autoprotettiva. I meccanismi di disimpegno morale sono spesso coinvolti nel comportamento aggressivo e nell’indifferenza verso chi si trova in condizione di bisogno, a cui viene negato l’aiuto. Essi sono: 1. Giustificazione morale: il cattivo comportamento viene cognitivamente rielaborato e considerato moralmente accetta­ bile perché condotto in nome di alti ideali. Per esempio, l’ag­ gressione diventa una guerra santa. 2. Etichettamento eufemistico: il comportamento riprove­ vole viene attenuato con un’etichetta verbale che ne nasconde e ne attutisce la negatività. Per esempio, lo sterminio viene chiamato pulizia etnica.

5.5. Un meccanismo che contrasta l’empatia e l’altruismo: la deumanizzazione La deumanizzazione è il punto di arrivo di un processo co­ gnitivo di classificazione che consiste nell’inserire l’altro, a causa di una o più caratteristiche, in una categoria non più completamente umana, ma subumana o addirittura anima­ lesca. L’altro in questo modo si trasforma da nostro simile a essere diverso e inferiore, e come tale indegno di condivisio­ ne empatica e aiuto. Nella sua forma estrema, la deumaniz­ zazione porta a ritenere l’altro indegno di vivere e giustifica come un dovere morale la sua uccisione, data la pericolosità proveniente della sua condizione di subumanità. La deuma­ nizzazione fa parte dei meccanismi di disimpegno morale ­74

3. Confronto vantaggioso: la gravità del proprio comporta­ mento viene attenuata confrontandolo con un altro più grave. Per esempio, la mancanza di intervento è giustificata grazie al confronto con l’aggressore. 4. Dislocamento della responsabilità: la responsabilità delle proprie cattive azioni è attribuita ad altri. Per esempio, il solda­ to si giustifica perché ha solo ubbidito agli ordini dei superiori, che sono i veri responsabili. 5. Diffusione della responsabilità: la condivisione con altri dell’azione porta a ritenere che nessuno è responsabile: se tutti sono responsabili, nessuno allora è responsabile. Per esempio, tutti in guerra hanno ucciso, dunque nessuno è colpevole. 6. Distorsione delle conseguenze: le conseguenze dei propri atti sono minimizzate o travisate. Per esempio, la violenza è giustificata come scherzo. 7. Deumanizzazione della vittima: la vittima viene degrada­ ta a rango subumano. Per esempio, gli ebrei erano per i nazisti una razza inferiore. 8. Attribuzione di colpa alla vittima: la vittima è in realtà colpevole di ciò che le è accaduto. Per esempio, la violenza sessuale è stata inevitabile a causa del vestiario provocante della vittima.

(v. box 5); in specifico essa permette di ottenere i vantaggi provenienti dall’indifferenza o dalla sopraffazione dei no­ stri simili senza provare sensi di colpa, disagio o sofferenza. Non è certo difficile trovare anche nella storia recente della civile Europa, dal nazismo al conflitto balcanico, nu­ merosi esempi di questo tipo di categorizzazione. Ricordia­ mo anche le teorizzazioni pseudoscientifiche che non solo fino all’Ottocento, ma anche in seguito, sono state elaborate per dimostrare la non appartenenza alla specie umana di alcuni gruppi in base al colore della pelle (soprattutto se ne­ ra), puntualmente smentite dal progredire degli studi bio­ logici. Le specificità via via invocate per dividere l’umanità in categorie subumane sono diversissime, e si basano sulla religione, l’appartenenza politica, il sesso, l’età, l’orienta­ ­75

mento sessuale, il livello culturale, le caratteristiche fisiche, e molto altro ancora, in un elenco potenzialmente infinito. Oggi in certi gruppi di adolescenti può essere il possesso di telefonini e capi di vestiario firmati a individuare chi è “un vero uomo”, degno di considerazione e di amicizia. Il percorso che conduce alla progressiva deumaniz­ zazione può avere il suo punto di avvio nelle emozioni negative che l’altro suscita: per esempio paura per chi è diverso, senso di frustrazione per i propri fallimenti, rab­ bia e ricerca di un capro espiatorio. Ma queste emozioni non sono che il punto di partenza per un’elaborazione mentale complessa e graduale, che trasforma le emozioni negative in sentimenti duraturi di disprezzo. In questa tra­ sformazione le idee e i valori hanno un peso decisivo e la ragione diventa uno strumento per giustificare la negazio­ ne dell’umanità altrui. Quest’ultima non è affatto facile da accettare e mantenere, perché la biologia ci ha program­ mati proprio per riconoscere l’umanità dei nostri simili in modo diretto, nei loro volti e nella loro espressività. L’umanità altrui può quindi emergere con immediatezza e prepotenza, anche solo da uno sguardo, come testimo­ niano molti episodi di altruismo nei confronti degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. La forza del riconoscimento dell’umanità altrui è tale che essa deve essere attivamente contrastata con il conti­ nuo ricorso alle categorie cognitive, che a livello colletti­ vo sono diffuse dalla propaganda e dall’indottrinamento ideologico. Queste categorie trasformano gli altri da no­ stri simili in puri rappresentanti di una tipologia astratta, ritenuta inferiore e non partecipe della vera umanità. In questo modo gli altri non sono più persone reali, ma di volta in volta: comunisti, fascisti, ebrei, mussulmani, cri­ stiani, immigrati, donne, omosessuali, disabili, e così via. All’estremo si ha il ragionamento ormai fanatico, che non riesce più a vedere nell’altro alcun barlume di umanità, come avviene nei terroristi, di qualunque natura essi siano, politica o religiosa (v. supra box 2). ­76

È in forza della deumanizzazione che persone molto solidali con la propria famiglia e con gli altri membri del gruppo di appartenenza (partito, chiesa, etnia, ecc.) pos­ sono essere del tutto insensibili e violente verso chi ap­ partiene ad altri gruppi. La separazione tra “noi” e “loro” va oltre, in questi casi, il riconoscimento di ciò che unisce un gruppo, per rimarcare soprattutto ciò che lo separa dagli altri, considerati inferiori e diversi, e infine non più pienamente umani. In questo caso i sentimenti positivi di attaccamento al proprio gruppo diventano di ostacolo ad accettare chi a questo gruppo non appartiene.

6.

Le condizioni che favoriscono l’altruismo

6.1. L’azione altruista nell’incontro tra sé e l’altro Come abbiamo più volte ricordato, i comportamenti a fa­ vore degli altri sono il risultato di una relazione tra persone, un sé e un altro, che vengono in contatto, perlopiù diretto ma anche indiretto, in un preciso momento e all’interno di una particolare situazione. Sia che queste persone si in­ contrino per la prima volta, sia che si tratti di un rapporto che ha già una storia, la scelta di aiutare l’altro, mettendo da parte il proprio interesse, non è comprensibile se non si tiene conto di molti elementi. Questi riguardano sia le caratteristiche di chi aiuta, sia quelle di chi è aiutato, così come la relazione che tra i due si stabilisce in quel preci­ so momento e nella quale agiscono emozioni, sentimenti, valutazioni cognitive. Esamineremo qui alcuni aspetti che si sono dimostrati di particolare importanza nel favorire o contrastare l’attuazione di comportamenti altruistici. 6.2. Le caratteristiche di chi aiuta Si ritiene sovente che il genere sia una caratteristica im­ portante nel differenziare le azioni altruiste degli individui e che, in specifico, le donne siano più altruiste. Gli studi 78

non confermano questa diffusa convinzione. Essi suggeri­ scono che le differenze sono probabilmente da ricondurre a modi diversi, culturalmente connotati e quindi variabili, di realizzare le azioni d’aiuto. Nella cultura occidentale le donne agirebbero di più all’interno delle relazioni per­ sonali, e gli uomini in modo maggiormente strumentale e impersonale. Inoltre, le attese sociali interiorizzate nei confronti del comportamento maschile e femminile po­ trebbero avere un effetto di distorsione, con il risultato che le donne risultano più altruiste in quelle ricerche che utilizzano questionari di autovalutazione. Gli psicologi si sono a lungo interrogati anche sulla possibilità di identificare una personalità altruista. La ri­ sposta è negativa, se con questo termine si intende un trat­ to stabile che porta ad agire sempre in favore degli altri, in tutte le situazioni. Nonostante ciò, vi sono alcune carat­ teristiche che accomunano coloro che sono più propensi a fare del bene e ad aiutare. Anche se non garantiscono affatto una previsione certa sul comportamento di una persona in qualsiasi circostanza, poiché le azioni possono variare a seconda delle situazioni, queste caratteristiche permettono di delineare a grandi linee il profilo della per­ sona altruista e di orientare gli interventi volti a favorire l’attuazione di comportamenti d’aiuto verso gli altri. Il sentimento di autoefficacia Da tempo gli studi hanno mostrato l’importanza, nelle condizioni di emergenza ma non solo in queste, di un’alta stima di sé nel motivare all’aiuto. Il passaggio all’analisi del sentimento di autoefficacia ha permesso di meglio chiarire, nella concretezza delle diverse situazioni, il ruolo svolto dalla valutazione delle proprie capacità di agire in favore degli altri. Mentre l’autostima riguarda piuttosto un giudizio generale su di sé e una fiducia di fondo in se stessi, l’autoefficacia si riferisce alla percezione delle proprie capacità nell’affrontare e portare a termine uno specifico compito. Essa è stata definita come il caldo senso ­79

di sicurezza che proviene dal “sapere di saper fare” una certa azione. Nell’autoefficacia le componenti cognitive ri­ guardano la consapevolezza di conoscere e poter realizza­ re tutti i passaggi necessari per raggiungere uno specifico obiettivo. A esse si accompagnano importanti aspetti emo­ tivi, ben evidenziati dal termine sentimento, che riguarda­ no il senso di sicurezza e fiducia nelle proprie capacità di riuscire, nonostante le difficoltà. L’autoefficacia è quindi specifica: ci si può sentire efficaci in un campo (intervenire per soccorrere una persona che è caduta per strada), ma non in un altro (intervenire per confortare una persona che per strada è stata derubata). Gli studi sono concordi nel mostrare l’importanza dell’autoefficacia nel comportamento d’aiuto. Le perso­ ne sono maggiormente portate a intervenire a favore degli altri se sanno di poter aiutare davvero, perché sono con­ sapevoli di avere le competenze necessarie per risolvere in modo positivo, o almeno ridurre, le difficoltà altrui. La valutazione circa l’efficacia del proprio intervento nel ri­ solvere la sofferenza di una vittima è dunque un fattore cruciale nel decidere se prestare o meno aiuto. È del tutto comprensibile che le persone siano più propense ad aiuta­ re quando sanno di essere capaci di farlo in modo davvero utile all’altro. È evidente infatti che un intervento senza le competenze necessarie può causare dei danni: è assurdo buttarsi in mare, sperando di soccorrere un’altra persona, se non si sa nuotare, e la maggior parte di noi non com­ pie un’azione così irrazionale, destinata a perdere se stessi senza salvare l’altro. In realtà talvolta la cronaca registra interventi di questo tipo, con esiti mortali; essi testimo­ niano quanto il desiderio di agire, per contrastare l’ansia generata dall’impotenza, sia per alcune persone una spinta molto forte, tale da portare a compiere in modo impulsivo azioni non utili a raggiungere uno scopo. Il sentimento di essere capaci di compiere un’azione efficace non riguarda soltanto le competenze tecniche e materiali necessarie per essere di aiuto, a seconda del tipo ­80

di disagio e di situazione. Esso riguarda anche altri tipi di autoefficacia più trascurati, vale a dire l’autoefficacia emotiva e quella interpersonale. La prima si riferisce alla convinzione di essere in grado di gestire efficacemente le proprie emozioni: in concreto, si tratta di saper dominare le proprie preoccupazioni, affrontare lo scoraggiamento, superare il senso di frustrazione per i fallimenti e il disagio che deriva dal contatto con situazioni penose. Per esem­ pio, può accadere che un operatore sanitario si senta tec­ nicamente capace di intervenire per alleviare le sofferenze di una persona morente, ma abbia difficoltà a farlo perché non riesce ad affrontare le proprie reazioni di fronte alla morte. L’autoefficacia relazionale riguarda la capacità di gestire le relazioni interpersonali; in concreto si tratta di saper comprendere i bisogni altrui, di cogliere in modo corretto le espressioni emotive, di decodificare segnali a volte ambigui o appena accennati, così come di saper coope­rare, comunicare, condividere, non essere autoritari o manipolatori. Sempre nell’esempio appena fatto, l’ope­ ratore può trovarsi in difficoltà a comunicare e interagire nel miglior modo possibile con i familiari della persona morente. Le ricerche sono concordi nell’indicare che le persone che si ritengono maggiormente in grado sia di far fronte ai propri vissuti emotivi sia di interagire positiva­ mente con gli altri sono anche maggiormente disponibili ad attuare comportamenti finalizzati a beneficiare gli altri. Il ruolo centrale svolto dai sentimenti di autoefficacia indica che è necessario lavorare su questi aspetti nel pre­ parare le persone ad aiutare gli altri. Che si tratti di volon­ tari o di professionisti dell’aiuto, le persone devono essere formate in modo da sentirsi efficaci nel loro intervento, sia tecnicamente sia sul piano emotivo e relazionale. Poiché la formazione di base non è sufficiente, dato il continuo mutare delle situazioni sia soggettive che esterne, questa preparazione va continuata nel tempo e va prevista come permanente. Là dove non è possibile intervenire diretta­ mente (per esempio, con popolazioni o gruppi lontani) è ­81

utile pensare a forme di intervento che consentano alle persone di agire indirettamente ma sempre in modo da raggiungere obiettivi utili e verificabili. Il controllo interno e l’attribuzione a sé della responsabilità Gli studi mostrano che l’intervento a favore degli altri è maggiore in coloro che sono più inclini ad attribuire alla propria azione, e non a fattori esterni, il controllo degli eventi e della loro evoluzione. Si tratta del cosiddetto locus of control, costrutto che sta a indicare dove la persona col­ loca maggiormente il controllo sugli eventi e sul proprio destino: se in se stessa (locus of control interno) oppure nel caso e nelle circostanze esterne (locus of control esterno). Le persone più altruiste hanno in maggior misura un locus of control interno, cioè si rappresentano come capaci di incidere sugli eventi e di influenzarne l’andamento. Allo stesso tempo, sono maggiormente autonome dal giudizio sociale esterno, poiché considerano se stesse come attori principali delle proprie decisioni. Il senso di controllo si collega anche all’autoefficacia, perché la consapevolezza di sapere come affrontare una situazione aumenta il senso di padronanza interiore su di essa e diminuisce la sensazio­ ne di essere in balìa degli eventi, con conseguenze positive generalizzate sulla fiducia in sé e sul benessere. Più in specifico per quanto riguarda l’attribuzione di responsabilità, conta l’atteggiamento che è stato definito internalista, contrapposto a quello esternalista. Nel primo caso è centrale la credenza nella responsabilità personale nei confronti del mondo esterno, anche quando non si è direttamente causa di un evento negativo, e le azioni ven­ gono anzitutto ricondotte a sé e affrontate in prima perso­ na; nel secondo caso la responsabilità viene delegata pre­ valentemente agli altri, intesi sia come individui singoli che come società organizzata. Secondo Michael S. Gazzaniga, neuropsicologo noto per i suoi studi sul funzionamento a moduli del cervello umano e sulle funzioni esecutive, ­82

un atteggiamento internalista è maggiormente congruente con i nostri meccanismi cerebrali ed è più adattivo, per­ ché consente risposte più libere, maggiormente svincolate dalle contingenze ambientali. In altre parole, quando gli individui sono ritenuti responsabili delle loro decisioni e dei loro atti, diventano singolarmente più capaci di rispon­ dere alle difficoltà e alle novità che l’ambiente riserva loro. Per quanto riguarda la socialità positiva, l’internalista interviene maggiormente in aiuto e non delega ad altri (la società, le autorità competenti, le persone più direttamen­ te interessate, ecc.) la responsabilità di agire, poiché si sen­ te direttamente chiamato in causa dal fatto che un altro essere umano sia bisognoso d’aiuto. Così una persona può decidere di intervenire senza aspettare che altri lo facciano perché è mossa dalla convinzione, che ormai ha acquistato la forza di un imperativo morale, di doversi fare carico personalmente della sofferenza di un altro. L’attribuzione a sé della responsabilità rimanda anche alle caratteristiche concrete della situazione in cui qualcuno ha bisogno d’aiuto. Gli studi mostrano che nelle situazioni di emergenza (v. box 6) in cui molte persone sono presenti (tipico è il caso di chi si sente male tra la folla) le probabili­ tà che qualcuno intervenga in aiuto sono paradossalmente molto minori che in un luogo solitario, dove gli spettatori sono pochi o uno solo. Infatti in presenza di molti testimoni ognuno tende a diffondere la responsabilità tra i presenti a scapito della propria, e si aspetta di conseguenza che inter­ venga qualcun altro; se nessuno interviene, si convincerà che in realtà non c’era alcuna condizione di emergenza e alcun bisogno di aiutare, e che ha fatto bene a non interve­ nire. Ancora una volta la tendenza a imitare, così forte negli esseri umani, mostra tutta la sua complessità e ambivalenza. Al contrario, il fatto di essere l’unica persona in grado di da­ re aiuto impedisce la diffusione della responsabilità tra tutti i presenti e la sua attribuzione generica a qualcuno di loro, e quasi “costringe” a intervenire: l’aiuto è quindi maggiore quando non sono presenti altri possibili soccorritori. ­83

Box 6 Aiutare nelle situazioni d’emergenza Circa il comportamento degli spettatori in situazioni d’emer­ genza, sono stati individuati cinque livelli nel processo di va­ lutazione della situazione che può portare alla decisione di aiutare: 1. Accorgersi che sta accadendo qualcosa. L’attenzione non è scontata, perché essa può essere distratta da altri fattori, sia interni (pensieri, preoccupazioni, ecc.) che esterni (abbondan­ za di stimoli, come spesso avviene nei luoghi molto affollati). 2. Considerare ciò che sta accadendo come un’emergenza. Le situazioni sono spesso ambigue: per esempio, può non essere chiaro se una persona ha davvero bisogno di aiuto. In questi casi lo spettatore osserva il comportamento degli altri, e l’iner­ zia altrui può convincerlo che non c’è niente di cui preoccu­ parsi. In un rispecchiamento reciproco, può così prevalere la passività rispetto all’intervento. 3. Decidere quali responsabilità assumersi per intervenire. La decisione di assumersi la responsabilità di intervenire non dipende solo dalla presenza di altri spettatori, che favorisce la diffusione della responsabilità, ma da una valutazione sog­ gettiva nella quale ha un ruolo importante l’atteggiamento internalista. 4. Scegliere il tipo d’intervento. Si tratta di valutare di che tipo di aiuto c’è bisogno e se si è in grado di darlo. Entrano qui in gioco i sentimenti di autoefficacia. 5. Decidere di attuarlo. Sapere di poter intervenire in modo utile favorisce la decisione di aiutare e contrasta i sentimenti di inadeguatezza o imbarazzo, suscitati dalla presenza di molti altri spettatori e dal timore del loro giudizio.

Il fatto di non poter delegare ad altri l’aiuto, ma di essere l’unica persona presente in grado di darlo, è stato considerato perlopiù un elemento oggettivo, caratteristico della situazione concreta in cui il potenziale soccorritore incontra una persona bisognosa d’aiuto. In realtà, esso è il frutto di una valutazione articolata, interna alla persona, sia che si tratti di situazioni d’emergenza che di momenti ­84

più usuali e quotidiani. Questa valutazione è certo influen­ zata dall’assenza fisica di potenziali soccorritori (tipico il caso dell’incidente in montagna in un luogo isolato), ma in ogni caso essa è il risultato di un processo cognitivo ed emotivo complesso, nel quale hanno un ruolo decisivo la convinzione di non dover delegare ad altri l’aiuto e la ten­ denza a sentirsi responsabili verso gli altri. Inoltre entrano in gioco anche i sentimenti di autoefficacia: su questa base una persona (per esempio un medico) può decidere che è l’unica in grado di intervenire in modo utile, anche se molti altri sono presenti. Altruismo e identità: la rappresentazione di sé La rappresentazione di se stessi come persone altruiste è un fattore importante nel favorire il comportamento d’aiuto, anche se sovente la letteratura lo ha trascurato, disperdendosi nell’analisi minuziosa di variabili più con­ tingenti. Ricordiamo che l’identità fa riferimento ai ruoli sociali, alle credenze e ai valori, e quindi a ciò per cui ci impegniamo nel dare un senso alla nostra vita. Sul piano personale l’identità è sperimentata come un vissuto coe­ rente di unità, mentre appare agli altri come credenza o impegno in una certa direzione. Se una persona considera come parte rilevante della propria identità essere attenta ai bisogni degli altri e pronta a intervenire in loro aiuto, questa rappresentazione di sé favorirà, in un circolo vir­ tuoso, il comportamento d’aiuto. Infatti il mancato aiuto verrebbe vissuto dalla persona stessa come una frattura nella propria identità, mentre gli altri vedrebbero deluse le loro aspettative. In altre parole, per una persona che ha interiorizzato valori di tipo altruistico e per la quale aiutare gli altri è un impegno che dà senso alla vita, comportarsi in modo contrario provoca sofferenza e sminuisce la stima di sé. Allo stesso tempo non è da trascurare il giudizio negativo degli altri, che si aspettano un comportamento d’aiuto. Si spiega così perché, paradossalmente, il giudizio sociale sia molto più critico nei confronti di una persona ­85

abitualmente altruista, nell’unico caso in cui viene meno a quest’atteggiamento, che non nei confronti di chi è sempre indifferente. Frasi del tipo “da lui non me lo sarei aspetta­ to” ben mostrano il peso delle aspettative sociali. Bisogna considerare che il processo di sviluppo dell’i­ dentità si snoda lungo tutta la vita dell’individuo, talvolta con profonde ristrutturazioni. Per tutti l’identità è radicata nell’emozione (come una valutazione positiva di sé), emer­ ge nella relazione sociale (prima in famiglia e poi a scuola, con gli amici, sul lavoro) e si sviluppa come un sistema di­ namico e autoregolato. Le testimonianze delle persone che si sono trovate in momenti storici drammatici, per esempio durante l’ultima guerra mondiale, indicano che la richiesta di aiuto da parte di un altro bisognoso e il primo coinvolgi­ mento hanno spesso profondamente modificato l’identità delle persone, costringendole a rivedere ciò che erano state fino a quel momento. Giorgio Perlasca e Oskar Schindler ne sono due esempi. Nel loro caso non si può riconoscere un’identità altruista precedente, ma un cambiamento in­ dotto dagli eventi: l’iniziale coinvolgimento nell’aiutare gli ebrei dalla persecuzione nazista li ha condotti a un coinvol­ gimento sempre maggiore e a comportamenti molto diversi da quelli cui erano fino a quel momento abituati. Vale per l’altruismo quella che è ormai un’acquisizione della psicologia dello sviluppo contemporanea: lo svilup­ po dura tutta la vita, e per tutta l’esistenza sono possi­ bili dei cambiamenti che modificano in modo positivo il rapporto tra l’individuo e gli altri. L’altruismo va quindi visto in un’ottica processuale, e non in modo fisso come un tratto di personalità determinato una volta per tutte e in modo stabile per tutta l’esistenza. 6.3. Lo stato emotivo di chi aiuta Abbiamo già visto che uno stato emotivo di personale di­ sagio, suscitato dall’osservare la sofferenza altrui, non fa­ ­86

vorisce l’aiuto, ma predispone alla fuga e all’indifferenza. In questi casi l’aiuto viene dato solo se esso è l’unico modo per eliminare, indirettamente, anche la propria sofferenza: in concreto, quando non ci sono vie di fuga e non ci sono altre persone che possono intervenire. Più in generale, gli studi sono concordi nel mostrare che gli stati d’animo negativi rendono l’altruismo meno probabile: le persone sofferenti, angosciate e tristi ­hanno poca disposizione a farsi carico dei problemi altrui e a prestare aiuto. Esse infatti sono maggiormente centrate su di sé e sul proprio dolore psichico e non hanno di conse­ guenza la disponibilità per aprirsi ad accogliere anche le pene altrui. La stessa condivisione empatica, che favorisce l’aiuto, è minore quando la sofferenza altrui riattiva perso­ nali ricordi e vissuti penosi, o quando la persona stessa è in una condizione presente di sofferenza. Questo aspetto è sovente misconosciuto nel senso comune e si crede er­ roneamente di motivare le persone all’aiuto suscitando in esse sentimenti negativi. Anche la depressione è uno stato d’animo che tiene lontani dall’aiuto. Oltre a comportare un ripiegamento su di sé e sui propri problemi, la depressione si accompa­ gna a una valutazione negativa di se stessi e delle proprie possibilità, unita a una generale riduzione dell’attività e della progettualità. In queste condizioni è evidente che prestare attenzione agli altri e agire in loro favore diven­ ta difficile. In questo modo la persona rimane prigioniera della sua condizione, perché l’aiuto potrebbe contribuire a ridurre il suo malessere. Infatti dare aiuto potrebbe aiu­ tare la persona depressa a recuperare un senso di fiducia nelle proprie capacità, a sentirsi utile, a ritrovare un senso nella propria vita: in una parola, a ritrovare un maggiore benessere psicologico. L’altruismo aiuta i sentimenti di benessere, che a loro volta facilitano l’altruismo, in una relazione circolare positiva. Perché questo avvenga è pe­ rò necessario un percorso graduale, che consenta di fare azioni di aiuto alla propria portata, via via rassicuranti. ­87

Molte persone sono consapevoli di quanto l’altruismo le aiuti a stare meglio e lo adottano come una strategia per far fronte a situazioni di personale difficoltà e infelicità. In questo modo riescono a migliorare il loro stato emotivo, innescando un circolo virtuoso. Insieme alla rabbia e ai sentimenti aggressivi, la paura è uno dei maggiori antagonisti dell’altruismo. Infatti quando l’altro, sia come individuo che come gruppo umano, suscita paura, nei suoi confronti vengono mobilitati comportamen­ ti difensivi e autoprotettivi che escludono l’aiuto. Queste difese sono del tutto adattive in una situazione di reale pe­ ricolo, che la paura segnala: non è opportuno aiutare chi ci vuole fare del male, e approfitterebbe del nostro aiuto per raggiungere i suoi obiettivi a nostro danno. La paura può però essere suscitata ad arte, per esempio attraverso la propaganda, e indirizzata verso persone o gruppi che non sono fonte di per sé di alcun pericolo. Gli esempi storici sono innumerevoli, e i moderni strumenti di comunicazio­ ne di massa hanno aumentato la capacità di manipolazione e persuasione. Non a caso il regime nazista dedicò molta cura alla propaganda attraverso la radio e il cinema, non disponendo ancora della televisione. Nella realtà contem­ poranea, quest’ultima è diventata il principale strumento di manipolazione e di induzione della paura, per esempio con l’enfasi con cui presenta i fatti di cronaca nera che hanno per protagonisti alcune categorie, quali gli immigrati o gli adolescenti. Attraverso quella che viene definita l’“euristica della disponibilità”, questi episodi si fissano nella memo­ ria per la loro risonanza emotiva e il loro ricordo diventa facilmente disponibile e rievocabile, tanto da far sembrare molto frequenti fenomeni che non sono statisticamente tali. Come conseguenza, si accentua la separazione tra il proprio gruppo e gli “altri” e si limita l’aiuto verso chi è identificato come appartenente al proprio gruppo. Tra i sentimenti negativi, un discorso particolare merita il senso di colpa. Le persone sono infatti maggiormente inclini ad aiutare gli altri quando si sentono direttamente ­88

responsabili del loro stato di bisogno, e vogliono di conse­ guenza riparare il danno arrecato e ripristinare la propria autostima. Perché il senso di colpa sia di spinta all’altrui­ smo occorre dunque che ci sia un ragionevole collegamen­ to tra la propria azione riprovevole e la sofferenza altrui, e non una generica colpevolizzazione priva di fondamento. La consapevolezza di aver causato un danno, che attra­ verso l’aiuto si può riparare, è di spinta al comportamento altruistico. Grazie a un processo di generalizzazione, la riparazione attraverso l’aiuto non si realizza soltanto, ove possibile, nei confronti di chi è stato direttamente dan­ neggiato, ma può estendersi ad altri: così l’uomo che ha causato per negligenza un incidente d’auto mortale può impegnarsi come volontario nel soccorso stradale. In conclusione, sono gli stati d’animo positivi a motivare maggiormente all’altruismo e di questo si dovrebbe tenere conto quando si cerca di favorire questo comportamento sia nei bambini che negli adulti. A questo si deve aggiun­ gere che, come abbiamo già visto a proposito dell’empatia, solo un livello ottimale di attivazione emotiva, dovuto a una buona capacità di autoregolazione, è capace di evitare reazioni emotive di disagio, impulsività, eccessi di coinvol­ gimento: tutte condizioni che non favoriscono i compor­ tamenti a favore degli altri. In concreto, una buona auto­ regolazione è conseguenza di un’educazione che favorisce la verbalizzazione delle emozioni, l’analisi di ciò che le ha provocate, la consapevolezza crescente delle proprie rea­ zioni e risposte fisiologiche. Tutti questi aspetti, pur essen­ do legati anche allo sviluppo cognitivo, non ne conseguono direttamente, ma sono connessi anche all’educazione. 6.4. Un atteggiamento che favorisce l’altruismo: la fiducia La fiducia può essere definita come la convinzione che un’altra persona non ha intenzioni negative o aggressive, ­89

e che quindi non agisce contro di noi, ma che al contrario opera a nostro vantaggio; proprio in forza di questa con­ vinzione positiva, la fiducia porta a fare affidamento sulle qualità di una persona o sulla verità di una sua afferma­ zione. La fiducia quindi è un’aspettativa circa le azioni di altri, prima o senza che queste siano controllabili. Come gli psicologi infantili hanno evidenziato, la fi­ ducia ha il suo primo fondamento nella relazione di at­ taccamento tra il bambino e la madre, grazie alla quale il piccolo fa l’esperienza di una persona che agisce per il suo bene e per soddisfare le sue necessità, in una condizione di totale dipendenza. Di conseguenza, egli impara sia a fare affidamento sugli altri sia ad affrontare con sicurezza il mondo, fidandosi delle sue capacità: c’è quindi una stret­ ta relazione tra fiducia negli altri e fiducia in se stessi. Il rapporto con gli adulti all’interno della famiglia non è che l’inizio dello sviluppo della fiducia. Lungo gli anni dell’e­ tà evolutiva, il bambino viene in contatto con altri adulti, come gli educatori e gli insegnanti, cui egli si affida con fiducia; queste figure svolgono un ruolo fondamentale nel­ lo sviluppo della fiducia verso il mondo sociale al di fuori della famiglia. Nel contempo, il rapporto con i coetanei costringe il bambino a confrontarsi con esperienze che gli insegnano, talvolta anche in modo doloroso, a imparare a discriminare chi è degno di fiducia e chi no. Un ruolo cruciale è svolto in particolare, sia durante la fanciullezza che nell’adolescenza, dalle relazioni di amicizia, nelle quali il bambino sperimenta la reciprocità, ma anche la possibi­ lità che questa venga violata. Egli impara così quali sono le condizioni sia del dare fiducia sia dell’ottenerla, e in quale modo è possibile discriminare le situazioni e i tipi di relazione in cui dare o non dare fiducia ai coetanei. Lo sviluppo della fiducia è legato anche ai modelli cul­ turali. Si può parlare di un’educazione, anche se perlopiù implicita e non consapevole, alla fiducia, o al contrario alla sfiducia, culturalmente connotata, legata ai messaggi che vengono dati sul mondo sociale circostante. In particolare, ­90

i diversi gruppi sociali (famiglia, scuola, chiesa, comunità di paese o di quartiere) possono insistere sulle differenze tra chi è noto e chi è ignoto, sulla contrapposizione tra ingroup e outgroup (infra paragrafo 6.5), in modo da ac­ centuare oppure ridurre non solo la curiosità, ma anche l’apertura e la fiducia nei confronti di chi non appartiene al proprio gruppo. In particolare l’educazione può raffor­ zare la tendenza a dare maggiore fiducia a chi viene vissuto come simile a sé (per cultura, gruppo sociale, religione, ecc.), conducendo a dare fiducia solo a chi appartiene al proprio gruppo familiare, religioso o etnico. Dall’intreccio tra modelli culturali ed esperienze per­ sonali si costruiscono convinzioni su chi è degno o inde­ gno di fiducia. Queste valutazioni preconcette possono condurre a vere e proprie distorsioni nell’interpretazione della comunicazione altrui, con un progressivo sedimen­ tarsi e irrigidirsi di queste credenze. Così, se una persona ritiene che tutti coloro che appartengono a un certo grup­ po sociale non sono degni di fiducia, agirà di conseguenza, riducendo i contatti e interpretando i loro comportamenti in modo negativo. La reciprocità, sia diretta che indiretta, è un aspetto essenziale della fiducia. Se nel bambino piccolo vi è un’as­ soluta asimmetria – il bambino si affida totalmente e pas­ sivamente all’adulto che si prende cura di lui –, nel corso dello sviluppo gradualmente la reciprocità diventa deter­ minante nella relazione di fiducia tra due persone adulte. La fanciullezza e ancor più l’adolescenza sono momenti cruciali per lo sviluppo della reciprocità, come mostrano le frequenti discussioni non solo tra genitori e figli adole­ scenti, ma anche tra amici, sul dare fiducia e sulla necessità di essere affidabili, e quindi sulla gravità del tradimento, che lede la reciprocità. Questa reciprocità innesca, nel me­ dio e lungo periodo, un giro virtuoso di fiducia reciproca. Lungo lo sviluppo, la violazione della fiducia e la man­ canza di reciprocità vengono sempre più valutate come comportamenti moralmente riprovevoli. ­91

La fiducia è indispensabile per il buon funzionamento della vita sociale, ben oltre le relazioni faccia a faccia. Nelle società allargate e complesse, come la nostra, la situazione è paradossale: da un lato, le relazioni faccia a faccia diminui­ scono, e non c’è la possibilità di verificare se una persona è degna di fiducia; dall’altro, essa diventa ancora più neces­ saria, perché molte sono le situazioni in cui dobbiamo affi­ darci del tutto agli altri. Per esempio, è in base alla fiducia che saliamo su un aereo e affidiamo la nostra vita a piloti e tecnici che non conosciamo, che non vedremo mai e di cui non sappiamo nulla: ci aspettiamo, in cambio del paga­ mento del biglietto e del rispetto, da parte nostra, di alcune regole di comportamento, che queste persone ci diano un servizio affidabile e sicuro, fornito secondo regole condi­ vise e rispettate. In altre parole: ci aspettiamo che tutti fac­ ciano bene il loro lavoro e ci portino a destinazione sani e salvi. La reciprocità e la responsabilità rimandano quindi al rispetto delle regole. Nell’esempio fatto, sia il personale dell’aereo che i passeggeri sono chiamati a un comporta­ mento responsabile, cioè al rispetto coscienzioso di regole condivise. Nelle società democratiche, le regole garantisco­ no l’imparzialità dell’azione, sulla base della riconosciuta uguaglianza e pari dignità delle persone. Ci si aspetta che queste regole siano introiettate, ma anche che esistano dei garanti della legalità che ne controllano il rispetto: rispetto delle regole e fiducia sono dunque collegati. La fiducia favorisce il comportamento altruistico e in generale la socialità positiva. Infatti essa implica un atteg­ giamento di disponibilità e apertura all’altro: le sue esi­ genze sono ritenute degne di attenzione e le sue intenzio­ ni sono considerate sincere. La sfiducia fa invece ritenere non veritiera una richiesta d’aiuto, e porta a reputare che vi siano calcoli malevoli o secondi fini: in queste condi­ zioni l’aiuto diventa impossibile o è fortemente limitato, e prevale l’indifferenza. Inoltre la fiducia reciproca apre alla collaborazione in un clima sereno e produttivo, mentre la sfiducia fomenta comportamenti antagonistici o fran­ ­92

camente aggressivi. Il tradimento della fiducia, in partico­ lare, può impedire futuri comportamenti di apertura e di aiuto, e rendere difficile un recupero della fiducia stessa. Se le violazioni più lievi possono essere facilmente supera­ te con un atteggiamento di indulgenza, per altre si rende necessario il perdono, che può essere molto più difficile da concedere. Esso richiede infatti un distanziamento emoti­ vo dalla situazione e una rinuncia a mantenere nel tempo atteggiamenti negativi di rancore. 6.5. Le caratteristiche di chi riceve l’aiuto Anche le caratteristiche della persona da aiutare hanno un ruolo importante nella decisione di agire a suo favore. In realtà, anche in questo caso, non si tratta soltanto di caratteristiche che appartengono in senso stretto all’altro, ma di aspetti che vengono attribuiti all’altro, e che posso­ no avere un maggiore o minore grado di corrispondenza con la realtà. La mente umana, come abbiamo detto più volte, si caratterizza per la capacità di svincolarsi dalla percezione e per quella di rappresentarsi mentalmente la realtà, e quindi di costruire interpretazioni e credenze che possono allontanarsi dalla realtà e anche distorcere, in diversa misura, ciò che essa obiettivamente presenta. Quando parliamo di caratteristiche di chi riceve l’aiuto dobbiamo di conseguenza sempre ricordare che ciò che conta nel motivare l’azione dell’individuo è il modo in cui l’osservatore se le rappresenta. L’appartenenza al gruppo Un primo aspetto discriminante nella disponibilità a com­ portarsi in modo altruista e favorevole agli altri è dato dall’appartenenza o meno dell’altro al proprio gruppo. Gli psicologi sociali parlano a questo riguardo di ingroup e di outgroup. Il primo è dato dal gruppo a cui la persona sente di essere legata da vincoli di attaccamento e appartenenza, ­93

nel quale essa positivamente si identifica e verso cui ha un at­ teggiamento di valorizzazione. Questo attaccamento riguar­ da anzitutto i propri familiari più stretti e gli amici, cui si è uniti da affetto, convivenza o abituale frequentazione; esso può però allargarsi, sempre grazie alle specifiche capacità cognitive umane, anche ad altre persone con cui condivi­ diamo lo stesso territorio, la medesima lingua, una comune tradizione o credo religioso. Di conseguenza i motivi che uniscono possono essere molto diversi, così come differenti possono essere i livelli di coesione del gruppo, a seconda che si tratti della famiglia, della chiesa, del vicinato, degli amici, della nazione. Ciò che conta è il senso di condivisione e di attaccamento reciproco che i componenti sentono tra loro, se pure con diversi gradi di importanza e intensità. Gli studi sono concordi nel mostrare che le persone sono maggiormente disponibili ad aiutare coloro che iden­ tificano come appartenenti al proprio gruppo. Quanto più un gruppo è chiuso, tanto maggiore è la separazione tra chi appartiene al gruppo e gli estranei che non vi appartengo­ no, e di conseguenza tanto minore è l’aiuto nei confronti di questi ultimi. Soprattutto nei momenti critici, in cui vi è penuria di risorse, la tendenza a privilegiare coloro che sono considerati a pieno titolo come appartenenti al pro­ prio gruppo, a danno degli estranei o di coloro che sono più marginali, si fa maggiore. Ugualmente, nei momenti di conflitto interno, o di difficoltà economica e sociale, può facilmente accadere che i componenti di un gruppo non solo riducano i comportamenti d’aiuto verso chi è esterno ad esso, ma anche spostino su queste persone i sentimenti aggressivi, comportandosi di conseguenza in modo vio­ lento. Le persone esterne al gruppo di appartenenza, o comunque a esso legate da minori vincoli, diventano così dei capri espiatori per le tensioni e per i fallimenti del pro­ prio gruppo; questi non vengono espressi all’interno per il timore che possano disgregare il gruppo stesso. Un’al­ tra emozione che chiude il gruppo al suo interno, e limi­ ta fortemente l’apertura e ancor più l’altruismo verso chi ­94

non vi appartiene, è la paura. Quest’ultima sovente non è motivata da fatti reali, ma viene agitata da manipolatori e dittatori verso gruppi esterni, allo scopo sia di distogliere l’attenzione dei componenti del gruppo da problemi ben più gravi e irrisolti, che restano così in ombra, sia di coaliz­ zare il gruppo stesso nella lotta contro un nemico esterno. La diffusione dei diversi mezzi di comunicazione di massa che usano immagini virtuali ha notevolmente ampliato, negli ultimi cinquant’anni, le possibilità di manipolazione dell’aggressività e della paura all’interno dei vari gruppi, a spese di chi non vi appartiene. Ma anche nelle epoche precedenti non mancano certo gli esempi, primo fra tutti quello della Germania nazista. In particolare la solidarietà è sentita come un obbligo forte e quasi naturale nei confronti del proprio gruppo di appartenenza, costituito anzitutto, nelle società tradizionali, dalla famiglia e dal clan. Di conseguenza, si può essere mol­ to solidali e altruisti all’interno della propria famiglia o pic­ colo gruppo, ma ignorare del tutto i bisogni e le richieste di coloro che non vi appartengono. La solidarietà non si iden­ tifica con l’altruismo, ma lo promuove, poiché essa compor­ ta il riconoscimento di un legame comune che obbliga alla reciprocità e all’impegno. L’essere umano è in grado, grazie ai suoi strumenti di pensiero, di rappresentarsi i legami di comune umanità anche verso gli estranei, in base a principi universali: come abbiamo visto, esistono delle importanti predisposizioni biologiche che agiscono in questo senso, e che sostengono il riconoscimento culturale dell’altro co­ me uguale a sé. Ciò nonostante, in una società complessa e articolata come l’attuale, dove le persone appartengono a gruppi molto diversi e spesso poco coesi, la solidarietà può essere fragile; anche il richiamo alla reciprocità e all’impe­ gno a favore degli altri può così risultare debole. La similarità La similarità svolge un ruolo importante nel favorire sia l’empatia sia le azioni altruiste. Gli altri provocano in ­95

noi una maggiore risonanza, e noi possiamo a nostra vol­ ta specchiarci più facilmente in essi, se condividiamo le stesse caratteristiche. Di conseguenza tendiamo a privi­ legiare chi ci assomiglia, abbiamo maggiore disponibilità alla condivisione e siamo più propensi all’aiuto verso chi è simile a noi; per contrasto, le diversità allontanano sia dalla condivisione emotiva che dall’intervento. La valutazione della similarità si intreccia con quella dell’appartenenza al gruppo, di cui abbiamo appena parlato, poiché coloro che appartengono allo stesso gruppo sono percepiti anche come maggiormente simili a sé, e per molti aspetti lo sono veramente. La similarità di religione, etnia, usi, provenien­ za geografica, appartenenza politica, cultura, e molto altro ancora, favorisce quindi l’immedesimazione con gli altri e i comportamenti altruistici nei loro confronti. Accanto alle differenze fisiche più evidenti – prima fra tutte il sesso – svolgono a questo proposito un ruolo cruciale le categorie in cui le persone vengono inserite, e i valori correlati. Infatti, se è innegabile ed evidente che condividiamo la stessa umanità, abbiamo però anche molti altri aspetti che, all’interno di questa comune appartenen­ za, ci differenziano. Se l’educazione e la cultura ci portano a sottolineare di più ciò che ci divide e a svalutare le ca­ ratteristiche degli altri, diventa molto più facile limitare la solidarietà a chi è simile a noi, e rifiutarla a chi è diverso. Per chiarezza, bisogna sottolineare che non si tratta di ne­ gare la diversità e far finta che le differenze – di sesso, età, cultura, religione, ecc. – non esistano. La negazione delle differenze è una pessima strategia, perché queste sono del tutto reali e prima o poi si impongono con la loro forza. È questo un errore che viene talvolta fatto nell’educazione dei bambini, con il risultato di proporre una visione falsa della realtà, che non prepara a comportamenti più altrui­ stici nel presente e nell’età adulta. Va invece sottolineato ciò che ci unisce agli altri, al di là e nonostante le diffe­ renze, in quanto persone che condividono a pieno titolo la stessa umanità. Il riconoscimento della diversità, unito ­96

a quello della comune umanità, permette di tenere conto della realtà e dei bisogni degli altri, evitando i rischi di una loro categorizzazione subumana. Si tratta, insomma, di ritrovare la similarità data dalla comune appartenenza alla specie umana, al di là delle altre differenze che pure esistono, di qualunque natura esse siano: non vi sono in questo caso categorie verso le quali è lecito essere indif­ ferenti, o peggio violenti. Gli studi confermano a questo riguardo che le persone che si riconoscono in valori che sottolineano l’umanità di tutti sono maggiormente pro­ pense a mettere in atto azioni a favore degli altri. La responsabilità della vittima Un ragionamento che ben evidenzia la complessità delle valutazioni di chi aiuta nei confronti del potenziale benefi­ ciato, in bilico tra analisi oggettiva e distorsioni soggettive, è quello che riguarda la responsabilità della vittima. Gli studi indicano che l’aiuto viene dato con maggiore facilità quando la vittima non è ritenuta profittatrice o responsa­ bile di ciò che le è accaduto. Per esempio, la disponibilità ad aiutare economicamente una persona che ha perso i propri beni al gioco è molto minore che nel caso di una perdita per una catastrofe naturale. Per comprendere queste valutazioni dobbiamo tenere conto dell’importanza della reciprocità e della responsa­ bilità, aspetti tra loro intrecciati e a loro volta collegati al sentimento di equità. Ciò significa, anzitutto, che siamo disposti ad aiutare gli altri ma ci aspettiamo che questi non agiscano contro di noi e i nostri simili, e siano a loro vol­ ta propensi ad aiutare. Coloro che violano questi principi suscitano emozioni e giudizi negativi, su cui trovano fon­ damento le norme sociali che ne giustificano la punizione, allo scopo di limitare i comportamenti egoistici e ingiusti e di salvaguardare il benessere collettivo. Nel comportamen­ to d’aiuto, la valutazione dell’implicazione della persona nelle disgrazie da cui è afflitta deriva da questi presuppo­ sti, ed è per molti aspetti utile, perché responsabilizza gli ­97

individui e li induce a non approfittare con leggerezza, o peggio in modo disonesto, della benevolenza e dell’aiuto altrui. In concreto, siamo disponibili ad aiutare gli altri ma allo stesso tempo ci attendiamo che questi non si mettano volontariamente nella situazione di avere bisogno d’aiu­ to. Sono valutate con particolare severità le situazioni in cui un individuo, in modo irresponsabile, si mette in una condizione di pericolo, che diventa tale anche per altre persone innocenti (come i figli) o per gli stessi soccorritori (come avviene nel caso di inesperti che fanno ascensioni estreme in montagna). Si tratta di una valutazione morale di base, spesso implicita, che deriva dalla necessità di non beneficiare gli egoisti, i profittatori e gli irresponsabili; co­ me abbiamo visto, è un problema che, per certi aspetti, già i primati si trovano a dover affrontare nei loro gruppi ma che è ben superiore nelle società umane, per la specificità delle capacità cognitive e la complessità culturale. La valutazione della responsabilità della vittima pre­ senta però anche notevoli rischi, perché molto spesso essa è solo in apparenza oggettiva. Attribuire alla vittima la colpa dei suoi guai è infatti una comoda scappatoia per giustificare la propria indifferenza e inerzia; per que­ sto l’attribuzione di colpa alla vittima può essere usata come meccanismo di autoassoluzione e disimpegno mo­ rale (v. supra box 5), perché consente di contravvenire all’imperativo morale di aiutare chi ne ha bisogno senza provare alcun rimorso. Questo meccanismo può portare facilmente a colpevolizzare persone del tutto innocenti, a cercare colpe inesistenti e a negare l’aiuto anche a chi non ha la minima responsabilità della sofferenza da cui è colpito. Il disimpegno morale non è il solo meccanismo in gio­ co: alla base della tendenza a colpevolizzare la vittima vi è anche il rifiuto difensivo dell’idea di caso, per ragioni sia emotive che cognitive. Sul piano emotivo, accettare l’idea di casualità significa ammettere che quanto è accaduto all’altro potrebbe accadere anche a noi. Questa possibilità ­98

è molto ansiogena, ed è più rassicurante pensare che la vittima – di un incidente, di una disgrazia, di una malat­ tia – abbia agito in modo errato: insomma, se l’è andata a cercare. Sul piano cognitivo, la mente umana ha difficoltà ad accettare l’idea di caso e cerca sempre di rinvenire un ordine in ciò che accade, e di trovare una spiegazione agli eventi drammatici o anche solo inusuali. La colpevolizza­ zione della vittima rientra quindi in una strategia difensiva di ragionamento, che porta a giudicare in base alla “teoria del mondo giusto”, per la quale le persone hanno ciò che si meritano e il caso non esiste. Bisogna quindi essere sempre consapevoli che vi è in tutti noi una grande ambivalenza nei confronti della vittima, di qualunque tipo essa sia. Se per molti aspetti essa suscita compassione, per molti altri spaventa, poiché è testimone della possibilità che eventi terribili possono accadere a chiunque. Contro tale prospettiva si mobilita appunto il meccanismo di difesa della colpevolizzazione della vittima, che può portare a valutazioni gravemente distorte del grado di responsabilità di chi è stato colpito da una disgrazia o da una malattia. A livello sociale, su questo meccanismo fanno sovente leva politici e gruppi sociali, per sottrarsi alla responsabilità di agire e dare aiuto a gruppi svantaggiati.

7.

Piccoli altruisti crescono

7.1. Predisposizioni biologiche e influenze culturali Come abbiamo più volte ricordato, la socialità positiva, al pari di ogni altra disposizione biologica, non si traduce nell’uomo in comportamenti obbligati, ma soltanto in predi­ sposizioni; queste possono trovare realizzazione solo grazie all’incontro con contesti favorevoli, che ne permettono la piena espressione. L’analisi della socialità positiva non può quindi limitarsi a considerare le predisposizioni biologiche alla relazione sociale. Come per ogni altro comportamento umano, queste si intrecciano con le influenze che provengo­ no dalla cultura, la quale dà nuovi spazi di libertà all’azione umana, che possono essere utilizzati in senso positivo ma anche negativo. Ciò significa che i modelli culturali pos­ sono favorire l’attuazione delle predisposizioni biologiche alla socialità positiva, oppure contrastarle. Infatti la psiche umana, per le sue stesse caratteristiche cognitive che le per­ mettono di rappresentarsi mentalmente la realtà e di lavo­ rare su queste rappresentazioni in modo consapevole, non è vincolata in modo rigido dalla biologia, ma può compiere azioni che contrastano le sue stesse tendenze biologiche. Nelle varie parti del mondo, gli antropologi hanno descritto gruppi umani molto diversi tra loro per quanto riguarda la socialità positiva, smentendo sia il mito del­ ­100

la bontà originaria che quello opposto della distruttività. Per esempio, Margaret Mead ha trovato nelle società della Nuova Guinea gruppi molto solidali e pacifici e altri mol­ to bellicosi. Si tratta di culture che erano, al momento in cui venivano studiate, abbastanza stabili e coese. Molto più complessa è la situazione nella società contemporanea occidentale, che non è monolitica ma anzi molto artico­ lata, caratterizzata com’è da una pluralità di modelli di riferimento e da una continua e rapida evoluzione. Pur privilegiando alcuni valori di fondo, come l’individuo e la sua libertà, la cultura occidentale si caratterizza per la molteplicità dei suoi riferimenti e per il rimescolamento tra le culture, in un mondo sempre più globalizzato. Sia la famiglia sia la scuola non agiscono nel vuoto, ma si col­ locano all’interno di una cultura che propone oggi una pluralità di valori e di modelli. 7.2. L’importanza dei valori Chiediamoci anzitutto quali valori siano maggiormente le­ gati ai comportamenti altruistici. In quanto principi a forte contenuto affettivo che indicano che cosa è giusto o desi­ derabile fare, i valori indirizzano il comportamento delle persone circa le mete, le priorità e la loro realizzazione. Essi svolgono quindi un ruolo importante, come canoni cui la persona fa riferimento e che mediano l’assunzione di responsabilità e le azioni a favore degli altri. I valori sono legati alla socializzazione in famiglia e a scuola. Queste agenzie educative possono svolgere un ruolo critico nei confronti di alcuni valori proposti dalla società, mentre possono essere acquiescenti e passive nei confronti di altri. Non va poi dimenticato che anche l’individuo svolge un ruolo importante nel costruire i propri riferimenti valo­ riali; a partire dall’adolescenza, infatti, i valori trasmessi dalla famiglia e dall’ambiente in cui si è cresciuti vengono sottoposti a revisione e le scelte consapevoli dell’individuo diventano sempre più importanti. ­101

I valori che risultano maggiormente legati alla disponi­ bilità ad aiutare gli altri, secondo la classificazione di Sha­ lom H. Schwartz, sono l’universalismo e la benevolenza; sono valori definiti di autotrascendenza, che enfatizzano l’accettazione dell’altro e l’impegno personale per il bene comune. L’universalismo è caratterizzato dall’orientamen­ to positivo verso qualunque essere umano, senza distin­ zione alcuna, che porta a nutrire un senso universale di giustizia e di obbligo nei confronti di tutti. Non esistono per quest’orientamento valoriale persone meno degne, quasi-persone o addirittura non-persone, secondo quel processo di deumanizzazione che abbiamo descritto. Il richiamo a questo valore accomuna tutti coloro che han­ no agito a favore dei perseguitati religiosi, etnici o politici anche mettendo in grave pericolo la loro vita. La benevolenza è un orientamento valoriale che pri­ vilegia l’attenzione per le persone vicine a sé e per il loro benessere. Essa agisce soprattutto all’interno della fami­ glia e degli altri gruppi di base cui la persona appartiene (ingroup). Il fatto che essa si accompagni all’universalismo impedisce che l’aiuto venga fornito soltanto ai componen­ ti del proprio gruppo, con il rischio di escludere gli altri: la benevolenza può così estendersi a tutti. Studi effettuati nel nostro paese sulle persone che si de­ dicano al volontariato hanno messo in luce che anche il tra­ dizionalismo può svolgere un ruolo di positiva promo­zione dei comportamenti d’aiuto. Si tratta di un valore di tipo piuttosto diverso dai precedenti, che si riferisce al rispetto della tradizione e all’accettazione delle usanze e delle idee della propria cultura e religione. È un valore connesso al conformismo, cioè all’autolimitazione del proprio compor­ tamento in rapporto alle esigenze e alle norme sociali. Si tratta quindi di un valore che tendenzialmente privilegia l’aiuto e la solidarietà nei confronti delle persone che ap­ partengono al proprio gruppo, le cui caratteristiche tradi­ zionali sono considerate importanti. Questo valore potreb­ be quindi limitare il comportamento altruistico al proprio ­102

gruppo, e anzi favorire la chiusura e il rifiuto nei confronti di chi non condivide la stessa tradizione. Anche in questo caso, è l’unione di questo valore con quello dell’universa­ lismo a evitare i pericoli della separazione, che potrebbe portare fino alla deumanizzazione. Universalismo e tradi­ zionalismo, insomma, possono coesistere e motivare com­ portamenti altruistici non limitati al proprio gruppo. I valori cosiddetti di autoaccrescimento, come l’edo­ nismo (che ricomprende il consumismo) e la ricerca del successo e del potere, sono antagonisti all’impegno verso gli altri. Se la relazione negativa tra altruismo e questi va­ lori è prevedibile, la relazione positiva con valori non solo diversi ma anche per certi aspetti divergenti – come uni­ versalismo, benevolenza e tradizionalismo – ben evidenzia la complessità e la varietà dei motivi che spingono ai com­ portamenti che beneficiano gli altri. In particolare viene confermato il peso di alcuni valori nel favorire l’aiuto solo all’interno del proprio gruppo, a scapito delle persone che non vi appartengono. In concreto, questo significa che un atteggiamento altruistico nei confronti delle persone del­ la propria famiglia, chiesa o paese non garantisce affatto circa la stessa disponibilità verso gli estranei. Una confer­ ma in più circa l’impossibilità di delineare una personalità altruistica disponibile ad aiutare sempre e in ogni situa­ zione, ma al contrario delle numerose sfaccettature che il comportamento d’aiuto può presentare in ogni individuo, nel complesso intreccio tra riferimenti valoriali personali e caratteristiche del destinatario. 7.3. La famiglia A partire dalla constatazione dell’importanza esercitata dalla famiglia nella lunga infanzia umana, molti studi han­ no cercato di comprendere se esistano caratteristiche della famiglia che possono favorire lo sviluppo di una persona maggiormente attenta agli altri e disposta a intervenire a ­103

loro vantaggio. In realtà, poiché non è possibile delineare una personalità altruistica, disponibile ad agire sempre, in tutte le situazioni, a favore degli altri, non è nemmeno possibile individuare una famiglia capace di crescere un tale tipo di personalità, e questo spiega perché i risultati delle ricerche siano a questo riguardo non del tutto coe­ renti. È però possibile identificare alcuni atteggiamenti e pratiche educative che più di altri sono risultati favorevoli, sia a breve che a lungo termine, all’attuazione di compor­ tamenti altruistici. Affetti e fiducia Un primo aspetto che è risultato essere di grande impor­ tanza è l’atteggiamento affettuoso dei genitori, attenti ai bisogni dei figli e capaci di prendersi cura di essi. La dispo­ nibilità a occuparsi degli altri e del loro benessere è maggio­ re quando i figli hanno fatto diretta e personale esperienza di genitori che li hanno accuditi amorevolmente. È più facile, insomma, essere disponibili verso gli altri se si è spe­ rimentata tale disponibilità in famiglia. Questo nesso non sorprende, e conferma ancora una volta il ruolo decisivo dei legami individualizzati d’affetto nella vita degli esseri umani. Non si tratta solo dell’apprendimento di modelli di comportamento attenti agli altri, anche se questo aspetto è sicuramente presente. In modo più profondo, la relazione affettiva permette la costruzione della sicurezza di sé, che consente di esplorare senza timore il mondo sociale e di non avere paura degli altri. La fiducia, sia in sé che negli altri, è il frutto positivo di un buon rapporto affettivo. Come abbiamo detto, la fiducia favorisce l’altruismo. Anche se essa non deriva soltanto dalla relazione d’attac­ camento e dalle esperienze familiari, le famiglie caratte­ rizzate da atteggiamenti fiduciosi verso gli altri e verso il proprio contesto di vita predispongono maggiormente i figli ai comportamenti d’aiuto. Studi italiani su giovani volontari hanno mostrato che essi provengono maggior­ mente da famiglie in cui l’ambiente circostante è vissuto ­104

senza timore e angoscia; di conseguenza, non si generano atteggiamenti di chiusura e il rapporto tra la famiglia e l’ambiente rimane aperto e dinamico. Modelli educativi L’affetto non è l’unico elemento che entra in gioco nel de­ finire un modello educativo. Gli psicologi identificano a questo riguardo anche altri aspetti. Alcuni, come l’accet­ tazione del figlio, l’interesse nei suoi confronti, il sostegno emotivo e la buona comunicazione sono legati all’affet­ to, di cui rappresentano la concretizzazione; altri invece, come il sistema di regole e di controlli, rimandano alla consapevolezza di dover guidare lo sviluppo morale del figlio. L’educazione autorevole, che combina gli elementi indicati, è risultata la più capace di favorire nei figli i com­ portamenti d’aiuto. Modelli autoritari, caratterizzati da atteggiamenti ostili e rigidi, non predispongono all’atten­ zione agli altri e all’altruismo, ma al contrario favoriscono le azioni aggressive. Lo stesso avviene per l’educazione permissiva, fatta di sostegno ma priva di regole e sanzioni; essa impedisce l’attenzione verso gli altri, il superamento dell’egocentrismo e lo sviluppo dell’autocontrollo, con il risultato di favorire l’irritabilità e l’attacco impulsivo. La convinzione dei “figli dei fiori” della seconda metà del Novecento che il permissivismo favorisse lo sviluppo di personalità più pacifiche e compassionevoli era del tutto illusoria e priva di fondamento psicologico. Quanto alle tecniche disciplinari, sono risultate utili quelle induttive, che consistono nel rendere consapevole il bambino delle conseguenze dei suoi atti sugli altri e nell’in­ coraggiare la riparazione. Queste modalità infatti favori­ scono il superamento dell’egocentrismo e lo sviluppo della capacità di decentramento, cioè di tenere conto del punto di vista altrui e di rappresentarsi il suo vissuto: favoriscono, insomma, la condivisione empatica più evoluta. La ripara­ zione, che va dal chiedere scusa all’agire a favore della vitti­ ma per rimediare al danno arrecato, sviluppa anche il senso ­105

di responsabilità nei confronti delle proprie azioni e il cor­ rispondente dovere di farsi carico delle conseguenze. L’im­ portanza del senso di responsabilità è confermata dal ruolo positivo svolto, nell’educazione all’altruismo, dalla richiesta di eseguire incarichi nei confronti di fratelli o altri bambini più piccoli. Queste attività, proposte in famiglia ma anche al di fuori di essa, sono state anche definite “richieste di maturità”, perché ai bambini viene richiesto di agire in mo­ do autonomo e maturo, facendosi carico di compiti sociali adeguati al loro livello di capacità nei confronti dei coetanei o di bambini più piccoli. Circa gli esempi di altruismo dei genitori, sono risultati importanti in particolare quelli dei padri, probabilmente a causa del ruolo di mediazione che il padre ha tra il figlio e la società, e che continua ad avere nonostante i profondi cambiamenti della famiglia. In conclusione, si può affermare che la famiglia favo­ risce i comportamenti altruistici, sia nell’immediato sia nell’età adolescenziale e adulta, quando fin dall’infanzia fa fare ai bambini delle esperienze concrete di cura degli altri, sia come destinatari che come attori di comporta­ menti d’aiuto, in un clima d’affetto e di fiducia, ma anche di rispetto delle regole, nel quale al bambino viene data autonomia e viene richiesta responsabilità. La lezione che si trae da questi studi è che l’attenzione per gli altri non si impara dalle parole, dalle prediche e nemmeno solo dagli esempi, ma soprattutto agendo. 7.4. La scuola Pur essendo il primo, la famiglia non è l’unico contesto di vita dei bambini. Accanto a essa ci sono i coetanei, cioè i bambini della stessa età che non appartengono alla fami­ glia; oggi si riconosce che essi sono importanti tanto quan­ to gli adulti, secondo alcuni addirittura di più degli adulti, nel processo di crescita e di socializzazione dei bambini. Solo le relazioni con i coetanei permettono lo sviluppo di ­106

capacità sociali essenziali, che non possono maturare nel rapporto con i genitori e nemmeno con i fratelli; infatti il rapporto con i coetanei mette in gioco capacità di rela­ zione e di confronto che in famiglia non sono chiamate in causa, né con gli adulti né con i fratelli. Mentre i genitori non sono in una posizione paritaria nei confronti dei figli, i fratelli, indipendentemente dalla differenza di età, vivono tra loro una relazione affettiva forte che durerà tutta la vita e condividono l’affetto per gli stessi genitori, in inevitabi­ le competizione tra loro. I coetanei invece sono bambini estranei alla famiglia, con i quali il rapporto è di minore coinvolgimento sia temporale che affettivo. Grazie a que­ ste caratteristiche si realizza con essi una relazione parita­ ria, non permanente e non segnata da vincoli particolari. In questo senso il rapporto con i pari prefigura le relazioni con i propri simili che ognuno di noi vive, da adulto, nella propria vita lavorativa e sociale. Se in passato il rapporto con i coetanei si realizzava nel cortile o nel vicinato, oggi esso si attua fin dalla prima in­ fanzia soprattutto nelle istituzioni educative che la società organizza, come nidi, scuola dell’infanzia e scuola dell’ob­ bligo. È quindi a queste istituzioni che si riferiscono per­ lopiù le ricerche che riguardano le relazioni con i coetanei e le situazioni che maggiormente favoriscono lo sviluppo della socialità positiva e in specifico dell’altruismo. La cooperazione La scuola è la palestra più importante per l’esercizio della capacità cooperativa, in quanto contesto guidato in cui i bambini convivono con i coetanei. Purtroppo molti quan­ do pensano alla scuola hanno in mente soprattutto le si­ tuazioni di competizione e di rifiuto di aiuto ai compagni. In realtà non è così, perché sia il nido che la scuola, lungo i vari anni dello sviluppo, propongono, accanto a problemi da risolvere individualmente, moltissime situazioni com­ plesse la cui soluzione passa necessariamente attraverso la capacità di lavorare con gli altri per ottenere un risultato ­107

utile per tutti. Queste situazioni possono sia essere propo­ ste intenzionalmente, come parte delle attività educative, sia sorgere spontaneamente nelle interazioni tra bambini. Cooperare significa operare insieme per un obiettivo comune. Nella cooperazione non si lavora semplicemente a fianco di un’altra persona, e tanto meno contro di essa, ma si lavora insieme a lei, coordinando le azioni e le com­ petenze al fine di raggiungere uno scopo che interessa a entrambi. La cooperazione può comportare la rinuncia a ottenere un risultato immediato, che sarebbe però di mi­ nore durata e valore, per lavorare con altri per un obiettivo comune, più rilevante. Essa è indispensabile nelle situazio­ ni complesse, che non possono essere affrontate e risolte individualmente; per questo è ritenuta una competenza necessaria (v. infra box 8) sia per la sopravvivenza dell’in­ dividuo e il suo benessere, sia per il buon funzionamento della società. Per questo molti economisti considerano oggi i comportamenti cooperativi indispensabili per lo sviluppo e la prosperità economica di una società, non so­ lo al suo interno e in contrapposizione con l’esterno, ma anche nel mondo globalizzato nel suo complesso, proprio per affrontare al meglio le nuove sfide mondiali, non solo economiche ma anche ecologiche e sociali. Per le sue caratteristiche, la cooperazione è stata a lungo considerata possibile solo quando il bambino è in grado di un sufficiente decentramento dal proprio punto di vista, perché è ormai cognitivamente capace di pren­ dere in considerazione anche il punto di vista altrui e non solo il proprio. In concreto, questo superamento dell’e­ gocentrismo avviene a partire dai cinque-sei anni. Per quanto queste indicazioni temporali sullo sviluppo co­ gnitivo siano corrette, gli studi indicano che anche molto prima, fin dal periodo del nido, i piccoli sono capaci di forme complementari di interazione e sanno modulare i propri comportamenti in rapporto a quelli degli altri in vista di un risultato positivo per entrambi, anche se questo è ancora molto semplice e soprattutto immediato. ­108

Per esempio, quando l’oggetto piacevole è uno solo, e i bambini interessati a esso sono due, alcuni piccoli già a due e tre anni sono capaci di non contendersi il suo pos­ sesso, con il rischio di romperlo o di restare esclusi, ma di inventare un gioco nuovo che permetta a entrambi di giocare. Anche se nelle forme più semplici si tratta più di un agire insieme poco più che parallelo, e non ancora di una vera e propria coordinazione in vista di un obiettivo condiviso, è da sottolineare la precocità con cui i bambini sono capaci di armonizzare il proprio comportamento con quello altrui, risolvendo in modo creativo e soddisfa­ cente sia per sé che per gli altri situazioni potenzialmente conflittuali. L’educazione svolge a questo riguardo un ruolo im­ portante; infatti la capacità di cooperazione è risultata positivamente legata alla possibilità di mettersi alla prova con i coetanei, anche in situazioni conflittuali, senza che l’adulto immediatamente intervenga a imporre la sua so­ luzione. Si impara a cooperare, insomma, solo se si ha l’opportunità concreta di incontrare situazioni problema­ tiche con i pari, in un contesto organizzato dall’adulto, ma nel quale questi non interviene a risolvere i problemi e i conflitti. Bisogna sottolineare a questo riguardo che la cooperazione rappresenta, sul piano cognitivo, una solu­ zione ben più creativa ed evoluta sia di quelle aggressive – che non portano ad alcuna soluzione del problema – sia di quelle individuali, che risultano inadeguate per i problemi complessi. La cooperazione infatti richiede di saper tenere conto di posizioni differenti e di coordinare le azioni in modo coerente e adatto a raggiungere l’obiet­ tivo prefissato. Gli studi hanno mostrato, in particolare, che essa è legata a una maggiore flessibilità e creatività nella ricerca delle soluzioni ai problemi complessi, con un coinvolgimento, a livello neurofisiologico, della cor­ teccia prefrontale. I bambini più cooperativi sono anche cognitivamente più flessibili e capaci di trovare soluzioni alternative, in un circolo virtuoso in cui queste capacità ­109

Box 7 Flessibilità del pensiero e cooperazione La flessibilità del pensiero è stata definita in vari modi: come capacità di cambiare prospettiva, di categorizzare dati e stimoli secondo caratteristiche differenti, di trovare nuove relazioni tra gli elementi di un insieme, di superare la fissità funzionale: tutte riguardano l’apertura a diverse interpretazioni di un’u­ nica realtà. Più recentemente, la flessibilità è stata considerata come la capacità di inibire una risposta abituale e ormai auto­ matica, per trovarne una diversa. La cooperazione richiede una maggiore flessibilità della competizione, perché per collaborare occorre sapersi svinco­ lare dalla situazione attuale e inibire le risposte abituali, per inventare soluzioni più complesse e creative. Si tratta infatti di raggiungere lo scopo non da soli (vale a dire nonostante il compagno) oppure in competizione (cioè contro il compa­ gno), bensì tenendo conto dell’altro e delle sue esigenze. I risultati di diverse ricerche condotte negli ultimi anni han­ no confermato la relazione tra flessibilità cognitiva e interazioni sociali cooperative sia nella fanciullezza sia nella preadolescen­ za. I bambini e i ragazzi con livelli più elevati di flessibilità sono infatti generalmente più abili nel trovare interpretazioni diverse di una stessa situazione, mettendo in atto strategie di azione che tengono in considerazione anche la presenza, il ruolo e gli obiet­ tivi dell’altro (per esempio proponendo l’alternanza del turno in situazioni di risorse limitate o suddividendosi equamente i com­ piti). Questi stessi bambini sono in grado di prendere in consi­

sono allo stesso tempo una premessa per la cooperazione ma vengono anche da essa stimolate (v. box 7). Fin dai due anni, questi bambini risultano più dotati di immagi­ nazione e di capacità di gioco simbolico: sanno, insomma, maggiormente svincolarsi dalla contingenza della realtà per rappresentarsi situazioni possibili. Inoltre essi sono più capaci sul piano verbale, e riescono di conseguenza sia a verbalizzare meglio le loro emozioni e pensieri, sia a negoziare con gli altri. Inversamente, lungo tutta l’età ­110

derazione un campo di azione ampio che include se stessi e l’al­ tro con i relativi obiettivi e sanno mettere momentaneamente da parte il proprio punto di vista per rappresentarsi quello dell’al­ tro. Inoltre, attraverso un maggior ricorso alla verbalizzazione, sono maggiormente in grado di confrontarsi e di concordare possibili soluzioni cooperative. La flessibilità permette dunque un maggiore decentramento dall’immediatezza del contesto, che consente a sua volta la realizzazione di una progettualità condivisa, superando così un agire impulsivo e frammentario. Al contrario, i bambini con più bassi livelli di flessibili­ tà cognitiva tendono a dare un’interpretazione univoca delle diverse situazioni in cui si trovano ad agire e ciò, soprattutto quando le risorse sono scarse (per esempio, un solo giocattolo a disposizione), li porta maggiormente a considerare gli altri come dei rivali rispetto ai propri obiettivi e a mettere in atto azioni difensive e condotte competitive, oppure ad adeguarsi passivamente alle richieste dell’altro. In linea generale questi studi offrono spunti interessanti per l’intervento educativo. Essi confermano l’utilità di un’educazio­ ne cognitiva che si proponga di educare i processi di pensiero piuttosto che fornire nozioni. La flessibilità è infatti una delle funzioni esecutive implicate nelle attività complesse, che richie­ dono il controllo e la realizzazione di comportamenti rivolti ver­ so uno scopo non immediato, raggiungibile attraverso un piano d’azione articolato. È dunque cruciale apprendere a pensare e apprendere ad apprendere, vale a dire a comprendere, valutare, mantenere nel tempo le conoscenze e saperle utilizzare in altri contesti. Tale educazione risulta utile anche per la vita sociale.

evolutiva c’è un preciso rapporto tra carenza di capacità di verbalizzazione e maggior ricorso ad atteggiamenti an­ tagonisti o francamente aggressivi. Sul piano emotivo, la cooperazione richiede assenza di stati d’animo negativi, in particolare di rabbia e paura, e una disponibilità e fiducia reciproca: non si può coope­ rare se non c’è da parte di entrambi gli attori un’apertura dell’uno verso l’altro, se pure minima. Allo stesso tempo, la cooperazione positivamente stimola emozioni e atteg­ ­111

Box 8 Le life skills L’OMS ha identificato alcune competenze di base che sono necessarie per affrontare positivamente la vita quotidiana e i rapporti con gli altri. La definizione di “competenze vitali” o life skills ben sottolinea il ruolo cruciale di quest’insieme di abilità di carattere cognitivo, emotivo e sociale. Non si tratta di disposizioni o di attitudini, ma di capacità che si sviluppano nell’età evolutiva e che possono affinarsi e migliorare grazie all’educazione, e in specifico attraverso esperienze che ne pro­ muovono l’utilizzo. È compito soprattutto della scuola farsi carico dell’apprendimento di queste competenze, nella quoti­ dianità della vita scolastica e della convivenza con i coetanei, dall’infanzia all’adolescenza. La mancanza di queste capacità di base può portare a risposte inadeguate alle situazioni di stress, con riflessi negativi, di conseguenza, non solo sulla vita sociale ma sul benessere stesso dell’individuo. Le life skills individuate dall’OMS e dalla letteratura attua­ le sono distinte solo per chiarezza di analisi, poiché si tratta di capacità tra loro inestricabilmente connesse: 1. Autocoscienza: consapevolezza di sé e delle proprie ca­ pacità 2. Creatività: capacità di affrontare le situazioni in modo flessibile 3. Pensiero critico: capacità di analizzare e valutare le si­ tuazioni in modo autonomo 4. Prendere decisioni: capacità di decidere 5. Risolvere i problemi: capacità di affrontare i problemi e trovare soluzioni 6. Gestione delle emozioni: capacità di riconoscere le pro­ prie emozioni e quelle degli altri 7. Gestione dello stress: capacità di governare le tensioni 8. Empatia: capacità di comprendere e condividere

giamenti di apertura verso gli altri, oltre a permettere di raggiungere obiettivi significativi, cui consegue un aumen­ to dei sentimenti di autostima, autorealizzazione e autoef­ ficacia. Anche il senso di responsabilità ne viene favorito, perché ognuno si impegna in un compito che concorre al ­112

9. Comunicazione efficace: capacità di esprimere pensieri, sentimenti ed emozioni, a livello sia verbale che non verbale 10. Relazioni efficaci: capacità di interagire e relazionarsi con gli altri in modo positivo. Come risulta evidente dall’elenco, tutte le competenze vitali sono coinvolte nella socialità positiva, e particolarmen­ te nell’altruismo e nella cooperazione, in modo sia diretto sia indiretto. In specifico, la consapevolezza delle proprie capacità è connessa all’autoefficacia, che abbiamo visto essere importan­ te nell’indurre ad agire a favore degli altri. Anche la capacità di prendere decisioni dopo una valutazione critica, insieme al saper affrontare e risolvere i problemi in modo flessibile, favo­ risce il comportamento altruistico e la cooperazione. Sul piano emotivo e relazionale, l’empatia consente di comprendere ed essere partecipi della sofferenza altrui, mentre la capacità di gestire le emozioni e la tensione favorisce relazioni più aperte e meno conflittuali. Anche la capacità di comunicare in modo efficace e quella di stabilire relazioni con gli altri in modo indi­ vidualizzato e autonomo sono rilevanti per la socialità positiva. Si ha quasi l’impressione, leggendo questo elenco, che per molti aspetti socialità positiva e competenze vitali si identifichino. Il fatto che competenze ritenute indispensabili per il buon adattamento dell’individuo, e addirittura per la sua salute fisi­ ca, siano così strettamente connesse con la socialità positiva, e in specifico con l’altruismo, ribadisce ancora una volta che le relazioni positive con i nostri simili e l’impegno a loro favore non sono nell’essere umano qualcosa di anomalo e occasiona­ le, ma sono invece la norma. Come abbiamo più volte sotto­ lineato, la biologia ci ha predisposti a questi comportamenti perché essi sono adattivi per ognuno di noi, e non solo per il gruppo in cui viviamo. Forse è la nostra cultura ad avere smarrito la consapevolezza che non sono l’aggressività e la lot­ ta, nemmeno nelle forme socialmente regolate della competi­ zione, a garantire il benessere individuale e l’armonia sociale.

risultato complessivo. Ancora una volta, fin dall’età evolu­ tiva, la socialità positiva, nel caso specifico la cooperazio­ ne, mostra tutta la sua complessità, come punto di arrivo di un ampio insieme di altre disposizioni e competenze, che essa contribuisce però anche a rafforzare. ­113

L’esercizio della cooperazione ha dunque molti riflessi positivi sullo sviluppo individuale, riguardo agli aspetti sia cognitivi che affettivi e sociali. Sulla base di questa consta­ tazione, si è ormai diffusa in tutto il mondo la metodolo­ gia dell’apprendimento cooperativo. In essa gli studenti apprendono in piccoli gruppi, aiutandosi reciprocamen­ te ed essendo corresponsabili del reciproco percorso: gli studenti sono protagonisti di tutte le fasi del loro lavoro, mentre l’insegnante ha il compito di organizzare le attivi­ tà di apprendimento. Le numerose esperienze fatte con questa metodologia, confrontata con quella competitiva, indicano che gli studenti hanno risultati scolastici miglio­ ri, e sul piano cognitivo sviluppano maggiori capacità di ragionamento e di pensiero critico; a livello sociale hanno relazioni tra loro più positive, con maggiore rispetto reci­ proco e spirito di squadra; sul piano personale sono più motivati, presentano un maggior benessere psicologico, sviluppando in particolare un maggiore senso di autoeffi­ cacia e di autostima, e una maggiore capacità di far fronte alle difficoltà e allo stress. Molte di queste capacità sono state definite dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) “competenze vitali”, necessarie per un buon adat­ tamento individuale e sociale e per un miglior benessere. Molte di esse sono anche coinvolte nell’impegnarsi per aiutare gli altri (v. box 8). Si evidenzia così un nesso chiaro tra benessere individuale, cooperazione e altruismo, su cui ritorneremo nel prossimo capitolo. Aiutare gli altri Essere chiamati ad aiutare gli altri bambini, ed essere do­ tati contemporaneamente dall’adulto degli strumenti per farlo in modo efficace, è un buon allenamento che favo­ risce l’attuazione di comportamenti altruistici. Gli studi hanno confermato in particolare l’importanza, per i bam­ bini, di essere chiamati ad assumersi responsabilità e im­ pegni nei confronti di coetanei o bambini più piccoli. Così come in famiglia non è l’appello teorico alla responsabilità ­114

a essere efficace, quanto la concreta assunzione di impegni verso i fratelli, anche nella scuola la richiesta concreta di impegnarsi nei confronti di altri bambini bisognosi di aiu­ to, perché più piccoli o in difficoltà per ragioni diverse, è determinante nell’educare all’altruismo. Un contributo molto interessante in questa direzione è venuto dalle strategie antibullismo. Proprio per contra­ stare il fenomeno, diffuso a tutte le latitudini, delle pre­ potenze continuative verso compagni che sono bersagli preferiti degli attacchi aggressivi, è stato messo a punto da alcuni anni il metodo del cosiddetto “operatore amico”, utilizzato ormai in molti paesi occidentali. L’operatore amico è un bambino che viene opportunamente istruito dagli insegnanti in modo che impari a intervenire per aiu­ tare in modo efficace i compagni che subiscono prepoten­ ze da parte di altri compagni. Questo tipo di intervento si propone di potenziare la naturale capacità di aiuto e sostegno reciproco dei bambini, per mezzo di compiti e ruoli molto simili a quelli che i bambini spontaneamen­ te realizzano in un normale rapporto di amicizia: saper ascoltare e comunicare, intervenire per risolvere i proble­ mi. L’operatore amico viene appositamente addestrato al suo ruolo, e ha sempre un insegnante di riferimento a cui rivolgersi per ogni problema. In questo modo è possibile un intervento efficace, perché il bambino è dotato degli strumenti adatti e non è caricato di compiti che oltrepas­ sano le sue possibilità. Il risultato interessante è che, nelle classi in cui si utilizza questa metodologia, vi è un generale cambiamento di atteggiamento anche in coloro che non partecipano direttamente all’iniziativa. Infatti i bambini che prima erano spettatori passivi e indifferenti – nei fatti complici del bullo persecutore poiché non intervenivano in favore della vittima delle prepotenze – grazie all’esem­ pio e alla presenza dell’operatore amico, danno anch’essi maggiore aiuto e difesa alla vittima, migliorando il clima generale della classe. In conclusione vivere situazioni in cui si dà aiuto in mo­ ­115

do utile ed efficace, grazie alla presenza educativa dell’a­ dulto, favorisce nei bambini lo sviluppo dell’altruismo, sia nel presente che nel futuro, per diverse ragioni. Anzitutto si imparano strategie di intervento efficaci, e quindi ci si sente capaci di intervenire con competenza e senza timo­ re. In questo modo vengono favorite sia l’autostima che l’autoefficacia, per la constatazione di avere raggiunto un risultato positivo. È anche importante a questo riguardo l’approvazione dell’adulto, che non dovrebbe mai lesinare le lodi nei confronti di chi aiuta e si comporta in modo altruista e cooperativo. Allo stesso tempo, l’azione stessa di aiutare allena le capacità di condividere gli stati d’animo altrui, affina l’attenzione per gli altri e permette di eser­ citare il senso di responsabilità: tutte capacità cognitive, emotive e morali che sono coinvolte nel comportamento d’aiuto. In modo più globale, si può affermare che dare aiuto contribuisce a costruire un’immagine di sé come per­ sona sensibile ai bisogni altrui e capace di aiutare. Soprat­ tutto in adolescenza, quando la riflessione su di sé diventa più profonda anche grazie allo sviluppo cognitivo, viversi come persona che riconosce a se stessa la capacità di in­ tervenire in aiuto agli altri diventa un aspetto importante della propria identità. Va ricordato a questo proposito che l’identità non è solo un fatto individuale, ma anche sociale: di conseguenza sono anche gli altri a sollecitare aiuto da chi giudicano capace di darlo, rafforzando in questo modo l’immagine che ciascuno ha di se stesso. 7.5. La televisione e il mondo virtuale Da circa mezzo secolo un nuovo attore è entrato prepoten­ temente a proporre i suoi modelli: la televisione, affiancata in tempi più recenti dai videogiochi e da internet. A dif­ ferenza di altri mezzi di comunicazione di massa, come i giornali, il potere della televisione consiste nell’immagine: essa propone con immediatezza e vivacità apparenze vir­ ­116

tuali che appaiono però del tutto reali e che, di conseguen­ za, sono capaci di mobilitare un’intensa attività psichica, simile a quella che si attiva di fronte a un fatto reale. Simile, ma non uguale: la televisione pone lo spettatore, tanto più se bambino, in una condizione che può essere definita di “passività eccitata”. Di passività, perché i contenuti non sono scelti e lasciano poco spazio alla rielaborazione men­ tale; di eccitazione, perché mentre il corpo resta immobile, la mente si attiva a causa dello scorrere delle immagini, spesso accompagnate da forti emozioni. Per queste ragioni l’immagine televisiva costituisce un importante veicolo di apprendimento di modelli, che nei videogiochi vengono anche attivamente esercitati grazie alla ripetizione delle azioni. Finora essa è stata purtroppo utilizzata soprattutto per diffondere modelli aggressivi e non per favorire la socialità positiva. Alcuni studiosi sta­ tunitensi, all’inizio degli anni Novanta, hanno calcolato che ogni bambino occidentale a undici anni ha già assistito all’incirca a 8.000 omicidi e a più di 100.000 atti violenti in televisione. È probabile che il conto sia oggi aumenta­ to. Poiché l’immagine favorisce la tendenza imitativa, che abbiamo visto essere così importante negli esseri umani, è oggi opinione condivisa dagli psicologi che i programmi televisivi violenti contribuiscono, soprattutto in età evolu­ tiva, alla diffusione di modelli violenti. Va ricordato che tra gli effetti dell’esposizione alla televisione violenta non vi è solo l’apprendimento di precisi modelli di comportamen­ to ma, più in generale, l’assuefazione ai comportamenti aggressivi, ritenuti sempre più normali e accettabili. Al di là dei modelli di comportamento sociale propo­ sti dalla televisione o dai videogiochi, c’è un altro aspet­ to molto più di fondo da considerare: l’abitudine a una rappresentazione virtuale della realtà, e non all’incontro faccia a faccia con i nostri simili. Se da un lato questa rappresentazione permette di portare sotto i nostri occhi immagini di persone sofferenti che non avremmo in al­ tro modo possibilità di conoscere (come i terremotati di ­117

un paese lontano), dall’altro essa non può avere la forza dell’incontro con le persone reali. Di conseguenza non provoca un’attivazione emotiva davvero profonda; si può così instaurare l’abitudine a una reazione minimale e sen­ za conseguenze pratiche significative. Inoltre, la continua esposizione a numerose situazioni di sofferenza rischia di creare un effetto di saturazione, che porta a difese di evi­ tamento e di indifferenza. Il tema dell’interazione virtuale, anziché reale, sta di­ ventando molto rilevante con internet e con i cosiddetti social network. C’è infatti il rischio che le persone vivano senza sperimentare sufficienti situazioni di confronto reale con gli altri; esso è rilevante soprattutto nei bambini e ne­ gli adolescenti, che stanno crescendo con questi strumenti. Poiché il tempo a disposizione è limitato, quello dedicato ai cosiddetti “amici” virtuali viene sottratto agli amici reali, e già questa considerazione dovrebbe indurre a privilegiare i rapporti con questi ultimi, gli unici degni di questo nome. Ma c’è molto di più. Come abbiamo visto, noi siamo pre­ disposti a riconoscere l’umanità altrui nei rapporti faccia a faccia, e questa capacità si esercita nella concretezza delle relazioni sociali. Di conseguenza, una insufficiente espe­ rienza di relazioni vere con i propri simili, soprattutto negli anni dell’età evolutiva, non può che andare a scapito della capacità di immedesimazione negli altri e di conseguenza della socialità positiva. La carenza di situazioni concrete di contatto tra le persone e di rapporti faccia a faccia con gli altri nella realtà della vita rischia di annebbiare il ricono­ scimento dell’umanità altrui, mentre al contrario le idee, anche quelle che negano la comune umanità e proclamano la deumanizzazione, corrono ben veloci su internet. Un secondo aspetto da considerare riguarda la confu­ sione che facilmente si instaura tra mondo reale e mondo virtuale. Ne sono un esempio gli episodi di violenza che vengono registrati e immessi immediatamente su internet. Gli autori, sia adolescenti che giovani, sono spesso del tut­ to inconsapevoli del male reale che hanno fatto alle vitti­ ­118

me, e presentano una pericolosa confusione tra l’immagine virtuale, dove il dolore è finto, e la realtà, dove il dolore è invece del tutto vero. Questa confusione è la conseguenza di un’insufficiente pratica della vita reale, che conduce a una vera incapacità nel riconoscere quei segnali espressivi che la biologia ci ha predisposti a cogliere. È insomma quanto mai urgente favorire le relazioni reali e non quelle virtuali: l’altruismo non si apprende per via virtuale, così come non si apprendono l’empatia e la capacità di entrare in rapporto con la soggettività altrui. Anche se i mezzi virtuali possono essere usati come stru­ menti comodi per raccogliere fondi, oppure per metterci in contatto con realtà lontane che non avremmo mai occa­ sione di incontrare, va sempre ricordato che la disposizio­ ne ad aiutare non si può costruire se non nella concretezza di rapporti faccia a faccia con i propri simili, sia nell’età adulta che ‘ancor più’ lungo tutta l’età evolutiva. Le com­ petenze e i gesti che sostengono la socialità positiva, pur essendo delle possibilità del nostro bagaglio biologico, si costruiscono solo nell’incontro faccia a faccia con le perso­ ne. Apertura, disponibilità, fiducia, empatia, condivisione dei vissuti, capacità di accogliere l’altro, responsabilità: so­ no tutti atteggiamenti che nascono solo nel concreto delle situazioni in cui le persone si incontrano, si parlano, si scambiano gesti e sguardi, lavorano insieme.

8.

Altruismo e felicità

8.1. Le motivazioni all’azione altruistica Abbiamo visto che numerose azioni altruistiche hanno una motivazione anche egoistica o almeno spuria: è infatti pre­ sente, in misura diversa, anche la ricerca di un vantaggio per chi le compie e non solo per chi le riceve. Gli atti altrui­ stici possono essere attuati per ridurre il disagio personale che deriva dall’essere testimoni della sofferenza altrui, per mettersi al riparo da dolorosi sentimenti di colpa, per ot­ tenere approvazione sociale, per non intaccare l’immagine di sé di fronte sia agli altri sia a se stessi, per superare un dolore altrimenti insopportabile. Come abbiamo accenna­ to nel capitolo 1, alcuni psicologi, partendo da queste con­ statazioni, avevano proposto di riservare il termine altrui­ smo solo ai comportamenti che non hanno alcun vantag­ gio personale, nei quali la motivazione ad aiutare gli altri è totalmente pura e il sacrificio richiesto è elevato. Una simile distinzione si è rivelata insostenibile: a mano a mano che gli studi sull’altruismo progredivano, ci si è resi conto sempre di più che era impossibile isolare azioni altruistiche nelle quali non vi fosse nemmeno l’ombra di un vantaggio personale. Naturalmente questo vantaggio non va inteso in senso materiale o superficiale: per esempio, una persona può perdere la vita nel tentativo di salvarne un’altra, e il 120

suo gesto eroico può essere motivato anche dal desiderio di non tradire la propria identità di persona generosa. Il dibattito sul “vero” altruismo appare quindi oggi del tutto superato, oltre che sterile, perché porta a svalutare comportamenti che sono invece molto utili per la persona che li riceve. L’aspetto discriminante, infatti, non è tanto la purezza presunta dell’intenzione di aiutare, quanto il fatto che un’azione sia veramente di aiuto agli altri, anche se questa utilità può essere di grado diverso. Sul piano pratico, è quindi utile incoraggiare le persone a interrogar­ si non tanto sulle proprie personali motivazioni, quanto sull’effettiva utilità del loro agire per il destinatario. Alcu­ ne situazioni rischiano infatti di portare ad azioni d’aiuto meno utili di altre. In particolare nel caso del disagio per­ sonale suscitato dalla sofferenza altrui, c’è un rischio ele­ vato che le azioni attuate siano inadeguate: per esempio, si dà un sedativo a un anziano, per farlo stare tranquillo e non sentire più i suoi lamenti, senza chiedersi quali effetti collaterali potrà avere su di lui questo tipo di farmaco. Anche nel caso dell’empatia parallela, per questo definita anche egocentrica, c’è il rischio di aiutare in modo inadat­ to, senza guardare la situazione con gli occhi dell’altro e senza mettersi nei suoi panni, ma avendo se stessi e la pro­ pria esperienza come riferimento: per esempio, si propone a un malato cronico di uscire per partecipare a una festa di amici, quando quest’esperienza, che per noi sarebbe piacevole, è per lui fonte di eccessiva fatica. Spostare l’attenzione dalla motivazione di chi agisce alla sua azione favorisce, in altre parole, il superamento dell’ego­ centrismo e un decentramento da sé, con una considerazio­ ne più vigile della soggettività dell’altro e dei suoi bisogni. Abbiamo ricordato più volte che l’azione altruistica nasce nella relazione tra sé e l’altro, nella concretezza di una preci­ sa situazione. L’attenzione privilegiata a chi decide di agire in modo altruistico è giustificata dal fatto che la sua interpreta­ zione della situazione, così come della condizione propria e di quella altrui, risulta determinante nella sua decisione. Ma ­121

è utile decentrare l’attenzione da chi agisce all’azione con­ creta a favore del beneficiato, perché questo spostamento di prospettiva permette di realizzare azioni più efficaci e più ri­ spettose dell’altro, che tengano conto in particolare dell’esi­ genza di reciprocità e responsabilità. Infatti, riconoscere che anche il benefattore trae un vantaggio dall’azione altruistica mette questi su un piano di maggiore parità nei confronti del beneficiato, stabilendo una relazione di scambio reciproco meno sbilanciata: non c’è una persona che dà e un’altra che riceve, ma due persone che entrambe danno e ricevono. A questo proposito, un aspetto particolarmente trascurato ri­ guarda il rischio che le azioni di aiuto possano favorire non l’autonomia e la responsabilizzazione dell’altro, bensì la sua dipendenza da chi lo beneficia, fino a configurarle come una manipolazione inconsapevole. Questo può verificarsi sia nei confronti delle singole persone che dei più ampi gruppi so­ ciali. Per esempio, gli aiuti occidentali all’Africa sono stati stigmatizzati perché realizzano sovente una situazione di as­ sistenzialismo, che crea dipendenza e incapacità di sviluppo individuale e collettivo. Anche nell’educazione all’altruismo, spostare l’attenzione dalle motivazioni all’efficacia delle azioni insegna a tenere maggiormente conto delle esigenze reali del destinatario dell’aiuto, per rispondervi in modo adeguato e non egocentrico, e di conseguenza più rispettoso. 8.2. Altruismo e benessere individuale L’altruismo porta dei vantaggi a chi lo mette in atto non solo quando questi è motivato da ragioni personali, se pur non sempre consapevoli. L’altruismo porta di per sé dei vantaggi alle persone: infatti aiutare gli altri aumenta il be­ nessere individuale, come anche gli studi neurofisiologici stanno sempre più evidenziando. Questa constatazione non dovrebbe stupire: siamo animali sociali e il benesse­ re altrui ci fa sentire bene, soprattutto quando abbiamo la consapevolezza di aver contribuito a provocarlo. Per questo l’altruismo contribuisce al benessere e alla felicità ­122

di una persona, riducendo i sentimenti di insoddisfazione e di depressione. Il giusto orgoglio e il senso di soddisfa­ zione che provengono dall’aver fatto qualcosa di utile a un nostro simile aumentano il senso di stima e realizzazione di sé, e non vanno guardati con vergogna o sospetto, ma anzi vanno valorizzati in un’educazione positiva all’altruismo. Gli studi mostrano che fin dall’infanzia i bambini più attenti e più disponibili ad aiutare i compagni hanno un migliore adattamento scolastico e migliori relazioni nel gruppo dei pari. Inoltre essi hanno anche migliori risultati scolastici: le relazioni più positive con i compagni portano a una maggiore accettazione, che si riflette anche sul successo scolastico. Questi risultati meritano particolare attenzione, perché smentiscono lo stereotipo, purtroppo frequente in molti genitori, per cui aiutare gli altri sottrae il bambino ai suoi compiti scolastici e riduce la sua spinta a riuscire bene a scuola, nella convinzione implicita che la competizione sia l’unica e più importante forza motivante al successo. La re­ lazione tra altruismo, buon adattamento sociale e successo scolastico conferma quanto abbiamo già visto a proposito di altri aspetti della socialità positiva, come la cooperazione: si attiva infatti nel tempo un circolo virtuoso che favorisce lo sviluppo di molte capacità personali e relazionali. Anche per l’altruismo si realizza la stessa circolarità, con effetti be­ nefici. Per questo i bambini più inclini ad aiutare gli altri non solo hanno migliori risultati scolastici, ma sono anche più popolari tra i coetanei, e spesso svolgono il ruolo di leader. Sul piano personale, l’altruismo favorisce la stima di sé e migliori sentimenti di autoefficacia, e a livello emotivo promuove le capacità di regolare le emozioni, in particolare quelle negative, come rabbia, paura, ansia e tristezza. L’influenza positiva dell’altruismo sullo stato emotivo riguarda anche le età seguenti, quando l’impegno per aiu­ tare gli altri riduce la depressione e promuove le emozioni positive. L’altruismo favorisce in generale un atteggiamen­ to positivo nei confronti della realtà, segnato da ottimismo e da senso di soddisfazione per la propria vita, attivando ­123

anche in questo caso una positiva relazione circolare. La riduzione della depressione e l’aumento dei sentimenti po­ sitivi possono essere ricondotti al senso di valorizzazione personale e di maggiore autostima che proviene dal sen­ tirsi utili e capaci di azioni significative a favore degli altri. L’aiuto agli altri è quindi un potente antidoto contro la depressione, e di questo si dovrebbe tenere conto in tutte quelle condizioni, come la malattia, in cui l’individuo ri­ schia di essere relegato nell’identità di persona unicamen­ te bisognosa di aiuto. Questi benefici effetti sono risultati particolarmente rilevanti negli anziani, nei quali le azioni a favore degli altri riescono a contrastare in modo signifi­ cativo gli effetti negativi del maggiore isolamento sociale e della perdita di legami importanti. Per essi, così come per le persone malate, le azioni altruistiche permettono di uscire da un’immagine negativa di persone che non hanno più nulla da dare, ma solo da ricevere. Studi recenti sugge­ riscono che gli altruisti vivrebbero addirittura più a lungo. 8.3. Il volontariato Il volontariato si caratterizza come un’attività prestata gra­ tuitamente, frutto di una libera decisione e della ricerca di situazioni, anche molto strutturate, in cui aiutare gli altri, spesso con notevole impegno di tempo e di risorse perso­ nali. Le azioni altruistiche realizzate possono riguardare settori molto diversi, come l’ambiente o l’assistenza ai ma­ lati. Le attività di volontariato hanno una grande rilevanza in tutto il mondo occidentale e anche nel nostro paese, dove l’Istat calcola che le ore prestate gratuitamente dai volontari abbiano un valore economico di circa 7,7 miliar­ di di euro all’anno e che per ogni euro dato al volontariato corrisponda un ritorno alla società di circa dodici euro. Per la complessità delle sue implicazioni – psicologi­ che, sociologiche, economiche, politiche – il tema va ben al di là dei confini di questo libro, e per la sua analisi si rimanda alla letteratura specifica. Ci limitiamo qui ad alcu­ ­124

ne osservazioni strettamente connesse ai temi che abbiamo trattato. Anzitutto, a ulteriore conferma della complessità delle ragioni che possono portare ad agire in favore degli altri, gli studi sulle motivazioni dei volontari indicano che queste possono essere molto diverse, e non escludersi a vi­ cenda. Esse vanno dal bisogno di gratificazione personale e di realizzazione di sé attraverso un compito impegnativo, a un orientamento più centrato sull’altro e sui suoi bisogni, oppure ancora sulle norme, i valori e il senso del dovere. La consapevolezza degli effetti positivi del dare aiuto è in genere ben chiara a chi fa volontariato. I volontari di­ chiarano sovente che l’arricchimento personale che deriva loro da quest’attività fa sì che sia “più quanto ricevono di quanto danno”, sia in termini di modello di vita (per esempio, da parte delle persone malate o disabili) sia in termini di gratitudine e calore umano. Tra i benefici effetti dell’attività, i volontari indicano anche il miglioramento delle capacità relazionali e la possibilità di contribuire alla costruzione della propria identità, sia in età giovanile che nelle ristrutturazioni richieste in età adulta o matura (per esempio con il pensionamento). 8.4. I gruppi d’auto e mutuo aiuto Una situazione che ben evidenzia il complesso intreccio che si viene a stabilire tra chi aiuta e chi è aiutato, e il reci­ proco beneficio, è quella dei gruppi d’auto e mutuo aiuto. Questi gruppi, che sono stati proposti inizialmente per su­ perare l’alcolismo, si basano sull’attivazione delle risorse personali di colui che vive una condizione di disagio; que­ sti viene chiamato a uscire dal ruolo di paziente e a porsi come protagonista responsabile del proprio percorso di cura. Questo percorso si realizza in un piccolo gruppo di pari che condividono la stessa situazione, dove le persone si aiutano reciprocamente a superare la dipendenza da al­ col o da altre sostanze; oggi questi gruppi si sono diffusi per affrontare anche altre condizioni di difficoltà. ­125

I gruppi d’auto e mutuo aiuto rappresentano un con­ testo strutturato nel quale l’aiuto agli altri si salda in mo­ do utile con l’aiuto a se stessi. Infatti, nel darsi reciproca assistenza materiale e sostegno emotivo, i componenti del gruppo non solo si aiutano l’un l’altro, e quindi ciascuno ne ha un beneficio, ma aiutano anche direttamente se stes­ si. Se essere aiutati fa sentire importanti, degni di atten­ zione e non più soli, aiutare aumenta ancor più il senso di valore personale. Infatti, i partecipanti vengono chiamati ad assumersi una responsabilità e a impegnarsi pubblica­ mente per un obiettivo rilevante e riconosciuto; in questo modo essi acquistano un maggiore senso di valore e di stima di sé, in quanto persone capaci di aiutare gli altri e non solo di ricevere aiuto. Ne risulta la costruzione di una nuova rappresentazione di sé e di una nuova identità, come persone attive e capaci, che possono modificare i propri comportamenti dannosi (perlopiù la dipendenza) e possono essere di conseguenza di modello e sostegno agli altri. Questo nuovo ruolo rinforza i comportamenti posi­ tivi e porta ad adeguarsi alle aspettative ad esso connesse (per esempio, mantenere l’impegno di non bere). 8.5. Quando l’altruismo non è benefico Nonostante tutti i benefici effetti dell’aiutare, occorre dire con chiarezza che vi sono delle situazioni in cui l’altruismo non porta a risultati positivi e va quindi evitato. In generale, l’altruismo non è positivo quando una persona approfitta consapevolmente della disponibilità all’aiuto di un’altra per ingannarla: si va dai casi più lievi di profittatori che sfrut­ tano l’altruista a proprio vantaggio a quelli più gravi in cui vengono attuate violenze di varia natura. Un caso purtrop­ po comune è quello di chi finge di avere bisogno di aiuto per poter meglio danneggiare un’altra persona, sfruttando la sua compassione o la sua tendenza ad aiutare chi si trova in difficoltà. Un esempio particolarmente odioso viene dalle truffe agli anziani, dove chi compie il raggiro approfitta pro­ ­126

prio della disponibilità di molti anziani a preoccuparsi per gli altri e ad agire in loro soccorso, complice talvolta anche una certa fragilità emotiva. Questi inganni non solo possono mettere in serio pericolo il potenziale altruista, ma provoca­ no anche danni rilevanti a livello sociale, perché vengono a minare la fiducia tra le persone e gli atteggiamenti di apertu­ ra e disponibilità nei confronti degli altri, creando un clima di diffidenza. Inoltre alcune persone, basandosi su questi episodi, possono trovare delle scuse per giustificare la loro indifferenza di fronte ai bisognosi veri, che sono sbrigativa­ mente tacciati come profittatori e bugiardi, secondo quei meccanismi di disimpegno morale descritti supra nel box 5. Un caso ancora più grave, seppure più raro, è quello comunemente definito della sindrome di Stoccolma, così chiamata da un episodio di sequestro subito nel 1973 da quattro impiegati di una banca di Stoccolma, che rimasero in ostaggio dei rapinatori per quasi una settimana. Si tratta di un meccanismo di identificazione con l’aggressore, fa­ vorito dalla dipendenza totale della vittima dal suo carne­ fice durante il periodo di isolamento. Si viene così a creare un legame tra i due – di riconoscenza e talvolta addirittura di affetto – che può portare la vittima a solidarizzare con il proprio aguzzino, scusando e minimizzando le sue azioni, fino ad agire altruisticamente in suo favore. In realtà si tratta di una situazione che si può verificare anche al di fuori dei sequestri, quando esiste una forte dipendenza della vittima, unita all’isolamento: è quanto avviene talvol­ ta in certi rapporti affettivi distorti. Mai come in questi casi la tendenza umana a identificarsi con gli altri e a stabilire legami mostra la sua complessità e ambivalenza: essa può infatti condurre la vittima a proteggere e aiutare chi ha compiuto gravi abusi nei suoi confronti. 8.6. La fatica di aiutare Nelle situazioni in cui non è possibile sfuggire al compito di dare aiuto, che deve invece essere svolto in modo con­ ­127

Box 9 Imparare a chiedere aiuto La maggiore attenzione dedicata negli ultimi anni all’azione efficace di aiuto, piuttosto che alle ragioni che la motivano, ha portato a prendere in considerazione anche le modalità in cui l’aiuto viene richiesto. Queste infatti possono favorire, oppure rendere più difficile, la mobilitazione ad aiutare. In particolare sono state considerate le situazioni di emer­ genza dove, come abbiamo visto, i potenziali soccorritori pos­ sono essere indotti a non valutare in modo corretto la reale esistenza di una situazione di bisogno. Per ovviare a questi rischi, gli studiosi suggeriscono non solo di dire chiaramente che c’è bisogno di aiuto, ma anche di specificare di che tipo, e di indicare chi lo deve dare. Per esempio, una persona che si sente male tra la folla non deve limitarsi a invocare “aiuto!”, ma dovrebbe individuare un potenziale soccorritore e rivol­ gersi direttamente a lui o a lei in modo chiaro, dicendogli che cosa deve fare (per esempio: “lei, signore con la valigia, chiami subito un’ambulanza, perché ho bisogno d’aiuto!”). In questo modo il potenziale soccorritore capisce che c’è un’emergenza, sa che cosa deve fare, sa che è richiesto a lui di agire, e non può delegare l’intervento ad altri. In questo modo si evita la diffusione della responsabilità e si riducono le incertezze e le ambiguità circa la situazione descritte supra nel box 6. Più in generale, l’utilità di una buona capacità di chiedere aiuto in modo chiaro è stata evidenziata in tutte le condizioni di malattia o di bisogno. Spesso la persona, in queste situa­ zioni, lamenta che i familiari o gli amici non sono attenti alle sue esigenze e non vengono in aiuto. Un’analisi più appro­ fondita rivela però che altrettanto sovente i bisogni non sono verbalmente espressi in modo chiaramente comprensibile. Le ragioni possono essere molto diverse: può trattarsi di eccesso di pudore, malinteso senso di orgoglio, insicurezza, timore di rifiuto, timore di dover ricambiare, di perdere indipendenza e

tinuativo, aiutare gli altri può diventare molto faticoso. È quanto si verifica in particolare in due categorie di persone: i professionisti dell’aiuto e i familiari di persone in cronico stato di bisogno, per esempio perché malate o disabili. ­128

autonomia, di sminuire il proprio ruolo. Accade sovente, per esempio, che una persona si aspetti dagli altri la piena com­ prensione delle sue necessità anche senza che queste vengano esplicitate; di conseguenza, essa soffre per la mancanza di aiu­ to, senza comprendere che in assenza di una comunicazione efficace gli altri non possono né capire né agire in modo utile, perché temono, a loro volta, di essere inopportuni, invadenti, o rifiutati. Si determina così una situazione difficile e tesa, in cui il familiare lamenta che il malato “non si lascia aiutare”, e quest’ultimo, specularmente, si lamenta che “nessuno capisce di che cosa ho bisogno e nessuno mi aiuta”. Nei casi estremi, l’aiuto può essere vissuto come una minaccia per il sé, perché la persona teme la dipendenza e vuole affermare la propria capacità di autonomia; di conseguenza essa, benché bisognosa di aiuto, rifiuta sia di chiederlo sia di riceverlo. Per questo oggi la capacità di chiedere aiuto in modo chia­ ro non solo ai familiari e agli amici, ma anche al personale sanitario e assistenziale, viene sempre più fatta oggetto di at­ tenzione e di addestramento da parte di psicologi ed educa­ tori sanitari. Infatti sono numerose le situazioni che possono migliorare grandemente grazie all’aiuto altrui. In particolare, sono molte le attività che le persone malate o disabili possono ancora fare, se opportunamente aiutate (per esempio, uscire di casa), con positivi effetti sulla loro vita sociale e sul loro benes­ sere. Proprio l’aiuto da parte degli altri, anziché essere il segno infamante di mancanza di autonomia come talvolta da alcuni è ritenuto, è al contrario un ampliamento delle possibilità di realizzazione personale e di partecipazione sociale. Le resistenze delle persone a chiedere aiuto in modo chia­ ro, e ancor più ad accettarlo con serenità e gratitudine, ben testimoniano la complessità della relazione che si viene a in­ staurare tra chi aiuta e chi è aiutato. Essa chiama in causa non solo aspetti di fondo come la reciprocità e la responsabilità, ma anche l’identità di ognuno nella relazione con l’altro, con tutte le contraddizioni e le ambiguità che la possono accompagnare.

Le persone che svolgono una professione che comporta un quotidiano confronto con la sofferenza, unito all’esigen­ za di aiutare gli altri, sono numerose: non si tratta solo del personale sanitario e assistenziale, ma anche di poliziotti, ­129

vigili del fuoco e insegnanti. Queste persone possono an­ dare incontro a una particolare condizione di esaurimento personale e professionale che è stata etichettata come “sin­ drome del burn-out”. Essa è la conseguenza di uno stress lavorativo prolungato, dovuto a uno squilibrio tra le forti richieste, sia esterne (da parte dei pazienti o della socie­ tà) sia interiori (mete molto elevate), e le scarse risorse, sia organizzative e sociali sia interiori (capacità di tollerare la frustrazione e di modulare la condivisione emotiva). Come conseguenza la persona, che fino a quel momento si era dedicata al lavoro con dedizione e impegno professionale, manifesta un progressivo distacco e disinteresse per il lavo­ ro (con indifferenza, scarso coinvolgimento, assenteismo), unitamente a stanchezza e disturbi psicosomatici. Se gli aspetti di tipo personale vanno tenuti in attenta considera­ zione nella fase di formazione, per evitare che le professioni di aiuto vengano intraprese da persone inadatte, un’atten­ zione ancora maggiore va data agli aspetti organizzativi: questi svolgono un ruolo determinante nel provocare un drammatico squilibrio tra richieste e risorse, che porta i professionisti dell’aiuto a “scoppiare”. Quanto ai cosiddetti caregivers, cioè alle persone che dedicano una parte consistente del proprio tempo a favore di familiari stretti, parenti in genere, ma anche amici e vici­ ni di casa, l’Istat calcola che in Italia siano circa 14 milioni, e che il loro impegno sia quantificabile in circa 3 miliardi di ore all’anno. Si tratta di un impegno notevole, che ri­ guarda ormai circa il 27% della popolazione, nel quale sono sempre più numerosi gli anziani in buona salute che si attivano a favore degli altri. Le attività svolte vanno dalla cura dei bambini piccoli a quella di anziani, malati e di­ sabili. Soprattutto in questo secondo caso, chi aiuta può sperimentare alti livelli di ansia, con stress, depressione e compromissione della stessa salute fisica. Oltre alla gravità delle condizioni della persona curata, ha un peso impor­ tante la scarsa valorizzazione del ruolo di chi cura e assiste, socialmente poco considerato e ritenuto sovente un obbli­ ­130

go, soprattutto per le donne. Si impone quindi l’esigenza di aiutare chi aiuta, sia prevedendo soggiorni di sollievo e aiuti esterni, sia valorizzando maggiormente quest’attività e riconoscendo che anche il curante ha dei diritti a cui la comunità deve prestare attenzione. In concreto, questo significa soprattutto una rete di servizi esterni su cui poter contare e con cui collaborare, e attività continuative di formazione e sostegno. 8.7. Oltre gli esseri umani: aiutare gli animali e la natura Abbiamo parlato fin qui delle azioni in favore degli esse­ ri umani, ma negli ultimi anni l’attenzione e l’intervento si sono estesi anche alle altre specie animali e, più in genera­ le, all’ambiente in cui viviamo. Riguardo alle prime, si va dalle cure agli animali abbandonati all’impegno contro il bracconaggio e alle azioni a favore della conservazione delle diverse specie. L’impegno si allarga anche alla protezione degli ambienti naturali in cui gli animali vivono, e, in modo ancora più ampio, al mondo naturale, contro la distruzione delle foreste e delle specie vegetali, e contro le diverse forme di inquinamento della terra. Molte di queste azioni hanno ricadute nella vita di tutti i giorni, per esempio nella raccolta differenziata dell’immondizia e nella riduzione dei consu­ mi energetici. Sono numerose le azioni quotidiane legate a un diverso atteggiamento nei confronti dell’ambiente così come molti sono i gruppi e le associazioni di volontariato impegnati, a livello locale e internazionale, nel proteggere l’ambiente e con esso sia gli animali sia gli esseri umani. L’argomento è molto ampio ed esula dagli obiettivi e dai contenuti di questo libro. È però utile fare su di esso alcune riflessioni, per i suoi collegamenti con i temi dell’al­ truismo nei confronti dei nostri simili e della cooperazione; infatti si tratta di comportamenti che richiedono un certo grado di rinuncia ad abitudini e comodità consolidate, e un lavoro comune a favore dell’ambiente. Una prima con­ ­131

siderazione riguarda l’importanza degli aspetti cognitivi. Il pensiero umano, come abbiamo avuto più volte occasione di rimarcare, è capace di andare oltre le situazioni concre­ te che un individuo percepisce e vive, per rappresentarsi categorie più generali e per ragionare su relazioni di causa ed effetto di tipo ipotetico. È quindi alla capacità di pen­ siero formale o ipotetico-deduttivo che sono state sovente ricondotte le azioni a favore dell’ambiente e del mondo animale e vegetale, puntando soprattutto sulla diffusione di corrette conoscenze scientifiche. In realtà gli studi indi­ cano che la componente cognitiva non sembra sufficiente per motivare le persone ad agire: avere delle conoscenze sui processi naturali non basta per comportarsi in modo coerente. Gli studi hanno sempre più sottolineato l’importanza delle componenti emotive. Così come nelle relazioni uma­ ne gioca un ruolo decisivo l’identificazione con gli altri come simili a noi, basata sulla risonanza emotiva che essi ci suscitano, una minore distanza emotiva tra sé e il mon­ do naturale favorisce le azioni ecologiche. In particolare è stato sottolineato il ruolo dell’affinità emotiva verso la natura, legata alle esperienze concrete e al contatto diretto con essa. Per quanto riguarda gli animali, questa vicinanza viene favorita dalla tendenza umana ad attribuire loro mo­ tivazioni e finalità che sono proprie della nostra specie. La tendenza a umanizzare gli animali si fonda sulla propen­ sione egocentrica, più marcata nei bambini ma presente anche negli adulti, ad attribuire agli altri esseri viventi le nostre soggettive sensazioni, emozioni e intenzioni. Come ben mostrano le campagne a favore delle foche, l’identifi­ cazione con gli animali è maggiore per i cuccioli e per gli animali che presentano tratti infantili, capaci di favorire sollecitudine e cura (supra paragrafo 3.2). Le ricerche in­ dicano che sono importanti anche le possibilità di comuni­ cazione e il riconoscimento di una comune base interattiva di carattere emotivo: sono aspetti che risentono maggior­ mente delle influenze culturali e di categorizzazioni cogni­ ­132

tive che sottolineano la similarità dell’animale, nonostante la differenza biologica. Anche per gli animali e il mondo naturale, sottolineare le similarità piuttosto che le diffe­ renze favorisce l’identificazione e le azioni d’aiuto. L’uma­ nizzazione dell’animale si può quindi ritenere il risultato di processi sia cognitivi che affettivi, che si rafforzano reci­ procamente. Da un lato, è in forza di una categorizzazione cognitiva, culturalmente molto connotata, che l’uomo del nostro tempo identifica l’animale come un essere vivente non troppo lontano da sé, con cui può comunicare; d’altro canto, è proprio attraverso la condivisione emotiva e la comunicazione che l’uomo sperimenta una vicinanza che travalica i confini della specie. Inoltre, in analogia con quanto avviene per l’altrui­ smo nei confronti dei nostri simili, la pratica concreta, fin dall’infanzia, di azioni ecologiche e il rapporto precoce con il mondo naturale risultano utili nel favorire le azioni a favore degli animali e dell’ambiente. Queste esperienze sembrano favorire sia il sentimento di autoefficacia, sia il sentimento di partecipazione affettiva al mondo natura­ le. Su queste basi è possibile coltivare un sentimento di identificazione con la vita, di cui tutti gli esseri viventi, animali o vegetali, sono espressione, basato anche sulle conoscenze scientifiche che sempre più mostrano gli stret­ ti legami genetici ed ecologici tra tutti gli esseri viventi, uomo compreso.

9.

In conclusione

Abbiamo cercato lungo queste pagine di comprendere su quali basi biologiche si fonda l’altruismo e su come le espe­ rienze fatte dall’individuo possono favorire o contrastare le predisposizioni biologiche. Abbiamo visto che l’altrui­ smo fa parte della più generale capacità umana di stabilire relazioni con gli altri e si basa sulla tendenza a riconoscerli come esseri umani simili a sé, nei quali rispecchiarsi e im­ medesimarsi. Il comandamento “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”, con il corrispondente “fa’ agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”, risulta quindi non essere soltanto di origine culturale, ma ha delle so­ lide basi biologiche. Per l’essere umano infatti i rapporti positivi con gli altri sono fondamentali sia per garantir­ gli l’indispensabile sostegno nella lunga infanzia, sia per permettergli di continuare a vivere lungo tutta la sua esi­ stenza. Per queste ragioni la filogenesi ci ha attrezzati per essere capaci di renderci conto delle esigenze degli altri e rispondervi in modo adeguato, così come per entrare in sintonia con gli altri. In un essere plastico come l’uomo il compito della cultura è molto grande, poiché essa può favorire oppure ostacolare la piena espressione di queste possibilità. Le emozioni e i sentimenti che gli altri suscitano in noi non derivano solo dal nostro patrimonio filogenetico, ma ri­ 134

sentono fortemente dei modelli culturali, dei valori e delle categorie con cui guardiamo ai nostri simili. L’altruismo appare quindi come una scelta che attinge sia a emozioni che a cognizioni, in un intreccio tra disposizioni genetiche e valutazioni culturali, nella concretezza dell’incontro tra le persone. Come aumentare allora la probabilità che l’altruismo venga attuato? Abbiamo visto a questo riguardo che il modo migliore per educare all’altruismo e alle relazioni positive con gli altri consiste nel fare esperienze di aiuto e di cooperazione: l’altruismo non si impara a parole, ma solo attraverso l’azione concreta nel proprio contesto di vita, vale a dire, per il bambino, anzitutto in famiglia e a scuola. In questo modo è possibile coltivare il proprio sen­ so di responsabilità e mettere alla prova la propria capa­ cità di agire, derivandone un sentimento di autostima e la consapevolezza delle proprie possibilità di intervenire in modo efficace, senza delegare ad altri. Ne risultano, nell’e­ tà evolutiva così come in tutto il ciclo di vita, sentimenti di appagamento e di realizzazione che collegano fortemente l’altruismo a vissuti positivi di benessere. L’immagine dell’essere umano che è emersa da questa analisi evidenzia la complessità delle relazioni sociali: l’uo­ mo non è né un angelo né un demonio, e altruismo e socia­ lità positiva coesistono con tendenze aggressive. Eppure la bilancia biologica, nonostante molte apparenze contrarie, sembra pendere di più dalla parte della socialità positiva, che risulta più utile e vantaggiosa per il nostro benessere individuale e sociale e per la nostra stessa sopravvivenza. Proprio il cervello “preistorico”, con il quale siamo or­ mai arrivati ad affacciarci al terzo millennio della nostra era, ci ha permesso di far prevalere la socialità positiva su quella negativa, e non viceversa, nonostante i molti orrori della nostra storia passata e recente. Se siamo qui oggi a discutere di tali questioni, è perché nel corso dei millenni della storia umana la socialità positiva ha presentato mag­ giori vantaggi di quella negativa, a livello sia individuale ­135

che sociale. Senza di essa gli individui, e con essi i gruppi sociali, non sopravvivono: una società in cui tutti perse­ guono solo il proprio egoistico desiderio si autodistrugge rapidamente. Ci sono dunque fondati motivi di speranza che il rico­ noscimento dell’altro come essere umano si possa tradurre sempre di più, nei vari contesti culturali, nel rispetto di tutti, qualunque sia la modalità in cui l’umanità di ciascu­ no concretamente si incarna. La psicologia oggi, corretta­ mente, non parla a questo riguardo di amore per il pros­ simo, perché preferisce riservare questo termine ai legami personali, individualizzati e profondi: l’uso degli stessi ter­ mini per sentimenti e situazioni diverse, infatti, aumenta la confusione sia nel linguaggio scientifico che in quello quotidiano. Parla invece di rispetto per l’umanità altrui, indipendentemente dalle differenze di sesso, colore, etnia, livello economico, cultura, e così via. Le società democra­ tiche, almeno a livello teorico, si basano proprio sul rico­ noscimento dell’uguale dignità e valore di ogni individuo e il diffondersi di questo principio nel mondo globalizzato costituisce un ulteriore motivo di speranza. Di certo le di­ visioni che tendono a separare gli esseri umani in categorie che non condividono la stessa piena umanità sono sempre numerose, e propongono distinzioni antiche, come la re­ ligione e l’etnia, accanto ad altre più nuove, come l’appa­ renza fisica. La diminuzione dell’umanità dell’altro, fino alla sua deumanizzazione, è sempre in agguato e nessun individuo e gruppo umano ne è immune. Per questo è ne­ cessaria una continua vigilanza, per costruire una società in cui l’aiuto e la cooperazione possano svilupparsi in un clima di fiducia, reciprocità e responsabilità. Questi aspetti rimandano a questioni più ampie, che vanno ben oltre i limiti di questo libro, e che riguardano l’organizzazione della società e le regole che la governano. Sarebbe però un errore rimandare solo a questi aspetti la realizzazione di relazioni sociali responsabili e di mutuo aiuto. C’è una parte che ciascuno di noi gioca nella sua ­136

vita quotidiana. In una società fluida, articolata e mutevole come l’attuale, la maggior parte delle relazioni con gli altri non è già codificata da regole stabilite, ma chiama in causa le decisioni di ognuno. E anche là dove le regole ci sono, ampio rimane il margine di azione di ciascuno di noi, in ogni momento della vita. La psicologia oggi è concorde nel ritenere che l’essere umano è, pur all’interno dei limiti biologici e ambientali in cui la vita di ciascuno si realizza, un essere attivo, capace non solo di rispecchiare la real­ tà ma di crearla. In concreto: di costruire relazioni e di orientare la propria vita secondo ampi spazi di autonomia personale. Abbiamo visto che dare spazio nella propria esistenza alle relazioni positive con gli altri, e in specifico alle azio­ ni a loro vantaggio, influisce sul benessere non solo della società ma anche dei singoli individui. È questa un’indi­ cazione di grande importanza, in un momento in cui ci si interroga in maniera sempre più critica sul grandissimo valore che la società occidentale ha attribuito agli aspetti economici del benessere, lasciando in ombra quelli rela­ zionali e più squisitamente umani. Recuperare queste di­ mensioni appare oggi indispensabile, sia per non perdere lo stesso benessere economico, sia per dare realizzazione alle più genuine aspirazioni umane.

Bibliografia

La letteratura sui diversi argomenti trattati nel libro è amplissima e ad essi sono dedicati molti saggi e articoli specialistici nelle diverse discipline. Questa bibliografia si limita a segnalare alcuni testi, scelti perché particolarmente significativi o maggiormente accessibili al lettore italiano. I testi sono suddivisi per capitoli, anche se molti di essi sono trasversali.

Capitolo 1 Attili G., Kamikaze. Le basi biologiche dell’attacco suicida, in «Psico­ logia Contemporanea», 2002, 170, pp. 26-35. Boca S., Scaffidi Abbate C. (a cura di), Altruismo e comportamento prosociale. Temi e prospettive a confronto, Franco Angeli, Milano 2011. Bronner G., Chi sono i fanatici?, in «Psicologia Contemporanea», 2011, 226, pp. 13-16. Eisenberg N., Fabes R.A., Miller P.A., The evolutionary and neurological roots of prosocial behavior, in L. Ellis e H. Hoffman (eds.), Crime in biological, social, and moral contexts, Praeger, New York 1990, pp. 247-260. Hinde R., Why good is good: the sources of morality, Routledge, Lon­ don 2002. Mainardi D. (diretto da), Dizionario di etologia, Einaudi, Torino 1992. Mauss M., Saggio sul dono, Einaudi, Torino 2002 (1923). Tartabini A., Biologia ed evoluzione del comportamento animale e umano, Franco Angeli, Milano 1994. ­138

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Indice

Introduzione  Perché scrivere di altruismo

v

1. La normalità del bene, p. v - 2. I pregiudizi contro l’altruismo, p. vii - 3. Altruismo e socialità positiva, p. ix - 4. L’azione umana tra biologia e cultura, p. x

1. Altruismo e socialità positiva

3

1.1. L’altruismo nella prospettiva biologica, p. 3 1.2. L’uomo come essere biologico e culturale, p. 5 - 1.3. L’altruismo e la socialità positiva umana, p. 7 - 1.4. I diversi volti della socialità positiva, p. 9 - I le­gami di attaccamento, affetto, amore, amicizia, p. 11 - La condivisione di emozioni, sentimenti, pensieri, intenzioni, p. 11 - Comportamento pro­ sociale, aiuto, altruismo, p. 12 - La cooperazione, p. 14 - 1.5. L’azione altruistica nell’incontro tra sé e l’altro, p. 17 Box 1. Un popolo di cacciatori e raccoglitori: i pig­ mei, p. 14 - Box 2. Una forma aberrante di altrui­ smo: il terrorismo suicida, p. 16

2. “Homo homini lupus”? 2.1. La socialità negativa, p. 19 - 2.2. La psicoanali­ si: pulsione di vita e pulsione di morte, p. 20 - 2.3. I modelli energetici dell’aggressività, p. 22 - 2.4. L’apprendimento dei comportamenti aggressivi e della socialità positiva, p. 24 - 2.5. Il legame di

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19

attaccamento: la socialità positiva come fatto pri­ mario, p. 26 - 2.6. Il primato della socialità positiva umana, p. 27 Box 3. Sessualità e affetti, p. 28

3. I geni altruisti

32

3.1. Le predisposizioni biologiche alla socialità po­ sitiva, p. 32 - 3.2. I segnali infantili, p. 34 - 3.3. Dalle cure parentali ai legami tra adulti, p. 36 - La ricerca di contatto e di legame, p. 37 - Il bacio, p. 39 - I comportamenti di conforto, accoglienza e parteci­ pazione, p. 40 - 3.4. Il riconoscimento del volto, p. 41 - 3.5. Entrare in sintonia con gli altri, p. 42 - L’i­ mitazione, p. 43 - Il contagio emotivo, p. 44 - 3.6. Il riconoscimento dell’umanità altrui, p. 46 - 3.7. Oltre il rapporto faccia a faccia, p. 48 Box 4. Il senso di umanità di un giusto, p. 50

4. Provo ciò che provi e so ciò che pensi

52

4.1. La rappresentazione della soggettività altrui e  la condivisione, p. 52 - 4.2. L’intersoggettività: le nostre menti entrano in  contatto, p. 53 - 4.3. La metarappresentazione: so quello che pensi, p. 54 - 4.4. L’empatia: capisco ciò che provi e vi sono partecipe, p. 56 - 4.5. Le diverse forme di empatia, p. 58 - 4.6. La simpatia, p. 60

5. Rispecchiamento, condivisione e socialità positiva 5.1. I timori verso la condivisione emotiva, p. 62 - Il timore del contagio emotivo, p. 62 - Il timore dell’empatia, p. 63 - 5.2. Le difese nei confronti della condivisione emotiva, p. 65 - I codici sociali di esibizione delle emozioni, p. 65 - Le difese con­ tro la condivisione, p. 66 - 5.3. Dalla condivisione all’aiuto, p. 67 - Il contagio impedisce l’aiuto, p. 67 - Disagio personale e comportamento d’aiuto, p. 68 - Empatia, controllo dell’aggressione e socialità positiva, p. 69 - 5.4. Dalla persona alla categoria, p. 72 - 5.5. Un meccanismo che contrasta l’empatia e l’altruismo: la deumanizzazione, p. 74 Box 5. I meccanismi di disimpegno morale, p. 74

146

62

6. Le condizioni che favoriscono l’altruismo 78 6.1. L’azione altruista nell’incontro tra sé e l’altro, p. 78 - 6.2. Le caratteristiche di chi aiuta, p. 78 Il sentimento di autoefficacia, p. 79 - Il controllo interno e l’attribuzione a sé della responsabilità, p. 82 - Altruismo e identità: la rappresentazione di sé, p. 85 - 6.3. Lo stato emotivo di chi aiuta, p. 86 - 6.4. Un atteggiamento che favorisce l’altruismo: la fiducia, p. 89 - 6.5. Le caratteristiche di chi ri­ ceve l’aiuto, p. 93 - L’appartenenza al gruppo, p. 93 - La similarità, p. 95 - La responsabilità della vittima, p. 97 Box 6. Aiutare nelle situazioni d’emergenza, p. 84

7. Piccoli altruisti crescono

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7.1. Predisposizioni biologiche e influenze cultura­ li, p. 100 - 7.2. L’importanza dei valori, p. 101 - 7.3. La famiglia, p. 103 - Affetti e fiducia, p. 104 - Mo­ delli educativi, p. 105 - 7.4. La scuola, p. 106 - La cooperazione, p. 107 - Aiutare gli altri, p. 114 - 7.5. La televisione e il mondo virtuale, p. 116 Box 7. Flessibilità del pensiero e cooperazione, p. 110 - Box 8. Le life skills, p. 112

8. Altruismo e felicità

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8.1. Le motivazioni all’azione altruistica, p. 120 - 8.2. Altruismo e benessere individuale, p. 122 8.3. Il volontariato, p. 124 - 8.4. I gruppi d’auto e mutuo aiuto, p. 125 - 8.5. Quando l’altruismo non è benefico, p. 126 - 8.6. La fatica di aiutare, p. 127 - 8.7. Oltre gli esseri umani: aiutare gli animali e la natura, p. 131 Box 9. Imparare a chiedere aiuto, p. 128

9. In conclusione

134

Bibliografia

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