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Italian Pages 216 [214] Year 2012
BI B L I O T E CA D I D RA MM AT URG IA co l la na diretta da a n namaria c asc etta
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M IM ESI DELLA NAT UR A E BALLET D’ AC T IO N Per un’estetica della danza teatrale L AU R A AIMO
PIS A · R OMA FABRIZ IO SERRA E D IT O RE MMXII
La pubblicazione di questo volume ha ricevuto nel 2011 il contributo finanziario dell’Università Cattolica sulla base di una valutazione dei risultati della ricerca in essa espressi. * Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma, Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2012 by Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma. Fabrizio Serra editore incorporates the Imprints Accademia editoriale, Edizioni dell’Ateneo, Fabrizio Serra editore, Giardini editori e stampatori in Pisa, Gruppo editoriale internazionale and Istituti editoriali e poligrafici internazionali. www.libraweb.net Uffici di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, I 56127 Pisa, tel. +39 050 542332, fax +39 050 574888, [email protected] Uffici di Roma: Via Carlo Emanuele I 48, I 00185 Roma, tel. +39 06 70493456, fax +39 06 70476605, [email protected] Stampato in Italia · Printed in Italy i s s n 1828 - 8 723 i s b n 978- 88 - 6227 - 4 56 - 2 i s b n e l ettron i co 9 78 - 8 8 - 6227 - 4 5 7 - 9
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SOMMARIO Introduzione
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Avvertenze
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Cap. i. L’originale assente
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1. L’oblio di Tersicore nella tradizione occidentale 1. 1. Tra tacita esclusione e ipertrofica inclusione 1. 2. Ceneri, orme e scie. Insidie investigative della danza teatrale settecentesca 1. 3. Un mosaico in frammenti. Gli studi tra storiografia, specializzazione e territori di confine 1. 4. Verifiche in corso. Limiti e possibilità d’indagine 2. Interrogare il negativo. Un’ipotesi di ricerca 2. 1. Liminarità di estetica e coreologia 2. 2. Due “moderni” cerchi concentrici 2. 3. Il fuoco d’indagine : la mimesi della natura 2. 4. Sinergia in azione
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Cap. ii. Paradossi della mimesi tra parola e gesto
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1. La danza antica : un modello da immaginare 1. 1. Ritrovare e rinnovare attraverso il linguaggio 1. 2. Angiolini e l’origine in “atto” del ballo pantomimo 2. Il gesto : un significato da formare 2. 1. Du Bos e l’esplorazione della sensibilità 2. 2. L’espressione come movimento : la via engeliana attraverso e al di là della semiotica 3. La natura : un processo da compiere 3. 1. Imitazione o espressione ? L’equivocità di Batteux e dei testi coreici 3. 2. Diderot, Noverre e l’espressività del gesto 3. 2. 1. Linguaggio astratto e metaforico 3. 2. 2. Il dramma della rappresentazione 3. 2. 3. La danza come poesia o viceversa ?
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Cap. iii. Ut danza artes
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1. L’espressione dentro e oltre il quadro 2. Scritture in movimento : il programma di ballo 2. 1. Un genere irriducibile 2. 2. La forza della parola 2. 3. Uno spazio immaginativo 3. In principio era il gesto : Apelle, e Campaspe di Noverre 3. 1. La chiave metarappresentativa 3. 2. Dal tableau al ballo. I volti di Amore 3. 3. Opera come processo 4. Arte della danza e danza dell’arte : il mito di Pigmalione
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sommario
Nota a margine
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Inserto iconografico Tavola sinottica Bibliografia Indice dei nomi
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Al viaggio che mi ha portata sino a qui, e a chi mi ha accompagnata.
Nelle fiabe, come si sa, non ci sono strade. Si cammina davanti a sé, la linea è retta all’apparenza. Alla fine quella linea si svelerà un labirinto, un cerchio perfetto, una spirale, una stella – o addirittura un punto immobile dal quale l’anima non partì mai, mentre il corpo e la mente faticavano nel loro viaggio apparente. C. Campo, In medio coeli
INTRODUZIONE Natura ! Ne siamo circondati e avvolti, incapaci di uscirne, Incapaci di penetrarne più addentro in lei. Non richiesta, e senza preavviso, essa ci afferra nel vortice della sua danza e ci trascina seco, finché, stanchi, non ci sciogliamo dalle sue braccia. Crea forme eternamente nuove ; ciò che esiste non è mai stato ; Ciò che fu non ritorna – tutto è nuovo eppur sempre antico. J. W. Goethe [G. C. Tobler], La natura
D
anza del firmamento e danza dei corpi, danza della pioggia e danza del raccolto, danza della vita e danza della morte. L’arte di Tersicore è una e, al tempo stesso, molte. Attraversa i tempi e gli spazi, intreccia storie e misteri, senza tuttavia sostare in nessuno di essi. Attrae il gusto e respinge l’intelletto, si offre e, insieme, fugge. Il presente lavoro si accosta a questo fenomeno complesso e affascinante investigando da una prospettiva storico-estetologica una specifica forma coreica : la danza teatrale. Questo sguardo trova nel ballet d’action il suo specifico campo d’osservazione inserendosi in un più ampio progetto di ricerca sulla rappresentazione a Milano nel xviii secolo. 1 Tra il 1770 e il 1776, infatti, la città meneghina si trasforma in uno dei principali palcoscenici europei di affermazione – e anche discussione – della cosiddetta riforma coreica. A lungo considerata alla stregua di un puro divertimento, esercizio fisico oppure ornamento di altre forme espressive – in primis la parola – la danza riscuote sempre più successo presso il pubblico fino a divenire uno spettacolo autonomo. Il ballo pantomimo – evoluzione dell’intermezzo coreico e prodromo del balletto classico ottocentesco – costituisce il frutto più maturo di questa sperimentazione. Grazie ai capolavori e agli scritti teorici dei due maggiori coreografi del tempo – Gasparo Angiolini e Jean Georges Noverre – esso dimostra la capacità da parte della disciplina coreica di significare senza l’ausilio di altri strumenti comunicativi e il suo diritto ad assurgere al Parnaso delle arti imitatrici. L’investigazione di questa particolare forma coreica, tuttavia, solleva immediatamente un nodo problematico, contenutistico e metodologico al tempo stesso : l’oggetto della ricerca non è (più). La danza teatrale settecentesca è come un corpus invisibile la cui esistenza è testimoniata soltanto dai suoi effetti, dalle tracce cartacee – recensioni di spettacoli, pro
1 Questa ricerca è diretta dalla prof. essa A. Cascetta dell’Università Cattolica di Milano e vede coinvolti studiosi appartenenti a differenti settori disciplinari nonché diverse istituzioni. Tra le pubblicazioni finora prodotte si segnalano in particolare due volumi collettanei : Il teatro a Milano nel Settecento, a cura di A. Cascetta, G. Zanlonghi, Milano, Vita e Pensiero, 2008 e La cultura della rappresentazione nella Milano del Settecento. Discontinuità e permanenze, Atti del convegno (Milano, 26-28 novembre 2009), a cura di R. Carpani, A. Cascetta, D. Zardin, Roma, Bulzoni, 2010. All’interno di questa équipe di studiosi il contributo di chi scrive ha preso in considerazione il palcoscenico coreico milanese negli anni Settanta del Settecento (cfr. L. Aimo, La rappresentazione in scena : Apelle, e Campaspe di J. G. Noverre (Milano 1774), in La cultura della rappresentazione nella Milano del Settecento, cit., pp. 683-715). Attorno a questa indagine, circoscritta e mirata, si è inoltre strutturata la tesi di dottorato (di cui il presente lavoro costituisce la rielaborazione) che – proseguendo l’intreccio di filosofia e discipline dello spettacolo intrapreso negli anni universitari e allargando il campo d’indagine dal ballo a Milano nella seconda metà del Settecento alla nascita e alla riflessione teorica sul ballet en action in Europa – ha voluto approfondire un campo d’indagine ancora poco esplorato quale quello della storia e dell’estetica della danza nel xviii secolo.
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introduzione
grammi di ballo, pamphlet, spartiti, immagini, trattati e altri scritti sparsi – che il suo campo gravitazionale ha lasciato. A un simile vuoto oggettuale si aggiunge poi un disorientamento spazio-temporale. Non esiste infatti né un luogo né un tempo di irradiazione preciso e circoscritto di queste sperimentazioni coreiche : come in una versione moderna della commedia dell’arte, il ballo conosce uno stato di dislocazione continuo ed è in perenne viaggio tra i maggiori teatri del vecchio continente. Inoltre il ballet d’action è difficilmente definibile nel suo spettro semantico perché strettamente collegato non soltanto ad altre espressioni coreiche precedenti e coeve – quali il ballo di corte o la danza sociale – ma anche a forme artistiche di cui esso partecipa o da esso permeate – come la recitazione e i tableaux vivantes. Per certi versi, infine, chi voglia indagare il ballet en action si trova a inseguire una fenice. Volatile mitico che muore per poi rinascere dalle sue ceneri, esso ben visualizza la natura ideale ed evanescente dell’oggetto investigato. Il primo a suggerire questa metafora e a offrirne una spiegazione è Noverre stesso. Passando in rassegna il panorama coreico a lui contemporaneo, il coreografo ne denuncia la povertà descrivendo un buon balletto come un essere immaginario – una fenice per l’appunto – che non si trova mai. 1 E in effetti lo studioso del ballo pantomimo più che con un prodotto diffuso e consolidato si trova ad aver a che fare con aspirazioni, tentativi e prototipi di questa forma d’arte : il ballet d’action assomiglia più a una meta da raggiungere che a un risultato stabilmente conquistato. A un simile carattere si aggiunge poi un ulteriore tratto distintivo di questo genere artistico ovvero il fatto che esso prenda di volta in volta una forma e un contenuto concreti per poi immediatamente perderli e ritrovarne di nuovi. Al pari della pantomima antica – oggetto di riscoperta e valorizzazione proprio da parte della riforma teatrale e coreica settecentesca 2 – ogni ballo non solo è unico e irripetibile, ma dissolvendosi nel suo stesso apparire si sottrae a qualsiasi tentativo di “cattura” e analisi sia da parte del cultore di oggi che dello spettatore dell’epoca. Di fronte a un simile “scacco” il presente lavoro offre una possibile chiave di volta utilizzando, quale prezioso strumento di polarizzazione e significazione delle tracce lasciate dal ballo pantomimo, lo sforzo di “dire” la danza che caratterizza variamente la seconda metà del xviii secolo. Parallelamente all’affermarsi sul palcoscenico del nuovo genere teatrale, infatti, si fa sempre più intensa – tanto da parte dei coreografi che degli spettatori dell’epoca – l’interrogazione sulle possibilità rappresentative del ballo, diviene impellente l’esigenza di un discorso coerente sul gesto che possa legittimare l’inclusione o l’esclusione della disciplina coreica dalle arti maggiori. Non solo. Uno dei tratti distintivi dell’età dei Lumi è la particolare attenzione che viene riservata a regioni dell’esperienza prima trascurate o per lo meno sottovalutate, come il corpo, il movimento ma anche i sentimenti e le emozioni. In particolare il gesto – in quanto minimo comune denominatore non solo della danza stricto sensu ma di tutto un complesso di forme comunicative e artistiche che vanno dall’espressività quotidiana al virtuosismo sulla scena – diventa uno dei principali focus della ricerca gnoseologica e, più ampiamente, estetologica del periodo. Autori come Du Bos, Batteux, Condillac, Diderot ed Engel – per citare solo alcuni dei nomi a cui fanno diretto riferimento gli stessi maestri di ballo – dedicano riflessioni specifiche all’espressione gestuale all’interno di investigazioni di più ampia portata.
1 Cfr. J. G. Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, Stuttgart-Lyon, Aimé Delaroche, 1760 ; rist. anast. New York, Broude Brothers, 1967 ; rist. anast. Whitefish (Mt, Usa), Kessinger, 2010, p. 53. 2 È interessante rilevare che Roberto Tessari, descrivendo l’interesse moderno per la pantomima, ricorra alla medesima metafora della fenice : « Per l’intero arco che delimita Seicento e Settecento [...] il puntiglio sperimentale dei “costruttori” borghesi sembra voler passare in rassegna anche le forme “minori” e le impronte fossili più confuse dell’archeologia teatrale, nella speranza di poterne comunque estrarre materiali utilizzabili. Il pantomimo non sfugge a questa ricerca, anzi, ne diviene una sorte di piccola araba fenice » (R. Tessari, Il corpo silente del pantomimo. Archetipi e autopsie settecentesche, in Idem, Maschere di cera : riforme, giochi, utopie. Il teatro europeo del Settecento tra pensiero e scena, Milano, Costa & Nolan, 1997, pp. 99-127, qui p. 113).
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Lavorando costantemente su questo doppio binario – l’uno teso a presentare alcune delle orme lasciate da Tersicore nel suo viaggio di formazione per l’Europa, l’altro volto a ricostruire il complesso sfondo teorico su cui si staglia la sua comparsa – il presente studio propone due tesi tra loro intrinsecamente legate. Dal punto di vista metodologico si sostiene che la danza settecentesca possa essere avvicinata solo ex negativo. Le tracce da essa lasciate – si tratti di fonti scritte, figurative o musicali – le intersezioni con altre discipline artistiche o le riflessioni filosofiche a riguardo sono gli unici specchi in grado di rifletterne in modo indiretto e parziale un profilo. Dal punto di vista teorico-storiografico, invece, si mostra come la sperimentazione e riflessione coreica del xviii secolo abbia svolto un ruolo determinante nel ripensamento dell’arte in quanto tale. Più precisamente si evidenzia come l’approfondimento della forma e portata semantica del gesto e delle discipline ad esso collegate abbia influenzato la riconsiderazione del paradigma classico della mimesi della natura : da un’accezione prettamente “imitativo-riproduttiva”, esso si è andato lentamente configurando in termini “espressivo-creativi”. Al fine di sviluppare e dimostrare queste tesi il lavoro è articolato in tre parti. Nella prima viene inquadrato lo stato della ricerca sulla danza teatrale nel Settecento e viene giustificata la prospettiva storico-estetologica adottata. Nello specifico si mostra come la disciplina coreica, a causa della sua natura eveniente, indefinita e corporea, continui a essere soggetta a diverse forme di oblio all’interno del discorso scientifico : gli studi in materia rischiano frequentemente di perdere di vista la complessità del fenomeno riducendolo ad altre forme artistiche – e i loro apparati concettuali – astraendolo dal suo contesto di apparizione oppure tralasciandone le implicazioni simbolico-semantiche. Di fronte a questa dissoluzione dell’oggetto coreico un’indagine di taglio storico-estetologico sul ballet d’action permette non tanto di ovviare quanto di mettere a tema il problema. In particolare l’analogia di forme e contenuti tra le due discipline nonché la comune fondazione settecentesca consentono alla danza di trovare in questa scienza filosofica una preziosa chiave di accesso alle ragioni del suo misconoscimento all’interno del sistema del sapere e uno strumento per approfondire il proprio statuto rappresentativo. Inoltre se, da un lato, la disciplina di Tersicore è comprensibile solo all’interno della più ampia questione mimetico-rappresentativa che contraddistingue tutto il Settecento, dall’altro, la danza offre una lente privilegiata proprio per osservare e saggiare questo complesso sfondo teorico : ne costituisce un exemplum. Il presente lavoro si ritrova così ad assumere una rilevanza sia all’interno della coreologia sia in relazione a temi di interesse più generale, legati tanto alle arti quanto all’estetica stessa. La seconda parte del lavoro mette in pratica e verifica questa strategia investigativa confrontando la danza con uno dei suoi paradigmi fondamentali di riferimento : la parola. 1 Come testimonia lo stato degli studi coreologici ogni termine o segno che cerchi di dire l’arte coreica non è mai neutrale rispetto ad essa : prima ancora delle diverse procedure di controllo che regolano i discorsi scientifici, è il linguaggio verbale stesso a determinare una trasformazione dell’oggetto in questione ovvero una sua traduzione in un codice diverso da quello gestuale. Solo un’investigazione del legame che intercorre tra la danza e i discorsi che tentano di esprimerla consente di far emergere le autentiche ragioni della disciplina ovvero di sondare la particolare logica sottesa al movimento corporeo – in analogia ma
1 Occorre una precisazione. Nel corso del presente lavoro non viene affrontata in modo diretto e profuso la questione della musica all’interno del ballet d’action. A differenza, infatti, della pittura e della poesia, quest’arte attraversa nel Settecento un processo di trasformazione molto simile a quello che investe la danza : conseguentemente essa più che proporsi quale paradigma di riferimento nella costruzione della disciplina di Tersicore ne condivide un destino analogo. Rinviando a una prossima indagine l’analisi di fonti musicali riguardanti il ballo pantomimo, ci si limita dunque in questa sede a segnalare alcuni luoghi di convergenza o distanza tra le due arti e a rimandare per approfondimenti ad alcuni studi pubblicati finora in proposito.
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introduzione
anche in confronto dialettico con quella messa in gioco dal linguaggio verbale o da qualsiasi altro apparato semiotico. Il Settecento costituisce, a questo riguardo, un campo per più di una ragione ricco e fecondo per affrontare il problema : in primo luogo la disciplina di Tersicore assurge al titolo di arte proprio grazie al fatto che per la prima volta essa diventa tema di profusa interrogazione e scrittura ; in secondo luogo il balletto pantomimo diviene una rappresentazione artistica autonoma a tutti gli effetti solo dopo essersi conquistato la propria indipendenza dal teatro di parola, un’indipendenza che, tuttavia, è ancora una volta mediata dal linguaggio verbale : basti pensare ad alcune espressioni, come “danza parlante” o “conversazione muta”, con cui i riformatori del periodo cercano di spiegare la capacità da parte del ballo di significare. Questo complesso nodo teorico viene approfondito, in prima battuta, adottando una prospettiva storico-teorica. Attraverso le voci dei riformatori della danza e di alcuni filosofi che hanno avuto un’influenza diretta sullo sviluppo della coreologia settecentesca si mostra come il gesto conquisti lentamente, da un’iniziale posizione di subordinazione rispetto alla parola, non soltanto una propria autonomia bensì un ruolo essenziale nella ridefinizione dello statuto della mimesi. Attraverso un meccanismo il più delle volte implicito e paradossale, le riflessioni che hanno per oggetto la pantomima antica piuttosto che la recitazione, il linguaggio o lo statuto del nuovo ballet d’action dimostrano, infatti, come il codice gestuale sia essenzialmente estraneo ad alcuna logica imitativa. Tanto in forza della sua evenienza quanto a causa del suo carattere corporeo e unitario, esso risulta a un’attenta analisi non meramente passivo rispetto alla natura con cui si confronta e di cui fa parte, bensì ricettivo e formativo insieme. Questa indagine del rapporto tra parola e gesto porta, infine, ad analizzare il legame che intercorre tra movimento corporeo e immagine. La danza si dice in molti modi – basti ricordare alcune delle sue principali definizioni settecentesche : “poesia muta”, “pittura vivente”, “scultura animata” o “musica sensibile” – ma al tempo stesso è estranea a qualsiasi dispositivo linguistico-concettuale che ne possa circoscrivere in modo preciso, positivo e univoco i confini : solo un’espressione che sappia significare senza denotare e nella quale forma e contenuto siano strettamente interdipendenti è in grado di porsi sulla medesima frequenza. L’immagine è capace di rispondere a questi requisiti e si offre quale chiave di accesso privilegiata e, insieme, obbligata all’essenza di Tersicore sia perché la danza è destinata essenzialmente agli occhi sia perché il vedere costituisce per la cultura occidentale il fondamento stesso del conoscere. Non da ultimo questo legame tra gesto e immagine trova nel xviii secolo un particolare luogo di elezione. Anzitutto il quadro rappresenta una delle esemplificazioni più efficaci del particolare spazio d’ordine all’interno del quale dal xvii secolo è stata resa possibile e si è articolata ogni forma di sapere, ma che nella seconda metà del Settecento sembra destinato lentamente a incrinarsi. In secondo luogo l’arte coreica costituisce un osservatorio privilegiato di queste trasformazioni in corso : pur continuando a utilizzare la pittura quale medium essenziale di definizione, essa propone un nuovo modello mimetico. Per articolare questa parte finale del lavoro viene preso in esame un corpus eterogeneo di fonti coreiche e si opta per un taglio investigativo più marcatamente speculativo. Nello specifico attraverso l’analisi di un nuovo genere letterario, il programma di ballo – e le diverse discussioni che a tal riguardo sorgono nel xviii secolo – viene evidenziato, in primo luogo, come tra scrittura del corpo e della parola possa istituirsi una relazione non solo di sostituzione o opposizione, bensì di mutuo scambio che trova in una particolare immagine la sua condizione di possibilità ; infine si mette a fuoco proprio questo comune piano figurativo. Più nel dettaglio, analizzando il rapporto tra danza e pittura che emerge esemplarmente da un famoso balletto noverriano, si mostra come il gesto si configuri rispetto al quadro in
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termini eccedenti. La disciplina coreica più che finalizzata a generare segni, opere o modelli sembra invitare a un ininterrotto processo creativo : in esso rappresentante e rappresentato si trovano uniti e, al tempo stesso, continuamente ridefiniti, determinando così un inevitabile slittamento della creazione pigmalionica da un’accezione prettamente imitativa a una espressiva. In conclusione questo lavoro si propone come un’interrogazione volta a far emergere alcune specificità proprie dell’arte di Tersicore e, in particolar modo, il suo statuto rappresentativo. Lungi dal poter esaurire l’abbondanza di spunti investigati sollevati dalla disciplina coreica nel Settecento, infatti, questa ricerca non è finalizzata né a una ricostruzione della tecnica del ballo pantomimo né delle poetiche elaborate su di esso. Essa si offre, piuttosto, come un tragitto metodologicamente e tematicamente strategico all’interno degli studi coreologici in quanto prende in esame la nascita moderna della danza quale forma d’arte : una stagione caratterizzata sia da una vivace sperimentazione pratica sia da un’intensa e multiforme riflessione speculativa.
Desidero ringraziare chi ha reso possibile la realizzazione di questo lavoro. Anzitutto ringrazio la professoressa A. Cascetta la cui fiducia ed entusiasmo nel progetto sono stati sempre vivi e stimolanti. Ringrazio i proff. V. Di Bernardi e A. Pontremoli : i loro studi e i loro consigli sono stati cruciali in diverse fasi della ricerca. Ringrazio i proff. G. Boffi e R. Diodato : maestri del “pensiero delicato” sono stati per me punti di riferimento preziosi. Ringrazio il personale dei principali archivi e biblioteche in cui ho studiato e a cui devo l’importante materiale iconografico qui riprodotto : in particolare i Derra de Moroda Dance Archives di Salisburgo, la Staatsbibliothek di Berlino, la Österreichische Nationalbibliothek di Vienna, la Biblioteca Universitaria di Varsavia, la Biblioteca Ambrosiana di Milano e la Biblioteca di Studi Teatrali di Casa Goldoni di Venezia. Ringrazio poi le amiche più care, quelle che mi hanno seguito passo passo nella redazione di questo lavoro, condividendone le traversie e i piaceri. Ringrazio infine la mia famiglia : punto di partenza, ritorno e nuovamente dipartita di ogni autentico viaggio.
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Avvertenze
I
testi dei protagonisti della riforma coreica – ovvero Gasparo Angiolini e Jean Georges Noverre – sono stati riportati in lingua originale, fornendo in nota l’eventuale traduzione italiana. Per quanto riguarda tutte le altre fonti o studi in lingua straniera citati, al fine di agevolare la lettura si è fornita nel corpo del testo la versione originale – riservando poi in nota la versione nella nostra lingua – solo nel caso in cui non fosse già stata edita una traduzione italiana. Dove non diversamente specificato, le traduzioni sono di chi scrive. Per quanto riguarda la trascrizione di testi antichi si è rispettata la punteggiatura e l’uso tipografico ove questi non creassero problemi di comprensione ; sono stati invece corretti i refusi grammaticali più evidenti (quali l’errata accentazione). Nel caso in cui la citazione di questi testi provenga già da una trascrizione o edizione critica degli stessi, si sono invece rispettati i criteri conservativi adottati dal curatore dell’opera. Occorre inoltre una precisazione terminologica. Nel presente lavoro ricorrono due aggettivi dal significato affine : coreico e coreutico. Con il primo – da chorós “danza” – si intende ciò che è relativo alla danza, con il secondo – da choreutés “danzatore” – si fa un riferimento più esplicito e diretto all’attività e alle peculiarità del ballerino. In forza di questa sfumatura semantica si adopera poi il sostantivo coreutica come sinonimo di “poetica coreica”. Per quanto riguarda, invece, il termine coreologia s’intende – salvo diverse indicazioni – la disciplina che ha per oggetto di studio la danza. Si segnalano, infine, qui di seguito le sigle utilizzate per identificare i principali archivi e biblioteche consultati :
I-Ba I-Bb I-Bg I-Bt I-Cv D-Sb Ö-Ad Ö-Nw Ö-Sw P-Bv
Biblioteca Ambrosiana - Milano Biblioteca Nazionale Braidense - Milano Biblioteca di Studi Teatrali di Casa Goldoni - Venezia Biblioteca Nazionale Universitaria - Torino Biblioteca del Conservatorio G. Verdi - Milano Staatsbibliothek - Berlino Derra de Moroda Dance Archives - Salisburgo Österreichische Nationalbibliothek - Vienna Wiener Stadt-Bibliothek - Vienna Biblioteca Universitaria - Varsavia
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Capitolo primo L’ORIGINALE ASSENTE Metodo di questo lavoro : montaggio letterario. Non ho nulla da dire. Solo da mostrare. Non sottrarrò nulla di prezioso e non mi approprierò di alcuna espressione ingegnosa. Stracci e rifiuti, invece, non per farne l’inventario, ma per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile : usandoli. W. Benjamin, I “passages” di Parigi
O
gni ricerca si staglia su un orizzonte di studi pregressi con cui può intrattenere relazioni di natura diversa : dalla continuità all’aperta contrapposizione, dal legame dialettico a quello più strettamente complementare. Questa rete di rapporti che si instaura tra il nuovo progetto e gli studi precedenti si differenzia e si articola a seconda dei punti d’intersezione che i vari lavori possono tra loro condividere : si tratti del tipo di oggetti preso in esame piuttosto che del complesso di tecniche e metodologie utilizzate o ancora degli assiomi di partenza. Come scrive Michel Foucault :
Una disciplina viene definita da un campo d’oggetti, da un insieme di metodi, da un corpus di proposizioni considerate come vere, da un gioco di regole e di definizioni, di tecniche e di strumenti : tutto questo costituisce una sorta di sistema anonimo a disposizione di chi voglia o possa servirsene, senza che il suo senso o la sua validità siano legati a colui che ne è stato il possibile inventore. [...] Perché ci sia disciplina, occorre dunque che vi sia possibilità di formulare, e di formulare indefinitamente, nuove proposizioni. Ma c’è di più ; e forse c’è di più perché ci sia di meno : una disciplina non è la somma di tutto ciò che può essere detto di vero a proposito di qualcosa ; non è neppure l’insieme di tutto ciò che può essere, su di uno stesso dato, accettato in virtù di un principio di coerenza o di sistematicità. [...] Per appartenere ad una disciplina, una proposizione deve poter iscriversi in un certo tipo d’orizzonte teorico. [...] La disciplina è un principio di controllo della produzione del discorso. Essa gli fissa dei limiti col gioco d’una identità che ha la forma di una permanente riattualizzazione delle regole. 1
La progressiva specializzazione dei campi del sapere, i processi di ciclica rivisitazione storiografica e il proliferare delle riflessioni metodologiche e più ancora metadisciplinari hanno portato a una sempre maggiore chiarificazione di questo “sistema del sapere”. I principi di classificazione e ordinamento che, pur in costante mutazione o calibrazione, regolano la produzione dei discorsi scientifici vengono via via resi più trasparenti permettendo così a ogni nuova ricerca di potersi, più o meno agevolmente, inserire all’interno del proprio quadro di riferimento oppure di cercare di posizionarsi in modo critico rispetto agli insiemi disciplinari riconosciuti. Alcune regioni del sapere, tuttavia, sembrano opporre particolare resistenza a una ricostruzione della propria geografia. Le pratiche di controllo e ordinamento del discorso a cui esse sono soggette formano un intreccio di percorsi, vicoli ciechi e deviazioni di cui è difficile fornire una mappatura precisa. Gli studi in materia di danza ne sono un esempio. 2 1 M. Foucault, L’ordre du discours, Paris, Gallimard, 1971, tr. it. di A. Fontana, M. Bertani, V. Zini, L’ordine del discorso e altri interventi, Torino, Einaudi, 2004, pp. 15-17. 2 Il convegno internazionale di studi La disciplina coreologica in Europa : Problemi e prospettive / La disciplina coreológica en Europa : Problemas y Perspectivas (Valladolid 27-29 novembre 2008) – realizzato in collaborazione tra
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capitolo primo 1. L’oblio di Tersicore nella tradizione occidentale
La cultura occidentale 1 è nata sotto il segno della danza. Un rapido sguardo a uno dei passi più noti dell’Iliade – la descrizione dello scudo di Achille 2 – lo esemplifica. Il motivo coreico ricorre diverse volte all’interno delle scene rappresentate da Efesto. Innanzitutto esso compare nella prima fascia dello scudo quale danza degli astri : vi sono raffigurati la terra, il mare, il sole, la luna e soprattutto la perfezione sferica del firmamento. La geometria in movimento qui evocata viene poi immediatamente ripresa nella fascia successiva dove uno dei momenti caratterizzanti la vita in società – il matrimonio – viene celebrato attraverso una danza nuziale. La terza fascia, con la sua attenzione meticolosa per i gesti dei contadini e dei pastori al lavoro, rievoca non solo la partecipazione corale alle attività e ai riti nel mondo antico, ma sembra anche far riferimento a una vera e propria danza della vendemmia. L’arte coreica è infine protagonista indiscussa dell’ultimo quadro. Qui Efesto – richiamando il mito di Arianna e Dedalo – riproduce un ballo simile a quello cretese ovvero una danza sacra che imita nelle sue movenze l’aggirarsi per gli intricati meandri del Labirinto. Dalla minuziosa descrizione dei movimenti dei giovani – caratterizzati da traiettorie circolari e da ripetuti avvicinamenti e allontanamenti di due file di ballerini – emerge chiaramente come questa danza riprenda quella cosmica raffigurata nella prima fascia. Lo scudo di Achille sembra così farsi specchio di quell’ordine in movimento che regge l’universo greco e a cui l’uomo cerca di aderire con la propria azione, non da ultimo anche attraverso l’orchestica. È lo stesso Platone a confermare la rilevanza sociale, pedagogica ma anche teorica di questa forma espressiva all’interno della civiltà greca. Il filosofo ne fa risalire l’origine sia alla naturale propensione dell’uomo verso il movimento sia a una matrice più propriamente “divina” rintracciabile nella componente ritmica e armonica alla base di quest’arte :
Poiché questi piaceri e dolori correttamente sviluppati sono forme pedagogiche che si rilassano e si corrompono per molti aspetti nel corso della vita umana, gli dei, presi da compassione verso una stirpe condannata per natura alla sofferenza, istituirono, a guisa di intervalli alle pene, l’alternanza delle feste in onore dei numi e assegnarono agli uomini sia, quali partecipi a tali cerimonie e di esse regolatori, le Muse e Apollo Musagete e Dionisio sia la formazione nata all’interno delle feste in compagnia degli dei. Perciò bisogna vedere se il ragionamento che ora celebriamo è, conforme alla sua natura, veritiero, o se le cose stanno diversamente. Esso ci dice che pressoché tutti gli esseri giovani non riescono a stare mai in quiete con il corpo e con la voce, ma cercano continuamente di muoversi l’Università degli Studi di Valladolid, la Fundación para la enseñanza de las artes en Castilla y León (arcyl) e l’Associazione Italiana per la Ricerca sulla Danza (airdanza) – ha rappresentato un’importante occasione di riflessione in merito a questa giovane e complessa classe di studi e ad alcune questioni teoriche ad essa collegate. In particolare la varietà e la molteplicità degli interventi hanno permesso di richiamare l’attenzione su diverse problematiche metodologiche, terminologiche e storiografiche legate a questo campo disciplinare nonché, più generalmente, sulla ricchezza degli studi coreologici e sulla difficoltà connessa a una loro possibile circoscrizione. Per queste ragioni gli atti del convegno – (cfr. La disciplina coreologica in Europa. Problemi e prospettive, a cura di C. Nocilli, A. Pontremoli, Roma, Aracne, 2010) – costituiscono una preziosa integrazione del discorso teorico che si andrà ora a sviluppare. 1 Nel corso di questo lavoro si fa riferimento esclusivamente alla tradizione occidentale sebbene siano sempre più necessari studi che non solo si occupino altrettanto settorialmente dell’Oriente ma ne evidenzino le intersezioni con la cultura europea. A tale riguardo si ricordano i lavori pionieristici in ambito italiano di Vito Di Bernardi sulla danza e le sue intersezioni col rito e il teatro : Mahabharata : l’epica indiana e lo spettacolo di Peter Brook, Roma, Bulzoni, 1989 ; Introduzione allo studio del teatro indonesiano : Giava e Bali, Firenze, La casa Usher, 1995 ; Ruth St. Denis, Palermo, L’Epos, 2006. Si rimanda infine alla sua curatela (firmata insieme a Adriano H. Luijdjens) di Giava-Bali : rito e spettacolo, Roma, Bulzoni, 1985. 2 Cfr. Omero, Iliade, canto xviii, vv. 478-616, tr. it. di R. Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 1963, pp. 667-675.
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e di esprimersi, alcuni con balzi e salti come se danzassero e giocassero esultanti, altri emettendo ogni sorta di suoni. Ora, mentre le altre creature animate non hanno la percezione dell’ordine e del disordine insiti nei loro movimenti, e dunque di ciò a cui diamo il nome di “ritmo” e di “armonia”, a noi gli stessi numi di cui abbiamo detto che ci furono assegnati come compagni di danza hanno trasmesso la percezione del ritmo e dell’armonia unita al senso del piacere, e subito ci spingono a muoverci e dirigono le nostre evoluzioni intrecciandoci gli uni agli altri con danze e cori, e hanno scelto il nome di “cori” in relazione alla “gioia” che in essi è connaturata. 1
La ricorrenza e pregnanza semantica della disciplina coreica, tanto nel testo fondativo della tradizione occidentale quanto nella teoresi di uno dei maggiori filosofi del mondo antico, testimonia la funzione chiave svolta dalla danza nella costruzione della nostra cultura. Tuttavia la riflessione teorica su di essa in quanto forma d’arte è stata quantomai scarsa, sia da un punto di vista storico sia da uno più squisitamente filosofico. Una rapida ricerca bibliografica in proposito lo evidenzia. Il confronto – non solo quantitativo, bensì qualitativo – tra gli studi che abbiano per oggetto specifico la danza rispetto a quelli dedicati, invece, a una qualsiasi arte visiva o alla musica è nettamente schiacciante per la disciplina coreica. Analogamente le riflessioni filosofiche a riguardo – per quanto feconde ed estese dall’antichità fino alla contemporaneità – hanno dato raramente corpo a lavori specifici e autonomi : esse si trovano piuttosto sparse all’interno di speculazioni di più ampio respiro. 2 Ricorrendo ancora una volta all’apparato concettuale offerto da Michel Foucault, è come se la danza – quale espressione artistica del corpo in movimento – fosse stata soggetta, dopo il tramonto della civiltà classica, a diverse procedure d’esclusione dall’ordine del discorso scientifico. 3 Essa è entrata a far parte di quella vasta zona ai margini del dominio della scienza in cui si raccolgono i materiali di “scarto”, come l’esperienza immediata o il mondo dell’immaginario, ovvero tutto ciò che non può essere classificato come falso – poiché anche un errore può sorgere soltanto all’interno di una pratica discorsiva definita – ma che al tempo stesso non soddisfa i criteri di verità previsti da alcun sistema disciplinare riconosciuto.
1. 1. Tra tacita esclusione e ipertrofica inclusione All’inizio del Novecento il noto compositore e critico musicale Bruno Barilli registra l’oblio della danza in un suo articolo :
Fra tutte le arti eternamente vittoriose e deluse una ve n’ha appartata abbandonata e infelicissima, quella della danza. Vacilla sulle sue labbra uno strenuo sorriso in cui muore la sua ultima terrestrità, mentre ella volgendosi appena si leva insalutata eterea – Autunnale partenza, triste come il volo senza gridi delle rondini. Così svanisce quel che non fu che un effimero giuoco di forme. 1
Platone, Le Leggi, 653 c 7 - 654 a 7, tr. it. di F. Ferrari - S. Poli, Milano, bur, 2005, pp. 165-167. Cfr. C. Serra, Il corpo e la danza, in Estetica. Temi e problemi, a cura di M. Mazzocut-Mis, Grassina, Le Monnier, 2006, pp. 222-241. In questo saggio l’autore muove dalla constatazione della scarsa rilevanza di cui ha goduto la danza all’interno della ricerca filosofica per poi andare a rintracciare e interrogare la ricchezza di tematiche e problematiche che essa ha saputo tuttavia sollevare nelle riflessioni di filosofi antichi come Platone e Aristosseno, ma anche di alcuni moderni e contemporanei come Valery. Per un’antologia di brani filosofici otto-novecenteschi specifici sulla danza infine cfr. Filosofia della danza, a cura di B. Elia, Genova, Il Melangolo, 2004. 3 Cfr. Foucault, L’ordine del discorso, cit., pp. 3-26. Obiettivo delle prossime pagine è quello di cominciare a rintracciare le ragioni di questo misconoscimento della danza e i diversi – talora opposti – espedienti adoperati dal discorso scientifico per tentare di trattare – o evitare – l’oggetto coreico. La tesi qui proposta – seguendo la terminologia e riflessione foucaultiana già ricordata – non è da intendere tuttavia in termini rigidamente storici, bensì teorici. È ovvio, infatti, che anche dopo la fine della civiltà classica la danza conosca occasioni e modi di espressione tanto pratica quanto teorica. Le scansioni temporali adoperate vanno piuttosto intese in senso paradigmatico ovvero come mezzi per esemplificare movimenti dialettici che in modo meno evidente, ma soprattutto con differenti equilibri tra le forze in gioco, si ripetono in ogni epoca storica. 2
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Poesia e giovinezza si confondono silenziosamente, in quest’arte piena di turbini che rallentano, di nodi che si sciolgono. Non avendo la danza, al pari della musica, una scrittura convenzionale i suoi gesti se li beve l’aria. Più labile d’una bolla di sapone che dileguando lascia cadere una stilla. 1
Con il suo stile inconfondibile, Barilli sembra suggerire nell’evenienza della danza la ragione della sua scarsa considerazione quale arte. Il suo disperdersi nello spazio immediatamente dopo essersi dispiegata all’interno di esso, il suo dileguarsi nella frazione di un istante, ma soprattutto l’assenza di un’ufficiale e condivisa notazione coreica rendono questa forma espressiva difficilmente afferrabile. Ogni discorso che se ne voglia occupare in modo scientifico si scontra inevitabilmente con un problema di qualità nonché di quantità di fonti. Il fenomeno coreico si offre infatti tanto allo sguardo dello spettatore quanto a quello del ricercatore in modo unico e irripetibile all’interno di un preciso hic et nunc ; qualsiasi tipo di riproduzione filmica o nuova messa in scena si configura in termini simili ma al tempo stesso inevitabilmente altri rispetto all’evento originario. Lo studioso si trova dunque a doversi confrontare con un oggetto insieme assente e plurimo. Non da ultimo le categorie ritmiche che contraddistinguono la disciplina coreica la espongono a diverse procedure di partizione e rigetto 2 all’interno del sistema del sapere. La natura essenzialmente mobile della danza affonda le proprie radici nel terreno del mutamento, dell’irriflesso, di quel divenire che ha da sempre rappresentato per la filosofia un monstrum da spiegare e, molto spesso, neutralizzare. Estranea all’orizzonte chiaro, semplice e immutabile dell’essere, l’arte coreica si ritrova così a far parte di quel vasto movimento ad esso contrapposto che è parso in molti casi acquisire un senso – e dunque valore – solo se arrestato nel suo moto e ricondotto a una permanenza. Ciò ha comportato inevitabilmente o il misconoscimento della danza – in quanto privata della sua dimensione mobile – oppure il suo rifiuto da parte del sistema scientifico in quanto non conforme ai criteri di ragionevolezza dominanti. Alcune immagini adoperate ancora una volta da Barilli nel suo articolo suggeriscono poi altre ragioni di quest’oblio della danza :
Fra la ginnastica e la danza qualche volta non c’è che una differenza di poco. Un sorriso. Sembra nulla, e tuttavia danza e ginnastica sono agli antipodi e rischiano di non incontrarsi mai. Il ginnasta ha un mare di musica da traversare se vuol impadronirsi di quel sorriso che ci pare quasi trascurabile. Guardando le giovani signore che ascoltano la musica vediamo quell’espressione disegnarsi senza volere sulle loro bocche – È come la tacita risposta a un invito segreto. Così sorridono le ballerine. Come s’apre un fiore scosso al soffio dell’estate. Su quelle labbra dischiuse c’è l’anelante offerta a un bacio. Inconsapevole perversità – quel sorriso venuto su dal fondo è il segno che si è formato l’anello : saldatura fra il corpo e lo spirito. Ora il serpente si morde la coda. Quel senso riman vago e sospeso senza precipitare, trattenuto ambiguamente come la tentazione amorosa. E anche la danza annunzia a quel modo, assopita sul ritmo, d’essere un privilegio femminile. Creature assorte in simile fervore le trovi nei collegi delle figlie nobili, e nella sala di pronto soccorso dell’istituto di maternità, dove giacciono dissanguate le più lamentevoli sgualdrine – sorriso che non perdona, sempre innocente, perché il peccato, la donna lo provoca, ma lo commette l’uomo. 3
Le prime battute di questo nuovo passo alludono a una delle difficoltà maggiori connesse allo studio della disciplina coreica : la delimitazione del suo campo. La definizione comune di danza quale movimento ritmico del corpo 4 non permette di distinguere il gesto di un
1 B. Barilli, Rimpianto della danza, « Il Tevere », 17 dicembre 1927, ora in Idem, Il paese del melodramma, a cura di L. Viola, L. Avellini, Torino, Einaudi, 1985, pp. 239-240, qui p. 239. 2 Cfr. Foucault, L’ordine del discorso, cit., pp. 5-7. 3 Barilli, Rimpianto della danza, cit., pp. 239-240. 4 A titolo esemplificativo si rimanda a queste due definizioni : s.v. Danza, in Il grande dizionario Garzanti della lingua italiana, diretto da G. Patota, Milano, Garzanti, 2008, p. 668 ; cfr. inoltre F. Cuniberto, s.v. Danza, in Dizionario di estetica, a cura di G. Carchia, P. D’Angelo, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 76-77.
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ballerino da quello di un acrobata o, ancora, di un soldato in marcia. Come esprimono efficacemente le parole di Barilli, infatti, il discrimine tra queste diverse forme di movimento appare sottile ed evanescente quanto un “sorriso”, eppure proprio su questo margine incommensurabile si gioca la capacità da parte della danza non soltanto di disegnare forme nello spazio, bensì di comunicare attraverso di esse sentimenti ed emozioni. Al tempo stesso questa stessa risonanza espressiva capace di distinguere l’arte di Tersicore da semplici movimenti ritmici è causa di un altro suo motivo di ambiguità. La danza ha infatti una fisionomia trasversale permeata di aspetti antropologici, educativi, etnici e spettacolari : il suo minimo comune denominatore – il gesto – lungi dal definirne il campo di apparizione specifico la espone in modo obliquo rispetto a diverse modalità fenomeniche rischiando di farla coincidere con la gestualità quotidiana, di confonderla con quell’espressività naturale che rappresenta una delle sue condizione di possibilità ma non esaurisce il suo profilo. Di conseguenza la danza tende a sfuggire ai diversi criteri di chiarezza e distinzione richiesti dalle suddivisioni disciplinari. Al carattere eveniente e indefinito della danza, si aggiunge poi un ulteriore motivo di imbarazzo. Le labbra da cui Barilli fa scaturire il sorriso di quest’arte sono una sineddoche adoperata dal critico per indicare la sorgente del movimento coreico, la sua matrice inconfondibile e irrinunciabile : il corpo. È esso a distinguere la danza dal volo sinuoso di una farfalla piuttosto che dal moto ordinato dei cieli, ma anche a legarla inevitabilmente a temi magmatici quali la sensibilità, il desiderio, l’emozione ovvero a tutto ciò che la storia del pensiero tende solitamente a rinnegare in quanto apparentemente privo di razionalità e dunque portatore di istanze sovversive, di forze difficilmente controllabili. Le immagini con cui il musicologo descrive la seduzione e tentazione di cui la corporalità femminile è emblema rappresentano un’esemplificazione efficace di queste insidie e al tempo stesso potenzialità connaturate all’arte coreica : esse alludono a quella matrice sessuale dell’identità umana da cui la danza è segnata e di cui segue inevitabilmente le sorti. Rappresentando infatti un interdetto 1 della pratica discorsiva, la sessualità ha da sempre ostacolato il pieno riconoscimento della disciplina coreica. Sisto Dalla Palma è ricorso proprio a questa pratica di inibizione per tentare di motivare l’assenza nella tradizione occidentale di uno sviluppo adeguato tra danza e sacro ovvero la frequente sottovalutazione del carattere intrinsecamente gestuale del rito, della capacità del corpo di farsi in modo immediato e concreto trasparenza di un vissuto più profondo :
In questo orizzonte culturale opera da sempre un interdetto che non passa solo attraverso il cristianesimo o l’interpretazione che di esso si cala via via nella storia. In realtà c’è una negazione del corpo che si dà ben addentro in questa tradizione, negazione che parla attraverso un itinerario della mente e un’astrazione inaudita. L’affermazione del cristiano passa attraverso la denuncia dei lasciti della carne, delle tentazioni della carne che sono il sostrato costitutivo delle grandi tradizioni mediterranee e delle culture agrarie. Troppo spesso Dio è collocato e amato in virtù della sua astrazione, come sottraendolo radicalmente ai diritti della percezione in forza dell’essere il tutt’altro trascendente che elude quella domanda di concretezza che è nell’uomo, il quale chiede di rappresentarsi Dio non solo per aenigmata et phantasmata, ma nell’incontrovertibile certezza dell’immagine. 2
Riepilogando il percorso fin qui tracciato, è come se nella cultura occidentale si fosse radicato un atteggiamento antitetico eppure equivalente – dal punto di vista del suo effetto – nei confronti della disciplina coreica. Da una parte si rileva la tendenza a considerare la danza quale semplice movimento di un apparato fisico totalmente scisso dalla dimensione interiore dell’uomo e dunque governato da pure leggi meccaniche o istintuali : la disciplina coreica
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Cfr. Foucault, L’ordine del discorso, cit., p. 5. S. Dalla Palma, Il teatro e gli orizzonti del sacro, Milano, Vita e Pensiero, 2001, pp. 114-115.
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viene così ridotta a puro esercizio, divertimento del corpo o persino a pratica moralmente pericolosa e trasgressiva. Dall’altra si nota una deriva lirica ed estetizzante di segno opposto ovvero tesa a liberare la danza dalla sua dimensione materiale per farne parola ed essenza del pensiero : si tratta del tentativo di inglobare la disciplina coreica all’interno dell’orizzonte del sapere al prezzo, tuttavia, di sublimarne e sacrificarne la dimensione corporea. In entrambi i casi ci si trova di fronte a strategie che, nel cercare di arginare la complessità dell’oggetto coreico, rimangono legate e vittime del medesimo binomio anima-corpo. Limitandosi a invertire il segno del rapporto da negativo a positivo – accordando maggior peso all’uno o all’altro termine della relazione – esse perdono l’interezza e, con essa, l’essenza stessa della danza. Neppure gli studi specificatamente coreologici sviluppatisi negli ultimi trent’anni riescono, in parte, a ovviare a quest’impasse. A partire dagli anni Ottanta si è registrata a livello internazionale una fioritura degli studi di danza, in particolare negli Stati Uniti e in Inghilterra, a seguire Francia e Germania, e infine in altri paesi come l’Italia. Fino a quegli anni si può affermare che non esistesse né una storiografia della danza metodologicamente riconoscibile né delle figure professionali specifiche in questo campo di studi. Gli unici testi allora in circolazione si limitavano a storie della danza generali o per lo più nazionali – di solito dedicate al balletto – oppure a biografie di celebri artisti spesso romanzate e dal tono agiografico a opera di ballerini, maestri di ballo e alcuni rari cultori della materia. Si trattava in ogni caso di lavori sorti a lato di impieghi e attività principali e destinati a diffondersi all’interno dei circuiti ristretti degli addetti ai lavori. Parallelamente si potevano trovare riferimenti alla danza nelle opere di teatrologi, musicologi o etnologi dove tuttavia l’attenzione era marginale e funzionale all’arte o al tema maggiore di cui lo specialista era esperto. La ragione di questa esplosione del “fenomeno danza” negli ultimi tre decenni è da intendersi anzitutto quale risultato di una progressiva rivalutazione del corpo maturata da inizio secolo. Lo sviluppo delle scienze mediche e biologiche, l’attenzione alla dimensione antropologica e sociologica del comportamento umano, ma soprattutto l’affermazione da parte della psicoanalisi di un’unione inscindibile di psiche e corpo e la conseguente liberalizzazione sessuale di inizio secolo hanno comportato una trasformazione della danza stessa e, insieme con essa, del giudizio dell’opinione pubblica a riguardo. Di contro ai tecnicismi del balletto ma anche alla sclerotizzazione di una certa cultura positivistica, danzatrici come Isadora Duncan, Ruth St. Denis e Martha Graham hanno riscoperto nel gesto l’originaria forma espressiva dell’uomo. Liberatesi dai consueti abiti del repertorio classico e dalle sue rigidità formali, ma anche dall’adeguazione della performance coreica a un certo modello narrativo sviluppato sull’ordine del linguaggio, queste donne hanno saputo interpretare il proprio corpo come uno strumento di conoscenza e piacere al tempo stesso, come un mezzo attraverso cui manifestare liberamente la propria interiorità. La crescita esponenziale del pubblico a teatro, l’apertura di nuovi spazi performativi, la nascita della critica di danza sui principali quotidiani del tempo e persino l’introduzione nelle università americane di appositi corsi, prima, e di specifici indirizzi, poi, dedicati all’arte di Tersicore hanno dimostrato poi l’ampiezza e gli effetti socioculturali di questo fenomeno. Accanto a questo movimento, per così dire, “dalle scienze alla danza” si può poi rilevare, soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento, anche un dinamismo inverso. In un mondo altamente tecnologico e globalizzato, ovvero all’insegna di costanti processi di fluidificazione e reinvenzione delle strutture economico-sociali, ma anche di particolare attenzione ai meccanismi conoscitivi, alle relazioni interpersonali o, ancora, all’equilibrio psicofisico dell’individuo, l’arte coreica è divenuta un ambito di investigazione particolarmente interessante all’interno di campi molto diversi e apparentemente distanti tra loro : dall’antropologia alla sociologia, dall’epistemologia alla pedagogia sino ad arrivare alle
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scienze mediche. Attualmente la danza viene, ad esempio, impiegata quale mezzo di ricerca e intervento terapeutico 1 oppure, da un punto di vista più strettamente teorico, come metafora efficace 2 per descrivere il dinamismo e costruttivismo che caratterizza il soggetto umano. Non da ultimo il fenomeno coreico sembra affermarsi come il nuovo oggetto culturale per eccellenza. Tanto negli studi di settore quanto in quelli a carattere interdisciplinare emerge sempre più la necessità di investigare ogni oggetto come un segno strutturalmente e inevitabilmente culturale la cui decifrazione dipende sia da un ampio e diversificato spettro di codici e convenzioni, attraverso cui agisce ed è agito, sia dai diversi e mai totalizzanti punti di vista che permettono di osservare e indagare questo campo di forze. La trasversalità della danza rispetto a diverse regioni dell’esperienza, e conseguentemente del discorso, così come la relazione contingente e dinamica che essa impone tanto al semplice osservatore quanto al ricercatore fanno di questa disciplina uno degli esempi più efficaci, ma anche delle maggiori spinte propulsive, a questo mutamento di paradigma scientifico. L’affinità riscontrabile tra il fenomeno coreico e la tipologia di oggetti di cui i cultural studies 3 sono tra i principali interpreti lo dimostra. Come ha messo efficacemente in luce Michele Cometa, 4 infatti, all’interno della complessità rizomatica che caratterizza il panorama internazionale di questo genere di studi il concetto di performance ricopre un ruolo centrale. Per gli studi culturali non esiste alcun testo, comunicazione o media senza messa in scena. Ciò comporta un’attenzione particolare da parte di queste scienza al “qui e ora” dell’enunciazione e dei suoi elementi non testuali (per esempio l’immagine e il gesto) e un ridimensionamento dell’imperialismo linguistico. Una simile valorizzazione della dimensione performativa spiega la stretta sinergia che si è stretta tra cultural studies e danza. Da una parte, infatti, essa costituisce la ragione dell’insostituibile sostegno offerto da questo genere di studi alla nascita e al consolidamento della coreologia nei paesi anglosassoni ; dall’altra essa motiva la funzione chiave svolta dal modello coreico all’interno della riflessione metodologica di questo stesso settore disciplinare. 5 In
1 Per un quadro introduttivo al tema della “danzaterapia” cfr. M. Redaelli, Evanescenze creative e possibilità trasformative. Elementi di danzaterapia e questioni epistemologiche, in A. Pontremoli, Teoria e tecniche del teatro educativo e sociale, Torino, utet, 2005, pp. 200-225. Si ricordano inoltre : V. Bellia, Danzare le origini : i fondamenti della danzaterapia espressivo-relazionale, Roma, Magi, 2007 ; E. Cerruto, Metodologia e pratica della Danza Terapeutica. Danzamovimentoterapia tra Oriente e Occidente, Milano, FrancoAngeli, 2008 ; Danzaterapia. Il metodo Fux, a cura di M. Peserico, Roma, Carocci, 2004. Tra le ultime uscite di matrice anglosassone si segnala infine : The Art and Science of Dance/Movement Therapy. Life is Dance, a cura di S. Chaiklin, H. Wengrower, New York, Routledge, 2009. 2 A titolo esemplificativo si rimanda a due testi : E. Bencivenga, Dancing Souls, Lanham, Lexington, 2003, tr. it. di G. Malinverni, Anime danzanti, Torino, Aragno, 2008 (in cui l’autore utilizza l’immagine coreica per esplicare il carattere proteiforme della coscienza) e M. Ceruti, La danza che crea. Evoluzione e cognizione nell’epistemologia genetica, Milano, Feltrinelli, 2004 (all’interno del quale la metafora tersicorea è impiegata non come un mero artificio retorico ma per alludere a un carattere particolare della scienza, ovvero al fatto che in questa regione del sapere, forse più che in ogni altra, « è la propria visione di se stessa a plasmare ciò che costituisce gli oggetti e le spiegazioni valide » F. Varela, Creare la danza, prefazione a Ceruti, La danza che crea, cit., pp. 7-9, qui p. 7). 3 Con cultural studies s’intende quella corrente di studi sociali di origine britannica sviluppatasi intorno al Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham a partire dagli anni Sessanta e poi radicatasi profondamente negli Stati Uniti e più recentemente in Europa. Per una prima introduzione organica in lingua italiana a questo settore di studi cfr. C. Lutter - M. Reisenleitner, Cultural Studies. Un’introduzione, a cura di M. Cometa, tr. it. di R. Gambino, Milano, Bruno Mondadori, 2004. 4 Cfr. M. Cometa, Il ritorno dei Cultural Studies, in Lutter - Reisenleitner, Cultural Studies, cit., pp. ix-xxxiv, qui pp. xiv-xxi. Cfr. inoltre M. Cometa, Dizionario degli studi culturali, a cura di R. Coglitore, F. Mazzara, Roma, Meltemi, 2004, pp. 30-36. 5 Per un’analisi del legame tra cultural studies e studi coreologici cfr. N. Bryson, Cultural Studies and Dance History, in J.C. Desmond, Meaning in Motion, Durham, Duke University Press, 1997, pp. 55-77 ; Idem, Embodying Difference : Issues in Dance History and Cultural Studies, in Idem, Meaning in Motion, cit., pp. 29-54 ; Idem, Terra Incognita :
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modo particolare la struttura essenzialmente temporale ed eveniente della danza mette in discussione la consueta assunzione dell’oggetto del sapere quale eterno e assoluto e, infine, obbliga a rivedere i modelli standard di verità e le tradizionali procedure di verifica. Come scrive Gabriele Brandstetter :
Wenn Tanz als “Szenographie des Wissens”, d.h. als Schauplatz eines anderen, eines sinnlich-dynamischen Wissens auftritt und akzeptiert wird, so kann dies nicht ohne Einfluss auf unserer generelles Verständnis von Wissen und Wissenschaft bleiben. Tanz würde dann die Grenzen dessen, was wir für Wissen und Wissenschaft halten, veschieben und damit unser Verständnis von Wissen selbst in Bewegung setzen. 1
La domanda che bisogna tuttavia porsi è in che misura questa rivoluzione scientifica abbia realmente contribuito alla valorizzazione e all’indagine della danza in quanto tale. L’aumento di interesse per quest’arte, l’importante ruolo giocato da essa all’interno dello studio di altre discipline ma soprattutto la proliferazione nonché varietà dei discorsi prodotti a riguardo se, da un lato, riscatta il silenzio a cui la danza è stata costretta per secoli, dall’altra genera una serie di conseguenze da non sottovalutare. Si possono delineare infatti due tendenze, ma anche possibili derive negli studi di danza al momento. Da una parte il progressivo ampliamento della dicitura “danza” a terreni limitrofi e interconnessi, così come il suo impiego in campi molto eterogenei rischiano di disperdere progressivamente l’oggetto in questione. Esso tende a diventare un modello teorico vuoto, utile per indagini metalinguistiche e metaconcettuali, ma privo di una propria storia e dunque di un interesse teorico specifico e non “funzionale” ; analogamente, la scelta di applicare allo studio della danza concetti e strumenti metodologici mutuati da altre discipline può far perdere di vista le specificità dell’arte coreica e ridurla ad altri campi e linguaggi più o meno consolidati. Dall’altra parte si può constatare anche il pericolo opposto, ovvero quello di un’implosione della disciplina in se stessa nello strenuo tentativo di un percorso di differenziazione e difesa dalle altre regioni del sapere a cui si trova sempre più intrecciata. Uno sguardo non solo interno, ma anche esclusivamente autoreferenziale da parte degli specialisti di danza – a partire dall’uso di tecnicismi oppure dall’estrapolazione dell’oggetto coreico dal suo contesto storicamente determinato di apparizione, sino alla rinuncia a qualsiasi sorta di comunicazione con altri settori e forme del sapere – rischia di portare non soltanto a una ghettizzazione della disciplina coreica, ma anche a una sua riduzione di senso contrario, eppure in definitiva uguale a quella precedente : la parcellizzazione fino alla scomparsa dell’oggetto d’indagine e la conseguente impossibilità di dire qualcosa a riguardo. Tirando le fila dell’argomentazione finora condotta, è come se dopo l’esclusione della danza dai discorsi scientifici che ha caratterizzato gran parte della storia occidentale, si stesse ora assistendo a un suo processo inverso di ipertrofica inclusione. Il campo della danza si offre a una tale ampiezza di sguardi e percorsi, appare a disposizione di qualsiasi soggetto parlante senza alcuna sorta di restrizione preliminare ed è oggetto di così vari e molteplici discorsi al punto da rischiare di rarefarsi, di perdere consistenza. È come se quegli stessi motivi che hanno portato, prima, alla sua messa al bando dall’orizzonte del discorso – ovvero
Mapping New Territory in Dance and « Cultural Studies », « Dance Research Journal », i (2000), pp. 43-53 ; A. Koritz, Re/Moving Boundaries : From Dance History to Cultural Studies, in Moving Words. Re-Writing Dance, a cura di G. Morris, New York-London, Routledge, 1996, pp. 88-106 ; H. Thomas, Do You Want to Join the Dance ? Postmodernism/ Poststructuralism, the Body, and the Dance, in Moving Words, cit., pp. 63-86. 1 G. Brandstetter, Tanz als Szeno-Graphie des Wissens, in Tanz als Anthropologie, a cura di G. Brandstetter, C. Wulf, München, Fink, 2007, pp. 84-99, qui p. 88 (« Se la danza si presenta e viene accettata quale “scenografia del sapere”, cioè scena di un altro sapere, di un sapere sensibile-dinamico, ciò non può rimanere senza influsso sulla nostra generale comprensione del sapere e della scienza. La danza poi sposterebbe i confini di ciò che consideriamo sapere e scienza e quindi metterebbe in movimento la nostra comprensione del sapere stesso »).
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il suo carattere eveniente indefinito e corporeo – costituissero, oggi, lo sfondo generale del sapere a tal punto da non suscitare più alcuna interrogazione specifica in seno agli studi coreologici. Ciò che prima faceva della disciplina coreica un oggetto “anomalo” tanto da doverlo ostracizzare ora si è trasformato in qualcosa di così “comune” da poterlo associare ad altre pratiche artistiche o forme di sapere. La danza teatrale del Settecento costituisce a questo riguardo un esempio paradigmatico. In particolare essa offre una lente preziosa attraverso cui osservare come si siano modificate le pratiche di controllo e ordinamento del discorso coreologico e come, al tempo stesso, non sia venuto del tutto meno il loro effetto di neutralizzazione nei confronti della danza stessa. 1. 2. Ceneri, orme e scie. Insidie investigative della danza teatrale settecentesca Nel xviii secolo la danza attraversa un intenso processo di sperimentazione, ma anche specializzazione. Lo sviluppo della tecnica e la professionalizzazione del mestiere di ballerino portano, anzitutto, alla separazione di due forme coreiche che fin dal Quattrocento erano progredite in modo strettamente unito andando a formare la cornice rappresentativa e festiva delle corti rinascimentali e barocche : il ballo nobile e il ballo teatrale. Scrive a tal proposito il maestro di ballo Giambattista Dufort nel 1728 :
Di queste due specie di danze, quella da teatro, per lo raddoppiamento de’ passi battuti, capriolati o pirolati, si rende assai faticosa a ballare. Ella non serve, né dovrebbe servire, se non a’ professori di ballo, de’ quali, riuscendone per lo teatro assai pochi, vengono in conseguenza a farsi molto preggiare. E per contrario la danza da sala, o da festino, che vogliam dire, della quale io tratto nel presente libro, è assai men faticosa di quella da teatro. Serve alle dame, cavalieri ed altre gentili persone, e perfino i monarchi non hanno ritegno di volerla imparare, e perciò poi ha ricevuto il nome di Ballo Nobile. 1
Mentre gli studi sulla danza sociale proseguono senza soluzione di continuità l’indagine del loro oggetto coreico dalla sua codificazione rinascimentale sino, si può dire, ai giorni nostri, il ballo teatrale del xviii secolo rappresenta sotto diversi punti di vista un campo ancora inesplorato, sebbene esso sia ricco di possibilità investigative. Le ragioni di questa lacuna scientifica sono anzitutto da ricondurre a quelle più ampie prima ricordate a proposito degli studi di danza in generale, ma ad esse si assommano alcune complessità e asperità proprie del territorio coreutico settecentesco. Il motivo più evidente dell’esiguità di studi sulla danza teatrale settecentesca è l’indisponibilità per il ricercatore del suo oggetto d’indagine. Un’indisponibilità che se per ogni ricerca di natura coreica è, per così dire, un presupposto inamovibile si trasforma per l’arco temporale preso in esame in un caso “limite”. Mentre l’evenienza del corpo danzante è contrastata a partire dal Novecento grazie alle diverse tecniche di ripresa filmica e digitale – benché la loro funzione mediatrice non sia di certo neutrale e richieda conseguentemente un’inevitabile riflessione in merito – la danza storica è perduta nella sua immagine visiva in movimento. Tutti i diversi tipi di espressione coreica che hanno trovato luogo dal Medioevo al Barocco – ovvero in quel periodo di tempo che va indicativamente dal xii al xviii secolo 2 – si sono 1 G. Dufort, Trattato del ballo nobile, Napoli, Felice Mosca, 1728, ora in Trattati di danza in Italia nel Settecento, a cura di C. Lombardi, Napoli, Istituto italiano per gli studi filosofici, 2001, pp. 63-127, qui pp. 67-68. 2 Per un approfondimento del concetto di danza storica nonché, più in generale, di una possibile suddivisione della storia della disciplina coreica in tre epoche – quella archeologica (dall’Antichità al Medioevo), quella preistorica (dal Medioevo al Quattrocento) e infine quella più propriamente storica (a partire dal xv secolo) – si rimanda a A. Pontremoli, P. La Rocca, Il ballare lombardo. Teoria e prassi coreutica nella festa di corte del xv secolo, Milano, Vita e Pensiero, 1987, pp. 9-12. Sul problema particolare della ricostruzione della danza storica si rimanda al recente saggio di C. Nocilli, La danza histórica no es histórica : perfil de una deconstrucción, in La disciplina coreologica, cit., pp. 181-191.
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consumate nel loro stesso apparire. Lo studioso di danza storica può tentare di ricostruirne le coreografie originali e l’ambiente culturale e sociale che le ha prodotte solo da documentazioni di tipo visivo, letterario, musicale e a partire dal Cinquecento grazie a fonti di natura più specificatamente coreutica riconducibili ai ricchi trattati di danza conservatisi. 1 Un simile lavoro di ricostruzione presenta diverse difficoltà. L’esiguità di immagini pervenute a proposito della danza teatrale settecentesca può, ad esempio, ovviare solo in parte al vuoto lasciato sul palcoscenico. 2 Anzitutto questi documenti visivi sono in grado di riflettere soltanto la costruzione scenografica e i costumi di una determinata scena, ma soprattutto la disposizione spaziale e l’espressività dei corpi in un esiguo attimo all’interno di essa. 3 In secondo luogo questo tipo di documentazione visiva non può essere considerato come un vetro trasparente attraverso cui osservare un fotogramma dello spettacolo, bensì rappresenta una sua rielaborazione artistica secondo i canoni estetici, le specificità tecniche e le finalità del suo autore : basti osservare alcuni dei bozzetti di costumi da ballo realizzati da Louis René Boquet, 4 la caricatura di un ballerino – probabilmente il celebre Marie-Auguste Vestris 5 – oppure l’incisione ispirata a un famoso balletto settecentesco, Adelheid von Ponthieu. 6
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Per una prima indagine dei problemi connessi alla documentazione coreica (ovvero al suo reperimento, alle sue forme ma soprattutto alla sua lettura e interpretazione) e per una bibliografia introduttiva in merito si rimanda ai seguenti saggi : O. Di Tondo, Oralità e scrittura nella danza : alcune considerazioni, in Corpi danzanti. Culture, tradizioni, identità, a cura di O. Di Tondo, I. Giannuzzi, S. Torsello, Nardò, Besa, 2009, pp. 131-155 ; Eadem, Il documento nella storia della danza. Riflessioni a margine, in La disciplina coreologica, cit., pp. 207-234. 2 Per un primo approfondimento delle fonti iconografiche sulle origini della danza classica (ovvero da fine Seicento sino a tutto l’Ottocento) si rinvia a una recentissima pubblicazione che raccoglie, tra l’altro, diverse fonti inedite : F. Pappacena, Il linguaggio della danza. Guida all’interpretazione delle fonti iconografiche della danza classica, Roma, Gremese, 2010. 3 Per un approfondimento della questione e, in particolare, della differenza espressiva tra quadro e ballo si rimanda infra, cap. iii. 4 Parte degli innumerevoli costumi disegnati da Boquet per i balli di Noverre sono contenuti nel cosiddetto manoscritto di Varsavia (Fig. 1) : [J. G. Noverre], Théorie et pratique de la Danse simple et composée ; de l’Art des Ballets ; de la Musique ; du Costume et des Décorations par Mr. Noverre Directeur de la Danse et Me. des Ballets de S.A.S. le duc régnant de Würtemberg, [1766], 11 voll., più nello specifico nei voll. vii-xi (cfr. in proposito infra, pp. 31-32). Questi documenti rappresentano una fonte preziosissima di informazioni sul ballet d’action, ma presentano non poche difficoltà di lettura. Da una parte, infatti, essi si presentano quali semplici bozzetti dei costumi utilizzati dal coreografo nei suoi spettacoli (come dimostrato anche dalle dettagliate indicazioni fornite sul prezzo delle stoffe – cfr. ivi, vol. xi, pp. 7-10 – oppure a proposito della fattura degli abiti – basti pensare a quello della Ninfa della notte, Fig. 2, che viene riprodotto una seconda volta all’interno del manoscritto e fatto seguire da una scheda esplicativa, cfr. ivi, vol. xi, pp. 41-42) ; dall’altra essi costituiscono una delle poche tracce visibili di questi balletti. È per questa ragione, forse, che essi sembrano “mettere in scena” i costumi con i personaggi che li indossano : basti osservare i passi di danza in cui vengono ritratte le tre Grazie (Fig. 3) oppure l’espressività dei volti e degli atteggiamenti di altri personaggi (come quelli pensati per il ballo di Medée et Jason o di Alexandre, Figg. 8-17, 20-22). Al tempo stesso, però, queste figure e pose non possono neppure essere recepite come riproduzioni fedeli di quanto offerto sul palcoscenico da Noverre. Una simile questione richiederebbe ovviamente un apposito approfondimento che esula purtroppo dagli obiettivi del presente lavoro : per un’introduzione alla storia e alle forme del costume teatrale si rimanda quindi a A. Jullien, Histoire du Costume au Théatre depuis les origines du Théatre en France jusqu’a nos jours, Paris, Charpentier, 1880 ; mentre per l’analisi specifica di alcuni bozzetti di Boquet si rinvia a Pappacena, Il linguaggio della danza, cit., pp. 85-89, 116-128, 132-134. 5 Il tono caricaturale dell’immagine emerge (Fig. 4) non solo dalla posa ridicola in cui è raffigurato il ballerino, ma anche dalla presenza ai due angoli inferiori di una coppia di oche e dalla scritta che compare sotto il palcoscenico e in margine : « TωN MENTOI XHNΩ[N] OYK / EΣTIN OΣTIΣ OY / Published 2st. April 1781 / A Strange at Sparta standing long upon one Leg, said to a Lacedaemonian, / I do not believe you can do as much ; ‘True (said he) but every Goose can’. / See Plutarch’s Laconic Apothegms Vol. I. Page 406 » (« Certamente tra le oche non v’è / chi non sia capace / Pubblicato il 2 aprile 1781 / Uno Straniero a Sparta stando a lungo su una sola gamba disse a un Lacedemone / Io non credo tu sappia fare altrettanto ; “Vero (disse l’altro) ma ogni oca lo può fare” / Confronta gli Apoftegmi spartani di Plutarco vol. I pagina 406 »). 6 Questa incisione rappresenta la scena di un duello tratta da un balletto di Jean Georges Noverre messo in scena a Vienna nel 1773 (cfr. J. G. Noverre, Adelheid von Ponthieu. Ein tragisch-pantomimisches Ballet, Wien, Lo
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Il maggiore ostacolo allo studio della danza teatrale settecentesca è rappresentato tuttavia dal mancato ritrovamento – fino a oggi – di alcuna partitura coreografica della sua più importante forma espressiva : il ballet d’action. Con questa formula ci si riferisce generalmente a quello spettacolo coreografico a programma narrativo sviluppato esclusivamente per mezzo di danza e pantomima che viene propugnato e realizzato nella seconda metà del Settecento (più precisamente tra il 1750 e il 1780) dai coreografi riformatori Gasparo Angiolini 1 e Jean Georges Noverre. 2 A partire dal trattato di Louis de Cahusac del 1754 3 così come dalle Lettres sur la Danse di Noverre di sei anni più tardi 4 viene definita infatti come danse en action piuttosto che ballet d’action o en action quell’espressione coreica che si differenzia dalla forma dell’intermedio o del divertissement per la maggiore compiutezza e autonomia drammaturgica rispetto all’opera teatrale maggiore in cui è contenuta. Esso rappresenta quindi il precursore del balletto classico ottocentesco. 5 L’assenza di alcuna partitura coreografica preclude la possibilità di una ricostruzione fedele di questo modello coreico e rappresenta quasi un unicum nella tradizione della danza storica. I balli di società del Quattrocento e del Cinquecento, infatti, sono stati tramandati fino ai giorni nostri attraverso un ricco repertorio : basti pensare all’Orchésographie 6 di Thoinot Arbeau, un trattato in forma di dialogo pensato proprio per l’apprendimento dell’arte coreica senza l’ausilio di un maestro. Per quanto riguarda il Seicento, poi, l’istituzione nel 1661 dell’Académie Royale de Danse da parte di Luigi XIV ha favorito un tale consolida
genmeister, 1773). Oltre ai protagonisti in primo piano è presente sullo sfondo una folla che assiste all’evento. Visto il numero di persone raffigurate è ipotizzabile che non si tratti di una trascrizione fedele del corpo di ballo e della relativa coreografia, ma una rielaborazione in chiave figurativa dello spettacolo volta a a farne emergere il senso complessivo o a perseguirne un fine specifico, come ad esempio quello di coinvolgere il pubblico all’interno della rappresentazione (a tal riguardo cfr. infra, pp. 127-128, in particolare la nota 1 a p. 128, nonché la Fig. 5). 1 Per un primo inquadramento storico della figura del coreografo e della sua produzione coreutica si rimanda alla seguenti voci enciclopediche : C. Celi, s.v. Angiolini Gasparo, in Dictionnaire de la danse, diretto da P. Le Moal, Paris, Larousse, 2008, p. 14 ; G. Croll, s.v. Angiolini (Domenico Maria) Gaspero, in The New Grove Dictionary Of Music and Musicians, vi edizione, a cura di S. Sadie, London, MacMillan Press Limited, 1980, vol. i, pp. 425-426 ; G. Tani, s.v. Angiolini, Gasparo, in Enciclopedia dello spettacolo, fondata da S. D’Amico, Roma, Le Maschere, vol. i, 1954, pp. 619-628. Ulteriori approfondimenti sull’opera del riformatore della danza settecentesca saranno segnalati puntualmente nelle pagine successive del presente studio. 2 Per una prima introduzione alla vita e alle opere del coreografo si segnalano le seguenti voci enciclopediche : M. F. Bouchon, s.v. Noverre Jean Georges, in Dictionnaire de la danse, cit., pp. 322-323 ; K. Kuzmick Hansell, s.v. Noverre, Jean-Georges, in The New Grove Dictionary Of Music and Musicians, cit., vol. xiii, pp. 441-444 ; L. Moore, s.v. Noverre, Jean-Georges, in Enciclopedia dello spettacolo, cit., vol. viii, 1960, pp. 1243-1248. Ulteriori studi sulla figura e le opere del maestro di ballo saranno presentati più nel dettaglio nel corso dei prossimi paragrafi. 3 Cfr. L. de Cahusac, La danse ancienne et moderne ou traité historique de la danse (La Haye, Jean Néaulme, 1754), ed. a cura di N. Lecomte, L. Naudeix, J. N. Laurenti, Paris, Desjonquères/Centre National de la Danse, 2004. Sulla figura di Cahusac cfr. L. Naudeix, Louis de Cahusac : du poète d’opéra au metteur en scène, in La Fabrique du théâtre. Avant la mise en scène (1650-1880), a cura di M. Fazio, P. Frantz, Paris, Desjonquères, 2010, pp. 378-388. 4 Cfr. Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit. 5 Cfr. G. Tani, s.v. Ballet d’action, in Enciclopedia dello spettacolo, cit., vol. i, 1954, p. 1338. Cfr. inoltre C. Kintzler, M.F. Bouchon, s.v. Ballet-pantomime, in Dictionnaire de la danse, cit., pp. 694-695. Per un primo inquadramento delle diverse forme di danza teatrale si rimanda inoltre a G. Tani, s.v. Balletto, in Enciclopedia dello spettacolo, cit., vol. i, 1954, pp. 1355-1379. Si coglie infine l’occasione per una precisazione : nel corso del presente lavoro si utilizzeranno – salvo diverse indicazioni – le espressioni “ballo pantomimo” e “ballo in azione” quali sinonimi riferendosi in modo specifico alle rappresentazioni esemplari di Angiolini e Noverre della seconda metà del Settecento. 6 Vi sono due edizioni del trattato che si differenziano esclusivamente per il frontespizio : T. Arbeau, Orchésographie et traicte en forme de dialogue, Lengres, Iehan des Preyz Imprimeur & Libraire, 1589 ; Idem, Orchésographie, métode, et téorie en forme de discours et tablature pour apprendre a dancer, Lengres, Iehan des Preyz Imprimeur & Libraire, 1596, rist. anast. Genève, Minkoff, 1972. Per maggiori informazioni sul maestro di ballo si rinvia a : J. Sutton, s.v. Arbeau, Thoinot, in The New Grove Dictionary Of Music and Musicians, cit., vol. i, pp. 544-545 ; G. Tani, s.v. Arbeau, Thoinot, in Enciclopedia dello spettacolo, cit., vol. i, 1954, pp. 782-783.
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mento professionale e tecnico della disciplina coreica da portare alla creazione da parte di Charles-Louis Beauchamp e Raoul-Auger Feuillet di un preciso sistema di notazione : 1 esso ha permesso di registrare il codice di movimenti pensato per la nuova funzione drammaturgica assunta dalla danza all’interno delle sperimentazioni coreiche rappresentate dalla comédie-ballet e dalla tragédie-ballet. A proposito del periodo romantico, infine, il successo di alcuni capolavori giunti fino a noi attraverso le descrizioni dei contemporanei e la rielaborazione di grandi coreografi, così come il ritrovamento delle partiture di interi balletti – come quelli lasciati da August Bournonville alla sua compagnia 2 – permettono di avere un’idea abbastanza articolata di questa forma espressiva. Ciò che è rimasto del balletto pantomimo settecentesco è soltanto un insieme di tracce : programmi di ballo, spartiti, recensioni, appunti, discorsi teorici, immagini. Si tratta di una serie di materiali eterogenei capaci di attestare l’avvenimento di un processo artistico senza permettere di risalirvi come a un prodotto stabile e compiuto. L’oggetto della ricerca, infatti, non soltanto è indisponibile allo studioso per avviare la sua indagine, ma si preannuncia come “irraggiungibile” anche al termine di essa : l’evanescenza coreica rappresenta dunque il vero tema investigativo. 3 Prima di essere motivo d’interrogazione teorica, però, questo materiale variegato e frammentario pone lo studioso di fronte a problemi di natura eminentemente pratico-metodologica. Una delle maggiori difficoltà connesse a questo preciso campo di studi è legata anzitutto al reperimento delle fonti. Manca, infatti, un censimento di questi documenti. Per cercare di capire cosa questo comporti, si prenda per un attimo in esame il caso della ricerca sull’opera in musica. Mentre gli studiosi del melodramma possono avvalersi di preziosi strumenti di consultazione come il catalogo completo dei libretti italiani a cura di Claudio Sartori – ovvero un archivio di titoli e rimandi che, sebbene necessiti di continui aggiornamenti e di debite correzioni, costituisce un insostituibile punto di riferimento in materia 4 – non esiste a tutt’oggi un equivalente per i programmi di ballo. Ad eccezione di alcune pubblicazioni che rendono conto del materiale coreico rinvenuto all’interno di raccolte specifiche 5 o degli spettacoli di danza allestiti all’interno di uno specifico teatro, 6 lo studioso dell’arte di Tersicore è sprovvisto di qualsiasi supporto orientativo. Egli è costretto a crearsi un proprio database a partire dalle notizie sui balli ricavate dai diversi cataloghi dell’opera in musica
1 Cfr. R.A. Feuillet, Chorégraphie ou l’art de décrire la danse par caractéres, figures et signes démonstratifs, Paris, Michel Brunet, 1700, rist. anast. Hildesheim-New York, Olms, 1979. L’edizione del 1701 mantiene lo stesso titolo e rappresenta una versione rivista e integrata della prima stampa. Per maggiori informazioni sull’autore cfr. M. F. Christhout, s.v. Feuillet, Raoul-Auger, in Enciclopedia dello spettacolo, cit., vol. v, 1958, pp. 263-264 ; M. E. Little, s.v. Feuillet, Raoul-Auger, in The New Grove Dictionary Of Music and Musicians, cit., vol. vi, pp. 514-515. 2 Cfr. A. Bournonville, Études chorégraphiques (1848, 1855, 1861), ed. fr./ ing. / it. a cura di K. A. Jürgensen, F. Falcone, tr. it. di F. Falcone, P. N. McAndrew, Lucca, lim, 2005 ; R. Fabris, “Ispirato a…” La via italiana alla ricostruzione del teatro di danza del primo Ottocento, Bournonville e il monopolio francese, in La disciplina coreologica in Europa, cit., pp. 235-252 ; K. A. Jürgensen, Appendix i : Female Variation from August Bournonville’s “Troubadouren”, in Idem, The Verdi Ballet, Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani, 1995, pp. 159-194 ; K.A. Jürgensen, A. H. Guest, The Bournonville Heritage : a Choreographic Record 1829-1875 : Twenty-four Unknown Dances in Labanotation, London, Dance Books, 1990 ; O. Nørlyng, H. Urup, Bournonville. Tradition. Rekonstruktion, København, Reitzel, 1989. 3 Si avrà modo di approfondire la questione infra, a partire dal cap. ii. 4 Cfr. C. Sartori, I libretti italiani a stampa dalle origini al 1800 : catalogo analitico con 16 indici, Cuneo, Bertola & Locatelli, 1990. 5 Cfr. ad esempio Libretti di melodrammi e balli nel secolo xviii . Fondo Ferraioli della Biblioteca Apostolica Vaticana, a cura di E. Mori, Firenze, Olschki, 1984. 6 Cfr. ad esempio G. Tintori, Cronologia : opere, balletti, concerti 1778-1977, «Duecento anni di Teatro alla Scala», vol. ii, Bergamo, Grafica Gutenberg, 1979 ; Il Regio ducal teatro di Milano, 1717-1778 : cronologia delle opere e dei balli con 10 indici, a cura di G. Tintori, M. M. Schito, Cuneo, Bertola & Locatelli, 1998 ; Catalogo generale cronologico dei balli teatrali a Venezia dal 1746 al 1859, a cura di E. Ruffin, G. Trentin, in Balli teatrali a Venezia (1746-1859) : partiture di sei balli pantomimici di Brighenti, Angiolini e Viganò, saggio introduttivo di J. Sasportes, Milano, Ricordi, 1994, vol. i, pp. xxxi-cccxix.
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piuttosto che dall’incrocio di lavori di altri studiosi – molto spesso piuttosto datati – sulla produzione coreutica di taluni coreografi all’interno di un determinato arco temporale o di uno spazio teatrale preciso. Questa prima mappatura e cronologia richiedono poi di essere integrate e aggiornate attraverso un lavoro d’indagine personale sul campo, ovvero lo spoglio del materiale contenuto in archivi e biblioteche. Si tratta di un lavoro particolarmente ostico perché si ha a che fare con elenchi in massima parte ancora cartacei e che, soprattutto, non permettono una ricerca per soggetto perché non sono ordinati secondo la categoria del ballo o di altre affini. Conseguentemente il ricercatore deve tentare di risalire all’opera maggiore in cui il ballo pantomimo è contenuto oppure escogitare strategie investigative alternative, come quella di risalire a date e luoghi delle performance coreiche a partire dalle informazioni che al riguardo si possono rintracciare sulle gazzette, i giornali e gli epistolari dell’epoca. Il lavoro dello studioso si avvicina così a quello di un “investigatore” che segue i passi del proprio ricercato, ne analizza le azioni, gli effetti e le relazioni per poterne costruire un identikit che lo aiuti nel riconoscimento. Al momento di pianificare questo lavoro di ricerca, subentra poi un ulteriore problema : la definizione del raggio d’indagine. Nella seconda metà del xviii secolo tanto l’Académie royale quanto la stessa città di Parigi non rappresentano più il centro esclusivo di sperimentazione e riflessione sull’arte coreica. Il ballo teatrale settecentesco cresce con gli spostamenti dei suoi coreografi da una corte all’altra del vecchio continente : esso lascia tracce del suo passaggio senza trovare alcun luogo o istituzione in cui radicarsi. Lo studioso si ritrova dunque a dover seguire queste orme. Anche solo richiamando le principali tappe della carriera artistica del maggiore coreografo settecentesco, Noverre, ci si rende immediatamente conto dell’ampiezza dell’area geografica coinvolta : Parigi, Berlino, Lione, Stoccarda, Vienna, Milano, Londra. Se poi si tiene conto anche degli spostamenti di altri due protagonisti indiscussi della scena settecentesca, Franz Anton Hilverding 1 e Gasparo Angiolini, i confini si ampliano fino a comprendere San Pietroburgo. Come scrive Flavia Pappacena :
L’Europa era percorsa da nord a sud, da est a ovest, dai grandi centri ai teatri secondari, da compagnie itineranti dalle caratteristiche più diverse [...]. In questo coacervo di situazioni diverse difficilmente gli artisti rimanevano estranei o insensibili al confronto e, più o meno consciamente, reagivano creativamente mettendo a frutto qualsiasi stimolo o idea incrociasse il loro cammino. Questa sensibilità e reattività contribuirono fortemente ad innescare quel processo di mutuazioni che percorrono, continue e a volte striscianti a volte eclatanti, tutto il Settecento e che saranno le principali responsabili dell’emancipazione della danza di teatro e, quindi, della formazione di un linguaggio proprio, autonomo, della disciplina coreica. 2
In questa raccolta delle fonti bisogna inoltre contare che, molto spesso, materiale prezioso è conservato in città apparentemente escluse dal circuito degli spettacoli coreici. È il caso, ad esempio, di Varsavia dove è reperibile un importante manoscritto di Noverre : Théorie et pratique de la Danse simple et composée ; de l’Art des Ballets ; de la Musique ; du Costume et des Décorations. 3
1 Cfr. P. Branscombe, s.v. Hilverding van Wewen, Franz (Anton Christoph), in The New Grove Dictionary Of Music and Musicians, cit., vol. viii, pp. 570-571 ; G. Tani, s.v. Hilverding Franz Anton, in Enciclopedia dello spettacolo, cit., vol. vi, 1959, pp. 335-336. Si segnalano infine gli studi pionieristici di F. Derra de Moroda, Franz Anton Christoph Hilverding. Eine Chronik anläßlich der zweihundertsten Wiederkehr seines Todestages von Derra de Moroda, in Ballett 1967. Chronik und Bilanz des Ballettjahres, a cura di H. Koegler, C. Barnes, Velber, Friedrich, 1967, pp. 49-51 ; Eadem, Franz Anton Christoph Hilverding und das Ballet D’Action, « Österreichische Musikzeitschrift », xxiii (1968), 4, pp. 189-196 ; Eadem, The Ballet-Masters Before, At the Time Of, and After Noverre, « Chigiana », xxix-xxx (1972-1973), pp. 473-485 ; Eadem, Die Ballettmeister vor, zur Zeit und nach J.G. Noverre, « Das Tanzarchiv », xxiv (1976), 8, pp. 281-289. 2 F. Pappacena, La danza classica. Le origini, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 45. 3 Cfr. [Noverre], Théorie et pratique de la Danse, cit. La datazione del manoscritto è tratta dalla dedica di Noverre al re di Polonia che si trova nel I volume e che si chiude con “A Louisbourg le 10. Novembre 1766”.
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Si tratta di un’opera in undici volumi – comprendenti una sintesi delle Lettres sur la Danse del coreografo, diversi programmi e spartiti di suoi balletti nonché più di quattrocento bozzetti di abiti realizzati da Boquet – inviata da Noverre al re Stanislao II Augusto di Polonia al fine di presentare il proprio lavoro e ottenere così un ingaggio a corte. 1 Non da ultimo bisogna ricordare gli archivi e i fondi in cui sono contenuti i materiali raccolti da studiosi o appassionati di danza, come l’Archiv Derra de Moroda dell’Università di Salisburgo 2 piuttosto che la Cia Fornaroli Collection della New York Public Library. 3 In entrambi i casi ci si trova di fronte a luoghi in cui non solo sono state riunite fonti altrimenti sparse e difficilmente consultabili, ma talvolta sono stati sottratti alla scomparsa o alla distruzione importanti documenti. Una volta raccolto questo materiale – di cui nella maggior parte dei casi è impossibile alcun tipo di riproduzione – sopraggiunge poi un problema di natura più propriamente teorico-metodologica, ovvero quello di saperlo leggere. Si tratta non solo di accertare la provenienza e l’attendibilità di questi documenti ma soprattutto di interpretare il tipo di relazione che lega ciascuno di essi al testo corporeo irrimediabilmente perduto. Una simile operazione ermeneutica chiama in causa, da una parte, competenze molto specifiche, dall’altra, nodi storici e teorici di ampia portata che esulano dagli stretti confini della danza teatrale e si estendono alla dimensione sociale ed economica, ma soprattutto al corpo e all’esperienza artistico-sensibile. Lo stato degli studi a riguardo tanto in Italia come all’estero mostra con quali mezzi e con quali risultati si è tentato fino a oggi di affrontare questo groviglio di problemi. 1. 3. Un mosaico in frammenti. Gli studi tra storiografia, specializzazione e territori di confine La coreologia in Italia sta conoscendo negli ultimi anni un crescente numero di studiosi e appassionati. Questa fortuna non è stata – né continua a essere – priva di quelle insidie e difficoltà che contraddistinguono il destino dell’arte di Tersicore. Alessandro Pontremoli – in un articolo volto a illustrare il quadro delle discipline e delle metodologie che hanno 1 Un’opera analoga è rintracciabile in Svezia : Programmes des grands ballets historiques, héroïques, nationaux, moraux et allégoriques de la composition de Mr. N. [1791], e Habits de costumes pour l’exécution des Ballets de Mr. Noverre dessinés par Mr. Boquet, premier dessinateur des menus plaisirs du Roi de France [1791], manoscritto in due volumi (conservato nella Biblioteca Reale di Stoccolma). Analogamente a quanto visto per il manoscritto precedente, si tratta di una presentazione della coreutica noverriana che viene inviata dal coreografo al re Gustavo III di Svezia all’inizio del 1791 senza tuttavia ottenere l’effetto sperato – ovvero l’assunzione del maestro di ballo a corte. 2 Danzatrice, coreografa, pedagoga e coreologa britannica di origine greco-ungherese, Friderica Derra de Moroda è stata cofondatrice della Cecchetti Society (1922). A partire dal 1925 ha scritto diversi articoli sulla danza del xviii secolo raccogliendo numerose fonti a riguardo (tra cui le diverse edizioni delle Lettres di Noverre). Per un approfondimento cfr. S. Dahms, The Derra de Moroda Dance Archives at the University of Salzburg, « Dance Research », i (1983), 2, pp. 69-79 ; Derra de Moroda Dance Archives / The Dance Library / A Catalogue, Compilation et Annotations de D. de Moroda, a cura di S. Dahms, L. Roth-Wölfle, Münich, R. Wölfle, 1982 ; S. Dahms, S. Schroedter, Der Tanz ein Leben / In memoriam Friderica Derra de Moroda, Salzbourg, Selke, 1997. 3 Walter Toscanini – figlio del direttore d’orchestra Arturo Toscanini – ha dedicato alla memoria della moglie, la celebre ballerina italiana Cia Fornaroli, questa preziosissima collezione che racchiude gran parte dei testi antichi e delle immagini iconografiche da lui raccolti sulla danza storica italiana dal Rinascimento fino all’inizio del xx secolo. Tra le fonti settecentesche più importanti lì conservate, si ricordano a titolo esemplificativo : la partitura coreografica, secondo la notazione Feuillet e con relativa traccia musicale, di un balletto intitolato L’Amazzone (1725 circa) ; infine una copia di alcuni scritti di Gasparo Angiolini, come la Dissertation sur les Ballets Pantomimes des Anciens : pubbliée pour Servir de Programme au Ballet Pantomime Tragique de Semiramis : Vienne le 31 janvier 1765 (Vienne, Jean Thomas de Trattnern, 1765) oppure le Lettere di Gasparo Angiolini a Monsieur Noverre sopra i Balli Pantomimi (Milano, Gio. Batista Bianchi, 1773). Cfr. P. Veroli, Walter Toscanini, Bibliophile and Collector, and the Cia Fornaroli Collection of the New Public Library, « Dance Chronicle », xxviii (2005), 3, pp. 323-362.
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contribuito alla definizione di questo campo di studi sulla nostra penisola – ha espresso efficacemente questa attrazione e al tempo stesso repulsione esercitati dalla danza ricorrendo a uno storico “magistero” :
Guglielmo Ebreo da Pesaro, insigne maestro di danza del xv secolo, così risponde alle obiezioni del suo discepolo, protagonista del dialogo socratico che conclude il ben noto trattato di danza De pratica seu arte tripudi : « [...] che da lei [la danza] ne discendano molti omicidij, peccati, et altri mali, questo non niegho [...], ma quando è exercitata da huomini gentili, virtuosi et honesti, dico essa scienza et arte essere buona et virtuosa et di commendatione et laude digna ». Se Guglielmo Ebreo, alle soglie dell’età moderna, aveva il problema di dimostrare che quella da lui esercitata professionalmente era una scienza e un’arte degna di poter essere messa sullo stesso piano degli altri percorsi speculativi e didattici dell’epoca, non deve stupire che la storiografia italiana della danza sia stata costretta a passare negli anni attraverso un difficile e lento percorso di legittimazione, anche se ancora fra pregiudizi e scarso interesse del mondo accademico e delle istituzioni. 1
Immersi in questo clima al tempo stesso incuriosito e circospetto, gli studi di danza settecentesca in Italia sembrano condizionati essenzialmente da due fattori : in primo luogo dalla già ricordata indisponibilità dell’oggetto d’indagine e quindi dalla necessità di trovare modalità e strategie con cui accostarsi a questa assenza ; in secondo luogo dall’effetto “fisarmonica” da cui gli studi coreologici appaiono generalmente caratterizzati, ovvero il fatto che la danza possa essere descritta e conseguentemente studiata secondo diversi gradi di estensione quanto di intensione. Partendo da un rapido sguardo sulla produzione circa una forma coreica settecentesca molto precisa, ovvero il ballet en action – che è anche il precipuo oggetto d’indagine del presente lavoro 2 – si possono immediatamente valutare alcuni degli effetti di questa combinazione di cause. Gli studi monografici sulla danza teatrale settecentesca sono stati finora piuttosto esigui e contraddistinti da tre direttrici fondamentali. Anzitutto si trovano due lavori dedicati alle figure principali della riforma coreica : Il balletto pantomimo nel Settecento : Gaspare Angiolini 3 di Lorenzo Tozzi e Pittura vivente. Jean Georges Noverre e il balletto d’action 4 di Elena Randi. Nel primo caso si tratta dell’unica monografia tutt’ora in circolazione sul coreografo italiano a livello internazionale. Il fatto che risalga ormai a quasi quaranta anni fa dimostra non solo il lavoro pionieristico del musicologo e storico della danza italiano, ma anche la difficoltà da parte degli studiosi di offrire un nuovo contributo capace di integrare la ricerca di Tozzi sia da un punto di vista più strettamente documentaristico che interpretativo. 5 Per quanto
1 A. Pontremoli, “Il bel danzare che con virtù s’acquista...”. Note sugli studi della danza in Italia, « Il Castello di Elsinore », xx (2007), 56, pp. 129-153, qui p. 129. Per lo stato degli studi coreologici in Italia cfr. inoltre : E. Casini Ropa, Note sulla nuova storiografia della danza, « Culture Teatrali », autunno 2002-primavera 2003, 7/8, pp. 97-105 ; B. Sparti, P. Veroli, Dance Research in Italy, « Dance Research Journal », xxvii (1995), 2, pp. 73-77. Per un aggiornamento costante sullo stato della ricerca coreologica in Italia, si raccomanda la consultazione del sito dell’Associazione 2 Cfr. infra, § 2.4. Italiana per la Ricerca sulla Danza: www.airdanza.it. 3 Cfr. L. Tozzi, Il balletto pantomimo nel Settecento : Gaspare Angiolini, L’Aquila, Japadre, 1972. 4 Cfr. E. Randi, Pittura vivente. Jean Georges Noverre e il balletto d’action, Venezia, Corbo e Fiore, 1989. 5 A tal riguardo, si ricorda non soltanto il saggio di Alberto Testa di tre anni più tardi (Il binomio Gluck-Angiolini e la realizzazione del balletto Don Juan, « Chigiana », xxix-xxx, 1975, 9/10, pp. 535-547), bensì il lavoro di due studiose italiane di teatro che si sono occupate recentemente di censire parte degli spettacoli coreici di Gasparo Angiolini e di analizzare aspetti della sua produzione librettistica e, più in generale, testuale : Stefania Onesti (cfr. La “danza parlante” poetica del ballo pantomimo attraverso i libretti di Gasparo Angiolini, tesi di laurea magistrale, DAMS Bologna, novembre 2008, relatrice Prof. essa E. Casini Ropa, correlatore Prof. M. De Marinis ; “L’arte di parlare danzando”. Gasparo Angiolini e la Dissertazione sui balli pantomimi degli antichi, « Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni », i, 2009, pp. 1-34) e Caterina Pagnini (cfr. Il balletto “riformato”: Gasparo Angiolini e la codificazione dellla danza teatrale moderna, in Danza e teatro. Storie, poetiche, pratiche e prospettive di ricerca, Atti del convegno [Bologna, 25-26 settempre 2009], Acireale-Roma, Bonanno, 2011, pp. 43-50). Si ricordano inoltre due importanti progetti di ricerca diretti da Sybille Dahms e condotti da Monica Bandella e Irene Brandenburg dell’Università di Salisburgo : Tanztheoretische Schriften von Gasparo Angiolini (1 luglio 2007-15 dicembre 2009) e Angiolinis Spätwerk in
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riguarda il lavoro della Randi, invece, ci si trova di fronte a un testo che ha anzitutto il pregio di ricostruire sapientemente il contesto all’interno del quale si colloca la riflessione del coreografo, di articolare ed esporre gli aspetti salienti della sua produzione teorica e poi di offrire uno schema finale con le principali rappresentazioni dei suoi balletti incrociando materiale attinto a studi precedenti e informazioni di prima mano. 1 In secondo luogo l’organicità e chiarezza di questo lavoro sono altresì da apprezzare se si tiene conto che per lungo tempo non è esistita una traduzione italiana integrale di una delle qualsiasi edizioni della principale opera teorica di Noverre, ovvero le sue Lettres. 2 Fino alla recentissima pubblicazione curata da Flavia Pappacena circa il volume noverriano del 1803, il testo della Randi ha permesso dunque al lettore di avvicinare un materiale non soltanto non disponibile in lingua italiana, ma di cui si aspettava a livello internazionale una nuova edizione. 3 Accanto a questo tipo di monografia, nel 2009 ha visto poi la luce il primo testo italiano di introduzione alla danza settecentesca ovvero La danza classica. Le origini di Flavia Pappacena. 4 Muovendo dalla danza accademica alla corte del Re Sole, passando attraverso le riforme di Sallé, Hilverding, Angiolini e soprattutto Noverre a metà Settecento, fino ad arrivare al nuovo stile inaugurato dalla caduta dell’Ancien régime, la studiosa disegna un quadro sintetico dell’evoluzione dell’arte coreica. Intrecciando la storia della danza ai mutamenti sociopolitici e al gusto del periodo, ma soprattutto alle particolari poetiche delle arti visive e teatrali che si succedono nel xviii secolo, la Pappacena riesce a ovviare a una grave lacuna scientifica italiana. Mentre infatti le ricerche sul palcoscenico coreico del xix secolo sono state avviate già da un paio di decenni, permettendo così la pubblicazione di diversi studi di un certo spessore, 5 i prodromi del balletto classico ottocentesco sono rimasti der Wissenskultur der Aufklärung (28 dicembre 2009-27 dicembre 2010). Si tratta in realtà di un unico lavoro di équipe che alla fine di quasi quattro anni di attività ha come scopo la realizzazione dell’edizione critica degli scritti teorici (in parte inediti) del coreografo e un catalogo delle principali rappresentazioni dei suoi balletti. 1 Per uno sguardo sulla cospicua e variegata produzione scientifica internazionale riguardante Noverre si rimanda ai §§ successivi. Ci si limita per il momento a segnalare due recenti convegni dedicati alla figura del coreografo : Celebrating Jean-Georges Noverre 1727-1810 : His World and Beyond, xii Annual Dance Symposium, 16-17 aprile 2010, New College, Oxford (uk) e Jean-Georges Noverre (1727-1810) un artiste européen au siècle des Lumières, 21-23 ottobre 2010, Université Paris iv Sorbonne, Paris. Il programma delle giornate e gli abstract degli interventi sono consultabili ai seguenti link : www.new.ox.ac.uk/node/543 e www.revuemusicorum.com (pagine consultate il 30 dicembre 2011). 2 Se non si tiene conto delle diverse traduzioni e ristampe che, ancora in vita Noverre, vengono fatte delle Lettres, si contano tre loro edizioni principali (frutto di successive integrazioni da parte del coreografo) : J. G. Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, Stuttgart-Lyon, Aimé Delaroche, 1760 ; Idem, Lettres sur la Danse, sur les Ballets et les Arts, St. Petersbourg, Jean Charles Schnoor, 1803-1804, 2 voll. ; Idem, Les Lettres sur les Arts imitateurs en général et sur la Danse en particulier, Paris, Léopold Collin, 1807, 2 voll. L’unica versione in lingua italiana reperibile in commercio fino al 2011 è stata quella delle Lettres del 1760 curata da Alberto Testa : Idem, Lettere sulla danza, Roma, Di Giacomo, 1980. La traduzione presenta tuttavia diverse lacune ed errori (che nel presente lavoro verrano opportunamente segnalati ogni qualvolta il riferimento alla edizione delle Lettere lo richieda). Per avere, invece, maggiori informazioni circa la prima traduzione italiana di questa edizione delle Lettres per opera di Domenico Rossi nel 1794 (il cui manoscritto è conservato nella Dance Collection della New York Public Library-Fondo Walter Toscanini) si rimanda a E. Ruffin, La prima traduzione italiana delle Lettres di Noverre : Venezia, 1794, in Viaggio lungo cinque secoli, a cura di J. Sasportes, P. Veroli, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 35-58. Si rimanda infine alla nota successiva per la recente traduzione a cura di F. Pappacena. 3 Si tratta del volume: J. G. Noverre, Lettere sulla danza, sui balletti e sulle arti (1803), a cura di F. Pappacena, tr. it. di A. Alberti, Lucca, lim, 2011. La pubblicazione è circoscritta al primo volume dell’opera noverriana del 1803-04, volume che raccoglie le epistole del 1760 (corrette dal coreografo nel 1783) a cui si aggiungono venti nuove lettere. Per maggiori dettagli in merito, si rimanda al saggio introduttivo a cura della Pappacena. Si segnala infine che è prevista l’uscita del medesimo volume di Noverre in lingua originale (ovvero francese) sempre a cura della studiosa italiana. 4 Cfr. Pappacena, La danza classica. Si ricorda quale completamento illustrativo dei temi trattati la già menzionata pubblicazione, sempre a opera della Pappacena, su Il linguaggio della danza. Guida all’interpretazione delle fonti iconografiche della danza classica. 5 Ci si limita in questa sede a ricordare soltanto alcuni dei principali e più recenti lavori monografici al riguardo e delle maggiori edizioni critiche di testi coreici ottocenteschi : C. Blasis, Traité elémentaire, théorique et pratique de l’Art de la danse, Milano, Joseph Beati - Antoine Tenenti, 1820, tr. it. di A. Alberti, Trattato dell’arte della danza, ed.
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a lungo un terreno non battuto. Sebbene si tratti di un testo a carattere privilegiatamente introduttivo, il lavoro della Pappacena ha dunque il pregio di attestare un simile campo di studi all’interno della ricerca e dell’editoria italiana 1 e di fornire una prima bibliografia per successivi approfondimenti. Tra i volumi attualmente in circolazione, si segnalano infine due antologie. 2 La prima di queste è a cura di Carmela Lombardi e s’intitola : Il ballo pantomimo. Lettere, saggi e libelli sulla danza (1773-1785). 3 Come si evince dal titolo, si tratta della raccolta di una serie diversificata di documenti finalizzata a presentare il dibattito sulla danza che si accende nella seconda metà del Settecento. Corredato da un breve saggio introduttivo che illustra le tappe e i nodi teorici salienti di questa discussione, questo lavoro muove dagli interessi e dalla formazione semiotica della curatrice e si offre, anzitutto, come un contributo alla riscoperta di tipologie testuali poco note e, in particolar modo, del tipo di cultura che da esse emerge. 4 La seconda antologia, invece, è a cura nuovamente di Flavia Pappacena e s’intitola : Programmi dei balletti. Selezione di libretti 1751-1776. 5 Essa offre la prima traduzione italiana di una selezione di programmi di ballo composti da Jean Georges Noverre e raccolti nelle edizioni ottocen
critica a cura di F. Pappacena, Roma, Gremese, 2008 ; Idem, L’uomo fisico, intellettuale e morale, Milano, Tip. Gernia, 1868, ed. cura di O. Di Tondo, F. Pappacena, Lucca, lim, 2007 ; E. Cervellati, Théophile Gautier e la danza. ix secolo, Bologna, Clueb, 2007 ; Excelsior, a cura di F. Pappacena, Roma, Di Giacomo, 1998 ; F. Pappacena, Il rinnovamento della danza tra Settecento e Ottocento : il trattato di danza di Carlo Blasis, Lucca, lim, 2009 ; E. Randi, Anatomia del gesto. Corporeità e spettacolo nelle poetiche del Romanticismo francese, Padova, Esedra, 2001. 1 Fino alla pubblicazione di questo testo, gli unici studi in lingua italiana capaci di fornire un quadro generale e al tempo stesso documentato a riguardo della danza teatrale settecentesca erano quelli raccolti all’interno di lavori di carattere enciclopedico. Tra questi si ricorda il lavoro di Kathleen Kuzmick Hansell, Il ballo teatrale e l’opera italiana, in Storia dell’opera italiana, a cura di L. Bianconi, G. Pestelli, vol. v : La spettacolarità, Torino, Edt, 1987, pp. 175-306. E infine i diversi contributi raccolti all’interno di Musica in scena : storia dello spettacolo musicale, a cura di A. Basso, Torino, utet, vol. v : L’arte della danza e del balletto, 1995. Nella seconda parte (Il balletto in Italia) si segnalano in particolare questi approfondimenti : L. Tozzi, Il balletto nel Settecento : questioni generali (pp. 39-62) ; Idem, L’evoluzione del ballo teatrale nel secolo xviii (pp. 63-88). Nella terza (Il balletto in Francia) : I. Guest, Il Settecento (pp. 165-192) . Nella quarta (Il balletto in Russia) : C. Lo Iacono, Dalle origini alla Rivoluzione (pp. 297-364, in particolare le pp. 297-315). Nella quinta (Il balletto nei Paesi di lingua inglese) : I. Freda Pitt, I secoli xviii e xix in Inghilterra (pp. 393412, in particolare le pp. 393-398). Nella sesta (Il balletto nei Paesi dell’Europa Centrale) : G. Oberzaucher-Schüller, L’Austria (pp. 549-564, in particolare le pp. 549-552) ; R. Liechtenhan, La Germania e la Svizzera (pp. 565-602, in particolare le pp. 565-569). Nella settima (Il balletto nei Paesi scandinavi, iberici e latino-americani) : F. Falcone, Il ruolo della Danimarca (pp. 625-642, in particolare le pp. 625-627) ; X. M. Carreira, Il balletto nella Penisola Iberica e nei Paesi latino-americani (pp. 661-694, in particolare le pp. 661-672). Cfr. infine, infra, p. 36 nota 4. 2 Tra le antologie disponibili si segnala anche quella a cura di Alfredo Ferrero : Tersicore rivoluzionaria. La riforma della danza teatrale nell’Europa dell’età dei Lumi, Torino, Libreria Stampatori, 2001. Sebbene si tratti di un testo pensato per il liceo coreutico, esso merita di essere menzionato vista l’esiguità di studi sulla danza teatrale settecentesca e la difficoltà connessa a questo particolare campo di ricerca. 3 Cfr. Il ballo pantomimo. Lettere, saggi e libelli sulla danza (1773-1785), a cura di C. Lombardi, Torino, Paravia, 1998. Sempre a cura della Lombardi si ricorda il già citato : Trattati di danza in Italia nel Settecento. Questa antologia raccoglie i trattati di due grandi maestri di ballo settecenteschi, Giambattista Dufort e Gennaro Magri, nonché un opuscolo polemico di Francesco Sgai contro quest’ultimo. Ad eccezione di alcune parti del trattato di Magri – che testimoniano la tradizione grottesca che sopravvive all’interno della danza teatrale anche dopo la riforma coreica di metà Settecento – i testi raccolti in questa antologia vertono maggiormente sul ballo nobile. 4 A tal riguardo bisogna ricordare che la Lombardi è autrice anche di Danza e buone maniere nella società dell’antico regime. Trattati e altri testi italiani tra 1580 e 1780, Roma, Editrice Europea, 1990 (nuova ed. aggiornata Arezzo, Mediateca del Barocco, 2000). Si tratta di un lavoro che precede le antologie sopra menzionate e che – come precisa la stessa autrice nell’introduzione – rappresenta la fase preliminare di una ricerca volta a mettere in luce alcuni scenari di danza nella modernità a partire innanzitutto dai trattati dei maestri di ballo dell’epoca. Questo suo lavoro non rientra tra gli studi di maggiore interesse per il campo di ricerca in oggetto sia per la preferenza accordata dalla studiosa alla danza di società piuttosto che a quella teatrale sia per la maggiore cura riservata a Cinquecento e Seicento rispetto che al Settecento. 5 Cfr. J. G. Noverre, Programmi dei balletti. Selezione di libretti 1751-1776, a cura di F. Pappacena, tr. it. di A. Alberti, Roma, Dino Audino, 2009.
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tesche delle Lettres del coreografo. Come sottolinea la studiosa nella breve introduzione, il lavoro ha come scopo primario quello di avvicinare il lettore alla coreutica noverriana a partire dagli scenari dei suoi balletti, in modo da poterne trarre informazioni circa i soggetti e alcune modalità compositive peculiari del maestro di ballo. Da questo rapido excursus, emerge anzitutto il carattere prevalentemente storiografico degli studi in questione. In tutti e tre i casi menzionati si tratta di lavori che seguono un’impostazione e una finalità storica non soltanto, forse, per la formazione degli autori, ma anche per un’esigenza metodologica. Le tre diverse strategie utilizzate da questi studiosi per tentare di avvicinare un campo magmatico come quello coreico sembrano provarlo. L’articolazione del discorso intorno alla biografia artistica di un coreografo piuttosto che a proposito dei principali mutamenti avvenuti all’interno di una disciplina artistica nel corso di un secolo rappresentano, ad esempio, una valida modalità per accostarsi a un fenomeno ampio e complesso come quello della danza settecentesca. Analogamente, le due antologie finali sembrano essere motivate dal carattere incipiente di questo genere di studi. Prima di ogni discorso profuso o ipotesi interpretativa sulla danza teatrale settecentesca, è necessario infatti non soltanto un inquadramento storico generale, ma anche una ricognizione e sistemazione delle diverse fonti testuali a disposizione. Accanto a questa esigenza di, per così dire, “ordinamento storiografico”, un esame della produzione saggistica sul ballo pantomimo rileva poi una forte tendenza specialistica, intesa in senso tanto oggettuale quanto metodologico. Una simile varietà di temi e sguardi risulta difficile da censire e presentare in modo esauriente ; 2 tuttavia, è possibile fornire un quadro generale delle principali tipologie di ricerche in circolazione a partire dalla specifica formazione dell’autore. Essa funziona infatti da filtro attraverso il quale dalla polivocità e ampiezza del campo coreico ogni studioso trae un particolare tema o aspetto d’indagine e adotta precise metodologie investigative. Anzitutto sono da menzionare i lavori di impostazione teatrologica. Questa priorità è dettata dal fatto che la coreologia in Italia è stata fortemente sostenuta e portata avanti proprio da studiosi afferenti a tale settore disciplinare. Tanto nelle sue espressioni storiche quanto contemporanee, la danza è divenuta oggetto di studio e didattica grazie a ricercatori che, a partire dalla loro formazione teatrologica, si sono voluti dedicare a una specifica arte della scena come quella coreica. Questa attenzione alla dimensione spettacolare è dunque un carattere precipuo dei loro studi, anche in campo settecentesco : il lavoro di Alessandro Pontremoli su La danza teatrale a Milano nel Settecento 3 lo esemplifica. In questo saggio l’autore cerca di restituire un’immagine della scena coreica nella città meneghina sia ricollocandola all’interno della celebre tradizione teatrale del luogo sia intrecciandola con la più ampia riforma dell’opera in musica che attraversa l’Europa nel xviii secolo. Attraverso un lavoro di archivio, l’indagine cerca dunque di ricostruire il profilo artistico-teatrale del fenomeno coreico. Accanto a questo tipo di taglio, se ne registra un altro di matrice più storico-letteraria. Basti pensare al lavoro pionieristico di José Sasportes – scrittore, storico e critico di danza – a cui si deve la fondazione nel 1984 della prima rivista di studi coreologici del paese : La danza italiana. 4 Come si evince già dal titolo di questo periodico, le ricerche dello studioso sono 1
1 Cfr. Noverre, Lettres sur la Danse, sur les Ballets et les Arts ; Idem, Les Lettres sur les Arts imitateurs en général et sur la Danse en particulier. 2 In questo paragrafo ci si limita a citare alcuni studi esemplari mettendone soprattutto in luce il taglio metodologico. Nel corso del lavoro si avrà poi modo di riprendere e riapprofondire alcuni saggi a seconda delle diverse questioni teoriche affrontate. 3 Cfr. A. Pontremoli, La danza teatrale a Milano nel Settecento, in L’amabil rito : società e cultura nella Milano di Parini, a cura di G. Barbarisi, C. Capra, F. Degrada, F. Mazzocca, « Quaderni di Acme », vol. xlv, Bologna, Cisalpino, 2000, pp. 835-858. 4 Tra i quaderni legati alla rivista si segnala in particolare il recentissimo volume : La danza italiana in Europa nel Settecento, a cura di J. Sasportes, Roma, Bulzoni, 2011.
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state rivolte, anzitutto, a ricostruire e valorizzare il patrimonio coreico sommerso della penisola mediterranea. Tuttavia i suoi articoli principali – da La parola contro il corpo del 1984 1 a Introduzione alla danza a Venezia nel Settecento, 2 fino ad arrivare a Durazzo e la danza 3 del 1996 – sono caratterizzati da un’attenzione a un aspetto particolare di questa eredità coreica ovvero alle intersezioni, fatte di scambi ma anche di incomprensioni, tra la storia della letteratura e quella della danza. A testimonianza di questa relazione privilegiata tra le due discipline, si possono inoltre citare alcuni saggi di altri studiosi che, a partire da autori o temi di matrice storico-letteraria, si sono ritrovati a incrociare sul loro cammino la danza aprendo così ulteriori orizzonti di ricerca : dal saggio di Rosy Candiani sulla posizione assunta da Parini all’interno della querelle milanese sul ballo pantomimo, 4 passando per i lavori di Bellina e Biagi Ravenni sul ruolo svolto da Calzabigi all’interno della riforma coreica settecentesca, 5 fino ad arrivare alla pubblicazione di testi inediti di Pietro Verri sulla danza da parte di Sara Rosini. 6 Di carattere più squisitamente tecnico sono i contributi saggistici che provengono dagli studiosi dell’Accademia nazionale di danza di Roma. Un esempio su tutti è quello di Flavia Pappacena che, a fianco delle monografie prima citate, ha pubblicato diversi saggi sull’evoluzione di passi di danza quali la pirouette piuttosto che sulla trasformazione del sistema di notazione coreica nei secoli della modernità sulla rivista da lei fondata nel 1993 : Chorégraphie. Studi e ricerche sulla danza (dal 2000 intitolata semplicemente Chorégraphie 7). Accanto a questi lavori si ricordano poi quelli di Francesca Falcone, apparsi su riviste internazionali a dimostrazione della loro rilevanza sia dal punto di vista dell’oggetto sia della metodologia d’indagine, 8 così come quelli di Gloria Giordano, caratterizzati da una particolare attenzione alle partiture gestuali e affiancati da un lavoro di sperimentazione e ricostruzione pratica dei risultati, soprattutto in riferimento al ballo nobile. 9
1 Cfr. J. Sasportes, La parola contro il corpo ovvero il melodramma nemico del ballo, « La danza italiana », i (1984), pp. 21-41. 2 Cfr. Idem, Introduzione alla danza a Venezia nel Settecento, « La danza italiana », v/vi (1987), pp. 5-16. 3 Cfr. Idem, Durazzo e la danza, in Creature di Prometeo : il ballo teatrale dal divertimento al dramma, a cura di G. Morelli, Firenze, Olschki, 1996, pp. 177-191. 4 Cfr. R. Candiani, L’intervento di Giuseppe Parini nella polemica tra Angiolini e Noverre, in Ricerche di lingua e letteratura italiana (1988), « Quaderni di Acme », vol. x, Milano, Cisalpino-Goliardica, 1989, pp. 92-112. 5 Cfr. A.L. Bellina, I gesti parlanti ovvero il recitar danzando. “Le Festin de pierre” e “Semiramis”, in La figura e l’opera di Ranieri de’ Calzabigi, Atti del convegno di studi (Livorno, 14-15 dicembre 1987), a cura di F. Marri, Firenze, Olschki, 1989, pp. 107-117 ; G. Biagi Ravenni, Calzabigi e dintorni : Boccherini, Angiolini, la Toscana e Vienna, in La figura e l’opera di Ranieri de’ Calzabigi, cit., pp. 29-71. 6 Cfr. S. Rosini, Pietro Verri e il balletto (con la Lettre à Monsieur Noverre e altri testi inediti), « Studi settecenteschi », xx (2000), pp. 257-314. A proposito dell’interesse sviluppato da Verri per il balletto si rimanda inoltre al saggio di R. Carpani, Gli spettatori competenti. Lettere sul teatro in Italia e in Europa fra Pietro e Alessandro Verri, in La cultura della rappresentazione nella Milano del Settecento, cit., pp. 543-592, in particolare le pp. 572-577. 7 Cfr. F. Pappacena, Tecnica della danza classica : dizionario terminologico, Pirouette. Dalla Pirouette dell’Académie Royale de Danse alla pirouette « moderna », « Chorégraphie. Studi e ricerche sulla danza », iii (1995), 6, pp. 5-28 ; Eadem, La « Terpsi-choro-graphie » di Jean-Étienne Despréaux (1813) : la trasformazione della notazione coreutica tra il xviii e il xix secolo, « Chorégraphie. Studi e ricerche sulla danza », iv (1996), 7, pp. 23-50 ; Eadem, Tecnica della danza classica : dizionario terminologico, Pirouette, seconda parte, « Chorégraphie. Studi e ricerche sulla danza », v (1997), 9, pp. 5-8 ; Eadem, La « Sténochorégraphie » nel panorama delle sperimentazioni del xviii e xix secolo, in A. Saint-Léon, La Sténochorégraphie ou Art d’écrir promptement la danse (chez Auteur et chez Brandus, Paris, 1852), n. mon. « Chorégraphie. Studi e ricerche sulla danza », a cura di F. Pappacena, Lucca, lim, 2006, pp. 3-13. 8 Cfr. F. Falcone, The Arabesque : a Compositional Design, « Dance Chronicle », xix (1996), 3, pp. 231-253 ; Eadem, The Evolution of Arabesque in Dance, « Dance Chronicle », xxii (1999), 1, pp. 71-117. 9 Cfr. G. Giordano, Two 18th-Century Italian Choreographies discovered in the Cia Fornaroli Collection at The New York Public Library, in Vom Schäferidyll zur Revolution. Europäische Tanzkultur im 18. Jahrhundert, 2. Rothenfelser Tanzsymposion 21.-25. Mai 2008, a cura di U. Schlottermüller, H. Weiner, M. Richter, Freiburg, fa-gisis, 2008, pp. 83-92 ; Eadem, Le fonti coreografiche del primo Settecento italiano. « Segni » di un’arte meccanica o codice per interpretare le passioni ?, in Le passioni in scena. Corpi eloquenti e segni dell’anima nel teatro del xvii e xviii secolo, a cura di S. Carandini, Roma, Bulzoni, 2009, pp. 253-282. Tra i saggi della studiosa dedicati più specificatamente al ballo nobile si ricorda
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Infine si ricordano gli studi di matrice musicologica, particolarmente attratti dal campo coreico in quanto terreno di eccezionale sperimentazione e innovazione nel Settecento. Tra questi si distinguiono due linee di tendenza. La prima è quella che mira a ricostruire la produzione musicale coreica all’interno di una particolare cornice rappresentativa : è il caso, ad esempio, degli importanti lavori condotti da Rosa Cafiero a partire dal Teatro San Carlo di Napoli 1 e da Teresa Maria Gialdroni sulla festa teatrale nella medesima città campana, 2 ma anche delle ricerche condotte da Angela Romagnoli fuori dai confini nazionali ovvero sulle abbondanti fonti reperibili in proposito a Vienna. 3 La seconda, invece, si focalizza su un tema o un’opera specifica. A titolo esemplificativo, basti menzionare per il primo caso l’importante studio di Andrea Chegai sul ballo analogo all’interno dell’opera in musica italiana 4 oppure quello di Elena Maria Previdi sulle fonti musicali dell’intermezzo coreico. 5 Quanto invece al secondo caso, si ricordi il saggio di Elena Biggi Parodi dedicato al ballo primo dell’Europa riconosciuta di Salieri in cui all’analisi della partitura musicale si affianca il confronto col programma. 6 Come si può constatare da questa rapida carrellata, la produzione saggistica è così ampia e variegata sia dal punto di vista del taglio sia da quello del soggetto da rendere la ricerca bibliografica piuttosto complessa. Le riviste su cui si possono trovare saggi utili spaziano in campi tra loro anche molto diversificati. Un analogo discorso vale per i volumi collettanei, di solito raccolte di atti di convegno. A questo proposito è bene infatti ricordare che al momento in Italia hanno avuto luogo due soli congressi tematici sull’area di ricerca interessata. Anzitutto quello tenutosi a Bologna nel 2000, da cui è stato tratto il volume a cura di Fabio Mollica : Aspetti della cultura di danza nell’Europa del Settecento. 7 Questa raccolta di saggi offre un’immagine sinottica molto efficace dell’ampia possibilità investigativa messa in gioco dalla danza settecentesca anche per coloro che si occupano specificatamente di questa disciplina. I diversi contributi spaziano, infatti, dalla trattatistica orchestica alla ricostruzione della geografia del ballo sia sociale che teatrale in Italia, dagli influssi stranieri sulla produzione coreutica della penisola sino alla presenza della nostra tradizione all’estero. Infine si ricorda
no : Eadem, Balli veneziani in notazione coreografica, « La danza italiana », vii (1989), pp. 31-49 ; Eadem, A Venetian Festa in Feuillet Notation, « Dance Research », xv (1997), 2, pp. 126-141 ; Eadem, Gaetano Grossatesta, an Eighteenth-Century Italian Choreographer and Impresario. Part One : The Dancer-Choreographer in Northern Italy, « Dance Chronicle », xxiii (2000), 1, pp. 1-28 ; Eadem, Gaetano Grossatesta, an Eighteenth-Century Italian Choreographer and Impresario. Part Two : The Choreographer-Impresario in Naples. A Chronology of the Ballets of Gaetano Grossatesta, « Dance Chronicle », xxiii (2000), 2, pp. 133-191. Cfr. infine G. Grossatesta, Balletti. In occasione delle felicissime Nozze di Sua Eccellenza La Signora Loredana Duodo con Sua Eccellenza il Signor Antonio Grimani, Composti da Gaetano Grossatesta Maestro di Ballo in Venezia e dallo stesso Presentati all’Eccellentissimo Sposo, a cura di G. Giordano, Lucca, lim, 2005. 1 Cfr. R. Cafiero, Aspetti della musica coreutica fra Settecento e Ottocento, in Il Teatro di San Carlo 1737-1987, a cura di B. Cagli, A. Ziino, vol. ii : L’opera, il ballo, Napoli, Electa, 1987, pp. 309-331 ; Eadem, Ballo teatrale e musica coreutica, in Storia della musica e dello spettacolo a Napoli, a cura di F. Cotticelli, P. Maione, Napoli, Turchini, 2009, pp. 707-732. 2 Cfr. T. M. Gialdroni, La “Festa teatrale” nella tradizione musicale napoletana, 1734-1797, in Storia e civiltà in Campania. Il Settecento, a cura di G. Pugliese Carratelli, Napoli, Electa, 1994, pp. 419-468. 3 A tal proposito si ricorda l’intervento tenuto dalla studiosa sui Balli da festa a Vienna nel Settecento in occasione del convegno La festa teatrale nel Settecento : dalla corte di Vienna alle corti d’Italia (Reggia di Venaria, 13-14 novembre 2009). Gli atti del convegno sono in corso di pubblicazione. 4 Cfr. A. Chegai, Sul « ballo analogo » settecentesco : una drammaturgia di confine fra opera e azione coreutica, in Creature di Prometeo, cit., pp. 139-175. Cfr. inoltre Idem, Il ballo per l’opera : analogie, contrasti, interscambi, in Idem, L’esilio di Metastasio. Forme e riforme dello spettacolo d’opera tra Settecento e Ottocento, Firenze, Le Lettere, 1998, pp. 162-237. 5 Cfr. E. M. Previdi, Fonti musicali del “ballo intermezzo” settecentesco, in Ballo teatrale, Opera romantica, Recupero dell’antico : tre contributi per la storia della musica in Italia, a cura di M. G. Sità, Lucca, lim, 2004, pp. 11-94. 6 Cfr. E. Biggi Parodi, Preliminary Observations on the Ballo primo of Europa riconosciuta by Antonio Salieri : Milan, La Scala Theatre, 1778, « Recercare », xvi (2004), pp. 263-302. 7 Cfr. Aspetti della cultura di danza nell’Europa del Settecento, Atti del convegno “Bologna e la cultura europea di danza nel Settecento” (Bologna, 2-4 giugno 2000), a cura di F. Mollica, Milano, Associazione Culturale Società di Danza, 2001.
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un recentissimo seminario di studi tenutosi a Cremona (16-17 novembre 2011), prima tappa di un progetto italo-tedesco sul tema: La danza teatrale europea come fenomeno transculturale nel Settecento. Istituzioni - Musica - Coreografia. Coordinata dall’Università di Pavia-Cremona e dalla Ruprecht-Karls-Universität di Heidelberg, e finanziata dall’Ateneo Italo-Tedesco, questa iniziativa porterà alla pubblicazione di un’opera intesa non tanto come un insieme di articoli autonomi bensì come una rete organica di lavori volti a realizzare un reale scambio e sinergia tra campi e metodologie di ricerca tra loro anche molto diverse al fine di illuminare l’ibridismo che caratterizza la disciplina coreologica. Non appena si sposti poi il fuoco dell’attenzione dal ballo pantomimo piuttosto che da quello sociale stricto sensu, i confini della ricerca si allargano ulteriormente generando un effetto di spaesamento. Saggi come quelli di Paola Martinuzzi sulla danza pantomimica nel Teatro della Foire di inizio Settecento, 1 ad esempio, rendono conto di un’insieme di fonti, in gran parte ancora inedite, che illuminano eventi in apparenza marginali eppure portatori di istanze fortemente innovatrici all’interno del teatro quanto della scena coreica ufficiali. Così come i lavori di Giovanna Zanlonghi sulla scena gesuitica a Milano 2 o di Davide Daolmi sui balli dati al Collegio Longone della medesima città 3 mettono in luce il ruolo centrale che l’arte coreica riveste nella sperimentazione e pratica pedagogica, ma anche più strettamente spettacolare, all’interno dei maggiori circuiti di formazione del xviii secolo. Come ha messo in luce Roberto Tessari, 4 inoltre, la pantomima – e conseguentemente la danza che ad essa è intrecciata strettamente nel Settecento – è sottoposta a indagini e sezioni minuziose all’interno della più ampia riflessione illuministica sulla figura dell’attore e sulla recitazione. Conseguentemente essa non può essere slegata dai lavori di Riccoboni, Diderot, Lessing, Engel e più generalmente dai dibattiti sulla rappresentazione gestuale che coinvolgono i principali attori ma anche filosofi del secolo. 5 Studi storico-filologici simili a quelli condotti da Ines Maria Aliverti 6 oppure lavori antologici e insieme critici sulla figura dell’attore nel Settecento 7 si rivelano così strumenti preziosi per inquadrare la nuova professione del ballerino e le questioni teoriche ad essa sottese. Monografie, infine, come quella di di Elena Agazzi su Il corpo conteso. Rito e gestualità nella Germania del Settecento 8 rendono conto di vere e proprie correnti di rinnovamento e riflessione sull’espressività di cui la danza – come lo stesso teatro – è solo un tassello, ma un tassello indissolubilmente legato ad altre variegate e, molto spesso inaspettate, forme artistiche : dai florilegi agli epigrammi, dai saggi critici alle arti visive. Studi apparentemente lontani dal campo coreico, come quelli sul romanzo settecentesco piuttosto che sulla scienza medica e l’antropologia, si ritrovano così fitti di riferimenti alla danza o di informazioni utili per illuminarla.
1 Cfr. P. Martinuzzi, La danza pantomimica foraine. Danseurs et sauteurs de corde, « Ariel », xx (2005), 2, pp. 4356 ; Eadem, Ironie della Lanterna Magica (La Foire de Bezons, balletto-pantomima inedito), « Ariel », xxiii (2008), 2, pp. 59-81 ; Eadem, Un matrimonio difficile : L’Art et la Nature, balletto-pantomima inedito, « Ariel », xxiv (2009), 1, pp. 25-51. Cfr. inoltre Eadem, Le pièces par écriteaux nel teatro della Foire (1710-1715). Modi di una teatralità, Venezia, Università Ca’ Foscari Venezia, 2007. 2 Cfr. G. Zanlonghi, Teatri di formazione. Actio, parola e immagine nella scena gesuitica del Sei-Settecento a Milano, Milano, Vita e Pensiero, 2002. 3 Cfr. D. Daolmi, I balli negli allestimenti settecenteschi del Collegio Imperiale Longone di Milano, in Creature di Prometeo, cit., pp. 3-86. 4 Cfr. Tessari, Il corpo silente del pantomimo, cit., in particolare p. 113. 5 Per una prima panoramica degli autori coinvolti e delle questioni sottese, cfr. R. Tessari, Teatro e spettacolo nel Settecento, Bari, Laterza, 1995. 6 Cfr. M. I. Aliverti, Il ritratto d’attore nel Settecento francese e inglese, Pisa, ets, 1986 ; Eadem, Poesia fuggitiva sugli attori nell’età di Voltaire, Roma, Bulzoni, 1992 ; Eadem, La naissance de l’acteur moderne, Paris, Gallimard, 1998. 7 Cfr. in particolare Il danzatore attore : da Noverre a Pina Bausch, a cura di C. Lo Iacono, Roma, Audino, 2007 e Paradossi settecenteschi. La figura dell’attore nel secolo dei lumi, a cura di M. Accornero, C. Angioletti, M. Bertolini, C. Guaita, E. Oggionni, Milano, Led, 2010. 8 Cfr. E. Agazzi, Il corpo conteso. Rito e gestualità nella Germania del Settecento, Milano, Jaca Book, 1999.
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L’excursus condotto è ben lontano dall’esaurire gli studi prodotti sulla danza settecentesca e, tanto meno, sull’espressione più ampiamente pantomimo-corporea in Italia. Ciò che è interessante notare è come, a partire da esso, si possa comunque riuscire a tratteggiare un quadro complessivo della ricerca e, in particolar modo, a delinearne i possibili percorsi ed esiti scientifici, ma anche le contraddizioni. Se la varietà dei contributi saggistici dimostra, infatti, la possibile e, al tempo stesso, inevitabile ampiezza di orizzonti a cui uno studio di danza conduce, dall’altra la forte connotazione settoriale delle medesime ricerche sembra in qualche modo tradire la complessità e ricchezza del fenomeno coreico stesso. Da una parte emerge la necessità da parte di ogni studio di conoscere e confrontarsi con le altre declinazioni di Tersicore piuttosto che con la storia e la teoria del corpo, del movimento e più in generale dell’arte del Settecento. Dall’altra la crescente specializzazione e tecnicità di questi stessi studi rischia di rendere ogni lavoro così concentrato su un determinato o aspetto o forma del fenomeno coreico da perdere proprio la dimensione olistica dell’oggetto investigato. In conclusione, questo censimento saggistico sembra restituire un’immagine della danza in frammenti. La disciplina coreica ne emerge come un grande mosaico antico di cui ogni studio si occupa di ricostruire un pezzo, ma di cui manca il disegno complessivo, il filo capace di collegare e mettere in relazione tutti questi quadri. Lo stato degli studi nel resto d’Europa e negli Stati Uniti in parte riflette la situazione italiana, in parte mostra nuovi scenari di ricerca. Per quanto riguarda le monografie, bisogna in primo luogo osservare come sin da inizio secolo la figura di Jean Georges Noverre abbia fornito il soggetto per vari lavori sia in area tedesca che francese : a partire dalla tesi di Niedecken 1 del 1914 sino ad arrivare ai lavori di Lynham, 2 Tugal 3 e Krüger 4 risalenti ormai a cinquant’anni fa. Si tratta di opere di cui le ricerche successive hanno mostrato diversi limiti e soprattutto molte imprecisioni ed errori, ma che hanno avuto il merito di gettare luce non soltanto sulla figura del coreografo ma su un intero campo di studi non riconosciuto dal mondo accademico fino a pochi decenni fa. Tra i lavori più recenti dedicati esclusivamente al coreografo bisogna senza dubbio ricordare il corposo volume di Sybille Dahms: Der konservative Revolutionär. Jean Georges Noverre und die Ballettreform des 18. Jahrhunderts. 5 Concentrato tanto sugli aspetti teorici quanto su quelli più pratici della coreutica noverriana, rappresenta l’esito più maturo degli studi condotti in proposito dalla Dahms a partire dalla sua tesi di abilitazione del 1988, 6 un testo a sua volta fondamentale per chiunque abbia voluto e voglia intraprendere una ricerca sia su Noverre sia sulla danza settecentesca. In esso la studiosa fornisce, infatti, una breve vita del coreografo, una sintesi dettagliata delle sue opere teoriche e la cronologia dei balli corredando ogni informazione con un elenco dettagliato delle fonti e dei luoghi di reperimento. Si tratta, come la stessa autrice precisa, di un immenso lavoro d’archivio, di reperimento e organizzazione delle fonti, preliminare a qualsiasi tipo di indagine più approfondita e soprattutto a qualsiasi interpretazione della coreutica noverriana. Se dalle monografie incentrate su una singola figura si passa a quelle dedicate più generalmente alla danza settecentesca, il panorama degli studi include anzitutto alcuni testi di impo
1 Cfr. H. Niedecken, Jean Georges Noverre. 1727-1810. Sein Leben und seine Beziehungen zur Musik, Halle-Wittenberg, Universität - Dissertation, 1914. 2 Cfr. D. Lynham, The Chevalier Noverre Father of Modern Ballet. A Biography, London, Sylvan, 1950. 3 Cfr. P. Tugal, Jean-Georges Noverre. Der grosse Reformator des Balletts, Berlin, Henschelverlag, 1959. 4 Cfr. M. Krüger, J.G. Noverre und das “Ballet en action”. Jean Georges Noverre und sein Einfluß auf die Balletgestaltung, Emsdetten, Lechte, 1963. 5 Cfr. S. Dahms, Der konservative Revolutionär. Jean Georges Noverre und die Ballettreform des 18. Jahrhunderts, München, epodium, 2010. 6 Cfr. Eadem, Jean Georges Noverre “Ballet en action”. Theoretische Schrifte und Werke, Salzburg, Universität - Habilitationschrift, 1988.
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stazione rigorosamente storiografica che, nonostante risalgano agli anni Settanta e Ottanta, rappresentano punti di riferimento imprescindibili della ricerca coreica settecentesca. Da una parte si trova The Pre-Romantic Ballet di Mariah Hannah Winter, 1 un lavoro che costituisce ancora oggi uno dei migliori affreschi e introduzioni alla danza del xviii secolo mostrandone le contaminazioni e le intersezioni con le altre pratiche performative. Dall’altra si ricordano lavori dal raggio d’azione più circoscritto, ma anche caratterizzati da una maggiore abbondanza e precisione di dati come la consistente tesi di dottorato di Kathleen Kuzmick Hansell : Opera and Ballet at the Regio Ducal Teatro of Milan, 1771-1776 : a Musical and Social History. 2 Si tratta di un’opera che, nutrendosi delle competenze musicologiche dell’autrice e di un approfondito lavoro di spoglio delle biblioteche milanesi, offre anzitutto una preziosa cronologia ed elenco delle fonti a proposito del palcoscenico coreico della città lombarda. Seguendo questa medesima linea storiografica, negli ultimi anni si sono distinti per precisione filologica ma anche per capacità innovativa alcune pubblicazioni di lingua tedesca. Nel 2004, ad esempio, sono usciti due importanti lavori : uno di Stephanie Schroedter, Vom “Affect” zur “Action”. Quellenstudien zur Poetik der Tanzkunst vom späten Ballet de Cour bis zum frühen Ballet en Action, 3 l’altro di Monika Woitas, Im Zeichen des Tanzes. Zum ästhetischen Diskurs der darstellenden Künste zwischen 1760 und 1830. 4 Lo studio della Schroedter consiste nell’analisi puntuale di alcuni trattati di danza di origine francese, inglese e tedesca che collocandosi a cavallo del xvii e xviii secolo rappresentano fonti importanti per seguire l’evoluzione del balletto da spettacolo di corte ad azione teatrale pantomima. La novità introdotta da questo studio è rappresentata dall’accompagnamento di un Cd-Rom che fornisce oltre a materiali di supporto al testo – come immagini e bibliografia – un database attraverso cui è possibile effettuare diverse ricerche per parole chiave all’interno dei diciotto trattati presi in esame. Si tratta dunque di un lavoro storico che avvalendosi delle nuove tecnologie permette non soltanto l’accesso a un patrimonio testuale difficilmente consultabile, ma soprattutto la creazione di una serie di relazioni e rimandi interni ed esterni ai documenti. Il testo della Woitas, invece, ha il pregio di aver saputo inserire la danza all’interno del dibattito sulla rappresentazione che caratterizza l’epoca di transizione tra Settecento e Ottocento. Sebbene l’ampio arco temporale preso in esame non permetta all’autrice molti approfondimenti, il suo lavoro dimostra l’intenzione e la capacità di riscattarsi sia da una pura ricostruzione storica priva di alcuna riflessione teorica sia dal pericolo opposto ovvero quello di uno studio che, avulso dallo specifico contesto di apparizione del fenomeno coreico, preferisce sacrificare la ricchezza e anche contraddittorietà dell’espressione corporea a esigenze di rigore sistematico. Se si lascia l’Europa e si attraversa l’Atlantico, tra le principali monografie emerge sicuramente quella di Susan Leigh Foster : Choreography and Narrative. Ballet’s Staging of Story and Desire. 5 Si tratta di un lavoro fondamentale sia perché rappresenta il testo ancora oggi più noto e diffuso sulla danza settecentesca sia perché esemplifica in modo paradigmatico la metodologia dei cultural studies in applicazione all’arte coreica. 6 Nel suo lavoro la Foster traccia l’evoluzione
1
Cfr. M. H. Winter, The Pre-Romantic Ballet, London, Pitman, 1974. Cfr. K. Kuzmick Hansell, Opera and Ballet at the Regio Ducal Teatro of Milan, 1771-1776 : a Musical and Social History (PhD Dissertation, University of California at Berkeley, 1980) Ann Arbor, umi, 1991, 3 voll. 3 Cfr. S. Schroedter, Vom “Affect” zur “Action”. Quellenstudien zur Poetik der Tanzkunst vom späten Ballet de Cour bis zum frühen Ballet en Action, Würzburg, Königshausen & Neumann, 2004. 4 Cfr. M. Woitas, Im Zeichen des Tanzes. Zum ästhetischen Diskurs der darstellenden Künste zwischen 1760 und 1830, Herbolzheim, Centaurus, 2004. 5 S. L. Foster, Choreography and Narrative. Ballet’s Staging of Story and Desire, Bloomington, Indiana University Press, 1996, tr. it. di A. Polli, rivista da C. Falletti, Coreografia e narrazione. Corpo, danza e società dalla pantomima a Giselle, Roma, Audino, 2003. 6 Altri lavori monografici sul Settecento riconducibili a questa ampia e variegata metodologia di ricerca sono : I. Guest, The Ballet of the Enlightenment. The Establishment of the Ballet d’Action in France, 1770-1793, London, Dance Books, 1996 ; S. R. Cohen, Art, Dance, and the Body in French Culture of the Ancien Régime, Cambridge, Cambridge University Press, 2000. 2
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capitolo primo
del balletto francese dai primi esperimenti coreici di inizio Settecento, passando per lo spettacolo della rivoluzione sino ad arrivare ai noti balletti romantici come La Sylphide. La fonte principale presa in esame dall’autrice è costituita dai programmi di ballo, intesi – analogamente ai libretti d’opera – quali testi a tutti gli effetti, autonomi e compiuti rispetto alla performance. Tramite la loro lettura e il loro incrocio con il contesto socio-culturale di riferimento, la Foster cerca di porsi immaginariamente dietro il fondale del palcoscenico per cercare di ricostruire le ragioni tanto delle scelte coreografiche quanto del gusto degli spettatori. La danza è considerata infatti dalla studiosa sia effetto sia causa della costruzione di identità corporee individuali, sessuate e sociali e dunque capace di esibire una teoria al riguardo. Tra le monografie bisogna infine ricordare quella di Matthia Sträßner : Tanz-Meister und Dichter. Literatur-Geschichte(n) im Umkreis von Jean Georges Noverre. Lessing - Wieland Goethe - Schiller. 1 Essa evidenzia le intersezioni tra letteratura e danza alla fine del xviii secolo mostrando in particolar modo come la riforma del balletto e la diffusione del trattato di Luciano sulla danza abbiano avuto effetti non solo im ambito strettamente teatrale ma anche sulla prosa e sulla poesia e più in generale sulla cultura settecentesca. Ovviamente si tratta di uno di quegli studi che non ha come oggetto precipuo la danza in senso stretto, ma che può essere utile al pari di altri – come quelli di Kirsten Gram Holmström, 2 Angelica Goodden, 3 Sabine Chaouche 4 o Günther Heeg, 5 interessati a un campo performativo più ampio rispetto a quello del ballo teatrale – per comprendere il clima culturale, le pratiche artistiche e le intersezioni fra discipline all’interno dei quali il ballet en action si colloca. Questo incrocio di danza e letteratura rappresenta, infine, il carattere distintivo di alcuni dei più recenti e interessanti contributi saggistici sulla danza che si possano contare al momento, ovvero quelli di Edward Nye. L’autore ha prodotto solo di recente una monografia in merito, 6 ma si può dire che i suoi lavori sul Settecento costituiscano sin dall’inizio un corpus organico di cui la prefazione dello studioso al volume collettaneo da lui curato Sur quel pied danser ? 7 suggerisce il filo conduttore. Proprio ricordando i diversi intrecci tra danza e letteratura che caratterizzano la fine del Settecento lo studioso rileva, infatti, come ogni lettura di questa relazione abbia da sempre privilegiato l’uno o l’altro termine del binomio. Da un lato, vi è la tendenza a evidenziare la mutuazione da parte della danza di soggetti tratti da romanzi o drammi, piuttosto che il suo ricorso alla strumentazione linguistica per dirsi e anche comporsi ; dall’altro, si riscontra la propensione a mettere maggiormente in luce la matrice performativa che è sottesa al mondo della parola e che emerge, ad esempio, dalle metafore coreiche utilizzate per descrivere la pratica dell’enunciazione piuttosto che della scrittura. A partire da questo sfondo problematico gli interventi di Nye cercano dunque di investigare la riflessione coreica settecentesca marcando il profilo narrativo del ballo
1 Cfr. M. Strässner, Tanz-Meister und Dichter. Literatur-Geschichte(n) im Umkreis von Jean Georges Noverre. Lessing - Wieland - Goethe - Schiller, Berlin, Henschel, 1994. Sebbene non altrettanto focalizzata sul xviii secolo, si segnala questa recentissima pubblicazione : Figure e intersezioni. Tra danza e letteratura, a cura di L. Colombo, S. Genetti, Verona, Fiorini, 2010. Essa testimonia l’interesse che anche in Italia sta riscuotendo la trasversalità e fecondità del fenomeno coreico rispetto al mondo della letteratura. 2 Cfr. K. Gram Holmström, Monodrama, Attitudes, Tableaux Vivants : Studies on Some Trends in Theatrical Fashion, 1770-1815, Stockholm, Almqvist & Wiksell, 1967. 3 Cfr. A. Goodden, Actio and Persuasion. Dramatic Performance in Eighteenth-Century France, Oxford, Clarendon, 1986. 4 Cfr. S. Chaouche, La philosophie de l’acteur. La dialectique de l’intérieur et de l’extérieur dans les écrits sur l’art théâtral français (1738-1801), Paris, Honoré Champion, 2007. 5 Cfr. G. Heeg, Das Phantasma der natürlichen Gestalt. Körper, Sprache und Bild im Theater des 18. Jahrhunderts, Frankfurt am Main-Basel, Stroemfeld, 2000. 6 Cfr. E. Nye, Mime, music and drama on the eighteen-century stage: the Ballet d’action, Cambridge, Cambridge University Press, 2011. 7 Cfr. Sur quel pied danser ?, a cura di E. Nye, Amsterdam, Rodopi, 2005.
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pantomimo, i suoi legami e differenze con l’opera in musica e, più in generale, affrontando da un punto di vista letterario la questione del gesto e della parola. 1 La produzione di Nye porta ora a trattare più specificatamente del panorama saggistico estero. Analogamente a quanto visto per l’Italia, i contributi scientifici su rivista o in volumi collettanei sono alquanto variegati nonché piuttosto cospicui. È importante, tuttavia, mostrare alcune linee di tendenza che – nel collimare, in taluni casi, e nel divergere, in altri, con la produzione italiana – permettano di concludere l’esame sullo stato degli studi dedicati alla danza teatrale del xviii secolo. Nello specifico occorre rendere conto di alcune riflessioni metacoreologiche ovvero di quegli studi che, avendo in parte per oggetto la ricerca stessa sulla danza settecentesca, si offrono come specchi del percorso fatto e, al tempo stesso, quali finestre su prospettive di investigazione futura. 1. 4. Verifiche in corso. Limiti e possibilità d’indagine L’eccezionalità dell’oggetto coreico e la recente esplosione degli studi in merito continuano a sollevare da più parti l’esigenza di una più approfondita riflessione metodologica. 2 Essa è tesa anzitutto a conferire rigore scientifico alla disciplina, a darle unità e fondamenti terminologico-concettuali saldi. Al tempo stesso, però, questo percorso di legittimazione va anche interpretato come un momento di “autocoscienza” : esso è occasione per prendere atto e ordinare i risultati raggiunti e rilanciare in avanti la ricerca. Il testo curato da Marina Nordera e Susanne Franco su I discorsi della danza. Parole chiave per una metodologia della ricerca 3 costituisce un ineludibile punto di riferimento in proposito. Il volume è strutturato in tre sezioni, ciascuna delle quali ruota intorno a una parola o binomio chiave scelto per la sua particolare rilevanza teorica all’interno degli studi coreologici : politica, femminile/maschile, identità. Ogni sezione è composta da cinque testi : il primo ha l’obiettivo di offrire un quadro critico dello stato degli studi in merito alla questione teorica presa in esame ; i tre saggi successivi mostrano tre diverse prospettive metodologiche ad essa correlate in applicazione a uno specifico oggetto d’indagine ; il contributo conclusivo tenta, infine, di tirare le fila degli argomenti sollevati dai lavori precedenti e di delineare in proposito nuovi orizzonti di ricerca. Un simile testo è particolarmente interessante perché pone sotto il riflettore proprio gli studi sulla scena coreica settecentesca. Nella seconda sezione del libro, infatti, la categoria del gender – quale costruzione sociale e culturale della differenza sessuale – viene illustrata
1 Cfr. in particolare : E. Nye, Grace II : Poetry and The Choric Analogy in Eighteenth-Century France, in Sur quel pied danser ?, a cura di Idem, pp. 107-136 ; Idem, Le Petit-maître dansant et le caractère de la danse : les héritiers de La Bruyère au dix-huitième siècle, in Sur quel pied danser ?, cit., pp. 137-156 ; Idem, Contemporary Reactions to Jean-Georges Noverre’s Ballets D’Action, « svec », vi (2007), pp. 31-45 ; Idem, “Choreography” is Narrative : The Programmes of the Eighteent-Century Ballet d’Action, « Dance Research », xxvi (2008), 1, pp. 42-59 ; Idem, Dancing Words : Eighteenth-Century Ballet-Pantomime Wordbooks as Paratexts, « Word and Image », xxiv (2008), 4, pp. 403-412 ; Idem, L’Allégorie dans le ballet d’action : le témoignage des parodies de Marie Sallé, « Revue de l’histoire littéraire de France », cviii (2008), 2, pp. 289-309 ; Idem, The Eighteenth-Century Ballet-Pantomime and Modern Mime, « New Theatre Quarterly », xxv (2009), 1, pp. 22-43. E infine si segnala : E. Nye, F. Thépot, Dramaturgie et musique dans le ballet-pantomime Médée et Jason de Noverre et Rodolphe, « Revue d’Histoire du Théâtre », iv (2007), pp. 305-323. 2 Tra i testi che si sono occupati della metodologia e riflessione coreologica se ne ricordano uno storico, ovvero quello curato da Janet Adshead, Dance Analysis : Theory and Practice (London, Dance Book, 1988), e uno invece più recente, ma soprattutto non strettamente riconducibile alla tradizione anglosassone dei cultural studies e teso a mostrare l’interdisciplinarietà degli approcci possibili alla danza : Methoden der Tanzwissenschaft. Modellanalysen zu Pina Bausch “Le Sacre du Printemps”, a cura di G. Brandstetter, G. Klein, Bielefeld, transcript, 2007. Per ulteriori indicazioni bibliografiche si rinvia a I discorsi della danza. Parole chiave per una metodologia della ricerca, a cura di S. Franco, M. Nordera, Torino, utet, 2005, pp. 323-331. Si segnalano infine i recenti saggi di M. Nordera, Sconfinamenti disciplinari e non tra studi, studenti e studiosi della danza in Europa, in La disciplina coreologica, cit., pp. 169-180 ; A. Pontremoli, Idee per una metodologia della ricerca coreologica, in La disciplina coreologica, cit., pp. 3-32. 3 Cfr. I discorsi della danza, cit.
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per mezzo di tre saggi sul xviii secolo. Si tratta dei lavori di Nathalie Lecomte – Ballerine e ballerini dell’Opéra di Parigi (1700-1725) 1 – Susan Leigh Foster – L’alterità di Didone : coreografare la « razza » e il genere nel ballet d’action 2 – e infine Inge Baxmann – L’equilibrio perduto : messe in scena del corpo e controllo della mobilità sociale durante la rivoluzione francese.3 Questi contributi sono scelti per esemplificare alcune delle molteplici prospettive metodologiche che declinano la questione del femminile/maschile. Se si sposta però il fuoco dell’attenzione dal tema del genere all’oggetto analizzato – il ballo settecentesco – ci si rende subito conto di come questa sezione antologica – corredata dai due saggi di carattere più strettamente teoricometodologico 4 – possa fornire anche altri motivi di riflessione. Anzitutto un simile lavoro permette di far emergere in modo sinottico quella settorializzazione degli studi settecenteschi già emersa dall’esame della produzione saggistica italiana. Scrive la Nordera :
I tre studi critici presentati in questa sezione dimostrano la pregnanza della relazione tra scelta delle fonti e approccio metodologico. Lecomte proviene da una tradizione francese di rigorosi studi storici e archivistici compiuti in stretta relazione a quelli musicologici. Foster dalla teoria critica anglosassone, dalla teoria femminista in particolare, e da un’esperienza personale di pratica della danza. Baxmann dalla storia culturale e delle mentalità di impostazione germanica, meglio definita Kulturwissenschaft, coniugata con la teoria critica anglosassone. Ogni saggio si basa principalmente su un solo ordine di fonti : rispettivamente i libretti-programma, gli scenari o argomenti dei balletti, le descrizioni delle feste. Altri tipi di fonti primarie e secondarie sono evocati in modo transitorio o funzionale al dipanarsi del discorso. I metodi di analisi scelti sono rispettivamente il trattamento statistico dei dati, la teoria della narratività associata a critica femminista e postcoloniale, e infine la storia culturale e delle mentalità. 5
Da un simile confronto di testi è possibile anzitutto trarre alcuni spunti di riflessione circa le cause ma anche gli effetti dell’attuale stato degli studi coreologici. In primo luogo, si vede come la specializzazione del discorso coreologico sia contraddistinta da ragioni e pratiche non esclusivamente “scientifiche”. Ogni indagine è caratterizzata, infatti, da una forte componente soggettiva. Di contro alla sempre maggiore richiesta di chiarezza e rigore scientifico, la centralità non soltanto della formazione accademica di ciascun ricercatore ma anche della sua storia e scelte individuali rimane un presupposto inevitabile quanto spesso opaco e implicito. In secondo luogo, la varietà ma anche personalità di approcci e metodologie utilizzati sembra incorrere in un rischio : quello di una fragile possibilità di scambio tra i diversi contributi scientifici. Gli oggetti investigati così come le tecniche d’indagine impiegate risultano molto spesso così specifici da impedire ogni sorta di comunicazione ma anche di reciproca verifica da parte delle ricerche in corso. Questa autonomia dei percorsi di ricerca si fonda, al tempo stesso, su taluni presupposti comuni che rimangono inamovibili e soprattutto inesplorati. Se alle riflessioni della Nordera si affiancano quelle sviluppate da Gabriele Brandstetter in un suo recente saggio 6 se ne capiscono subito le ragioni. Esaminando in particolare lo stato delle ricerche coreologiche in area tedesca, la studiosa constata il ritorno frequente di alcuni tópoi, di determinate fonti e persino di analisi di alcuni passi specifici di essi. Formule come “danza parlante”, “mimesi della natura” o “rappresentazione degli affetti” – mutuate dagli scritti settecenteschi o parzialmente rivisitate dalla penna dei ricercatori – vengono utilizzate in diversi contributi scientifici come spiegazioni del fenomeno coreico senza tuttavia essere soggette loro stes
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2 3 Ivi, pp. 141-168. Ivi, pp. 169-182. Ivi, pp. 183-201. Cfr. M. Nordera, Generi in corso. Note per storie ancora da scrivere, in I discorsi della danza, cit., pp. 203-226 ; L. J. Tomko, Femminile. Maschile, in I discorsi della danza, cit., pp. 117-140. 5 Nordera, Generi in corso, cit., p. 213. 6 G. Brandstetter, Enzyklopädie des Tanzes. Bewegung und Wissensordnungen des 18. Jahrhunderts bei de Cahusac und Diderot, in Wissenskultur Tanz. Historische und zeitgenössische Vermittlungsakte zwischen Praktiken und Diskursen, a cura di S. Huschka, Bielefeld, transcript, 2009, pp. 71-85. 4
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se a un processo d’interrogazione. Per fare un esempio molto concreto basti confrontare un saggio della stessa Brandstetter – Die Bilderschrift der Empfindungen. Jean-Georges Noverres “Lettres sur la Danse, et sur les Ballets” und Friedrich Schillers Abhandlung “Über Anmut und Würde 1 – con uno di Claudia Jeschke – Noverre, Lessing, Engel. Zur Theorie der Körperbewegung in der zweiten Hälfte des 18. Jahrhunderts. 2 Entrambi i lavori, pur da diverse prospettive ma con il medesimo acume investigativo, si sono confrontati intorno agli anni Novanta col problema della relazione anima-corpo nell’espressione coreica settecentesca, analizzando in particolar modo la riflessione noverriana al riguardo. Comune oggetto d’indagine, infatti, è la fondazione teorica della possibilità da parte del ballet en action di rappresentare sentimenti e azioni. Tuttavia il semplice riferimento alla scienza fisiognomica di cui il pensiero del coreografo è nutrito piuttosto che il solo parallelo istituito tra la sua riflessione e quella di altri autori o filosofi coevi – invece che un confronto e incrocio più stretto tra di essi – sembrano generare in entrambi i lavori un effetto comune : quello di lasciare in sospeso proprio la questione teorica sottesa, ovvero i limiti e le possibilità, ma soprattutto il significato della “capacità espressiva” del corpo tante volte chiamata in causa. Una simile condivisione di riferimenti testuali così come di formule espressive rappresenta, da un certo punto di vista, quel procedimento di canonizzazione del sapere che costruisce il profilo stesso di una disciplina e più in generale la tradizione di ogni cultura. Tuttavia, a differenza di quanto avviene per oggetti e metodi di ricerca già ampiamente consolidati e dunque non solo costantemente arricchiti di nuovi contributi ma anche soggetti a cicli periodici di rivisitazione, la nascente disciplina coreologica sembra non solo immobilizzata all’interno di alcuni schemi di pensiero, ma rischia di continuare a tramandare errori sia interpretativi sia più strettamente documentaristici : basti pensare ad alcune imprecisioni nella citazione di fonti e date o le presentazioni di alcuni nodi storico-teorici che si ripetono invariati in studi tra loro anche molto diversi. La consegna del patrimonio conoscitivo che caratterizza il consolidamento ma anche la crescita di ogni disciplina sembra venire privata nel caso coreico di quel processo di discussione e trasformazione che è insito in ogni tradere. 3 Rispetto a un simile scenario sembra farsi sempre più necessaria una seconda generazione di studiosi capace di ripartire dai teoremi e dalle formule ormai stereotipate per mostrarne nuovi orizzonti di applicazione e interpretazione piuttosto che i limiti o gli errori, ma anche in grado di ovviare in qualche modo alla parzialità e apparente incomunicabilità che sembra contraddistinguere i vari contributi di cui la danza è protagonista. L’antologia di studi settecenteschi presa in esame offre a tal riguardo un ulteriore supporto perché permette di rilevare e discutere prospettive di ricerca innovative, in particolar modo la possibilità di applicare da parte della coreologia categorie d’indagine recenti a oggetti e campi d’investigazione storicamente precedenti. Una delle obiezioni principali rivolte alle nuove teorie critiche di origine soprattutto anglosassone è quella di adoperare schemi di pensiero e concetti elaborati a fronte di condizioni socio-culturali ben diverse rispetto a quelle del campo di ricerca analizzato. Esse finiscono per piegare le fonti documentarie a domande e risposte a loro estranee. Come evidenzia
1 Cfr. G. Brandstetter, Die Bilderschrift der Empfindungen. Jean-Georges Noverres “Lettres sur la Danse, et sur les Ballets” und Friedrich Schillers Abhandlung “Über Anmut und Würde”, in Schiller und die höfische Welt, a cura di A. Aurnhammer, K. Manger, F. Strack, Tübingen, Niemeyer, 1990, pp. 77-93. 2 Cfr. C. Jeschke, Noverre, Lessing, Engel. Zur Theorie der Körperbewegung in der zweiten Hälfte des 18. Jahrhunderts, in Schauspielkunst im 18. Jahrhundert. Grundlagen, Praxis, Autoren, a cura di W. Bender, Stuttgart, Steiner, 1992, pp. 85-111. 3 A proposito dei clichés, delle lacune e di alcuni errori di cui gli studi di danza sono spesso protagonisti, si rimanda al saggio di J. Sasportes, La storia al centro degli studi coreologici, in La disciplina coreologica, cit., pp. 195-205.
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bene l’analisi di Marina Nordera, tuttavia, l’introduzione di questi nuovi concetti è in grado di gettare luce su campi d’indagine ancora inesplorati oppure da anni ridotti a interpretazioni univoche e sterili. Ad esempio la categoria di gender, applicata alla scena coreica settecentesca, ha aiutato a ricostruire esperienze e idee del femminile e maschile studiando le loro espressioni e rapporti di forza nella pratica sociale e artistica della danza oppure in altri tipi di fonti scritte ad essa collegate, così come ha consentito di mettere in discussione l’influenza della soggettività di genere nel lavoro del ricercatore. Per quanto riguarda, invece, la dispersione del discorso coreologico e il vuoto di alcune sue formule precedentemente rilevati, un primo passo in avanti è compiuto proprio da Gabriele Brandstetter col suo saggio Enzyklopädie des Tanzes. Bewegung und Wissensordnungen des 18. Jahrhunderts bei de Cahusac und Diderot. 2 Dopo aver denunciato i limiti della coreologia di lingua tedesca, la studiosa tenta di ripartire da alcuni suoi assiomi o risultati ormai consolidati mettendoli in relazione col più ampio ordine del sapere dispiegato nel Settecento. Nello specifico la Brandstetter indaga la posizione della danza all’interno dell’Encyclopédie per mezzo di alcune riflessioni in merito di Diderot e Cahusac adottando un duplice punto di vista. Da una parte la studiosa cerca di ricostruire il profilo della danza quale forma artistica o elemento di un discorso più ampiamente antropologico sul corpo e il movimento, all’interno dell’archivio enciclopedico ; dall’altra si domanda se e in quale misura la disciplina coreica abbia avuto anche parte alla costruzione del discorso enciclopedico stesso, ovvero come pratica di organizzazione e dinamizzazione del sapere. Un simile percorso di ricerca promosso dalla studiosa tedesca si differenzia da quelli finora svolti per il suo taglio speculativo. A differenza dei lavori – anche piuttosto datati – di Jeffrey Giles 3 o Judith Chazin-Bennahum, 4 la Brandstetter non si limita a giustapporre la storia della danza a quella delle arti e del sapere nel xviii secolo e neppure ad accennare alcuni tenui parallelismi tra le novità introdotte in campo coreico e le riflessioni filosofiche ad esse contemporanee. La studiosa approfondisce quelle che fino a ora sono state trattate come deboli assonanze tra regioni del sapere tra loro separate per far emergere la portata teorica della danza stessa e il ruolo non secondario da essa svolto all’interno del panorama culturale settecentesco a proposito dei suoi principali temi di discussione e anche delle sue trasformazioni. Un simile progetto di ricerca permette, anzitutto, di valorizzare il grande lavoro di raccolta e investigazione delle fonti coreiche già fatto ; in secondo luogo cerca di arginare quella dispersione e frammentazione che si è visto contraddistinguere essenzialmente e, in modo inevitabile, ogni tipo di discorso sulla danza. Sebbene, infatti, ogni studioso non possa, anche in questo caso, che occuparsi di un piccolo tassello di questo mosaico in ricostruzione, i possibili percorsi di studio che muovono da questo progetto si distinguono per la cura verso la dimensione olistica del fenomeno coreico. Basti ricordare le recenti pubblicazioni di Sabine Huschka, 5 tese a ricostruire da una prospettiva eminentemente storico-critica le 1
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Cfr. Nordera, Generi in corso, cit., pp. 203-213. Cfr. Brandstetter, Enzyklopädie des Tanzes. Cfr. J. Giles, Dance and French Enlightenment, « Dance Chronicle », iv (1981), 3, pp. 245-263. 4 Cfr. J. Chazin-Bennahum, Cahusac, Diderot, and Noverre : Three Revolutionary French Writers on the Eighteenth Century Dance, « Theatre Journal », xxxv (1983), 2, pp. 168-178. 5 Cfr. S. Huschka, Die Darstellungsästhetik des « ballet en action ». Anmerkungen zum Disput zwischen Gasparo Angiolini und Jean Georges Noverre, in Vom Schäferidyll zur Revolution. Europäische Tanzkultur im 18. Jahrhundert, 2. Rothenfelser Tanzsymposion 21.-25. Mai 2008, a cura di U. Schlottermüller, H. Weiner, M. Richter, Freiburg, fa-gisis, 2008, pp. 93-106 ; Eadem, Episteme choreografierter Körper im ballet en action. Zum ästhetischen Widerstreit von techné und Einfühlung, in Kulturen des Wissens im 18. Jahrhundert, a cura di U. J. Schneider, Berlin, de Gruyter, 2008, pp. 655662 ; Eadem, Kompositorische Ordnungen der Affekte im ballet en action. Zur Wirkungsästhetik bei Jean Georges Noverre und Gasparo Angiolini, in Koordinaten der Leidenschaft. Kulturelle Aufführungen von Gefühlen, a cura di J. Roselt, C. Risi et al., Berlin, Theater der Zeit, 2009, pp. 51-77 ; Eadem, Kulturelle Entwürfe von Theatertanz. Historiographie und historisches Denken im 18. Jahrhundert, in Original und Revival. Geschichts-Schreibung im Tanz, a cura di C. Thurner, 2 3
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principali questioni e dibattiti teorici in cui la danza teatrale si trova immersa nel xviii secolo: l’attenzione è qui riservata al tessere le relazioni che legano l’oggetto specifico d’indagine allo sfondo complessivo dal quale si staglia la figura di Tersicore. È da questa corrente di ricerca che muove dunque il presente lavoro seguendo un taglio eminentemente storico-estetologico. 2. Interrogare il negativo. Un’ipotesi di ricerca Disciplina coreologica ed estetica sono due regioni del sapere tra loro intrecciate. Entrambe si occupano di oggetti che seppure comunemente intesi sfuggono a un tentativo di comprensione più approfondita. Tanto la danza quanto l’“estetico” stanno di fronte esercitando fascino e sospetto, ma soprattutto esibendo profili ambigui, sempre capaci di assumere nuovi colori e sembianze e, al tempo stesso, contraddistinti da tratti unici e irripetibili. Un simile motivo di assonanza risuona immediatamente non appena si accostino alle parole prima citate di Barilli sulla danza quelle di un maestro dell’estetica italiana, Emilio Garroni :
L’“estetico” è insieme ovvio ed enigmatico. Sta lì, quasi a portata di mano, e nello stesso tempo scappa da tutte le parti. È qualcosa di preciso, e si diffonde nei luoghi più impensati. Vale per se stesso, ed è continuamente al servizio di altro. È qualcosa di gratificante, che si vorrebbe avere sempre d’attorno, ed è qualcosa di eccezionale e sconvolgente, da desiderare e temere. Favorisce la socievolezza e la simpatia, ma anche l’isolamento e il sospetto. Predilige i sensuali, e anche i puri spiriti. 1
Legati a oggetti dalle sagome così affini, precise e insieme labili, estetica e coreologia sembrano condividere un destino comune, articolato in tappe, ostacoli e traguardi molto simili. In particolare, riprendendo le analisi di Foucault con cui è stato aperto il capitolo, le due discipline paiono contraddistinte da un comune tratto negativo ovvero dall’impossibilità di circoscriverne univocamente i perimetri e gli strumenti d’indagine. Un approfondimento della scienza filosofica – in virtù del suo carattere speculativo e del suo maggiore consolidamento a livello scientifico – permette dunque di guardare alla danza da una prospettiva nuova, tesa a valorizzarne e interrogarne la portata teorica racchiusa proprio nella sua evanescenza, indefinitezza e corporeità. 2. 1. Liminarità di estetica e coreologia Analogamente a quanto visto per gli studi coreologici, anche l’estetica conosce un problema di identificazione all’interno del sistema del discorso scientifico. La domanda ricorrente e mai sopita è se essa abbia principi rigorosi definiti e sia suscettibile di divisioni sistematiche come discipline quali l’economia, la geologia o persino altre branche più eminentemente speculative come la logica o la filosofia morale. Più approfonditamente il problema verte intorno all’esistenza o meno di un oggetto estetico specifico e, di conseguenza, di un apparato preciso o comunque individuabile di termini e concetti propri. Un rapido sguardo alla definizione fondativa data alla disciplina da Baumgarten nel 1750 riesce subito a rendere conto dell’ampiezza ed eterogeneità del suo campo d’indagine :
§ 1. L’estetica (teoria delle arti liberali, gnoseologia inferiore, arte del pensare in modo bello, arte dell’analogo della ragione) è la scienza della conoscenza sensibile. § 2. Il grado naturale delle facoltà conoscitive inferiori, sviluppato con la sola pratica senza alcuna conoscenza disciplinare, può essere detto estetica naturale, ed essere distinto, come è d’uso anche per J. Wehren, Zürich, Chronos, 2009, pp. 117-134 ; Eadem, Szenisches Wissen im ballet en action. Der choreographierte Körper als Ensemble, in Wissenskultur Tanz, cit., pp. 35-53. 1 E. Garroni, Senso e paradosso, Roma-Bari, Laterza, 1995, p. 3.
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la logica, in estetica innata (l’ingegno bello innato) e acquisita ; questa a sua volta la si può distinguere in dottrinale e applicata. § 3. Fra le applicazioni principali dell’estetica artificiale (cfr. § 1), che si aggiunge a quella naturale, ci sarà : (1) preparare la materia adatta per le scienze che devono essere conosciute in modo preminente con l’intelletto, (2) adattare alla comprensione comune le conoscenze scientifiche, (3) estendere l’affinamento della conoscenza anche al di là dei limiti di ciò che possiamo conoscere in modo distinto, (4) fornire buoni principi a tutti gli studi più gentili e alle arti liberali, (5) nella vita comune, a parità di condizioni, eccellere nella condotta. § 4. Da ciò le applicazioni speciali : (1) filologica, (2) ermeneutica, (3) esegetica, (4) retorica, (5) omiletica, (6) poetica, (7) musicale, eccetera. 1
Senza addentrarsi in un’analisi dettagliata del testo baumgartiano, 2 ciò che emerge immediatamente, tanto alla lettura quanto al semplice colpo d’occhio, è la struttura “a soffietto” della definizione. Da una parte l’estetica viene descritta in modo sintetico quale “scienza della conoscenza sensibile”, dall’altra questa stessa spiegazione viene amplificata dall’affollarsi tra parentesi di altri termini che, al pari di scientia, fanno riferimento al gradiente teorico della disciplina. Lungi dallo specificarne il raggio e la modalità d’azione, essi ne accrescono la problematicità : se infatti l’estetica è insieme teoria, gnoseologia, arte e scienza, sorge la domanda in merito all’accezione con cui vanno intesi simili termini. La questione è resa ancora più complicata dalle successive distinzioni operate da Baumgarten. L’estetica come disciplina di studio è anzitutto preceduta da un vasto sapere implicito. Si tratta di tutta quella serie di esperienze e osservazioni che articolano la vita quotidiana, sensibile e che – al pari di quanto accennato per la danza a proposito della naturale propensione dell’uomo al movimento – rappresentano la condizione di possibilità della disciplina estetica, ma non la esauriscono : il giudizio di approvazione elaborato di fronte a un paesaggio piuttosto che la commozione nell’ascolto di un brano musicale ne sono un esempio. I paragrafi 3 e 4 ampliano poi ulteriormente questo orizzonte del discorso estetico profilando una serie di possibili percorsi di applicazione della cosiddetta disciplina artificiale. Dell’estetica viene, infatti, messo in rilievo il carattere formativo. La disciplina pare configurarsi nei termini di un’educazione alla sensazione che può assumere il carattere tanto di una propedeutica al pensiero intellettuale e, in particolar modo, alla logica quanto di un’investigazione ed espressione del sapere più propriamente poietico, ossia di regioni – come quella dell’arte – simbolicamente o emblematicamente capaci di produrre ed esibire la portata significativa del sensibile. L’ampiezza e varietà sia del sapere estetico irriflesso sia delle sue possibili declinazioni scientifiche dà una misura della difficoltà legata a una possibile circoscrizione dell’orizzonte problematico dell’estetica. In un modo esponenzialmente superiore rispetto a quanto visto per la disciplina coreica, essa è inevitabilmente intrecciata a temi tanto fondamentali quanto complessi come la percezione, l’emozione, l’immaginazione, il sentimento, il gusto, il genio. Anche solo riprendendo lo spettro semantico messo in gioco dal termine greco aisthesis, infatti, l’orizzonte di questa scienza spazia inevitabilmente da ciò che oggi intendiamo con sensazione (conoscenza sensoriale di una qualità) sino alla percezione (conoscenza sensoriale di un oggetto). Essa si occupa di quella vasta regione dell’esperienza che – come sintetizza efficacemente Roberto Diodato – rappresenta l’« esperienza conoscitivo-produttiva del mondo attraverso il corpo che il linguaggio filosofico non può completamente sublimare ». 3
1 A. G. Baumgarten, Aesthetica, Traiecti cis Viadrum, Iohann Christian Kleyb, 1750-1758, ed. it. a cura di S. Tedesco, L’Estetica, tr. it. di F. Caparrotta, A. Li Vigni, S. Tedesco, Palermo, Aesthetica, 2000, p. 27. 2 Per un approfondimento del testo di Baumgarten si rimanda ai seguenti lavoro : F. Piselli, Alle origini dell’estetica moderna : il pensiero di Baumgarten, Milano, Vita e Pensiero, 1992 ; S. Tedesco, L’estetica di Baumgarten, Palermo, Centro internazionale studi di estetica, 2000. 3 R. Diodato, « Esperienza estetica » e razionalità, in Esperienza e razionalità. Prospettive contemporanee, a cura di R. Corvi, Milano, FrancoAngeli, 2005, pp. 191-204, qui p. 194. Sebbene il sintagma “esperienza estetica” richieda
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La gnoseologia inferior di cui parla Baumgarten si occupa proprio di una prerogativa fondamentale di questa esperienza ovvero il suo configurarsi come il medium irrinunciabile e irriducibile di ogni forma di sapere. La disciplina estetica ha a che fare, infatti, con quelle rappresentazioni definite da Leibniz chiare e confuse che sono sì veicolo di conoscenza, ma rimangono indissolubilmente frammiste alla loro matrice corporea. Estranee alle operazioni astrattive dell’intelletto, queste rappresentazioni sono caratterizzate dalla fusione dei loro elementi costitutivi e dunque dall’impossibilità di essere investigate in termini analitici bensì soltanto estensivi, ovvero attraverso un’opera di associazione e interconnessione tra più rappresentazioni. Le altre definizioni di estetica fornite da Baumgarten sembrano esplicitare e sviluppare ulteriormente questo tratto distintivo dell’ “estetico”. L’analogon rationis fa riferimento, ad esempio, allo studio e articolazione di quelle facoltà conoscitive, mentali e corporee insieme – una su tutte, l’immaginazione – che possono offrire prestazioni analoghe a quelle dell’intelletto cogliendo i nessi tra le cose tanto attuali quanto semplicemente possibili. Così come l’ars pulchre cogitandi rinvia a quel pensiero, ed esperienza insieme, capace di cogliere ed esprimere la logica immanente all’estetico stesso, di riportare a unità il molteplice apparentemente disperso e disorganico. Salvatore Tedesco sintetizza efficacemente la questione con queste parole :
Se quindi, sulla scia di Leibniz e Wolff, la ragione è la facoltà di cogliere in modo distinto il nesso delle cose, ed è quindi anche definibile come l’intelletto che capisce ed esamina (perspicere) il nesso delle cose, esiste anche una modalità non distinta ma sensibile di cogliere il nesso : un modo di percepire connessioni analogo alla ragione. L’analogon rationis è allora la struttura delle nostre modalità di percezione, è la forma di connessione delle verità che è immanente alla sensibilità ed è, soprattutto, una forma di connessione tutt’altro che statica, ma anzi suscettibile di perfezionamento, di affinamento, senza che per produrre tale opera di perfezionamento si sia necessariamente costretti a trasferirsi sul piano della conoscenza intellettuale. 1
I confini tanto tematici quanto oggettuali della disciplina coreologica sembrano moltiplicarsi all’infinito insieme all’inesauribile potenzialità creatrice e conoscitiva del plesso mente-corpo. La stessa riduzione di questa classe di studi a semplice theoria liberalium artium – ovvero a quella che a partire dal Romanticismo viene poi sviluppata e chiamata filosofia dell’arte, venendo molto spesso a coincidere tout-court con la disciplina estetica 2 – non risolve e neppure semplifica il problema. Se l’arte, infatti, è già riconosciuta da Baumgarten quale luogo esemplare per l’emergere della conoscenza estetico-logica nella sua perfezione rappresentativa – offrendo dunque un campo di riflessione privilegiata per l’estetica – è altrettanto vero che il concetto stesso di “arte” è quantomai insidioso e problematico. Adoperando come esempio la forma artistica qui oggetto d’indagine, la danza, si possono subito comprendere meglio i termini della questione. Anzitutto l’oggetto coreico può assumere colori e contorni molto vari. Dalla danza classica a quella moderna, dal teatrodanza sino alla performance, la disciplina di Tersicore si al pari di qualsiasi altra categoria di essere inserita all’interno di un preciso modello filosofico perché se ne possa ricostruire la specifica accezione significativa, è altresì vero che di essa è possibile delineare un profilo essenziale a partire tanto dalla sua etimologia quanto dalle principali spiegazioni che si sono sedimentate nel corso della storia del pensiero. Roberto Diodato parte proprio da questo assunto di partenza per articolare la sua argomentazione teorica volta a mostrare tre strategie attraverso cui la questione del rapporto tra esperienza estetica e razionalità è stata sviluppata dalla filosofia del Novecento. 1 S. Tedesco, Presentazione, in Baumgarten, L’Estetica, cit., pp. 7-18, qui pp. 11-12. 2 Cfr. E. Franzini, Estetica e filosofia dell’arte, Milano, Guerini e Associati, 1999. La particolare attenzione che si riserva nella presente argomentazione all’estetica quale filosofia dell’arte è dovuta al fatto che – come si spiegherà più nel dettaglio nei §§ successivi, – essa costituisce la prospettiva privilegiata da cui si guarderà alla danza nel corso della trattazione.
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esprime in contesti e con effetti tra loro così distanti che risulta difficile la loro raccolta sotto un denominatore comune. Accanto a questa esibizione in scena bisogna poi ricordare le espressioni fuori dai circuiti propriamente artistici, ovvero tutto quell’immenso patrimonio di forme ed esperienze coreiche che vanno a formare la danza popolare e il folklore. La questione diventa ancora più complessa se si prende in esame la danza nel Novecento, in particolare nella sua seconda metà. La diffusione di attività artistiche altamente mutevoli nelle forme, la commistione di linguaggi così distanti tra loro tali da produrre effetti irriconducibili a una disposizione comune rendono la danza difficilmente circoscrivibile : basti pensare all’happening – in cui l’evento tende a stagliarsi su uno sfondo quotidiano da cui lo differenzia molto spesso soltanto il pensiero artistico che lo muove – oppure alla sempre più diffusa applicazione di strumenti tecnologici al campo coreico fino alla smaterializzazione stessa del corpo del ballerino. Analogamente a quanto visto in modo più circoscritto per la coreologia, l’indefinitezza metodologica della disciplina estetica non è che una diretta conseguenza dell’eterogeneità e complessità del suo campo oggettuale. Rispetto a un terreno così vasto come quello dell’esperienza artistica e più ancora sensibile, oggetto di sezionamento e approfondimento da parte di innumerevoli sguardi disciplinari, la possibilità di definire in modo preciso e univoco i concetti e le metodologie propri ed esclusivi dell’estetica risulta quantomai arduo. Il dubbio ricorrente – tanto da parte degli studiosi di altre discipline come dell’estetica stessa – è se questa scienza non rischi di volta in volta – ovvero a seconda dello specifico focus d’indagine – di ridursi a uno dei saperi speciali che condividono lo stesso orizzonte investigativo : si tratti della storia e critica d’arte piuttosto che della psicologia della percezione o della filosofia della scienza. Lo stesso Baumgarten, del resto, non appena enunciata la definizione dell’estetica sopra riportata, si preoccupa di difendere la nuova disciplina proprio da tale obiezioni :
§ 5. Alla nostra scienza (cfr. § 1) si potrebbe obiettare : (1) che essa sia troppo ampia perché la si possa esaurire in un solo libretto, in un unico compendio accademico. Rispondo ammettendolo, ma è meglio qualcosa che nulla ; (2) che coincida con la retorica e la poetica. Rispondo : (a) è qualcosa di più ampio, (b) comprende cose fra loro simili e comuni a queste e altre arti. Ogni arte, una volta considerati tali elementi in questa appropriata sede estetica, potrà coltivare più felicemente il proprio campo senza inutili ripetizioni ; (3) che coincida con la critica. Rispondo : (a) esiste anche una critica logica, (b) una certa specie della critica fa parte dell’estetica, (c) a questa specie è quasi indispensabile una qualche precognizione del resto dell’estetica, se essa non vuole limitarsi a disputare sui meri gusti nel giudicare di ciò che è stato pensato, detto e scritto in modo bello. 1
L’estetica è intrecciata e, al tempo stesso, distinta dalle altre regioni del sapere. Essa si nutre di esse e, al tempo stesso, sembra integrarle. Riprendendo le parole del filosofo tedesco, la disciplina in questione non può, ad esempio, ridursi a indagare singoli oggetti, siano essi quelli della retorica piuttosto che della poetica. Essa prende in esame prodotti artistici e soprattutto aspetti di essi che sono terreno di condivisione da parte di più di una Musa. Non solo. Sempre proseguendo l’analisi dell’estetica nella sua particolare accezione di filosofia dell’arte – e avvalendosi di alcune riflessioni particolarmente chiare offerte in merito da Sergio Givone 2 – bisogna rilevare come essa, pur essendone frammista, si distingua tanto dall’arte stessa quanto dalla poetica artistica così come anche dalla critica d’arte. Nel primo caso la disciplina filosofica in oggetto si differenzia per un grado di riflessione e autotrasparenza che è estraneo alla pura istanza creativa. Similmente essa prende distanza dalla pura critica perché quest’ultima, dovendo giudicare della riuscita o meno dell’opera di un’artista, 1
Baumgarten, L’Estetica, cit., p. 27. Cfr. S. Givone, s.v. Estetica, in Enciclopedia filosofica, diretta da V. Melchiorre, Milano, Bompiani, 2008, vol. iv, pp. 3707-3733, in particolare le pp. 3707-3708. 2
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deve in parte partecipare della sua stessa intuizione pigmalionica. Infine l’estetica non può essere identificata con la semplice poetica di un’artista poiché, pur tenendone ovviamente conto, essa molto spesso la supera così come l’opera d’arte stessa oltrepassa il più delle volte le intenzioni programmatiche e la capacità di spiegazione del suo artefice. Un simile processo di inglobamento e, al tempo stesso, superamento da parte dell’estetica delle discipline ad essa collegate riesce solo in parte ad abbozzarne un profilo più preciso, soprattutto rispetto alle altre branche filosofiche. Se questo meccanismo permette, infatti, di salvaguardare l’estetica da una deriva verso concreti fatti artistici o sensibili, difendendone così lo spessore teorico, tuttavia non la preserva dal rischio opposto ovvero quello di ridursi a un’entità vuota capace soltanto di riempirsi di volta in volta di contenuti e metodi specifici mutuati da altre discipline. Così come il definire l’estetica una disciplina filosofica che considera, ad esempio, il fatto della bellezza o dell’arte quali aspetti particolari dell’essere nella sua assolutezza può risultare, per converso, sterile o per lo meno piuttosto vago e nebuloso se non supportato da ulteriori delucidazioni ed esemplificazioni. Di fronte a una simile impasse, le riflessioni di Emilio Garroni paiono mostrare una via d’uscita che senza misconoscere la contraddizione tentano di percorrerla :
L’estetica potrebbe essere, perché no ?, una sorta di “disciplina liminare”, cui tendono varie altre discipline diverse, in linea di principio né più né meno legittima di queste. Certo, l’“estetico” è ancora quasi un mistero. Ma insomma già ora si direbbe che quel tanto di “estetico” – di cui pare che facciano fatica a non parlare certe discipline empiriche, che si occupano di certi oggetti, o di certi loro aspetti – debba poter venire in qualche modo, se ha un significato, occasione di riflessione, pur sempre a meno dell’inevitabile rischio di inventare pseudoproblemi. Ma, questo, è un rischio che non dovrebbe più spaventarci. Le scienze umane [...] sono intricate non casualmente, non per ragioni puramente soggettive, almeno con problemi-limite, articolati anch’essi da ricorrenti “peraltro” e “tuttavia”. E tali problemi-limite [...] non facilmente si distinguono dagli stessi pseudoproblemi. Nascono alle medesime condizioni e si distinguono da questi soltanto attraverso un continuo processo di ricognizione. 1
L’estetica può e deve presupporre tutta una serie di questioni che si pongono in diversi ambiti disciplinari. Essa è capace di preservare una propria autonomia pur non configurandosi come una disciplina coerente e in sé compiuta – dotata di un oggetto o metodo univoco – bensì essendo costituzionalmente portata a trascendere limiti e confini troppo netti e rigidi. Più che una definizione della disciplina ciò che bisogna cercare è allora l’interrogazione, ovvero considerare l’estetica come un problema aperto di cui ci si domanda, prima che i contorni, in che misura si possa parlare di un “insieme”. Una simile condizione liminare può essere allargata alla stessa disciplina coreologica e al suo oggetto, tanto specifico quanto incommensurabile, che è la danza. Tutti i diversi approcci di cui è protagonista l’oggetto coreico – da quello musicale a quello letterariofilologico, da quello storico-critico a quello ascrivibile agli studi di genere – mostrano la sua ricchezza e, dunque, l’impossibilità di ridurlo a una forma univoca oppure di esaurirlo attraverso un solo sguardo disciplinare. L’arte coreica è come un cristallo dalle mille facce di cui bisogna piuttosto investigare la geometria, cercando di tesserne infinitamente la rete di relazioni tra le differenti superfici e profondità. Le ragioni per cui il discorso scientifico si dimostra normalmente refrattario a una sua trattazione – ovvero il carattere evanescente, indefinito e corporeo della danza – devono diventare esse stesse nella loro problematicità e insolubilità l’oggetto di riflessione. La danza teatrale del Settecento costituisce un prezioso campo d’indagine per saggiare questo particolare taglio metodologico. Tanto l’estetico quanto la danza, infatti, vengono sondati per la prima volta in modo sistematico nella loro possibile unità e particolare pre1
Garroni, Senso e paradosso, cit., p. 40.
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gnanza semantica proprio a partire dal xviii secolo. Ciò sembra suggerire un’affinità tra disciplina estetica e coreologia ben più profonda di quella che si possa immaginare a prima vista, ma soprattutto pare richiedere un’adeguata considerazione della loro relazione e, nello specifico, del possibile apporto che il sapere e il metodo estetologico possono dare a quell’esigenza di organicità emersa dall’esame degli studi coreologici in campo settecentesco. 2. 2. Due “moderni” cerchi concentrici Il Settecento è il momento di autocoscienza teorica della modernità e ha nell’estetica un suo momento rivelativo. La disciplina estetica può considerarsi una “scienza moderna” 1 non perché prima non ci siano state indagini sul bello piuttosto che l’immaginazione, ma a partire dal xviii secolo un termine di uso comune come l’aggettivo “estetico” viene risemantizzato per indicare e difendere un ampio territorio dell’esperienza umana fino ad allora trascurato o per lo meno sottovalutato se paragonato a ciò che era di competenza della ragione scientifica. Il mondo delle qualità secondarie acquisisce una sua dignità e un suo posto. L’estetica nasce, infatti, da un’esigenza mediatrice da parte di un contesto culturale in cui si cerca di porre sul piano della ragione il mondo della contingenza e in cui, al tempo stesso, valori assoluti come quello della bellezza sono riportati a facoltà soggettive come il gusto. Non si tratta tanto di un programma quanto di una volontà filosofica che a prescindere dalle sue diverse declinazioni – molto spesso corrispondenti a macro-aree linguistico-culturali – tende a costruire orizzonti in cui possano confrontarsi diverse esperienze e visioni del mondo e che cerca così di reagire a interdetti e pratiche di rigetto che per secoli hanno monopolizzato il discorso scientifico-filosofico. 2 Come scrive Elio Franzini :
Il Settecento non è, in modo semplicistico, il secolo che tende sempre e comunque alla « ragione », a un intelletto astraente e separante, a un’eliminazione imperialistica dei pregiudizi, a un controllo spietato delle passioni. È, al contrario, e proprio perché si tratta di un secolo « illuminista », di un cosciente tentativo per comprendere tutti gli aspetti del « sistema dell’uomo », nei suoi rapporti organici e interpretativi con il sistema della natura e con le molteplici forme che esso può assumere. È il secolo in cui il sentimento, la passione, il sublime, il genio, il gusto, l’espressione, la sensibilità, l’immaginazione, la fantasia sono al centro della scienza, protagonisti in un duplice senso : da un lato se ne vuole comprendere il funzionamento, dall’altro se ne cerca un controllo che non è (come peraltro neppure era in Cartesio) loro annichilimento, bensì tentativo di trovare nell’oscuro una forza formativa, la possibilità di una genesi o di un senso comune metodologicamente organizzati e strutturati, ma non per questo privati di intrinseche possibilità distruttive, di implicazioni che conducono verso l’elogio dell’eccedenza. 3
Il Settecento rappresenta un secolo chiave anche per la danza. Accanto a quel processo di professionalizzazione che porta alla separazione del ballo sociale da quello teatrale si assiste a tutta una serie di innovazioni tecnico-coreografiche e dibattiti teorici che tendono a 1 A proposito dell’annosa questione circa la nascita dell’estetica – ovvero se si tratti di una scienza antica o moderna – si rimanda a M. Modica, Che cos’è l’estetica ?, Roma, Editori Riuniti, 1987. L’autore muove infatti da un’analisi di entrambe le ipotesi, al tempo stesso fuorvianti e veritiere, per tentare di ricostruire un profilo della disciplina estetica. 2 Per un’introduzione all’estetica del Settecento cfr. Storia dell’estetica occidentale. Da Omero alle neuroscienze, a cura di F. Desideri, C. Cantelli, cap. v : L’estetica del Settecento, Roma, Carocci, 2008, pp. 203-266 ; E. Franzini, L’estetica del Settecento, Bologna, Il Mulino, 2002 ; Idem, Elogio dell’Illuminismo, Milano, Bruno Mondadori, 2009. Si rimanda infine ai seguenti testi che, sebbene risalgano a cinquant’anni fa, costituiscono ancora oggi un prezioso termine di confronto : R. Assunto, Stagioni e ragioni nell’estetica del Settecento, Milano, Mursia, 1967 ; Idem, Verità e bellezza nelle estetiche e nelle poetiche dell’Italia neoclassica e preromantica, Roma, Quasar, 1984 ; E. Migliorini, Studi sul pensiero estetico del Settecento. Crousaz, Du Bos, André, Batteux, Diderot, Firenze, Il Fiorino, 1966. 3 Franzini, L’estetica del Settecento, cit., pp. 36-37.
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valorizzare la disciplina coreica sia rispetto alle semplici forme di divertimento o esercizio fisico a cui era solitamente ricondotta sia alle altre espressioni artistiche quali poesia o pittura. Anzitutto il crescente potere del nuovo ceto borghese tende a dislocare la danza dallo spazio ristretto della corte a quello del teatro : la forma coreica si trasforma così da mezzo di autorappresentazione nelle mani del sovrano e del potere nobiliare a spettacolo offerto a un pubblico pagante. In secondo luogo il particolare favore riscontrato dalla danza tra questo pubblico eterogeneo porta a un notevole incremento delle rappresentazioni coreiche nonché favorisce un loro progressivo distacco dalle altre forme artistiche a cui erano precedentemente unite e soprattutto sottoposte, in primis il teatro di parola. Questo innesca un processo di lenta maturazione e consolidamento teorico da parte della disciplina coreica. Scrive Flavia Pappacena :
Osservando nel complesso e nell’ordine di apparizione tutti gli studi e le sperimentazioni a partire dagli inizi del Settecento, si nota che essi sono inizialmente ascrivibili a tre fenomeni centrali nella storia del teatro francese della fine del xvii secolo : l’ammissione di figure professionali femminili nell’opera lirica e nel ballet de cour nel momento della sua trasformazione in spettacolo pubblico, il consolidarsi della linea classicistica nel teatro drammatico e l’interesse crescente e sempre più allargato per la letteratura classica, greca e romana. Da queste linee si sviluppa nel tempo una molteplicità di esperienze artistiche i cui snodi principali sono la ricerca espressiva personale, l’operazione culturalmente mirata di ricreazione dell’antica pantomima greca e romana, e la sperimentazione di brani danzati a struttura narrativa o esprimenti le passioni umane. Si nota, inoltre, che le più significative e lungimiranti innovazioni hanno luogo prevalentemente al di fuori dei canali ufficiali della danza francese, e solo alla fine, nella fase finale di formalizzazione e organizzazione esse approdano al mondo accademico parigino determinando una svolta radicale e permanente del gusto. 1
Questo processo di costruzione e consolidamento della disciplina coreica quale arte autonoma a tutti gli effetti è strettamente legato alle riflessioni estetiche prima richiamate. Il gesto, quale minimo comune denominatore di ogni forma di rappresentazione corporea, diviene infatti nel Settecento oggetto di intensa interrogazione da parte della ricerca filosofica. Basti pensare all’ampio spazio dedicato da Jean-Baptiste Du Bos al linguaggio gestuale nella nuova edizione delle sue Réflexions critiques sur la poësie et sur la peinture del 1733 2 e divenuto ben presto un termine di confronto ineludibile tanto per i teorici del ballet en action come Cahusac e Angiolini quanto per i filosofi successivi impegnati nella ridefinizione dello statuto dell’arte. Pensatori della statura di Batteux, Condillac, Diderot, Lessing ed Engel – solo per citare alcuni degli autori a cui gli stessi coreografi e teorici di danza del periodo fanno esplicito riferimento – cominciano a investigare il legame tra gesto e affettività recuperando così una portata significativa all’espressione corporea, fino a quel momento sottovalutata o ignorata in quanto non conforme ai criteri rappresentativi modellati sulla falsariga del linguaggio verbale. Ciò determina una riformulazione del concetto stesso di arte e, più in generale, del modello della conoscenza, ma soprattutto permette alla danza – in quanto “messa in scena del gesto” – di entrare a far parte di diritto all’interno di questo nuovo sistema del sapere in costruzione. 3 A fianco di questo riconoscimento teorico della danza da parte della riflessione estetica settecentesca, bisogna poi ricordare anche il particolare taglio speculativo che adottano gli stessi coreografi e riformatori della disciplina coreica. Cahusac tiene a precisare, ad esempio, come il suo trattato voglia distinguersi sia dai lavori storici di Bonnet 4 e Mé1
Pappacena, La danza classica, p. 62. Cfr. J. B. Du Bos, Réflexions critiques sur la poësie et sur la peinture, Paris, Pissot, 1770, tr. it. di M. Bellini, P. Vincenzi, Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura, a cura di M. Mazzocut-Mis, P. Vincenzi, Palermo, Aesthetica, 3 Cfr. infra, cap. iii, §§ 2-3. 2005. 4 Cfr. J. Bonnet, Histoire générale de la danse sacrée et profane, Paris, d’Houry fils, 1724, rist. anast. Bologna, Forni, 2
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nestrier sia da quelli più propriamente tecnici di maestri di ballo come Arbeau e Feuillet. Passi e figure di danza sono dati nel suo lavoro per scontati come la grammatica, ciò che egli propone è piuttosto « une espèce de poétique de cet art ». 2 Il confronto polemico con le riflessioni di Du Bos con cui egli introduce il suo lavoro piuttosto che il ricorrere frequente nella sua argomentazione di riferimenti tratti da filosofi antichi piuttosto che a lui contemporanei sono segnali espliciti di questa nuova volontà di investigare la danza : interrogarne forme e origini per poterne scoprire le possibilità artistiche. Da parte sua Angiolini accompagna il ballo pantomimo Don Juan del 1761 con un programma in cui dà testimonianza dei ragionamenti e delle idee che hanno guidato la realizzazione dell’opera. 3 Scritto o meno in collaborazione con Ranieri de’ Calzabigi, 4 questo testo mostra anzitutto l’attenzione da parte del coreografo al valore espressivo del linguaggio gestuale e alla scelta del soggetto da rappresentare ; in secondo luogo testimonia un’inedita ricerca in campo coreico che anticipa di ben un anno la più ampia e famosa riforma del melodramma. 5 Come precisa, infatti, il ballerino qualche anno più tardi : « Coi soli precetti non si fanno i lavori, anzi i precetti sono figli delle opere : e fino a tanto che queste non le sapremo scrivere, i balli pantomimi, o sia la 1
1972. Si veda inoltre J. R. Anthony, s.v. Bourdelot. (3) Jacques Bonnet, in The New Grove Dictionary Of Music and Musicians, cit., vol. iii, p. 110 ; F. Lesure, s.v. Bonnet, Jacques, in Enciclopedia dello spettacolo, cit., vol. ii, 1954, p. 786. 1 Cfr. C.-F. Ménestrier, Des ballets anciens et modernes selon les règles du théâtre, Paris, Guignard, 1682, rist. anast. Genève, Minkoff Reprint, 1972. Per un primo approfondimento cfr. A. Cohen, s.v. Menestrier, Claude-François, in The New Grove Dictionary of Music and Musicians, cit., vol. xii, pp. 161-162 ; G. Tani, s.v. Ménestrier, Claude François, in Enciclopedia dello spettacolo, cit., vol. vii, 1960, pp. 431-432. 2 Cahusac, La danse ancienne et moderne, cit., p. 41 (« una specie di poetica di quest’arte »). 3 Cfr. G. Angiolini, Le Festin de Pierre. Ballet pantomime, Vienne, Jean Thomas Trattner, 1761, rist. anast. in C. W. Gluck, Don Juan/Semiramis. Ballets Pantomimes von Gasparo Angiolini, in Idem, Sämtliche Werke, a cura di R. Engländer, Sezione ii : Tanzdramen, vol. i, Kassel, Barenreiter, 1966, pp. xxii-xxvii. 4 La paternità del programma è ancora oggetto di discussione tra gli studiosi. L’ipotesi forse più attendibile è che Angiolini abbia dato a Calzabigi l’incarico di dare una veste letteraria alle sue idee estetiche. Di conseguenza, pur se materialmente scritto dal letterato italiano, esso riflette il pensiero del coreografo. Per un approfondimento della questione si rimanda tuttavia a Bellina, I gesti parlanti, cit. ; Tozzi, Il balletto pantomimo del Settecento, cit., in particolare le pp. 65-67. 5 Come scrive Lorenzo Tozzi : « È altresì rilevante che il “Don Juan” preceda di un anno l’“Orfeo”, come a dire che la riforma del balletto viene prima, cronologicamente, della riforma del melodramma di cui l’ “Orfeo” è appunto la prima espressione. Anzi, nella riforma gluckiana il balletto ha una sua essenziale funzione drammatica, è necessario allo svolgimento così come la musica o il canto. Questa priorità cronologica del balletto sull’opera in musica non deve stupire, se, come si è visto, l’esigenza di rinnovamento del teatro di danza si va manifestando già sin dall’inizio del ’700, con un certo anticipo quindi nei confronti del teatro lirico, se, in una parola, il balletto sente il bisogno di rinnovarsi prima dell’opera per poi contribuire, una volta riaffermate le sue possibilità espressive, alla evoluzione dell’altro genere artistico » (ivi, pp. 64-65). Per una prima introduzione alla riforma di Gluck cfr : A. B. Brown, Gluck and the French Theatre in Vienna, Oxford, Clarendon, 1991 ; Christoph Willibald Gluck und die Opernreform, a cura di K. Hortschansky, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1989 ; A. Della Corte, Gluck e i suoi tempi, Firenze, Sansoni, 1948 ; Gluck in Wien, Kongressbericht Wien 12-16 novembre 1987, a cura di G. Croll, M. Woitas, Kassel, Barenreiter, 1989. Per un approfondimento del ruolo svolto da Gluck all’interno, invece, della riforma più specificatamente coreica cfr. : S. Dahms, Gluck und das Ballet en action in Wien, in Gluck in Wien, cit., pp. 100-105 ; Eadem, Anmerkungen zu den « Tanzdramen » Angiolinis und Noverres und zu deren Gattungsspezifik, in Kolloquiumsbericht der Gluck-Gesamtausgabe. Tanzdramen - Opéra-comique, a cura di G. Buschmeier, K. Hortschansky, Kassel, Bärenreiter, 2000, pp. 67-73 ; Eadem, Some Questions On the Original Version of Gluck and Angiolini’s Don Juan, « Dance Chronicle », xxx (2007), pp. 427-438 ; G. Gruber, Glucks Tanzdramen und ihre musikalische Dramatik, « Österreichische Musikzeitschriften », xxix (1974), pp. 17-24, ora in Christoph Willibald Gluck und die Opernreform, cit., pp. 273-285 ; R. Haas, Die Wiener Ballet-pantomime im 18. Jahrhundert und Glucks « Don Juan », « Studien zur Musikwissenschaft », x (1923), pp. 6-36 ; C. Russell, The Libertine Reformed : “Don Juan” by Gluck and Angiolini, « Music & Letters », lxv (1984), 1, pp. 17-27 ; Testa, Il binomio Gluck-Angiolini e la realizzazione del balletto Don Juan. Si rimanda inoltre a D. Heartz, From Garrick to Gluck : The Reform of Theatre and Opera in the mid-Eighteenth Century, in Proceedings of the Royal Musical Association, vol. xciv, London, The Royal Musical Association, 1967-1968, pp. 111-127, ora in Christoph Willibald Gluck und die Opernreform, a cura di K. Hortschansky, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1989, pp. 200-222.
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danza imitativa della bella natura, non occuperà giammai quel posto che le conviene, non sarà giammai perfezionata, né sarà cosa certa né arte sicura ». 1 Noverre, infine, rimproverando l’incapacità di gran parte dei suoi colleghi a far progredire la disciplina coreica e insistendo sulla categoria “arte” nei suoi scritti, tende a far emergere, per converso, la particolare direttrice investigativa da lui perseguita :
La Danse & les Ballets sont aujourd’hui, Monsieur, la folie du jour ; ils sont suivis avec une espèce de fureur, & jamais Art ne fut plus encouragé par les applaudissement que le nôtre. [...] Le goût vif & déterminé pour les Ballets est général ; tous les Souverains en décorent leurs Spectacles, moins pour se modeler d’après nos usages, que pour satisfaire au plaisir que procure cet Art. [...] L’indulgence avec laquelle le Public applaudit à de simples ébauches, devrait, ce me semble, engager l’Artiste à chercher la perfection. Les éloges doivent encourager & non éblouir au point de persuader qu’on a tout fait & qu’on a atteint au but auquel on peut parvenir. La sécurité de la plupart des Maîtres, le peu de soin qu’ils se donnent pour aller plus loin, me feraient soupçonner qu’ils imaginent qu’il n’est rien au-delà de ce qu’ils savent, & qu’ils touchent aux bornes de l’Art. 2
Oltre agli intenti programmatici dei riformatori della danza vi è poi il riconoscimento del loro lavoro da parte degli stessi filosofi del periodo a provare il nuovo taglio dato al discorso coreologico. La figura di Noverre rappresenta in quest’ottica una figura chiave proprio per l’attenzione che gli viene riservata sin dalla pubblicazione della sua maggiore opera teorica : a partire da Lessing – che insieme a Bode si occupa nel 1769 di tradurre in tedesco il lavoro del coreografo 3 – fino ad arrivare all’inserimento di alcune tra le pagine più significative delle Lettres all’interno della sezione Danse di un volume dell’Encyclopédie methodique. 4 La ragione di una simile considerazione dell’opera noverriana da parte della ricerca filosofica del tempo è espressa incisivamente da Johann Georg Sulzer nella voce Ballet della Allgemeine Theorie der schönen Künste :
Man ist zwar gewohnt, jedem figurirten Tanz auf der Schaubühne den Namen des Ballets zu geben ; aber hierüber verdient Noverre, der seine Kunst mit dem Auge eines Philosophen beleuchtet, gehört zu werden. Er hält jeden Tanz, der nicht eine bestimmte Handlung mit Verwiklungen und Auflösungen deutlich und ohne Verwirrung vorstellt, für eine bloße Lustbarkeit. 5
1 G. Angiolini, Lettere di Gasparo Angiolini a Monsieur Noverre sopra i Balli Pantomimi (Milano, Gio. Batista Bianchi, 1773), in Il ballo pantomimo, cit., pp. 49-88, qui lettera i, p. 56. 2 Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., pp. 46-49 (« La danza e il balletto sono oggi, Signore, la follia del giorno ; essi sono seguiti con una specie di furore, e mai vi fu arte più incoraggiata dal plauso della nostra. [...] L’interesse vivo e risoluto per i balletti è generale ; tutti i sovrani ne ornano i loro spettacoli, meno per conformarsi ai nostri usi che per riconoscere che quest’arte procura gioia. [...] L’indulgenza con cui il pubblico applaude semplici abbozzi di danze dovrebbe, mi sembra, impegnare l’artista, alla ricerca della perfezione. Gli elogi dovrebbero incoraggiare e non abbagliare al punto di persuadere che si è raggiunto il massimo grado cui è possibile pervenire. La sicurezza della maggior parte dei maestri, la poca cura che si danno per spingersi più oltre, mi farebbe sospettare in essi il pensiero che nulla vi è al di là di ciò che sanno e che essi toccano i confini dell’arte » Idem, Lettere sulla danza, cit., pp. 31-32). A proposito del particolare taglio speculativo adottato dai riformatori della danza, si avrà modo di illustrarne ampiamente modalità, ragioni ed effetti nel corso del lavoro (cfr. in particolare infra, cap. ii, § 1 e cap. iii, §§ 1-2). 3 Cfr. Idem, Briefe über die Tanzkunst und über die Ballette, tr. ted. di J. J. C. Bode, G. E. Lessing, Hamburg-Bremen, Cramer, 1769, rist. anast. con postfazione e bibliografia a cura di K. Petermann, « Documenta Choreologica », vol. xv, Leipzig, Zentralantiquariat der Deutschen Demokratischen Republik, 1977. 4 Cfr. Encyclopédie méthodique. Nouvele édition enrichie de remarques dédiée à la sérénissime République de Venise, vol. Équitation, escrime, danse, et l’art de nager, Padoue 1787, in particolare le pp. 335-455. Quest’opera in più tomi rappresenta un aggiornamento e una risistemazione per materie dell’enciclopedia alfabetica realizzata da Diderot e d’Alembert qualche anno prima. Come si legge nelle pagine introduttive del volume in oggetto (ivi, p. viii), le voci della sezione coreica sono ricavate, oltre che dalla lettere di Noverre, dai trattati di Rameau e Cahusac. Ciò che è, tuttavia, interessante sottolineare è come gli articoli a carattere maggiormente teorico siano tratti proprio dal lavoro del coreografo francese : basti pensare al paragrafo De l’essence des ballets, all’interno della voce Bal (cfr. ivi, pp. 363-364), diretta ripresa dell’incipit delle Lettres del 1760. 5 J. G. Sulzer, s.v. Ballet, in Idem, Allgemeine Theorie der schönen Künste in einzelnen, nach alphabetischer Ordnung der Kunstwörter aufeinanderfolgenden, Artikeln abgehandelt, Leipzig, in der Weid mannschen Buchhandlung, vol. I,
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Lo sguardo di Noverre è considerato “filosofico” perché – riprendendo l’ampio spettro semantico messo in campo dal verbo beleuchten – è capace di rischiarare l’arte della danza. Esso non si limita a descriverla ma a intrecciarla e confrontarla con le altre Muse interrogandone i fini e mezzi specifici. Inoltre, mettendo in discussione la disciplina coreica a partire dai suoi fondamenti teorici costitutivi, il coreografo è capace di illuminare non soltanto specificità proprie della danza stessa, ma anche regioni dell’esperienza tanto artistica quanto conoscitiva ancora inesplorate. La struttura portante della sua opera del 1760 lo chiarisce. La maggior parte delle lettere sono sviluppate intorno a un tema preciso – si tratti della scelta del soggetto o della composizione di un balletto o ancora delle conoscenze necessarie per un buon maestro di ballo – e seguono un tipo di argomentazione che, muovendo da una descrizione e critica della danza del tempo, ne mette in discussione i difetti ma anche le potenzialità attraverso un confronto con i progressi delle altre arti ma soprattutto con i loro principi teorici – già da tempo formulati e discussi da artisti, teorici e filosofi. L’opera di Noverre, inevitabilmente focalizzata sulla questione della rappresentazione gestuale, diviene così a sua volta termine di confronto per le altre arti e riflessioni teoriche che si trovino a intrecciare l’espressione corporea. Basti pensare all’attenzione – seppure critica – che gli riserva Engel nel suo trattato sull’arte della recitazione 1 oppure al titolo che nel 1807 il coreografo dà al corpus riorganizzato delle sue lettere: Lettres sur les Arts imitateurs en général et sur la Danse en particulier. Da questo rapido richiamo alle principali direttrici di intersezione tra discorso filosofico e coreologico nel Settecento, l’estetica e la danza emergono quali cerchi concentrici di cui il primo comprende l’altro ma al tempo stesso il secondo esibisce il primo. Da una parte la riforma coreica che vede trasformarsi la danza da puro intrattenimento a spettacolo compiuto, anticipando così quello che sarà il balletto romantico, non sarebbe stata possibile senza quell’opera di valorizzazione dell’esperienza sensibile che caratterizza il sapere del xviii secolo. Solo in virtù della “grande catena dell’essere” 2 – ovvero di quella che, per parafrasare le parole di un filosofo particolarmente vicino alla scena teatrale, Joseph Addison, rappresenta il graduale processo e la prodigiosa varietà di specie del mondo della vita 3 – il pensiero settecentesco recupera le regioni più oscure del soggetto. Il corpo in movimento può venire illuminato tanto dagli occhi dei teorici quanto dai riflettori del palcoscenico perché esso, nonostante la sua inafferrabilità da parte della pura ragione, fa parte del gran teatro della natura e trova per la prima volta, grazie alla riflessione estetica, un apparato di termini e concetti per essere espresso. Al tempo stesso queste riflessioni di natura estetologica avrebbero perso forse importanti motivi di stimolo ed esemplificazione senza le innovazioni e i capolavori in campo coreico. Basti pensare, ancora una volta, all’importanza ricoperta nelle riflessioni di Du Bos dall’analisi della pantomima antica piuttosto che di alcune sue rielaborazioni coreiche di inizio Settecen1792, ripr. anast. Hildesheim, Olms, vol. i, 1970, pp. 289-296, qui p. 289 (« Si è abituati a dare il nome di balletto a ogni danza figurata sul palcoscenico ; ma a tal proposito Noverre – che analizza la sua arte con l’occhio di un filosofo – merita di essere ascoltato. Egli considera come un mero divertimento ogni danza che non rappresenti un’azione precisa con intrighi e soluzioni in modo chiaro e senza confusione »). 1 Cfr. J. J. Engel, Ideen zu einer Mimik, Berlin, August Mylius, 1785-86, 2 tt., rist. anast. Hildesheim, Olms, 1968 ; tr. it. di G. Rasori, Lettere intorno alla mimica, Milano, Giovanni Pirrotta, 1818-1819, 2 tt., rist. anast. Roma, E&A, 1993. Cfr. in particolare le lettere xxix-xxxii, t. ii, pp. 15-50. 2 Per un approfondimento di questo concetto cfr. A. O. Lovejoy, The Great Chain of Being. A Study of the History of an Idea, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1936, tr. it. di L. Formigari, La grande catena dell’essere, Milano, Feltrinelli, 1981. 3 Cfr. quanto scrive Addison il 25 ottobre 1712 su « The Spectator », la rivista diretta da lui e Richard Steele (ora in J. Addison, R. Steele, The Spectator, ed. a cura di G. G. Smith, London-New York, Dent-Dutton, 1958, vol. iv, pp. 136-139).
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to – come la messa in scena del quarto atto dell’Horace di Corneille durante le Grandes Nuits al castello di Sceaux (1714-1715) 1 – oppure agli studi di Condillac sull’origine delle conoscenze umane così influenzati dall’indagine del langage d’action 2 o, ancora, al ruolo essenziale ricoperto dalla danza, a fianco della musica, nello slittamento del paradigma mimetico dell’arte in termini espressivi a partire dalla riflessione di Batteux 3 fino ad arrivare alle soglie del Romanticismo. Pur sempre in balia di quella dialettica tra inclusione ed esclusione di cui è stato precedentemente detto, 4 la danza entra nel Settecento a tutti gli effetti nella sfera dell’arte e, dunque, diventa oggetto di studio e interrogazione. Nessuna riflessione estetica successiva di natura sistematica può a quel punto esimersi da un accenno, seppur fugace, alla disciplina coreica : a partire da Kant che la descrive quale « gioco delle sensazioni di una musica con il gioco delle figure » 5 fino a Hegel che, tuttavia, la annovera tra le « arti imperfette ». 6 Questo stretto legame che unisce danza ed estetica nel xviii secolo può trovare, infine, un’ulteriore chiave esplicativa nel testo di Baumgarten del 1750 sopra ricordato. La definizione di estetica prima citata è seguita infatti al § 14 da un’ulteriore delucidazione : « Fine dell’estetica è la perfezione della conoscenza sensibile, in quanto tale. E questa è la bellezza ». 7 Se la definizione con cui il filosofo apre la sua argomentazione prospetta l’orizzonte problematico dell’estetica – per quanto esso sia ampio e complesso – questa successiva spiegazione apre alla sua concreta articolazione tematica. La bellezza è qui descritta come la perfezione dell’interconnessione che si realizza tra elementi rappresentativi sensibili. Essa costituisce la manifestazione più compiuta della particolare razionalità dell’analogon rationis. Pur incapace di distinguere analiticamente i singoli caratteri propri di un oggetto piuttosto che i nessi particolari, essa è così chiara da riuscire a far percepire globalmente l’insieme unitario. La danza, in quanto arte, si offre quale possibile esemplificazione della bellezza. A metà tra l’ambito oscuro e indistinto delle mere sensazioni e quello lucido e distinto della ragione, essa è capace di esprimere l’unità nella molteplicità e, più nello specifico, di mettere in luce in modo organico quella vasta regione dell’esperienza immediata che il secolo dei Lumi vuole recuperare. Al di là infatti degli stereotipi che si sono diffusi sul Settecento o delle diverse correnti di pensiero che lo percorrono, la cultura illuminista è mossa essenzialmente dal desiderio di cogliere “le cose stesse”, di liberarsi da modalità di avvicinamento e lettura del mondo ritenute ormai pregiudiziali e fuorvianti e di trovare possibilità alternative per formare, articolare e presentare il nuovo sapere. Riuscire a inserire la danza all’interno di questo sistema rappresentativo in trasformazione significa, dunque, cogliere il profilo essenziale della disciplina e, al tempo stesso, avere accesso da una prospettiva privilegiata a questioni teoriche di primo piano per l’estetica settecentesca.
2. 3. Il fuoco d’indagine : la mimesi della natura
Il problema della rappresentazione è al centro della cultura illuministica in tutte le sue forme ed espressioni. Tanto nell’arte quanto nella scienza così come nella vita di società l’esigenza che si avverte è quella di riuscire a riorganizzare il sistema del sapere, di riuscire a portar a 1
Cfr. Du Bos, Réflexions critiques, cit., pp. 458-459. Cfr. in particolare É. B. de Condillac, Essai sur l’origine des connaissances humaines, Amsterdam, Mortier, 1746, tr. it. di G. Viano, Saggio sull’origine delle conoscenze umane, in Opere, introduzione di C. A. Viano, Torino, utet, 1976, pp. 79-336. 3 Cfr. in particolare C. Batteux, Les Beaux-Arts réduits à un même principe, Paris, Durand, 1746, tr. it. di E. Migliorini, I. Torrigiani, F. Vianovi, Le belle arti ricondotte a unico principio, Palermo, Aesthetica, 2002. 4 Cfr. supra, cap. i, § 1.1. 5 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, Berlin, F.T. Lagarde, 1793, tr. it. di E. Garroni, H. Hohenegger, Critica della facoltà di giudizio, Torino, Einaudi, 1999, § 52, p. 161. 6 Cfr. G. W. F. Hegel, Ästhetik, ed. a cura di F. Bassenge, Berlin, Auf bau, 1955, tr. it. di N. Merker, N. Vaccaro, 7 Baumgarten, L’Estetica, cit., § 14, p. 29. Estetica, Milano, Feltrinelli, 1963, p. 828. 2
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presenza contenuti esterni e interni all’uomo dando loro una forma cognitiva appropriata. La lenta ma inesorabile revisione del paradigma fondamentale che regola il mondo dell’arte moderna, ovvero la mimesi della natura, rappresenta una lente d’ingrandimento preziosa per osservare questo fenomeno. In questa espressione sono infatti in gioco due concetti polimorfi – legati da una relazione altrettanto mutevole – che occupano un ruolo centrale non soltanto nella sfera artistica ma in tutta la cultura settecentesca e rappresentano termini chiave – fondanti – della più ampia tradizione occidentale. Si pensi alla mimesi. 1 Questo concetto affonda le sue radici nei riti e nei misteri del culto dionisiaco, dove indica la danza rituale attraverso cui viene rappresentato il farsi evento del Dio e viene intessuta una sorta di omogeneità emotiva tra il mimo e lo spettatore che partecipa alla rivelazione del sacro. 2 Solo più tardi vengono via via enucleate e consolidate in seno alla mimesi stessa diverse soluzioni – spesso anche antitetiche – legate al problema della natura dell’arte : da quella platonica, che vede l’opera artistica come una copia due volte distante dal modello vero ; a quella aristotelica, che ne mostra il carattere selettivo e la realtà non necessaria bensì possibile ; sino a quella plotiniana, che considera l’arte frutto non di un atto imitativo ma del farsi concreto dell’intellegibile. 3 Come ha messo efficacemente in luce Christoph Wulf, 4 tuttavia, la mimesi è un concetto molto più complesso di quanto qualsiasi interpretazione o sintesi storica sia in grado di mostrare o ricostruire. Anzitutto essa significa non soltanto “imitare” ma anche “esprimere”, “portare a raffigurazione”, “rendersi somigliante” e “anticipare mimeticamente”. La mimesi è in grado di coprire uno spettro semantico così ampio e multiforme perché tra oggetto imitato e colui che imita possono instaurarsi dinamiche relazionali molto varie, legate sia alla natura dei diversi termini in gioco sia alla particolare azione che li unisce. Si può dare, ad esempio, mimesi tra una realtà data e una rappresentata, ma ci può essere imitazione di qualcosa anche di per sé non dato, come nel caso di un mito : esso è sempre all’interno di una rappresentazione sebbene alla sua base non ci sia alcun modello noto. Nel caso del simbolo, poi, si ha a che fare non soltanto con una relazione imitativa : esso crea qualcosa di originale che non può essere spiegato riferendosi a un dato, ma che rinvia a un intero che sta al di fuori e comprende il simbolo stesso. Un altro motivo di fraintendimento della mimesi messo in luce da Wulf è la riduzione della sua sfera d’azione al solo mondo dell’arte. La facoltà mimetica gioca un ruolo essen
1 Per un inquadramento storico e critico del concetto si rimanda a : R. Assunto, s.v. Mimesi, in Enciclopedia universale dell’arte, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione culturale, vol. ix, 1963, coll. 333-357 ; F. Bollino, Derive della mimesis. Il nesso imitazione-espressione fra Batteux e Kant, « Studi di estetica », xi-xii (1995), pp. 85-136 ; Mimesis, n. mon. « Studi di estetica », vii/viii (1993) ; M. Modica, s.v. Imitazione, in Enciclopedia, vol. vii, Torino, Einaudi, 1979, pp. 3-40 ; Poetiche della Mimesis, n. mon. « Studi di estetica », x (1994). Vista la stretta correlazione tra i concetti di mimesi, imitazione ed espressione cfr. inoltre C. Cappelletto, E. Franzini, Estetica dell’espressione, Firenze, Le Monnier, 1995 ; L’expression, n. mon. « Revue Internationale de Philosophie », xvi (1962), 1 (si rimanda in particolare a W. Tatarkiewicz, Les variétés de l’expression, in L’expression, cit., pp. 75-89). Per una prima introduzione al problema della mimesi in danza cfr. C. Jeschke, Imitatio und Mimesis. Wirkung und Aussage in den Tanzkonzepten vom 16. bis zum Beginn des 20. Jahrhunderts, in Ausdruckstanz. Eine mitteleuropäische Bewegung der ersten Hälfte des 20. Jahrhunderts, Symposiumsbericht Thurnau 1987, a cura di G. Oberzaucher-Schüller, Wilhelmshaven, Noetzel, 1992, pp. 143-153. 2 Per un’introduzione al concetto di mimesi nell’antichità cfr. G. Carchia, L’estetica antica, Laterza, Roma-Bari, 1999, pp. 28-47 e H. Koller, Die Mimesis in der Antike : Nachahmung, Darstellung, Ausdruck, Bern, Francke, 1954. 3 Questa tripartizione – lungi dal rispecchiare la varietà e complessità di posizioni a riguardo della mimesi anche all’interno del pensiero di un medesimo autore – va intesa a livello puramente orientativo ed esemplificativo. Per un primo approfondimento della questione mimetica nell’arte si rimanda quindi a W. Tatarkiewicz, Dzieje sześciu poięć, Warszawa, pwn, 1975, tr. it. di O. Burba, K. Jaworska, Storia di sei idee, Palermo, Aesthetica, 2004, in particolare il cap. ix : L’imitazione. Storia del rapporto dell’arte con la realtà, pp. 273-294 e il cap. x : L’Imitazione : storia del rapporto dell’arte con la natura e con la verità, pp. 295-311. 4 Cfr. C. Wulf, s.v. Mimesis, in Cosmo, corpo, cultura. Enciclopedia antropologica, a cura di Idem, ed. it. a cura di A. Borsari, Milano, Bruno Mondadori, 2002, pp. 1039-1053.
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ziale in ogni aspetto della vita attiva – tanto teorica quanto pratica – dell’uomo. Come emerge chiaramente sin dalle origini dionisiache del termine prima ricordate, essa mette in gioco il corpo, il linguaggio, l’immaginazione e rappresenta la modalità fondamentale con cui l’uomo entra in relazione con l’altro da sé. Aristotele sintetizza efficacemente il problema con queste parole : « Nell’uomo, fin dall’infanzia, è innato l’imitare : in questo differisce dagli altri animali, perché è il più imitativo e mediante imitazione opera le prime conoscenze ; inoltre è innato che tutti si dilettino delle imitazioni ». 1 Rispetto a una tale ampiezza e profondità di orizzonti ogni lettura della mimesi finisce per risultare inevitabilmente riduttiva. Non potendo riflettere tutta la complessità del concetto – e a tratti anche la contraddittorietà – qualsiasi interpretazione si limita a privilegiarne solo uno o più aspetti. Una simile impasse è subito evidente se si ricordano alcune tra la più famose letture date nel Novecento : ciascuna di esse non solo adotta un taglio e una prospettiva specifica ma tende a considerare un singolo carattere della mimesi, spesso contrapponendolo ad aspetti che rientrano semplicemente in una visione più ampia e organica della nozione stessa. Basti pensare a quella di Hans Blumenberg 2 – che legge il concetto in opposizione alla creatività originaria – passando per quella di Erich Auerbach 3 – che analizza la varietà di rappresentazioni della realtà che si danno in letteratura – fino ad arrivare a quella di René Girard 4 – che trova nel carattere mimetico del desiderio la legge del comportamento umano e nel sacrificio l’unica via d’uscita alla sua violenza – o, ancora, al lavoro di Christoph Wulf e Gunter Gebauer, 5 teso a mostrare i diversi modelli di mimesi succedutesi nella storia illustrandone principalmente le cause, i legami e gli effetti sociali. Di fronte a un simile nodo gorgiano una chance possibile è quella di collocare il problema all’interno di uno specifico campo spazio-temporale di apparizione. L’Europa del Settecento rappresenta un terreno investigativo doppiamente interessante. Anzitutto essa permette di cogliere all’opera quei mutamenti in cui la danza teatrale si inscrive ; in secondo luogo essa consente di mettere a tema proprio alcune delle principali aporie che hanno contraddistinto la mimesi dall’antichità sino a oggi. All’interno del dibattito settecentesco sull’arte, infatti, il paradigma rappresentativo classico subisce un processo di lenta trasformazione che, sebbene lasci inalterata la formula, in realtà la riempie progressivamente di nuovi contenuti rispetto a quelli sedimentatisi nel secolo precedente : le diverse interpretazioni che ne vengono date oscillano tra la mera copia dell’immagine e l’espressione dei caratteri, tra la riproduzione meccanica di un’idea e quella dei processi, tra la fedeltà al vero e l’aristotelica produzione del verosimile. Questa polisemia della nozione moderna di imitazione è stata conseguentemente oggetto di diverse letture da parte della storiografia : basti pensare a Croce che ne parla in termini di « guazzabuglio » 6 oppure a Fubini che tende a metterne in luce l’« ambiguità ». 7 A prescindere, tuttavia, dai diversi giudizi di valore o distinzioni storico
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Aristotele, Poetica, 1448b 5-9, a cura di A. Barabino, Milano, Mondadori, 1999, p. 9. Cfr. H. Blumenberg, “Nachahmung der Natur”. Zur Vorgeschichte der Idee des schöpferischen Menschen, in Idem, Wirklichkeiten in denen wir leben. Aufsätze und eine Rede, Stuttgart, Reclam, 1981, pp. 55-103 ; tr. it. di M. Cometa, “Mimesi della natura” sulla preistoria dell’idea dell’uomo creativo, in H. Blumenberg, Le realtà in cui viviamo, Milano, Feltrinelli, 1987, pp. 50-84. 3 Cfr. E. Auerbach, Mimesis : dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, Bern, Francke, 1946, tr. it. di A. Romagnoli, H. Hinterhäuser, Mimesis : il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Einaudi, 1956. 4 I testi in cui Girard tematizza e dipana la matassa della mimesi sono molti. Ci si limita qui a ricordare i due più famosi : R. Girard, Mensonge romantique et vérité romanesque, Paris, Grasset, 1961, tr. it. di L. Verdi-Vighetti, Menzogna romantica e verità romanzesca, Milano, Bompiani, 1981 ; Idem, La violence et le sacré, Paris, Grasset, 1972, tr. it. di O. Fatica, E. Czerkl, La violenza e il sacro, Milano, Adelphi, 2003. 5 Cfr. G. Gebauer, C. Wulf, Mimesis : Kultur, Kunst, Gesellschaft, Reinbeck bei Hamburg, Rowohlt, 1992. 6 B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale : teoria e storia (1902), a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1990, cap. vii, p. 326. 7 E. Fubini, Gli enciclopedisti e la musica, Torino, Einaudi, 1971, p. 19. 2
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critiche che possono essere elaborati in proposito, un simile ripensamento in seno alla ricerca e riflessione artistica sulla mimesi conosce due momenti di svolta fondamentali : l’uno riguarda il diverso significato attribuito al concetto di natura, l’altro è relativo all’inedita attenzione riservata ai mezzi rappresentativi all’interno della realizzazione dell’opera d’arte. Per quanto riguarda il concetto di natura – analogamente a quanto visto per quello di mimesi – non è possibile fornire alcuna spiegazione univoca ed esaustiva. Un prezioso fil rouge sembra però legare tutte le diverse letture che ne vengono elaborate nel Settecento, ovvero il fatto che ciascuna di esse costruisca la propria idea di natura in stretta relazione con un soggetto specifico : l’uomo. Un rapido sguardo alle principali linee interpretative che attraversano tutta la prima metà del secolo lo dimostra. Anzitutto, riprendendo il magistero di Gottsched fino ad arrivare alla lezione di Batteux, si ricorda la lettura – a metà strada tra platonismo e cartesianesimo – che vede nel mondo della natura la rappresentazione di un ordine più alto di cui l’uomo fa parte e che è riconducibile alla ragione. 1 Accanto a questa interpretazione si può poi menzionare quella che viene emblematicamente identificata col pensiero di Rousseau, ovvero la contrapposizione del concetto di natura a quello di cultura : stretto nella morsa di regole, credenze e usi che fondano il tessuto della società, l’uomo proietta se stesso e le proprie aspirazioni in un utopico stato primigenio inteso come complesso di fattori fisici, chimici e biologici svincolati da ogni sovrastruttura e dunque depositario di libertà. 2 Infine rimane un ultimo e variegato filone di pensiero che non riconduce il modello naturale né a un sistema di pensiero rigidamente razionale né a una condizione primitiva dell’esistenza bensì a oggetti e fatti concreti, ossia alla vita empirica del mondo e dell’essere umano : è il caso di filosofi come Du Bos, Burke o Addison, nella cui riflessione estetica l’ideale assume i contorni del possibile. 3 All’interno di queste diverse e talora opposte concezioni, si può poi riscontrare un ulteriore tratto comune : il lento e inesorabile processo di interiorizzazione del concetto di natura. Pensato e pensabile solo in relazione al soggetto umano, il modello naturale passa progressivamente dai contorni di un’entità esterna all’uomo – si tratti di un’idea di stampo platonico piuttosto che di un’utopia o ancora di un oggetto concreto – ai colori della sua vita intima, di quelle passioni e sentimenti che trovano la loro prima, organica e approfondita considerazione proprio nel Settecento. I vari dibattiti sul teatro e sulla sua riforma – che vanno dalla polemica che divide Rousseau da d’Alembert e i philosophes sino agli scritti teatrali di Diderot e Lessing 4 – costituiscono un’insostituibile cartina di tornasole per saggiare questa trasformazione. Lo scontro sull’opportunità o meno del teatro quale mediazione culturale piuttosto che la contraddizione rilevata in seno alla figura dell’attore – diviso tra una necessaria immedesimazione nel personaggio e, al tempo stesso, un opportuno distacco da esso e dalle sue emozioni – non sono che alcuni dei temi su cui i filosofi del tempo si trovano a discutere modalità e difficoltà connesse all’espressione dei sentimenti. L’esigenza di una rappresentazione naturale tesa a scoprire il cuore dell’uomo si scontra, infatti, con
1 Si avrà modo di avvicinare questa complessa e variegata corrente di pensiero analizzando più nel dettaglio l’opera di Batteux (per diverse ragioni intrecciata alla storia del ballo pantomimo) : cfr. infra, cap. ii, § 3.1. 2 Questa lettura non sarà oggetto di approfondimento in questa sede. La concezione “naturalistica” proposta dal filosofo francese contrasta infatti col carattere inevitabilmente teatrale (ovvero ri-presentativo) di spettacoli come il ballo pantomimo (cfr. a tal proposito infra, cap. iii, § 3.2.). 3 Si approfondirà questa posizione più nel dettaglio successivamente, in particolare attraverso le riflessioni sviluppate da Du Bos sulla danza e la pantomima (cfr. infra, cap. ii, § 2.1.). 4 Per un’introduzione al teatro e ai dibattiti ad esso legati nel xviii secolo cfr. Heeg, Das phantasma der natürlichen Gestalt, cit. ; Il teatro dell’Illuminismo, a cura di A. Calzolari, Firenze, Vallecchi, 1981 ; H. Kindermann, Theatergeschichte der Goethezeit, Wien, Bauer, 1948 ; E. Franzini, Il teatro, la festa, la rivoluzione. Su Rousseau e gli enciclopedisti, « Aesthetica Preprint », lxv (2002) ; Schauspielkunst im 18. Jahrhundert, cit. ; Theater im Kulturwandel des 18. Jahrunderts, a cura di E. Fischer-Lichte, J. Schönert, Göttingen, Wallstein, 1999 ; Tessari, Teatro e spettacolo nel Settecento, cit.
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la necessità di leggi compensative in grado di presentare un tale contenuto di verità, ormai innegabile per la cultura settecentesca ma pur sempre “informe” ed estraneo alla logica del pensiero dominante. Una simile centralità della figura umana investe campi artistici anche estranei al mondo della scena, ma soprattutto condiziona le riflessioni non solo sulla creazione bensì anche sulla ricezione dell’opera d’arte. Basti ricordare il ruolo determinante giocato da un minuscolo libretto intitolato Gedanken über die Nachahmung der Griechischen Wercke in der Mahlerey und Bildhauer-kunst, pubblicato in forma anonima da Johann Joachim Winckelmann nel 1755. 1 Frutto di anni di studio e di interessi tra i più eclettici, l’opera del bibliotecario sassone diviene un impulso e un termine di confronto per le più importanti speculazioni dell’epoca : da quelle di Mendelssohn, Lessing, Herder e Goethe fino ai lavori di Moritz, Schelling, Schlegel e Hegel. Distante dal culto idolatrico della natura perpetuato da Gottsched, Winckelmann considera l’arte non una mera occasione per riflessioni che la trascendono né quale esemplificazione di una metafisica o di una pura tecnica. L’arte è ritenuta l’elemento primario di un’esperienza insostituibile che investe tutti i sensi e le facoltà dell’uomo. La corporeità del soggetto umano diviene così non solo il fine della rappresentazione ma anche il mezzo per recepirla e giudicarla. La risemantizzazione del termine natura – associata a questo nuovo modo d’intendere l’esperienza artistica da parte dello spettatore – determina inevitabilmente una nuova calibratura del concetto stesso di mimesi, soprattutto rispetto alla definizione classicista fissata da Nicolas Boileau-Despréaux un secolo prima. Nella sua Art poétique (1674), il noto poeta e critico aveva sancito l’uguaglianza tra natura, ragione e norma ovvero aveva sostenuto l’esistenza di forme ideali e razionali che all’artista non rimaneva che riconoscere e riprodurre dando loro un apparenza piacevole. Nella seconda metà del Settecento una simile concezione perde progressivamente forza e credibilità. Anzitutto diventa sempre più evidente il potere delle strutture sociali e delle norme morali nella decodificazione e rappresentazione della realtà. In secondo luogo la nuova dimensione soggettiva tanto del concetto di natura quanto della fruizione artistica espone la mimesi alla mutevolezza ed equivocità di cui sensazioni ed emozioni sono intessute. L’aderenza alla realtà che continua a venir perseguita si dinamizza e complica in modo direttamente proporzionale alla mobilità e articolazione tanto del suo referente come del suo spettatore. Come sintetizza efficacemente Enrico Fubini :
Nel Seicento il termine natura è per lo più usato come sinonimo di ragione e verità, e il termine imitazione per indicare il procedimento che abbellirà e renderà più accetta e piacevole la verità di ragione. Ma nella seconda metà del Settecento quasi paradossalmente troveremo usato il termine natura quale sinonimo di sentimento, di spontaneità, di espressività, e il termine imitazione per indicare la coerenza e la verità drammatica, il legame dell’arte con la realtà. 2
Il secondo momento fondamentale nella ridefinizione del concetto di mimesi riguarda l’attenzione che, a partire da metà Settecento, comincia a venir prestata ai mezzi della creazione artistica. Fino ad allora il perno della riflessione e anche della ricerca artistica ruotava attorno al modello da imitare, inteso tanto come motivo ispiratore quanto come risultato finale. Ulteriori temi di interrogazione potevano riguardare le regole teoriche che si dovevano seguire nella scelta e nella riproduzione dei modelli, ma non vi era alcun interesse di natura teorica per la parte più propriamente materiale del lavoro, ovvero per le tecniche e gli strumenti specifici attraverso cui ogni arte attuava concretamente la mimesi. La ragione di un simile disconoscimento è implicitamente racchiusa nel secondo paradig1 J. J. Winckelmann, Gedanken über die Nachahmung der Griechischen Wercke in der Mahlerey und Bildhauer-kunst (1755), ed. it. a cura di M. Cometa, Pensieri sull’Imitazione, Palermo, Aesthetica, 2001. 2 E. Fubini, L’estetica musicale dal Settecento a oggi, Torino, Einaudi, 2001, p. 21.
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ma fondamentale dell’arte moderna : l’ut pictura poësis. 1 Questa formula risale a un famoso passo dell’Ars poetica in cui Orazio stabilisce un parallelismo occasionale tra le due arti : vi sono dipinti e poesie che si comportano similmente nel momento in cui li si fruisce – a distanza più o meno ravvicinata, a seconda dell’acribia critica oppure di quante volte ci si accosta ad essi. A causa, tuttavia, della vaghezza di questa formula e della necessità da parte delle discipline figurative di emanciparsi dalla condizione di arti servili, a partire dal Rinascimento questo paragone viene progressivamente potenziato di significato. Da Leonardo a Burke, la relazione tra le due arti si presta a diverse interpretazioni – tra loro anche contrastanti – tese a mostrare la supremazia di una tecnica piuttosto che dell’altra, ma soprattutto a sostenere la loro fondamentale analogia ovvero il fatto che entrambe le discipline possano e debbano farsi specchio della natura. Come scrive Massimo Modica : « Era quasi come se, insomma, la qualità dell’opera non dovesse risiedere tanto nella “fattura”, nel fare e nell’ideare come processi costruttivi interdipendenti, destinati a produrre la forma e a istituire il senso, quanto soprattutto nella sua natura puramente ideale, nella “nobiltà del subietto”, o, ancora, nella “bella natura” ». 2 Nella seconda metà del secolo questa convergenza delle “arti sorelle” verso un medesimo fine comincia a vacillare. Il primo segnale in questa direzione lo si trova nella definizione di arte che Diderot dà nella relativa voce dell’Encyclopédie. Qui il filosofo scrive che lo « scopo di ogni arte in generale, o di ogni sistema di strumenti e di regole che tendono a uno stesso fine, è imprimere certe determinate forme su una base data dalla natura, e questa base è o la materia o lo spirito o qualche funzione dell’anima o qualche prodotto della natura ». 3 Da questa descrizione si possono trarre due considerazioni fondamentali. Anzitutto essa sembra più adatta a definire la produzione dell’artigianato e dell’industria piuttosto che l’arte propria delle discipline liberali. In secondo luogo l’inclusione da parte di Diderot delle arti meccaniche e, dunque, la valorizzazione del sapere insito nella cultura materiale è indice di un nuovo modo di guardare anche alle cosiddette belle arti. L’attenzione che il filosofo dedica alla “base data” ovvero alla condizione indispensabile alla realizzazione di ogni processo creativo lo preannuncia : la materia di cui è fatto un oggetto artistico non può più essere considerata neutrale rispetto alla realizzazione del medesimo. Inizialmente definite in base ai tratti somiglianti, le arti cominciano così a essere investigate e descritte sottolineandone le differenze. La parola, il colore, il suono e soprattutto il gesto vengono ad essere studiati nelle loro caratteristiche precipue, nei loro limiti e possibilità rappresentativi, nella capacità che hanno di trasformare e rendere originalmente il modello dato. Sulla scia di riflessioni che risalgono a Shaftesbury, Harris, Du Bos, Richardson, Burke
1 Si rinvia per un primo approfondimento del problema a questo recente e interessante studio : Aux limites de l’imitation. L’ut pictura poesis à l’épreuve de la matière (xvie-xviiie siècles), a cura di R. Dekonick, A. GuiderdoniBruslé, N. Kremer, Amsterdam-New York, Rodopi, 2009. Si ricorda inoltre il lavoro di N. R. Schweizer, The Ut pictura poesis Controversy in Eighteenth-Century England and Germany, Bern-Frankfurt, Herbert Lang-Peter Lang, 1972. Cfr. inoltre infra, cap. iii, in particolare i §§ 1-3. 2 M. Modica, L’estetica di Diderot. Teorie delle arti e del linguaggio nell’età dell’Encyclopédie, Roma, Pellicani, 1997, p. 116. 3 D. Diderot, Art (1751), in Idem, Oeuvres complètes. Édition critique et annotée, a cura di J. Fabre, H. Dieckmann, J. Proust, J. Varloot et al., vol. v, Paris, Hermann, 1978, pp. 495-509 ; ed. it. a cura di E. Franzini, Arte, in Idem, Lettera sui sordomuti e altri scritti sulla natura e sul bello, Milano, Guanda, 1984, pp. 7-18, qui p. 9. Questo scritto di Diderot è un testo chiave. Viene pubblicato per la prima volta nel gennaio del 1751 come appendice alla prima Lettre au R. P. Berthier, in risposta alle affermazioni del gesuita che aveva accusato l’impianto generale dell’Encyclopédie di plagio nei confronti di Bacone. Nel luglio dello stesso anno il contributo diderotiano viene poi inserito all’interno del lavoro enciclopedico come una delle sue principali sintesi programmatiche insieme al Prospectus dello stesso filosofo e al Discours preliminaire di d’Alembert. La tesi fondamentale contenuta in questo testo è che “conoscere” equivalga a “fare” e che pertanto l’uomo – ministro e interprete della natura – imprimendo forme particolari dischiuda mondi diversi. Come progressivamente emergerà nel corso del presente lavoro, la danza si offre quale disciplina per eccellenza nell’esemplificare un simile meccanismo (cfr. infra, cap. ii, § 3.2 e cap. iii, §§ 2-4).
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e Webb – ma che trovano soltanto in Diderot una prima lucida articolazione – Lessing sancisce definitivamente questa trasformazione nel modo d’intendere le arti in un noto passo del Laokoon (1766) : 1
Se è vero che la pittura adopera per le sue imitazioni mezzi o segni completamente diversi da quelli della poesia ; ovvero quelle figure e colori nello spazio, mentre questa suoni articolati nel tempo ; e se i segni devono avere indubbiamente un rapporto adeguato con il designato, allora i segni ordinati l’uno accanto all’altro possono a loro volta avere solo oggetti esistenti l’uno accanto all’altro, o le cui parti esistono l’una accanto all’altra, mentre segni che si susseguono possono esprimere oggetti che si susseguono o le cui parti si susseguono. 2
In conclusione, la risemantizzazione del concetto di natura e la valorizzazione dei mezzi rappresentativi portano a un inevitabile ripensamento della mimesi : inizialmente intesa come riproduzione di un modello dato, essa acquista progressivamente sempre più autonomia e forza creatrice rispetto al suo referente. La danza è direttamente coinvolta in questo processo di trasformazione : un lavoro di tipo storico-estetologico a riguardo permette di approfondirne ragioni e modalità.
2. 4. Sinergia in azione In questa metamorfosi della mimesi artistica discorso coreico ed estetico sono stretti da un doppio vincolo. Anzitutto la danza si trova costretta a corrispondere al modello mimetico al fine di assurgere al Parnaso delle arti maggiori. Poiché la capacità di significare passa attraverso quest’operazione di adeguamento alla realtà, essa rappresenta il requisito indispensabile affinché la disciplina coreica possa affrancarsi dal titolo di puro esercizio fisico o divertimento. La ricorrenza con cui i riformatori affermano questo principio lo dimostra, a partire dal famoso incipit delle lettere di Noverre :
La Poésie, la Peinture & la Danse ne sont, Monsieur, ou ne doivent être qu’une copie fidèle de la belle nature : c’est par la vérité de cette imitation que les Ouvrages des Racines, des Raphaël ont passé à la postérité ; après avoir obtenu (ce qui est plus rare encore) les suffrages même de leur siècle. 3
Se la fedeltà al paradigma mimetico non viene mai messa in discussione, i contorni di questo modello non sono tuttavia scevri di dubbi e ripensamenti da parte dei teorici della danza. Nelle stesse Lettres sur la Danse di Noverre o nelle lettere a lui successivamente indirizzate da Angiolini, e ancor prima ne La danse ancienne et moderne ou traité historique de la danse di Cahusac, l’oscillazione tra la definizione della danza quale imitazione della “natura”, da una parte, e della “bella natura”, dall’altra segnala la prima oscurità concettuale ; un’oscurità resa ancora più fitta dall’impiego frequente e ambiguo del termine “espressione” che in
1 Cfr. in particolare D. Diderot, Lettre sur les sourds et les muets (1751), in Idem, Œuvres, vol. iv : Esthétique Théâtre, ed. fr. a cura di L. Versini, Paris, Laffont, 1996, pp. 11-50 ; ed. it. a cura di E. Franzini, Lettera sui sordomuti, in Idem, Lettera sui sordomuti e altri scritti sulla natura e sul bello, cit., pp. 19-63. 2 G. E. Lessing, Laokoon : oder über die Grenzen der Mahlerey und Poesie, Erster Theil, Berlin, Christian Friedrich Voß, 1766, tr. it. a cura di M. Cometa, Laocoonte, Palermo, Aesthetica, 2003, p. 63. 3 Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., p. 1 (« La poesia, la pittura e la danza non sono, mio Signore, o almeno non devono essere, che una copia fedele della bellezza della natura ; è per la fedeltà a questa imitazione che le opere dei Racine e dei Raffaello sono passate ai posteri dopo aver ottenuto (ciò che è ancora più raro) i suffragi dei loro contemporanei » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 21). Rispetto alla traduzione italiana di Testa ci si permette di fare due osservazioni. Anzitutto, con “belle nature” Noverre non intende genericamente la “bellezza della natura” bensì la “bella natura” ovvero quel modello ideale che fa parte del lessico specifico dell’estetica del Settecento (e su cui si avrà modo di tornare più diffusamente, infra, cap. ii, § 3) ; in secondo luogo “la vérité de cette imitation” può essere intesa in un duplice modo : da una parte come “fedeltà a questa imitazione”, dall’altra come “verità dell’imitazione” ovvero come capacità della mimesi di farsi tramite della natura (a tal proposito cfr. infra, cap. ii, § 3.2 e cap. iii, §§ 3-4).
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taluni casi arriva persino a sovrapporsi a quello di imitazione. A titolo puramente esemplificativo, basti ricordare alcuni passi della voce expression – riferita all’opera lirica – siglata da Cahusac per l’Encyclopédie :
C’est le ton propre au sentiment, à la situation, au caractère de chacune des parties du sujet qu’on traite. La poésie, la peinture & la musique sont une imitation. [...] Chacun de ces arts a & doit avoir une expression, parce qu’on n’imite point sans exprimer, ou plutôt que l’expression est l’imitation même. [...] Si l’opéra exige de l’expression dans tous les chants & dans chacune des différentes symphonies, il est évident qu’il en demande aussi dans la danse. 1
Questa oscillazione della formula mimetica da un’accezione puramente imitativa a una di carattere più espressivo è, anzitutto, un riflesso del ripensamento settecentesco dell’arte a cui si è prima accennato. 2 Al tempo stesso, però, questa incertezza terminologica è sintomo di una differenza specifica della danza rispetto alle altre arti. Proprio a causa di quell’attenzione alla materia e alle tecniche specifiche che a partire da metà Settecento comincia a serpeggiare tra i teorici e filosofi dell’arte, la mimesi coreica non può più essere spiegata con quella di altre discipline. Il gesto, quale mezzo e segno distintivo di quest’arte, necessita di una riflessione ad hoc, capace di mostrarne le specificità mimetiche. Scrive a tal proposito Esteban de Arteaga alla fine degli anni Ottanta :
Una parte rilevante di quello che si potrebbe dire sull’ideale della danza si trova compreso in quanto fino a questo punto si è detto della poesia, della pittura e della musica ; quindi, essendo comuni i principi, facilmente il lettore ricaverà da sé le conclusioni. Quello che della danza è individuale e caratteristico dipende dalla sua maniera di imitare la natura con gli atteggiamenti e movimenti del corpo, la cui scienza, non essendo fino a ora stata fissata con l’esattezza richiesta per fondare un sistema, specialmente nella pantomima, pone un grande ostacolo agli scrittori che vogliono parlare opportunamente su questa materia. E neanche si può spiegare con chiarezza l’essenza del suo ideale, fino a quando non si definisca in cosa consiste in essa l’imitazione della natura. 3
Obiettivo del presente lavoro è cercare di ricostruire proprio questo particolare sistema rappresentativo che emerge dalla pratica e dalla discussione della danza teatrale settecentesca. Come emerge dalle parole di Arteaga, tuttavia, un simile progetto presenta sin dall’inizio un ostacolo : il mutamento del paradigma mimetico non è oggetto, infatti, di alcuna esplicita tematizzazione da parte dei riformatori della danza. Ciò fa sorgere il problema circa la strada da percorrere al fine di ricostruire la posizione dell’arte coreica in merito. Se a questo si aggiunge l’indisponibilità dell’oggetto d’indagine e l’assenza di coordinate spazio-temporali capaci sia di delimitare precisamente il profilo del ballet en action sia di approfondire in modo esauriente l’ampia discussione sul linguaggio corporeo che attraversa tutto il secolo, 4 si comprende come la questione sia alquanto complessa nonché esposta a un duplice rischio : da una parte quello di una dispersione in analisi minuziose, dall’altra quello di una deriva in discorsi vacui e generalizzanti.
1 L. de Cahusac, s. v. Expression (Opéra), in Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, par un société de gens de lettres. Mis en ordre et publié par M. Diderot, et quant à la partie mathématique par M. D’Alembert, Paris, 1751-1780, Bad Cannstatt, Friedrich Fromman (Günther Holzboog), Stuttgart-Bad Cannstatt, 1966-1988, 35 voll., qui vol. vi, pp. 315-318 (« Vi è un tono proprio per il sentimento, la situazione, il carattere di ciascuna delle parti del soggetto che si tratta. La poesia, la pittura e la musica sono un’imitazione [...]. Ciascuna di queste arti ha e deve avere un’espressione, perché non si imita senza esprimere o piuttosto l’espressione è l’imitazione stessa. [...] Se l’opera esige l’espressione in tutte le canzoni e in tutte le sinfonie, è evidente che la richiede anche nella danza »). 2 Cfr. supra, cap. i, § 2.3. 3 E. de Arteaga, Investigaciones filosóficas sobre la Belleza Ideal, considerada como objecto de todas las Artes de imitación, Madrid, Antonio de Sancha,1789, ed. a cura di M. Batllori, Belleza Ideal, Madrid, Espasa Calpe, 19723 ; tr. it. a cura di E. Carpi Schirone, La bellezza ideale, introduzione di P. D’Angelo, Palermo, Aesthetica, 1993, p. 99. 4 Cfr. supra, cap. i, § 1.2 e § 2.2.
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La stretta sinergia tra discorso coreico e discorso estetico – prima sostenuta da una prospettiva teorica e poi da una più strettamente storica 1 – si afferma ora anche da un punto di vista metodologico rispondendo a simili esigenze. Anzitutto un simile intreccio disciplinare permette di far interagire le diverse tracce lasciate dall’arte coreica con le riflessioni più propriamente estetiche del periodo mettendone in luce i legami e discutendone i problemi di fondo. Più nello specifico, l’indagine dal taglio storico-estetologico che qui si propone tenta di analizzare messe in scene esemplari piuttosto che testi o dibattiti teorici che vanno a formare tanto la riforma coreica quanto il più ampio ripensamento dello statuto dell’arte al fine di mostrare il tipo di oggetto rappresentato e di soggetto rappresentante, ma soprattutto la particolare relazione che li lega attraverso il medium gestuale. Si tratta di cercare tra le pieghe e i cortocircuiti delle tracce lasciate dalla danza gli indizi della sua identità rappresentativa e, parallelamente, di utilizzare queste stesse orme coreiche come motivo d’interrogazione ed esemplificazione dei medesimi pensieri teorici. In secondo luogo questo studio risponde alla difficoltà circa la definizione del campo d’indagine fissando come estremi della ricerca il 1751 e il 1785. Queste date corrispondono, infatti, agli anni di pubblicazione di due testi che aprono e chiudono idealmente il periodo di fervente discussione e interrogazione sullo statuto della rappresentazione gestuale nonché di maggiore interesse dal punto di vista delle sperimentazioni ed esibizioni coreiche nel Settecento : la Lettre sur les sourds et les muets di Diderot e le Ideen zu einer Mimik di Engel. L’arco temporale così tracciato non va tuttavia inteso in termini rigidi bensì paradigmatici : incursioni nella riflessione come nella pratica coreica antecedente o posteriore a queste date sono non solo ammesse, bensì veicolate proprio dal contenuto, dalla struttura formale e dalla fortuna di questi testi. 2 Un loro rapido esame ne chiarisce la ragione. Il testo del filosofo illuminista, riconoscendo esplicitamente al gesto un valore semantico distinto da quello discorsivo e referenziale costruito sul linguaggio, raccoglie anzitutto gli esiti di quell’ampio dibattito filosofico maturato fin da inizio secolo a cui si è accennato. In secondo luogo esso amplia e verbalizza intuizioni, discorsi ed esperimenti coreici che affondano le loro radici nella prima metà del Settecento : dagli scritti di John Weaver 3 fino ad arrivare ai balli di Marie Sallé 4 e Franz Anton Hilverding. 5 Quest’opera, infine, oltre a siglare una serie di trasformazioni e riflessioni precedenti e coeve, si pone anche come premessa indispensabile per comprendere i nuovi orizzonti di ricerca che da quel momento si aprono e, nello specifico, la riforma della danza che Diderot stesso si ritrova di lì a qualche anno ad auspicare negli Entre
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Cfr. supra, cap. i, rispettivamente § 2.1 e § 2.2. A tal proposito si rimanda alla tavola sinottica che chiude il presente studio : essa ben visualizza come il lavoro, pur concentrandosi sul periodo compreso tra il 1751 e il 1785, prenda in esame eventi e testi sia precedenti sia posteriori. 3 Cfr. J. Weaver, Anatomical and Mechanical Lectures upon Dancing, London, printed for J. Brotherton, and W. Meadows, at the Balck Bull in Cornhill ; J. Graves, near White’s Chocolate House in St. James’s Street ; and W. Chetwood, at Cato’s Head in Ruffel Street, Covent Garden, 1721 ; Idem, The History of the Mimes and Pantomimes, London, printed for J. Roberts at the Oxford-Arms in Warwick-Lane, and A. Dod without Temple-Bar, 1728. Cfr. inoltre R. Ralph, The Life and Works Of John Weaver. An Account Of His Life, Writings and Theatrical Productions, With an Annotated Reprint Of His Complete Publications, New York, Dance Horizons, 1985. Tra le voci enciclopediche dedicate al coreografo si segnalano : S.J. Cohen, s.v. Weaver, John, in Enciclopedia dello spettacolo, cit., vol. ix, 1962, p. 1858 ; G. B. L. Wilson, s.v. Weaver, John, in The New Grove Dictionary Of Music and Musicians, cit., vol. xx, p. 237. 4 Cfr. M. F. Christhout, s.v. Sallé, Marie, in Enciclopedia dello spettacolo, cit., vol. viii, 1961, pp. 1426-1427 ; W. Thompson, s.v. Sallé, Marie, in The New Grove Dictionary Of Music and Musicians, cit., vol. xvi, pp. 422-423. Cfr. inoltre infra, cap. iii, § 4. 5 Per un primo inquadramento del balletto teatrale antecedente l’ingresso in scena di Angiolini e Noverre, cfr. Derra de Moroda, The Ballet-Masters Before, At the Time Of, and After Noverre ; Eadem, Das Ballet D’Action und seine Entwicklungsgeschichte, « Österreichische Musikzeitschrift », xxxi (1976), 3, pp. 143-152 ; Eadem, Die Ballettmeister vor, zur Zeit und nach J. G. Noverre ; A. Michel, Two Great xviii Century Ballet Masters : Jean-Baptiste De Hesse and Franz Hilverding. La Guinguette and Le Turc généreux seen by G. de St. Aubin and Canaletto, « Gazette des Beaux-Arts », may (1945), pp. 270-286 ; Idem, The Ballet d’Action Before Noverre, « Dance Index », vi (1947), 3, pp. 52-72. 2
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tiens sur Le Fils Naturel e di cui Noverre sembrerà farsi magistralmente interprete insieme al suo collega Angiolini : basti pensare all’Amour corsaire ovvero L’Embarquement pour Cythere – una diretta ripresa da parte del coreografo francese del dramma diderotiano del 1757 2 – oppure al famosissimo Don Juan del maestro di ballo italiano – realizzato nel 1761 e passato alla tradizione quale primo ballo pantomimo “a tutti gli effetti” del secolo. 3 Il lavoro di Engel, da parte sua, costituisce il primo trattato sull’arte dell’attore che propone non tanto un manuale pratico quanto una fondazione teorica della rappresentazione corporea a partire dalle riflessioni lessinghiane sul gesto. Questo testo è posto a conclusione del percorso di ricerca non solo perché riserva una trattazione specifica alla danza ma perché si offre, forse, quale ultimo esempio e testimone dell’interrogazione che ha animato nei decenni precedenti i teatri e i salotti della scena europea, come ad esempio la celebre querelle sul ballo pantomimo che scoppia nella città di Milano tra il 1763 e il 1776. A partire da fine Settecento, ma soprattutto a inizio Ottocento, si assiste infatti a un progressivo tecnicizzarsi dell’arte coreica, a un processo di irrigidimento e formalizzazione che se da una parte corrisponde a un progressivo consolidamento della disciplina – anche dal punto di vista del suo riconoscimento socio-istituzionale – dall’altro ha come effetto collaterale quello di arrestare il dibattito e la ricerca rispetto al suo significato e alle sue caratteristiche specifiche in quanto arte. Le nuove lettere e i programmi di ballo che Noverre aggiunge nelle edizioni ottocentesche della sua opera teorica nonché la loro diversa disposizione lo dimostrano : riflesso del lavoro di maturazione e consolidamento compositivo compiuto dal filosofo negli ultimi decenni del Settecento, queste integrazioni e modifiche sono lontane da quella spinta investigativa e interrogativa propria degli anni di invenzione e discussione del ballet en action e si offrono piuttosto come un documento redatto per i posteri. 4 Così come, d’altra parte, le riflessioni teoriche del padre della danza romantica, Carlo Blasis, si concentrano maggiormente su aspetti tecnici e pedagogici della disciplina piuttosto che su nuove problematiche di natura estetica. 5 Sulla base di queste coordinate essenziali il presente lavoro persegue tre obiettivi fondamentali. Anzitutto si mira a far emergere la portata teorica della danza, ovvero la sua capacità di riflettere una particolare visione di mondo. Solo mettendo a tema la modalità rappresentativa della danza è possibile mettere a fuoco “cosa” essa sia in grado di trasmettere. In secondo luogo si persegue quella dimensione olistica del fenomeno coreico emersa quale esigenza prioritaria da parte dei recenti studi coreologici. Senza alcuna pretesa di esaurire né dal punto di vista estensivo né da quello intensivo l’espressione coreica settecentesca, bensì cercando di interrogare attraverso il caso esemplare della danza teatrale e della riflessione che ne sorge al riguardo alcune costanti e peculiarità della disciplina di Tersicore, si vuole provare ad abbozzare un profilo della mimesi messa in gioco dall’arte coreica. In terzo luogo si avvicina attraverso una pratica performativa particolare il problema centrale della rappresentazione. Mettere a tema la questione mimetica in danza significa, infatti, non solo 1
1 Cfr. D. Diderot, Entretiens sur le Fils naturel (1757), in Idem, Œuvres, vol. iv : Esthétique - Théâtre, ed. fr. a cura di L. Versini, Paris, Laffont, 1996, pp. 1131-1190 ; ed. it. a cura di M. Grilli, Dorval ed io o Dialoghi sul Figlio naturale, in Idem, Teatro e scritti sul teatro, Firenze, La Nuova Italia, 1980, pp. 83-150, in particolare le pp. 140-142. 2 Cfr. infra, cap. ii, § 3.2. 3 Cfr. supra, cap. i, § 2.2, in particolare p. 54 note 3-5 e infra, cap. ii, § 1.2, in particolare p. 75 nota 3. 4 È per questa ragione che si è scelto di prendere come oggetto d’indagine le Lettres del 1760 limitandosi a rimandare alle altre edizioni solo per quanto riguarda i programmi di ballo lì raccolti. Si riserva dunque a future riflessioni – gravitanti esclusivamente sulla coreutica noverriana o sulla danza a cavallo tra Settecento e Ottocento – l’analisi delle lettere del 1803 e del 1807. Per una storia delle Lettres e delle sue varie edizioni si rinvia invece a Randi, Pittura vivente, pp. 39-42; Dahms, Der Koservative Revolutionär, cit., pp. 71-85; F. Pappacena, Introduzione a Noverre, Lettere sulla danza, sui balletti e sulle arti (1803), cit., pp. i-iii. 5 Cfr. Blasis, Traité elémentaire, théorique et pratique de l’Art de la danse.
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cogliere l’essenza di questa forma artistica, ma di un fenomeno di più ampia portata. Come scrive Elio Franzini prendendo in considerazione il teatro nel suo complesso :
“Presentazione” e “rappresentazione” sono [...] due termini essenziali per il Settecento, che per offrire la realtà nel suo senso immediato costruisce, come dimostra l’Encyclopédie, una rete rappresentativa, in cui la ragione elabora una serie di giudizi finalizzati a rendere inutile ogni mediazione. Indubbiamente, in questo caso, [...] il teatro diviene un’eccezionale metafora filosofica, ampiamente utilizzata e “sfruttata” : è la vita stessa che si offre con tutte le sue “autentiche” dinamiche sentimentali, che sono il segno evidente non solo della natura, ma della sua stessa “presenza” in noi ; e che, tuttavia, per offrirsi, ha bisogno di una scena, di un testo, di una rappresentazione organica, regolata, strutturata. Il teatro è, di conseguenza, luogo di scontro per determinare il senso filosofico del periodo, il rapporto gnoseologico con la natura, la ragione e il sentimento. 1
La particolare prospettiva storico-estetologica adottata non è di certo neutra o avulsa da tutta quella rete di interdetti, esclusioni e ogni altra forma di parzialità che contraddistinguono i discorsi sulla danza. Il taglio che si propone rimane sempre e soltanto un possibile metodo ovvero una strada che, per quanto cerchi di rispettare e seguire la natura del terreno, rimane pur sempre frutto di inevitabili scelte individuali. Ogni riflessione verbale, infatti, per quanta cura possa prestare alle diverse pratiche di controllo che la regolano e alla loro compatibilità con l’oggetto precipuo di cui si trova a trattare, non si riduce a un mero riflesso della realtà, ma rappresenta una particolare azione di forza su di essa. Come scrive ancora una volta Michel Foucault :
Il discorso, in apparenza, ha un bell’essere poca cosa, gli interdetti che lo colpiscono rivelano ben tosto, e assai rapidamente, il suo legame col desiderio e il potere. E non vi è nulla di sorprendente in tutto questo : poiché il discorso – la psicanalisi ce l’ha mostrato – non è semplicemente ciò che manifesta (o nasconde) il desiderio ; e poiché – questo, la storia non cessa d’insegnarlo – il discorso non è semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per cui, attraverso cui, si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi. 2
Di fronte a questa inevitabile impasse tra discorso e realtà, non rimane dunque che avviare l’argomentazione proprio dalle parole che a partire dal Settecento hanno cominciato a dire e al tempo stesso tradire la danza. 1
Franzini, Il teatro, la festa, la rivoluzione, cit., p. 8. Foucault, L’ordine del discorso, cit., p. 5.
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Capitolo secondo Paradossi della mimesi tra parola e gesto Il linguaggio delle parole è apparentemente individuale, in verità generico, quello del corpo è apparentemente generico, in verità altamente personale. E poi non è il corpo che parla al corpo, ma l’umanità intera all’intero uomo. H. von Hofmannsthal, Della pantomima
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alsiasi investigazione sulla danza ha nella parola il suo inevitabile medium. I termini u che compongono il neologismo coreologia – ovvero choréia e lógos – lo evidenziano. Sul calco di parole composte simili (quali filologia, zoologia oppure antropologia), che a partire dall’età umanistica sono divenute parte integrante del vocabolario scientifico occidentale, si potrebbe parafrasarne il significato con le espressioni “studio della danza” o “discorso sulla danza”. Ogni parola che cerchi di dire la danza, tuttavia, non è mai neutrale rispetto ad essa. Prima ancora delle diverse procedure di controllo che regolano i discorsi scientifici, 1 è il linguaggio verbale stesso a determinare una trasformazione della danza ovvero una sua traduzione in un codice diverso da quello gestuale. Riprendendo la forza polisemica del sostantivo lógos 2 alla base del suffisso di coreologia occorre investigare il legame che intercorre tra la danza e i discorsi che tentano di esprimerla, tra il gesto – minimo comune denominatore di qualsiasi manifestazione coreica – e la parola – funzione espressiva delle operazioni razionali dell’uomo. 3 Solo un simile passaggio consente di far emergere le autentiche ragioni della danza ovvero di sondare la particolare logica sottesa al movimento corporeo in analogia ma anche in confronto dialettico con quella messa in gioco dal linguaggio verbale. La danza e i discorsi che su di essa si sviluppano nel Settecento costituiscono un campo per più di una ragione ricco e fecondo per affrontare la questione. In primo luogo la danza assurge al titolo di arte proprio grazie al fatto che per la prima volta essa diventa tema di profuso dialogo e scrittura. I diversi trattati – non soltanto più storici o tecnici, bensì teorici – che vengono pubblicati su di essa piuttosto che la diffusa riflessione filosofica sul gesto e sulla sua portata semantica sono i mezzi attraverso cui la danza ottiene il proprio riconoscimento : solo grazie alla parola – intesa tanto come veicolo espressivo quanto come modello significativo di riferimento – all’arte di Tersicore viene attribuito un valore. In secondo luogo il ballet en action diviene una rappresentazione artistica autonoma a tutti gli effetti solo
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Cfr. supra, cap. i, in particolare § 1. Termine chiave della cultura greca e tramite essa di tutta la civiltà occidentale, il lógos è passato nel corso della sua storia da uno stato di massima indefinitezza a uno di estrema determinazione e circoscrizione. Questa trasformazione ha causato la sua perdita di unità e la frammentazione in ambiti di significato che nella concezione primitiva, pur essendo già in parte impliciti, rimanevano strettamente legati e correlati l’uno all’altro. Per risalire all’origine delle due attuali e principali accezioni di lógos – ovvero a quella di attività razionale del pensiero e a quella di funzione dichiarativa della parola – a partire innanzitutto dall’ambiguità semantica del verbo légein, oscillante tra il significato di “riunire”, “raccogliere” e quello di “scegliere”, cfr. M. Fattal, Ricerche sul logos. Da Omero a Plotino, a cura di R. Radice, Milano, Vita e Pensiero, 2005. 3 A tal riguardo si rimanda al testo fondamentale di A. Leroi-Gourhan, Le geste et la parole, Paris, Michel, 196465, tr. it. di F. Zannino, Il gesto e la parola, Torino, Einaudi, 1977, 2 voll. 2
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dopo essersi conquistato la propria indipendenza dal teatro di parola, un’indipendenza che, tuttavia, è ancora una volta mediata dal linguaggio verbale. Basti pensare ad alcune delle espressioni – come “danza parlante” o “conversazione muta” – con cui i riformatori del periodo cercano di difendere la possibilità da parte del balletto di significare oppure il fatto che la distinzione tra un puro divertissement e un’azione pantomima venga molto spesso tracciata grazie alla capacità del pezzo di “narrare” una storia. Al tempo stesso è il discorso a mettersi nel xviii secolo alla ricerca del gesto. La crisi settecentesca della relazione tra soggetto e mondo investe, infatti, anche il linguaggio : la coalescenza tra parola, verità e realtà conosce una delle sue storiche rotture. Analogamente a quanto per la prima volta registrato e problematizzato da Platone nel Cratilo, la civiltà occidentale sperimenta un radicale scetticismo nei confronti della capacità rappresentativa della parola e, nel contempo, avverte nostalgia e necessità di ritrovare un’idea integrale di verità : ciò che è in gioco è la capacità o meno da parte del discorso di catturare e svelare l’ousìa delle cose. A differenza tuttavia che in passato – ad esempio nel secolo precedente – la sfiducia nel discorso non si traduce nella creazione di nuovi linguaggi o sistemi combinatori. Come scrive Umberto Eco : « Quello che sembra preoccupare l’età dell’Illuminismo non è tanto la ricerca di una lingua perfetta quanto una terapia delle lingue esistenti, sulla scia del suggerimento lockiano ». 1 Questa necessità di rinnovamento del discorso si declina attraverso due strategie fondamentali, tra loro intrinsecamente collegate. La prima consiste nel ricorso all’antico, inteso sia come riscoperta delle prime speculazioni sul linguaggio sia come ricerca dell’origine della parola stessa. Da una parte, infatti, si registra un consistente recupero di fonti greche e latine – da Platone a Luciano, da Cicerone a Quintiliano – che, interessatesi per prime al problema espressivo-comunicativo dell’uomo, permettono di rimettere a fuoco il valore del codice gestuale ; dall’altra si rileva una particolare attenzione da parte della ricerca filosofica coeva alle sorgenti stesse del linguaggio e al suo sviluppo. Basti ricordare i lavori pionieristici di Warburton 2 oppure quelli di Condillac : 3 a prescindere dalle diverse posizioni sostenute, questi pensatori vedono convergere le proprie ricerche sul gesto in quanto una delle fonti primarie della lingua. La seconda modalità è l’osservazione e sperimentazione di altre tecniche espressive. Mentre per le civiltà antiche tra linguaggio per così dire “ordinario” e poesia – così come tra forme di notazione basilari e pittura – non vi è una distinzione netta, nella società moderna si assiste sempre più a uno scollamento tra il linguaggio imposto dalle convenzioni sociali o i protocolli scientifici e le possibilità messe in gioco dalle Muse. L’arte costituisce uno spazio di libertà, un terreno in cui sperimentare norme e codici alternativi a quelli regolanti la vita in società. Il teatro, in particolare, emerge quale luogo utopico per eccellenza. L’attenzione riservata da Diderot a questo genere espressivo e, nello specifico, alla sua dimensione pratico-gestuale lo esemplifica : sia la codificazione del dramma borghese sia l’impiego nei propri scritti di svariate metafore teatrali mostrano come per il filosofo francese la scena si offra quale specchio privilegiato della realtà, ma anche come mezzo di azione su di essa. 4 Tanto il ritorno all’antico quanto lo sguardo verso il futuro risultano così essere caratterizzati nel xviii secolo da un tratto comune : la centralità del gesto. Esso sembra rappre
1 U. Eco, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 309-310. Per un primo approfondimento del problema del linguaggio nel xviii secolo, soprattutto rispetto alle sue cause ed effetti sociali, si rinvia a S. Rosenfeld, A Revolution in Language. The Problem of Signs in Late-Century France, Stanford, Stanford University Press, 2001. 2 Cfr. W. Warburton, The Divine Legation of Moses demonstrated : in four volumes (1738-1765), rist. anast. New York, Garland, 1978, 4 voll. ; tr. it. della sezione iv del iv libro a cura di A. Verri, Scrittura e civiltà. Saggio sui geroglifici egiziani, Ravenna, Longo, 1986. 3 4 Cfr. Condillac, Saggio sull’origine delle conoscenze umane. Cfr. infra, cap. ii, § 3.2.
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sentare un mezzo capace di riavvicinare l’uomo alla realtà, di accorciare quella distanza fra soggetto e oggetto a cui l’Illuminismo vuole porre rimedio. Tra linguaggio e danza non può che generarsi, conseguentemente, una relazione elettiva. Se da una parte, infatti, l’arte coreica guarda alla parola per affermarsi e dirsi, dall’altra, il discorso osserva il gesto pantomimico-coreico come privilegiato termine di confronto. In quanto semplicemente basato sul movimento corporeo, il balletto consente infatti alla parola di saggiare i propri limiti ma anche di scoprire nuovi, possibili orizzonti di espressione e, più nello specifico, di cercare di recuperare quell’immediatezza e contatto col mondo che sembra aver smarrito. L’indagine settecentesca sulla mimesi costituisce un punto di osservazione privilegiato di questa relazione elettiva, ma soprattutto consente di far emergere come nel confronto e nei cortocircuiti tra linguaggio verbale e gestuale sia in gioco il ripensamento stesso del concetto di rappresentazione. 1 1. La danza antica : un modello da immaginare
L’antico esercita da sempre un’attrazione particolare sulla cultura occidentale. Basti pensare al ruolo chiave svolto dall’interrogazione dei testi classici all’interno dell’attività filosofica. Il pensiero greco rappresenta un termine di confronto essenziale per l’indagine speculativa non soltanto perché punto di partenza della storia della filosofia bensì perché ritenuto in qualche modo origine stessa del mondo moderno o almeno di alcuni suoi tratti distintivi, come la razionalità scientifica. Scrive a tal proposito Giuseppe Cambiano :
Il rapporto del mondo moderno con questa origine greca può significare o che il mondo moderno già contiene entro di sé, identici o ulteriormente arricchiti e sviluppati, i tratti salienti dell’origine oppure che esso non ha esaurito il contenuto originario implicito nel pensiero greco, che in qualche modo riesce a proiettare la propria ombra anche oltre la modernità, come prefigurazione o preparazione di un mondo possibile non solo diverso, ma talvolta anche alternativo rispetto al presente. Nel primo caso il polo positivo è dato dalla modernità, capace di assorbire e accrescere i contenuti dell’origine greca ; mentre nel secondo è dato da un futuro possibile, che dovrebbe segnare la fine o almeno la presa di distanza rispetto alla modernità. 2
Questo confronto tra antico e moderno – che caratterizza in modo essenziale la ricerca filosofica – investe tutti i campi del sapere. A fine Seicento, in particolare, questa comparazione assume un’ampiezza e rilevanza insolite in seguito alla lettura da parte di Charles Perrault il 26 gennaio 1687 all’Académie française di un poema – Le siècle de Louis le Grand – esplicitamente polemico nei confronti di Omero. L’intellettuale francese mette sotto accusa il padre della cultura occidentale per tentare di scuotere il classicismo vigente, le sue norme e i suoi dogmi, e valorizzare per converso l’ordine e la chiarezza a cui è pervenuta la modernità. Tanto in campo scientifico quanto artistico si vedono così ergere due fronti opposti : da una parte i sostenitori della superiorità dei greci e dei latini, dall’altra i fautori del progresso moderno. Marc Fumaroli sintetizza in modo originale i termini della querelle – e, soprattutto, ne
1 Le pagine che seguono rappresentano lo sviluppo di un intervento tenuto da chi scrive al convegno La disciplina coreologica in Europa : problemi e prospettive (cfr. supra, p. 19, nota 2). Rispetto al saggio pubblicato in proposito (cfr. L. Aimo, Danzare l’imitazione, danzare l’espressione. Il gesto nella riflessione filosofica settecentesca e nella fenomenologia delle arti di Susanne Langer, in La disciplina coreologica, cit., pp. 79-104), il nuovo lavoro si contraddistingue sia per il maggior numero di autori e testi presi in considerazione sia per il grado di approfondimento delle tematiche trattate. Soprattutto, però, la presente riflessione si differenzia per la particolare prospettiva adottata : mentre nello scritto precedente l’indagine era volta a mostrare come la riflessione sulla danza abbia contribuito a ripensare il concetto di mimesi della natura anticipando alcune teoresi novecentesche, ora, invece, ne viene messo analiticamente a tema un fondamentale e preciso nodo teorico, ovvero l’intreccio di gesto e parola. 2 G. Cambiano, Il ritorno degli antichi, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. vi.
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evidenzia la posta in gioco ovvero lo statuto della creazione poetica e la funzione del linguaggio – riprendendo una celebre immagine ideata da Jonathan Swift :
L’ape degli Antichi riconosce e presuppone nella sua attività il fatto che il linguaggio sia preesistente al poeta, e che l’invenzione poetica non sia una « creazione », ma un « trovare » e un « ritrovare », che ha per merito principale il rinnovo dei luoghi di una eterna dimora comune. Il ragno individualista dei Moderni crede di dover tutto al proprio patrimonio, e si affida all’« oggettività del caso » e a una « mano invisibile » affinché la sua « creazione » autofaga incontri la simpatia o le affinità di un’altra « isola », nell’arcipelago « culturale » degli individui beckettiani, senza memoria né dimore condivise. 1
Nel Settecento la discussione prosegue assumendo un accento nuovo. In sintonia con lo spirito mediatore che caratterizza tutto il secolo, si cerca di trovare un punto di contatto tra i fronti opposti capace di salvaguardare sia l’indiscusso valore degli antichi sia i meriti e le novità apportati dai moderni. Se da una parte, infatti, il principio di autorità viene ulteriormente indebolito nel xviii secolo, dall’altra, l’idea di progresso ed evoluzione non rimane esente da critiche : come l’ingegno dei greci o latini non può essere considerato superiore a quello dei moderni per via di differenze riconducibili alla natura, così semplici condizioni storiche o sociali non sono ritenute in grado di generare automaticamente un progresso oggettivo rispetto alla cosiddetta “età aurea”. Tanto i cosiddetti philosophes quanto gli antiquaires perseguono, pur in modi diversi, la medesima e radicale rifondazione del presente. In campo artistico quest’esigenza di mediazione è riconoscibile nel diverso modo in cui viene articolata la questione della mimesi. Si registra, ad esempio, il quasi unanime accordo da parte dei teorici nel differenziare il contenuto del pensiero o dell’opera d’arte dal metodo del suo svolgimento, vale a dire dalle tecniche e dalle forme specifiche utilizzate ; si distingue tra l’innegabile continuità per quanto riguarda la capacità dell’arte di suscitare sentimenti ed emozioni e la necessità da parte di essa di rivestirsi tuttavia di temi e oggetti sempre nuovi. Come scrive Franzini : « Il gusto in quanto capacità di giudicare il bello può progredire, rivestirsi di contenuti “moderni” : ma la sua base è pur sempre una sorta di regolistica naturalità dell’arte, individuata nell’antichità ». 2 La riforma coreica del xviii secolo è inevitabilmente intessuta di questo confronto e scambio tra antichi e moderni. Se da una parte, infatti, il ballet d’action si afferma quale nuovo e principale genere coreico, dall’altra questa forma artistica viene presentata e legittimata agli occhi di pubblico e intellettuali solo in quanto recupero dell’antica tradizione pantomima. Al tempo stesso, però, questo sguardo all’indietro – lungi dal fare del presente la copia del passato – sembra proiettarsi nel futuro. In un simile paradosso è racchiuso sia un indizio della specificità coreica sia un esempio del contributo di quest’arte alla rivisitazione settecentesca del principio mimetico.
1. 1. Ritrovare e rinnovare attraverso il linguaggio In tutta la trattatistica coreica la ricostruzione della storia della danza costituisce un elemento imprescindibile al fine di affermare e consolidare Tersicore quale disciplina artistica. Dal De pratica seu Arte Tripudii vulgare opusculum di Guglielmo Ebreo (xv secolo) 3 al Trattato teorico-prattico di ballo di Gennaro Magri, 4 pur con le opportune specificità di ciascun testo, il genere trattatistico prevede una struttura ricorrente. In apertura si trova la definizione 1 M. Fumaroli, Les abeilles et les araignées, in La querelle des Anciens et des Modernes : xvie-xviiie siècles, a cura di A.-M. Lecoq, Paris, Gallimard, 2001, pp. 7-218, tr. it. di G. Cillario, M. Scotti, Le api e i ragni. La disputa degli Antichi 2 Franzini, L’estetica del Settecento, cit., p. 22. e dei Moderni, Milano, Adelphi, 2005, p. 14. 3 A riguardo cfr. Pontremoli, La Rocca, Il ballare lombardo, cit., in particolare pp. 44-63. 4 Cfr. G. Magri, Trattato teorico-prattico di ballo, Napoli, Vincenzo Orsino, 1779, ora in Trattati di danza in Italia nel Settecento, cit., pp. 129-274.
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dell’arte coreica – spesso di natura ideologica – e l’enunciazione della sua utilità, solitamente determinata dalla valutazione della società al riguardo. In chiusura è collocata l’esposizione del sistema, ovvero delle novità apportate dall’autore e maestro di ballo al genere artistico sia dal punto di vista tecnico-pratico sia da quello della sua esposizione teorica. Nel mezzo, a formare il cuore dell’opera, viene invece inserito un riferimento più o meno profuso, ma comunque immancabile, alla tradizione coreica : esso consente sia di dare prestigio all’arte della danza – per lo più considerata minore – sia di far valere le novità introdotte dall’autore nella trattazione della materia. 1 Nel secolo illuminista questa esigenza di registrare il patrimonio coreico assume una rilevanza e una specificità ancora maggiori. Basti pensare alla struttura delle innumerevoli voci dedicate a quest’arte all’interno dell’Encyclopédie. Da ballet 2 a divertissement 3 oppure entrée, 4 ogni forma coreica e passo di danza vengono presentati dall’autore fornendone anzitutto la descrizione storica. La valorizzazione del sapere insito nei mestieri e nelle arti prettamente corporee può progredire, infatti, secondo gli enciclopedisti solo attraverso la redazione per iscritto della tradizione orale su cui essi si fondano. È lo stesso Diderot ad affermarlo in modo programmatico alla voce art :
Rendiamo finalmente la dovuta giustizia agli artigiani. Le arti liberali si sono celebrate già abbastanza da se stesse ; potrebbero ora usare la voce che gli resta per celebrare le arti meccaniche. Spetta alle arti liberali il compito di riscattare le arti meccaniche dall’avvilimento in cui il pregiudizio le ha mantenute per così lungo tempo ; è compito della protezione dei re preservarle da un’indigenza in cui ancora languono. Gli artigiani si sono creduti spregevoli perché sono stati disprezzati ; insegniamogli ad avere una miglior stima di se stessi : è il solo mezzo per ottenere da loro opere più perfette. Esca dal seno delle Accademie un uomo che scenda nei laboratori, che vi raccolga i fenomeni delle arti e che ce li esponga in un’opera che induca gli artisti a leggere, i filosofi a pensare utilmente e i potenti a fare finalmente un utile uso della loro autorità e delle loro ricompense. 5
Nei testi settecenteschi esclusivamente dedicati alla danza il ruolo chiave svolto dalla tradizione coreica e dalla sua formalizzazione letteraria si mostra in modo evidente sin da De la Danse des anciens. Pubblicato da Pierre-Jean Burette nelle Mémoires de l’Académie Royale des inscriptions et belles lettres (1717) e tradotto in italiano col titolo Prima e seconda memoria per servire all’istoria del Ballo degli Antichi, 6 questo lavoro è esteso e particolareggiato, pur godendo di poca fama tra gli intellettuali italiani dell’epoca. Personaggi quali Sacchi, 7 Planelli 8 o Milizia 9 preferiscono, infatti, nelle loro riflessioni sulla danza ricorrere ai testi classici di Jan Van Meurs, 10 Ménestrier 1 Per un approfondimento del genere trattatistico in danza cfr. Lombardi, Danza e buone maniere, cit., e, più nello specifico, Eadem, I trattati di danza in Italia nel Settecento, in Trattati di danza, cit., pp. 13-62. Per una rapida panoramica, invece, delle diverse tipologie di scritti settecenteschi sulla danza si rimanda all’articolo di F. Derra de Moroda, Die Tanzliteratur des achtzehnten Jahrhunderts, in Sammeln und Bewahren. Beiträge zur Kunst Literatur und Buchgeschichte, München, Wölfle, 1973, pp. 150-157. 2 L. de Cahusac, s. v. Ballet, in Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, cit., vol. ii, pp. 42-46. 3 Idem, s. v. Divertissement, in Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, cit., vol. iv, pp. 1069-1070. 4 Idem, s. v. Entrée (Danse), in Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, cit., vol. v, pp. 730-731. 5 Diderot, Arte, cit., p. 16. 6 Cfr. P. J. Burette, Prima e seconda memoria per servire alla istoria del ballo degli antichi, Venezia, Antonio Groppo, 1752. Musicista, medico, studioso di botanica e storia naturale, Burette realizza queste due memorie sulla danza all’interno di una serie di studi dedicata alla ginnastica. Il testo viene tradotto in Italia per la prima volta nel 1746 e conosce tre ristampe. 7 Cfr. G. Sacchi, Della divisione del tempo nel ballo. Dissertazione seconda, in Idem, Della divisione del tempo nella musica, nel ballo e nella poesia. Dissertazioni iii del Padre Don Giovenale Sacchi Barnabita, Milano, Mazzucchelli, 1770, pp. 29-58. 8 Cfr. A. Planelli, Dell’opera in musica, Napoli, Donato Campo, 1772. 9 Cfr. F. Milizia, Del teatro, Venezia, Giambattista Pasquali, 1773. 10 Cfr. J. Van Meurs, Orchestra. Sive, de Saltationibus veterum, Liber singularis, Lugduni Batavorum, Godefridi Basson, 1618.
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o Calliachi. Proprio di questi autori, tuttavia, Burette lamenta la mancanza di spessore filosofico e cerca di innovarne l’impostazione metodologica. Più nello specifico, rispetto al rapporto tra danza antica e moderna, egli prende le distanze da alcun modello compilatorio o giudizio di valore cercando, al contrario, di rintracciare principi comuni ed essenziali tra forme coreiche anche distanti, ovvero di mostrare la continuità e, al tempo stesso, l’evoluzione della disciplina di Tersicore : 1
Io mi do a credere, che il conoscere esattamente le strade battute da’ Greci e da’ Romani per ridurre certe arti al colmo della perfezione, in cui erano a’ tempi loro, non ci sia inutile per rendere perfette a’ giorni nostri queste istesse Arti : e penso, che, siccome gli Antichi ci superavano di gran lunga in ciò che, per esempio, appartiene agli Esercizj del Corpo generalmente parlando, così non ci sia già impossibile il rivogliere in nostro utile quanto hanno di migliore adattandolo a’ nostri costumi e a’ nostri modi, che per verità sono molto diversi dai loro, sebbene forse per alcuna cagione quelli siano a questi inferiori. Non venga adunque riputata questa mia Scrittura se non come semplici Memorie sopra il Ballo, che con l’andare del tempo potranno arrichirsi e prender forma migliore o con nuovi miei scoprimenti, o con quelli, che d’altronde mi verranno somministrati. 2
La centralità del confronto tra danza antica e moderna emerge in modo ancora più significativo in La danse ancienne et moderne ou Traité historique de la danse di Cahusac. Come si evince sin dal titolo, il lavoro si articola in due sezioni – l’una dedicata all’arte coreica dalle sue origini sino all’apogeo della pantomima in età romana, l’altra concentrata sul balletto dalla sua nascita nel xv secolo fino alla sua forma più compiuta nel Settecento – e riprende una formula già in uso nel Seicento e resa celebre dal testo di Ménestrier Des ballets anciens et modernes. Ciò che differenzia l’opera del 1754 da questo e altri testi anteriori, tuttavia, è il diverso utilizzo che l’autore fa di questa comparazione. Luogo comune e, quasi formula d’obbligo all’interno della querelle che caratterizza il secolo precedente, il confronto tra danza antica e moderna si presta a espliciti risvolti speculativi nel lavoro di Cahusac. Anzitutto l’autore manifesta chiaramente in apertura d’opera la finalità teorica che muove la sua trattazione storica. Secondo l’autore è necessario ricostruire nel modo più attendibile il passato della danza per permettere tanto agli artisti quanto ai danzatori di avere dati e informazioni certi su cui far evolvere l’arte e poterne adeguatamente giudicare ; occorre fornire loro gli strumenti adatti per aprire gli occhi « sur l’injustice de leurs préférences, sur le peu de justesse de leurs goûts, sur les erreurs de leurs opinions ». 3 In secondo luogo, a differenza di quanto fatto dalla maggior parte dei suoi colleghi in precedenza, Cahusac non si limita a giustapporre la danza antica e quella moderna quali momenti topici all’interno della storia dell’arte coreica, bensì cerca di istituire tra loro una convergenza. Più nello specifico l’autore cerca di mostrare come il magistero antico possa essere ripreso e portato avanti proprio dal progetto della danse en action :
On ne doit se défier ni de ses forces, ni de l’art, lorsqu’on a l’ambition d’exceller. Ce que les Romains ont vu faire à Pylade et à Bathylle peut encore être exécuté par des jeunes gens exercés, qui ont tous les mouvements expressifs et faciles. La danse, sur notre théâtre, n’a plus besoin que de guides, de bons principes, et d’une lumière qui, comme le feu sacré, ne s’éteigne jamais. Qu’on se persuade que le siècle qui a produit, dans le lettres, L’Esprit des lois, la Henriade, l’Histoire naturelle, et l’Encyclopédie, peut aller aussi loin, dans les arts, que le siècle même d’Auguste. 4 1 Cfr. N. Calliachi, De ludis scenicis mimorum et pantomimorum syntagma posthumum, Patavii, Joannem Manfrè, 1713. 2 Burette, Prima e seconda memoria, cit., i memoria, p. 33. 3 Cahusac, La danse ancienne et moderne, cit., p. 48 (« sull’ingiustizia delle loro preferenze, la poca precisione dei loro gusti, gli errori delle loro opinioni »). 4 Ivi, p. 230 (« Non si deve diffidare né delle proprie forze né dell’arte quando si ha l’ambizione di eccellere ; ciò che i Romani hanno visto compiere a Pilade e Batillo può ancora essere eseguito da giovani in esercizio i cui movimenti risultano tutti espressivi,e facili. La danza, nel nostro teatro, non ha bisogno che di guide, buoni prin
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Questa relazione sinergica tra passato e futuro – abbozzata prima da Burette e portata avanti poi da Cahusac – mostra come nella riforma coreica l’innegabile auctoritas degli antichi si incroci con l’altrettanto evidente progresso raggiunto dai moderni. Anziché giustapporsi, queste lontane, e diverse, forme di danza sembrano accrescersi vicendevolmente : l’una offrendo alla posterità il proprio magistero, l’altra riscoprendone e facendone progredire la tradizione del corpo in movimento. Questo meccanismo – frutto di un costante sguardo all’indietro e, al tempo stesso, di un ininterrotto slancio in avanti – è ancora più evidente nel lento e difficile affermarsi del ballet d’action negli anni Sessanta del Settecento.
1. 2. Angiolini e l’origine in “atto” del ballo pantomimo Il nuovo genere espressivo rappresentato dal balletto teatrale settecentesco trova il suo fondamento nella tradizione antica. È lo stesso Gasparo Angiolini a suggerirlo in una delle lettere inviate a Noverre :
L’anno 1762 diedi un’altra novità suggeritami dagli antichi ; questa fu di trasportare in ballo pantomimo Citera assediata, spiritosa opera comica del Sig. Favart, e messa in musica dal celebre Sig. Cavaliere Gluck. In questo lavoro incontrai non poche difficoltà, per aver voluto serbare la musica già fatta senza introdurvi neppure una nota forestiera, malgrado la nuova tessitura e la grandissima restrizione che io feci del dramma e della musica stessa. Quindi, strada facendo, procurai di spogliarmi d’ogni sorta di pregiudizio, scossi il giogo della tiranna autorità, abbandonai la servile imitazione e, riconoscendo, nell’arte le bellezze della natura, presi quella per guida e questa per modello. 1
Come si evince da questo breve passo, la ripresa del modello antico da parte di Angiolini è intessuta di oscurità e paradossi. Anzitutto appare un controsenso definire come una “novità” la riproposizione sulle scene di una modalità espressiva già praticata nei secoli passati. In secondo luogo questo utilizzo del patrimonio teatrale greco-latino sembra volersi conciliare con un ulteriore modello, rappresentato dalle opere teatrali, o più semplicemente musicali, di matrice moderna. Il carattere antinomico della riflessione angioliniana raggiunge però il suo apice nell’epilogo del discorso : il maestro, affermando di avere progressivamente abbandonato ogni sorta di auctoritas o principio imitativo e di essersi limitato a seguire la natura, finisce per sconfessare quello stesso modello antico su cui pretende di fondare la propria arte. Da una simile impasse è possibile uscire solo analizzando il particolare meccanismo imitativo che lega la riforma coreica alla tradizione classica. Un altro testo di Angiolini, ovvero il programma 2 che accompagna la messa in scena del primo balletto pantomimo del secolo – il Don Juan 3 –, ne fornisce l’occasione.
cipi e di una luce che, come il fuoco sacro, non si estingue mai. Siamo convinti che il secolo che ha prodotto in letteratura L’Esprit des lois, la Henriade, l’Histoire naturelle, e l’Encyclopédie può andare tanto lontano nelle arti come nel secolo di Augusto »). 1 G. Angiolini, Lettere di Gasparo Angiolini a Monsieur Noverre sopra i Balli Pantomimi, in Il ballo pantomimo, cit., pp. 49-88, qui lettera i, p. 54. 2 Per l’approfondimento di questo nuovo genere letterario si rimanda infra, cap. iii, § 2. Al momento si precisa soltanto che, salvo ulteriori indicazioni, i termini “programma” e “libretto” vengono qui utilizzati quali sinonimi. 3 Il balletto viene presentato per la prima volta al Burgtheater di Vienna il 17 ottobre 1761 con musiche di Gluck (per la prima volta nella storia della musica espressamente composte per un ballo) e scene di Quaglio. Per un approfondimento dello spettacolo, del programma (cfr. Angiolini, Le Festin de Pierre) e soprattutto del ruolo giocato da esso all’interno della riforma della danza cfr. Bellina, I gesti parlanti ovvero il recitar danzando, cit. ; Dahms, Some Questions On the Original Version of Gluck and Angiolini’s Don Juan, cit. ; R. Engländer, Vorwort, in Gluck, Don Juan/Semiramis, cit., in particolare le pp. vii-xv ; Haas, Die Wiener Ballet-pantomime im 18. Jahrhundert und Glucks « Don Juan », cit. ; Russell, The Libertine Reformed : “Don Juan” by Gluck and Angiolini, cit. ; Testa, Il binomio Gluck-Angiolini e la realizzazione del balletto Don Juan, cit. ; L. Tozzi, Attorno a Don Juan, « Chigiana », xxix-xxx (1975), nuova serie n. 9/10, pp. 549-564.
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Lo stretto legame tra il nuovo genere artistico e la danza antica è evidente sin dall’incipit del libretto. Lo spettacolo viene presentato al pubblico viennese quale « Ballet Pantomime dans le goût des Anciens ». 1 Un simile parallelismo è mosso non soltanto dalla necessità di ancorare – nonché augurare ! – il successo del balletto pantomimo sulla base di quello raggiunto dalla danza greco-latina e trasmesso alla posterità da oratori, storici e poeti. Il nuovo genere artistico viene piuttosto ricondotto alla tradizione classica per recuperarne la matrice pantomima. Come aveva infatti attestato la riscoperta e diffusione del trattato di Luciano, 2 la danza antica non constava in un puro divertissement 3 come quello generalmente proposto sui palcoscenici sei-settecenteschi, bensì era capace di significare ovvero di « former, pour ainsi dire, un discours suivi ». 4 Più nello specifico la pantomima romana di età augustea – traendo la sua origine tanto dalla tradizione popolare italica quanto dalla danza greca e, in special modo, dalla chironomía 5 – era in grado di rappresentare il contenuto di un mito o di qualsiasi altra storia o testo attraverso il puro movimento. Per i riformatori ricollegarsi a una simile tradizione pantomima rappresenta dunque un passaggio obbligato – o per lo meno privilegiato – al fine di far riconoscere la danza quale arte imitatrice al pari di poesia e pittura. Come scrive Luciano :
La componente principale della professione del pantomimo è una sorta di scienza mimetica e dimostrativa che sa esprimere i pensieri e illuminare quello che resta nell’ombra. La lode di Tucidide a Pericle potrebbe essere il più alto encomio anche per un pantomimo : « Conoscere le cose necessarie e interpretarle » – in questo contesto per « interpretazione » si intende l’evidenza dei gesti. [...] Poiché il compito del pantomimo è di imitare e di garantire la rappresentazione del contenuto del canto attraverso il movimento, gli è necessario, come ai retori, praticare la chiarezza, affinché ogni azione rappresentata sia evidente senza bisogna di un narratore esterno. Anzi, come dice l’oracolo di Delfi, chi assiste alla pantomima deve « capire un muto e dare ascolto a uno che non parla ». 6
1 Angiolini, Le Festin de Pierre, A 2 r, rist. anast., p. xxiii (« balletto pantomimo secondo il gusto degli Antichi »). 2 Cfr. Luciano, La danza, a cura di S. Beta, tr. it. di M. Nordera, Venezia, Marsilio, 1992. Il De Saltatione di Luciano torna alla luce nel xv secolo a opera del monaco basilense Attanasio Calceopulo divenendo ben presto oggetto di innumerevoli citazioni – e plagi – all’interno di più ampie riflessioni sul valore educativo dell’attività coreica, prima, e sulle possibilità di azioni pantomimiche autonome, poi. Tradotto in francese da D’Ablancourt nel 1654 e in italiano da un tale Crittodinamio un secolo dopo (a Firenze col titolo Della danza nel 1779 e a Venezia come Della pantomima quattro anni più tardi), esso rappresenta un testo fondamentale all’interno della riforma coreica settecentesca e viene citato da Cahusac a Noverre quale prova delle capacità espressive del linguaggio gestuale. Monologo sotto forma di dialogo, questo testo non si presenta infatti come un trattato bensì come un elogio dello spettacolo danzato, una testimonianza del suo successo e conseguentemente una riflessione sui suoi caratteri precipui. Per un approfondimento della sua struttura nonché della fortuna avuta nella modernità cfr. l’introduzione a cura di Simone Beta e il contributo di Marina Nordera che accompagnano l’edizione italiana (ivi, rispettivamente pp. 9-44 e 143-156). 3 Con questo termine si intende nel Sei-settecento una sorta d’intermezzo, a base di canto e di danza, all’interno di un’opera teatrale maggiore e privo generalmente di intreccio drammatico. Il crescente successo riscontrato tra il pubblico da parte della danza porta al progressivo assorbimento dell’intermedio coreico negli ingranaggi del dramma, da un lato, o al suo lento cammino di autonomizzazione (ovvero alla sua trasformazione in ballo pantomimo), dall’altra. L’affermazione del balletto classico ottocentesco porta poi nuovamente in uso questo termine associandolo a una serie di variazioni e virtuosismi privi di intrigo. Cfr. F. D’Amico, s.v. Divertissement, in Enciclopedia dello spettacolo, cit., vol. iv, 1957, pp. 778-779 ; N. Lecomte, s.v. Divertissement, in Dictionnaire de la danse, cit., pp. 724-725. 4 Angiolini, Le Festin de Pierre, A 2 v, rist. anast., p. xxiv (« formare, per così dire, un discorso coerente »). 5 Con la chironomía si intende l’arte del gesto e, più nello specifico, dei movimenti ritmici delle mani effettuati senza muovere i piedi da terra. Come scrive Marina Nordera : « Questo tipo di linguaggio – detto chironomía o “linguaggio dei gesti” – esisteva anche prima di Augusto e veniva utilizzato nelle gare sportive, dagli oratori, oltre a far parte del bagaglio tecnico dei “coreuti”, i danzatori della tragedia e della commedia. Il vero merito della pantomima augustea è di aver sottratto la danza a tale sudditanza nei confronti dei generi teatrali di più solida tradizione, costituendosi come nuovo genere di successo » (M. Nordera, Fortuna de « La danza » nel Settecento, in Luciano, La danza, cit., p. 148). Quale ulteriore prova dell’interesse settecentesco per suddetta forma artistica cfr. V. Requeno, Scoperta della chironomia, ossia dell’arte di gestire con le mani, Parma, Fratelli Gozzi, 1797. 6 Luciano, La danza, cit., pp. 79, 89.
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L’appello a questo modello antico assume, tuttavia, un carattere paradossale. Sia la danza greca sia i famosi mimi di Pilade e Batillo 1 a cui Angiolini e i suoi colleghi dichiarano di rifarsi sono irrimediabilmente perduti. Delle liriche corali – all’interno delle quali, come già suggerisce il nome, la danza ricopre un ruolo centrale – non rimane che il testo o, tutt’al più i complessi termini tecnici della metrica greca che, coniati proprio sul movimento corporeo, rievocano la compenetrazione perduta di parola gesto e tono. 2 Degli spettacoli pantomimi di età imperiale, invece, sopravvivono solo le testimonianze scritte degli intellettuali dell’epoca. Tanto Luciano piuttosto che qualsiasi altro autore – da Plutarco a Svetonio –, lungi dall’offrire l’evidenza del gesto, forniscono però ai posteri unicamente dettagli in merito alle finalità e agli effetti raggiunti da queste forme coreiche. A differenza di quanto fatto dai maestri di ballo dal Rinascimento in poi, infatti, tutti gli autori classici pur tramandando il nome, spesso molto curioso, di innumerevoli danze non lasciano alcuna notazione o descrizione chiara in merito alla tecnica dell’orchesis greca piuttosto che della saltatio romana. Il pantomimo antico – elemento cardine sia dell’innovazione e della pratica della danza settecentesca sia di tutta la riflessione teorica a riguardo – si rivela in ultima analisi un modello vuoto. È lo stesso maestro di ballo Gennaro Magri – tentando di difendersi dalle accuse mossegli da Franceso Sgai in merito ai riferimenti storici spesso imprecisi e approssimativi del suo trattato 3 – ad ammetterlo :
Che il ballo sia inventato dai Coribanti in Frigia o dai più vecchi regnanti d’Egitto è per me indifferente, e lo sarà per tutti i ballanti del mondo. Premeva solo a me d’additare le origini d’alcune danze, onde venisse in miglior maniera illustrata la loro pratica. M’arreca però meraviglia che il presuntuoso riflessionista, assumendo l’impegno di mostrarne la prima derivazione, abbia poi terminato le inettissime sue ricerche col confessare quel che avea io già confessato, che del ballo è onninamente ignota l’origine. [...] E Plauto, e Terenzio, e Fedro, e Cicerone, e Marziale han tanto che far col ballo quanto i granchi colla luna. 4
Nell’impossibilità di uno sguardo diretto sulla scena coreica dell’antichità ma anche di trattati tecnico-pratici su di essa, le opere classiche divengono conseguentemente protagoniste di un particolare processo ermeneutico. Se da una parte, infatti, queste fonti sono soggette all’inevitabile interpretazione a cui qualsiasi testo è sottoposto, dall’altra, la particolare materia di cui trattano – ovvero una pratica performativa – potenzia ul1 Secondo la tradizione Pilade e Batillo – il primo originario di Alessandria d’Egitto e il secondo proveniente da Mastarne, un villaggio della Cilicia – giungono a Roma introducendovi nel 23 a.C. lo spettacolo pantomimo e riscuotendo da subito un grande successo. Come scrive Simone Beta : « L’argomento era di solito preso a prestito dalla mitologia greca e veniva trascritto su un libretto, detto fabula saltica, che un coro fuori scena cantava, parte all’inizio dello spettacolo e parte durante gli intervalli che dividevano i cinque episodi canonici. Il pantomimo compariva in scena durante questi episodi, indossando preziosissimi costumi di foggia orientale e una piccola maschera sul volto : con i suoi abili gesti raccontava la storia senza parlare, e con le sue spettacolari evoluzioni e i suoi rapidissimi cambiamenti di costume provocava negli spettatori entusiasmo e sorpresa. Il tutto avveniva al suono di numerosi strumenti musicali a percussione, un accompagnamento sonoro che doveva sembrare quasi assordante alle orecchie di un pubblico abituato alle note ben più discrete di una cetra o di un flauto » (S. Beta, Introduzione a Luciano, La danza, pp. 18-19). 2 Sulla danza nell’antica Grecia si rimanda al testo fondamentale di G. Prudhommeau, La danse grecque antique, Paris, Éditions du Centre national de la recherche scientifique, 1965, 2 voll. e al più recente F. G. Naerebout, Attractive Performances. Ancient Greek Dance : Three Preliminary Studies, Amsterdam, Gibien, 1997, tr. it. a cura di G. Di Lecce, La danza greca antica. Cinque secoli d’indagine, Lecce, Manni, 2001. 3 Cfr. F. Sgai, Al signor Gennaro Magri autore del Trattato teorico-pratico di ballo Riflessioni di Francesco Sgai fiorentino, sottocustode della Guardaroba del Real Teatro di S. Carlo ed una volta celebre ballerino al servizio degl’impressarj e danzatori ambulanti, Danzica [ma : Napoli], 1779, ora in Trattati di danza in Italia nel Settecento, cit., pp. 273-306, in particolare le pp. 277-280. 4 Magri, Trattato teorico-prattico di ballo, in Trattati di danza, cit., pp. 135-137.
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teriormente quest’attività : il lettore cerca di decodificare le impressioni e le riflessioni dell’autore-spettatore dell’epoca al fine di ricostruire lo spettacolo perduto. Le parole degli antichi diventano un mezzo attraverso cui avvicinare a ritroso il gesto del pantomimo che si è consumato nel suo stesso dispiegamento. All’inevitabile scacco a cui, tuttavia, questa operazione è destinata – a causa del numero troppo esiguo e incerto di informazioni a riguardo – non può che subentrare una vera e propria attività di creazione. Un simile procedimento è bene evidente nel testo con cui Angiolini approfondisce i temi abbozzati nel programma del Don Juan, ovvero la parte centrale della Dissertation sur les Ballets Pantomimes des Anciens che accompagna la messa in scena del suo secondo capolavoro, Semiramis (1765). 1 A partire dai testi classici e dalle istanze e stimoli del suo tempo, il coreografo cerca di perseguire una feconda sinergia tra danza antica e danza moderna cercando di formalizzare una coreutica nuova e al tempo stesso nota. Come ammette lo stesso Angiolini, il trattato di Luciano – « qui nous laissé tout ce que nous avons de plus complet sur ces sortes de Spectacles » 2 – non fornisce alcun precetto o norma in grado di aiutare nella costruzione del piano di un ballo. Esso ha lasciato una testimonianza certa dell’effetto generato dallo spettacolo pantomimo sul pubblico – ovvero la capacità di commuovere al pari di un dramma teatrale – senza tuttavia dare alcuna descrizione dettagliata del “come”. Di fronte a una simile impasse, il coreografo tenta dunque di articolare una precettistica facendo leva sull’analogia col teatro intessuta dall’intellettuale greco :
Si le temps avait épargné ce que Pylade avait écrit sur cet Art, il nous serait plus aisé de le ramener sur la Scène ; mais dans l’obscurité qui l’enveloppe aujourd’hui, n’ayant presque pas de lumière pour nous conduire, nous sommes obligés de marcher, pour ainsi dire, à tâtons, dans une crainte continuelle de nous égarer. Faire le plan d’une Action tragique pour la Danse Pantomime sans être aidé d’aucun précepte, d’aucun exemple, est certainement une chose très-difficile. Imaginer des règles pour de tels Poèmes, est beaucoup plus difficile encore, Lucien ne nous en a donné aucune ; mais heureusement nous avons encore la Poétique d’Horace, dont on peut, lorsqu’on a quelque génie & quelque intelligence, faire une application raisonnée à toutes sortes d’inventions poétiques, & de représentations théâtrales, & par conséquent aux Danses Pantomimes, en rapportant aux préceptes d’Horaces ce que notre Art exige indispensablement par sa nature. 3
Il balletto pantomimo imita la danza antica soltanto nella misura in cui è in grado di ricrearla. Anzitutto Angiolini riprende, sì, una serie di contenuti o regole che affondano le loro 1 Balletto tragico-pantomimo, esso viene presentato per la prima volta a Vienna il 31 gennaio 1765. Per un approfondimento del balletto cfr. Bellina, I gesti parlanti ovvero il recitar danzando, cit. ; Engländer, Vorwort, in Gluck, Don Juan/Semiramis, cit., in particolare le pp. xv-xxi ; L. Tozzi, Semiramis, « Chigiana », xxix-xxx (1975), nuova serie n. 9/10, pp. 565-570. 2 G. Angiolini, Dissertation sur les Ballets Pantomimes des Anciens : pubbliée pour Servir de Programme au Ballet Pantomime Tragique de Semiramis : Vienne le 31 janvier 1765 (Vienne, Jean Thomas de Trattnern, 1765), rist. anast. Milano, Dalle Nogare e Armetti, 1956, A3 v (« tutto ciò che possediamo di più completo su questa sorta di Spettacoli » Idem, Dissertazione sui balli pantomimi degli antichi, per servire da programma al ballo pantomimo tragico di Semiramide, tr. it. di S. Onesti, in Onesti, “L’arte di parlare danzando”, cit., pp. 18-32, qui p. 19). 3 Angiolini, Dissertation sur les Ballets Pantomimes des Anciens, B2 rv (« Se il tempo avesse risparmiato ciò che Pilade aveva scritto su quest’Arte, ci sarebbe più facile riportarla sulla Scena, ma nell’oscurità che l’avvolge oggi, non abbiamo quasi nessuna luce a farci da guida, siamo obbligati a camminare, per così dire, a tentoni, nel timore continuo di smarrirci. Costruire il piano di un’Azione tragica per la Danza Pantomima senza essere aiutati da alcun precetto, da alcun esempio, è certamente una cosa molto difficile. Immaginare delle regole per tali Poemi, è molto più difficile ancora ; Luciano non ce ne ha donato alcuna, ma fortunatamente possediamo ancora la Poetica di Orazio, di cui si può, con un po’ di genio e intelligenza, fare un’applicazione ragionata a ogni sorta di invenzioni poetiche e rappresentazioni teatrali, e di conseguenza alle Danze Pantomime, rapportando ai precetti di Orazio ciò che la nostra Arte esige indispensabilmente per sua natura » Idem, Dissertazione sui balli pantomimi degli antichi, cit., p. 23).
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radici nel passato, ma non propriamente in quello della saltatio – di cui non è rimasta alcuna traccia sicura e chiara – bensì del teatro greco piuttosto che della retorica antica. In secondo luogo queste stesse norme – per lo più ricavate dalla Poetica di Orazio – sono soggette a integrazioni o modifiche : a partire dai soggetti rappresentabili – ai cui capolavori di Eschilo piuttosto che Euripide vengono aggiunti i repertori moderni di Corneille, Racine e Voltaire 1 – fino ad arrivare all’applicazione delle unità di tempo, spazio e azione – per le quali la natura puramente performativa dell’arte coreica richiede opportuni arrangiamenti come, ad esempio, la riduzione della durata dello spettacolo. 2 Quest’operazione ibrida da parte di Angiolini – da una parte volta a sostenere il progetto riformatore sulla base dell’esempio antico, dall’altra costretta a immaginare questo stesso modello a partire dalle esigenze e possibilità della danza coeva – è mossa dall’evenienza della disciplina tersicorea. Poiché ogni passo o gesto si dissolve nel momento stesso in cui si dispiega, qualsiasi tipo di modello compiuto e stabile è precluso alla danza : essa esige di rinnovarsi ininterrottamente e fare di ogni hic et nunc la propria origine in atto. L’esempio degli antichi si trasforma così da un forma esterna e definita da eguagliare a un progetto da costruire, a un fine a cui tendere e, al tempo stesso, da superare tramite l’immaginazione. Come sintetizza lo stesso Noverre :
L’antiquité à certains égards est un chaos qu’il nous est impossible de débrouiller ; c’est un monde dont l’immensité nous est inconnue ; chacun prétend y voyager sans s’égarer & sans se perdre. Cette multitude de choses qui se présentent à nous dans, l’éloignement le plus considérable, est l’image d’une perspective trop étendue ; l’œil s’y perd & ne distingue qu’imparfaitement ; mais l’imagination vient au secours, elle supplée à la distance & à la faiblesse des regards ; l’enthousiasme rapproche les objets ; il en crée de nouveaux ; il s’en fait des monstres ; tout lui paraît grand, tout enfin lui semble gigantesque. [...] Les anciens avaient des bras, & nous avons des jambes ; réunissons, Monsieur, à la beauté de notre exécution, l’expression vive & animée des Pantomimes ; détruisons les masques, ayons une âme, & nous serons les premiers danseurs de l’Univers. 3
Una simile peculiarità della danza rappresenta già di per sé un sintomo di destabilizzazione del principio mimetico su cui si fonda l’arte del xviii secolo. Mentre le arti figurative o quelle letterarie possono rifarsi alle opere classiche nel loro tentativo di imitare la natura – basti ricordare tutto il dibattito a cui il gruppo scultoreo del Laocoonte dà luogo nel Settecento 4 – il balletto pantomimo non ha alcun referente a cui appoggiarsi. Ogni operazione imitativa si rivela, a prescindere da qualsiasi intenzione possa muoverla, come un contributo in mas1
Cfr. Angiolini, Dissertation sur les Ballets Pantomimes des Anciens, cit., A8 v, D1 v. Cfr. ivi, B3-B4 r. 3 Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., pp. 257-260 (« L’antichità, sotto certi aspetti, è un caos che ci è impossibile districare ; è un universo la cui immensità ci è sconosciuta ; ciascuno pretende di viaggiare in questo mondo senza andare fuori strada, senza smarrirsi. Questa moltitudine di cose che si presentano a noi da una distanza così grande è l’immaginazione di una prospettiva troppo estesa ; l’occhio vi si perde e non distingue che molto imperfettamente ; ma l’immaginazione ci viene in aiuto, essa supplisce alla distanza e alla debolezza della nostra vista ; l’entusiasmo avvicina gli oggetti ; ne crea di nuovi ; ne fa dei mostri ; tutto appare più grande, tutto infine sembra gigantesco sotto l’influenza di questa immaginazione. [...] Gli antichi avevano braccia, noi abbiamo gambe ; riuniamo, Signore, alla bellezza della nostra esecuzione, l’espressione viva e animata dei pantomimi ; distruggiamo le maschere, abbiamo un’anima, e noi saremo i primi danzatori dell’universo » Idem, Lettere sulla danza, cit., pp. 77-78). 4 A titolo meramente orientativo si rimanda come fonti primarie a Lessing, Laocoonte (in cui viene dato corpo e sintesi a tutte le innumerevoli questioni estetiche a cui il confronto da parte dei moderni con il gruppo scultoreo aveva fino ad allora portato) e a J.W. Goethe, “Laocoonte” e altri scritti sull’arte (1789-1805), a cura di R. Venuti, Roma, Salerno Editrice, 1994 (dove la riflessione sul Laocoonte, accostata ad altri saggi dell’intellettuale tedesco, mette in evidenza la questione mimetica sottesa a tutto il dibattito settecentesco sul rapporto tra arte, natura e modello antico). Quanto agli studi in proposito, si rimanda al volume collettaneo : Laocoonte, n. mon. « Aesthetica. Pre-Print », xxxv (1992). 2
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sima parte originale. Un simile paradosso si approfondisce ulteriormente se si esaminano gli esiti estetologici di una delle principali interpretazioni della danza antica che vengono fornite nel xviii secolo, quella di Du Bos. 2. Il gesto : un significato da formare
Studioso e diplomatico francese, Jean-Baptiste Du Bos consegna alle stampe nel 1719 un testo che a seguito di diverse riedizioni diviene un termine di confronto ineludibile per filosofi come Rousseau, Batteux, Voltaire e Diderot : le Réflexions critiques sur la poësie et sur la peinture. Alla confluenza di classicismo francese ed empirismo anglosassone e ancora immerse nella querelle tra antichi e moderni, queste riflessioni formano il gusto di un’intera epoca e offrono un metodo nuovo per accostare problemi di estetica. 1 Nell’edizione del 1733 il filosofo inserisce una terza sezione sulla rappresentazione teatrale degli antichi in cui, attraverso un montaggio di testi, cerca di dimostrare come Greci e Romani comprendessero col termine mousiké sia la musica propriamente detta sia l’arte poetica che quella della saltazione : tutte ramificazioni di un’unica arte, composta e trasmessa per mezzo di una notazione musicale andata poi perduta. Saltatio per i Romani e orchesis per i Greci, l’arte del gesto includeva al suo interno sia i passi e le movenze della danza generalmente intesa sia tutto il patrimonio mimico di cui si avvalevano oratori e commedianti. La traduzione da parte delle lingue romanze dei due termini in questione con quello di “danza” – ovvero la sostituzione del nome del genere con quello della specie – ha fatto però perdere tale complessità espressiva e soprattutto generato molti equivoci. Scrive il filosofo :
Dunque ben si comprende che le danze artificiali degli antichi, in cui s’imitavano, per esempio, i salti e le capriole che alcuni contadini possono fare dopo aver bevuto o i balzi forsennati delle Baccanti, assomigliassero alle nostre danze, insomma, on y tripudiait. Ma le altre danze degli antichi, dove s’imitava l’azione di persone che non saltano e, come diciamo noi, che non danzano, erano soltanto un’imitazione delle andature, degli atteggiamenti del corpo, dei gesti, insomma di tutte le espressioni che normalmente accompagnano gli uomini nei loro discorsi o che talvolta usano per esprimere i loro sentimenti senza parlare. [...] Nel settantanovesimo libro di Dione, vediamo che Eliogabalo danzava non solo mentre vedeva rappresentare drammi dal posto riservato all’imperatore, ma anche quando camminava, concedeva udienze, parlava ai suoi soldati, e persino facendo sacrifici. Nelle circostanze riferite da Dione, per quanto poco assennato fosse, Eliogabalo non danzava come intendiamo noi. È dunque opportuno farsi un’idea dell’arte chiamata saltatio come di un’arte che comprendeva non solo l’arte della nostra danza, ma anche quella del gesto, o quella danza nella quale, propriamente parlando, non si danzava. 2
Una simile tesi incontra da subito l’ostilità dei maggiori protagonisti della danza settecentesca. Sia La danse ancienne et moderne che il programma di Semiramis sostengono la capacità della danza di rappresentare un’azione drammatica senza l’ausilio della parola proprio sulla base del modello esemplare degli antichi : qualora fosse stato provato che la disciplina coreica antica è altra cosa da quella moderna e soprattutto che solo in combinazione con il discorso è in grado di significare, sarebbe venuto a cadere uno degli argomenti principali a
1 Sulla figura e il pensiero di Du Bos si rimanda anzitutto ai lavori pionieristici di A. Lombard, L’Abbé Du Bos : un initiateur de la pensee moderne, Paris, Hachette, 1913, rist. anast. Genève, Slatkine Reprints, 1969 ; Idem, La correspondance de l’abbé Du Bos : 1670-1742, Paris, Hachette, 1913, rist. anast. Genève, Slatkine Reprints, 1969 ; Idem, La querelle des anciens et des modernes : l’Abbé Du Bos, Neuchâtel, Attinger freres, 1908, rist. anast. Genève, Slatkine Reprints, 1969. Tra i lavori più recenti sull’autore, soprattutto in riferimento alle tematiche estetiche qui affrontate, si segnalano : M. Mazzocut-Mis, Corpo e voce della passione. L’estetica attoriale di Jean-Baptiste Du Bos, Milano, Led, 2010 ; Jean-Baptiste Du Bos e l’estetica dello spettatore, a cura di L. Russo, Palermo, Centro internazionale studi di estetica, 2005 (all’interno di questo volume si segnalano in particolare i saggi sul tema della recitazione : C. Serra, Du Bos e la maschera risonante, alle pp. 91-102 e C. Vicentini, Du Bos e la recitazione teatrale, alle pp. 77-90). 2 Du Bos, Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura, cit., p. 436.
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favore della danse en action. I serrati argomenti con cui Cahusac cerca di invalidare la ricostruzione di Du Bos 1 oppure le obiezioni che solleva Angiolini ricorrendo tanto alla testimonianza degli autori classici quanto a quella dei danzatori moderni 2 lo dimostrano. Si legge, ad esempio, nel programma di ballo del 1765 :
Je n’ignore pas qu’il y a eu des Auteurs modernes qui ont avancé que la Danse des Anciens n’étoit que l’art de jouer par les gestes une Action Dramatique quelconque [...]. Mais cette opinion n’est pas soutenable, si on examine tout ce que les Anciens ont écrit de la Danse Pantomime. [...] La Saltation des Anciens n’étoit donc autre chose que la Danse Pantomime véritable, ou l’art de mouvoir les piés, les bras, le corps en cadence au son des instruments, & de rendre intelligible aux Spectateurs ce qu’on veut représenter, par des gestes, des signes, & des expressions d’amour, de haîne, de fureur, & de désespoir. La description de la Danse Pantomime du Jugement de Paris, qu’Apulée nous a laissée, le démontre avec évidence. On y trouve que Vènus se présentant sur la Scêne commençe à marcher, & à faire des gestes très-délicats, & très-expressifs, & des mouvemens de tête au son de la flûte, & en cadence, ne dansant quelquefois que des yeux. Si de non jours Mademoiselle Sallè avoit dû danser le Rôle de Vènus dans le Ballet du Jugement de Paris, auroit-elle fait autre chose ? 3
Nonostante gli intenti programmatici degli stessi riformatori, l’imitazione che caratterizza il ballet en action anziché configurarsi in termini di fedeltà, per così dire, filologica rispetto al modello pantomimo antico mette in campo una forte componente immaginativa. Tanto il programma di Semiramis quanto l’argomentazione condotta nel paragrafo precedente lo hanno mostrato. Ciò che occorre ora far emergere è come la tesi storica contro cui Cahusac e Angiolini si scagliano – e a cui entrambi limitano la propria conoscenza e trasmissione di Du Bos – assuma non soltanto uno spessore teorico ben maggiore se riletto alla luce del quadro generale dell’opera del filosofo, ma soprattutto riveli un contributo insospettato – persino ai riformatori dell’epoca – verso una progressiva emancipazione della disciplina coreica dal paradigma strettamente imitativo dell’arte. 2. 1. Du Bos e l’esplorazione della sensibilità La ricerca storico-erudita di sapore squisitamente accademico condotta da Du Bos sul teatro degli antichi va vista, in primo luogo, come un’integrazione della tesi teorica sostenuta a proposito della musica nel cap. xlv della prima sezione :
Ci rimane da parlare della musica, come terzo modo inventato dagli uomini per dare nuovo vigore alla poesia e per metterla in condizione di esercitare su di noi una maggiore impressione. Così, come il pittore imita i tratti e i colori della natura, allo stesso modo il musicista imita i toni, gli accenti, le brevi pause, le inflessioni di voce, insomma tutti quei suoni per mezzo dei quali la natura stessa esprime sentimenti e passioni. Tutti questi suoni, come abbiamo già detto, possiedono una forza straordinaria per emozionarci, poiché essi sono i segni delle passioni, istituiti dalla natura, da cui hanno ricevuto l’energia ; le parole articolate, invece, non sono altro, che segni arbitrari delle passioni. 4
1
Cfr. Cahusac, La danse ancienne et moderne, cit., pp. 36-43. Cfr. Angiolini, Dissertation sur les Ballets Pantomimes des Anciens, cit., A6-A8. Ivi, A7 v - A8 v (« Non ignoro che ci siano stati degli Autori moderni che hanno sostenuto che la Danza degli Antichi [...] non sia stata che l’arte di recitare attraverso i gesti un’Azione drammatica qualsiasi [...]. Ma questa opinione non è sostenibile, se si esamina tutto quello che gli Antichi hanno scritto sulla Danza Pantomima [...]. La Saltatione degli Antichi non era dunque altra cosa che la Danza Pantomima autentica, ovvero l’arte di muovere i piedi , le braccia, i corpi in cadenza al suono degli strumenti, e di rendere intellegibile agli spettatori ciò che si vuole rappresentare attraverso dei gesti, dei segni, e delle espressioni d’amore, di odio, di furore e di disperazione. La descrizione della Danza Pantomima Il Giudizio di Paride, che Apuleio ci ha lasciato, lo dimostra con chiarezza. Vi si dice che Venere, presentandosi sulla scena, comincia a “camminare e a fare gesti molto delicati e molto espressivi, e dei movimenti della testa al suono del flauto e in cadenza, danzando talvolta soltanto con gli occhi”. Se ai nostri giorni la Signorina Sallé avesse dovuto danzare il ruolo di Venere nel Ballo Il Giudizio di Paride, avrebbe fatto altre cose ? » Idem, Dissertazione sui balli pantomimi degli antichi, cit., p. 22). 4 Du Bos, Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura, cit., p. 177. 2 3
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In queste righe la musica viene messa sullo stesso piano delle due discipline guida del Settecento : pittura e poesia. 1 Ciò è reso possibile perché Du Bos riscatta la disciplina dalla mancanza di potere semantico di cui viene usualmente tacciata e in ragione della quale è surclassata. Se per le arti figurative o letterarie è, infatti, piuttosto semplice individuare ed esplicitare il contenuto che mirano a veicolare, per la disciplina musicale la questione risulta più complicata : essa sembra finalizzata al semplice ornamento dei concetti espressi dalle parole. Di fronte, tuttavia, al sempre maggiore spazio acquistato dalla musica all’interno del melodramma, occorre una spiegazione e legittimazione del suo successo. Non solo. Come ben evidenzia Cecilia Campa, la progressiva sfiducia nel potere del linguaggio verbale di esprimere direttamente gli oggetti del pensiero induce la ricerca filosofica a pensare a « un modo di reinventare i suoni, a una lingua musicale diversa da quella in uso, che le garantisca una presa non solo sensibile ma anche cognitiva ». 2 Il filosofo francese cerca di perseguire questo obiettivo spostando, anzitutto, il fuoco dell’attenzione dal valore intrinseco dell’oggetto imitato all’effetto che esso provoca sullo spettatore. Come scrive Enrico Fubini :
Secondo il Du Bos il piacere prodotto dalle arti deriva dal fatto che esse imitano quegli oggetti capaci di produrre in noi delle passioni. [...] Ciò che piace, o meglio ciò che tocca non sarà l’oggetto imitato, ma soprattutto il modo in cui lo si è imitato ; infatti per il Du Bos, la meraviglia, lo stupore, l’illusione, la verità stessa sono altrettanti ingredienti dell’emozione estetica, tanto è vero che i soggetti per i pittori e i poeti sono inesauribili e lo stesso soggetto può dar vita a mille quadri diversi. Lo stile è allora per il Du Bos l’elemento proprio dell’opera d’arte, anche se non bisogna considerarlo solo dal punto di vista formalistico, ma sempre come il modo peculiare con cui viene presentato un certo soggetto dal genio dell’artista. 3
All’interno di questa nuova prospettiva estetica – sospesa tra sensualismo e intellettualismo, ma ormai lontana dal classicismo di Boileau – la musica è considerata arte maggiore a tutti gli effetti perché capace di imitare le passioni stesse e, dunque, di emozionare. Ciò che occorre sottolineare è come quest’arte sortisca un simile effetto. Pur adoperando la terminologia tradizionale, infatti, è immediatamente evidente come il filosofo rinnovi implicitamente il significato del paradigma mimetico. Se la disciplina musicale si avvale di segni naturali capaci di cogliere il sentimento al suo stato sorgivo e originario – non mediato da alcuna convenzione linguistica o concettuale – essa viene ad esempio a coincidere con la natura stessa – ovvero con il referente stesso del processo mimetico – offrendo così un nuovo modello artistico con cui confrontarsi. Il fatto che nella iii sezione poi Du Bos accorpi nella musica suono, parola e gesto non vuole che essere uno sviluppo di tale tesi ovvero la dimostrazione di un più ampio e unico linguaggio originario che è legato alla natura di cui è rappresentazione non da un rapporto convenzionale-imitativo bensì naturale-espressivo. Inserite in questa cornice teorica generale, le riflessioni di Du Bos sulla danza acquistano tutto un altro accento. In primo luogo il tentativo di recuperare un’estensione maggiore 1 Cfr. E. Fubini, Empirismo e classicismo. Saggio sul Du Bos, Torino, Giappichelli, 1965, in particolare le pp. 65-74 ; Idem, Du Bos e la musica, in Jean-Baptiste Du Bos e l’estetica dello spettatore, cit., pp. 67-76. 2 C. Campa, La repubblica dei suoni. Estetica e filosofia del linguaggio musicale nel Settecento, Napoli, Liguori, 2004, p. 3. Questo testo si prefigge di ripensare il rapporto tra musica e linguaggio nel Settecento a partire dai connotati del suono e dalle relazioni che esso instaura con le facoltà dello spirito. Sebbene questo studio non ripercorra specificatamente la dialettica tra imitazione ed espressione che caratterizza il secolo, esso risulta altresì un prezioso termine di confronto e integrazione del presente studio poiché la questione sottesa è pur sempre la significazione. Si rimanda, dunque, ad esso per ogni ulteriore approfondimento delle questioni linguistico-musicali legate al Settecento. Per un’introduzione, invece, più ampia e generale ai problemi teorico-estetici legati alla musica nel Settecento si rinvia a Fubini, Gli enciclopedisti e la musica, cit. e a M. Garda, Musica sublime: metamorfosi di un’idea nel Settecento musicale, Lucca-Milano, Ricordi-lim, 1995. 3 Fubini, L’estetica musicale dal Settecento a oggi, cit., p. 28.
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all’arte coreica non va interpretato come un mezzo per screditare la danza stricto sensu ma per riconquistare al movimento corporeo nel suo complesso una funzione non meramente estetico-decorativa. Solo all’interno di un processo di riconsiderazione delle facoltà espressive dell’uomo è possibile, infatti, per il gesto acquisire una propria funzione e valore. La perentorietà con cui Du Bos sostiene il valore semantico della saltazione ne è una prova : « I gesti della danza antica dovevano dire, dovevano significare qualcosa : dovevano, per usare questa espressione, essere un discorso coerente ». 1 In secondo luogo, proprio ripartendo dalle ultime parole di questa citazione, occorre sottolineare come il filosofo non consideri il gesto alla stregua di un mero sostegno della parola né tantomeno un suo doppio, bensì uno strumento che collabora con il discorso nella trasmissione dell’emozione. La classificazione dei gesti operata da Du Bos lo dimostra. Nel cap. xiii della iii parte, dedicato espressamente alla danza antica, il filosofo enuclea due tipi di gesti significativi : quelli naturali e quelli artificiali. I primi sono « quelli che accompagnano naturalmente il discorso e che si usano parlando » ; 2 gli altri « non traggono il loro significato dalla natura, ma proprio dalla convenzione degli uomini ». 3 Degli uni si avvalgono in prima istanza oratori e attori per animare la persona che parla e quella che ascolta, dando forza al discorso ; degli altri si servono invece danzatori e mimi per tentare di farsi capire in assenza di alcun sostegno verbale. La particolare cura che Du Bos dedica nella specificazione del primo tipo di gesto, e conseguentemente la rilevanza che accorda ai mestieri dell’oratore e dell’attore 4 rispetto a quello del danzatore, non deve però trarre in inganno e far dedurre una sfiducia da parte del filosofo nella capacità semantica del movimento corporeo privo di ausilio linguistico. Un mimo che voglia fare le veci di un attore si trova costretto a ricorrere a gesti che soltanto grazie a una convenzione vengono riconosciuti quali sostituti di particolari parole o espressioni. Simili gesti hanno un significato solo « perché descrivono la cosa che si vuole esprimere tramite essi » 5 e sono soggetti a facili misconoscimenti poiché non sempre il rapporto tra movimento corporeo e oggetto designato è evidente. A fianco di questa debolezza però Du Bos mette in luce la vera forza del linguaggio corporeo :
Sappiamo che la logica suddivide tutti i segni in due generi, i segni naturali e i segni convenzionali. Il fumo, dice, è il segno naturale del fuoco, mentre la corona è soltanto un segno convenzionale, un emblema della regalità. Così l’uomo che si batte il petto fa un gesto naturale che indica un’emozione. Chi descrive, gesticolando, una fronte cinta dal diadema, fa soltanto un gesto convenzionale che indica una testa coronata. 6
L’eloquenza corporea non significa il mondo delle cose ma quello delle emozioni. Di conseguenza il gesto è capace di esprimere direttamente anche quel piacere sensibile che il filosofo considera fine di ogni arte, ovvero è in grado di generare nello spettatore la stessa emozione che gli procurerebbe l’esperienza stessa dell’oggetto o della situazione imitata ma con effetti meno forti e meno duraturi. 7 Quando Du Bos parla di un “accompagnamento” del gesto al discorso, non intende quindi affermare la condizione subalterna o opzionale del movimento corporeo rispetto alla parola, ma al contrario vuole difenderne la specificità semantica e il suo concorrere in modo insostituibile all’efficacia espressiva dell’intera rappresentazione. Un’ulteriore conferma a questa lettura viene dalla seguente affermazione del filosofo :
1
Du Bos, Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura, cit., p. 436. 3 Ivi, p. 438. Ibidem. Per il ruolo svolto da Du Bos nel processo di emancipazione della recitazione dall’oratoria, cfr. Vicentini, Du Bos e la recitazione teatrale, cit., pp. 77-90. 5 6 Du Bos, Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura, cit., p. 439. Ibidem. 7 A proposito della particolare emozione generata da un’opera d’arte, cfr. ivi, pp. 38-51. 2
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I nostri avi, dice Cassiodoro, hanno chiamato musica muta quell’arte musicale che insegna a parlare senza aprire bocca, a dire tutto attraverso i gesti, e che insegna pure a far capire con certi movimenti delle mani o con diversi atteggiamenti del corpo ciò che si farebbe davvero fatica a far capire con un discorso sensato o una pagina scritta. 1
Questa semplice ricostruzione storica di ciò che gli antichi intendono per arte musicale in realtà racchiude al suo interno una tesi teorica : il gesto è capace di un’eccedenza espressiva rispetto alla parola – ovvero è in grado di comunicare qualcosa che difficilmente il linguaggio verbale saprebbe articolare – poiché, come Du Bos ha già avuto modo di affermare precedentemente, vi è una corrispondenza naturale tra gesto ed emozione, gesto e sentimento. La ragione per cui si diversificano queste due relazioni è che per il filosofo emozione e sentimento non sono perfettamente sinonimi, nonostante egli paia utilizzarli indifferentemente rispetto al gesto ; un rapido riepilogo di alcuni passaggi teorici della prima sezione dell’opera lo dimostra, ma soprattutto consente di mettere ulteriormente a fuoco l’importanza che assume il linguaggio corporeo agli occhi di Du Bos. Il sentimento si differenzia dalla semplice emozione o passione – ovvero da qualsiasi affezione immediata e irriflessa – e corrisponde alla prima idea che si forma nell’animo a partire da questo sostrato passivo ; 2 esso è pertanto a metà strada tra un senso che percepisce sulla base di impressioni e una facoltà che a partire da esse giudica autonomamente. A differenza della parola, che condivide con l’idea un rapporto arbitrario – tranne quando si è bambini e il loro nesso si forma così bene da darci l’impressione che possieda « un’energia naturale » 3 oppure in quel linguaggio originario che poc’anzi si è visto rievocato nella mousiké degli antichi – il gesto è sintonizzato su di essa poiché la natura ha stretto tra loro una relazione che permane viva tuttora. Ciò comporta che il gesto partecipi del processo di interpretazione incluso nel sentire stesso e che ne conservi il carattere al contempo ricettivo e formativo. Alla luce di queste premesse, l’invito rivolto da Du Bos all’oratore di non intonare il suo gesto al significato specifico della parola che pronuncia ma al « sentimento che esprime » 4 si svela in tutta la sua pregnanza teorica. Il gesto non ri-presenta il sentimento né qualsiasi altro contenuto o forma conclusa perché la sua capacità non consiste nel farsi specchio di un mondo già dato, ma nel propagare l’energia espressiva sottesa al suo dispiegamento. Solo per questa ragione la danza antica – la stessa a cui si rifanno Cahusac e Angiolini ! – può assolvere esemplarmente al compito che il filosofo riserva a ogni arte : « Riconoscere i caratteri della natura ». 5 Questo compito non equivale né a una copia pedissequa di ciò che appare né a un’allegoria di un messaggio recondito, ma significa esplorare ed esprimere la sensibilità, 6 la complessa interazione tra uomo e mondo. Se dalla filosofia pura ci si avvicina alle riflessioni prodotte a ridosso della scena a proposito della pantomima, la questione emerge in modo ancora più evidente. Più nello specifico, è il trattato sulla recitazione di Johann Jacob Engel ad articolare ulteriormente la funzione formativa del gesto e a mostrare la tessitura dinamica del meccanismo espressivo.
2. 2. L’espressione come movimento : la via engeliana attraverso e al di là della semiotica
Tra il 1785 e il 1786 Engel stampa a proprie spese le Ideen zu einer Mimik. Studioso poliedrico – capace di spaziare dalla filosofia pura alla retorica finanche alla musica – egli intende fornire all’attore non soltanto un manuale pratico-empirico di recitazione bensì un sistema teorico che 1
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Ivi, p. 440. Ivi, p. 147. 5 Ivi, p. 110.
Cfr. ivi, p. 124. Ivi, p. 439. 6 Cfr. ivi, p. 102.
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gli consenta attraverso alcuni principi e regole fondamentali di conoscere e padroneggiare la propria arte gestuale. 1 Ciò è reso possibile dalla teoria organicistica dell’essere umano che si afferma progressivamente nella seconda metà del xviii secolo. Tanto le scoperte della medicina piuttosto che le ricerche in campo fisiognomico e patognomico 2 o ancora le nuove prospettive aperte dall’estetica volgono tutte in un’unica direzione : il corpo, da pura macchina al servizio di un’anima esterna ad esso, viene inteso non solo come trasparente – ovvero capace di rendere visibile il mondo delle passioni interne – bensì direttamente protagonista e partecipe della vita interiore del soggetto. All’homme machine succede l’homme sensible in cui azione fisica e psichica sono in un rapporto di mutua interdipendenza che può essere verificato e studiato. 3 Questo nuovo e composito sfondo di pensiero è ben evidente nella molteplicità e varietà di autori – da Hartley a von Haller, da Lavater a Lichtenberg, da Du Bos a Sulzer – a cui Engel fa esplicito riferimento nel proprio lavoro. Il filosofo tedesco si avvale degli stimoli e dei risultati delle diverse scienze del suo tempo al fine di risalire ai meccanismi dell’espressività corporea e fornire così all’attore il modo di causare nello spettatore una particolare impressione piuttosto che sentimento. All’interno di una simile speculazione danza e pantomima svolgono un ruolo chiave : il confronto diretto con il magistero di Noverre lo dimostra. 4 Se da una parte, infatti, Engel cerca di differenziare queste forme coreiche dalla recitazione mostrandone i limiti e le ingerenze, dall’altra esse risultano in ultima analisi quali esempi paradigmatici della differenza espressiva del gesto rispetto alla parola. 5
1 Tra gli studi specifici sulla questione della rappresentazione gestuale nella produzione engeliana si rimanda in particolare a : C. Blatter, Johann Jakob Engel (1741-1802). Wegbereiter der modernen Erzählkunst. Untersuchungen zur Darstellung von Unmittelbarkeit und Innerlichkeit in Engels Theorie und Dichtung, Bern et al., Lang, 1993, in particolare le pp. 50-55 (nonché le pp. 56-124 che analizzano l’articolazione letteraria del problema all’interno del romanzo di Engel Lorenz Stark) ; Jeschke, Noverre, Lessing, Engel, cit. ; H. Lethen, Die Geste als Ausdruck im Licht einer Handlung. Johann Jakob Engels “Beobachtungen zur Mimik”, in Johann Jakob Engel (1741-1802). Philosoph für die Welt, Ästhetiker und Dichter, a cura di A. Košenina, Hannover- Laatzen, Wehrhahn, 2005, pp. 137-146 ; L. Mariti, Tra scienza dell’uomo e scienza dell’attore, in Engel, Lettere intorno alla mimica, rist. anast., cit., pp. vii-lxxix ; F. Ruffini, Spessore alla storia : problemi degli attori e problemi dell’attore nel Settecento, « Quaderni di Teatro », xi (1981), 3, pp. 73-89. Per una panoramica più generale sull’autore – visto il numero complessivamente esiguo di studi a riguardo – si rimanda invece a Johann Jakob Engel (1741-1802). Philosoph für die Welt, Ästhetiker und Dichter, cit. ; A. Košenina, M. Wehrhahn, Johann Jakob Engel (1741-1802). Leben und Werk des Berliner Auf klärers, Ausstellung zum 250. Geburtstag, Berlin, Universitätsbibliothek der Freien Universität Berlin, 1991. 2 Con fisiognomica si intende la comprensione e interpretazione del carattere per mezzo degli aspetti visibili, durevoli e strutturali dell’interiorità umana (ad esempio, la morfologia del volto) ; la patognomica, invece, rappresenta l’auscultazione degli stati d’animo contingenti attraverso l’interrogazione degli aspetti visibili, ma mutevoli e transitori dell’individuo (come la mimica e il movimento). Per quanto diverse, queste due arti – che ricoprono un ruolo chiave all’interno della riflessione settecentesca – si fondano su un principio comune, efficacemente illustrato da Giovanni Gurisatti attraverso l’esempio del volto : « Il tratto espressivo, fisso o mobile [...] non è un sintomo o uno spasmo, cioè un indizio visibile che rinvia geneticamente ad altro da sé, alla sua causa (organica) invisibile, bensì è simbolo [...]. Il tratto-simbolo è il medium della polarità dinamica, o unità polare-circolare coesistenziale, di invisibile e visibile, interno ed esterno, anima e corpo, dove tra i due poli coesistenti non v’è genesi, successione, dualità, gerarchia, ma assoluta con-temporaneità, simultaneità, co-appartenenza, identità-nella-differenza » (G. Gurisatti, Dizionario fisiognomico. Il volto, le forme, l’espressione, Macerata, Quodlibet, 2006, pp. 22-23). Per un approfondimento storico e teorico del problema si rinvia al testo appena citato. 3 Per una prima introduzione alla questione cfr. S. Moravia, La scienza dell’uomo nel Settecento, Bari, Laterza, 1970. 4 Cfr. Engel, Lettere intorno alla mimica, cit., in particolare le lettere xxix-xxxii. 5 Il rapporto tra gesto e parola così come la più ampia questione mimetica che attraversa tanto le arti letterarie quanto quelle più marcatamente performative sono oggetto di riflessione da parte di Engel in diverse sue opere. Un puntuale approfondimento di questi testi esula, tuttavia, dall’obiettivo precipuo del presente lavoro – finalizzato a evidenziare la differenza espressiva della danza teatrale che emerge dal confronto con la recitazione. Ci si limita dunque, per il momento, a menzionare e rimandare alle opere principali in cui, da altri punti di vista, il teorico affronta la questione : Idem, Ueber Handlung, Gespräch und Erzehlung, « Neue Bibliothek der schönen Wissenschaften und der freyen Künste », xvi (1774), 2, pp. 177-256, rist. anast. a cura di E. T. Voss, Über Handlung, Gespräch und Erzählung, Stuttgart, Metzler, 1964 ; Idem, Ueber die musikalische Malerey, Berlin, Christian Friedrich Voß und Sohn, 1780 ; Idem, Schriften, vol. ix : Philosophische Schriften, i parte, Berlin, Mylius, 1844 e vol. x : Philosophische Schriften, ii parte, Berlin, Mylius, 1844.
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La posizione del filosofo rispetto alla pantomima si mostra sin dall’inizio del trattato alquanto scettica, per non dire negativa. Nella iii lettera, infatti, il filosofo sostiene che questa forma espressiva non solo non si dimostra autonoma nella significazione, ma rischia di risultare “ridicola”. La ragione è ricondotta dal teorico alla pretesa da parte della pantomima « di dir tutto essa di per sé ». 1 A differenza della mimica che accompagna la parola, essa pretende di sostituirsi ad essa incorrendo nell’inevitabile errore di esagerare le proprie espressioni per tentare di farsi intendere, perdendo così la giusta misura, ingrediente immancabile di ogni arte. Di fronte a un simile scacco, Engel cerca dunque di tenere distinte le due arti per evitare che alla recitazione vengano addebitati i rischi e le ingerenze del puro linguaggio gestuale. Nelle diverse lettere che compongono l’opera, tuttavia, la pantomima continua a comparire in modo ricorrente, ma soprattutto assume tratti spesso ambigui, a volte persino coincidenti con quelli della mimica. L’esplicita trattazione che Engel riserva all’arte puramente gestuale alla fine della seconda parte non fa che confermarlo. Nella xxix lettera il teorico riconosce alla pantomima la capacità di sviluppare autonomamente alcuni argomenti. Si tratta di quei soggetti così comuni, evidenti e noti all’interno dell’esperienza umana da non poter essere fraintesi. È il caso, ad esempio, della danza guerriera praticata dagli indiani d’America : gli assalti, i massacri, la presa di prigionieri o la ritirata sono situazioni così cognite e visibilmente riconoscibili nel puro movimento corporeo da non poter generare alcun equivoco nello spettatore. Analogamente vengono ritenuti argomenti accessibili all’arte pantomima anche quei casi in cui non si debba che « veder espressa rettamente la sensazione ». 2 Basti pensare a un classico intreccio amoroso di ambientazione bucolica in cui all’impressione fatta dalla giovane sul pastore risponde la timidezza della fanciulla oppure ai gesti di corteggiamento dell’uno seguono i tentativi di rassicurazione dell’altra, una volta sopraggiunto in scena un nuovo spasimante. Come scrive Engel :
In tutta questa filiera d’azioni ci ha egli un minimo che d’oscuro, d’inintellegibile, così condotto com’è principio, mezzo e fine ? E dove sarà lo zotico che nel disegno dei sembianti ; nei movimenti, nelle positure dei personaggi non legga tutte quelle sensazioni loro, così naturali e comuni a tutto l’uman genere, ad amendue i sessi ? Chi avrà d’uopo che gli sia dichiarato un nodo che si ripete in realità quasi in ogni storia amorosa, e così si scioglie, come ne vediamo sciolti ogni dì ? In questo caso l’occhio d’ognuno fa l’esposizione, ed il cuore fa il racconto. 3
L’azione pantomima è comprensibile da parte del pubblico alla luce dell’attività conoscitivogestuale che è propria di ogni individuo. Se è vero, infatti, che il danzatore o mimo per farsi intendere deve limitarsi a riprodurre miti, storie antichissime o comunque azioni universali che incontrino un’immediata rispondenza nella vita dello spettatore, è altresì vero che quest’opera ricettiva non è meramente passiva. Scende in campo un’attività propria dell’immaginazione volta sia a unire consequenzialmente l’azione in scena sia a tradurre le emozioni comunicate tramite il gesto negli eventi che possono averle generate. Come precisa Engel : « E allora il semplice star a mirare ed insieme a questo la serie delle sensazioni fanno il racconto, o per meglio dire sembrano farlo, da che in fondo gli è lo spettatore stesso che se lo fa di per sé ». 4 Una simile opera di decodificazione da parte del pubblico è possibile solo se si ammette un procedimento inverso insito in ciascun uomo, ovvero la capacità da parte del movimento corporeo di comunicare al tempo stesso sia un oggetto sia la sensazione che esso genera nell’individuo. Questo si evince in controluce nel paragone che Engel istituisce tra i mezzi e le finalità proprie del linguaggio verbale e quelli della pantomima. L’uomo attraverso la parola vuole raggiungere due obiettivi principali : « Comunicar le idee degli oggetti che lo
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Idem, Lettere intorno alla mimica, cit., lett. iii, t. i, p. 20. Ivi, lett. xxix, t. ii, p. 18.
Ivi, lett. xxix, t. ii, p. 17. Ivi, lett. xxix, t. ii, p. 21.
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occupano ; e il come se ne sent’egli internamente affetto ». Il discorso veicola le idee attraverso i segni e concetti coniati per rappresentarli mentre si avvale di diverse interiezioni e altri dispositivi formali piuttosto che tonali della voce per esprimere l’atteggiamento del soggetto nei confronti di esse. Il gesto, invece, non è capace di soddisfare entrambe le operazioni. Anzitutto, a differenza della parola, esso non si è evoluto in un linguaggio capace di esprimere le differenti operazioni dello spirito piuttosto che la molteplicità e varietà di oggetti e situazioni con cui il soggetto si trova quotidianamente a confrontarsi. In secondo luogo la portata semantica del gesto non è mai neutrale rispetto al particolare contenuto emotivo che un dato oggetto produce nell’individuo. Questa differenza tra discorso e pantomima viene chiarita da Engel mediante un esempio pratico. S’immagini la parola “amore”. Qualsiasi aspetto la mimica voglia mettere in evidenza di questo sentimento – si tratti del suo aspetto dolce e soave piuttosto che del suo lato passionario e turbolento – non viene mai meno durante l’enunciazione l’idea complessiva e composita dell’oggetto a cui la parola rimanda. Il tono della voce si limita a porre l’accento su un dato carattere senza che ne sortisca alcuna riduzione o confusione dell’emozione in quanto tale. Il gesto, al contrario, non è capace di operare questa distinzione di piani. Tutto il corpo dell’attore deve muovere verso un’unica e precisa espressione se non vuole rischiare di generare incertezza o contraddizione nella propria rappresentazione. Pur essendo un segno esterno e visibile, infatti, il gesto ricalca quell’unità interna all’anima che il linguaggio verbale tende invece a esplicitare, analizzare e scomporre al fine di una conoscenza più chiara e distinta :
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Che per entro all’animo, le rappresentazioni si dell’oggetto come della emozione cui l’oggetto produce, sono due così intieramente congiunte, così inseparabili cose, così strette in una, che mai ; e quali sono congiunte e strette nelle rappresentazioni, l’uomo le vuole sentir così anche ne’ loro segni. Per la qual cosa un solo segno atto a soddisfare ad una ora con egual perfezione ad amendue cotesti scopi riuscirà senza comparazione più caro di molti segni separati, i quali mantengono sciolto e scompagnato così. Ora, sotto il rapporto di questa unione, di questa intima mescolanza di segni esprimenti e rappresentativi, quanta preminenza non ha il linguaggio della voce su quello dei gesti ? 2
Da un simile confronto tra linguaggio verbale e gestuale il secondo sembra uscirne sconfitto o, per lo meno, nettamente subordinato al primo nella sua capacità significativa. Un rapido sguardo alla classificazione dei gesti a opera di Engel mostra, tuttavia, come questa simultaneità e compresenza di piani rappresentino non tanto una debolezza quanto una specifica prerogativa del corpo estranea alla logica del discorso verbale. L’analisi dei gesti da parte del teorico segue un andamento dicotomico. Anzitutto il filosofo distingue tra i gesti che provengono dal « meccanismo del corpo » 3 e quelli che dipendono dall’« attività dell’anima ». 4 Riguardo ai primi – che possono essere esemplificati dall’abbassarsi delle palpebre per la stanchezza piuttosto che dall’ansimare che segue a una corsa – Engel non reputa necessario alcun discorso specifico : egli raccomanda semplicemente all’attore di osservare la natura e di conservare sempre una giusta misura nella sua imitazione. Quanto ai secondi, invece, le riflessioni dello scrittore sembrano seguire una “doppia velocità”. Inizialmente questi gesti sono definiti in modo generico come movimenti vaghi che accompagnano pensieri e parole attirando l’attenzione dello spettatore su un particolare punto o aspetto del discorso : basti pensare a un cenno del capo, a un passo piuttosto che a una mano che si apre. Nella lettera successiva, invece, questi medesimi movimenti sono ripresi valorizzandone la funzione di « accento ». 5 In particolare, operando platonicamente un’ennesima suddivisione all’interno dei gesti significativi, Engel distingue tra « contraffacenti ed esprimenti ». 6
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Ivi, lett. xxxi, t. ii, p. 37. Ivi, lett. v, t. i, p. 32. 5 Ivi, lett. vi, t. i, p. 40.
Ivi, lett. xxxi, t. ii, p. 39. Ibidem. 6 Ivi, lett. vi, t. i, p. 42.
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In tedesco questi due tipi di movimento figurano come « malende » e « ausdrückende » 1 ovvero – prendendo le distanze dalla traduzione di Rasori – quali pittorici ed espressivi, e rievocano esplicitamente la distinzione abbozzata da Lessing nella Hamburgische Dramaturgie. 2 Nella puntata del 12 maggio 1767 – dopo aver manifestato palesemente la propria avversione per la superficialità della pantomima e l’insignificanza della danza 3 – il filosofo e critico teatrale tedesco distingue infatti i gesti in bedeutende (significativi), malerische (pittorici) e pantomimische (pantomimici). 4 Seguendo la spiegazione offerta da Paolo Chiarini, 5 il primo tipo di gesto corrisponde per Lessing al segno corporeo puramente allusivo ; il secondo a quello che accompagna il discorso ed è dunque privo di una propria autonomia semantica e infine il terzo rappresenta l’ingenuo e vano tentativo da parte del movimento corporeo di sostituirsi alla parola. Rispetto a una simile modellizzazione la riflessione di Engel si mostra da subito originale. Anzitutto il teorico, pur accennando anch’egli a un terzo tipo di gesto, quello « significante », 6 lo associa immediatamente al gruppo dei segni pittorici. Una simile operazione non soltanto fa perdere specificità e importanza a questo tipo di gesto, ma soprattutto segna un’inevitabile distanza con la classificazione tripartita del filosofo e drammaturgo tedesco. In secondo luogo il diverso valore attribuito ai gesti da parte di Engel è evidente dall’analogia che istituisce con la demonstratio e la significatio proprie dell’oratoria. Al meccanismo dimostrativo dell’una viene, infatti, paragonato il funzionamento dei segni pittorici, mentre al processo significativo vengono ricondotti quelli espressivi. È solo nella lettera successiva, però, che il teorico esplicita in modo chiaro tutta la portata della sua distinzione tra malerei e ausdrück :
In mimica intendo per contraffazione qualunque sensibile rappresentazione di oggetti che uno ha nel pensiere ; per espressione, qualunque sensibile rappresentazione dello inchinamento dell’animo, della condizione o interno stato qualunque a cui uno si sente indotto per via stessa del pensiere. 7
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Engel, Ideen zu einer Mimik, rist. anast., cit., lett. vi, t. i, p. 59. Autore di una Abhandlung von den Pantomimen der Alten (ca. 1750) e di uno studio sull’attore mai portato a termine (Der Schauspieler), nonché traduttore di diversi testi sull’arte della scena nella « Theatralische Bibliothek » – da quelli di Sainte-Albine e Riccoboni sino ad arrivare a quelli di Du Bos e Diderot – Lessing rappresenta per Engel il punto di riferimento indiscusso per ogni riflessione sul gesto. Più nello specifico il filosofo tedesco fornisce all’allievo spunti e argomenti per articolare il rapporto di mutua interdipendenza che intercorre tra contenuto interiore – passione, sentimento, carattere – e forma esteriore – si tratti del tono di voce piuttosto che del movimento del corpo – e la possibilità, dunque, da parte dell’attore di evocare una certa emozione ritraendone i tratti visibili. Nelle puntate della Hamburgische Dramaturgie questi pensieri trovano un primo abbozzo e sviluppo a cui purtroppo non è mai seguita una trattazione più specifica e sistematica. Per questa ragione e in virtù del fatto che il filosofo non dedica una riflessione mirata alla danza – sebbene traduca parzialmente le Lettres di Noverre e ricorra molto spesso a figure e metafore coreiche nei suoi lavori teatrali o più generalmente estetici – si rinvia a una prossima indagine l’analisi approfondita del suo pensiero a proposito della mimesi gestuale. Per il momento ci si limita a rimandare all’edizione critica della sua opera completa (G. E. Lessing, Gotthold Ephraim Lessings Sämtliche Schriften, ed. critica a cura di K. Lachmann, Stuttgart, G.J. Göschen, 1886 ss., 23 voll.) e a segnalare il saggio di Jeschke, Noverre, Lessing, Engel. 3 Scrive Lessing : « Lungi da noi, dunque, tale insipido e sciocco atteggiar delle braccia [Portebras] soprattutto in quei passaggi che contengono sentenze morali ! La grazia, quando e fuori di luogo, diventa affettazione smorfiosa ; e se viene ripetuta troppe volte, ispira dapprima una certa freddezza e infine disgusto. Mi par di vedere uno scolaro recitare la sua favoletta, ogni volta che un attore esprime delle considerazioni generali accompagnandole con gli stessi movimenti con cui, in un minuetto, ci si dà la mano, o recitandole come una filastrocca » (G. E. Lessing, Hamburgische Dramaturgie [1767-1768], in Gotthold Ephraim Lessings Sämtliche Schriften, cit., voll. ix-x, 1893-1894 ; tr. it. di P. Chiarini, Drammaturgia d’Amburgo, Roma, Bulzoni, 1975, p. 27). 4 Cfr. Idem, Hamburgische Dramaturgie, cit., vol. ix, p. 199. 5 Cfr. Idem, Drammaturgia d’Amburgo, cit., p. 27, nota 5. 6 Engel, Lettere intorno alla mimica, cit., lett. vi, t. i, p. 42. In tedesco essi sono identificati con l’espressione « deutende » (cfr. Idem, Ideen zu einer Mimik, cit., lett. vi. t. i, p. 60) che significa capaci di interpretare, spiegare, ma anche indicare e accennare. 7 Idem, Lettere intorno alla mimica, cit., lett. vii, t. i, p. 55. 2
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Con il primo termine il teorico sta a indicare la comunicazione dell’idea di un oggetto, il suo concetto, mentre con il secondo vuole significare l’atteggiamento del soggetto verso di esso. Una simile distinzione preannuncia quello iato tra rappresentazione ed espressione che, seppur implicito e variamente riproposto nella storia del pensiero, diviene oggetto di specifico approfondimento solo a partire dalla fine dell’Ottocento, per trovare poi nel xx secolo alcune delle sue più lucide trattazioni nonché sintesi storico-critiche. 1 Mutuando la terminologia utilizzata da Giovanni Gurisatti, 2 ad esempio, si può vedere anticipata in questo binomio la differenza tra l’espressione intesa secondo un’accezione soggettivisticointenzionale e una, invece, oggettivistico-aintenzionale. Nel primo caso, « il corpo è impiegato intenzionalmente dall’io come mezzo-strumento, ovvero in funzione informativa e comunicativa, quindi linguistica [...] è l’io in quanto istanza centrale di controllo a servirsi del mezzo linguistico o corporeo per comunicare all’esterno il suo interno ». 3 Nel secondo caso, invece, l’espressione sfugge al dominio da parte dell’io :
Il « chi » (si) esprime, qui – l’emittente – non è l’io, bensì qualcosa di non soggettivo, cioè non sottoposto al controllo intenzionale del soggetto, definibile di volta in volta come « anima, carattere, predisposizione, temperamento, emozione, passione, stato d’animo, affetto », che si dà spontaneamente « nel » (non attraverso il) medium (che non è mezzo) silenzioso, non verbale del volto e del corpo, senz’altra funzione e scopo che quelli di apparire, di svelarsi. Parafrasando una nota definizione kantiana, qui l’espressione è finalità priva di scopo, ha valore d’essere e non di strumento. 4
È in questo secondo tipo di espressione che Engel identifica la gestualità in senso stretto. 5 Mentre, infatti, il primo tipo di movimento tende a ricalcare un meccanismo rappresentativo modellato sull’ordine discorsivo del linguaggio, il secondo esemplifica quella commistione di soggettività e oggettività che caratterizza la significatività corporea. Il gesto si configura come un movimento di rapporto pulsionale tra l’io e il suo oggetto, sia esso fisico o mentale, esterno o interno, visibile o invisibile. Una prima prova a tale tesi può essere dedotta ex negativo dalla particolare istanza creativa che secondo Engel contraddistingue alcuni gesti pittorici. Nell’viii lettera della prima parte, proseguendo l’approfondimento di malerei e ausdrück, il filosofo sottolinea come la figurazione svolga un ruolo preponderante all’interno dell’espressione gestuale. In particolare, egli mostra come tutte le « contraffazioni imperfette » 6 – ovvero quelle rivolte a oggetti invisibili o idee spirituali e sensazioni – avvengano per mezzo di immagini. Basti pensare all’azione con cui l’uomo solleva le braccia al cielo per invocare gli dei : avvalendosi di un nesso metonimico, il soggetto si volge verso quella che è considerata la dimora delle divinità. 7 Da questo esempio si deduce facilmente come in un simile genere di gesti non sia in gioco un puro meccanismo riproduttivo : il movimento corporeo rende visibili somiglianze e relazioni che il linguaggio verbale non è in grado da solo di cogliere o articolare, porta a presenza ciò che rimarrebbe altrimenti assente. Sintetizzando, questo tipo di gestualità pittorica contribuisce in modo attivo alla creazione del suo stesso modello. Un simile procedimento si radicalizza e complica ulteriormente nella spiegazione che Engel fa dei diversi gesti espressivi. 8 I movimenti d’intenzione – come il chinarsi o protender
1 A titolo esemplificativo si ricordi il celebre testo di K. Bühler, Ausdruckstheorie : das System an der Geschichte aufgezeigt, Jena, Fischer, 1933, tr. it. di L. Pusci, Teoria dell’espressione : il sistema alla luce della storia, Roma, Armando, 1978. 2 Cfr. Gurisatti, Dizionario fisiognomico, cit., pp. 21-43, qui in particolare pp. 26-27. 3 4 Ivi, p. 27. Ibidem. 5 Engel, Lettere intorno alla mimica, cit., lett. vi, t. i, pp. 41-42. 6 Ivi, lett. viii, t. i, p. 62 (in tedesco figurano come « unvollständige Malerey » ovvero “pittura insufficiente”, cfr. Idem, Ideen zu einer Mimik, cit., lett. viii. t. i, p. 89). 7 Cfr. Idem, Lettere intorno alla mimica, cit., lett. viii, t. i, pp. 62-65. 8 Cfr. ivi, lett. ix, t. i, pp. 66-72. Tra i gesti espressivi Engel comprende anche quelli fisiologici ovvero « effetti
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si verso l’oggetto amato piuttosto che porre le mani avanti per paura – sono, ad esempio, definiti quali « azioni esterne volontarie ». 1 Nel processo mimetico qui messo in atto l’atteggiamento del soggetto verso il suo oggetto è esplicito. Quanto a quelli d’imitazione – volti a esprimere le sensazioni che l’oggetto produce nell’anima – essi vengono, invece, più opportunamente definiti analoghi. Mentre, infatti, la prima denominazione sembra rinviare a un procedimento di copia da parte dell’individuo rispetto a qualcosa di estraneo ad esso, il secondo termine è in grado di comunicare efficacemente la coappartenenza di soggettivo e oggettivo che caratterizza questo tipo di rappresentazione : il gesto espressivo, in parte, dipende dal conato dell’anima volto a rendere percepibile ciò che è invisibile e, in parte, è effetto delle idee stesse e dei loro reciproci influssi che sfuggono al controllo dell’io. Basti pensare alla contemperanza tra passo e pensiero, dove molto spesso alla velocità dell’uno corrisponde la rapidità dell’altro e viceversa. 2 Sintetizzando questo breve excursus, il fenomeno dell’espressione si configura nel trattato engeliano in termini esplicitamente dinamici. Esso non è più collocato a metà tra due poli di minore o maggiore importanza e tipicizzazione. Non esiste una serie definita di gesti e posizioni che rimandano a un altrettanto chiaro elenco di significati interiori o viceversa : esterno e interno dell’uomo sono reciprocamente interdipendenti. Non solo. In questa mutua relazione c’è una forte componente di unicità e, anche, inconsapevolezza che sfugge al lucido controllo o codificazione da parte dell’io. Qualsiasi arte fondata su di esso non può, conseguentemente, che vedere modificato il proprio paradigma mimetico da un’accezione puramente riproduttiva a una espressiva. Se il movimento non è infatti inteso quale semplice manifestazione di un contenuto interiore, ma costituisce l’espressione di una relazione in atto tra un soggetto e un oggetto, tanto la recitazione quanto la danza non possono che riflettere questa medesima tensione e capacità formativa. Una simile ipotesi teorica si scontra, tuttavia, con quello che Engel operativamente fa nel suo trattato, ovvero col tipo di metodo e di tecnica che offre al suo lettore. Come scrive Luciano Mariti :
Engel, attraverso l’analisi dei modelli espressivi, cerca di offrire un criterio che consenta all’attore di costruirsi un repertorio di possibilità espressionali. Ma non si interroga sul processo creativo come condizione all’interno della quale può prendere vita quell’effetto finale, scenico, che lo spettatore o l’analista configura come forma espressiva. [...] Il limite di fondo del trattato, aldilà delle pur feconde riflessioni teoriche che abbiamo rilevato, è insomma nel non rispondere coerentemente all’istanza pedagogica che lo genera : non offre le concrete condizioni di possibilità per l’apprendimento, non si interroga sulle fonti e i meccanismi della creatività, occultando, di conseguenza, anche il problema delle tecniche. 3
Questo limite pedagogico è dovuto a un limite o, forse sarebbe meglio dire, paradosso teorico da parte di Engel. Per svolgere il lavoro scientifico che si è proposto, infatti, il teorico si avvale di una semiotica, ovvero tratta l’azione corporea come un testo articolato, come un segno che rimanda a un significato predeterminato. Pur cercando di prendere le distanze assolutamente fisici degl’interni moti dell’anima » (ivi, pp. 68) : basti pensare alle lacrime che scaturiscono a causa di un grande dolore. Subito dopo, però, il teorico si sente in dovere di fare una precisazione. In quanto non direttamente dipendenti dalla volontà del soggetto bensì dalla “macchina del corpo”, essi non andrebbero enumerati tra gli atteggiamenti. Solo quelli che prevedano, infatti, un contributo volontario dell’individuo sono propriamente definibili espressivi. Tuttavia Engel spiega come esista un “ripiego” anche per questo genere di azioni e movimenti. Secondo l’autore, infatti, è ancora possibile in questo caso mettere in atto un’operazione mimetica da parte dell’interprete se egli è dotato di una così fervida immaginazione che « l’anima s’invasi tutta quanta dell’obbietto che le sta innanzi » (ivi, p. 71). L’attore può causare una reazione automatica da parte del proprio corpo se in grado di immaginare così vivamente la situazione reale che la genererebbe naturalmente. Come si evince anche in questa occasione, dunque, l’arte della recitazione si configura in termini fortemente creativi, e soggettivi, persino nei confronti dei movimenti espressivi maggiormente legati al corpo dell’individuo. 1 2 Cfr. ivi, lett. ix, t. i, p. 67. Cfr. ivi, lett. ix, t. i, pp. 67-68. 3 Mariti, Tra scienza dell’uomo e scienza dell’attore, p. lxv.
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tanto dalla trattazione astratta tipica dei filosofi quanto da quella puramente meccanica perseguita dai fisiologi o, ancora, da una casistica figurativa delle passioni sul modello di Le Brun, il teorico non riesce in definitiva a offrire che un repertorio di gesti e posizioni. Un simile esito è comprensibile solo se si tiene in considerazione lo sfondo illuministico in cui ancora si muove il pensiero engeliano : il linguaggio – si tratti di quello verbale, visivo o corporeo – non è che uno strumento di comunicazione : esso manifesta il “già pensato”. Ciò va, tuttavia, a contraddire l’originale ipotesi teorica che il filosofo introduce col gesto espressivo : il corpo, anziché farsi interprete e protagonista del percorso di conoscenza e comunicazione, viene nuovamente piegato a puro riflesso visibile e materiale di un contenuto astratto, preesistente e indipendente da esso. Una simile aporia diventa ancora più evidente non appena si guardi alla fortuna del trattato. Come mostra emblematicamente il lavoro di Morelli del 1854 – Prontuario delle pose sceniche 1 – ciò che viene raccolto del lavoro engeliano è la parte più propriamente descrittiva e casistica. Quanto invece alla fecondità del pensiero o, per meglio dire, alla capacità dei contemporanei e delle generazioni immediatamente successive di approfondirne contenuti e risvolti, si constata immediatamente una certa difficoltà e parzialità delle riflessioni. Basti pensare ai lavori sull’arte teatrale di Einsiedel 2 e Iffland. 3 Come scrive Claudia Jeschke :
Einsiedel und Iffland verwenden die Bewegung – unter grundsätzlich ästhetischen und unter pragmatischen Gesichtspunkten – veräußerlicht. Zwar sehen sie die innere und äußere Raum-Zeit-Struktur nicht mehr in diametraler, eindimensionaler Abhängigkeit ; die Individualität in der Darstellung aber ist weniger ein Problem der Dynamisierung von innerem Bild und äußerer Form, der Vermittlung zwischen innen und außen, vielmehr ein Problem der Gewichtung von realen, historischen und theatralischen, ästhetischen Faktoren im Darstellungsprozess. 4
In un simile paradosso si ritrova sia una traccia della contraddizione interna al trattato di Engel sia un sintomo delle difficoltà da parte del paradigma mimetico classico di raccogliere le nuove istanze provenienti del pensiero di fine Settecento. Il problema di cui il trattato si fa specchio, infatti, è quello di riuscire non soltanto a scardinare l’idea di un oggetto da imitare stabile e compiuto, ma anche di trovare metodologie e concetti adeguati per poter articolare e sostenere un modello rappresentativo alternativo. Alcune riflessioni filosofiche di metà Settecento possono aiutare a illuminare meglio la questione. Occupandosi precipuamente del problema della mimesi e, in particolare, del significato del modello naturale nelle discipline della parola e del disegno, da una parte, e in quelle della musica e del corpo, dall’altra, esse offrono un quadro sinottico delle differenze tra linguaggio verbale e gestuale, ma anche della progressiva affermazione della loro essenziale unità e coappartenenza espressiva. 3. La natura : un processo da compiere
L’argomentazione condotta finora ha mostrato come gesto e parola s’intreccino in una fitta rete di rapporti da cui il paradigma classico dell’arte ne esce fortemente messo in discus1 Per un approfondimento cfr. A. Morelli, Note sull’arte drammatica rappresentativa ; Manuale dell’artista drammatico ; Prontuario delle pose sceniche, ed. a cura di S. Pietrini, con un contributo di S. Stefanelli, Trento, Università degli Studi di Trento, 2007. 2 Cfr. F. H. von Einsiedel, Grundlinien zu einer Theorie der Schauspielkunst, Leipzig, G. J. Göschen, 1797. 3 Cfr. in particolare A. W. Iffland, Theorie der Schauspielkunst für ausübende Künstler und Kunstfreunde, Berlin, Neue Societäts-Verlags-Buchhandlung, 1815. 4 Jeschke, Noverre, Lessing, Engel, cit., p. 109 (« Einsiedel e Iffland impiegano il movimento – dal punto di vista essenzialmente estetico e da quello pragmatico – in modo superficiale. Loro non vedono più la struttura spaziotemporale interna ed esterna in una diametrale, unidimensionale dipendenza ; l’individualità nella rappresentazione è meno un problema di dinamizzazione dell’immagine interna e della forma esterna, della mediazione tra dentro e fuori, e più un problema di ponderazione tra i fattori reali, storici e quelli teatrali ed estetici nel processo rappresentativo »).
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sione. In particolare, è il concetto di natura a risultare alquanto problematico. Il genitivo che lo vede protagonista nella formula classica della mimesi sembra, infatti, oscillare senza soluzione di continuità da un’accezione meramente oggettiva a una soggettiva. Anzitutto, sia nella riflessione sul ruolo giocato dal modello antico nel riconoscimento semantico della danza sia nell’analisi del tipo di significazione messo in campo dal gesto nella recitazione e nella pantomima, il presunto referente del processo imitativo risulta assente. In secondo luogo le arti che hanno per protagonista il gesto paiono copiare la natura più nel suo processo creativo che nei suoi risultati : tanto l’azione originale messa in campo da ogni nuovo spettacolo coreico quanto quella essenzialmente unica e irripetibile esercitata da qualsiasi movimento espressivo lo dimostrano. Occorre dunque una riflessione ad hoc che cerchi di fare chiarezza in questa selva di slittamenti e sfumature semantiche : il magistero di Batteux ne offre l’occasione. Al pari di Du Bos il filosofo fonda la teoria emozionalistica dell’arte su una concezione universalistica della natura umana, ma mentre il predecessore giustifica la specificità degli studi artistici con osservazioni soprattutto di carattere empirico-psicologistico, Batteux riesce – a partire dal medesimo teatro di percezioni e qualità – a distinguere il dominio dell’estetica da tutti gli altri piani della cultura sulla base di un principio primo. 1 Nell’introduzione a Les Beaux-Arts réduits à un même principe, lo studioso manifesta l’esigenza di un solido impianto unitario con queste parole :
Tutte le regole sono rami che provengono da uno stesso tronco. Se risalissimo alla loro origine, scopriremmo un principio abbastanza semplice per essere colto con immediatezza, ed abbastanza ampio per assorbire tutte le regole particolari, che è sufficiente conoscere mediante il sentimento e la cui teoria non fa altro che turbare lo spirito, senza illuminarlo. Questo principio fisserebbe immediatamente i veri geni e li libererebbe da mille scrupoli per sottometterli ad una sola legge sovrana che, una volta ben compresa, sarebbe il fondamento, il compendio e la spiegazione di tutte le altre. 2
Il perno intorno a cui Batteux fonda il suo sistema delle belle arti è il principio aristotelico dell’imitazione della natura, un principio che nonostante l’apparente semplicità si rivela nella sua esplicazione molto più insidioso e ambiguo di quanto le stesse intenzioni programmatiche del filosofo lascino sospettare. Nel suo tentativo di mantenere l’impianto classico e, al tempo stesso, di assorbire le diverse istanze del tempo, il teorico lascia infatti trasparire nuovi orizzonti di pensiero che riceveranno solo in seguito opportune formalizzazioni e approfondimenti. Più nello specifico ciò che emerge nitidamente è la complessità semantica della nozione mimetica : a una troppo riduttiva contrapposizione tra imitazione ed espressione succede uno sconfinamento e indistinguibilità di piani che rivela un rapporto di mutua interdipendenza tra i due meccanismi. La riforma coreica è direttamente influenzata dal magistero di Batteux e, in particolare, dalle sue riflessioni sulla mimesi. Come scrive Flavia Pappacena :
L’imitazione della natura è una nozione estetica fondamentale nella Francia della metà del Settecento, ammessa da tutte le correnti – dal neoclassicismo emergente, dai philosophes, dal tardo classicismo di Charles Batteux e da tutte le forme di protesta contro questa linea artistica e culturale –, ma non per questo le era riconosciuto un significato univoco. Noverre conosceva la dottrina dell’ut pictura poesis e la teoria dell’affinità tra il balletto e la poesia sostenuta da Plutarco, e aveva sicuramente recepito la tesi di Charles Batteux sul fondamento unitario delle arti imitative pubblicata nel 1746 e divulgata 1 Sulla ricezione di Du Bos da parte di Batteux e degli altri filosofi francesi di metà Settecento cfr. F. Bollino, Du Bos e l’estetica francese del Settecento, in Jean-Baptiste Du Bos e l’estetica dello spettatore, cit., pp. 127-138. Quanto a Batteux, invece, si rimanda a : F. Bollino, Teoria e sistema delle belle arti. Charles Batteux e gli esthéticiens del sec. xviii, n. mon. « Studi di estetica », iii (1976) e a I. Torrigiani, Lo specchio dei sistemi : Batteux e Condillac, Palermo, Centro interna2 Batteux, Le belle arti ricondotte a unico principio, cit., p. 29. zionale studi di estetica, 1984.
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nell’Encyclopédie da Louis de Jaucourt. Nelle maglie del testo si riconosce, infatti, applicato alla danza, il procedimento di idealizzazione, anche se nel complesso sembra prevalere una particolare sensibilità nei confronti della posizione antiaccademica di Diderot. 1
Se è innegabile l’influenza esercitata dal lavoro di Batteux nella riflessione teorica che accompagna e sostiene la nascita del ballet en action, non è altrettanto evidente – o, per lo meno, sufficientemente chiara – la sua sintesi in termini di “idealizzazione”. Al di là, infatti, della ricezione formale di quest’opera da parte del mondo coreico 2 o delle intenzioni programmatiche dello stesso filosofo, questo lavoro mostra in modo emblematico la trasformazione in corso del concetto di natura nonché, ancora una volta, il ruolo chiave e spesso ambiguo giocato dal linguaggio all’interno di essa. Un esame del testo di Batteux può risultare, quindi, particolarmente fecondo non solo al fine di comprendere meglio l’evoluzione del paradigma mimetico nel xviii secolo, ma anche le equivocità o aporie in cui incorrono i riformatori della danza nel tentativo di spiegare il meccanismo rappresentativo che ha per protagonista l’arte coreica. 3. 1. Imitazione o espressione ? L’equivocità di Batteux e dei testi coreici
Nell’introduzione al suo lavoro Batteux definisce l’arte quale figlia della natura. 3 Sin dalle pagine immediatamente successive, tuttavia, il vincolo imitativo che ne definisce e regola la relazione diviene oggetto di una serie di precisazioni, ma anche ambiguità. Una prima flessione nell’assunzione perentoria del principio mimetico si registra al momento di mostrarne il funzionamento per opera del genio. Il filosofo afferma che il padre delle arti deve imitare « la natura non come essa è in se stessa, ma quale potrebbe essere, come potrebbe essere concepita mediante lo spirito ». 4 La ragione di questo intervento attivo da parte dell’uomo è dovuta all’imperfezione della realtà empirica e, quindi, alla necessità di svelarne la bellezza nascosta : l’artista non deve inventare ciò che non esiste, ma deve imparare a riconoscere dove e come la natura si svela nel massimo delle sue potenzialità. Il mito di Zeusi lo esemplifica : deciso a raffigurare Elena, il pittore non si limita a prendere come modello un’unica figura femminile, ma raccoglie i tratti più belli di cinque donne diverse. Gli artisti e i soggetti che Batteux porta poi come esempi concreti di questo modello creativo – e che, tra l’altro, diverranno di lì a poco fonte di ispirazione per alcuni dei maggiori capolavori di Noverre 5 – non fanno che chiarire ulteriormente questo processo di idealizzazione :
Quando Le Brun dipinse le Battaglie di Alessandro, aveva nella storia il fatto, gli attori, il luogo della scena : tuttavia quale invenzione ! Quale poesia nella sua opera ! La disposizione, gli atteggiamenti, l’espressione dei sentimenti, tutto questo era riservato alla creazione del genio. Lo stesso per il combattimento degli Orazî ; da storia che era si trasformò in poema nelle mani di Corneille, come il trionfo di Mardocheo in quelle di Racine. L’arte costruisce allora sul fondamento della verità. Ed essa deve mescolarla così abilmente con la menzogna che se ne formi un tutto della stessa natura. 6
Al carattere selettivo e non meramente riproduttivo del meccanismo mimetico si aggiunge 1
Pappacena, La danza classica, cit., p. 128. Nei testi coreici della seconda metà del secolo bisogna distinguere tra la riproposizione pedissequa di termini e formule mimetiche classiche e il significato che, invece, esse acquistano a una più attenta analisi del loro uso all’interno di parallelismi e analogie oppure attraverso i particolari spettacoli coreici che vengono segnalati dagli autori e coreografi come modelli di riferimento. Basti pensare all’animato dibattito tra Angiolini e Noverre in merito alle possibilità espressive del ballo pantomimo e alla conseguente necessità o meno dell’uso dei programmi (cfr. infra, cap. iii, §§ 1-2). 3 4 Cfr. Batteux, Le belle arti ricondotte a unico principio, cit., pp. 29-31. Ivi, p. 39. 5 Cfr. in particolare infra, cap. iii, §§ 2-3. 6 Batteux, Le belle arti ricondotte a unico principio, cit., p. 40. 2
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nel cap. v della parte I un’ulteriore complicazione. Il filosofo, al momento di spiegarne l’operatività nelle rispettive arti, adopera per la prima volta e in modo reiterato il verbo “esprimere” e il sostantivo da esso derivato. 1 Inizialmente questo termine sembra indicare soltanto gli strumenti specifici attraverso cui ogni arte si esplica ; nel caso della musica, ad esempio, Batteux scrive che la sua « espressione essenziale » 2 è il suono, allo stesso modo in cui il colore lo è per la pittura o il movimento del corpo per la danza. Questo significato apparentemente neutrale assume però sin dalle righe immediatamente successive un maggiore spessore poiché il filosofo lo lega al concetto di natura distinguendo al suo interno tra oggetto e modo dell’imitazione : « Mentre le arti devono scegliere i disegni della natura e perfezionarli, devono anche scegliere le espressioni che prendono in prestito dalla natura ». 3 Da queste parole emerge come la natura non sia soltanto modello e fine a cui deve tendere la rappresentazione ma il tramite stesso attraverso cui essa può e deve costruirsi. In una simile puntualizzazione si può vedere, anzitutto, un effetto di quella progressiva valorizzazione dei mezzi rappresentativi che caratterizza il pensiero estetico della seconda metà del Settecento : la qualità dei materiali e delle tecniche utilizzati non sono più ritenuti secondari nella realizzazione di un’opera d’arte. 4 In secondo luogo l’introduzione del concetto di “espressione” nella riflessione di Batteux sembra suggerire la particolare dinamica rappresentativa di cui la natura è protagonista nel suo spontaneo dispiegamento ovvero prima e al di fuori di qualsiasi operazione artistica. La terza parte dell’opera –in cui il filosofo verifica la validità del principio unificatore dell’imitazione in applicazione alle arti musicali e coreiche – ne fornisce una prova. La nuova deduzione delle singole arti si apre accostando poesia, musica e danza : « Gli uomini hanno tre mezzi per esprimere le loro idee e i loro sentimenti : le parole, il tono della voce e il gesto » ; 5 subito dopo però il filosofo aggiunge che, mentre la parola istruisce e convince perché è l’organo della ragione, « il tono ed il gesto sono quelli del cuore, ci commuovono, ci vincono, ci persuadono ». 6 Queste due forme espressive appartengono originariamente a un’unica arte 7 e costituiscono il dizionario della natura con cui non solo l’uomo denuncia i propri bisogni e stati d’animo, ma esprime efficacemente se stesso senza alcuna motivazione pratica :
[I gesti e i toni] contengono una lingua che conosciamo tutti fin dalla nascita e di cui ci serviamo per annunciare tutto quello che ha rapporto con i bisogni e la conversazione del nostro essere : così è viva,
1 L’utilizzo da parte di Batteux del termine “espressione” è stato oggetto di numerosi approfondimenti soprattutto rispetto alla ripresa e rielaborazione kantiana del concetto. Si segnalano in particolare F. Bollino, Derive della mimesis. Il nesso imitazione-espressione fra Batteux e Kant, « Studi di estetica », xi-xii (1995), pp. 85-136, in particolare le pp. 116-136 ; E. Migliorini, Il paragrafo 51 della “Critica del giudizio” : Batteux e Kant, « Rivista di storia della filosofia », xxxix (1984), 2, pp. 283-291 ; Idem, Presentazione, in Batteux, Le belle arti ricondotte a unico principio, cit., pp. 7-24. Rispetto a questi studi, il presente contributo si limita a seguire la piega che il principio mimetico assume nelle pagine di Batteux non tanto per trarne conclusioni generali in merito alla sua estetica o all’evoluzione successiva del concetto nella storia della filosofia quanto per dedurre riflessivamente indicazioni sulla disciplina coreica e sul suo rapporto col linguaggio. 2 3 Ivi, p. 43. Ibidem. 4 Cfr. supra, cap. i, § 2.3. 5 6 Batteux, Le belle arti ricondotte a unico principio, cit., p. 109. Ibidem. 7 Similmente a quanto già sostenuto da Du Bos (cfr. supra, cap. ii, § 2.1), scrive Batteux : « La musica aveva un tempo assai maggiore estensione che non oggi. Forniva le grazie dell’arte a tutte le specie di suoni e di gesti. Comprendeva il canto, la danza, la versificazione, la declamazione. Ars decoris in vocibus et motibus. Oggi, quando la versificazione e la danza hanno formato due arti separate, e la declamazione, abbandonata a se stessa, non costituisce più un’arte ; mentre la musica propriamente detta si riduce al solo canto : è la scienza dei suoni. Tuttavia, poiché la separazione è venuta più da parte degli artisti che non dalle stesse arti, che sono sempre rimaste legate intimamente fra di loro, tratteremo qui la musica e la danza senza separarle. La reciproca comparazione che si potrà fare ci aiuterà a farcele conoscere meglio : esse si getteranno luce reciprocamente in questo lavoro, così come si scambiano reciprocamente grazie nel teatro » (Batteux, Le belle arti ricondotte a unico principio, cit., p. 109).
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breve, energica. Quale migliore fondamento per le arti, il cui fine è muovere l’anima, di un linguaggio in cui tutte le espressioni sono piuttosto quelle dell’umanità stessa, che quelle degli uomini ! 1
Tono e gesto sono legati ai sentimenti e alle passioni da un rapporto diretto ovvero non mediato da alcuna operazione riflessiva : essi hanno un significato primitivo che non viene né inventato né riprodotto dal genio, ma che può essere soltanto accresciuto nella sua energia da un’opera di misurazione e ordinamento. Al tempo stesso, però, le emozioni imitate da musica e danza sono altrettanto favolose e artificiali quanto le azioni descritte dalla poesia poiché ciò che accomuna ogni espressione è il fatto che essa è un segno ; e un segno, che appartenga alla realtà o alla finzione, può cambiare qualità ma non natura. La parola è una sia che la si adoperi in una semplice conversazione sia che ricorra nei versi di un grande poeta come i colori sono i medesimi in un oggetto naturale e in un quadro : « L’arte non crea le espressioni né le distrugge : le regola solamente, le fortifica, le raffina. E come non può uscir dalla natura per creare le cose, non può maggiormente uscirne per esprimerle : è un principio ». 2 Rispetto al valore soggettivo e formativo dell’espressione messo in luce da Du Bos o da Engel, 3 il meccanismo enucleato da Batteux sembra non mettere in evidenza alcun apporto personale da parte del soggetto. Tuttavia – a differenza di quanto fatto da questi stessi autori – il filosofo francese afferma formalmente la continuità del processo artistico rispetto all’azione della natura e, insieme, promuove l’intervento attivo da parte dell’uomo all’interno di esso. Compito della musica e della danza – e, sulla scorta del loro modello, di tutte le altre arti – diviene infatti quello di regolare il materiale di partenza fornito dalla natura stessa e non di creare o distruggere simili espressioni e neppure di imitare qualcosa di esterno ed estraneo ad esse. Il meccanismo imitativo deve riprodurre – o, forse sarebbe meglio dire, portare avanti – l’espressività della natura raffinandola ; alla mera realtà empirica o, per converso, alla libera immaginazione il filosofo antepone il modello di una natura ideale in cui oggettività e soggettività, interno ed esterno, reale e possibile si uniscano in stretta sinergia. Una simile declinazione del paradigma mimetico condivide con la riforma coreica più di un tratto comune. Anzitutto bisogna rilevare come l’arte della danza –insieme a quella della musica – svolga un ruolo da protagonista all’interno del ripensamento di Batteux circa la struttura del principio primo. Analogamente a quanto visto per Du Bos, infatti, la progressiva affermazione del ballo teatrale induce il teorico non soltanto a dedicare una trattazione specifica al gesto, ma anche a riconsiderare il sistema generale delle arti alla luce dei risultati raggiunti a proposito della disciplina coreica. Se si rovescia la direzione del rapporto, si nota poi come nei testi dei riformatori i concetti di imitazione ed espressione paiano precipitare l’uno sull’altro in modo molto analogo a quanto accade ne Les Beaux-Arts. Basti ripensare alla già citata voce expression scritta da Cahusac per l’Encyclopédie : 4 da una parte ogni disciplina – dalla poesia alla pittura sino, ancora, alla musica e alla danza – deve rispondere al paradigma mimetico per accedere al Parnaso delle arti maggiori ; dall’altra, al momento di spiegarne meglio la portata significativa, esse vengono definite quali espressioni dei sentimenti umani. Un simile paradosso è ancora più esplicito nel caso precipuo della disciplina coreica. Per Cahusac, ad esempio, se il ballo pantomimo viene meno alla sua vocazione mimetica, non solo cessa di esistere quale arte, ma prima di tutto come danza poiché il suo minimo comune denominatore – il gesto – è legato alla natura da un rapporto originariamente spontaneo e diretto. Scrive il teorico : « L’imitation constitue donc l’essence de chacune de ces arts ;
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Ibidem. Cfr. supra, cap. ii, §§ 2.1 e 2.2.
Ivi, p. 111. Cfr. supra, cap. i, § 2.4.
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et la danse en particulier, qui est, dès son origine, une expression naïve des sensations de l’homme, pécherait, contre sa propre nature, si elle cessait d’être une imitation ». 1 Questa medesima coincidenza o, per lo meno, intersezioni di piani emerge in modo altrettanto evidente anche nella riflessione noverriana. Il principio mimetico che apre le Lettres acquisisce, infatti, sin dalle pagine immediatamente successive una sempre più chiara connotazione espressiva. Si trova scritto, ad esempio, nella prima lettera :
Si les Ballets en général sont faibles, monotones & languissants ; s’ils sont dénués de ce caractère d’expression qui en est l’âme, c’est moins, je le répète, la faute de l’Art que celle de l’Artiste ; ignorerait-il que la Danse est un Art d’imitation ? Je serais tenté de le croire, puisque le plus grand nombre des Compositeurs sacrifient les beautés de la Danse, & abandonnent les grâces naïves du sentiment, pour s’attacher à copier servilement un certain nombre de figures dont le Public est rebattu depuis un siècle ; de sorte que les Ballets de Phaëton ou de tout autre Opéra ancien, remis par un Compositeur moderne, différent si peu de ceux qui avoient été faits dans la nouveauté de ces Opéra, que l’on s’imaginerait que ce sont toujours les mêmes. 2
Da questa apparente contraddizione o equivocità terminologica è possibile uscire solo se si riconosce nel processo imitativo la prosecuzione e regolazione del principio espressivo che costituisce l’essenza stessa della natura. Come mostra Batteux, infatti, il principio mimetico – lungi dal configurarsi in termini strettamente meccanico-riproduttivi – è capace di mettere in campo un’autentica istanza creativa. Più nello specifico la disciplina tersicorea, pur muovendo da una manifestazione spontanea dei moti del cuore, è in grado di operare sui propri contenuti e modalità espressivi al fine di raffinarli e riuscire così a imitare la bella natura. Una simile tesi sembra trovare conferma anche tra i riformatori. Scrive Angiolini : « [La danza] si deve annoverare fralle belle arti imitatrici poiché, come le altre sue sorelle, non solo abbraccia e tratta gli usi, i costumi e le passioni umane ; ma se si riguarda nella sua estensione, abbellita dalle altre, corre con esse all’imitazione della bella e semplice natura ». 3 Conseguentemente, l’opposizione fra le nozioni di imitazione ed espressione non solo è destinata a cadere, bensì a trasformarsi in una rapporto di mutua interdipendenza. Come sostiene Fernando Bollino a proposito de Les Beaux-Arts :
Non si mette mai in discussione, alla radice, il principio mimetico ma si cerca piuttosto di ritrovare entro il suo stesso, dilatato campo semantico e concettuale quegli elementi che consentono di mantenere o instaurare una relazione non oppositiva con l’idea di espressione così connotata. [...] Tuttavia in qualche non del tutto sporadica affermazione c’è già in nuce una concezione soggettivistica dell’espressione, c’è un tono nuovo. 4
Condizione di possibilità di questo “tono nuovo” e, insieme con esso, di un profondo ripensamento concettuale della mimesi è che venga, però, riconosciuto al sentimento un preciso valore semantico. Le passioni e le emozioni devono trasformarsi da oggetti di rappresentazione considerati inferiori o secondari in autentiche fonti di senso, in contenuti dotati 1 Cahusac, La danse ancienne et moderne, cit., p. 221 (« L’imitazione costituisce quindi l’essenza di tutte le arti ; e la danza in particolare, che è, dalla sua origine, un’espressione ingenua delle sensazioni dell’uomo, peccherebbe contro la sua stessa natura se cessasse di essere un’imitazione »). 2 Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., pp. 5-6 (« Se i balletti in genere sono fiacchi, monotoni, sdilinquiti, se sono privi di quel carattere di espressione che ne costituisce l’anima, ciò è dovuto, lo ripeto, meno al difetto dell’arte che dell’artista : forse che egli ignora che la danza è un’arte d’imitazione ? Sarei tentato di crederlo, poiché la maggioranza dei compositori sacrifica le bellezze della danza ed abbandona le grazie spontanee del sentimento, per copiare pedissequamente un certo numero di figure di cui il pubblico da un secolo ne ha già abbastanza ; cosicché i balletti di Fetonte o di qualsiasi altra opera antica, ripresi da un compositore moderno, differiscono così poco da quelli elaborati originariamente da far pensare che sono sempre gli stessi » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 22). 3 Angiolini, Lettere di Gasparo Angiolini a Monsieur Noverre sopra i Balli Pantomimi, in Il ballo pantomimo, cit., qui 4 Bollino, Derive della mimesis, cit., qui pp. 112-113. lettera i, p. 50.
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sia di un proprio significato sia di specifici criteri di valutazione ed espressione. Questo è il risultato che Batteux consolida negli Addenda inseriti nel 1747 in coda all’opera. A partire dalla seconda edizione de Les Beaux-Arts, infatti, l’intellettuale aggiunge un breve capitolo dedicato alle arti del tono e del gesto. All’interno di esso, dopo aver esordito dicendo che azioni e passioni sono quasi sempre unite e mescolate in tutto ciò che gli uomini fanno, il filosofo specifica che le prime sono oggetto precipuo della poesia mentre le altre sono affidate all’imitazione di musica e danza. L’arte della parola colpisce infatti lo spettatore grazie alle imprese di uomini e dei che descrive ovvero per mezzo di idee e immagini ; le discipline musicali e coreiche sono giustificate, invece, nella loro autonomia ed efficacia rappresentativa dal sentimento :
Ciò che è espressione del sentimento sembra sorreggersi da sé. I toni sono per metà formati nelle parole : basta solo un po’ d’arte per trarli fuori, specialmente quando il sentimento è sincero, semplice, e muove dall’abbondanza del cuore. Perché anche il cuore ha la sua metafisica. 1
Al di là delle ovvie ascendenze pascaliane, l’affermazione di una “metafisica del cuore” centra il problema dell’espressività e sigla il lento tramonto del paradigma imitativo tradizionalmente inteso perché, mentre fino a quel momento la natura di cui l’arte doveva essere imitazione era sinonimo di ragione e verità, 2 ora viene riconosciuta all’interno dell’uomo una nuova fonte di significato distinta da quella razionale e dai suoi meccanismi analiticosintetici e di riconoscimento : il sentimento. Mentre nel caso di Du Bos la riflessione si limita ancora ad evidenziare gli effetti empirico-psicologici dell’esperienza artistica senza dedurne fondamenti teorici oppure, in quello di Engel, al riconoscimento del carattere formativo del gesto nel veicolare emozioni ed eventi non segue poi un adeguato corrispettivo “tecnico-pratico”, il testo di Batteux afferma formalmente un nuovo e articolato orizzonte di pensiero : i contenuti interiori possiedono uno specifico valore semantico e un’altrettanto peculiare modalità rappresentativa fondata su un legame diretto e originario tra mezzo e referente. Una simile distinzione e, al contempo, sinergia di cuore e ragione è intessuta dal filosofo sin dalla seconda parte del suo libro. Trattando infatti del funzionamento operativo del gusto, 3 e conseguentemente della « metafisica profonda » 4 dell’animo umano, il filosofo riconosce all’intelligenza il compito di distinguere il vero dal falso, mentre al sentimento 5 di far percepire il buono e il cattivo e di agitare conseguentemente l’uomo : « L’una rischiara, l’altra scalda. L’uno ci fa vedere gli oggetti l’altro vi ci conduce o ce ne distoglie ». 6 Entrambi rappresentano facoltà dell’anima che – pur avendo sfere d’interesse e modalità operative differenti – cooperano alla buona riuscita delle attività teoretico-pratiche del soggetto. Quanto scrive Batteux in merito al funzionamento del gusto lo esemplifica :
Il gusto che si esercita sulle arti non è un gusto fattizio. È una parte di noi stessi che è nata con noi ed il cui ufficio è di portarci verso ciò che è buono. La conoscenza lo precede : è la fiaccola. Ma a che ci servirebbe il conoscere se ci fosse indifferente il gioirne ? La natura era troppo saggia per separare queste due parti : e nel donarci la facoltà di conoscere essa non poteva rifiutarci quella di sentire il rapporto dell’oggetto conosciuto con la nostra utilità e di esservi attirati mediante questo sentimento. 7
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2 Batteux, Le belle arti ricondotte a unico principio, cit., pp. 121-122. Cfr. supra, cap. i, § 2.3. La nozione di gusto viene qui soltanto sfiorata poiché un’indagine più precisa e articolata porterebbe lontano dal focus precipuo dell’indagine. Per un primo approfondimento si rimanda dunque a G. Morpurgo Tagliabue, Il concetto del “gusto” nell’Italia del Settecento, Firenze, La Nuova Italia, 1962 e a Il gusto. Storia di un’idea estetica, a cura di L. Russo, Palermo, Aesthetica, 2000. 4 Batteux, Le belle arti ricondotte a unico principio, cit., pp. 49-50. 5 Per Batteux il gusto corrisponde a un sentimento, cfr. ibidem. 6 7 Ibidem. Ibidem. 3
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Il balletto pantomimo sembra fondarsi su un’azione congiunta di sentimento e ragione molto simile a quella delineata da Batteux. Scrive, ad esempio, Noverre : « Cet art entièrement soumise au goût & au génie, peut s’embellir & se varier à l’infini ». 1 Dal canto suo, Angiolini afferma : « Un vero ballo pantomimo deve parlare alternativamente ora all’immaginazione, ora agli affetti, ora alla ragione, per via degli organi. [...] Ma ogni minima dissonanza guasta l’armonia, per la quale l’illusione, madre de’ grandi effetti, cessa, ed il cuore quasi s’arresta, e ritorna indifferente ». 2 Sia in un caso sia nell’altro la compresenza di aspetti razionali ed emotivi è evidente ; tuttavia una comprensione più approfondita dei concetti e delle tesi sostenute dai due coreografi è preclusa. Entrambi non dedicano alcuna riflessione specifica a queste nozioni teoriche e si trovano ad accusarsi l’un l’altro di cadere in errore o contraddizione proprio per le reciproche ambiguità. 3 Al tempo stesso, però, se si presta attenzione al proseguo delle rispettive riflessioni, si nota come il perseguimento della bella natura per mezzo di idee ed emozioni sia contraddistinto da un ulteriore e comune leit-motiv. Scrive il ballerino italiano :
L’entusiasmo ragionato, egli dice [Voltaire], è l’appannaggio de’ grandi poeti. Questo ragionevole entusiasmo è la perfezione della loro arte, ed è per questo che in altri tempi li credevano inspirati da una qualche divinità, cosa che non s’è mai detta degli artisti mediocri. Come mai, seguita l’istesso Monsieur de Voltaire, la fredda ragione può governare l’entusiasmo ? Col disegnare prima l’ordine del quadro, o sia dell’opera. La ragione tiene allora il lapis ed il compasso : ma quando poi egli vuole animare le persone e dar loro quel carattere vero delle passioni, allora l’immaginazione si riscalda e l’entusiasmo agisce. Egli è un destriero che non ha più il freno nella velocità della corsa ; ma il cammino è sicuro e regolato. 4
Il piano dell’opera, la scelta dei temi e dei movimenti deve essere regolato, secondo il maestro di ballo, dal raziocinio entusiasmato. 5 Questa formula affonda le sue radici nel principio dell’entusiasmo e, in particolar modo, nella sua ripresa da parte dell’estetica della prima metà del Settecento : basti pensare al “delirio” di cui parla Gravina o al “furor poetico” di Muratori. 6 Nella lettura che Angiolini dà della lezione di Voltaire 7 è possibile, tuttavia, rintracciare più di un punto di contatto con il pensiero di Batteux : a partire dalla sinergia promossa tra passioni e ragione sino ad arrivare all’idea di entusiasmo – per il filosofo francese
1 Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., p. 3 (« Quest’arte che dipende esclusivamente dal genio e dal gusto può abbellirsi e trasformarsi all’infinito » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 21). 2 Angiolini, Lettere di Gasparo Angiolini a Monsieur Noverre sopra i Balli Pantomimi, in Il ballo pantomimo, cit., qui lettera ii, p. 83. 3 Il concetto di “bella natura” rappresenta uno dei maggiori motivi di scontro tra i due coreografi. Angiolini condanna, ad esempio, il ricorso che il collega fa nei suoi spettacoli a figure fantastiche come tritoni, fauni o satiri (cfr. Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., lett. ix). Secondo il coreografo italiano, infatti, questo tipo di imitazione è destinata inevitabilmente a fallire non per colpa della danza e delle sue possibilità rappresentative, bensì per la debolezza dell’immaginazione : anzitutto il soggetto finisce per modellare queste creature su di sé mettendosi così in ridicolo ; in secondo luogo, trattandosi di allegorie e idee fantastiche, esse non sono capaci di toccare il cuore dello spettatore « perché l’oggetto non è nell’oggetto, ma fuori dell’oggetto » (Angiolini, Lettere di Gasparo Angiolini a Monsieur Noverre sopra i Balli Pantomimi, in Il ballo pantomimo, cit., qui lettera ii, p. 79). Si avrà modo di approfondire maggiormente analogie e differenze tra le posizioni dei due coreografi in merito alla mimesi nel capitolo successivo di questo studio (cfr. in particolare infra, cap. iii, §§ 1-2). 4 Angiolini, Lettere di Gasparo Angiolini a Monsieur Noverre sopra i Balli Pantomimi, in Il ballo pantomimo, cit., qui 5 Ivi, lettera i, p. 56. lettera ii, p. 83. 6 Cfr. G. V . Gravina, Della ragion poetica (Roma, Francesco Gonzaga, 1708), a cura di G. Izzi, Roma, Archivio Guido Izzi, 1991, in particolare l. i, capp. i-vii, pp. 7-19 ; L. A. Muratori, Della perfetta poesia italiana (Modena, Bartolomeo Soliani, 1706), ed. a cura di A. Ruschioni, Milano, Marzorati, vol. i, 1971, l. i, cap. xvii, pp. 215-229. 7 Il probabile termine di riferimento di Angiolini è la voce Enthousiasme redatta dal filosofo all’interno della sua opera maggiore (cfr. Voltaire, Dictionnaire philosophique, ou la raison par alphabet [Londres 1770], ed. it. a cura di M. Bonfantini, Dizionario filosofico, Milano, Mondadori, 1974, pp. 279-282).
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rappresentata da « una viva rappresentazione dell’oggetto nello spirito e un’emozione del cuore proporzionata a questo oggetto ». 1 Da parte sua, Noverre sembra condividere questo medesimo orizzonte di pensiero. Dopo aver affermato la fedeltà alla natura quale principio guida del coreografo, egli infatti aggiunge : « Si la nature lui a donné ce feu & cet enthousiasme, l’âme de la Peinture & de la Poésie, l’immortalité lui est également assurée ». 2 Senza addentrarsi in più approfondite analisi comparative tra i diversi lavori – rese difficili proprio dall’approssimazione con cui i riformatori riprendono formule e concetti diffusi al loro tempo – ciò su cui vale la pena, però, soffermarsi è la relazione tra gesto e parola che queste riflessioni mettono indirettamente in luce. Se da una parte, infatti, Angiolini ricorre nuovamente a un riferimento drammatico-letterario per spiegare il buon gusto che deve regolare la realizzazione di un balletto 3 e Noverre – sebbene faccia riferimento anche all’esemplarità della pittura – non fa che rivolgersi anch’egli alle lettere, dall’altra Batteux utilizza il genere poetico quale modello indiscusso nell’applicazione del principio mimetico. Così scrive, infatti, il filosofo in merito alla disciplina del disegno e del colore : « Questo paragrafo sarà molto breve, perché il principio dell’imitazione della bella natura, dopo che se ne è soprattutto fatta applicazione alla poesia, si applica, quasi da se stesso, alla pittura ». 4 Occorre, dunque, una ricerca volta ad approfondire questo intreccio di analogie e richiami linguistico-corporei. Più nello specifico bisogna tentare di capire in quale modo corpo e discorso sappiano impiegare i medesimi principi al fine raggiungere il comune obiettivo : l’imitazione della bella natura. Le Lettres sur la phrase française 5 del filosofo francese forniscono una preziosa occasione per proseguire l’indagine. Le tesi sostenute dal filosofo francese nelle dieci lettere che accompagnano il suo Cours de Belles-Lettres possono essere lette come un’applicazione e un approfondimento del lavoro pubblicato un anno prima a proposito del principio primo di tutte le arti. Come scrive Fernando Bollino, infatti, « Batteux è fra i primi ad abbozzare le linee di una parziale integrazione fra l’ambito retorico-grammaticale e l’ambito estetico, e fra quest’ultimo e l’ambito stilistico ». Una simile coordinazione di piani differenti è fondata sulla concezione unitaria dell’uomo ovvero su quella sinergia tra raison e sensibilité prima ricordata e che costituisce il fil rouge della riflessione del teorico. La sua posizione in merito alle inversioni linguistiche ne fornisce una prova.
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Batteux, Le belle arti ricondotte a unico principio, cit., p. 42. Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., p. 2 (« Se la natura gli ha dato il fuoco e l’entusiasmo, cioè l’anima della pittura e della poesia, l’immortalità gli è comunque assicurata » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 21). 3 Angiolini definisce il raziocinio entusiasmato come qualcosa di superiore allo stesso buon gusto (cfr. Angiolini, Lettere di Gasparo Angiolini a Monsieur Noverre sopra i Balli Pantomimi, in Il ballo pantomimo, cit., qui lettera i, p. 56). Anche nel tentativo di spiegare il funzionamento del semplice gusto, tuttavia – ovvero di quella combinazione di ragione ed esperienza più volte ripetuta nelle lettere – Angiolini adopera la poesia come modello di riferimento : a partire da quanto scrive D’Alembert – « L’Accademia non darà il premio a que’ lavori che soli pochi versi contano di buoni ; ma bensì al tutto insieme » – a quanto sostenuto da Menzini – « Non sempre chi cantò le greggi e il bosco // saprà suonar tromba guerriera ; e alcuno // che vicin vede, da lontano è losco » – (ivi, pp. 50-51). 4 Batteux, Le belle arti ricondotte a unico principio, cit., p. 107. La terza sezione, invece, come è stato già sottolineato, pur muovendo dall’analogia tra parola tono e gesto prosegue poi differenziando il percorso mimetico proprio delle arti della musica e della danza rispetto a quello della poesia. 5 Il numero delle Lettres scritte da Batteux, ma soprattutto gli anni a cui risale la loro prima stesura sono stati per diverso tempo oggetto di dibattito tra gli studiosi. Secondo quanto ricostruito da Fernando Bollino, si tratta di dieci lettere complessive, tutte pubblicate nel 1748, ma le prime sei incluse nel ii volume del Cours de Belles-Lettres distribué par exercises firmato dal filosofo francese, mentre le ultime quattro nel iii volume della medesima opera. Batteux riprende e riutilizza il materiale di queste lettere sia (parzialmente) nelle successive edizioni del Cours sia nei Principes de la littérature (ma a partire dal 1764). Nel 1763, invece, raccoglie in un volume autonomo intitolato De la construction oratoire le dieci Lettres della prima versione (con alcune varianti) aggiungendovi tre nuove lettere. Per un maggiore approfondimento della questione cfr. l’introduzione di Fernando Bollino a C. Batteux, Sulla frase, a cura di F. Bollino, Modena, Mucchi, 1984, pp. v-lxvii, in particolare le pp. v-viii. Per un’idea complessiva, invece, delle tematiche linguistico-letterarie affrontate dal filosofo si rimanda a questa edizione della sua opera maggiore : Idem, Cours de belles lettres, ou principes de la littérature, Paris, Desaint & Saillant, 1753-1763, 4 tt. 2
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Il termine inversione denota il contrasto o meno che si realizza nelle lingue classiche e moderne tra l’ordine e la successione delle parole nella frase e un presunto ordine originario del pensiero e delle idee. 1 Batteux s’inserisce nella discussione distinguendo, anzitutto, due modalità di costruzione della proposizione. La prima corrisponde a un modo di pensare logico e astratto, mentre la seconda è un riflesso delle intenzioni del parlante nonché delle sue emozioni e pensieri. L’una ha come suo primum il soggetto in quanto espressione della sostanza ; l’altra, invece, qualsiasi elemento rappresenti di volta in volta l’oggetto di maggiore interesse del locutore e che, soprattutto, sia più vicino alla sua sensibilità. Ciò che, tuttavia, costituisce la vera novità introdotta da Batteux è il fatto che egli riconosca proprio nell’affettività e non nella razionalità logico-sintetica l’ordine naturale del discorso : « Dionigi aveva sì capito che doveva esserci un principio per le costruzioni, ma l’ha cercato nella mente dell’uomo, quando invece avrebbe dovuto cercarlo nel suo cuore ». 2 La priorità naturale riconosciuta al coeur rispetto all’esprit è in stretta connessione con le novità introdotte da Batteux a proposito del paradigma mimetico. Anzitutto, tanto in campo retorico-linguistico quanto in quello estetico, il filosofo si confronta con uno scenario molto simile. La tendenza che porta a privilegiare le ragioni della mente su quelle del cuore ha indotto, infatti, per lungo tempo a focalizzare l’espressione delle idee piuttosto che quella delle emozioni sia all’interno delle riflessioni sul processo artistico sia a proposito della costruzione del discorso. Conseguentemente il teorico cerca su entrambi i fronti di riportare un equilibrio tra le diverse forze in gioco : ne Les Beaux-Arts riconoscendo un valore semantico specifico a musica e danza, 3 ne le Lettres, invece, recuperando una parola capace di esprimere la natura umana nella sua interezza e complessità. Scrive in merito il savant :
Se la si considera [la parola] prima della sua divisione in lingua greca, latina, araba, ecc., e nell’idea della sua perfezione possibile, la si vedrà seguire passo passo la mente e il cuore, rendere, alla lettera, il pensiero, le sue circostanze, la sua luce, il suo fuoco, le sue parti, la loro configurazione, i loro legami e gradi. È un ritratto in cui la nostra anima si vede fuori di sé, nella sua interezza, così com’è, in tutte le sue posizioni, in tutti i suoi movimenti. 4
Un secondo punto di contatto tra Les Beaux-Arts e le Lettres è l’analogia rintracciabile nei rispettivi modelli naturali. L’inconsueta attenzione conferita da Batteux alle ragioni del cuore ha, infatti, un’inevitabile ricaduta sul modo d’intendere il fine tanto dell’azione dell’artista quanto di quella del semplice locutore. Nel primo caso, ad esempio, la bella natura viene considerata raggiungibile non più soltanto attraverso una perfezione in atto – ovvero la proporzione, la simmetria e l’unità nella varietà proprie dell’oggetto imitato – bensì anche per mezzo del particolare interesse che esso suscita nel soggetto. A prescindere sia dalla forma del referente naturale sia dal valore positivo o negativo che esso può avere sul soggetto al 1 L’interminabile querelle sulle inversioni linguistiche e l’ordine naturale del discorso ha origini antiche : parte da Cicerone e Quintiliano, passa per gli scolastici e i filosofi sei-settecenteschi fino a estendersi alle soglie dell’Ottocento. Nel 1765 – quando appare l’articolo Inversion a cura di Nicolas Beauzée all’interno dell’Enciclopédie – la discussione è tutt’altro che sopita. Tuttavia, come scrive Bollino, i fronti opposti sono bene delineati e strutturati : « Da un lato i cosiddetti métaphysiciens, come ambiziosamente si denominavano i tradizionalisti fautori dell’ordine logico-razionale del discorso, dall’altro i nuovi mécaniciens sostenitori di una costruzione svincolata dagli schemi logici e più aderente alle istanze emotivo-espressive. I primi (e Beauzée è fra questi) potevano vantare nel grammairien-philosophe Du Marsais il loro più prestigioso esponente, i secondi riconoscevano in Batteux il loro indiscusso portabandiera » (F. Bollino, Introduzione a Batteux, Sulla frase, cit., p. xxxii). 2 Batteux, Sulla frase, cit., i lettera, p. 9. 3 Oltre a quanto affermato negli Addenda – già ampiamente analizzato – si ricorda che Batteux approfondisce la mimesi musicale e coreica sin nei primi capitoli della sua opera. Scrive, ad esempio, il filosofo nella parte II a proposito del gusto : « Il canto e la danza furono le prime espressioni del sentimento : e poi il divertimento, il bisogno, l’occasione, il caso dettero l’idea delle altre arti, e ne aprirono il cammino » (Idem, Le belle arti ricondotte a unico 4 Idem, Sulla frase, cit., ii lettera, p. 32. principio, cit., p. 51).
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fine del suo perfezionamento morale, ciò che maggiormente conta è la particolare relazione emotiva che si instaura tra fruitore e opera d’arte. Scrive a tal proposito Batteux :
Il nostro legislatore [si tratta di un immaginario artista-filosofo incaricato di stabilire le regole dell’arte] conclude che la prima qualità, che devono avere gli oggetti che ci presentano le arti, è che siano interessanti, cioè che abbiano un rapporto intimo con noi. L’amor proprio è la molla di tutti i piaceri del cuore umano. Così non può esserci niente di più toccante per noi dell’immagine delle passioni e delle azioni degli uomini, perché esse sono come gli specchi, in cui vediamo le nostre, con rapporti di differenza e conformità. 1
In campo linguistico si assiste a un procedimento analogo. Da una parte Batteux riafferma l’idea di una corrispondenza fedele e oggettiva del discorso rispetto al mondo di cui si fa rappresentazione : « Pensiero ed espressione sono [...] entrambi immagini. Ora, la perfezione di ogni immagine consiste nella sua somiglianza con ciò di cui è appunto immagine e tale somiglianza, quando è perfetta, deve rappresentare non soltanto le cose bensì l’ordine in cui le cose si trovano ». 2 Dall’altra il filosofo tende a mettere sempre più in luce il particolare punto di vista del soggetto rispetto alle cose che si trova ad esprimere e, soprattutto, la sua reazione pratico-sensibile di fronte a esse : « È l’interesse che fa parlare gli uomini, ed è ancora l’interesse che regola l’ordine delle parole, disponendole secondo il loro grado d’importanza ». 3 Il sentimento si rivela, dunque, come il primo e indiscusso motore di ogni atto di comunicazione nonché quale principio fondamentale della sua strutturazione. Infine, in questa analisi dei meccanismi retorico-grammaticali, Batteux sembra approfondire ulteriormente in direzione espressiva la concezione della mimesi elaborata un paio di anni prima. Un argomento a favore di questa tesi si trova nel differente grado di sinergia e autonomia riconosciuti a parola e gesto ne Les Beaux-Arts e nelle Lettres. Negli Addenda del 1747, ad esempio, pur riconoscendo lo specifico valore semantico di tono e gesto, il filosofo non solo lo tiene distinto dalla rappresentatività propria della parola, bensì cerca di promuoverne l’utilizzo in unione con questa : lo spettacolo lirico auspicato alla fine del capitolo lo dimostra. Questo genere artistico è capace di sintetizzare per il teorico l’“unità duale” di cui l’uomo è intessuto poiché – analogamente a quanto si è visto presagito nel connubio di gesto e parola descritto da Du Bos e auspicato da Engel nella recitazione – in esso si coniugano due modelli rappresentativi differenti, capaci però di rafforzarsi in modo vicendevole nel fine comune di muovere lo spettatore : « Si vedranno da un lato gli dèi che agiscono e, dall’altro lato, le passioni espresse. L’azione degli dèi che offre lo spettacolo del meraviglioso, che colpisce gli occhi e s’impossessa dell’immaginazione : l’espressione delle passioni che produce l’emozione nel cuore, che lo infiamma e lo turba ». 4 Nella decima lettera dedicata alla declamazione, invece, Batteux sembra invertire il rapporto di forza tra corpo e linguaggio a favore del primo. Mentre in apertura di quest’appendice il filosofo giustifica il suo approfondimento dell’espressione gestuale al fine di arricchire e perfezionare l’abilità retorico-linguistica dell’oratore, nel corso della sua argomentazione il difficile equilibrio tra le due fonti di senso e i rispetti mezzi rappresentativi viene nuovamente infranto dalla frequente sottolineatura della capacità da parte del gesto di supplire ai limiti della parola. Anzitutto il linguaggio del corpo è universale pur essendo contraddistinto da tratti fortemente individuali e inalienabili. 5 In secondo luogo « non c’è una sola passione, un solo movimento di essa, una sola parte di tale movimento che non abbia il suo gesto » 6 ovvero esiste una particolare espressività affettiva che – lontano da qualsiasi mecca
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Idem, Le belle arti ricondotte a unico principio, cit., p. 54. 3 Idem, Sulla frase, cit., i lettera, p. 7. Ivi, i lettera, p. 9. 4 Idem, Le belle arti ricondotte a unico principio, cit., p. 122. 5 6 Idem, Sulla frase, cit., lettera x, p. 204. Ivi, p. 206. 2
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nismo puramente imitativo o indicativo – è capace di rappresentare il « quadro dell’anima » 1 superando in energia ed efficacia la chiarezza ma anche astrazione del discorso. Scrive il filosofo :
Una lingua, per energica e ricca che sia di parole e giri di frase resta in un’infinità di occasioni al di sotto dell’oggetto che vuole esprimere. Vi sono cose che essa rende solo in parte, con oscurità, con lungaggini. Spesso non fa che delineare ciò che andrebbe dipinto, o anche profondamente inciso. Un solo grido ci commuove sin nel profondo delle viscere ; tutto il nostro essere si interessa all’oggetto, il suo slancio ci trascina e spezza ogni altro legame. Lo stesso accade con i gesti. Un battito di ciglia dice più cose e più rapidamente di ogni discorso. Un atteggiamento, un contegno, ci convince, ci spiega tutte insieme mille cose che noi poi districhiamo con piacere. Quante scene affascinanti devono tutto all’arte e al genio dell’attore e, se avessero soltanto le parole, non sarebbero altro che un abbozzo appena delineato. 2
La riflessione di Diderot si colloca nel solco di questa tradizione. Il filosofo approfondisce la particolare modalità espressiva attraverso cui il gesto è in grado di dare forma al nuovo mondo di significati riconosciuti da Batteux – ovvero indaga i fondamenti logico-epistemici del suo linguaggio – ma soprattutto mostra come il suo meccanismo rappresentativo, frutto non di un processo riproduttivo bensì formativo, sia alla base di tanto del linguaggio quanto di ogni forma d’arte. 3. 2. Diderot, Noverre e l’espressività del gesto Da quanto finora visto teorie imitative ed espressive si intrecciano su un terreno propriamente retorico. 3 Con Diderot la questione si allarga e approfondisce : la sua Lettre sur les sourds et les muets del 1751 lo mostra magistralmente. Pur muovendo dal dibattito sulle inversioni linguistiche, infatti, questo testo labirintico – a lungo definito “illeggibile” a causa dell’apparente mancanza di organicità e delle numerose digressioni presenti – si allarga da subito a questioni di più ampia portata : dai rapporti tra i linguaggi verbali, gestuali e delle immagini sino al problema della formatività linguistica e semiotica. I diversi livelli di transtestualità presenti nello scritto lo dimostrano :
La Lettera abbonda di citazioni esplicite o implicite (come nell’uso settecentesco), di allusioni, ecc. (intertesto) ; soffre addirittura di un eccesso quasi iperbolico, di titoli, sottotitoli, avvisi, ritrattazioni, aggiunte, osservazioni, e così via (paratesto) ; si pone esplicitamente come un testo che appartiene al « genere epistolare », sia per le titolazioni (« Lettera sui... », ecc.) sia per le ben consapevoli dichiarazioni dello stesso Diderot (architesto) : « Quanto al gran numero di argomenti fra i quali mi piace vagare, sappiate e riferite a coloro che vi consigliano che questo non è per nulla un difetto in una lettera, nella quale si suppone di conversare liberamente, ed in cui l’ultima parola di una frase costituisce una transizione sufficiente ». 4
Tra i diversi dispositivi volti a mettere variamente in relazione il testo con un altro, è particolarmente interessante il carattere meta- e ipertestuale della lettera. Come mostra Fernando 1 Ivi, p. 205. Il filosofo descrive i gesti imitativi come quelli tesi a riprodurre il tono di voce o il modo di atteggiarsi di qualcuno, mentre i movimenti indicativi sono finalizzati a designare uno spazio, un oggetto o un individuo. I gesti affettivi, invece, dipingono i moti dell’anima. Si avrà modo di approfondire ampiamente il registro pittorico adoperato in riferimento al gesto e alla danza nei prossimi paragrafi e, soprattutto, nell’ultimo capitolo. Per il momento ci si limita a sottolineare come questa distinzione dei movimenti da parte di Batteux richiami quella di Du Bos tra gesti naturali e convenzionali (cfr. supra, cap. ii, § 2.1) ma sia ancora lontana dalla formalizzazione engeliana del carattere dinamico dell’espressione (cfr. supra, cap. ii, § 2.2). 2 Idem, Sulla frase, cit., lettera x, p. 207. 3 Cfr. Bollino, Derive della mimesis, cit., pp. 97-104. 4 Idem, Introduzione a D. Diderot, Lettera sui sordi e muti, tr. it. di F. Bollino, Modena, Mucchi, 1984, p. xxii.
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Bollino – sulla scorta delle approfondite indagini di Chouillet – il lavoro del filosofo francese è da considerarsi quale testo di “secondo grado” rispetto alle Lettres sur la phrase française e Les Beaux-Arts di Batteux : l’uno in modo implicito, l’altro in modo esplicito, questi scritti costituiscono gli ipotesti su cui l’enciclopedista costruisce dialogicamente la sua riflessione e rispetto a cui radicalizza il legame tra temi retorico-grammaticali e più propriamente estetici. 2 Nello specifico, mentre Batteux tende a considerare i meccanismi psicologici dell’uomo in termini universali e, dunque, rischia di ipostatizzare e standardizzare un modello interiore a cui poi corrisponde un analogo catalogo espressivo – verbale o gestuale che sia – il filosofo illuminista mette in discussione proprio il presunto carattere invariabile o, per lo meno, compiutamente definibile dell’emozione e del pensiero e, insieme, l’ipotesi di qualsiasi tipo di meccanismo rappresentativo meramente riproduttivo rispetto ad essi. L’opera del filosofo, inoltre, può essere considerata a sua volta un ipotesto rispetto non soltanto ad altre opere successive dello stesso autore, ma anche a scritti di diversa natura come quelli relativi alla riforma coreica. Da una parte la lettera permette di ricostruire le ragioni dell’attenzione riservata da Diderot al gesto e, più specificatamente, alla pantomima e alla danza stricto sensu all’interno della sua più ampia e multiforme produzione scritta. 3 Dall’altra quest’opera offre degli strumenti preziosi per tentare di mettere a fuoco i principali nodi teorici – ma anche le aporie e ambiguità – in cui sembrano incorrere i protagonisti del ballet en action : il filosofo, infatti, non solo si trova a dar voce al processo di rinnovamento coreico inauguratosi nei primi decenni del Settecento, ma rappresenta un modello di riferimento per i coreografi stessi, Noverre in primis, 4 e in particolare per la loro ricerca di una fondazione teorica della possibilità semantica della danza a prescindere dall’ausilio verbale. Per questo complesso di ragioni, il lavoro del 1751 di Diderot offre un’occasione unica per comprendere le ragioni degli scambi tra scena coreica e pensiero estetico nel Settecento, ma soprattutto consente di mettere a fuoco il nuovo modello espressivo dell’arte che emerge dal serrato confronto tra parola e gesto all’interno di questa intersezione di piani. Nello specifico, la complessa struttura transtestuale della lettera permette di cogliere ancora in modo più evidente quel meccanismo paradossale su cui si basa il ripensamento della mimesi e, insieme, quel carattere costitutivamente formativo della rappresentazione tanto verbale quanto gestuale che lentamente va affermandosi nel xviii secolo. 5 1
1 Cfr. J. Chouillet, La formation des idées esthétiques de Diderot (1745-1763), Paris, Colin, 1973, in particolare vol. i, pp. 140-248. 2 Cfr. Bollino, Introduzione a Diderot, Lettera sui sordi e muti, cit., pp. xxii-xxv. 3 Obiettivo di questo paragrafo è indagare il ripensamento della mimesi che Diderot opera attraverso uno stretto e diversificato confronto tra parola e gesto negli anni Cinquanta del Settecento : le opere che risalgono a questi anni – e delle quali la Lettre costituisce la premessa indispensabile – costituiscono, infatti, sia una messa a punto di precedenti riflessioni o esperienze coreiche direttamente coinvolte nella riforma della seconda metà del secolo – come quelle di Du Bos o Batteux, ma anche dei pionieri del balletto settecentesco, a partire dalla Sallé (cfr. infra, cap. iii, § 4) – sia un termine di confronto e ispirazione per i balletti e la poetica di Noverre. Si rimanda, dunque, l’analisi di opere posteriori a questo periodo (come il Paradoxe sur le Comédien) a una prossima investigazione dedicata solo ed esclusivamente all’estetica diderotiana e al ruolo svolto all’interno di essa dall’espressione gestuale nel suo più ampio spettro semantico. Si segnalano, tuttavia, sin da ora per ulteriori approfondimenti queste edizioni delle opere complete del filosofo : D. Diderot, Oeuvres complètes. Édition critique et annotée, a cura di J. Fabre - H. Dieckmann - J. Proust - J. Varloot et al., Paris, Hermann, 1975 sgg. ; Idem, Oeuvres, a cura di L. Versini, Paris, Laffont, 1994-1997, 5 voll. (cfr. in particolare il vol. iv : Esthétique - théâtre, 1996). Si ricorda, infine, quale studio sul problema della mimesi nella riflessione diderotiana questo saggio di P. Lacoue-Labarthe, Diderot, le paradoxe et la mimésis, « Poétique. Revue de théorie et d’analyse littéraires », xliii (1980), pp. 267-281. 4 Per una prima ricognizione dei punti di contatto tra la coreutica noverriana e la riflessione diderotiana si ricorda il lavoro, anche se piuttosto datato, di T. Kratz, J. G. Noverre : “Lettres sur la danse”, ihre Stellung und ihre Beziehungen zu seiner Seit (besonders Diderot), Würzburg, Universität - Dissertation, 1923. In questo paragrafo si si limiterà a sottolineare e approfondire i punti di contatto tra le due riflessioni soltanto in merito ai rapporti tra gesto e parola. 5 Il testo di Diderot è stato oggetto di innumerevoli studi. Fine della presente indagine non è proporne un’ulte
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capitolo secondo 3. 2. 1. Linguaggio astratto e metaforico
La centralità del gesto all’interno della riflessione diderotiana emerge sin dalle prime pagine della Lettre. Chiave di volta dell’argomentazione è l’ipotesi di un sordomuto dalla nascita in quanto questo soggetto – estraneo alle costruzioni e sovrastrutture linguistiche 1 – sembra essere più vicino all’ordine originario del pensiero. Si tratta ovviamente di un esperimento mentale, di cui non vengono approfonditi i metodi e i risvolti, ma che risulta particolarmente fecondo agli occhi di Diderot sia in riferimento all’annoso dilemma sulle inversioni linguistiche sia, più approfonditamente, circa il meccanismo che regola le diverse forme di rappresentazione e autorappresentazione dell’uomo. Il metodo adoperato dal filosofo, infatti, segue uno sviluppo – per così dire – paradossale : analizza “mostruosità” e anomalie che sembrano contraddire le norme logiche per tentare di verificarle o, al contrario, smentirle. Dall’osservazione e interazione immaginarie con questo interlocutore, il filosofo trae, anzitutto, indicazioni circa il carattere concreto del gesto : il codice corporeo risulta incapace di esprimere alcuna quantità, numero, estensione o durata, ma soprattutto non è in grado di adoperare alcun tipo di astrazione. Come scrive l’enciclopedista : « Ho pensato che, per secoli interi, gli uomini hanno avuto soltanto, come tempi verbali, il presente dell’indicativo o dell’infinito, che le circostanze rendevano ora un futuro ora un perfetto ». 2 Lungi dall’essere giudicate come carenze, queste caratteristiche del gesto rappresentano agli occhi dell’enciclopedista la sua inesauribile ricchezza. L’impossibilità di ridurre la portata significativa di un movimento ad alcun concetto o categoria ne rivela, infatti, il carattere unico e irriproducibile ovvero il legame essenziale con una specifica condizione spazio-temporale di dispiegamento. Le successive digressioni ed esemplificazioni tratte dal mondo teatrale da parte di Diderot non fanno che dimostrarlo e approfondirlo. Facendo alcuni confronti tra linguaggio verbale e gestuale sul palcoscenico, il filosofo fa notare come ci sia un tipo di gesto così carico di tensione emotiva ed energia espressiva da essere intraducibile a parole e lo chiama sublime di situazione. 3 Come si può facilmente evincere sin dalla denominazione, esso si caratterizza anzitutto per la sua capacità di cogliere ed esprimere con efficacia la portata semantica di una data circostanza. Tra gli esempi riportati è particolarmente significativo quello riferito a Lady Macbeth :
La sonnambula Macbeth avanza in silenzio e a occhi chiusi sulla scena, imitando l’azione di una persona che si lava le mani, come se le sue fossero ancora macchiate dal sangue del suo re che aveva sgozzato ormai da più di vent’anni. Non conosco nulla, nel discorso, di così patetico quanto il movimento delle mani di questa donna. Quale immagine del rimorso ! 4
La forza della scena shakespeariana sta nel riuscire a condensare in un unico gesto la memoria del delitto, le passioni che lo hanno generato e il senso di colpa che ne è derivato, ovvero è in grado di riflettere la medesima simultaneità ma anche contraddittorietà dell’esperienza interiore di Macbeth. Nel movimento della regina – in cui si comprimono e dispiegano al riore interpretazione, bensì mostrare il ruolo predominante svolto dal gesto – in serrato confronto con la parola – nella costruzione della riflessione diderotiana : lo statuto rappresentativo della danza, che sul movimento corporeo si fonda, è e rimane infatti il centro dell’investigazione. Per ogni altro approfondimento della Lettre si rimanda dunque a Chouillet, La formation des idées esthétiques de Diderot, cit., vol. i, pp. 140-248. 1 Cfr. Diderot, Lettera sui sordomuti, cit., pp. 24-31. Il filosofo francese non è l’unico a osservare nel Settecento le modalità di apprendimento e comunicazione dei sordomuti, cfr. ad esempio il linguaggio dei segni ideato da C. M. De L’Épée, Institution des sourds et muets par la voie des signes méthodiques, Paris, Nyon l’Aîné, 1776. 2 Diderot, Lettera sui sordomuti, cit., p. 30. 3 4 Cfr. ivi, p. 25. Ivi, p. 24.
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tempo stesso presente, passato e futuro nonché le passioni opposte che lacerano il cuore della donna – viene recuperata quell’immediatezza e complessità semantica propria della realtà di cui il sordomuto dalla nascita offre un angolo di osservazione privilegiata e di cui la recitazione teatrale si fa magistralmente interprete. L’espressività corporea messa in gioco sul palcoscenico è capace, infatti, di sintonizzarsi su contenuti di senso irraggiungibili dal discorso e, in particolare, dal linguaggio convenzionale, ma soprattutto di esemplificare efficacemente il funzionamento dell’arte, la sua capacità di comunicare contenuti emotivi individuali e, al tempo stesso, universali. Come sintetizza Maddalena Mazzocut-Mis :
Il gesto è un veicolo di senso importantissimo, capace di comunicare l’intraducibile : il sentimento o meglio l’emozione. Il linguaggio gestuale è dunque in grado di significare e comunicare emozioni che per essere tali, nella loro estrema ambiguità semantica, hanno bisogno di quella “simultaneità”, che non è concessa al linguaggio istituzionale. Il carattere metaforico del linguaggio gestuale, l’intraducibilità del “sublime di situazione” esprimono quell’ambiguità propria dell’arte per cui essa sa esprimere con un’immagine, con una forma, con un suono, contemporaneamente, idee e sentimenti diversi, intraducibili almeno in significati che esauriscono la pregnanza emotiva di un sentimento. 1
Dopo aver sottolineato il carattere concreto ed energico del gesto, Diderot segna un ulteriore progresso nella sua argomentazione definendo il linguaggio gestuale metaforico. 2 Qui metafora è da intendere nella sua accezione più profonda perché non significa semplicemente che il gesto si presti a plurime interpretazioni, che esso possa essere trasferito da un oggetto all’altro, ma che esso stesso sia plurimo poiché è proprio dell’anima di cui è diretta espressione poter avere diverse idee o sentimenti nello stesso istante. Scrive l’enciclopedista qualche pagina più avanti :
Lo stato dell’anima in un istante indivisibile fu rappresentato da una quantità di termini che la precisione del linguaggio esigeva e che suddividevano in parti un’impressione totale : e poiché questi termini erano pronunciati in tempi successivi, e si comprendevano via via che venivano pronunciati, si fu indotti a credere che gli stati dell’anima che rappresentavano avessero la stessa successione ; ma non è affatto così. Una cosa è lo stato della nostra anima e un’altra il conto che ne rendiamo sia a noi stessi sia agli altri ; una cosa è la sensazione totale e istantanea di questo stato e un’altra l’attenzione progressiva e dettagliata che siamo costretti a prestarle per analizzarla, manifestarla e farci comprendere. 3
Simili affermazioni da parte di Diderot decostruiscono il problema stesso delle inversioni linguistiche. A differenza di Batteux, il filosofo non solo non riconosce più il primo posto nella frase al soggetto e affida la costruzione della proposizione alle specifiche condizioni in cui si trova il locutore, bensì nega l’esistenza stessa di un ordine del pensiero. 4 Solo la formazione delle lingue e la necessità di una delucidazione sempre più chiara e distinta dei contenuti di coscienza ha richiesto infatti la scomposizione, successione e non contraddizione di ciò che originalmente si presenta come unico e indistinto. Di conseguenza, mentre il carattere indefinito del movimento corporeo e la sua irriducibilità ad alcun sistema di corrispondenza o referenzialità univoca lo rendono capace di esprimere la simultaneità e profondità dell’anima umana mostrandone l’irriducibilità di senso, i simboli che da questa espressività originaria si sono sviluppati si rivelano al contrario quale mezzo di inevitabile tradimento della realtà : pur acquistando in chiarezza e universalità, essi perdono in aderenza al parti
1
M. Mazzocut-Mis, Il gonzo sublime. Dal patetico al kitsch, Milano, Mimesis, 2005, p. 53. 3 Cfr. Diderot, Lettera sui sordomuti, cit., p. 25. Ivi, p. 36. 4 Qualche pagina prima, infatti, il filosofo scrive : « Io sostengo che quando una frase contiene solo un piccolo numero di idee è molto difficile determinare l’ordine naturale che queste idee dovrebbero avere in rapporto a chi parla. Infatti, se anche non si presentano tutte insieme, la loro successione è tuttavia così rapida che è spesso impossibile discernere quella che ci colpisce per prima. Chi sa poi che lo spirito non possa averne un certo numero esattamente nello stesso istante ? » (ivi, p. 33). 2
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colare con le sue venature e irregolarità. Come si legge nella Lettre : « Ah, signore, quanto la nostra comprensione è modificata dai segni e quanto la dizione più vivace è ancora fredda copia di ciò che accade ». 1 Esito di un simile confronto tra parola e gesto è l’inesorabile tramonto della teoria mimetica intesa come riconoscimento e riproduzione di un modello predeterminato e l’apertura all’ipotesi formativa della lingua che lentamente prende piede in Europa, soprattutto in Francia, nella seconda metà del xviii secolo. 2 Alla teoria classica del linguaggio quale specchio del pensiero succede, infatti, la posizione che vede nella parola un mezzo di inevitabile alterità rispetto ai vissuti percettivi ed emotivi : ogni segno è separato dal suo contenuto da una differenza che permette sì lo spazio della rappresentazione, ma al tempo stesso preclude qualsiasi possibilità di perfetta trasparenza tra i termini in gioco. Inoltre il carattere artificiale e in continuo sviluppo del linguaggio è causa sia di una continua evoluzione delle facoltà cognitive dell’uomo sia di trasformazione della realtà stessa di cui il soggetto si fa interprete. Umberto Eco sintetizza efficacemente questa corrente linguistica e semiotica di cui Diderot è partecipe con queste parole :
Il fatto è che la cultura settecentesca ha spostato, rispetto a quella del secolo precedente, il fuoco della propria attenzione nei confronti del linguaggio. Ormai si sostiene che pensiero e linguaggio si influenzano mutuamente e procedono di pari passo, ovvero il linguaggio crescendo modifica il pensiero. Se è così non si può sostenere l’ipotesi razionalista di una grammatica del pensiero, universale e stabile, che i vari linguaggi in qualche modo riflettono. Nessun sistema delle idee, postulato in base a una ragione astratta, può diventare parametro e criterio per la costruzione di una lingua perfetta : la lingua non riflette un universo concettuale platonicamente precostituito, ma concorre a formarlo. 3
La diffusione di questa ipotesi formativa, ma soprattutto l’importanza che essa assume nella decodificazione di quanto di lì a poco accadrà in campo coreico è immediatamente evidente se si prende in esame la riflessione noverriana. Alla fine delle sue Lettres il coreografo scrive : « Tous ceux qui sont subjugués par l’imitation oublieront toujours la belle nature pour ne penser uniquement qu’au modèle qui les frappe & qui les séduit, modèle souvent imparfait & dont la copie ne peut plaire ». 4 Una simile affermazione sembra negare il principio della mimesi che lo stesso coreografo pone quale premessa esplicita della sua coreutica ; in realtà, il paradigma criticato è quello che interpreta la rappresentazione artistica e, nello specifico, quella gestuale quale semplice duplicato di una data realtà ovvero, linguisticamente parlando, come un segno che rimanda a un referente ben preciso e ad esso estraneo : la nona lettera dedicata all’uso delle maschere in teatro offre una prima occasione per provare questa ipotesi. 5 All’interno dell’argomentazione noverriana, infatti, è proprio il confronto con la parola a svolgere ancora una volta un ruolo centrale nella delucidazione della capacità rappresentativa del movimento corporeo :
1
Ivi, p. 36. Cfr. ad esempio i diversi stadi che Diderot individua nell’evoluzione di una lingua, ivi, p. 39. Per una prima introduzione alla riflessione linguistica dei cosiddetti grammarien-philosophe, invece, si rimanda a E. Coseriu, Geschichte der Sprachphilosophie. Von den Anfängen bis Rousseau, Tübingen-Basel, Francke, 2003, ed. it. a cura di D. Di Cesare, Storia della filosofia del linguaggio, Roma, Carocci, 2010, pp. 383-417. 3 Eco, La ricerca della lingua perfetta, cit., p. 311. 4 Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, p. 478 (« Tutti quelli che sono soggiogati dall’imitazione dimenticheranno sempre la bella natura per non pensare ad altro che al modello che li colpisce e che li seduce, modello spesso imperfetto e la cui copia non può piacere » Idem, Lettere sulla danza, p. 128). 5 In questa lettera il coreografo spiega la sua avversione verso l’utilizzo delle maschere adducendo quale causa la fissità e inverosimiglianza a cui esse costringono coprendo, al contrario, l’espressività efficace e cangiante del volto umano : unico « interprète fidèle de tous les mouvements de la Pantomime » (Idem, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., pp. 196-197 ; « interprete fedele di tutti i movimenti della pantomima » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 63). Si avrà modo di riprendere più nel dettaglio sia la questione dell’espressione pittorica e gestuale sia il rifiuto da parte di Noverre di un modello mimetico meramente riproduttivo nel prossimo capitolo. 2
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C’est comme vous le savez, Monsieur, sur le visage de l’homme que les passions s’impriment, que les mouvements & les affections de l’âme se déploient & que le calme, l’agitation, le plaisir, la douleur, la crainte & l’espérance se peignent tour à tour. Cette expression est cent fois plus animée, plus vive & plus précise que celle qui résulte du discours le plus véhément. Il faut un temps pour articuler sa pensée, il n’en faut point à la physionomie pour la rendre avec énergie ; c’est un éclair qui part du cœur, qui brille dans les yeux, & qui répandant sa lumière sur tous les traits annonce le bruit des passions, & laisse voir pour ainsi dire l’âme à nu. 1
Nel discorso di Noverre la pantomima supera due volte la parola. Anzitutto il carattere energico, simultaneo e concreto dell’espressione corporea è garanzia di fedeltà al reale di contro all’astrazione e consequenzialità della parola. In secondo luogo il coreografo dà prova della difficoltà da parte del linguaggio non soltanto di farsi veicolo dei contenuti interiori, ma anche – e inevitabilmente – di farsi interprete adeguato del gesto e del suo particolare funzionamento. La ricchezza di immagini e il lessico ambiguo di cui sono spesso intrisi gli scritti coreici, infatti, non è tanto da addebitare alla poca perizia dei loro autori bensì a una caratteristica precipua della materia trattata : la metafora del “lampo” piuttosto che la metonimia del “cuore”, ad esempio, sono strategie linguistiche adoperate dal coreografo francese per avvicinare contenuti difficilmente formalizzabili, per sintonizzarsi su quella frequenza dell’anima – fatta di oscurità e contraddizioni – che costituisce la forma e la portata semantica del movimento corporeo da lui ricercato. Come scrive Christina Thurner :
Damit definiert Noverre die “Danse d’Éxecution” als Unterkategorie der “Danse en Action” ; er beschreibt quasi Erstere als leeren, mechanischen Körper, dem mit der zweiteren, neuen Tanzart die Seele hinzugefügt wird. Dabei greift er auf anthropologische und sensualistische Begriffe wie “Leben”, “Herz”, “Seele” und “Emotionen” zurück, die er mit seduktiven beziehungsweise kaptivativen Verben wie “verführen”, “mitreißen” und “fesseln” verbindet. Die Metaphorik, die Noverre in dieser und in anderen Passagen wählt, lehnt sich nahe an die geschilderten konkreten Vorgänge an. Durch die Beschreibung der Prozesse im Theater – beziehungsweise im Tänzer sowie im Zuschauer – wird sprachlich ein semantisches Feld kreiert, das nicht mehr zwischen Konkretem und Metaphorischem unterscheiden lässt. 2
Se da tematiche prettamente linguistiche si allarga poi il raggio visuale al problema della rappresentazione teatrale in Diderot, si può capire più nel dettaglio ragioni ed effetti di questa rivoluzione nel modo di concepire il rapporto tra parola e gesto. Come testimoniano, infatti, le esperienze di attore e spettatore che il filosofo racconta nelle sue opere più celebri – quali Le Neveu de Rameau o Paradoxe sur le Comédien, 3 ma anche la stessa Let1 Idem, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., pp. 195-196 (« Come voi sapete, Signore, è sul volto dell’uomo che si imprimono le passioni, si spiegano i moti e le commozioni dell’animo, e che la calma, l’agitazione, il piacere, il dolore, il timore e la speranza si dipingono vicendevolmente. Questa espressione è cento volte più animata, più viva e più precisa di quella che scaturisce dal più veemente dei discorsi. È necessario un certo tempo per articolare il proprio pensiero, ma la fisionomia non ne ha bisogno per rappresentarlo con energia ; è un lampo che parte dal cuore e brilla negli occhi, e che irradiando della sua luce ogni tratto del volto scopre il fermento delle passioni e lascia per così dire che si veda l’animo a nudo » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 63). 2 C. Thurner, Beredte Körper - bewegte Seelen. Zum Diskurs der doppelten Bewegung in Tanztexten, Bielefeld, transcript, 2009, pp. 89-90 (« In questo modo Noverre definisce la “danza d’esecuzione” come sottocategoria della “danza in azione” ; descrive la prima quasi come un corpo vuoto, meccanico, alla quale viene aggiunta l’anima con il secondo e nuovo tipo di danza. Ricorre a concetti antropologici e sensualistici come “vita”, “cuore”, “anima” ed “emozioni” che unisce con verbi seduttivi, anzi, accattivanti come “sedurre”, “entusiasmare” e “affascinare”. Il linguaggio metaforico, che Noverre sceglie in questi e altri passaggi, si appoggia a eventi descritti concretamente. Attraverso la descrizione dei processi in teatro – ovvero nel ballerino e nello spettatore – viene creato linguisticamente un campo semantico in cui è impossibile distinguere concreto e metaforico »). 3 Cfr. D. Diderot, Le Neveu de Rameau, prima ed. postuma francese, Berlin, Neufeld & Henius, 1890, ed. it. a cura di M. Brini Savorelli, Il nipote di Rameau, Firenze, Olschki, 2002 ; Idem, Paradoxe sur le Comédien, prima ed.
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tre – la scena offre un’occasione unica per radiografare la realtà e mettere a confronto i suoi diversi processi rappresentativi. 1
3. 2. 2. Il dramma della rappresentazione L’attenzione riservata nella Lettre al gesto e al suo particolare meccanismo mimetico si comprende in tutta la sua rilevanza una volta messa in relazione col dramma borghese che di lì a qualche anno il filosofo propone a partire da Le Fils naturel e i dialoghi che l’accompagnano. 2 Il nuovo genere drammatico introdotto da Diderot, a metà strada tra quello burlesco-comico e quello tragico-meraviglioso, si contraddistingue per la particolare struttura compositiva a quadri : 3 ogni scena è tesa a riprodurre fedelmente una circostanza poiché « non si tratta tanto di rappresentare caratteri, quanto condizioni. Fino a oggi, nella commedia il carattere è stato l’oggetto principale e la condizione solo un accessorio ; bisogna che la condizione divenga l’oggetto principale e il carattere l’accessorio ». 4 Una simile affermazione trasforma il modo di concepire la rappresentazione teatrale perché lega l’azione dei personaggi non a dei caratteri precostituiti e neppure a degli incidenti imprevisti, 5 bensì a delle situazioni specifiche e contingenti che concorrono in maniera decisiva nel formare la storia e, insieme, la personalità di ciascun individuo. La particolare attenzione che Diderot dedica alla partitura gestuale nelle sue opere drammatiche attraverso dense e ricorrenti didascalie esplicite lo dimostra :
Nei nostri drammi parliamo troppo ; e perciò i nostri attori non recitano abbastanza. Abbiamo perduto un’arte di cui gli antichi conoscevano bene le risorse. La pantomima una volta esprimeva tutte le condizioni, i re, gli eroi, i tiranni, i ricchi, i poveri, i cittadini, i contadini, scegliendo in ogni stato le caratteristiche che gli sono proprie ; in ogni azione ciò che ha di rilevante. [...] Qual effetto non produrrà quest’arte, aggiunta al discorso ? Perché abbiamo separato ciò che la natura ha unito ? Il gesto non corrisponde, in ogni momento, al discorso ? Non me ne sono mai convinto così bene come scrivendo quest’opera. Cercavo ciò che avevo detto, ciò che m’avevano risposto ; e non trovando che gesti, scrivevo il nome del personaggio, e, sotto, la sua azione. 6
Simili riflessioni segnano uno spartiacque fondamentale all’interno del ripensamento settecentesco sulla rappresentazione. Anzitutto portando avanti il magistero di Du Bos, il filosofo rievoca il linguaggio composito degli antichi e denuncia non soltanto la sua scissione postuma, Paris, Sautelet, 1830, ed. it. a cura di R. Rossi, Paradosso sull’attore, Milano, Abscondita, 2002. Entrambe le opere rappresentano dei passaggi fondamentali all’interno della riflessione diderotiana. Tuttavia, poiché esse appartengono a una fase successiva (intorno agli anni Settanta del Settecento) del pensiero del filosofo rispetto a quella qui oggetto d’indagine, saranno tema di approfondimento in una prossima investigazione ad hoc. 1 Si ricordi in particolare un episodio riferito da Diderot nella Lettre e utile per fissare ulteriormente alcuni punti dell’argomentazione finora condotta. Il filosofo racconta di essere andato più volte a teatro e di averne approfittato per fare un esperimento : conoscendo a memoria i testi delle opere più celebri, si posizionava a una certa distanza dal palcoscenico, si turava le orecchie e osservava la recitazione degli attori per verificare se si accordasse o meno con i loro discorsi. L’esito di questo esame era piuttosto deludente : pochi risultavano gli interpreti in grado di sfruttare al massimo e in modo unitario i diversi codici espressivi. Al tempo stesso, però, questo dato fenomenico aveva permesso al filosofo di dedurre una legge teorico-metodologica : dato che parola e pantomima funzionano secondo due sistemi rappresentativi ben diversi – l’uno riconducibile a un meccanismo di stampo astrattivo, l’altro metaforico – esse vanno indagate e valutate separatamente (cfr. Diderot, Lettera sui sordomuti, cit., p. 28). 2 Cfr. Idem, Le Fils naturel (1757), in Idem, Œuvres, vol. iv : Esthétique - Théâtre, cit., pp. 1081-1127 ; ed. it. a cura di M. Grilli, Il Figlio naturale ovvero le Le prove della virtù, in Idem, Teatro e scritti sul teatro, Firenze, La Nuova Italia, 1980, pp. 33-82 ; Idem, Dorval ed io. Per un approfondimento cfr. Etudes sur Le fils naturel et les Entretiens sur le fils naturel, a cura di N. Cronk, Oxford, Voltaire Foundation, 2000. 3 Per l’analisi del rapporto tra quadro, gesto e azione e, in particolare, dei rapporti tra danza e arti visive si rimanda infra, cap. iii. 4 Diderot, Dorval ed io, cit., p. 134. 5 6 Ivi, p. 92. Ivi, p. 100.
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ma soprattutto l’oblio della sua dimensione corporea. In secondo luogo l’autore abbozza implicitamente un’equazione tra gesto, circostanza e azione che approfondisce i risultati precedentemente raggiunti nella Lettre e apre la strada a sviluppi ulteriori. 1 Mentre nel 1751, infatti, Diderot mostra come l’espressione corporea non corrisponda alla comunicazione astratta e riflessiva di un contenuto o proposito interiore bensì sia indissolubilmente legata alla particolare situazione concreta e contingente da cui scaturisce, qui il filosofo sembra aggiungere o, meglio, sottolinearne un carattere ulteriore : il gesto più che essere semplice manifestazione fenomenica di un particolare stato emotivo costituisce parte integrante di esso e rappresenta una componente essenziale dell’azione stessa dell’uomo. Herbert Dieckmann sintetizza efficacemente il concetto con queste parole :
Soffermiamoci un momento sulla pantomima : nel progetto di teatro tracciato da Diderot non è più un accessorio ; il suo impiego non è più limitato a un preludio o accompagnamento del discorso, né è più destinato a riempire brevi intervalli fra due discorsi. Al contrario si unisce al discorso come elemento autonomo, talvolta addirittura lo sovrasta, poiché è l’azione per eccellenza. È presente allo spirito e alla mente dell’autore drammatico fin dal concepimento della sua opera, influisce sulla composizione come sulla rappresentazione, ne diviene parte integrante e darà colore al dramma. 2
La costruzione di alcune scene de Le Fils naturel, ma anche del Père de famille 3 offrono una prova evidente di questa tessitura pantomimo-coreica della rappresentazione diderotiana. Nella prima opera, ad esempio, il monologo di Dorval in apertura d’atto è caratterizzato da una netta prevalenza del codice gestuale su quello verbale sia dal punto di vista quantitativo sia da quello qualitativo : le poche parole pronunciate dal protagonista sono per lo più aforistiche o insignificanti mentre l’abbondanza e la precisione dei movimenti e delle espressioni da lui assunti riescono a rendere efficacemente l’inquietudine e il tormento del suo animo. Una simile contrapposizione è ancora più evidente nell’incipit della prima scena del secondo atto. Qui il silenzio di Rosalie è denso di significato non soltanto perché incalzato invano dalle domande di Justine, ma perché al suo posto comunica il linguaggio del corpo : il lavoro al telaio in cui la fanciulla è tristemente impegnata – evocando per contrasto la figura della Penelope omerica – suggerisce la difficoltà da parte della ragazza di mantenere fede alla promessa di amore verso Clairville. Se si passa a esaminare il secondo dramma, si constata poi come Diderot abbia costruito la sua opera su di una solida e implicita struttura coreografica. Nella scena di apertura del primo e del secondo atto, infatti, la rappresentazione si sviluppa lungo una serie di quadri viventi e simultanei attorno al protagonista che mostrano un’inedita capacità registica da parte del filosofo molto vicina a quella di un maître de ballet : 4 dalla partita di tric
1 Si rimanda in particolare a Diderot, Paradosso sull’attore ma anche alla riflessione di Engel a proposito di recitazione e pantomima : cfr. supra, parte ii, cap. 1, § 2.2. 2 H. Dieckmann, Le thème de l’acteur dans la pensée de Diderot, « Cahiers de l’Association internationale des études françaises », xiii (1961), pp. 157-172, ora in Idem, Studien zur Europäischen Aufklärung, München, Fink, 1974 ; tr. it di A. Paszkowski, P. Casini, Il tema dell’attore nel pensiero di Diderot, in H. Dieckmann, Il realismo di Diderot, Roma-Bari, Laterza, 1977, pp. 33-50, qui p. 40. 3 D. Diderot, Le Père de famille (1758), in Idem, Œuvres, vol. iv : Esthétique - Théâtre, cit., pp. 1193-1270 ; ed. it. a cura di M. Grilli, Il padre di famiglia, in Idem, Teatro e scritti sul teatro, cit., pp. 151-230. 4 Poiché non è attestato alcun incontro o contatto diretto tra il filosofo e i protagonisti della riforma coreica negli anni Cinquanta del Settecento, non si può sostenere un influsso da parte del ballet en action sulla produzione drammatica diderotiana (cfr. J. Chouillet, Figures chorégraphiques dans le théâtre de Diderot, in Il teatro dell’Illuminismo, a cura di A. Calzolari, Firenze, Vallecchi, 1981, pp. 134-144, in particolare p. 137). Si legge tuttavia ne Le Neveu de Rameau : « Io - Che cosa sono le posizioni ? Lui - Andate a domandarlo a Noverre. Il bel mondo ne offre ben di più di quelle che la sua arte sa imitare » (Diderot, Il nipote di Rameau, cit., pp. 83-84). Questa è l’unica citazione esplicita che l’enciclopedista fa del coreografo francese : se si considera che l’opera è stata probabilmente scritta tra il 1760 e il 1764 (pur continuando a essere rivista dal filosofo almeno fino agli anni Ottanta), essa testimonia la
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trac alle diverse relazioni prossemiche tra i personaggi, queste immagini corporee danno vita a un vero e proprio “ballo di società” capace non soltanto di offrire uno specchio fedele della realtà borghese, ma soprattutto di mostrare le specifiche condizioni – tanto sociali quanto emotive – di cui ogni individuo è attivamente o passivamente partecipe. Come scrive Jacques Chouillet : « La chorégraphie dans l’oeuvre dramatique de Diderot n’est pas un accompagnement ou un supplément d’action, elle est l’action dramatique par excellence, le signe dramatique dans sa totalité ». 2 La coreutica di Noverre riprende e approfondisce esplicitamente questo magistero diderotiano. Nella xv lettera, al momento di descrivere alcuni suoi balletti emblematici, il coreografo parla di un’opera ispirata a Le Fils naturel – L’Amour corsaire, ovvero L’Embarquement pour Cythere 3 – e di una affine al dramma Père de famille – Le Jaloux sans Rival. 4 La ripresa dei nomi dei protagonisti nel primo ballo, la costruzione a quadri del secondo, e i diversi riferimenti e lodi rivolte al filosofo nelle Lettres sono fra i segnali più chiari di questo legame che il ballerino vuole istituire tra la sua riforma e quella dell’enciclopedista. In particolare ciò che egli apprezza e cerca di emulare del savant è la ricerca della natura di contro a qualsiasi sorta di artificialità e retorica e, insieme, la riscoperta di una capacità espressiva del corpo depurata da ogni sorta di standardizzazione o sovrastruttura. La difesa che il maestro di ballo fa del realismo toccato dal filosofo proprio con la partita di tric trac, ma soprattutto le parole con cui ne sintetizza l’ideale drammatico lo dimostrano : « Il voudrait substituer la Pantomime aux manières ; le ton de la nature au ton ampoulé de l’Art ; les habits simples aux clichés & à l’oripeau ; le vrai au fabuleux ». 5 Al tempo stesso il ballet en action proposto da Noverre è come un’ulteriore messa a fuoco del progetto diderotiano. Unicamente basato sul movimento, questo nuovo genere teatrale mostra e spinge all’estremo le possibilità espressive del corpo. Nello specifico – rinunciando a qualsiasi supporto linguistico e sfruttando la dialettica tra movimento e stasi, nonché tutte le diverse sfumature e velocità dei gesti – l’Amour corsaire testimonia la capacità della danza di costruire e sorreggere autonomamente un’intera azione. La descrizione di una scena del balletto ispirato a Le Fils naturel lo esemplifica : 1
Les Mysogyniens à l’aspect de leur divinité renversée & de leur culte profané entrent en fureur ; mais l’Amour ne leur permet de faire éclater leur colère que par intervalle ; il les arrête toujours lorsqu’ils sont prêts à frapper & à se venger. Les instants du charme qui les rend immobiles, offrent une multitude de tableaux & de groupes qui diffèrent tous par les positions, par la distribution, par la composition, mais qui expriment également ce que la fureur a de plus affreux. 6
celebrità raggiunta da Noverre in brevissimo tempo rispetto alla rappresentazione dei suoi primi capolavori e alla pubblicazione delle sue Lettres. 1 Si tratta di un gioco d’abilità che si pratica con dadi e pedine su un apposito tavoliere e che Diderot fa comparire nella prima scena del primo atto della sua opera dando così particolare realismo all’azione. 2 Chouillet, Figures chorégraphiques dans le théâtre de Diderot, cit., p. 136 (« Nell’opera drammatica di Diderot la coreografia non è un accompagnamento o un supplemento d’azione, è l’azione drammatica per eccellenza, il segno drammatico nella sua totalità »). 3 Dall’indagine condotta da Sybille Dahms (cfr. Dahms, Jean Georges Noverre “Ballet en action”, cit., p. 260 e Eadem, Der konservative Revolutionär, cit., pp. 365-366) risulta che di questo balletto – rappresentato presumibilmente a Lione nel 1758/59 con la musica di François Granier e i costumi di Boquet – non è sopravvissuta alcuna traccia documentaria tranne quella lasciata dal coreografo stesso nelle sue Lettres. 4 Messo in scena a Lione nel 1759 (cfr. Eadem, Jean Georges Noverre “Ballet en action”, cit., pp. 292-293 e Eadem, Der konservative Revolutionär, cit., pp. 401-402), questo ballo trae ispirazione dall’opera del filosofo soprattutto per la costruzione del suo primo quadro. A differenza di quanto fatto nella maggior parte dei suoi balli, infatti, il coreografo abbandona totalmente la realtà mitica per ritrarre un’ambientazione borghese animata da dinamiche esplicitamente di derivazione diderotiana (cfr. Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., pp. 453, 462). 5 Ivi, p. 468 (« Egli vorrebbe sostituire la pantomima alle maniere ; il tono della natura al tono ampolloso dell’arte ; gli abiti semplici ai fronzoli e all’orpello ; il vero al favoloso » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 125). 6 Idem, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., pp. 447-448 (« I Misoginiani, alla vista della loro divinità distrutta
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Sia la riflessione diderotiana sia quella noverriana mettono dunque in evidenza negli stessi anni un’inedita capacità espressiva da parte del gesto fondata sulla sua matrice concreta e drammatica : il movimento corporeo è capace di rappresentare efficacemente un’azione perché ne costituisce il tessuto essenziale. In entrambi i casi, tuttavia, il legame col linguaggio rimane ineliminabile : basti pensare alle didascalie a cui il filosofo affida la descrizione dei gesti nei suoi drammi oppure alle parole con cui il coreografo lascia traccia dei suoi balletti e ne mette a tema i fondamenti teorici. Occorre, dunque, approfondire ulteriormente la relazione tra linguaggio verbale e gestuale. Nello specifico, bisogna capire se il rapporto tra i due codici possa intendersi in termini esclusivamente oppositivi : il circolo tra poesia e danza di cui tanto i testi dell’enciclopedista quanto quelli di stampo coreico sono protagonisti aiuta ad articolare la questione, ma soprattutto consente di focalizzare in modo più preciso il particolare paradigma mimetico promosso da Diderot e, implicitamente, dal ballet en action.
3. 2. 3. La danza come poesia o viceversa ?
Il piano propriamente estetico della Lettre sur les sourds et muets emerge in maniera chiara e inequivocabile alla fine dello scritto. Qui, infatti, il filosofo interpella direttamente il suo destinatario, Batteux, mettendone in discussione il sistema delle belle arti e, in particolare, il concetto di bella natura :
Insegnategli una buona volta, signore, come ogni arte imiti la natura in uno stesso oggetto e dimostrate loro che è falso, come invece pretendono, che ogni natura sia bella e che non c’è natura brutta, a parte quella che non si trova al proprio posto. Perché, mi dicono, una vecchia quercia rugosa, storta, senza più rami, che farei tagliare subito se fosse davanti alla mia porta è invece proprio quella che il pittore vi pianterebbe se dovesse dipingere la mia casa ? È bella questa quercia ? È brutta ? Chi ha ragione, il proprietario o il pittore ? Non c’è un solo oggetto di imitazione su cui non venga mossa la stessa obiezione e molte altre ancora. Vogliono anche che gli dica perché una rappresentazione ammirabile in un’opera poetica, diventerebbe ridicola sulla tela. 1
Chiave di volta dell’argomentazione diderotiana rispetto a quella del predecessore è lo spostamento del focus dell’attenzione dall’oggetto imitato ai mezzi e alle modalità di questo processo creativo. Per il filosofo francese l’apprensione del mondo non è mai pura : sin a partire dal linguaggio, ogni tentativo da parte dell’uomo di articolare il flusso di percezioni ed emozioni che scaturiscono dalla sua interazione col mondo è inevitabilmente determinato dai simboli e dalle strutture che adopera. A maggior ragione questo vale nel campo dell’arte. La varietà di strumenti utilizzati nonché i diversi modi in cui essi vengono impiegati trasformano originalmente il materiale di partenza così da rendere ogni prodotto artistico mai perfettamente traducibile con un altro, sia dello stesso genere sia afferente a discipline diverse : l’esempio virgiliano del dio Nettuno che riemerge dalle acque lo esemplifica. Analogamente a quanto di lì a poco magistralmente messo a punto da Lessing nel Laocoonte, Diderot mostra come una stessa scena sortisca un effetto diverso se affidata alla penna di un poeta o ai colori di un pittore : in un caso l’effetto è sublime, nell’altro risulta inopportuno e
e del culto profanato diventano furiosi ; ma Amore non permette loro di far esplodere l’ira che ad intervalli ; egli li arresta sempre al punto in cui sarebbero pronti a vendicarsi e a colpire. I momenti dell’incanto che li rende immobili offrono una quantità di quadri e di gruppi che differiscono tutti nelle posizioni, nella distribuzione, nella composizione ma che esprimono ugualmente ciò che il furore ha di più orribile » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 120). 1 Diderot, Lettera sui sordomuti, cit., p. 48. Cfr. a tal proposito M. Modica, Il sistema delle arti. Batteux e Diderot, n. mon. « Aesthetica Preprint », xvi (1987).
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fallimentare. Per capirne più approfonditamente la ragione occorre, però, fare un piccolo passo indietro e analizzare la spiegazione che l’enciclopedista dà della poesia e del suo funzionamento rappresentativo. Secondo il filosofo qualsiasi forma espressiva è caratterizzata da uno stile particolare. In ogni discorso, ad esempio, la differenza tra « il pensiero e l’espressione » 2 e, più precisamente, la diversa natura del secondo termine e del suo rapporto col primo possono dare luogo a esiti linguistico-letterari molto vari : chiarezza e precisione generano una conversazione famigliare, armonia e ritmo un discorso scientifico, mentre la poesia – esempio mirabile di artisticità verbale – sortisce un effetto totalmente altro, fondato su una mutua interdipendenza di forma e contenuto. Come scrive l’enciclopedista : 1
Passa allora nel discorso del poeta uno spirito che ne anima e ne vivifica tutte le sillabe. Che cos’è questo spirito ? A volte ne ho sentito la presenza ; ma tutto quello che ne so è che si deve a lui se le cose sono dette e rappresentate simultaneamente e se, nello stesso tempo in cui l’intelletto le coglie, l’anima ne è commossa, l’immaginazione le vede e l’orecchio le intende e se, infine, il discorso non è più solo una concatenazione di termini energici che espongono il pensiero con forza e nobiltà ma anche un tessuto di geroglifici ammucchiati gli uni sugli altri che lo dipingono. Potrei dire, in questo senso, che ogni poesia è emblematica. 3
Termine chiave di questo passo – che ricorre ben ventisei volte nella Lettre – è geroglifico. Come ha mostrato analiticamente Massimo Modica, 4 la trasparenza e l’oscurità della scrittura geroglifica rappresentano un oggetto di studio e curiosità per molti studiosi nel xviii secolo e vengono ricondotte in ultima battuta al carattere iconico del langage d’action. Studiato approfonditamente da Condillac, 5 questo linguaggio innato organizza l’esperienza degli uomini primitivi attraverso un’espressività sonoro-gestuale che, almeno inizialmente, non ha un fine comunicativo e che, legato indissolubilmente alla corporeità ed estraneo a ogni sorta di procedimento analitico o astrattivo, si contraddistingue per il suo carattere immediato, globale e sinestesico : grida inarticolate, suoni, movimenti e gesti ne costituiscono il tessuto. Il fatto che Diderot modelli la poesia sul calco di questo linguaggio e che, a sua volta, faccia del geroglifico poetico la falsariga per l’arte tout court offre una lente privilegiata per saggiare il concetto di bella natura messo in gioco dal filosofo. Se è vero, infatti, che questa nozione è piuttosto sfuggente ed equivoca, 6 è altrettanto vero che la sua struttura rap
1 Cfr. Diderot, Lettera sui sordomuti, cit., pp. 48-49. A dimostrazione della fecondità delle riflessioni diderotiane e della progressiva affermazione culturale della disciplina coreica, si ricordino alcune riflessioni di Arteaga di qualche anno più tardi in cui la “relatività” del concetto di bella natura viene esemplificata attraverso un confronto tra danza e scultura : « Si deduce che [...] così come non esiste bellezza imitativa generale e assoluta, non esiste neanche natura assolutamente e universalmente brutta, bensì che i termini astratti di bellezza e di bruttezza si devono prendere per confronto, ovvero, secondo il rapporto che hanno con il fine, lo strumento e i mezzi di ogni facoltà rappresentativa. Fidia e Buonarroti non avrebbero capito come dalle grida femminili una eccellente cantante potesse ottenere un motivo musicale dalla melodia così armoniosa ed espressiva da strappare per forza le lacrime agli ascoltatori. Haydn e Noverre non avrebbero saputo che farsene di un pezzo di marmo informe, e non avrebbero trovato nella sua rozzezza nessuna bellezza degna di imitazione. Eppure, da questo marmo, apparentemente disprezzabile, lo scultore Pigmalione poté estrarre un corpo di Galatea così proporzionato e bello, da soggiogare le passioni dello stesso artefice, obbligandolo a implorare la pietà degli dei perché gli infondessero la vita, unica prerogativa che mancava a quel prodigio dell’arte » (De Arteaga, La bellezza ideale, cit., pp. 64-65). 2 3 Cfr. Diderot, Lettera sui sordomuti, cit., p. 40. Ibidem. 4 Cfr. Modica, L’estetica di Diderot, cit., pp. 192-236. 5 Cfr. Condillac, Saggio sull’origine delle conoscenze umane, cit., pp. 79-336. 6 Una delle principali oscurità legate a questo concetto è data dal fatto che, dopo aver affermato l’esistenza di emblemi specifici per ciascuna arte (cfr. Diderot, Lettera sui sordomuti, p. 48), il filosofo fa un confronto tra pittura, poesia e musica da cui risulta che solo le ultime due discipline presentano geroglifici mentre la prima esibisce « la cosa stessa » (ivi, p. 49). Per un approfondimento cfr. J. Doolittle, Hieroglyph and Emblem in Diderot’s Lettre sur les sourds et muets, in Diderot Studies, vol. ii, Syracuse, Syracuse University Press, 1952, pp. 148-167 ; K. E. Tunstall,
paradossi della mimesi tra parola e gesto
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presentativa fondamentale – ovvero l’identità di forma e contenuto – implica l’assunzione di un particolare paradigma mimetico. In primo luogo l’accentuazione del valore iconico dell’opera d’arte – si tratti di immagini, parole o suoni – comporta il riconoscimento di una portata semantica a contenuti espressivi privi dei criteri cartesiani di chiarezza e distinzione : il geroglifico è in grado di rappresentare azioni e sentimenti dell’uomo perché – proprio a differenza del linguaggio ordinario – non pretende di definirne nettamente confini e proprietà, ma ne esibisce al contrario la complessità e un fondo di indicibilità. In secondo luogo questa nuova fondazione delle arti decreta l’abbandono di un meccanismo basato sulla mera corrispondenza tra segno e referente e, al suo posto, promuove una reciproca commistione dei termini in gioco che richiama da vicino quel carattere concreto, contingente e attivo prima rintracciato nel linguaggio gestuale : le actions con cui ogni cosa viene spontaneamente espressa insieme all’emozione che l’accompagna costituiscono, infatti, l’origine e il modello ultimo per ogni espressione energica ed efficace, ovvero naturale. 1 Una simile matrice gestuale sottesa alla concezione mimetica delineata da Diderot emerge in modo ancora più evidente e, al tempo stesso, paradossale se si mette in relazione quanto scritto dall’enciclopedista nella Lettre con quanto di lì a poco affermato sulla danza nei dialoghi che accompagnano Le Fils naturel. Scrive il filosofo nel 1757 :
La danza ? La danza attende ancora un uomo di genio. È cattiva dappertutto, poiché si sospetta appena che sia un genere di imitazione. La danza sta alla pantomima come la poesia sta alla prosa, o piuttosto, come la declamazione naturale sta al canto. È una pantomima ritmata. Vorrei proprio che mi spiegassero che cosa significano tutte quelle danze come il minuetto, il passepied, il rigodone, l’allemanda, la sarabanda, in cui si segue un percorso tracciato. Un uomo dà prova di grazia infinita. In ogni suo movimento mostra scioltezza, dolcezza, nobiltà : ma che cosa imita ? Quello non è saper cantare, è saper solfeggiare. Una danza è una poesia. Questa poesia dovrebbe dunque avere la sua rappresentazione separata. È un’imitazione mediante movimenti che presuppone la collaborazione del poeta, del pittore, del musicista, e del pantomimo. Ha il suo soggetto. Questo soggetto può essere diviso in atti e in scene. La scena ha il suo recitativo libero o obbligato e la sua arietta. 2
La similitudine tra danza e poesia intessuta dal filosofo ha lo scopo di giustificare e, al tempo stesso, promuovere la possibilità da parte della disciplina coreica di significare. Come già sostenuto dagli scrittori classici – da Simonide di Ceo a Orazio oppure Plutarco – il ballo e la composizione poetica sono legati, infatti, da una profonda analogia che si esplicita nella comune forma ritmica : in forza di essa, il corpo in movimento può sottrarsi a un impiego puramente ludico o decorativo e imparare a sfruttare il proprio potenziale mimetico. La riforma coreica non fa che perseguire questo obiettivo. Noverre ad esempio – ricalcando proprio quanto scritto un paio di anni prima da Diderot – sostiene che un buon balletto deve avere al pari di qualsiasi poesia una materia, ovvero il soggetto che si vuole rappresentare, e due “parti” differenti : una di qualità che consiste nella forma che si dà ai corpi in scena e una di quantità che si regge sull’unità e svolgimento delle singole componenti qualitative. 3
Hieroglyph and Device in Diderot’s Lettre sur les sourds et muets, in Diderot Studies, a cura di D. Guiragossian Carr, vol. xxviii, Genève, Droz, 2000, pp. 161-172. 1 Un celebre periodo scritto pochi anni più tardi dal filosofo non fa che confermarlo : « Lo spirito, l’epigramma, non vanno ; non vanno quei graziosi piccoli pensieri. Troppo lontani dalla semplice natura. Ora non andate a credere che il gioco degli attori di teatro e la loro declamazione possano servire a noi di modello. Macché. Noi abbiamo bisogno di più energia, meno maniera, più verità. I discorsi semplici, le espressioni comuni della passione, tanto più ci sono necessari quanto più monotona sarà la lingua, priva di accento. Il grido animale dell’uomo rapito dalla passione gliene fornisce » (Diderot, Il nipote di Rameau, cit., p. 71). 2 Idem, Dorval ed io, cit., pp. 140-141. 3 Cfr. Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., pp. 123-124. Angiolini, da parte sua, radicalizza ulteriormente il rapporto di forza tra le due arti riconoscendo ai versi la capacità di creare nuovi personaggi mentre alla disciplina di Tersicore – insieme a quella della pittura – la facoltà soltanto di far riconoscere soggetti cogniti (cfr.
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capitolo secondo
Questa funzione di guida riconosciuta al linguaggio poetico tanto da Diderot quanto dal riformatore della danza trova una giustificazione più approfondita e, al tempo stesso, un’inversione di segno se messa in sinergia con le riflessioni fatte dal filosofo nella Lettre. Qui la poesia è descritta come la forma capace di significare senza denotare, ovvero, come un’espressione che per la sua stretta correlazione di modo e contenuto è in grado di non tradire la realtà di cui si fa interprete imponendo ad essa una figura ad essa estranea. La riscoperta dell’efficacia e delle possibilità rappresentative del linguaggio – e, insieme, dell’arte – da parte dell’enciclopedista è resa possibile, però, soltanto dal ritorno alle sue origini, ovvero, a quel language d’action che ne costituisce il fondamento. Proporre alla danza di guardare alla composizione poetica come suo modello non significa dunque altro che spingere l’arte di Tersicore ad abbandonare il movimento fine a se stesso o la pantomima troppo caricaturale e riscoprire il suo stesso incipit : quel movimento corporeo caratterizzato da un essenziale carattere concreto, contingente e attivo. Quanto scrive il filosofo nel 1758 in De la poèsie dramatique non fa che confermarlo : « La pantomima è il quadro che esisteva nella fantasia del poeta quando scriveva ; e che egli vorrebbe che la scena mostrasse in ogni momento quando lo si rappresenta ». 1 Più che la poesia sembra dunque essere la danza a proporsi circolarmente quale modello di tutte le altre arti. Nel prossimo capitolo viene verificata questa ipotesi ripartendo da documenti e fonti di matrice precipuamente coreica, ma soprattutto mettendo a confronto l’espressività propria del ballo con quella della pittura.
Angiolini, Dissertation sur les Ballets Pantomimes des Anciens, cit., C4 v). Si avrà modo di tornare più approfonditamente sull’intreccio di danza, pittura e poesia che caratterizza la riforma coreica nel capitolo successivo. 1 D. Diderot, De la poésie dramatique (1758), in Œuvres, vol. iv : Esthétique - Théâtre, cit., pp. 1271-1350 ; ed. it. a cura di M. Grilli, Sulla poesia drammatica, in Idem, Teatro e scritti sul teatro, cit., pp. 239-328, qui p. 306.
Capitolo terzo Ut danza artes Immaginiamo l’inimmaginabile, il gesto del primo creatore d’immagini. Non procede né per caso, né secondo un progetto. La sua mano si muove in un vuoto che si crea all’istante, che lo separa da se stesso più che prolungare il suo essere nella sua azione. Ma questa separazione è l’azione stessa del suo essere. J. L. Nancy, Pittura nella grotta
L
adanza si dice in molti modi e, al tempo stesso, in nessuno di questi ; si esprime attraverso immagini pur non risolvendosi in alcuna di esse. Nel Settecento teorici o semplici appassionati tentano di spiegare l’essenza sfuggente di Tersicore ricorrendo a diverse similitudini con le altre arti : da “quadro in movimento” a “poesia muta”, da “scultura animata” a “musica sensibile” o ancora a “pittura vivente”, la danza diviene oggetto di un complesso di diciture e formule. Questa operazione è motivata anzitutto dall’analogia che regola sin dal Rinascimento la codificazione teorica e la prassi rappresentativa di tutte le discipline artistiche : esse concorrono in modi diversi alla manifestazione di uno stesso ordine invisibile. Rispetto al balletto di corte del Cinquecento, 1 tuttavia, il ballet en action declina in maniera radicalmente diversa questo meccanismo analogico. Fermo restando il paradigma mimetico dell’arte, l’oggetto imitato perde la propria centralità e assolutezza nonché la sua funzione unificante e al suo posto assume sempre più spessore il processo di creazione che accomuna le diverse arti. 2 Un simile slittamento non solo determina una maggiore attenzione alla specificità espressiva di ogni disciplina e all’originalità di ciascuno sguardo, ma promuove la collaborazione e il confronto tra le varie tecniche e punti di vista proprio in virtù della loro parzialità. Quanto scrive Noverre nelle Lettres lo conferma :
Tous les Arts se tiennent par la main, & sont l’image d’une famille nombreuse qui cherche à s’illustrer. L’utilité dont ils sont à la Société, excite leur émulation ; la gloire est leur but ; ils se prêtent mutuellement des secours pour y atteindre. Chacun d’eux prend des routes opposées, comme, chacun d’eux a des principes différents ; mais on y trouve cependant certains traits frappants, un certain air de res
1 Per una prima introduzione al balletto di corte ovvero a quella forma di spettacolo che – caratterizzata dalla sinergia tra tutte le arti, dalla partecipazione dei nobili e dalla committenza reale – si afferma alla fine del Cinquecento in Francia cfr. G. Tani, s.v. Ballet de cour, in Enciclopedia dello spettacolo, cit., vol. i, 1954, pp. 1338-1341 ma soprattutto i seguenti studi : M.-F. Christout, Le Ballet de cour de Louis XIV. 1643-1672, Paris, A. et J. Picard, 1967 ; Eadem, Le Ballet de Cour au xviie / The Ballet de Cour in the 17th Century, Genève, Minkoff, 1987 ; M. M. McGowan, L’art du ballet de cour en France, 1581-1643, Paris, cnrs, 1978. A proposito del meccanismo analogico che regola il funzionamento di questa forma teatrale si rimanda in particolare ivi, pp. 11-27. 2 A tal proposito si rimanda supra, cap. I, § 2.3 (in cui viene inquadrata la questione della mimesi settecentesca) e cap. ii (in cui lo slittamento del paradigma mimetico da un’accezione riproduttiva a una espressiva viene argomentato sulla base dell’evoluzione del rapporto tra parola e gesto nella riflessione di alcuni autori fondamentali nonché in quella dei riformatori della danza).
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capitolo terzo
semblance, qui annonce leur union intime & le besoin qu’ils ont les uns des autres pour s’élever, pour s’embellir, & pour se perpétuer. 1
Il profilo della danza che risulta da un simile contesto rappresentativo e dalla poliedricità di definizioni di cui l’arte coreica è protagonista risulta segnato da un singolare tratto negativo. In primo luogo l’assenza di una tradizione consolidata e di un codice espressivo specifico evidenzia uno speciale statuto di “apolide” da parte della disciplina di Tersicore : effimera e trasversale, essa risulta sprovvista di un campo e una modalità di apparizione originali ed esige un continuo lavoro di differenziazione e sconfinamento tra tutte le arti per poter essere avvicinata. In secondo luogo questo processo di approssimazione all’essenza coreica sembra strutturalmente destinato allo scacco. Ogni spiegazione offerta della danza non solo risulta insufficiente se presa singolarmente, ma si fonda su una relazione dialettica tra due termini opposti che pare annullarne la portata semantica : alla staticità di un’arte visiva viene, ad esempio, accostato un aggettivo indice di animazione o mobilità oppure all’impalpabilità delle note musicali viene attribuito un carattere sensibile. L’estraneità da parte della danza a qualsiasi dispositivo linguistico-concettuale – dal semplice termine sino alla proposizione più complessa – che ne possa definire in modo preciso, positivo e univoco i confini è indice del suo particolare statuto rappresentativo. Il gesto – minimo comune denominatore dell’arte coreica – si trova ad essere tradito e incompreso dal linguaggio ordinario a causa della sua natura concreta, metaforica e attiva. 2 Solo un’espressione che sappia significare senza denotare e nella quale forma e contenuto siano strettamente interdipendenti è in grado di porsi sulla sua stessa frequenza : una poesia, un componimento musicale o un geroglifico ne offrono degli esempi efficaci. Tra questi diversi mezzi espressivi, tuttavia, l’immagine rappresenta una chiave di accesso privilegiata e, insieme, obbligata all’essenza di Tersicore. Anzitutto la danza è un’arte per gli occhi. Pur se accompagnata dalla musica o tradotta in parole, essa non può prescindere dalla manifestazione – e conseguente percezione – di un corpo in movimento. Il celebre testo di Gregorio Lambranzi, Nuova e curiosa scuola de’ balli teatrali, 3 lo mostra : solo il comune piano visivo offerto dall’incisione permette ai codici verbali, tonali e gestuali d’incontrarsi sinergicamente e consente sia di lasciare una traccia del ballo sia di aprire un piano di interpretazione dello stesso come, d’altra parte, avviene dal vivo tra ballerino e spettatore piuttosto che nella trasmissione orale e cinetica tra maestro
1 Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., pp. 76-77 (« Tutte le arti si tengono per la mano e sono l’immagine di una famiglia numerosa che cerca di diventare illustre. L’utilità che recano alla società, eccita la loro emulazione ; la gloria è la loro mira ; esse si prestano mutualmente soccorso per arrivarvi. Ciascuna prende vie opposte, come ciascuna ha principi differenti ; ma tuttavia vi si trovano certi tratti che colpiscono, certi motivi di rassomiglianza, che annunciano la loro intima unione e il reciproco bisogno che hanno, le une e le altre, per elevarsi, per abbellirsi e per perpetuarsi » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 39). 2 Cfr. supra, cap. ii, in particolare § 3.2. 3 Cfr. G. Lambranzi, Nuova e curiosa scuola de’ balli teatrali [...] Neue und curieuse Teatralische Tantz-Schul [...], Nürnberg, Johan Jacob Wolrab, 1716, rist. anast. tedesca, Frankfurt, Peters, 1975 ; New and Curious School of Theatrical Dancing by Gregorio Lambranzi [...], tr. ing. dal ted. di F. Derra de Moroda, New York, Dance Horizon, 1972. In quest’opera l’autore traspone parte della tradizione coreica seicentesca attraverso una fitta e articolata serie di immagini, accompagnate da brevi descrizioni verbali e arie musicali. Per un approfondimento cfr. M. Fama, Gregorio Lambranzi : un “maestro di ballo” da Venezia a Norimberga, « Biblioteca teatrale », nuova serie, viii (1987), pp. 61-82 ; Eadem, Le « Curiose invenzioni » del maestro di ballo Gregorio Lambranzi : un consuntivo della coreutica teatrale seicentesca, in L’arte della danza ai tempi di Claudio Monteverdi, a cura di A. Chiarle, Torino, Istituto per i Beni Musicali in Piemonte, 1996, pp. 259-273 ; Schroedter, Vom “Affect” zur “Action”, cit. (si rimanda in particolare al materiale audiovisivo ricavato dal trattato di Lambranzi e contenuto nel Cd Rom allegato al volume). Visto il focus di questa indagine si suggerisce, inoltre, il saggio di S. Dahms, « Gregorio Lambranzi di Venetia » e il ballo d’azione a Vienna, in L’opera italiana a Vienna prima di Metastasio, a cura di M. T. Muraro, Firenze, Olschki, 1990, pp. 251-269.
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e allievo. Il vedere rappresenta inoltre per la cultura occidentale il fondamento stesso del conoscere. Come ha messo nuovamente in evidenza il picturial turn degli ultimi decenni, 2 pensiero e discorso si radicano nella sensazione e trovano nelle forme visibili tanto il loro incipit quanto alcuni dei loro possibili e principali sviluppi : basti pensare al carattere iconico del language d’action 3 o ai più diffusi mezzi di comunicazione odierni. Nel xviii secolo il legame tra gesto e immagine trova, infine, un particolare luogo di elezione. Anzitutto la pittura rappresenta il medium essenziale di definizione della disciplina coreica. Come scrive Cahusac : « La danse, comme la peinture, ne retrace à nos yeux que les situations ; et toute situation véritablement théâtrale n’est autre chose qu’un tableau vivant ». 4 Il quadro costituisce inoltre il paradigma delle arti e dell’esperienza umana nel suo complesso : esso consente sia di soddisfare ed esemplificare i criteri cartesiani di chiarezza e distinzione sia di tematizzare alcuni problemi cruciali come il rapporto soggetto-oggetto. 5 Al tempo stesso, però, è anche il movimento a pervadere il piano figurativo. Secondo la scienza morfologica, 6 infatti, un’immagine non è soltanto contraddistinta da modalità di referenza semantica radicalmente altre rispetto a quelle del discorso, essa mette in gioco dimensioni emotive nonché intrecci e associazioni tra sfere di significazione molto lontane : un’immagine non riflette solo una visione di mondo in quanto è una superficie attiva con la quale si rende disponibile l’insieme dei processi di formazione e trasformazione soggiacenti. L’analisi delle principali ricorrenze di termini pittorici all’interno della riflessione coreica settecentesca consente di mettere a fuoco questa complessità concettuale, ma soprattutto permette di tracciare la cornice all’interno della quale s’inserisce lo slittamento di paradigma rappresentativo avanzato dal ballet d’action. 1
1 La fondazione della prima istituzione dedicata alla ricerca e didattica coreica ne fornisce un’ulteriore conferma. Come scrive, infatti, Nicole Haitzinger commentando le Lettres patentes du roy, pour l’etablissement de l’Académie royale de danse en la ville de Paris del 1662 : « Während die Klänge mit der Harmonie der Seele in Verbindung stehen und die Ohren betören, bildet der Tanz durch Zeichen, Gesten und Bewegungen des Körpers eine eigene Sprache, die Gefühle und Emotionen auszudrücken und zu repräsentieren vermag und das Auge erfreut. Rhetorik, Poesie, Malerei und Skulptur sind in dieser Denkordnung dem Tanz näher als die Musik und ihre Klänge, da auch sie über das Auge wirken » (N. Haitzinger, Auge. Seele. Herz. Zur Funktion der Geste im Tanzdiskurs des 18. Jahrhunderts, in Wissenskultur Tanz, cit., pp. 87-103, qui p. 89 ; « Mentre i suoni sono in relazione con l’armonia dell’anima e affascinano l’orecchio, la danza forma tramite segni, gesti e movimenti del corpo una propria lingua, che è in grado di rappresentare sentimenti ed emozioni e di piacere all’occhio. In questo ordine di pensiero retorica, poesia, pittura e scultura sono più vicine alla danza di quanto non lo sia la musica e i suoi suoni poiché anche loro hanno effetto sull’occhio »). 2 Con questa espressione si rimanda sia a una modalità di comunicazione che si rifà essenzialmente all’immagine sia alla corrente di pensiero che negli ultimi decenni l’ha riportata al centro dell’attenzione scientifica da diversi punti di vista e con altrettanti esiti differenti. Per una prima introduzione al problema si segnalano due studi recenti che offrono, tra l’altro, una ricca bibliografia in merito : Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, a cura di A. Pinotti, A. Somaini, Milano, Cortina, 2009 ; O. Breidbach, F. Vercellone, Pensare per immagini. Tra scienza e arte, Milano, Bruno Mondadori, 2010. 3 Cfr. supra, cap. ii, § 3.2. 4 Cahusac, La danse ancienne et moderne, cit., p. 234 (« La danza, come la pittura, non ritrae ai nostri occhi che delle situazioni ; e ciascuna situazione autenticamente teatrale non è che un quadro vivente »). Per l’approfondimento della questione si rimanda ai paragrafi successivi ; in particolare cfr. infra, cap. iii, § 1. 5 Cfr. infra, cap. iii, § 1. 6 Il potere della rappresentazione iconica è noto sin dall’antichità. Solo a partire dal Settecento però, e in particolare attraverso il magistero di Goethe, il “pensare per immagini” viene approfondito e sviluppato articolatamente sino a fondare a una scienza vera e propria. La cosiddetta morfologia è venuta conseguentemente a designare una conoscenza intuitiva della realtà che percepisce questa natura come una totalità che si diffonde in tutte le sue parti e, inversamente, intende le sue parti come specchio di questa medesima totalità. Per una prima introduzione alla riflessione goethiana in merito cfr. O. Breidbach, Goethes Metamorphosenlehre, München, Fink, 2006 ; per quanto riguarda gli sviluppi successivi della scienza morfologica si rimanda invece a titolo orientativo a Teorie dell’immagine, cit. ; Breidbach - Vercellone, Pensare per immagini, cit.
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capitolo terzo 1. L’espressione dentro e oltre il quadro
La nozione di tableau costituisce la pietra angolare della riforma teatrale settecentesca. Come analizza dettagliatamente Pierre Frantz :
Sa formule fait la synthèse entre tout ce qui, dans le spectacles dramatique, tient à l’écriture (écriture des scènes, calcul du climax, dialogue et scènes muettes) et tout ce qui tient à la poétique scénique, architecture, décoration, costume, mise en scène (déplacement des comédiens, gestes, postures, attitudes, pantomime). Elle propose un nouvel équilibre entre la parole et le silence, un nouveau règlement des rapports entre le spectateur et le spectacle. Elle met en place un « protocole » de la représentation. Son origine métaphorique correspond à un détour par la peinture à la fois sur le plan de la théorie et de la pratique du théâtre. La notion de tableau permet alors de faire apparaître une mutation de l’écriture dramatique. Inventée avec un genre nouveau (mais non pour lui seulement), elle informe immédiatement l’ensemble des genres dramatiques, opéra, opéra-comique, tragédie, comédie, drame. Elle change leur centre de gravité. 1
Più nello specifico il quadro fornisce il paradigma fondamentale tanto per la costruzione pratica quanto per la fondazione teorica del nascente ballet en action. Basti pensare al registro pittorico adoperato da Cahusac in alcuni passaggi decisivi del suo trattato : « Observons cependant, que la danse du théâtre, dès sa naissance, fut la peinture d’une action. Les grâces du corps, la souplesse des bras, l’agilité des pieds, ne furent dès lors, pour le danseur, que ce que sont pour le peintre les différentes couleurs qu’il emploie ; c’est-à-dire, la matière première du tableau ». 2 Da parte sua Angiolini, pur privilegiando la poesia quale principale modello di confronto per la disciplina coreica e sottolineando l’importanza della musica, 3 non può non riconoscere l’essenziale matrice visiva del ballo. È per questa ragione che nel programma del Don Juan definisce la danza pantomima una “declamazione per gli occhi” 4 e pochi anni più tardi aggiunge : « Nous composons pour les yeux. C’est avec un verre convexe qui réunit tous les rayons dans un seul point, qu’il nous faut regarder les sujets que nous voulons traiter ; le moindre écart fait perdre de vue les personnages par lesquels nous voulons émouvoir les passions ». 5
1 P. Frantz, L’Esthétique du Tableau dans le théâtre du xviiie siècle, Paris, puf, 1998, pp. 7-8 : « La sua formula sintetizza tutto ciò che, negli spettacoli drammatici, attiene alla scrittura (scrittura delle scene, calcolo del climax, dialogo e scene mute) e tutto ciò che è poetica scenica, architettura, decorazione, costume, messa in scena (spostamento dei personaggi, gesti, posture, atteggiamenti, pantomima). Essa propone un nuovo equilibrio tra parola e silenzio, una nuova regolamentazione dei rapporti tra lo spettatore e lo spettacolo. Mette in scena un “protocollo” della rappresentazione. La sua origine metaforica corrisponde a una svolta attraverso la pittura sia sul piano della teoria che della pratica del teatro. La nozione di quadro permette dunque di mostrare un mutamento nella scrittura drammatica. Inventata insieme a un genere nuovo (ma non esclusivamente per esso), ella influenza immediatamente l’insieme dei generi drammatici : opera, opera comica, tragedia, commedia, dramma. Cambia il loro centro di gravità ». 2 Cahusac, La danse ancienne et moderne, cit., p. 93 (« Osserviamo tuttavia che la danza teatrale, sin dalla sua origine, fu una pittura d’azione. Le grazie del corpo, la flessibilità delle braccia, l’agilità dei piedi non furono per il danzatore altro che quello che per il pittore sono i differenti colori che egli adopera ; vale a dire, la materia prima del quadro »). 3 Per quanto riguarda il modello poetico cfr. Angiolini, Lettere di Gasparo Angiolini a Monsieur Noverre sopra i Balli Pantomimi, in Il ballo pantomimo, cit., pp. 60, 83-85 e Idem, Riflessioni di Gasparo Angiolini sopra l’Uso dei Programmi nei Balli pantomimi, (Londra [Milano ?], 1775), in Il ballo pantomimo, cit., pp. 117-124, qui p. 120 nonché i programmi di ballo di Don Juan e Semiramis in cui il coreografo mostra di costruire i suoi spettacoli sulla falsariga dei drammi classici ; per quanto riguarda la relazione con la musica cfr. invece Idem, Lettere di Gasparo Angiolini a Monsieur Noverre sopra i Balli Pantomimi, in Il ballo pantomimo, cit., pp. 68, 74, 79-82. 4 Cfr. Idem, Le Festin de Pierre, A2 v, rist. anast., pp. xxii-xxvii. 5 Idem, Dissertation sur les Ballets Pantomimes des Anciens, C3 r (« Noi componiamo per gli occhi. È attraverso un vetro convesso che riunisce tutti i raggi in un sol punto, che ci è necessario guardare i soggetti che vogliamo trattare ; il minimo scarto fa perdere di vista i personaggi attraverso i quali intendiamo muovere le passioni » Idem,
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È solo all’interno della riflessione noverriana, tuttavia, che l’analogia tra le due arti viene approfonditamente sviluppata. Quanto il coreografo scrive nella I lettera, immediatamente dopo aver enunciato il paradigma classico dell’arte, ne offre una prova evidente :
Un Ballet est un tableau, la Scène est la toile, les mouvements mécaniques des figurants sont les couleurs, leur physionomie est, si j’ose m’exprimer ainsi, le pinceau, l’ensemble & la vivacité des Scènes, le choix de la Musique, la décoration & le costume en sont le coloris ; enfin le Compositeur est le Peintre. 1
Il quadro rappresenta per Noverre il dispositivo mimetico della teatralità coreografica per diverse ragioni. Anzitutto pittura e danza condividono un comune mezzo espressivo : il linguaggio dei gesti – universalmente inteso a prescindere dalle coordinate spazio-temporali di riferimento – costituisce il tessuto comunicativo essenziale di entrambe le arti. 2 In secondo luogo il dipinto offre una griglia per la costruzione spazio-drammaturgica dello spettacolo coreico : come il pittore organizza le forme sulla tela seguendo alcune regole di simmetria e proporzione, così il coreografo dispone i danzatori sul palco in un gioco di relazioni tra i corpi e la scenografia circostante che risponde alle medesime norme e consuetudini rappresentative. 3 Infine la tradizione pittorica offre soggetti e tecniche a cui il ballet en action può direttamente ispirarsi. Quanto fatto dal maestro francese per la creazione di due suoi capolavori– Les Fêtes chinoises (1754) e Les Réjouissances flamandes (1755) – lo esemplifica : nel primo caso le diverse entrées riproducono delle scene di vita quotidiana raffigurate da François
Dissertazione sui balli pantomimi degli antichi, cit., p. 27). Si legge inoltre qualche pagina più avanti : « Nous sommes ici comme dans bien d’autres choses, comparables aux Peintres à qui on conseille de ne jamais présenter dans leurs tableaux que des Personages connus. Il n’est permis qu’à la Poésie de faire connaître ses personnages, même puisés dans son imagination ; les Peintres & nous, nous ne pouvons que les faire reconnaître » Idem, Dissertation sur les Ballets Pantomimes des Anciens, C4 (« Noi siamo qui, come in ben altre cose, paragonabili ai Pittori, a cui si consiglia di non presentare mai nei loro Quadri che Personaggi conosciuti. Non è permesso che alla Poesia di far conoscere i suoi personaggi, anche se attinti dalla sua immaginazione ; i Pittori e noi non possiamo che farli riconoscere » Idem, Dissertazione sui balli pantomimi degli antichi, cit., p. 28). Un’ulteriore prova del carattere paradigmatico svolto dalla pittura non soltanto nei confronti della danza ma di tutte le arti sembra offerta dal titolo di un balletto angioliniano riportato da Lorenzo Tozzi : L’arte vinta dalla natura ovvero il Pittore (cfr. Tozzi, Il balletto pantomimo nel Settecento, cit., p. 160). Il mancato ritrovamento del programma o di qualsiasi altra informazione sul ballo non ci permette tuttavia al momento di verificare e approfondire la questione. 1 Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., p. 2 (« Un balletto è come un quadro : la scena è la tela, i movimenti meccanici dei danzatori sono i colori, e la loro espressione, se mi è consentito di esprimermi così, è il pennello ; l’insieme e la vivacità delle scene, la scelta della musica, la scenografia e i costumi rendono il carattere ; infine il compositore è il pittore » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 21). L’analogia con la pittura percorre alcune tra le principali lettere di Noverre (cfr. in particolare le lettere ii-v, viii sempre dell’edizione del 1760). Nel corso dell’argomentazione si avrà modo di riprendere e analizzare approfonditamente alcuni loro passaggi fondamentali. 2 Scrive il coreografo : « La Peinture & la Danse ont cet avantage sur les autres Arts qu’ils sont de tous les Pays, de toutes les Nations ; que leur langage est universellement entendu, & qu’ils sont partout une égale sensation » Idem, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., p. 51 (« La pittura e la danza hanno questo vantaggio sulle altre arti, che sono di tutti i paesi, di tutte le nazioni ; il loro linguaggio è universalmente inteso ed ambedue provocano ovunque un’uguale sensazione » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 32). 3 Scrive ad esempio il coreografo : « Un Compositeur qui veut s’élever au-dessus de l’ordinaire, doit étudier les Peintres, & les suivre dans leurs différentes manières de composer & de faire. Son Art a le même objet à remplir que le leur, soit pour la ressemblance, le mélange des couleurs, le clair-obscur ; soit pour la manière de grouper & de draper les figures ; de les poser dans des attitudes élégantes ; de leur donner enfin du caractère, du feu, de l’expression, or le Maître de Ballets pourra-t-il réussir s’il ne réunit toutes les parties & toutes les qualités qui constituent le grand Peintre ? » (Idem, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., pp. 68-69 ; « Un compositore che desidera elevarsi al di sopra dell’ordinario deve studiare i pittori e seguirli nelle loro differenti maniere di comporre e di eseguire. Entrambe le arti hanno lo stesso oggetto da perseguire, sia per la somiglianza, il miscuglio dei colori, il chiaroscuro ; sia per la maniera di raggruppare e di drappeggiare le figure ; di metterle in atteggiamenti eleganti ; di dargli infine del carattere, del fuoco, dell’espressione, o il maître de ballets potrà riuscire se egli non riunisce tutte le parti e tutte le qualità che costituiscono il grande pittore ? » Idem, Lettere sulla danza, pp. 36-37). Cfr. inoltre la lettera VI, in particolare quanto detto a proposito del ballo Les Jalousies ou Les Fêtes du serrail.
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Boucher in alcuni suoi celebri dipinti di ambientazione cinese del 1742 e mostrano un gusto pittoresco per il “bel disordine” tipico della pittura rococò ; nel secondo il balletto riprende l’omonimo quadro del pittore David Teniers, detto il Giovane, ricreando le medesime ambientazioni e utilizzando gesti pantomimici analoghi a quelli ritratti dall’artista figurativo fiammingo. 1 L’unità di disegno aiuta a sintetizzare e al tempo stesso ad approfondire questa analogia che intercorre tra pittura e danza. 2 Presentata da Noverre quale requisito indispensabile per il successo di un balletto, essa sostituisce le unità drammatiche nella costruzione dello spettacolo coreico e sigla una netta presa di distanza dal modello poetico propugnato da Angiolini. 3 Quanto scritto dal teorico francese in occasione della messa in scena dell’Agamemnon vengé 4 ne esemplifica le ragioni. Anzitutto il ballo ha bisogno di un forte impatto visivo per supplire all’assenza della parola : solo una sequenza di quadri sorprendenti, colpi di scena e gruppi ben coordinati riesce a colpire lo spettatore. 5 In secondo luogo l’arte coreica e quella pittorica sono legate da alcune esigenze rappresentative comuni : dal rapporto di frontalità
1 Per un approfondimento cfr. F. Pappacena, Le “tableaux en mouvement” de Jean Georges Noverre (1754-1758), in La Fabrique du théâtre. Avant la mise en scène (1650-1880), a cura di M. Fazio, P. Frantz, Paris, Desjonquères, 2010, pp. 389-398; Eadem, La sperimentazione coreografica di Noverre dai “tableaux en movement” alla prima classificazione delle passioni, in «Virtute et Arte del danzare». Contributi di storia della danza in onore di Barbara Sparti, a cura di A. Pontremoli, Roma, Aracne, pp. 181-192. Cfr. inoltre Eadem, Il linguaggio della danza, cit., in particolare le pp. 116-128 (in cui compaiono sia le riproduzioni dei dipinti in questione sia i bozzetti di costume realizzati da Boquet per i balli di Noverre sulla base molto presumibilmente di questi modelli figurativi). 2 Si legge nelle Lettres : « Ils [les Ballets] différent des Tragédies & des Comédies en ce qu’ils ne sont point assujettis à l’unité de lieu, à l’unité de temps & à l’unité d’action ; mais ils exigent absolument une unité de dessin, afin que toutes les Scènes se rapprochent & aboutissent au même but » (Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., p. 124 ; « Essi [i balletti] differiscono dalle tragedie e dalle commedie in questo, che non sono assoggettati all’unità di luogo, di tempo e di azione ; esigono però assolutamente un’unità di disegno, perché tutte le scene si leghino e convergano allo stesso fine » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 45). 3 Scrive Angiolini rivolgendosi al collega : « Ma per l’amor di dio, che volete Voi dire, e cosa intendete Voi per unità di disegno ? Disegno de’ lavori di qualunque genere è l’oggetto principale che si ha in mira. Disegno in pittura è quella linea che dà forma agli oggetti ; ma disegno in una azione teatrale, di cui è questione, non ha senso né significato. Che se poi volete che disegno significhi invenzione, condotta di soggetto, disposizione delle parti, ordine generale della totalità, allora la parola disegno vien posta in luogo dell’unità d’azione : e l’unità d’azione oltre che è fra noi intesa e ricevuta, spiega molto più l’idea, che la parola disegno » (Angiolini, Lettere di Gasparo Angiolini a Monsieur Noverre sopra i Balli Pantomimi, in Il ballo pantomimo, cit., pp. 82-83). Come si avrà modo di illustrare nel corso dell’argomentazione la nozione di disegno – così come gli altri termini mutuati dal lessico figurativo da parte tanto di Noverre quanto di diversi intellettuali del Settecento – ha una valenza semantica molto più ampia di quella riconosciuta dal coreografo italiano. Al tempo stesso, però, proprio l’incapacità da parte di questo concetto di saturare la dimensione “performativa” del ballo segna l’eccedenza espressiva della danza rispetto non soltanto alla pittura, ma anche al carattere fondamentalmente discorsivo del dramma stesso (cfr. infra, cap. iii, §§ 2-3). A proposito del rifiuto da parte di Noverre delle tre unità si segnala, inoltre, la lettura in termini szondiani data da Elena Randi : secondo la studiosa la forma del balletto propugnata dal coreografo, pur conservando il contenuto drammatico, manifesta chiari segni di uno slittamento in termini epici (cfr. Randi, Pittura vivente, cit., pp. 54-58). 4 Il balletto, con la musica di Franz Aspelmayr, viene presentato per la prima volta al pubblico nel 1771 al Burgtheater di Vienna. Esso viene accompagnato dalla pubblicazione di un programma in cui il coreografo cerca di motivare la scelta del soggetto e, in particolare, l’accorpamento in un unico ballo della morte di Agamennone e della vendetta di Oreste (cfr. J. G. Noverre, Agamennon vengé. Ballet tragique, Vienne, Ghelen, 1771, in particolare le pp. 3-13). Per maggiori dettagli sulle diverse messe in scena, i programmi di ballo, le fonti e gli studi disponibili in proposito cfr. Dahms, Jean Georges Noverre “Ballet en action”, cit., pp. 256-257; Eadem, Der konservative Revolutionär, cit., pp. 360-362 e Randi, Pittura vivente, cit., pp. 155-156. In questa sede ci si limita a ricordare che il medesimo programma viene ristampato senza sostanziali modifiche – oltre che nel Recueil del 1766 ( J. G. Noverre, Recueil de programmes de ballets de M. Noverre maître des ballets de la cour imperial et royale [Vienne, Joseph Kurzböck, 1776], rist. anast. Genève, Minkoff Reprint, 1973) – sia nelle lettere del 1803-1804 (Idem, Lettres sur la Danse, sur les Ballets et les Arts, cit., vol. iv, pp. 141-169) sia in quelle del 1807 (Idem, Les Lettres sur les Arts imitateurs en général et sur la Danse en particulier, cit., vol. ii, pp. 333-368). Di quest’ultima redazione è disponibile ora una traduzione italiana (La morte di Agamennone) in Idem, Programmi dei balletti, cit., pp. 83-98. Si avrà modo di riprendere ulteriormente alcuni aspetti di questo programma infra, cap. iii, § 2.3. 5 Cfr. Idem, Agamennon vengé, cit., in particolare le pp. 5-6.
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e presenza tra opera e pubblico – la morte di un personaggio, ad esempio, non può essere ricordata a voce ma va mostrata sulla scena tramite il cadavere 1 – alla fisicità e concretezza della significazione – solo la vista del pugnale permette di capire la ragione del turbamento di Elettra perché indica per metonimia l’omicidio del padre 2 – sino ad arrivare alla prospettiva che regola l’intera composizione – i soggetti e le azioni fondamentali vanno poste in primo piano mentre i dettagli devono essere lasciati sullo sfondo. 3 Scrive il coreografo :
Après avoir prouvé qu’un Ballet pantomime n’est ni peut être un Drame, j’ose croire que, s’il peut être comparé à quelque genre de poésie, ce n’est qu’au poème ; mais il y a une analogie bien plus parfaite avec la peinture : celle-ci est une pantomime fixe et tranquille ; celui-là est une pantomime vivante : l’une parle, inspire, et touche par une imitation parfaite de la nature, l’autre séduit et intéresse par l’expression vraie de la nature elle-même. La peinture a des règles de proportion, de contraste, de position, d’opposition, de distribution, d’harmonie ; la Danse a les mêmes principes. Ce qui fait un Tableau en peinture, fait Tableau en danse : l’effet de ces deux arts est égal, tous deux ont le même but à remplir, ils doivent parler au Cœur par les yeux : l’un et l’autre sont privés de la parole : l’expression des têtes, l’action de bras, les positions mâles et hardies, voilà ce qui parle en danse comme en peinture ; tout ce qui est adopté par la danse peut former des tableaux, et tout ce qui fait tableau dans la peinture peut servir de modèle à la danse, de même que tout ce qui est rejeté par le peintre doit l’être par le maître de Ballet. 4
Questo rapporto analogico intessuto dal coreografo riesce, tuttavia, a definire solo in parte il profilo del ballet en action. L’arte del disegno si trova infatti a fornire formule e tecniche espressive anche per gli spettacoli coreici che il ballo pantomimo si ripropone di superare : quali il balletto di corte, il divertissement o anche le diverse forme di ballo sociale. Nel primo caso l’arte visiva si offre quale tramite per la realizzazione di un evento performativo che sappia farsi specchio dell’unico punto di vista del committente, offra un’immagine armoniosa attraverso le traiettorie costruite dai danzatori sul palcoscenico ed evochi per mezzo di simboli o allegorie personaggi e situazioni reali. Come scrive Mark Franko a proposito della forma coreica che generalmente chiude questa rappresentazione festiva : « La danza geometrica proietta un testo fisico il cui firmatario è il re. Le sue figure si producono sotto costrizione ed effettivamente come effetto di una paralisi metaforica ». 5 Nel secondo caso
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2 Cfr. ivi, pp. 10-11. Cfr. ivi, p. 11. Ibidem. Per un approfondimento dell’uso della prospettiva nel ballo si rimanda alla ii delle Lettres di Noverre. 4 Ivi, pp. 6-7 (« Dopo aver dimostrato che un balletto pantomimo non è né può essere un dramma, oso credere che, se lo si potesse paragonare a un qualche genere di poesia, sarebbe un poema ; ma esso possiede un’analogia ben più perfetta con la pittura : questa è infatti una pantomima fissa e tranquilla, quello una pantomima viva ; l’una parla, ispira e commuove per mezzo di un’imitazione perfetta della natura, l’altro seduce e interessa attraverso l’espressione vera della natura stessa. La pittura ha delle regole di proporzione, contrasto, posizione, opposizione, distribuzione, armonia ; la danza ha gli stessi principi. Ciò che fa quadro in pittura fa quadro in danza : l’effetto di queste arti è lo stesso ; tutte e due perseguono lo stesso fine da soddisfare, devono parlare al cuore attraverso gli occhi ; l’una e l’altra sono prive della parola ; l’espressione delle teste, l’azione delle braccia, le posizioni maschili e audaci, ecco cosa parla sia nella danza sia nella pittura ; tutto ciò che si adotta nella danza può comporre dei quadri, e tutto quello che fa quadro in pittura può servire di modello alla danza, allo stesso modo che tutto ciò che viene rifiutato dal pittore lo deve essere anche dal maestro di ballo »). 5 M. Franko, Dance as Text. Ideologies of the Baroque Body, Cambridge [uk]-New York, Cambridge University Press, 1993, tr. it. di D. C. Colonna e supervisione di P. Veroli, Danza come testo. Ideologie del corpo barocco, Palermo, L’Epos, 2009, p. 77. Come mostra articolatamente Franko, accanto allo spettacolo cortese “classico” si affermano tra Cinquecento e Seicento anche la comédie ballet – ovvero l’inserimento di intermedi cantati e danzati in opere drammatiche – e la danza antitestuale o burlesca – una sorte di danza assoluta, sganciata da qualsiasi testo e/o potere di riferimento. Per ulteriori approfondimenti in merito si rinvia allo studio sopra citato. Si coglie tuttavia l’occasione per fare una precisazione circa l’argomentazione in corso. Nella sua opera Franko classifica queste tre forme coreiche enucleando il particolare tipo di rapporto tra testo corporeo e verbale che emerge da ciascuna di esse : subordinazione del primo rispetto al secondo per il balletto di corte, armonia per la comédie ballet e indipendenza per il ballo burlesco. Come si cercherà ulteriormente di mostrare, il ballet en action si contraddistingue invece per la precedenza del gesto rispetto alla parola, una precedenza che non impedisce ma anzi rende possibile la loro stessa sinergia. 3
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fornisce soggetti, idee e strumenti esclusivamente per dilettare ovvero si pone quale modello di perfezione stilistica e pura capacità ornamentale. Quanto scritto polemicamente da Noverre nelle Lettres lo dimostra :
La plupart des Poètes modernes se servent des Ballets, comme d’un ornement de fantaisie qui ne peut ni soutenir l’ouvrage ni lui prêter de la valeur ; ils regardent, pour ainsi dire, les divertissements qui terminent les Actes, comme autant de panneaux agréablement dessinés & artistement peints qu’ils emploient indifféremment pour la division de leur Tableau : quelle erreur ! 1
Infine la pittura si propone anche quale ideale di eleganza e proporzione per i corpi sociali in movimento. Quanto scrive Arteaga alla fine del periodo aureo del ballet en action lo dimostra. Pur adoperando un comune registro visivo per descrivere sia il ballo da sala sia quello teatrale, l’intellettuale ne mostra i due esiti differenti : nel primo caso la danza è tesa a dilettare l’occhio ed educare corpo e spirito, nel secondo è volta a creare e sviluppare una storia. Scrive lo studioso :
L’ideale della danza comune, che possiamo chiamare ballo da salotto o da sala, consiste nel riunire in un concetto o motivo i movimenti più aggraziati di cui sono capaci le membra del corpo umano ; nel presentare agli occhi i suoi contorni più proporzionati e più gradevoli ; nel segnalare per terra o sul palcoscenico le linee della bellezza che possono essere espresse con i piedi del ballerino, e infine nel collegare e disporre le figure in modo da formare un tutto simmetrico, e offrire alla vista l’immagine dell’ordine, della correlazione tra le parti e della varietà congiunta all’unità. Nella pantomima consiste invece nell’inventare soggetti nuovi suscettibili di molta espressività e capaci di ricevere immagini appropriate ; nell’abbellirli con episodi opportuni, simili a quelli della poesia ; nell’introdurre con arte i personaggi e rappresentarli nel modo più confacente, nobile e conforme all’argomento. 2
Un’attenta analisi dei testi coreici settecenteschi mostra inoltre come il rapporto di forza tra tableau e ballet en action tenda lentamente a ribaltarsi in favore del secondo. La danza passa da imitazione a origine del quadro stesso : l’accento posto dai riformatori sull’espressività, il movimento e la naturalezza del ballo pantomimo lo dimostra. Anzitutto Cahusac sceglie come modello pittorico un quadro che fa dell’agire umano il suo soggetto principale : « La danse en action a sur la danse simple la supériorité qu’a un beau tableau d’histoire sur des découpures de fleurs ». 3 Noverre, da parte sua, non solo suggerisce una tipologia di quadri simili a cui ispirarsi, 4 ma tende a evidenziare la matrice mobile del ballo pantomimo ovve
1 Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., pp. 131-132 (« La maggior parte dei poeti di oggi si serve dei balletti come di un ornamento di fantasia che non può né sostenere l’opera né conferirgli un valore ; essi guardano i “divertissements” che concludono gli atti come tanti pannelli piacevoli e ben dipinti di cui si servono indifferentemente per la divisione del loro quadro : quale errore ! » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 47). 2 Arteaga, La bellezza ideale, cit., pp. 99-100. È curioso osservare come nel Settecento il tentativo da parte della danza teatrale di distinguersi da un certo tipo di rappresentazione coreico-figurativa trovi una diretta corrispondenza anche in ambito pittorico. Si legge, ad esempio, nelle riflessioni di Diderot sull’arte del dipinto una netta presa di distanza da qualsiasi forma di atteggiamento o movimento affettato, accademico : « La grazie dell’azione e quella di Marcel [celebre maestro di ballo sociale nel Settecento] danno luogo a una contraddizione vera e propria. Se Marcel incontrasse un uomo nella posa dell’Antinoo, gli metterebbe una mano sotto il mento e l’altra sulle spalle e gli direbbe : “Ma andiamo, grullone, ti sembra questo il modo di stare ?” [...] E una volta che l’avesse trasformato nel più insipido damerino, comincerebbe a sorridergli e a compiacersi della propria opera. Se perdete il senso della differenza tra l’uomo che si mostra in società e l’uomo appassionato che agisce, tra un uomo mentre sta solo e un uomo che sa che lo si guarda, buttate i pennelli nel fuoco. Farete delle pose accademiche, le vostre figure verranno fuori rigide, affettate » (D. Diderot, Essai sur la peinture pour faire suite au Salon de 1765, ed. fr. a cura di L. Versini, in Idem, Œuvres, vol. iv : Esthétique - Théâtre, cit., pp. 467-516 ; ed. it. a cura di M. Modica, Sulla pittura, Palermo, Aesthetica, 2004, p. 60). Cfr. inoltre supra, cap. ii, § 3.2. 3 Cahusac, La danse ancienne et moderne, cit., p. 230 (« La danza in azione ha sulla danza semplice la stessa superiorità che ha un bel quadro storico su una composizione di fiori recisi »). 4 Come per Cahusac, anche per Noverre va rifuggita l’armonia della composizione fine a se stessa : « Il faudrait que les Maîtres de Ballets consultassent les Tableaux des grands Peintres ; cet examen les rapprocherait sans do
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ro la sua capacità di mostrare, a differenza del dipinto, una successione di azioni. Infine il coreografo francese pone, in un’immaginaria scala platonica di aderenza al vero, la danza prima della pittura : 1
Le Ballet est l’image du Tableau bien composé, s’il n’en est l’original ; vous me direz peut-être qu’il ne faut qu’un seul trait au Peintre, & qu’un seul instant pour caractériser le Sujet de son Tableau, mais que le Ballet est une continuité d’actions, un enchaînement de circonstances qui doit en offrir une multitude ; nous voilà d’accord, & pour que ma comparaison soit plus juste, je mettrai le Ballet en action, en parallèle avec la galerie du Luxembourg, peinte par Rubens : chaque Tableau présente une Scène, cette Scène conduit naturellement à une autre ; de Scène en Scène on arrive au dénouement, & l’œil lit sans peine & sans embarras l’Histoire d’un Prince dont la mémoire est gravée par l’amour & la reconnaissance dans le cœur de tous les Français. 2
La ragione di questa messa in discussione del modello pittorico da parte della danza – ma anche di buona parte del pensiero filosofico ad essa contemporaneo 3 – è da ricercare nella ute de la nature ; ils éviteraient alors, le plus souvent qu’il leur serait possible, cette symétrie dans les figures qui, faisant répétition d’objet, offre sur la même toile deux Tableaux semblables » (Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., pp. 6-7 ; « Bisognerebbe che i maestri di ballo osservassero i quadri dei grandi pittori ; ciò li riavvicinerebbe senza dubbio alla natura ; essi eviterebbero quella simmetria nelle figurazioni che, ripetendosi, offre sempre sulla stessa tela quadri simili » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 22). Tra gli artisti figurativi che il coreografo invita a emulare compaiono Charles Le Brun e Anthony Francis Van der Meulen : celebri pittori seicenteschi che fanno dell’azione umana il loro soggetto preferito e di un vivido realismo ed efficacia espressiva i caratteri precipui del loro stile (cfr. Idem, Lettres sur la danse, cit., p. 42). Si avrà modo di confrontare la poetica di Le Brun con quella di Noverre infra, cap. iii, § 3. 1 La varietà e vivacità di quadri di cui il ballo pantomimo può e deve essere intessuto ricorrono più volte nella riflessione noverriana. Si legge, ad esempio, nella seconda lettera : « Une des parties essentielles au Ballet, est sans contredit, la variété ; les incidents & les tableaux qui en résultent doivent se succéder avec rapidité : si l’action ne marche avec promptitude, si les Scènes languissent, si le feu ne se communique également partout, que dis-je !, s’il n’acquiert de nouveaux degrés de chaleur, à mesure que l’intrigue se dénoue, le plan est mal conçu, mal combiné, il pèche contre les règles du théâtre, & l’exécution ne produit alors d’autre sensation sur le spectateur, que le froid qu’elle traîne après elle » (Idem, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, pp. 24-24 ; « Uno degli elementi essenziali al balletto è, senza dubbio, la varietà ; gli episodi e i quadri che ne risultano devono succedersi con rapidità, se l’azione non cammina celermente, se le scene languono, se il fuoco non si comunica egualmente ovunque, che dico !, se non acquista ulteriori gradi di calore a misura che l’intrigo si svolge, il piano è mal concepito, mal combinato, pecca contro le regole del teatro, e l’esecuzione non produce allora altra sensazione sullo spettatore che il freddo che essa si trascina dietro » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 27). Si avrà modo di approfondire dettagliatamente la questione infra, §§ 3.2-3.3. 2 Idem, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., pp. 44-45 (« Il balletto è l’immagine del quadro ben composto, se non ne è l’originale ; mi direte forse che al pittore è sufficiente un sol tratto e che un solo istante può caratterizzare il soggetto del suo quadro, mentre il balletto è una continuità di azione, una serie di circostanze che deve offrirne una moltitudine ; eccoci d’accordo e, perché il mio confronto sia più giusto, paragonerò il balletto in azione alla galleria del Lussemburgo, dipinta da Rubens : ogni quadro presenta una scena, questa scena porta naturalmente ad un’altra ; di scena in scena, si giunge allo scioglimento, e l’occhio legge senza pena e senza difficoltà la storia di un principe la cui memoria è impressa nel cuore di tutti i Francesi dall’amore e dalla riconoscenza » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 31). 3 Basti pensare a quanto prima emerso dalle riflessioni di Diderot (cfr. supra, cap. ii, § 3.2) ed Engel (cfr. supra, cap. ii, § 2.2) in merito ai rapporti tra gesto e parola. Nel primo caso il quadro, pur rappresentando uno degli assi portanti dell’estetica del filosofo viene chiamato ad animarsi per mezzo della pantomima (per un’analisi più dettagliata cfr. M. Mazzocut-Mis, Teatro e arti figurative in Denis Diderot, in Teatro e arti visive, a cura di C. Guaita, « Quaderni di Gargnano Teatro e Teatro », vol. xvi, Roma, Bulzoni, 2008, pp. 15-22 e M. Bertolini, Un’archeologia della modernità in pittura : la relazione quadro-spettatore fra Diderot e Michael Fried, in Estetica della fruizione, a cura di M. Mazzocut-Mis, Milano, Lupetti, 2008, pp. 117-150) ; nel secondo caso lo studioso, sebbene continui ad avvalersi degli schemi di lettura delle passioni modellati sulla pittura, ne denuncia la fissità e tenta di introdurre al loro interno nuovi criteri energetici (per un approfondimento si rinvia a quanto scrive il teorico a proposito del legame che unisce recitazione e musica : Engel, Lettere intorno alla mimica, cit., t. ii, in particolare la lett. xxxii ; si segnalano infine questi studi in proposito : C. Celi, Verso il « canto muto » : dal danzatore pittore al danzatore musico, in Naturale e artificiale in scena nel secondo Settecento, a cura di A. Beniscelli, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 265-274 ; L. Mariti, Tra scienza dell’uomo e scienza dell’attore, in Engel, Lettere intorno alla mimica, rist. anast., cit., pp. vii-lxxix, qui pp. xlvii-lxxi).
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crisi di un particolare spazio d’ordine all’interno del quale nel xvi e xvii secolo è stata resa possibile e si è articolata ogni forma di sapere, ma che nel Settecento sembra destinato lentamente a incrinarsi. Come mette ben in luce Michel Foucault, 1 infatti, la mathesis universalis ovvero l’ideale cartesiano di un sistema di segni a cui ricondurre variamente ogni aspetto della realtà secondo i due principi cardine – quello dell’ordine e quello della misura – ha portato a un raddoppiamento della rappresentazione stessa. Significante e significato – ormai lontani dalla loro coappartenenza e reversibilità rinascimentali – sono ormai legati solo nella misura in cui uno attualmente rappresenta l’altro : il significante ha come contenuto, funzione e determinazione solo ciò che rappresenta, ma tale contenuto non è indicato se non in una rappresentazione che si dà in quanto tale e il significato si cela senza residuo o opacità all’interno della rappresentazione del segno. Il quadro – una delle “cifre” di questo ideale conoscitivo seicentesco – è inevitabilmente vittima del progressivo svuotamento di senso : esso sembra ridursi a qualcosa che ha come contenuto solo ciò che rappresenta mentre tale contenuto appare rappresentato solo da una rappresentazione. È esclusa in un tale spazio d’ordine una teoria del significato tradizionalmente intesa ; si può parlare tutt’al più di un senso consistente nella totalità di segni dispiegata nel loro concatenamento ovvero nel quadro completo dei segni. La riforma della disciplina coreica è un riflesso di questo stato di cose. Spesso confinata nei terreni angusti del puro intrattenimento o dell’esercizio fisico, la danza sente il bisogno di riscattarsi da quella pura forma, successione di quadri senza alcun referente esterno di cui il secolo denuncia la sterilità e l’insufficienza : essa tenta di recuperare quel legame con la realtà che contraddistingue il suo mezzo espressivo specifico, cerca di attingere alla sua matrice concreta e attiva. Il nuovo genere letterario che accompagna la nascita del ballet en action – il programma di ballo – offre un primo e fondamentale punto di osservazione di queste trasformazioni in corso.
2. Scritture in movimento : il programma di ballo
La questione del segno ricopre un ruolo centrale all’interno della disciplina coreica. È in gioco la forma e il funzionamento, lo studio e la trasmissibilità del sapere in movimento. La notazione coreografica – ovvero l’arte di scrivere il ballo per mezzo di segni – si pone questi obiettivi. Scrive Claudia Jeschke :
Bewegung wird hier verstanden als ein körperliches Gestaltungsmittel [...]. Bewegungsschrift, d.h. in diesem Fall Tanzschrift, ist die Niederschrift von Tanzbewegung mit Hilfe von Zeichen : eine Fixierung, die soweit von der Verbalbeschreibung oder zeichnerischen Abbildung entfernt ist, dass sie von Tanz-Inkompetenten ohne weitere Erklärung nicht gelesen werden kann. Sie stellt also einen spezifischen Code dar. Die Funktion jeder Tanzschrift ist es, Tanzbewegungen, Bewegungsfolgen und Choreographien aufzuzeichnen. 2
Il Settecento mostra la necessità, ma anche i limiti e le trasformazioni della notazione coreografica. 3 Basti pensare alle diverse tipologie di segno e ai loro differenti utilizzi da parte 1 Cfr. M. Foucault, Le mots et les choses, Paris, Gallimard, 1966, tr. it. di E. Panaitescu, Le parole e le cose, Milano, bur, 2007, in particolare le pp. 61-139. 2 C. Jeschke, Tanzschriften. Ihre Geschichte und Methode. Die illustrierte Darstellung eines Phänomens von den Anfängen bis zur Gegenwart, Bad Reichenhall, Comes, 1983, p. 44 (« Il movimento è qui inteso come un mezzo di progettazione corporeo. Una scrittura del movimento, in questo caso per esempio una scrittura di danza, è un verbale del movimento di danza con l’aiuto di segni : una fissazione che è tanto lontano dalla descrizione verbale o dall’illustrazione grafica da non poter venire letta da non competenti di danza senza ulteriore chiarimento. Essa rappresenta uno specifico codice. La funzione di ogni scrittura di danza è mostrare movimenti coreici, sequenze di movimenti e coreografie »). 3 Per un primo approfondimento dei sistemi di notazione settecentesca e dei problemi ad essa correlati si rimanda, oltre che al fondamentale testo della Jeschke prima citato, ai saggi di F. Derra de Moroda, Chorégraphie.
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di alcuni tra i maggiori maestri di ballo della seconda metà del secolo. Dufort, pur non trascrivendo un’intera danza ma solo singoli passi, si rifà ancora alla chorégraphie di Feuillet ovvero a un sistema simbolico che dà indicazioni circa la posizione del ballerino nella sala, la traiettoria disegnata sul pavimento e la successione dei passi eseguiti. 2 Favier, 3 dal canto suo, avanza l’esigenza di un nuovo linguaggio coreografico che sappia farsi interprete non soltanto della direzione e del tempo del movimento ma anche della dimensione frontale del corpo. Magri, 4 invece, comincia ad avvertire l’insufficienza di qualsiasi codice segnico – soprattutto in riferimento al ballo teatrale – evidenziando la maggiore chiarezza ed esaustività della parola. 5 L’avvento del ballet en action acuisce il problema di una fedele e completa trascrizione coreografica. Noverre è dichiaratamente contrario all’utilizzo di qualsiasi sistema di notazione poiché lo giudica incapace di rispecchiare l’interezza e la complessità del nuovo corpo messo in scena : esso non dà indicazioni sui movimenti e le posizioni delle braccia, sugli atteggiamenti e sulle opposizioni della testa. 6 Inoltre, poiché il balletto pantomimo è caratterizzato dall’espressione individuale, non è possibile redigere alcun catalogo di segni in grado di rifletterne le imprevedibili varianti e sfumature. Scrive il coreografo : « Peuton d’ailleurs donner des préceptes fixes pour l’action Pantomime ? Les gestes ne sont-ils pas l’ouvrage de l’âme, & les intreprètes fidèles de ses mouvements ? ». 7 Angiolini, da parte sua, pur sostenendo la necessità di un linguaggio coreografico e ingaggiando in proposito un acceso dibattito col collega francese, finisce poi per non fornirne alcuno : i limiti della memoria orale, la necessità di regole e norme per l’evoluzione della danza e la proposta di redigere delle cifre per la danza materiale e dei segni per quella pantomima non sortiscono effetti concreti. 8 Le riflessioni di due intellettuali alle soglie del xix secolo aiutano a mettere ulteriormente a fuoco le possibilità e i limiti della notazione coreografica, ma soprattutto permettono di introdurre la diversa traccia scritta lasciata dal ballo in azione. Ayrenhoff, nei suoi appunti sulla danza teatrale sette-ottocentesca, afferma che la trascrizione segnica è preziosa ai fini di fissare le danze simmetriche e le contraddanze, ovvero tutti quei movimenti e figure d’insieme che non concorrono all’azione principale ma abbelliscono la scena. 9 Al pari di linee geometriche o di puri motivi ornamentali – per proseguire con l’analogia pittorica – questi passi non rappresentano nient’altro che se stessi. Zepharovic, da parte sua, pur riconoscendo l’utilità di questo sistema in applicazione a suddetto genere di danza, ne spiega l’insufficienza nel caso delle forme coreiche di natura drammatica : basandosi su un rapporto con1
The Dance Notation of the Eighteenth Century : Beauchamp or Feuillet ?, « The Book Collector », xvi (1967), pp. 450-476 ; Giordano, Le fonti coreografiche del primo Settecento italiano, cit. 1 Cfr. Dufort, Trattato del ballo nobile, cit. 2 Cfr. Feuillet, Chorégraphie ou l’art de décrire la danse par caractéres, figures et signes démonstratifs, cit. Cfr. in proposito Jeschke, Tanzschriften, cit., pp. 199-208. 3 Cfr. Favier, s.v. Chorégraphie, in Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, par un société de gens de lettres, cit., vol. iii, pp. 367-373. In proposito cfr. inoltre Jeschke, Tanzschriften, cit., pp. 302-306. 4 Cfr. Magri, Trattato teorico-prattico di ballo, cit. 5 A proposito dei differenti modi di trascrizione coreografica da parte dei due maestri di ballo italiani cfr. inoltre Trattati di danza in Italia nel Settecento, cit., in particolare le pp. 46-49. 6 Cfr. la tredicesima lettera di Noverre, in particolare Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., pp. 362-368. 7 Ivi, p. 16 (« Possono, d’altronde, darsi regole fisse per l’azione pantomima ? I gesti non sono creazione dell’animo e interpreti fedeli dei suoi moti ? » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 25). 8 Cfr. Angiolini, Lettere di Gasparo Angiolini a Monsieur Noverre sopra i Balli pantomimi, in Il ballo pantomimo, cit., in particolare la ii lettera e le pp. 66-71. 9 Cfr. C. von Ayrenhoff, Über die theatralischen Tänze, und die Ballettmeister Noverre, Muzzarelli und Vigano, Wien 1794 ; ora in Idem, Sämmtliche Werke, vol. v, Wien, Schmidt, 1814, pp. 265-320, qui pp. 299-302.
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venzionale tra segno e designato corporeo, la chorégraphie dovrebbe produrre infinitamente nuovi simboli per cercare di farsi interprete adeguata dell’espressività del ballo pantomimo ovvero della sua capacità di dare forma a un sentimento ma anche a un’intera azione. Solo la parola di cui è intessuto il programma di ballo riesce a mettersi sulla stessa frequenza del balletto :
Es [il programma di ballo] muss die Pantomime der Handlung, so viel [sehr] es die Sprachen zulassen, durch eine malerische, charakteristische, physiognomisch wahre Schilderung ausdrücklich vorschreiben und [das,] was sich in diese pantomimischen Gemälde und Vorschriften fügen lässt, durch einen gedrängten feurigen Dialog in Worten geradezu bezeichnen. 1
Ciò che occorre capire è se la parola di cui è intessuto il libretto di ballo riesca effettivamente a sfuggire ai limiti della notazione coreografica ovvero se riesca a farsi tramite della varietà e ricchezza semantica del ballet en action. La molteplicità di forme e finalità a cui questo tipo di scritto si presta costituisce un primo argomento a riguardo. 2. 1. Un genere irriducibile La natura eterogenea del programma di ballo si è offerta a una serie nutrita di interpretazioni senza risolversi in alcuna di esse. Come mostra Edward Nye, 2 infatti, questo genere di scritto rifugge qualsiasi tipo di riduzione a una funzione univoca. Si prenda in esame la spiegazione più comune che è stata fornita di questa fonte documentaria : una descrizione verbale della trama del ballo per agevolare la comprensione da parte del pubblico. Un simile impiego del programma sembra motivato dal fatto che gli spettatori – a cui di volta in volta i coreografi, in perenne viaggio da una città all’altra d’Europa, sottopongono i loro lavori – appartengono non soltanto a ceti diversi, ma anche a paesi e culture tra loro molto distanti. Non potendo prevedere, dunque, il grado di formazione della platea, il compositore 3 appronta una breve sinopsi dell’azione da distribuire prima della messa in scena. Una conferma a questa ipotesi è fornita da Noverre stesso che in più di un’occasione sottolinea come questa sorta di libretto renda conto del fatto sopra cui è costruita l’azione e di cui non tutto il pubblico può essere a conoscenza. Scrive, ad esempio, il coreografo nell’Introduction au ballet des Horaces : « Un programme est utile en ce qu’il retrace le trait, soit historique, soit fabuleux, trait qui dans tous les genres peut échapper à ceux même d’entre le Public, qui ont fait les plus belles études ». 4 Come mostra
1 J.E. von Zepharovic, Versuch über die Pantomimische Tanzkunst, s.l., [1799], pp. 57-58 (« Il programma di ballo deve predisporre espressivamente – per quanto le lingue lo permettano – la pantomima dell’azione attraverso una descrizione pittorica, caratteristica, reale dal punto di vista fisiognomico e deve persino descrivere cosa si lascia inserire in questi quadri pantomimici e prescrizioni attraverso un dialogo intensificato e infuocato »). 2 Cfr. in particolare Nye, Dancing Words : Eighteenth-Century Ballet-Pantomime Wordbooks as Paratexts, cit. Cfr. inoltre Idem, “Choreography” is Narrative : The Programmes of the Eighteent-Century Ballet d’Action, cit. In questo paragrafo non ci si limita a riassumere le riflessioni sul programma elaborate dallo studioso inglese, bensì si tenta di integrarle con ulteriori fonti e considerazioni personali e, soprattutto, di articolarle in un nuovo discorso volto ad argomentare il carattere aperto del libretto : esso non è legato in modo referenziale, univoco e soprattutto esaustivo al gesto di cui si fa tramite, ma al pari di esso è caratterizzato da una natura difficilmente circoscrivibile ed essenzialmente legata alla scena. 3 Nel Settecento viene designato come “compositore di ballo” non l’autore della musica, bensì il coreografo dei passi e delle figure coreiche. Si adopereranno dunque i termini “compositore” e “coreografo” – salvo ulteriori specificazioni – in modo sinonimico. 4 J. G. Noverre, Introduction au ballet des Horaces ou Petite réponse aux grandes lettres du sr. Angiolini, in Discussioni sulla danza pantomima. Vedi lettere sulla Danza di Mr. Noverre, e del Sig. Angiolini, [Milano 1774 ?], pp. 3-19, qui p. 11 (« Un programma è utile perché ripercorre il tratto, sia storico sia favoloso, che in tutti i generi può sfuggire anche a coloro tra il pubblico che han fatto gli studi migliori »). In questa introduzione Noverre riassume altri possibili impieghi e vantaggi recati dall’uso del programma. Anzitutto il libretto è utile non solo per la comprensione del ballo ma anche per la formulazione di un giudizio su di esso ; in secondo luogo esso rappresenta una sorta di con
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tuttavia Nye, la debolezza di una simile interpretazione è subito evidente non appena si prendano in considerazione balletti che hanno per soggetto vicende mitologiche molto conosciute – come la saga di Medea, 2 al centro di diverse riscritture nel Settecento – o storie più volte messe in scena nel giro di breve tempo sullo stesso palco : basti pensare a quella di Psiche, presentata due volte a Milano a distanza di poco più di dieci anni. 3 Un’altra ipotesi è quella di vedere in questo scritto uno strumento per sottoporre il ballo al vaglio del censore al fine di ottenere il permesso per la rappresentazione pubblica. Conferma di questo utilizzo si può trovare sia nell’attestazione della licenza rinvenuta sull’ultima pagina di alcuni programmi sia nella forma in cui sono redatti altri e che sembra funzionale all’ottenimento dell’autorizzazione per la messa in scena. Bruce Alan Brown, ad esempio, analizzando alcune descrizioni di balletti contenute all’interno delle cronache teatrali manoscritte di Philipp Gumpenhuber – aiuto direttore dei balli al Burgtheater di Vienna tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Settecento – sostiene che esse siano state molto probabilmente redatte in anticipo rispetto allo spettacolo per ottenere il permesso alla messa in scena e siano poi state lì raccolte a titolo documentario : l’utilizzo di tempi verbali al futuro e le frequenti giustificazioni dei balli in termini di varietà e aderenza ai principi della danza sono alcune delle prove portate a favore di questa tesi. 4 Una simile funzione “anticipatrice” del programma rispetto allo spettacolo non spiega tuttavia la sua pubblicazione e distribuzione una volta ottenuto il permesso per la performance. La diffusione a posteriori del programma risulta maggiormente giustificabile qualora nel destinatario dell’opera si possa rinvenire la figura di un committente piuttosto che quella di un censore. Come suggerisce Nye ricordando la dedica preposta ad alcuni programmi, 5 un simile testo può divenire un mezzo a disposizione del coreografo per omaggiare il re o nobile che ha reso possibile il suo spettacolo. Basti pensare al balletto noverriano Rinaldo e Armida rappresentato a Milano nel 1775 e dedicato all’arciduchessa Maria Ricciarda Beatrice d’Este 6 oppure ai diversi lavori approntati dai maggiori coreografi del Settecento per specifiche rappresentazioni festivo-cerimoniali : ad esempio Le triomphe de l’amour di Hilverding, 7 un balletto pantomimo dato a Schönbrunn nel 1765 in occasione del matrimonio reale e interpretato da arciduchi e arciduchesse. La partecipazione di nobili a questo genere di rappresentazioni mostra, tuttavia, come esse siano ancora radicate nella tradizione cortese e siano dunque legate a finalità e regole compositive in parte estranee al ballet en action che viene a imporsi sulle scene europee in quegli stessi anni. Sulla linea delle composizioni più prettamente teatrali è possibile veder rispecchiato nel programma un mezzo propagandistico per catturare l’attenzione e il favore di un ipotetico pubblico. A questo scopo si può sia far risalire l’abitudine da parte di Noverre di distribuire i suoi programmi a Milano un po’ prima del loro debutto sia i tentativi di captatio benevolentiae di cui sono intrisi i suoi avvisi. Si legge, ad esempio, nel programma di ballo di Adèle de Ponthieu distribuito a Vienna nel 1773 8 un indiretto complimento rivolto dal coreografo al paese che ospita la sua rappresentazione : 1
tratto che il coreografo stabilisce con il suo pubblico ovvero attesta cosa il compositore s’impegna a mostrare sulla scena ; infine questo tipo di scritto si offre come interprete dello spettacolo : proprio a tal proposito si avrà modo di riprendere l’Introduction infra, cap. iii, § 2.3. Per un approfondimento dell’uso dei programmi da parte di Noverre cfr. Dahms, Der konservative Revolutionär, cit., pp. 156-164. 1 2 Cfr. Nye, Dancing Words, cit., p. 404. Cfr. infra, cap. iii, § 2.3. 3 Cfr. Kuzmick Hansell, Opera and Ballet at the Regio Ducal Teatro of Milan, cit., pp. 686-687. 4 Cfr. B.A. Brown, Gluck and the French Theatre in Vienna, Oxford, Clarendon Press, 1991, pp. 161-175, in partico5 Cfr. Nye, Dancing Words, cit., p. 405. lare le pp. 171-175. 6 Cfr. J.G. Noverre, Rinaldo, e Armida. Ballo eroico, Milano, Giovanni Montani, 1775. La dedica compare sia nel frontespizio del programma (ivi, p. [3]) sia nell’appello che il coreografo rivolge direttamente all’Altezza reale e che precede l’introduzione al ballo (ivi, pp. 5-9). 7 Le triomphe de l’amour, ballet pantomime, Vienne, Jean-Thomas de Trattnern, 1765. 8 Cfr. J.G. Noverre, Adèle de Ponthieu. Ballet tragi-pantomime, Wien, 1773. Il medesimo avviso è presente sia nella
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Le spectacle héroïque de l’ancienne Chevalerie formera toujours un spectacle intéressant, lorsqu’il sera présenté à une Nation, qui aime l’honneur, & qui chérit la gloire. C’est à ces deux vertus, que cet ordre auguste dut sa naissance : formé par la Noblesse, il fut, ce qu’il devait être, l’école de l’Héroïsme. Amour de la Patrie, dévouement pour son Roi, Religion, désintéressement, humanité après la Victoire, respect pour les Dames, dont les Chevaliers défendaient la Vertu au péril de leurs jours ; tels étaient les fondemens respectables de cet Ordre. Ce n’était, qu’après des épreuves longues, & pénibles ; qu’après avoir donné des marques éclatantes d’un courage, éclairé du double flambeau de l’Honneur, & de la Vert, que l’on pouvait parvenir au grade de Chevalier. Si les jeux, institués dans la Grèce, firent germer l’amour de la Gloire, & de la Patrie ; si l’Esperance d’un Triomphe passager fit éclore tant de grands hommes, & donna tant de défenseurs à la République Romaine ; quels effects ne dut pas produire sur une Noblesse guerriére le spectacle magnifique des Tournois. 1
Anche questa interpretazione, tuttavia, risulta insoddisfacente. Tanto le premesse quanto l’argomento o ancora la licenza rinvenuta sui programmi rappresentano solo una parte, un aspetto del programma di ballo : qualsiasi interpretazione che si focalizzi solo su uno di questi caratteri rischia inevitabilmente di essere riduttiva e fuorviante. Occorre una lettura più complessiva del nuovo genere letterario capace di darne una visione più comprensiva. Secondo Kathleen Kuzmick Hansell, 2 ad esempio, il programma rappresenta il tentativo da parte dei coreografi di conferire dignità artistica al loro mestiere. Fino ad allora considerata alla stregua di un puro divertimento se non di un esercizio fisico, la danza non è supportata da alcuna tradizione consolidata e, per sua natura, è destinata a non lasciare traccia della propria opera. Il passaggio attraverso la parola costituisce dunque l’unica strada possibile per assurgere al titolo di arte. Le ragioni sono più d’una.
versione in tedesco (cfr. Idem, Adelheid von Ponthieu. Ein tragisch-pantomimisches Ballet, Wien, Logenmeister, 1773, A 2 rv) sia in quella che accompagna la messa in scena milanese di un anno più tardi (cfr. Idem, Adele de Pomthieu. Ballo tragico, Milano, Giovanni Montani, 1774, pp. 3-4). Si trova inoltre nel libretto incluso nelle edizioni delle Lettres del 1803-1804 (vol. ii, pp. 109-120, in particolare p. 110) e del 1807 (vol. ii, pp. 425-438, in particolare pp. 427-428 ; per la traduzione in lingua italiana di quest’ultima redazione del testo cfr. Idem, Programmi dei balletti, cit., pp. 99-105, in particolare p. 99). Questa uniformità dei programmi, a prescindere dalla performance di riferimento, sembra attribuire un carattere retorico all’appello che Noverre rivolge al pubblico. Al tempo stesso, però, si rileva l’abilità da parte del coreografo di contestualizzare l’avviso al luogo della nuova messa in scena ; nello scritto rivisto per la rappresentazione milanese viene ad esempio aggiunto un passaggio : « Dopo questo leggiero abbozzo, io credo di dovere con un Programma delineare quello dell’argomento che ho scelto. Spero che il riuscimento ne sarà tanto più felice, perché lo espongo agli occhi d’una Nazione, l’onore, e il coraggio della quale fecero rinascere l’antica Cavalleria. La Lombardia, e le vicine Contrade le servirono per così dire di culla : la quantità d’Eroi, che allora comparvero, hanno poi somministrato al Tasso, ed all’Ariosto, Poeti egualmente sublimi, tutti i più vivi lineamenti, che possono caratterizzare l’intrepidezza, e il valore [...] Le Pitture, che io disegno ai Milanesi essendo quelli del valore, piaceran loro tanto meglio, perché loro assomigliano. Non v’è cosa, che più vivamente c’interessi, che la nostra immagine qualora è l’immagine della virtù » (Idem, Adele de Pomthieu. Ballo tragico, cit., pp. 4-5). 1 Idem, Adèle de Ponthieu, cit., A 2 r (« Lo spettacolo eroico della cavalleria antica darà sempre origine a uno spettacolo interessante se presentato a una nazione che ama l’onore e a cui è cara la gloria. È proprio a queste due virtù che questo ordine nobile deve la sua nascita ; fondato dalla nobiltà, è stato ciò che doveva essere, ovvero la scuola dell’eroismo. Amore per la patria, devozione al re, religione, disinteresse, umanità dopo la vittoria, rispetto per le donne, di cui i cavalieri difendono la virtù dai pericoli del loro tempo ; tali sono le fondamenta rispettabili di questo ordine. Solo dopo lunghe e faticose prove e dopo aver dato inconfondibili segni di coraggio, rischiarato dalla duplice fiamma dell’onore e della virtù, si poteva assurgere al grado di cavaliere. Se i giochi istituiti in Grecia fecero germogliare l’amore per la gloria e per la patria, se la speranza di un trionfo passeggero fece fiorire grandi uomini e diede tanti difensori alla repubblica di Roma, quali effetti non dovette produrre su una nobiltà guerriera il magnifico spettacolo dei tornei ? »). Quest’operazione di coinvolgimento dello spettatore all’interno dell’evento performativo può essere rintracciata anche nell’incisione del balletto che compare un anno più tardi all’interno dell’Almanach des Theaters in Wien (Fig. 5). L’immagine raffigura la scena del duello tra Raymonde e Alphonse. Vi compaiono i due protagonisti dell’azione, Adèle – che, per la paura, sviene tra le braccia del padre Renaud – e sullo sfondo il popolo : l’incisione sembra così portar in scena il pubblico e riattingere alla funzione educativa che svolgevano simili eventi all’interno della società cortese (e a cui Noverre fa diretto riferimento nel programma). 2 Cfr. Kuzmick Hansell, Opera and Ballet at the Regio Ducal Teatro of Milan, cit., pp. 675-688.
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La trascrizione letteraria della vicenda di cui il ballo si offre come interprete permette anzitutto di fornire una testimonianza dell’evento e dunque di tracciare un profilo e una storia della disciplina. A tal proposito basti ricordare lo scontro serrato che vede protagonisti Angiolini e Noverre circa la paternità del ballet en action. In una lettera del 1773 il ballerino italiano rimprovera al collega francese di essersi proclamato primo riformatore dell’arte coreica senza tenere conto del fondamentale e antecedente magistero di Hilverding sin dagli anni Cinquanta del Settecento : « Diede egli [Hilverding] i bellissimi balli di Psiche, del Turco Generoso, e consecutivamente quelli della Forza del sangue, quello del Ratto di Proserpina, quello di Pigmalione, quello di Circe ed altrettali che per brevità tralascio ; di che tutta Vienna potrebbe informarvi, se la vostra curiosità ne volesse un dettaglio più circonstanziato ». 1 Come si può indirettamente evincere dalle parole di Angiolini, traccia dell’opera riformatrice del maestro è rinvenibile solo nella memoria dei suoi spettatori, in quella fama di cui il coreografo gode da parte del pubblico viennese che ha assistito ai suoi spettacoli o che ne ha avuto notizia. La vera novità introdotta da Noverre è quella, invece, di essere stato capace sia con le Lettres sia con la pratica diffusa e consolidata del programma di dare testimonianza imperitura dei suoi – e anche altrui ! – rinnovamenti della scena. L’uso del verbo “scrivere” nel passo noverriano, oggetto di discussione da parte di Angiolini, non è a tal riguardo casuale :
Je ne dois pas être jugé par les mêmes lois qui condamneraient un auteur dramatique : il n’est aucunes règles écrites par un homme de l’art pour la poétique de la danse, il n’en existe point. Je suis le premier qui ait osé écrire et qui ait eu le courage de faire quitter les sabots, les guitarres, les râteaux, et les vièles pour faire chausser le cothurne à mes danseurs et leur faire représenter des actions nobles et héroïques 2 (corsivo di chi scrive).
La stesura dei programmi di ballo permette inoltre di accomunare la danza a un genere, come quello drammatico, ampiamente riconosciuto e consolidato. Il discorso teorico che precede la sinopsi dell’azione di Semiramis nella Dissertation sur les Ballets pantomimes des Anciens di Angiolini lo dimostra. Il ricorso al modello degli antichi, l’adozione delle unità aristoteliche nella progettazione del ballo pantomimo così come la scelta di celebri pièce teatrali quali soggetti da mettere in scena sono soltanto alcuni dei mezzi letterari adoperati dal coreografo al fine di legittimare il proprio operato artistico. Come scrive Stefania Onesti :
Il testo non osserva una suddivisione in paragrafi o capitoli, ruota semmai intorno a delle tematiche guida che si sviluppano lungo lo scritto. Certo una di queste, forse la più importante per Angiolini, è l’esemplarità degli antichi e del loro modello tragico, un’esemplarità e un modello che erano necessarie, come abbiamo già ricordato, per fondare e conferire autonomia al nuovo genere pantomimico. Ma ritengo che questa tematica ci indichi qualcosa di più, mettendo in campo un problema che, consapevolmente o meno, i riformatori settecenteschi erano costretti a fronteggiare e che serpeggia lungo tutta la Dissertation, costituendone quasi il vero e sotteso scopo : la legittimazione del nuovo genere e l’individuazione dei suoi caratteri identitari. 3
Nell’ottica di Susan Leigh Foster la capacità del programma di legare il ballo a un genere drammatico assume un accento ancora più marcato trasformandosi nella possibilità stessa di questo tipo di scritto di assurgere a una propria autonomia letteraria. Come sintetizza Nye4, per la studiosa esso rappresenta un’opera d’arte in sé conclusa, indipendente dalla 1 Angiolini, Lettere di Gasparo Angiolini a Monsieur Noverre sopra i Balli pantomimi, in Il ballo pantomimo, cit., qui lettera i, p. 53. 2 Noverre, Agamennon vengé, cit., p. 10 (« Non devo essere giudicato dalle stesse leggi che condannerebbero un autore drammatico ; non c’è alcuna regola scritta da un uomo d’arte sulla poetica della danza, non ne esiste nessuna. Io sono il primo che ha osato scrivere e che ha avuto il coraggio di abolire gli zoccoli, le chitarre, i rastrelli e le ghironde per far indossare i coturni ai miei danzatori e fargli rappresentare delle azioni nobili ed eroiche » corsivo di chi scrive). 3 4 Onesti, “L’arte di parlare danzando”, cit., pp. 7-8. Cfr. Nye, Dancing Words, cit., p. 405.
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performance, in modo analogo a quanto avviene per i libretti d’opera. 1 La raccolta di programmi che nel 1776 il padre del ballet en action dà alle stampe sembra legittimare questa lettura ; 2 scrive in proposito Elena Randi : « Col fatto stesso di conservarli, di riunirne un certo numero assieme e di pubblicarli separatamente dalla rappresentazione coreutica, Noverre implicitamente riconosce loro un certo valore. Un valore interpretabile in vario modo, ma che, comunque, non è quello, semplicemente utilitaristico, di capire la trama del balletto pantomimo alla cui rappresentazione si sta per assistere ». 3 Ulteriore conferma a questa ipotesi sembra essere data dagli spettatori dell’epoca. Nel copioso dialogo epistolare tra i fratelli Verri, ad esempio, lo scambio reciproco di programmi di ballo, così come il successivo confronto di opinioni rispetto alla loro aderenza alla scena, ma anche allo stile in cui sono redatti occupano un posto di primo piano. 4 Basti ricordare cosa risponde Alessandro nel 1770 a una lettera in cui il fratello gli riepiloga uno spettacolo noverriano apparso sul palco del Ducale di Milano : « Mi hai fatto gran piacere colla descrizione del ballo di Euridice ; e certo è una bellissima cosa, piena di nobiltà, di sentimento, ed è un epilogo di un poema ; io credo che non abbiamo mai visto sul tema un ballo simile ». 5 Oppure quanto egli aggiunge un anno più tardi : « Noverre è il dio del ballo. È impossibile che non siano interessantissimi i balli composti da chi ha scritto come lui ». 6 In sintesi il programma di ballo sembra assumere i caratteri di uno scritto capace di offrirsi alla lettura e alla riflessione anche a prescindere dalla visione diretta della performance. Tuttavia, come suggerisce ancora una volta Nye, 7 ritenere il libretto un semplice mezzo per dare dignità artistica all’arte coreica o persino un componimento letterario autonomo rischia di far passare sotto silenzio quella tensione fra parola e gesto che è alla base della stesura e della ricezione di un simile genere di scritto. Mutuando gli studi di matrice letteraria di Gérard Genette, 8 lo studioso tenta dunque di rendere ragione di questa sua natura complessa e sfaccettata – ma soprattutto del suo legame essenziale con la scena – elaborando la definizione di paraperformance. 9 In modo analogo a tutti i tipi di documento a carattere paratestuale, il programma di ballo viene definito come una serie diversificata di riflessioni e notazioni sull’evento coreico unite da un’unica funzione : quella di dare al balletto una presenza culturale. Una simile ipotesi interpretativa risulta particolarmente convincente perché capace di rielaborare in tre semplici obiettivi, tra loro correlati, i diversi impieghi e
1 È a partire da questa tesi che la studiosa americana costruisce uno dei suoi testi fondamentali (cfr. Foster, Coreografia e narrazione, cit. ; si avrà modo di confrontarsi direttamente con questo studio infra, cap. iii, § 3.2). 2 Cfr. Noverre, Recueil de programmes, cit. 3 Randi, Pittura vivente, p. 40. Occorre tuttavia sottolineare che nell’Avertissement che precede la raccolta di programmi del 1803-1804 e del 1807 (cfr. Noverre, Lettres sur la Danse, sur les Ballets et sur les Arts, cit., vol. ii, pp. 33-34 e Idem, Lettres sur les Arts imitateurs en général et sur le Danse en particulier, cit., vol. ii, pp. 329-330), il coreografo precisa che questi libretti non possono essere considerati delle opere in senso stretto né dal punto di vista della danza né della letteratura : essi sono semplicemente utili perché, restituendo il piano del ballo, ne lasciano una traccia contro eventuali plagi ; inoltre si offrono come prove ed esempi di balletti ben costruiti. 4 Cfr. A. Verri, P. Verri, Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, in particolare la lettera del 6 novembre 1771, vol. iv, a cura di E. Greppi, A. Giulini, Milano, Cogliati, 1919, pp. 275-276 ; la lettera del 3 agosto 1774, vol. vii, a cura di E. Greppi, A. Giulini, Milano, Cogliati, 1931, p. 9 ; la lettera del 17 settembre 1774, vol. vii, a cura di E. Greppi, A. Giulini, Milano, Cogliati, 1931, p. 26 ; la lettera del 4 marzo 1775, vol. vii, a cura di E. Greppi, A. Giulini, Milano, Cogliati, 1931, p. 125 ; e infine la lettera del 16 agosto 1780, vol. xi, a cura di G. Seregni, Milano, A. Giuffrè, 1940, p. 118. Cfr. inoltre i testi di Pietro Verri – relativi alla stesura o al commento di programmi di ballo – recentemente pubblicati in Rosini, Pietro Verri e il balletto (con la Lettre à Monsieur Noverre e altri testi inediti), cit., pp. 285-314. 5 A. Verri, P. Verri, Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, lettera del 14 marzo 1770, vol. iii, a cura di F. Novati, E. Greppi, Milano, Cogliati, 1911, pp. 219-221, qui p. 220. 6 Ivi, lettera del 6 novembre 1771, vol. iv, a cura di E. Greppi, A. Giulini, Milano, Cogliati, 1919, pp. 275-276, qui 7 Cfr. Nye, Dancing Words, cit., p. 405. p. 275. 8 Cfr. G. Genette, Seuils, Paris, Editions du Seuil, 1987, tr. it. a cura di C. M. Cederna, Soglie. I dintorni del testo, 9 Cfr. Nye, Dancing Words, cit., pp. 405-409. Torino, Einaudi, 1989.
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caratteri dei programmi settecenteschi prima ripercorsi : catturare l’attenzione e il favore del lettore – si tratti di un censore o di uno spettatore ; fornire informazioni relative ai personaggi e alla vicenda per favorire la fruizione del pubblico oltre che la conservazione della sua memoria a posteriori ; garantire che l’azione – espressa da un’arte ancora poco consolidata – sia interpretata nel modo in cui l’ha pensata il coreografo. Inoltre questa posizione è indirettamente supportata da Noverre stesso che nelle Lettres scrive :
On ne peut ni juger d’un Cabinet de peintres par le Catalogue des Tableaux qu’il renferme, ni décider du prix d’un ouvrage de littérature, par la préface ou par le Prospectus. Il en est de même des Ballets ; il faut nécessairement les voir, & les voir plusieurs fois. Un homme d’esprit fera d’excellents Programmes et fournira à un Peintre les plus grandes idées ; mais le mérite consiste dans la distribution & dans l’exécution. 1
Questa mediazione da parte del programma di ballo avviene però attraverso un mezzo – la parola – che è diverso dal tessuto gestuale dello spettacolo. Cercando di verificare e portare a fondo la proposta di Nye, occorre quindi approfondire in che modo un simile genere di scritto sia capace di svolgere questa diversificata opera di presentazione dell’evento coreico. 2. 2. La forza della parola Il programma di ballo rappresenta uno degli innumerevoli paradossi su cui si costruisce la storia di Tersicore. Esso sigla l’autonomia e, al tempo stesso, il legame irrinunciabile della disciplina coreica con il linguaggio. Se da una parte, infatti, questo nuovo genere letterario nasce insieme al ballet en action – ovvero proprio a quella forma di spettacolo che mostra l’indipendenza semantica della danza rispetto a qualsiasi arte o codice espressivo, in primis quello verbale – dall’altra riafferma la centralità della parola all’interno di questa forma coreica. La storiografia e la critica inclinano a ricondurre questo paradosso al fatto che il ballo pantomimo tende a modellarsi sulle finalità e proprietà del linguaggio verbale. La collocazione dello spettacolo coreico tra un atto e l’altro di un’opera teatrale maggiore ne offre una delle prove più evidenti. Scrive José Sasportes a proposito della scena italiana intorno alla metà del Settecento : « Il ballo era considerato un’appendice dello spettacolo lirico e quindi, in linea di massima, doveva sottomettersi alle regole del melodramma che l’ospitava ». 2 Come mostra articolatamente Susan Leigh Foster, 3 questa prossimità del ballo al teatro drammatico è utilizzata inoltre dai riformatori come mezzo di riscatto e affermazione : essa consente anzitutto alla danza di esibire il proprio carattere narrativo ovvero la capacità da parte del corpo di raccontare una storia al pari di un testo scritto, in secondo luogo le permette di assurgere al Parnaso delle arti imitatrici. I frequenti paragoni intessuti dai riformatori tra danza e letteratura paiono confermare
1 Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., pp. 396-397 (« Non si può fare un giudizio su una galleria d’arte dal catalogo dei quadri che essa possiede, né decidere del prezzo di un’opera letteraria dalla prefazione o solo dalla presentazione che se ne è letta. Lo stesso accade per i balletti ; bisogna vederli e vederli molte volte. Un uomo di spirito potrà fare eccellenti programmi e fornirà a un pittore le più grandi idee, ma il merito consiste nella distribuzione e nell’esecuzione » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 108). 2 Sasportes, La parola contro il corpo, cit., p. 21. 3 Cfr. Foster, Coreografia e narrazione, cit. Si segnalano inoltre questi saggi in merito alle intersezioni tra ballo pantomimo, teatro di parola e letteratura : S. Mamy, I rapporti tra opera e ballo a Venezia nel Settecento, « La danza italiana », v/vi (1987), pp. 17-33 ; E. Nye, De la similitude du ballet-pantomime et de l’opéra à travers trois dialogues muets, « svec », vii (2005), pp. 207-222 ; Idem, Grace II : Poetry and The Choric Analogy in Eighteenth-Century France, cit. ; Idem, The Eighteenth-Century Ballet-Pantomime and Modern Mime, cit.
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questa ipotesi di lettura. Cahusac, per esempio, istituisce un parallelo tra maestro di ballo e insegnante di lettere, tra ballerino e scrittore : in entrambe le professioni ciò che conta è la capacità non soltanto di esprimere più concetti possibili ma di riuscire a farlo tramite uno stile originale, inconfondibile. 1 Angiolini, da parte sua, accentua ulteriormente questo legame modellando i diversi generi coreici su quelli drammatici : la danza grottesca traduce gli spettacoli di ambulanti e saltimbanchi ; quella comica riproduce le farse e le commedie alla Moliére ; quella di mezzo carattere è vicina a ecloghe e soggetti pastorali ; la più alta forma di pantomima si pone infine come corrispettivo tersicoreo della tragedia. 2 Secondo il ballerino, inoltre, il linguaggio si pone come termine di equiparazione tanto per la semplice tecnica coreica quanto per la capacità da parte del balletto di significare :
Dans la Danse pantomime il faut d’abord apprendre les pas ou l’Alphabet de notre langage ; cet apprentissage est déjà long & pénible. Il faut encore se donner la grâce, la noblesse, l’élégance des attitudes, cela vaut bien une étude du dessein. Enfin il faut acquérir l’expression, ou l’art de parler en dansant. 3
I giudizi degli spettatori e intellettuali dell’epoca tendono a rafforzare questa ipotesi di lettura evidenziando la posizione di forza assunta dal linguaggio verbale rispetto a quello gestuale. 4 Matteo Borsa, pur sostenendo di voler considerare l’arte coreica in se medesima, finisce per misurarne il valore sulla fedeltà alla precettistica oraziana oppure sull’aderenza tra quanto promesso nel programma di ballo e quanto poi messo effettivamente in scena. 5 Ange Goudar interpreta la semplice redazione del libretto come l’ammissione da parte dei coreografi della volontà di voler copiare un contenuto letterario e, al tempo stesso, come la prova della loro incapacità di farsi intendere con i soli gesti. 6 Fuori dai confini italiani Schink, 1
Cfr. Cahusac, La danse ancienne et moderne, cit., p. 232. Cfr. Angiolini, Dissertation sur les Ballets Pantomimes des Anciens, cit., C5 v - D2 r. 3 Ivi, B4 r (« Nella Danza Pantomima bisogna prima apprendere i passi o l’Alfabeto del nostro linguaggio ; questo apprendistato è già lungo e faticoso. Poi è necessario acquisire la grazia, la nobiltà, l’eleganza delle pose, questo vale bene quanto uno studio del disegno. Infine bisogna acquistare l’espressione, o l’arte di parlare danzando » Idem, Dissertazione sui balli pantomimi degli antichi, cit., p. 24). Cfr. anche Idem, Dissertation sur les ballets pantomimes des anciens, cit., A5 v in cui il coreografo ribadisce lo stesso concetto e ne indica la prima formulazione in occasione della stesura del programma del Don Juan (cfr. Idem, Le Festin de Pierre, cit., in particolare A2 v). Analogamente scrive Noverre alla fine della sua seconda lettera : « Il faut conclure de cette comparaison que la Danse renferme en elle tout ce qui est nécessaire au beau langage, & qu’il ne suffit pas d’en connaître l’Alphabet. Qu’un homme de génie arrange les lettres, forme & lie les mots, elle cessera d’être muette, elle parlera avec autant de force que d’énergie, & les Ballets alors partageront avec les meilleures Pièces du théâtre la gloire de toucher, d’attendrir, de faire couler des larmes ; & d’amuser, de séduire, & de plaire dans les genres moins sérieux » (Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., pp. 28-29 ; « Da questo confronto, si deve dedurre che la danza racchiude in sé quanto è necessario al bel linguaggio, e che non basta conoscerne l’alfabeto. Che un uomo d’ingegno disponga le lettere, formi e leghi fra loro le parole, e la danza, cesserà di essere muta, parlerà con tanta forza quanta energia e i balletti, allora, divideranno con i migliori lavori del teatro la gloria di intenerire, di commuovere fino alle lacrime, di sedurre, divertire e piacere nei generi meno seri » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 28). 4 Per una panoramica dei giudizi formulati dai principali letterati italiani rispetto al ballo pantomimo nel Settecento cfr. Sasportes, La parola contro il corpo, cit. 5 Cfr. M. Borsa, Saggio secondo. Balli pantomimi, in Idem, Opere di Matteo Borsa segretario perpetuo della Reale Accademia di Mantova, vol. i, Verona, Giuliari, 1800, pp. 83-164. Questo scritto costituisce un riadattamento delle lettere contenute nel Saggio filosofico sui balli pantomimi seri dell’opera del dott. Matteo Borsa apparso negli Opuscoli scelti sulle scienze e sulle arti degli anni 1782-1783 (cfr. Il ballo pantomimo, cit., pp. 209-234). 6 Si legge in una lettera datata 20 giugno 1773 : « Per me quando mi vengono presentati questi libriciattoli mi sembra che mi si dica : Signore, io già v’avverto che voi non intenderete un iota da questo pantomimo ; ma ecco un libretto che vi metterà al fatto. Leggetelo, e saprete cosa si rappresenta. Questo vi significherà il ballo, e senza di lui è impossibile che la sola vostra immaginazione possa significare tanti oggetti. È come se un pittore, avendo fatto un quadro, nell’atto di mostrarmelo mi presentasse un paio d’occhialetti per rimirarlo » (A. Goudar, Sopra il ballo, in Osservazioni sopra la musica, ed il ballo o siano Lettere di Mr. G. a Milord Pembroke Trasportate dal Francese da F.T., Venezia, Carlo Palese, 1773, pp. 35-110 ; ora in Il ballo pantomimo, cit., pp. 25-47, qui p. 36). 2
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sebbene inserisca il programma noverriano del Der gerächte Agamennon tra le opere maggiori della drammaturgia a fianco dei lavori di Shakespeare, Diderot e Lessing, ne dà poi un giudizio negativo perché lo spettacolo non riesce a corrispondere alle aspettative suscitate dal libretto e a illudere lo spettatore di trovarsi alla corte di Argo. 2 I coreografi del tempo si trovano molto spesso a confermare più o meno indirettamente questo primato del discorso rispetto al gesto. Lo stesso Noverre – strenuo difensore dell’autonoma eloquenza del corpo – non solo inserisce alcuni inserti parlati nei suoi spettacoli, 3 ma a partire dalla fine degli anni Settanta riconosce apertamente diversi limiti al linguaggio gestuale. 4 Angiolini, da parte sua, afferma la superiorità del verbum sia nelle diverse lettere indirizzate al collega 5 sia in alcuni suoi programmi poco conosciuti degli stessi anni. In Der Cid, ad esempio, il ballerino si scusa per le modifiche apportate al soggetto nella trasposizione coreica, modifiche dovute all’incapacità da parte del gesto di supplire in toto all’assenza della parola. 6 Nell’avviso che accompagna lo spettacolo Montezuma oder die Eroberung von Mexico, 7 invece, il maestro ci tiene a precisare di non aver tratto alcun vantaggio dalle opere drammatiche già esistenti in proposito e di aver potuto soltanto rispettare l’unità e la semplicità della materia. Nel Theseus in Kreta, infine, chiede al suo pubblico di perdonare il fatto che egli debba ancora ricorrere al programma a causa della debolezza della sua arte. 8 Una simile lettura del rapporto tra parola e gesto messo in gioco dal programma di ballo rischia tuttavia di essere troppo riduttiva. Il riconoscimento al linguaggio verbale di una funzione di guida assoluta nei confronti di quello gestuale oscura la reciproca e indissolubile interconnessione tra i due codici che proprio in quegli anni viene messa a tema non soltanto dalla riforma coreica ma anche dalla ricerca linguistica e, più generalmente, estetica. Occorre dunque una riflessione che sappia dare voce alla matrice performativa del libretto di ballo ovvero a quell’azione che costituisce l’origine della lingua di cui è intessuto ma anche la trama specifica dell’evento di cui si propone come presentazione. La genealogia del dibattito che sorge in merito al libretto di ballo tra angioliniani e noverriani negli anni Settanta del Settecento ne offre la possibilità. 1
2. 3. Uno spazio immaginativo L’origine della famosa querelle sul balletto pantomimo risale a due lettere scritte da Angiolini a Noverre nel 1773. 9 In queste pagine il coreografo italiano muove le prime critiche al collega 1 Cfr. J. G. Noverre, Der gerächte Agamennon. Ein tragisches Ballet, in Idem, Programmen zu Balleten, aufgeführet auf der k. k. privilegirten Schaubühne in Wien, Wien, [Ghelen], 1772. 2 Cfr. J. J. Schink, Dramaturgische Fragmente, Graz, 1781-1782, vol. i, pp. 59-82. 3 È lo stesso coreografo ad ammetterlo nella prefazione del programma per il ballo Eutimo, ed Eucari : « Quello che noi intendiamo presentemente per Danza, e Ballo-Pantomimo, non esisteva presso gli antichi. La Pantomima, o sia l’Arte del gesto, era presso loro associata alla declamazione de’ Drammi. [...] Se il gesto veniva spiegato dalla Poesia, se la Pantomima era fortificata dagl’Interlocutori, che presiedevano ai Cori, non è da stupirsi che i gesti uniti al Dialogo fossero intesi da tutti. Io ho adoperata la Pantomima in questo modo medesimo, e con felice riuscita nelle Opere d’Alceste, d’Orfeo, d’Elena e Paride, composte dal celebre Gluck » ( J. G. Noverre, Eutimo, ed Eucari. Ballo eroico-pantomimo, Milano, Giovanni Montani, 1775, pp. 5-6). 4 Sempre nel programma di Eutimo, ed Eucari scrive il maestro di ballo : « Quanto più lavoro tanto più m’accorgo della mia insufficienza. Con questa dichiarazione, ove la vanità non può aver parte, mi trovo costretto a continuare a dar dei Programmi. Ma nel confessare la mia debolezza, debbo altresì asserire con la stessa ingenuità, che la Pantomima è di tutte le Arti imitatrici la più meschina, e la più limitata. [...] Confesserò in buona fede che i Programmi sono i turcimanni della Pantomima in fasce : che questi indicano il fatto storico, o favoloso ; che esprimono chiaramente ciò che la danza non dice che confusamente, giacché i nostri Ballerini non sono né Greci, né Romani » (ivi, 5 Cfr. infra, cap. iii, § 2.3. pp. 3-8). 6 G. Angiolini, Der Cid. Ein großes tragisch-pantomimisches Ballet, Wien, Logenmeister, 1774, [A1 v]. 7 Idem, Montezuma oder die Eroberung von Mexico, ein tragisch-pantomimisches Ballet in fünf Akten, Wien, Logenmeister, 1775, A2. 8 Idem, Theseus in Kreta. Ein heroisch-pantomimisches Ballet in fünf Akten, Wien, Logenmeister, s.d., A2. 9 Per un inquadramento della querelle cfr. L. Carones, Noverre and Angiolini : Polemical Letters, « Dance Rese
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a partire non dalla visione diretta di un suo spettacolo né dallo studio del suo principale testo teorico – le Lettres, pubblicate ben prima e a cui invece il ballerino giunge solo in seconda battuta 1 – bensì dalla lettura di tre programmi di ballo donatigli dallo stesso maestro francese. Nella prima lettera l’artista scrive che in questi scritti si è imbattuto « in alcune idee che, vaglia il vero, contraddicono al corso storico della danza » 2 e altre di cui « l’esperienza di ventisei anni mi prova l’insussistenza ». 3 Anzitutto egli rimprovera al collega di non rispettare le tre unità aristoteliche e di non adeguarsi alle regole e alla tradizione letteraria del dramma che la pratica coreografica gli ha dimostrato essere essenziali. In secondo luogo lo accusa di volersi presentare nei suoi scritti come il primo e l’unico riformatore della danza, ignorando così l’opera di chi l’ha preceduto. A prescindere dalla fondatezza o meno di queste critiche, ciò che è interessante sottolineare è come i rilievi mossi dal ballerino italiano diano prova di un particolare legame che unisce la pagina alla scena. Accusare il coreografo francese di non rispettare le unità aristoteliche dopo la semplice lettura di alcuni suoi programmi significa, in primo luogo, riconoscere a un simile scritto la capacità di riflettere la struttura compositiva dell’opera coreica. Come ammette un anonimo sostenitore dello stesso Angiolini, il programma non si riduce a semplice « argomento del ballo », 4 bensì svolge una funzione analoga a quella del piano scritto dai poeti prima di accingersi a stendere la tragedia vera e propria : esso è necessario sia « al sollievo della propria immaginazione nel comporre il soggetto » 5 sia di « guida nel calore della composizione del ballo ». 6 Quanto alle altre obiezioni sollevate, esse non fanno che riflettere l’ineludibile importanza rivestita dalla parola scritta per la danza. Anzitutto la rivendicazione del dramma – e più in generale della tradizione letteraria – quale modello imprescindibile dell’arte coreica dimostra la necessità, per una disciplina così giovane ed effimera, di appoggiarsi a tradizioni più consolidate. Infine l’accusa mossa a Noverre di volersi presentare come il primo riformatore del balletto pantomimo prova il ruolo strategico svolto da una qualsiasi traccia linguistica rispetto a una possibile storia o teoria della danza : ciascun ballo o coreografo di cui non venga serbata una memoria scritta rischia di non sopravvivere all’evenienza dello spettacolo. L’inevitabile necessità per la danza di rapportarsi al linguaggio verbale comporta tuttavia un problema : quello della compatibilità o meno di due codici espressivi tra loro molto diversi. L’uno, quello gestuale, è contraddistinto da un carattere concreto, polivoco e sinestesico ; l’altro, quello della parola, è capace di operare astrazioni e si pone nei confronti della realtà
arch », v (1987), 1, pp. 42-54 ; Huschka, Die Darstellungsästhetik des « ballet en action », cit. ; Il ballo pantomimo, cit., in particolare le pp. 7-24 ; J. Sasportes, Due nuove lettere sulla controversia tra Noverre e Angiolini, « La danza italiana », vii (1989), pp. 51-77. 1 Cfr. Angiolini, Lettere di Gasparo Angiolini a Monsieur Noverre sopra i Balli Pantomimi, in Il ballo pantomimo, cit., in particolare le pp. 49 e 63. 2 3 Ivi, p. 49. Ibidem. 4 Riflessioni sopra la pretesa risposta del sig. Noverre all’Angiolini, in Discussioni sulla danza pantomima, cit., pp. [41]5 Ibidem. 81 ; ora in Il ballo pantomimo, cit., pp. 105-116, qui p. 112. 6 Ibidem. Angiolini ne riconosce indirettamente la medesima funzione nel testo che dedica alla questione del programma nel 1775. Dopo aver addotto dettagliate ragioni circa l’impossibilità da parte di questo scritto di essere di guida o di chiarimento alla comprensione del balletto, il coreografo conclude affermando che esso serve « per dar contezza del fatto, e del piano sopra cui era fondato ed ordinato il ballo » (Angiolini, Riflessioni di Gasparo Angiolini sopra l’Uso dei Programmi nei Balli pantomimi, in Il ballo pantomimo, cit., p. 120). Noverre, da parte sua, scrive nell’Avertissement che precede la raccolta selezionata dei suoi programmi nelle Lettres del 1803-1804 e del 1807 : « Je suis persuadé que les auteurs, en arrêtant sur le papier leurs idées sur une tragédie ou une comédie, commencent à en faire, si je puis m’exprimer ainsi, le programme ; et ce n’est que dans l’exécution qu’ils donnent tout le développement dont il est susceptible » (Noverre, Lettres sur la Danse, sur les Ballets et sur les Arts, cit., vol. ii, p. 33 e Idem, Lettres sur les Arts imitateurs en général et sur le Danse en particulier, cit., vol. ii, p. 330 ; « Sono convinto che gli autori, nel fermare sulla carta le loro idee, comincino facendone, se posso esprimermi in questo modo, il programma ; e non è che nell’esecuzione che danno tutto lo sviluppo di cui esso è suscettibile »).
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in termini riflessivi. La critica principale che nel seguito della sua lettera il coreografo italiano solleva nei confronti di Noverre è dunque quella di promettere nel programma ciò che poi il gesto non è in grado da solo di significare. L’analisi da parte di Angiolini del programma noverriano di Agamennon vengé chiarisce i termini della questione :
I miei studi altro insegnato finora non mi hanno, che a fare agire i personaggi secondo il loro carattere e la loro condizione. Certamente non ho mai fatto inginocchiare Achille, né impaurire Aiace, né amoreggiare Penelope. Ma non ho mai saputo, né saprei spiegare come voi fate la dimanda che Clitennestra fa ad Agamennone per sapere chi sia Cassandra, a lei sconosciuta, alla quale questi risponde con una semplicità sublime : C’est la fille de Priam. Né saprei come appigliarmi per far dire a Clitennestra, nel tempo che ella dà un pugnale ad Egisto : Tu trancheras tout à la fois les jours de mon époux et ceux de l’esclave troyenne senza che questi due siano presenti. E meno ancora saprei rendere intelligibile la fantastica idea che voi date a Cassandra l’indovina, quando cogli occhi soli della mente le fate vedere le palais ensanglanté, les Euménides accompagnées par le Crime, par la Vengeance et par la Haine : la mort, qui suit cette troupe infernale prête à frapper etc. [...] Fino a tanto che voi non date una ragionata nomenclatura capace di spiegare le sopraccennate idee ; fino a tanto, che il pubblico erudito non l’avrà ricevuta, studiata ed imparata a mente, nessuno deve credere alla possibilità di spiegare coll’arte de’ cenni né le future, né le passate idee, parlando generalmente. 1
Angiolini rimprovera al collega francese di fornire un programma non corrispondente al ballo poi presentato sulla scena. Come il coreografo ha modo di spiegare più dettagliatamente in un testo di qualche anno più tardi, un simile genere di scritto è incapace di rispettare la « diversità che passa tra i gesti, le lingue, le scritture e i simboli » : 2 sia che esso si ponga nei confronti del ballo come suo interprete o integratore sia che si limiti a darne un’enunciazione linguistica, « l’uso de’ programmi avvilisce l’arte, trattandola tacitamente d’insufficiente a farsi intendere ; ed avvilisce il pubblico stesso trattandolo di poco esperto e di poco erudito ». 3 Rispetto alla posizione sostenuta da Angiolini è importante tuttavia constatare come qualsiasi tipo di scritto sia costituzionalmente incapace di proporsi quale neutrale ed esauriente trascrizione letteraria di un evento coreico : sia per eccesso – trasmettendo ciò che il gesto da solo non è in grado di comunicare – sia per difetto – non riuscendo a riprodurre la complessa espressività del corpo in movimento – ogni tipo di testo rimane inevitabilmente distante dal suo oggetto di riferimento. Come riconosce anche Noverre : « Toutes les descriptions qu’on peut faire de ces sortes d’ouvrages [des ballets] ont ordinairement deux défauts ; elles sont au-dessous de l’original lorsqu’il est passable, ou au-dessus lorsqu’il est médiocre »4. La domanda che bisogna piuttosto porsi è se nello scarto che il programma segna rispetto alla performance sia possibile vedere non soltanto un limite, ma anche l’opportunità che esso ha di avvicinare il lettore allo spettacolo rispettando l’autonomia e l’irriducibilità linguistica del codice gestuale. L’esperienza diretta del coreografo italiano, più che le sue riflessioni teoriche, aiutano ancora una volta ad approfondire la questione. Sempre nella lettera sopra ricordata, il compositore italiano riconosce che la « verità »5 è stata la spinta per il collega francese a staccarsi dalla pura danza meccanica « che servivasi della sola agilità e grazia del corpo, e nulla dello spirito e del giudizio ». 6 Soltanto l’imitazione della bella e semplice natura è capace, infatti, di guidare cuori onesti e talenti rari e
1 Angiolini, Lettere di Gasparo Angiolini a Monsieur Noverre sopra i Balli Pantomimi, in Il ballo pantomimo, cit., pp. 61-62. A proposito del libretto noverriano sotto esame cfr. supra, cap. iii, § 1, in particolare p. 120 nota 4 e p. 121. 2 Idem, Riflessioni di Gasparo Angiolini sopra l’Uso dei Programmi nei Balli pantomimi, in Il ballo pantomimo, cit., p. 3 Ibidem. 123. 4 Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., p. 396 (« Tutte le descrizioni che si possono fare di queste opere [dei balletti] hanno generalmente due difetti ; esse sono al di sotto dell’originale quando questo è passabile o al di sopra quando è mediocre » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 108). 5 Angiolini, Lettere di Gasparo Angiolini a Monsieur Noverre sopra i Balli Pantomimi, in Il ballo pantomimo, cit., p. 6 Ivi, p. 50. 49.
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di brillare senz’alcuna macchia : « È per lei che i nobili ingegni s’avanzano oltre i confini già conosciuti della moltitudine ». 1 Una simile descrizione della natura da parte di Angiolini vanifica in parte le obiezioni rivolte al suo antagonista. Se la verità che persegue tanto il coreografo italiano quanto quello francese non è, infatti, un oggetto dato che si possa compiutamente e una volta per tutte riprodurre fedelmente, bensì un orizzonte a cui approssimarsi infinitamente senza essere in grado di esaurirlo o appropriarsene, la stessa pretesa da parte del coreografo italiano di ritrovare una corrispondenza perfetta tra programma e ballo viene parzialmente a cadere. Un’ulteriore prova e approfondimento della necessità di guardare alla relazione tra programma e ballo non in termini di adeguazione la offre ancora Angiolini. Il coreografo scrive di aver ritrovato sparse – leggendo per la prima volta i programmi di Noverre – diverse « bellezze ». 2 Esse constano nella pompa funebre per Agamennone, nel principio poetico e pittoresco del ballo d’Ifigenia, nelle situazioni ridenti delle Grazie e in « tant’altri variati oggetti, quadri fecondi della viva vostra immaginazione » 3 che espressi con tale spirito da parte di Noverre accendono il desiderio « di vederne sul teatro l’esecuzione, o di novamente rappresentarseli agli occhi della mente con una seconda lettura ». 4 Come la verità che guida il compositore non è un modello definibile ed esauribile una volta per tutte, ma è un’esperienza di tangenza infinita, così la bellezza che emerge variamente dal programma sembra corrispondere non tanto alla restituzione fedele di un oggetto o di una scena precisa del balletto, quanto allo spazio immaginativo che un simile scritto è capace di aprire. Entrambi i desideri che vengono sollecitati dalla lettura dei programmi di Noverre – sia quello di assistere per la prima volta al balletto sia quello di richiamarlo alla memoria per poterlo rianalizzare – possono nascere, infatti, soltanto grazie all’incapacità da parte di qualsiasi trascrizione linguistica di saturare le molteplici dimensioni della messa in scena corporea. Questa stessa disuguaglianza tra parola e gesto che difende l’autonomia e l’irriducibilità della danza a qualsiasi discorso giustifica, al tempo stesso, un’ulteriore prerogativa possibile del programma : quella di offrirsi quale interprete del ballo. Noverre motiva un simile impiego di questo scritto con la necessità di supplire alla debolezza espressiva e monotonia di linguaggio in cui la danza è caduta dopo l’età dorata conosciuta ai tempi di Augusto : il programma è funzionale alla valorizzazione e riscoperta del potenziale rappresentativo racchiuso nel corpo danzante. 5 A prescindere dalle specifiche ragioni storiche che possono spingere all’utilizzo del programma, ciò che è interessante tuttavia rilevare a partire da queste notazioni noverriane è come il processo riflessivo che il linguaggio introduce rispetto all’immediatezza e sinestesia del corpo in movimento si offra – anche di fronte a un capolavoro coreico e a un pubblico educato ad assistere a una simile forma d’arte – come un mezzo privilegiato per esplicitare e propagare l’energia espressiva contenuta al suo interno. Un anonimo ammiratore del coreografo francese spiega questa possibile funzione interpretativa del programma paragonandolo alla lettura che i poeti offrono di un intaglio o di una pittura. Al pari di quanto fatto da Dante piuttosto che da Ariosto in diversi loro scritti a partire da un’opera pittorica o scultorea, l’autore delle Memorie descrive il programma come un’ecfrasi con cui il compositore dispiega i contenuti compressi o semplicemente evocati dal corpo in movimento gareggiando così in forza espressiva con il ballo stesso :
E qui è dove, secondo il critico, i programmi di Noverre mancano alla verità nella parte che spiega l’azione. Veramente è un gran fallo il dire nel programma più di quello a cui il linguaggio muto della pantomi1
2 Ivi, p. 49. Ibidem. 4 Ibidem. Ibidem. 5 Cfr. Noverre, Introduction au ballet des Horaces, cit., in particolare p. 13. In merito a questo programma si rimanda supra, cap. iii, § 2.1, in particolare p. 126 nota 4. 3
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ma si possa estendere. Che tradimento ! Che pregiudizio dell’arte ! ... Bisognerebbe per altro riflettere che la spiegazione d’un quadro, d’un basso rilievo, d’una statua, ha sovente maggiore durazione che non ha il colpo d’occhio che rimira il lavoro e che essa spiegazione è anzi obbligata a darci il mezzo d’interpretare quei sentimenti l’espressione de’ quali eccede la forza del pennello e dello scalpello. 1
Tanto l’esperienza immaginativa descritta da Angiolini quanto quella evocata dal noverriano – l’una che muove dal programma verso il ballo, l’altra che dalla scena si riversa nella parola – mostrano come il programma permetta un piano di confronto e interazione con l’evento performativo senza annullarne, ma al contrario evidenziandone le specificità espressive. Anzitutto mostrandosi quale semplice piano dell’opera, questo genere di scritto non può diminuire l’effetto o umiliare l’autonoma capacità espressiva della danza : più delle informazioni particolari che il programma riporta, ciò che conta è il vuoto lasciato tra di esse e che solo l’immaginazione o lo spettacolo vero e proprio possono saturare. Infine, proprio grazie allo scarto che separa linguaggio verbale e gestuale, il programma si offre anche come uno mezzo di possibile approfondimento e articolazione della portata significativa dell’esibizione coreica : senza un processo riflessivo, infatti, i contenuti rappresi nell’hic et nunc del corpo danzante non hanno alcun modo di venire dispiegati e discussi nonché di essere sottratti – in taluni casi – all’evenienza dello spettacolo. Il celebre balletto tratto dal mito di Medea e firmato da Noverre negli anni Sessanta del Settecento offre un’occasione unica per verificare, almeno in parte, questa ipotesi di lettura. 2 A differenza degli altri balli pantomimi, infatti, di questo capolavoro è sopravvissuta una serie nutrita e variegata di fonti. In particolare, accanto al programma di ballo 3 e ai costumi 4 raccolti da Noverre nel manoscritto di Varsavia, è pervenuta un’incisione raffigurante una scena dello spettacolo e realizzata molto probabilmente in prossimità della replica londinese del 1782 (Fig. 6). 5 Nell’impossibilità di confrontare il libretto di ballo con la performance vera
1 Memorie per servire alla storia degli spettacoli del teatro di Milano degli anni 1774, e 1775, ossia lettere controcritiche del N. ... al cavaliere K. ... Seconda edizione, Belvedere-Brescia, Fratelli Pasini, 1776, ora in Il ballo pantomimo, cit., pp. 125-159, qui pp. 146-147. 2 Il balletto Medée et Jason viene presentato per la prima volta al pubblico nel 1763 all’Hoftheater di Stoccarda con i costumi di Boquet e le musiche di Johann Joseph Rudolph. In seguito il balletto viene riproposto sia da Noverre sia da alcuni suoi allievi (come Vestris e Le Picq) in diverse altre città europee con alcune modifiche coreografiche, scenografiche e musicali nonché leggere variazioni nel titolo. Per uno schema dettagliato delle diverse rappresentazioni e delle relative fonti disponibili, cfr. Dahms, Jean Georges Noverre “Ballet en action”, cit., pp. 298-300; Eadem, Der konservative Revolutionär, cit., pp. 407-409 e Randi, Pittura vivente, cit., p. 153. Tra i principali studi sul balletto si segnalano inoltre i seguenti saggi : Huschka, Szenisches Wissen im ballet en action, cit., in particolare le pp. 37-39 ; Nye, Thépot, Dramaturgie et musique dans le ballet-pantomime Médée et Jason de Noverre et Rodolphe, cit. 3 Cfr. J. G. Noverre, Médée et Jason. Ballet tragique, in [Idem], Théorie et pratique de la Danse, cit., vol. ii, pp. 3-11 (Fig. 7). Questo programma, a eccezione di una diversa ripartizione di atti e scene, non presenta sostanziali differenze contenutistiche rispetto agli altri reperiti e consultati da chi scrive (cfr. Idem, Médée & Jason. Ballet tragique, Wien, Ghelen, 1767 ; Idem, Medea und Jason. Ein tragisches Ballet, Wien, Joseph Kurzböck, 1776) così come, del resto, è pressoché identico a quello raccolto nel Recueil e nelle Lettres del 1803/04 e intitolato semplicemente Médée (cfr. Idem, Lettres sur la Danse, sur les Ballets et les Arts, cit., vol. ii, pp. 65-74 ; di questa versione è disponibile una traduzione italiana in Idem, Programmi dei balletti, cit., pp. 59-63). 4 Si tratta di quattordici disegni realizzati da Boquet appositamente per il balletto noverriano (cfr. [Idem], Théorie et pratique de la Danse, cit., vol. vii, pp. 3-16). Come si può evincere dal campione selezionato (cfr. Figg. 8-17), i bozzetti riflettono in larga parte la moda costumistica del tempo, ma soprattutto forniscono alcune informazioni importanti circa la coreutica noverriana. Da un parte l’uso di personificazioni, allegorie e simboli evidenzia un chiaro motivo di continuità col balletto di corte seicentesco, dall’altra la rinuncia alle maschere e alle parrucche, il movimento della parte superiore dei busti, le torsioni dei corpi e l’espressività dei gesti e dei volti dei personaggi sono indici del nuovo corso intrapreso dalla danza teatrale. Per ulteriori approfondimenti su questi e altri bozzetti di Noverre si rimanda a Pappacena, Il linguaggio della danza, cit., in particolare le pp. 88-89, 118-128, 132-134 ; Randi, Pittura vivente, cit., pp. 168-177. 5 Si tratta di un’incisione a colori sul balletto tragico di Jason et Médée pubblicata il 3 luglio 1781 a Londra a opera di John Boydell. Questi dati sono ricavati dalla scheda dell’incisione a cura dell’archivio Derra de Moroda di Salisburgo (elaborata a partire dalla decifrazione delle scritte contenute nell’immagine stessa) ; alcuni studi
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e propria, questa immagine consente quindi un paragone, sebbene parziale, tra linguaggio gestuale e quello verbale e, in particolare, permette di far emergere tanto i punti di contatto quanto quelli di divergenza tra i due codici. L’incisione raffigura essenzialmente una trama di relazioni. La scena si colloca sotto il portico di un palazzo e vede due personaggi femminili ai lati e uno maschile al centro che funziona da ago della bilancia della rappresentazione. Segnando con il suo piede sinistro il centro del palcoscenico e tendendo con il resto del corpo verso il suo lato destro, l’uomo imprime una particolare dinamica alla scena, una dinamica in cui è coinvolta la donna alle sue spalle e a cui, invece, si contrappone la dama alla sua sinistra : l’effetto complessivo è quello di una forza che dal centro del palco si propaga lungo due diagonali opposte creando così una tensione tra i gruppi di figure. Il busto riversato all’indietro o in avanti sembra indicare in un forte spavento la forza di cui sono preda i protagonisti ; i loro diversi atteggiamenti ed espressioni mostrano invece il particolare modo di reagire da parte di ciascuno di fronte a essa : la ballerina a destra stringe i pugni in atteggiamento di sfida, l’altra volge gli occhi verso terra e apre le mani come in segno di abbandono ; il danzatore al centro, con lo sguardo rivolto verso l’alto e le gambe e le spalle contratte, sembra colto da stupore e incertezza sul da farsi. Il libretto dà nome a questi personaggi e alle passioni che regolano le loro azioni. Anzitutto, analogamente a quanto si è visto nell’incisione, è Giasone a rappresentare l’unica e reale forza agente dello spettacolo. Lungo tutte le prime quattro scene il programma descrive l’incertezza di sentimenti e “interessi” che occupano il cuore del protagonista : la vicenda si consuma interamente nel suo passaggio dalle braccia di Medea a quelle di Creusa e viceversa. 1 Le emozioni e i comportamenti delle due figure femminili che si succedono nelle pagine seguenti non sono poi che un effetto del suo atteggiamento : compresa la tragica risoluzione finale a cui giunge la protagonista. Anche in questo caso il programma si limita a dare voce alle passioni che nello spettacolo si trovano visivamente espresse dalla danza pantomima o dalle personificazioni dell’odio e della vendetta (Figg. 12, 14). 2 I bozzetti disegnati da Boquet lo dimostrano : la benda che copre gli occhi della Gelosia indica l’accecamento di cui è preda la maga nell’attuazione del suo piano (Fig. 13), mentre i volti contratti, quasi deformati, del Veleno, del Ferro e del Fuoco così come le linee appuntite, i serpenti e il fuoco dei loro abiti sono i segni della negatività e della potenza dei sentimenti che agitano e guidano la donna (Figg. 15-17). Testo visivo e testo scritto declinano dunque un medesimo contenuto in maniera differente. Essi non si pongono né in opposizione né in sostituzione, bensì concorrono a dare corpo e voce all’anima e alle azioni dell’uomo. L’uno, attraverso linee asimmetriche e dinamiche di attrazione e repulsione, apre un campo di relazioni : all’interno di queste la qualità dei movimenti, l’espressione dei volti e la simbologia dei costumi fanno il resto alludendo alle cause e agli effetti di questi rapporti. L’altro intreccia parole in grado di spiegare gli antefatti e precisare le passioni e i comportamenti di questi personaggi : cerca di esplicitare la tensione affettiva rappresa nel fotogramma visivo. Più che a qualsiasi fatto o giudizio in
a riguardo l’attribuiscono però a Francesco Bartolozzi (Cfr. B. Brumana, Francesco Bartolozzi (1728-1815) incisore della musica, « Esercizi. Musica e Spettacolo » xx, nuova serie xi, 2006-2007, pp. 33-75, in particolare p. 57 e fig. 16 ; Huschka, Szenisches Wissen im ballet en action, cit., p. 37), mentre altri la datano un anno più tardi – in forza probabilmente della messa in scena del balletto al King’s Theatre di Londra l’11 aprile del 1782 (cfr. Dahms, Jean Georges Noverre “Ballet en action”, cit., p. 300 ; Eadem, Der konservative Revolutionär, cit., p. 409; Huschka, Szenisches Wissen im ballet en action, cit., p. 37). A prescindere dall’autore e dalla data precisa di realizzazione, poiché tutti gli studi concordano nell’attribuzione a Noverre del balletto raffigurato, l’incisione rappresenta comunque una fonte attendibile sul ballet en action e, in particolare, sullo spettacolo del coreografo ispirato al mito di Medea : a tale titolo viene in questa sede presa in esame. 1 Cfr. Noverre, Médée et Jason. Ballet tragique, in [Idem], Théorie et pratique de la Danse, cit., vol. ii, pp. 5-7. 2 Cfr. ivi, pp. 7-8.
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Fig. 6. Jason et Médée, incisione a colori di John Boydell pubblicata il 3 luglio 1781 in Cheapside Londra (Ö-Ad, ic D 019).
merito, il racconto cerca di dare forma linguistica al ritmo della vita che ha nell’animo umano la sua origine ma nel corpo la sua prima e inaggirabile espressione. Come scrive Sabine Huschka : « [Il libretto] erzählt den antiken Tragödienstoff in einem beinahe rhythmisch dramatisierten Gang durch neun affektgesteuerte Szenen ». 1 In conclusione il ballo pantomimo ha come suo modello non tanto il discorso quanto quel language d’action che costituisce l’origine di ogni possibilità comunicativa e che nel suo plesso indisgiungibile di forma e contenuto trova nella danza una delle sue prime e principali riprese artistiche. 2 Se l’incisione riesce a dare testimonianza del carattere visibile di quest’originaria espressione gestuale a cui il balletto attinge, il programma riesce però a rendere conto di quella sua progressione e variabilità che nessun segno, o complesso di segni, è in grado di catturare. Dopo aver mostrato la capacità da parte dell’immagine figurativa di farsi tramite dell’eloquenza del corpo, occorre dunque fare un ulteriore passo in avanti nell’argomentazione. Nello specifico – riprendendo i termini della questione mimetica – occorre mostrare l’irriducibilità della danza al modello rappresentativo esemplificato dal quadro e al paradigma alternativo da essa proposto. Un eccezionale libretto noverriano
1 Huschka, Szenisches Wissen im ballet en action, cit., p. 38 (« [Il programma] racconta l’antica materia tragica in una maniera quasi ritmicamente drammatica attraverso scene guidate dalla passione »). 2 Cfr. supra, cap. ii, § 3.2.
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– anche in virtù delle possibilità interpretative di questo genere di scritto poc’anzi illustrate – ne offre l’occasione. 3. In principio era il gesto : Apelle , e Campaspe di Noverre
La funzione guida svolta dal quadro rispetto al ballet en action e, al tempo stesso, il superamento della mimesi pittorica da parte della danza emergono con efficacia se si accostano due balletti ispirati alla vita di Alessandro e composti da Noverre tra gli anni Sessanta e Settanta del Settecento. 1 Nelle terza delle Lettres il coreografo francese segnala i quadri commissionati da Luigi XIV a Charles Le Brun su alcuni episodi della biografia del celebre condottiero quali modelli privilegiati per il nascente ballo in azione. 2 La ragione è ricondotta al fatto che in questi dipinti l’attenzione è catturata non tanto dalla perfezione dei tratti o dalla simmetria della composizione quanto dall’espressività della prossemica e dei volti dei personaggi : l’immagine è in grado di parlare allo spettatore perché sa raccontare figurativamente una storia. È in forza di questa capacità che il quadro storico si differenzia dal semplice ritratto o – come scrive Cahusac 3 – da una composizione di fiori e, analogamente, il balletto può distinguersi non solo rispetto alla semplice pantomima ma anche al puro divertissement : pittura e danza possono ritrarre i segni visibili dell’agire e sentire umano. Quanto afferma il pittore francese in occasione di una conferenza all’Académie Royale de Peinture et de Scuplture di Parigi nel 1667 ne suggerisce la ragione :
L’Espressione, a mio parere, è un’ingenua e naturale rassomiglianza delle cose che si devono rappresentare : essa è necessaria e presente in tutte le parti della pittura, e un quadro non potrebbe essere perfetto senza l’Espressione. Spetta a essa mostrare i veri caratteri di ogni cosa ; per mezzo di essa si distingue la natura dei corpi, le figure sembrano dotate di movimento e tutto ciò che è finto sembra vero. 4
Il programma di ballo Alexandre realizzato da Noverre nel 1765 offre una prova diretta di questa corrispondenza espressiva tra le due arti (Fig. 19). 5 Il libretto assomiglia anzitutto a una trasposizione letteraria della varietà e forza rappresentativa dell’opera di Le Brun : basti accostare la descrizione dell’entrata trionfale del condottiero contenuta nel libretto 6 con
1 Questa riflessione costituisce uno sviluppo del saggio prodotto da chi scrive : La rappresentazione in scena : Apelle, e Campaspe di J. G. Noverre (Milano 1774). Rispetto all’analisi lì condotta la presente argomentazione si differenzia sia per la diversa prospettiva adottata sia per una conseguente maggiore ricchezza di informazioni : mentre in quel caso, infatti, il focus dell’attenzione era rivolto sul palcoscenico della città milanese, qui la performance meneghina viene utilizzata come asse portante di un’indagine più ampia sulla coreutica noverriana e, in particolare, sui rapporti tra danza e pittura nel xviii secolo. 2 Cfr. in particolare Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., pp. 41-43. 3 Cfr. Cahusac, La danse ancienne et moderne, cit., p. 230. 4 C. Le Brun, Le figure delle passioni. Conferenze sulle passioni e la fisionomia, ed. it. a cura di M. Giuffredi, Milano, Raffaello Cortina, 1992, p. 13. 5 Cfr. J. G. Noverre, Alexandre. Ballet historique, in [Idem], Théorie et pratique de la Danse, cit., vol. ii, pp. 148-155. Per ulteriori informazioni circa lo spettacolo e le fonti a riguardo cfr. Dahms, Jean Georges Noverre “Ballet en action”, cit., p. 258 ; Eadem, Der konservative Revolutionär, cit., pp. 362-363; Randi, Pittura vivente, cit., p. 154. Si segnala che nell’edizione delle Lettres del 1807 compare un piano del ballo, ovvero non il programma vero e proprio articolato in scene ma un riassunto della vicenda (cfr. Idem, Lettres sur les Arts imitateurs en général et sur le Danse, cit., vol. ii, pp. 499-502). 6 Si legge nella prima scena : « Un bruit de guerre se fair entendre et une foule innombrable de Peuple annonce l’arrivée d’Alexandre. Ce Héros est devancé par la Garde Macédonienne ; des Musiciens jouant de divers instruments précédent son Char ; [...] les officiers Macédoniens portent les Trophées de ses victoires, tandis qu’une foule d’Esclaves qui terminent cette marche portent en triomphe les Dépouilles et les Trésors des vaincus » (Idem, Alexandre. Ballet historique, pp. 148-149 ; « Si ode un rumore di guerra e una folla innumerevole di persone annuncia l’arrivo di Alessandro. Questo eroe è preceduto dalla guardia macedone ; dei musicisti suonando diversi strumenti precedono il suo carro ; [...] gli ufficiali macedoni portano i trofei delle sue vittorie, mentre una folla di schiavi che terminano questa marcia portano in trionfo i bottini e i tesori dei vinti »).
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il celebre quadro di un secolo prima che raffigura l’ingresso di Alessandro a Babilonia. In secondo luogo il programma testimonia la volontà da parte del coreografo di non tendere semplicemente a giustapporre una serie di passi e figure di danza ma neppure dei semplici atteggiamenti o espressioni del volto ; sebbene non sia rimasta alcuna traccia del tessuto coreografico e pantomimico dello spettacolo bensì soltanto alcuni bozzetti dei costumi (Figg. 20-22), esso dimostra la sua intenzione di articolare una storia attraverso una dinamica di passioni e azioni. Alla fine della lettera sopra ricordata, tuttavia, il coreografo sembra segnare una presa di distanza da questo stesso modello pittorico. A differenza di un semplice dipinto storico, infatti, il balletto pantomimo è giudicato in grado di raffigurare una sequenza di azioni. Analogamente alla galleria del Lussemburgo realizzata da Rubens : 1
Chaque Tableau présente une Scène, cette Scène conduit naturellement à une autre ; de Scène en Scène on arrive au dénouement, & l’œil lit sans peine & sans embarras l’Histoire d’un Prince dont la mémoire est gravée par l’amour & la reconnaissance dans le cœur de tous les Français. 2
Il balletto noverriano Alexander und Kampaspe. Oder der Sieg Alexanders über sich selbst 3 mette in scena questa differenza espressiva tra quadro e danza. Pur sempre ispirandosi alla vita dell’eroe, esso trasforma in chiave mitico-simbolica un episodio della sua biografia facendo della mimesi figurativa – e implicitamente di quella coreica – il vero focus della rappresentazione. L’incisione del ballo che compare nell’Almanach des Theaters in Wien – e che raffigura un artista mentre tenta di ritrarre la sua modella (Fig. 18) – offre una prima prova di questo slittamento in termini metarappresentativi del soggetto storico. Solo un’attenta analisi del programma di ballo redatto per la messa in scena milanese del 1774 permette però di verificare l’ipotesi. 4 Se la sostanziale uniformità drammaturgica di questa versione rispetto a quelle inserite all’interno delle Lettres – sia del 1803-1804 che del 1807 5 – rende infatti questa 1 Si tratta de L’Entrée d’Alexandre le Grand dans Babylone ou Le Triomphe d’Alexandre, dipinto di Charles Le Brun del 1665 ora conservato al Musée du Louvre di Parigi. 2 Idem, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., p. 45 (« Ogni quadro presenta una scena, questa scena porta naturalmente ad un’altra ; di scena in scena, si giunge allo scioglimento, e l’occhio legge senza pena e senza difficoltà la storia di un principe la cui memoria è impressa nel cuore di tutti i Francesi dall’amore e dalla riconoscenza » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 31). 3 Il ballo viene messo in scena per la prima volta al Burgtheater di Vienna nel 1773 con la musica di Franz Aspelmayr (cfr. Idem, Alexander und Kampaspe. Oder der Sieg Alexanders über sich selbst. Ein großes heroisch-pantomimisches Ballet, Wien, Logenmeister, 1773 ; Idem, Alexandre et Campaspe de Larisse, ou le Triomphe d’Alexandre sur soi même. Ballet héroï-pantomime, Vienne, Logenmeister, 1773; si segnala inoltre l’incisione del ballo che compare nell’Almanach des Theaters l’anno successivo, Fig. 18). Esso viene poi più volte rappresentato in diverse città europee con leggere variazioni nel titolo e musiche differenti : per ulteriori informazioni si rimanda a Dahms, Jean Georges Noverre “Ballet en action”, cit., pp. 258, 262-263; Eadem, Der konservative Revolutionär, cit., pp. 363-364, 368-370 e a Randi, Pittura vivente, cit., pp. 157-158. 4 Cfr. Drammi nel teatro di Milano nel 1774. In questa raccolta è presente il programma sia in lingua francese (Apelle, et Campaspe, ou le Triomphe d’Alexandre sur soi même, Milan, Jean Montani, 1774, alle pp. 3-18) sia in italiano (Apelle, e Campaspe, o sia il Trionfo di Alessandro sopra di se stesso, alle pp. 19-34). Data la perfetta coincidenza delle due versioni, si è scelto di citare dalla seconda non soltanto per agevolare la lettura, ma anche perché tutta la discussione che scaturisce intorno balletto si basa presumibilmente su di essa (ogni riferimento al programma da parte dei protagonisti della querelle è infatti in lingua italiana). Infine due precisazioni. La musica è sempre opera di Aspelmayr mentre tra gli interpreti principali il libretto ricorda : Apelle - Sebastiano Gallet, Campaspe - Eleonora Duprè, Alessandro - Paolo Fanchi, Rossane - Caterina Villeneuve, lo scolaro favorito di Apelle - Antonio Terrades, Efestione - Antonio Marliani. Seguono le tre Grazie : Camilla Dupetit, Maria Anna Dupetit, Cristina Gallet. Non vengono citati i nomi dei ballerini che ricoprono i ruoli della Fama, delle donne e degli ufficiali al seguito di Alessandro così come quelli degli Amori, degli Zefiri e delle guardie che animano la scena (cfr. ivi, p. 26). 5 Cfr. Idem, Apelles et Campaspe ou la Générosité d’Alexandre, in Idem, Lettres sur la Danse, sur les Ballets et les Arts, cit., vol. ii, pp. 178-189 e in Idem, Les Lettres sur les Arts imitateurs en général et sur la Danse en particulier, cit., vol. ii, pp. 503-517. È possibile trovare una traduzione italiana di questo programma in Idem, Programmi dei balletti, cit., pp. 106-111. Il programma del 1774 si articola in cinque scene, mentre la versione contenuta nelle diverse edizioni delle Lettres – oltre a presentare un titolo leggermente modificato – consta in un atto formato da cinque scene e
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versione esemplificativa della poetica noverriana, la celebre discussione scaturita a partire dallo spettacolo nella città meneghina offre l’occasione di mostrarne fino in fondo tutta la portata teorica. 3. 1. La chiave metarappresentativa L’eccezionalità del programma di Apelle, e Campaspe è dovuta al fatto che nelle quindici pagine in cui si articola lo scritto di Noverre può essere rintracciato un risvolto “programmatico” non soltanto rispetto al ballo specifico che accompagnano bensì all’arte della danza stessa. La centralità ricoperta dal famoso pittore greco sin dal titolo dello spettacolo sembra offrirne il primo indizio. 1 Come testimonia Plinio il Vecchio, 2 l’opera dell’artista è considerata sin dall’antichità quale emblema della rappresentazione fedele e veritiera della natura. Le numerose riprese tanto in campo figurativo quanto letterario non fanno che confermarlo : gli aneddoti legati alla sua biografia nonché i suoi dipinti perduti divengono non solo materia o pretesto per altre creazioni artistiche ma modello d’ispirazione e strumento di esplicazione dell’arte pittorica stessa – basti pensare a quanto fatto da artisti del calibro di Leon Battista Alberti o Vasari. 3 Il fatto che il coreografo francese riprenda questo racconto mitico può dunque indicare la volontà da parte del ballerino di ancorare la disciplina coreica alla medesima tradizione pittorica oppure di voler costruire per l’arte di Tersicore un analogo exemplum. Questa ipotesi interpretativa sembra ulteriormente suffragata dalla captatio benevolentiae che Noverre rivolge ai milanesi nell’avviso che precede il programma. Le lodi che il coreografo tesse della città richiamando i celebri balli che sin dal Quattrocento vi sono stati allestiti, 4 così come l’affermazione di non apportare nessuna novità al genere pantomimo – qui già ampiamente conosciuto e rinomato – non rappresentano inizialmente che tentativi da parte del francese di conquistare il favore del pubblico. La conclusione della sua captatio nasconde, però, una torsione nel tono e nella direzione del discorso. Una volta riconosciuti i talenti del collega, infatti, Noverre afferma che i suoi scritti, per quanto utili, non possono però migliorare la danza perché « nell’arte nostra tutto è passeggero, e fugace, e le vivaci Pitture ispirano assai di più dell’elocuzione, e dell’eloquenza ». 5 Una simile dichiarazione – premessa a un balletto che come emergerà è costruito proprio su una successione e sovrapposizione di quadri – induce a leggere il ballo come la risposta, pratica e teorica al tempo stesso, alle obiezioni e alle tesi esposte per iscritto dal collega italiano e dai suoi sostenitori. Un’ulteriore sollecitazione verso questa ipotesi interpretativa è fornita poi dalla prima delle Due lettere scritte a diversi soggetti l’anno 1774. Il sostenitore di Angiolini accusa il coreografo francese di non aver saputo mantenere le promesse fatte nel programma di Apelle, e
una parte finale. A questa diversa distribuzione dell’azione, si aggiungono altre piccole differenze. Nelle Lettres, ad esempio, viene dato maggiore spazio al personaggio di Rossane e si riscontra un differente sviluppo della confessione d’amore tra Apelle e Campaspe. La struttura fondamentale del balletto rimane tuttavia invariata. Per quanto riguarda, invece, il Recueil del 1776, esso comprende il programma del balletto in cinque scene col titolo originario di Alexandre et Campaspe. 1 A partire dalla messa in scena milanese il nome di Alessandro viene sostituito “in prima posizione” da quello di Apelle per ricomparire, poi, solo nella seconda parte del titolo. Dal confronto del programma del 1773 con quello del 1774 non si evincono tuttavia mutamenti sostanziali nell’intreccio : è probabile dunque che Noverre abbia adattato il titolo originario – forse derivato dal balletto precedente di Alexandre – all’effettivo ruolo e importanza ricoperti dai due personaggi all’interno della vicenda. 2 Cfr. G. Plinio Secondo, Storia naturale, vol. v : Mineralogia e storia dell’arte, tr. it. a cura di A. Corso, R. Mugellesi, G. Rosati, Torino, Einaudi, 1988, l. xxxv, pp. 377-397. 3 Cfr. E. M. Moormann, W. Uitterhoeve, Miti e personaggi del mondo classico : dizionario di storia, letteratura, arte, musica, ed. it. a cura di E. Tetamo, Milano, Paravia Bruno Mondadori, 2004, pp. 89-92. 4 Per un approfondimento della danza a Milano nel Rinascimento cfr. Pontremoli, La Rocca, Il ballare lombardo, cit. ; A. Pontremoli, Intermedio spettacolare e danza teatrale a Milano fra Cinque e Seicento, Milano, Euresis, 2005. 5 Noverre, Apelle, e Campaspe, cit., p. 23.
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Campaspe perché, sebbene la storia facesse sperare azione ed emozione, la sua realizzazione scenica ha dato soltanto « una idea della danza ». 1 A prescindere dall’accezione negativa con cui l’angioliniano accompagna il suo giudizio, ciò che è interessante rilevare è il fatto che lo spettatore riconosca al balletto in questione una funzione paradigmatica rispetto non tanto allo stile noverriano, quanto alla danza come tale. Se si confronta il tema del balletto esposto brevemente nell’argomento con il modo in cui poi il coreografo lo declina nelle cinque scene che seguono, la ragione emerge forse più chiaramente. L’intreccio drammaturgico enucleato da Noverre ruota intorno alla storia d’amore che nasce tra il pittore Apelle e la sua modella, la bella Campaspe, compagna di Alessandro, e del perdono che l’imperatore concede ai due amanti, dando prova sia della sua generosità che della padronanza sulle sue passioni. 2 Come testimonia il sostenitore di Angiolini, un simile argomento lascerebbe presagire allo spettatore un’efficace pantomima delle passioni vissute dai protagonisti della vicenda. Il modo in cui però vengono costruite le scene successive mostra immediatamente come la mozione degli affetti non sia l’unico fine della pièce, ma faccia parte di un ingranaggio molto più complesso che mette in scena lo stesso fare artistico e che, al contempo, segna il superamento di un certo tipo di modello rappresentativo sviluppatosi proprio a immagine del quadro e della pittura. La costruzione “metacoreica” del balletto è evidente sin dal sottile gioco di sovrapposizione di piani, di rappresentazione dentro la rappresentazione che compone la prima scena. Lo studio di Apelle, adorno di statue, busti e pitture e sul cui fondo s’intravede una galleria di dipinti, viene trasformato in un grande quadro aperto in cui il pittore sistema i suoi allievi, travestiti da Amori, Zeffiri e Grazie, intorno al ritratto appena terminato di Alessandro. Una simile animazione dello studio è ulteriormente accentuata dal fatto che questi fanciulli non si limitano ad assumere pose statiche facendo da cornice al ritratto dell’imperatore, ma giocano con i colori, provano il lapis, offrono diversi modelli al loro pittore, ovvero mettono in atto tutte quelle operazioni che rendono possibile la realizzazione di un quadro. 3 Questa messa a fuoco del processo artistico diventa ancora più esplicita nel momento in cui Apelle si mette all’opera per tentare di ritrarre la bella Campaspe. Il pittore è così rapito dalla bellezza della sua modella da non riuscire a scegliere la situazione più adatta in cui ritrarla. Prima decide di dipingerla come la dea Pallade, poi come Flora. Ancora non soddisfatto, sistema i suoi allievi intorno alla modella in modo tale da raffigurare l’episodio in cui Diana viene colpita dal dardo di Amore. Pieno di entusiasmo corre alla tela per dipingere, ma anche questa volta fa degli schizzi e poi li cancella. Decide infine di rappresentarla nei panni di Venere, ma i lapis gli cadono di mano e preso dallo sconforto rompe la tavolozza rinunciando così alla possibilità di riuscire a ritrarre adeguatamente il suo oggetto d’amore. 4 Pur nella loro opposizione, non si può non constatare in entrambe le esemplificazioni del processo artistico appena illustrate un’origine “vacante” della rappresentazione. Nel primo caso si assiste a una tale proliferazione delle immagini, a un tale effetto da mise en abîme che la possibilità di uscire dalla grande macchina rappresentativa costruita da Noverre sembra preclusa : il principium dell’ingranaggio, l’oggetto imitato, scompare dietro la miriade di quadri tesi a raffigurarlo. Nel secondo caso, invece, la modella del dipinto – pur presente sulla scena – si mostra soltanto nella sua irraggiungibilità e irrapresentabilità : una volta liberata dal velo che le copre il volto, Campaspe è talmente bella da rendere vano ogni tentativo di raffigurarla in quanto infinitamente inferiore e lontano dal vero. Tuttavia è proprio di fronte a questo apparente scacco della rappresentazione, della sua efficacia e portata veritativa, che emerge sempre più chiaramente la differenza della danza.
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Due lettere scritte a diversi soggetti l’anno 1774, Napoli, s.d., ora in Il ballo pantomimo, cit., pp. 89-104, qui p. 91. 3 4 Cfr. Noverre, Apelle, e Campaspe, cit., p. 25. Cfr. ivi, p. 27. Cfr. ivi, pp. 29-32.
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Il gesto inaspettato con cui Alessandro perdona il tradimento dei due amanti e li unisce in matrimonio può essere, infatti, soggetto a diversi livelli di interpretazione. 1 Dal punto di vista narrativo la magnanimità dell’imperatore e la sua capacità di essere superiore a ogni passione portano allo scioglimento del dramma e alla vittoria della generosità su ogni sorta di egoismo. Sul piano metarappresentativo che è emerso, questo gesto corrisponde alla rinuncia sia del quadro commissionato al pittore sia della modella stessa. Significa l’abbandono di una forma di rappresentazione fissa ed esaustiva e insieme il riconoscimento del carattere proteiforme e irriducibile dell’oggetto imitato, ma soprattutto rende possibile il completo dispiegamento dell’alternativa coreica nel gran ballo che chiude l’opera. L’azione di Alessandro e la danza finale che ne consegue mettono in evidenza un movimento che – in modo duplice ma insieme complementare – ha saputo prendere progressivamente possesso del palcoscenico a scapito di ogni altro mezzo o modello rappresentativo sviluppato a immagine del quadro. Sin dalla seconda scena, ad esempio, le « vivaci pitture » 2 con cui l’imperatore cerca di ravvivare l’immaginazione dell’artista imprimono non soltanto una graduale accelerazione e varietà allo spettacolo, ma mostrano anche la sua irriducibilità a una semplice serie di tableaux vivants. Anzitutto Alessandro invita Campaspe a passeggiare, ad assumere diversi atteggiamenti ed espressioni, formando insieme a lui un « Pas de deux pieno d’azione » ; 3 poi ordina alle altre donne di unirsi alle danze per far « mostra de’ loro talenti » 4 ed eseguire insieme alla modella diversi balli caratteristici. Una scena più tardi 5 – in modo speculare e conseguente a quella precedente – è, invece, il pittore stesso che tenta di accrescere l’animazione nei suoi quadri per tentare di avvicinare la bellezza di Campaspe : passando dal modello di Pallade a quello di Flora, da quello di Diana a quello di Venere egli aggiunge mano a mano sempre più movimento sia negli atteggiamenti della donna che dei personaggi che le ruotano intorno per cercare di adeguarsi alla bellezza e alla « folla di sentimenti » 6 espressi poc’anzi dall’amata e dalle sue compagne dal vivo. In un caso come nell’altro – ovvero nella raffigurazione del movimento della vita, prima, e in quello dell’arte teso a imitarlo poi – si palesa l’insufficienza di qualsiasi rappresentazione statica e univoca, anzi più propriamente la sua inevitabile infedeltà verso ogni soggetto di cui voglia essere specchio : nessun tratto, colore o gesto sembra capace da solo di esprimere la complessità e il divenire del suo modello. Al tempo stesso, però, nelle medesime scene si dischiude lentamente il diverso potenziale rappresentativo offerto nella danza : la sua natura mobile, eveniente, attiva sembra essere l’unica capace di sintonizzarsi adeguatamente con il ritmo dell’agire e dell’essere umano. L’analisi del ruolo rivestito dall’amore all’interno dello spettacolo aiuterà ora ad approfondire ulteriormente la questione facendo emergere più nitidamente i caratteri distintivi della disciplina coreica rispetto al modello rappresentativo esemplificato dal quadro.
3. 2. Dal tableau al ballo. I volti di amore La produzione coreica noverriana mette in scena i diversi colori e sfumature dell’animo umano e, in particolare, gli effetti dei dardi di Cupido. Come scrive Flavia Pappacena : « L’amore rimane sempre e comunque il tema dominante, il perno della maggioranza dei balletti. Esso è presentato come sentimento assoluto ed è espresso in modo enfatico, spesso con strazianti toni melodrammatici, ma anche con sottile ironia o malizia ». 7 Proseguendo lungo la linea metarappresentativa finora tratteggiata, una lettura del sentimento amoroso
1
2 Cfr. ivi, p. 33. Ivi, p. 29. 4 Ivi. Ivi. 5 6 Cfr. ivi, pp. 29-32. Ivi, p. 29. 7 F. Pappacena, Introduzione, in Noverre, Programmi dei balletti, cit., pp. 5-19, qui pp. 13-14. 3
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come puro espediente narrativo per un’efficace pantomima delle passioni umane rischia tuttavia di risultare alquanto riduttiva. Tanto più che il balletto viene criticato dal pubblico proprio per una certa “freddezza”. Scrive a tal riguardo Pietro Verri nella sua Lettre à Monsieur Noverre : « Très peu de sentiment entroit dans Alexandre, il y avoit une belle suite de Tableaux, et on l’a goutée ; mais dans ce ballet tout elegant, et decoré on n’a pas trouvé la grande maniere, ni les passions Theatrales qu’on s’attendoit à voir ». 1 L’amore va piuttosto inteso come il motore dell’intero spettacolo : assumendo di volta in volta sembianze e caratteri diversi, esso sembra agire da causa agente e finale di ogni processo rappresentativo messo in scena da Noverre. Anzitutto il sentimento amoroso funziona da fonte d’ispirazione per la raffigurazione di Campaspe per mezzo del modello che muove la commissione dell’opera. Quando l’imperatore chiede al pittore di vedere uno dei suoi ritratti femminili, infatti, Apelle gli mostra quello di Venere, la dea dell’amore. Scrive il coreografo : « Alessandro incantato dalla bellezza del quadro, dall’espressione delle figure, dall’esattezza del disegno, e dalle tinte armoniose, che ne formano il colorito, si risolve d’ordinare il ritratto di Campaspe ». 2 Se questo mirabile dipinto della dea ciprigna – raffigurata, tra l’altro, mentre sceglie una freccia con cui colpire Adone – è l’incipit da cui muove il progetto artistico, il sentimento amoroso che lega l’artista alla sua modella rappresenta poi la tensione indispensabile per svolgerlo. È solo in forza dell’« amore, che Apelle risente per Campaspe » 3 che il pittore viene guidato nel suo lavoro di creazione : egli cerca di perfezionare continuamente l’opera perché ispirato dal sentimento che prova per la sua modella, perché mosso dal desiderio di avvicinare sempre di più la bellezza della sua amata. L’evoluzione del soggetto scelto dall’artista per il ritratto fornisce un’ulteriore prova di questo ruolo decisivo svolto dall’amore all’interno dello spettacolo. L’idea iniziale di raffigurare l’amata nei panni di Pallade viene subito scartata dal pittore a favore di un modello femminile più attraente, ben rappresentato dalla figura di Flora. La successiva opzione dell’artista per il personaggio di Diana spiega però la ragione dell’inadeguatezza anche di questo ennesimo soggetto. Ciò che caratterizza il terzo tableau rispetto al secondo è il fatto che la dea della caccia sia ritratta non nelle sue abituali occupazioni, bensì mentre cade vittima di una terribile passione per Endimione a causa di un dardo d’amore. L’evidente proiezione autobiografica da parte di Apelle motiva la scelta, ma al tempo stesso ne determina lo scarto quasi immediato. Pur alludendo, infatti, esplicitamente al turbamento d’amore di cui il pittore è vittima, esso inverte i ruoli della sua esperienza facendo della donna la preda di Cupido. L’unica alternativa possibile per l’artista è quella di ritrarre Campaspe nelle vesti di Venere stessa, « la Madre degli Amori », 4 facendo così coincidere il soggetto finale con quello da cui è mossa l’intera impresa : la figura ciprigna che ha colpito Alessandro persuadendolo a commissionare il ritratto. Questo sviluppo circolare del processo rappresentativo se, da un lato, conferma l’ipotesi interpretativa proposta – l’amore quale inizio e fine dell’intera macchina rappresentativa – dall’altro sigla il fallimento stesso del progetto pittorico. Di fronte a Campaspe – ovvero a un reale oggetto d’amore e non a una sua raffigurazione mitica – il quadro si dimostra doppiamente insufficiente. Anzitutto tanto le fattezze ideali della divinità quanto ogni sorta di espediente figurativo si mostrano inadeguati a imitare la bellezza della donna. Infine lo spazio rappresentativo offerto dal dipinto risulta incapace sia di esprimere che di contenere
1 P. Verri, Lettre à Monsieur Noverre, in Rosini, Pietro Verri, cit., qui p. 290 (« Pochissimo sentimento entrava in Alessandro, c’era una bella successione di quadri e la si è gustata ; ma in questo balletto tutto elegante e decorato non si è trovata la grande maniera né le passioni teatrali che si attendevano di vedere »). 2 Noverre, Apelle, e Campaspe, cit., p. 28. 3 Ivi, p. 29. L’ispirazione creativa per opera dell’amore è ribadita più di una volta anche a p. 31. 4 Ivi, p. 29.
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la passione di Apelle. Il gesto con cui l’artista rompe la tavolozza non sigla soltanto la fine di un esperimento pittorico, ma spezza anche la relazione artistica che fino a quel momento ha legato e, al tempo stesso, tenuto distante l’amante dalla sua amata. La confessione d’amore che Apelle rivolge a Campaspe rappresenta la diretta conseguenza della rottura di questo piano rappresentativo. Dal punto di vista narrativo, essa segna il passaggio dal piano dell’arte a quello della realtà e il conseguente approssimarsi dello scioglimento del dramma ; dal punto di vista metarappresentativo, invece, l’esplicitazione da parte dell’artista dei propri sentimenti vanifica sia il progetto pittorico di Alessandro – ovvero quello « d’esaurire tutti i tesori dell’arte per riprodurre con una fedele imitazione un oggetto, che gli è caro » 1 – sia ogni altra costruzione scenico-drammaturgica sviluppata sulla falsariga del quadro. La complessa scatola cinese – ovvero la sovrapposizione di piani che si è visto comporre la struttura dell’intero spettacolo – si scioglie infatti definitivamente una volta che Rossane assiste di nascosto allo scambio di effusioni dei due amanti e corre a riferirlo ad Alessandro. 2 La semplificazione della macchina rappresentativa che ne consegue non corrisponde tuttavia a un’ammissione di sfiducia nelle potenzialità espressive dell’arte né tanto meno a un suo abbandono. Parallelamente alla trasformazione dell’amore che muove l’intero processo artistico, semplicemente muta il modulo rappresentativo utilizzato. Se prima, infatti, l’amore di Alessandro – tanto per se stesso che per Campaspe – poteva trovare un’adeguata espressione e soddisfazione in un ritratto, ora il desiderio reciproco dei due amanti non può accontentarsi di una singola immagine. Esso ha bisogno di una forma d’arte capace di rifletterne la diversa natura : come lascia intendere la donna ricambiando l’affetto del suo amato, è da preferire « la libertà alla grandezza » 3 e « i piaceri nascono dall’eguaglianza ». 4 Il ballo finale a cui ogni interprete partecipa attivamente e indistintamente offre la chiave per capire questo slittamento rappresentativo. Nell’ininterrotta sequela di immagini e movimenti, di cui ogni ballerino è insieme instancabile artefice e opera, emergono nitidamente i caratteri che contraddistinguono la rappresentazione coreica rispetto a quella figurativa. Anzitutto, analogamente alla tensione amorosa che stringe i due giovani, la danza di gruppo che di norma chiude il balletto pantomimo esibisce un carattere costituzionalmente desiderante. Mai paga di alcuna rappresentazione in sé conclusa, ma destinata per esprimersi a rinnovare continuamente la sua immagine, l’arte coreica che si esplicita nel ballo finale sembra inseguire infinitamente e senza sosta l’oggetto della sua mimesi. In secondo luogo la danza, come l’amore, non è qualcosa che si possa possedere al pari di un oggetto o un quadro, ma si configura come un’esperienza : unica e irripetibile. Il suo carattere eveniente fa sì che essa si offra alla condivisione piuttosto che a un processo fruitivo unilaterale. Non a caso, forse, la partecipazione di Alessandro alla gran festa finale è descritta come un « atto di beneficenza [...] una nuova vittoria, ch’egli aggiunge ai suoi trionfi, e che penetra tutti quelli, che lo circondano d’amore, di rispetto, e d’ammirazione ». 5 Al termine di questa lettura del dispositivo amoroso all’interno dello spettacolo, è possibile comprendere la sintonia e al contempo la distanza dell’interpretazione qui avanzata
1
Ibidem. Cfr. ivi, p. 32. È interessante notare come l’ingresso furtivo di Rossane nello studio di Apelle – e la successiva descrizione della reazione della donna di fronte alla reciproca confessione dei due amanti – non trovi spazio nel testo del programma, ma in una sua nota inserita alla fine della iii scena. Ritornando a quanto detto sulla capacità del programma di riflettere la struttura del ballo (cfr. supra, cap. iii, § 2.3), questa scelta compositiva da parte di Noverre sembra restituire e sottolineare lo sdoppiamento del piano rappresentativo su cui la scena stessa era strutturata. Tuttavia bisogna ricordare che nella versione del programma contenuta all’interno delle Lettres questo asterisco non compare. In virtù, forse, anche della maggiore importanza ricoperta dal personaggio di Rossane all’interno della pièce, la sua azione trova infatti largo spazio all’interno del testo. 3 4 5 Noverre, Apelle, e Campaspe, cit., p. 32. Ibidem. Ivi, p. 34. 2
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rispetto a quella data da Susan Leigh Foster e divenuta ben presto un termine di confronto ineludibile per ogni nuova indagine sul balletto noverriano. La studiosa statunitense non precisa la versione del programma su cui basa la lettura. Poiché però la sua riflessione ruota intorno alla messa in scena parigina del 1776 è presumibile che si sia basata sulla versione approntata dal coreografo per quell’occasione 2 oppure alla sua trascrizione in una delle edizioni delle lettere noverriane. In un caso come nell’altro l’essenziale uniformità della struttura drammaturgica riscontrabile tra le diverse redazioni del programma giustifica il confronto, tanto più che esso non si soffermerà sulla discussione di aspetti specifici delle singole messe in scena, ma sull’impianto fondamentale dell’opera. Secondo la Foster la scelta di Noverre di affidare ad Apelle, e Campaspe il suo debutto all’Opéra di Parigi è dettata dal fatto che il coreografo vuole evitare qualsiasi aggravamento delle tensioni presenti all’interno del teatro al momento della sua nomina. Il programma del ballo, infatti, si sviluppava « intorno a un tema molto più leggero di molti altri suoi balletti, elideva ogni possibile riferimento allegorico alle lotte tra ballerini e amministratori, e si concentrava sulla classica preoccupazione dell’artista verso l’oggetto dell’arte ». 3 Al di là delle ragioni che spinsero il coreografo a mettere in scena questo balletto, ciò che è particolarmente interessante al fine del confronto che ci si è riproposti è la lettura che la studiosa dà di questo tema. La Foster sostiene infatti che – a differenza del ruolo attivo sia dello scultore che dell’opera rintracciabile nel celebre Pygmalion di Marie Sallé del 1734 4 – il balletto di Noverre parla « dell’incapacità dell’artista e della passività del suo soggetto ». 5 Così motiva la sua tesi : 1
Sia Apelle che Campaspe lottano esteriormente ed interiormente contro le difficoltà del processo creativo. Ma sono tenuti al loro posto dal contratto sociale e dal contratto artistico che hanno stabilito. Tuttavia, questa impasse non è priva di attrattiva erotica per i personaggi, sia di lui che di lei. Se Campaspe, allo sguardo di Apelle, rimane impotente all’interno della sfera rappresentativa del progetto artistico, Apelle, come lo vede Campaspe, resta ugualmente impotente nei suoi vani sforzi di ritrarre la bellezza. L’impotenza e la vulnerabilità dei due personaggi alimentano il fuoco del reciproco sentimento amoroso. Il desiderio sempre crescente culmina nel finale gesto disperato d’Apelle che si accascia contro la colonna. Il solo gesto esplosivo di Campaspe che corre da Apelle, si legge non tanto come una decisione consapevole quanto piuttosto come un atto incontrollabile di compassione. La genuinità di queste due azioni scioglie i personaggi dai loro obblighi sociali ed artistici. Il movimento, concettualizzato come linguaggio universale ed originario, si assume qui la capacità di trasmettere un messaggio più profondo e più convincente di qualsiasi protocollo sociale chiamato in causa. Pittore e soggetto esprimono così un sentimento reciproco in un mondo momentaneamente sciolto dalle costrizioni sociali. 6
Pur nella distanza che separa la presente lettura da quella della Foster – caratterizzata da una particolare attenzione ai rapporti di genere e alle pratiche sociali di controllo del corpo – è evidente la comune riflessione sulle difficoltà del processo artistico messe in scena da Noverre. Il vero punto di divergenza tra le due interpretazioni si affaccia al momento di valutare l’esito di un simile progetto. La rottura del piano rappresentativo che lega l’artista alla sua modella viene, infatti, letto dalla studiosa come il completo fallimento del processo creativo. Il movimento con cui i due amanti si uniscono è interpretato come lo scioglimento di ogni obbligo artistico e sociale. In esso non viene rintracciata 1
Cfr. Foster, Coreografia e narrazione, cit., pp. 109-113. Cfr. J.G. Noverre, Apelles et Campaspe, ou la Générosité d’Alexandre, Paris, Delormel, 1776. 3 Foster, C oreografia e narrazione, cit., p. 110. 4 Cfr. Lettre à M. ***, « Mercure de France », avril 1734, 770-773 (rist. anast. Mercure de France, t. xxvi, janvier-juin 1734, Genève, Slatkine Reprints, 1969, pp. 211-212), nonché l’interpretazione che di questo ballo ha dato la studiosa : Foster, Coreografia e narrazione, cit., pp. 12-26. Cfr. inoltre infra, cap. iii, § 4. 5 6 Foster, Coreografia e narrazione, cit., p. 112. Ibidem. 2
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la possibilità di un diverso modello rappresentativo rispetto a quelli messi in atto dalle altre arti e dai meccanismi sociali : il linguaggio universale e originario su cui la danza si costruisce sembra decretare soltanto lo scacco finale della rappresentazione riportando a un utopico stadio naturale. Rispetto a questa ipotesi interpretativa la presente lettura cerca di salvaguardare il piano ri-presentativo che inevitabilmente caratterizza il gesto artistico : il ballo finale che conclude l’opera permette di spiegarne le ragioni. Sostanzialmente esso raffigura – attraverso un ennesimo effetto da mise en abîme – un ballo sociale. Secondo quanto sostiene la Kuzmick Hansell, 1 sia il palcoscenico di Torino sia quello di Milano continuano a proporre il ballo nobile – evento spettacolare e festivo al tempo stesso – quale parte conclusiva del melodramma fino agli anni Novanta del Settecento. 2 Inoltre la pratica coreica collettiva prosegue nell’offrire al ballo teatrale passi e formule coreografiche : le contraddanze, i minuetti e le ciaccone attestate dalla programmazione di alcuni dei maggiori teatri italiani piuttosto che dai manoscritti di maestri di ballo e, al tempo stesso, impresari come Gaetano Grossatesta lo dimostrano. 3 Tuttavia questo inglobamento da parte della scena drammatica e professionistica di modalità compositivo-coreiche ad essa estranee non si può ridurre a una semplice contaminazione o permanenza di stili, a maggior ragione in un lavoro contraddistinto da una spiccata vena metarappresentativa e siglato da Noverre che nel suo soggiorno milanese si oppone al terzo ballo alla fine dell’opera in musica. 4 Più approfonditamente si può vedere in questa operazione da parte del coreografo francese un effetto del processo di spettacolarizzazione che caratterizza tutto il secolo e, al tempo stesso, un’ulteriore prova dello slittamento del paradigma rappresentativo. Da una parte il palcoscenico tende a riflettere e teatralizzare ogni aspetto della vita all’unico scopo di compiacere il pubblico ; come afferma polemicamente Rousseau : « Quanto al genere dello spettacolo, è necessariamente il piacere che esso dà, e non il fatto cha sia utile o meno, a determinarlo. [...] Ecco da dove nasce la diversità degli spettacoli, secondo i diversi gusti delle nazioni. Un popolo intrepido, aspro e crudele, vuole sagre sanguinarie e rischiose, dove brillino il valore e il sangue freddo. [...] Un popolo galante vuole amore e cortesia. Un popolo scherzoso umorismo e comicità ». 5 Dall’altra in questo meccanismo di inglobamento dello spettatore nella performance si può leggere una versione coreica di quel processo di assorbimento tra opera e fruitore a cui Michael Fried – a partire dalle riflessioni estetiche di Diderot sulla pittura 6 – riconduce parte della rappresentazione figurativa sei-settecentesca e che Michele Bertolini spiega efficacemente in questo modo :
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Cfr. Kuzmick Hansell, Opera and Ballet at the Regio Ducal Teatro of Milan, cit., pp. 593-598. Per un approfondimento del ballo sociale a Milano nel Settecento cfr. R. Fabris, Danza e danzatori sulla scena milanese, in La cultura della rappresentazione nella Milano del Settecento, cit., pp. 761-781. Per uno sguardo sulla danza teatrale nella città meneghina cfr. invece A. Pontremoli, La danza teatrale a Milano nel Settecento, in L’amabil rito : società e cultura nella Milano di Parini, a cura di G. Barbarisi, C. Capra, F. Degrada, F. Mazzocca, « Quaderni di Acme », vol. xlv, Bologna, Cisalpino, 2000, pp. 835-858. 3 Cfr. ad esempio le contraddanze o ciaccone testimoniate – con relative partiture musicali – all’interno de Raccolta de’ balli fatti nelle opere del Real Teatro di Torino con la spiegazione dei medesimi e gli nomi dei compositori (1748 al 1762), manoscritto in tre volumi conservato presso il Conservatorio di S. Cecilia a Roma : un indice del contenuto e maggiori dettagli si trovano in L. Tozzi, Musica e ballo al Regio di Torino (1748-1762), « La danza italiana », ii (1985), pp. 5-21. Oppure si veda i minuetti e le contraddanze utilizzati come balli finali al San Carlo di Napoli e attestati in G. Grossatesta, Balletti. In occasione delle felicissime Nozze di Sua Eccellenza La Signora Loredana Duodo con Sua Eccellenza il Signor Antonio Grimani composti da Gaetano Grossatesta Maestro di Ballo in Venezia e dallo stesso Presentati all’Eccellentissimo Sposo, a cura di G. Giordano, Lucca, lim, 2005, in particolare p. 93. 4 Cfr. Kuzmick Hansell, Opera and Ballet at the Regio Ducal Teatro of Milan, cit., p. 594. 5 J.-J. Rousseau, J.-J. Rousseau citoyen de Genève, a M. D’Alembert, [...] Sur son Article Genève [...], Amsterdam, Marc Michel Rey, 1758, ed. it. a cura di F.W. Lupi, Lettera sugli Spettacoli, Palermo, Aesthetica, 1995. pp. 40-41. 6 Cfr. M. Fried, Absorbtion and Theatricality. Painting and Beholder in the Age of Diderot, Chicago, The University of Chicago Press, 1988. 2
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Una doppia polarità, attiva e passiva, attraversa la dinamica psicologica dell’assorbimento : da una parte uno sprofondamento quasi automatico del personaggio nell’oggetto della propria attenzione, una concentrazione che sfiora l’oubli de soi, dall’altro un ritorno del soggetto su se stesso, una dimensione consapevole e riflessiva di attività e creazione, di riscoperta produttiva della propria identità. L’attenzione richiesta dall’assorbimento non è incompatibile con una tematica cara al pensiero francese ancora nel Settecento, quella del divertissement, che si manifesta in molti quadri domestici di Chardin : quanto più ci si perde nell’oggetto della propria attenzione, arrivando all’oblio di sé (sonno, concentrazione estrema), a uno stato meccanico di passività e ripetizione, tanto più si ritrovano le strutture attive e profonde del soggetto. 1
La discussione che scaturisce intorno al balletto di Apelle, e Campaspe in seguito alla sua messa in scena milanese permette di approfondire e definire ulteriormente questo stretto rapporto tra scena e realtà. Dopo la stretta analogia rinvenuta tra la tensione amorosa e l’arte coreica, l’approfondimento del carattere infinitamente processuale della danza contribuisce, infatti, a evidenziare l’affinità che lega il gesto di Tersicore alla natura di cui si offre come mimesi e, al tempo stesso, aiuta a spiegare come questa vicinanza non cancelli tuttavia la distanza tra i due termini, bensì la intrecci secondo un diverso paradigma rappresentativo. 3. 3. Opera come processo La Gazzetta di Milano del 3 agosto 1774 riporta con toni entusiastici la messa in scena di Apelle, e Campaspe di qualche giorno prima :
Sabato scorso sonosi incominciate su questo Regio Ducal Teatro le giocose Rappresentazioni, che dureranno fino a tutto il prossimo Ottobre. Il primo Dramma, intitolato La Pescatrice, ha incontrato il pubblico aggradimento, sì per la musica del celebre Sig. Piccinni, quanto per l’abilità de’ Cantanti. Il primo Ballo composto, e diretto dal famoso Sig. Noverre sotto il titolo di Apelle, e Campaspe, viene eseguito con insolita magnificenza d’abiti, e di decorazioni. Tale, e tanto è stato l’applauso, che si è meritato questa pantomimica Azione, che il Sig. de Noverre ha dovuto ad istanza di Sua Altezza Reale il Serenissimo Arciduca Governatore, e di tutto il Pubblico venir sulla Scena per ricevervi gli elogi della Corte, della Nobiltà, e dell’Uditorio concorso in gran numero a tale Spettacolo. 2
Sulla scia, probabilmente, di questo successo ottenuto dal ballo a teatro, il programma di Noverre diviene oggetto di fervente discussione nei mesi successivi la sua diffusione. Al pari di altri casi precedentemente richiamati, 3 il piano dell’opera viene sottoposto da anonimi spettatori a una verifica tesa a dimostrarne o meno la corrispondenza col ballo vero e proprio. Da un simile esame emergono appunti irrilevanti e obiezioni pretestuose, ma si offrono anche ulteriori testimonianze a conferma del carattere paradigmatico e dell’insospettata portata significativa del balletto noverriano. A prescindere, infatti, dal favore o meno riconosciuto al ballo in questione, gli spettatori motivano molto spesso il loro giudizio di gusto andando a confrontarsi proprio su quei caratteri che qualificano specificatamente l’arte coreica rispetto a quella della pittura. Nella prima delle Due lettere scritte a diversi soggetti l’anno 1774, ad esempio, il sostenitore di Angiolini accusa il coreografo francese di essersi limitato nel suo balletto a costruire « diversi gruppi di figure, ma siccome questi gruppi, comuni in ogni galleria, non hanno né anche il pregio della novità, terminano per annoiare lo spettatore ; infatti non può altrimenti accadere. I gruppi veramenti graziosi sono quelli soltanto che nascono dall’azione, non quelli
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Bertolini, Un’archeologia della modernità in pittura, cit., p. 123. « La Gazzetta di Milano », xxxi, Milano, Giuseppe Richino Malatesta, 3 agosto 1774. 3 Cfr. supra, cap. iii, § 2.2. 2
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che la interrompono ». A distanza di due anni, un anonimo ammiratore di Noverre ritorna nuovamente sulla questione mostrando come la successione di quadri tanto biasimata dal suo interlocutore, sebbene non costituisca una novità in assoluto, porti sicuramente innovazione sul palcoscenico. Inoltre lo spettatore aggiunge che – a ben vedere – anche il quadro stesso non è originale. Ogni dipinto si propone infatti inevitabilmente come l’imitazione, per quanto fedelissima, di qualcos’altro : sia che si tratti di un soggetto storico sia che risalga a un racconto mitologico. Così come gli stessi balletti di Angiolini tanto elogiati dal suo sostenitore – su Didone e Semiramide – non fanno che riprendere opere di Metastasio piuttosto che di Voltaire. 2 La problematica fondamentale sottesa al dibattito che anima i due milanesi è quella relativa al paradigma dell’arte come mimesi della natura. La critica che l’angioliniano rivolge alla composizione noverriana tacciandola di banalità viene, infatti, controbattuta facendo forza sul principio fondamentale che regola l’estetica settecentesca : ogni opera deve avere come suo oggetto soltanto la natura o qualsiasi altro prodotto – artistico o meno – creato a partire da essa. Conseguentemente il pregio di una creazione artistica non può essere valutato in merito alla novità o meno offerta dal suo soggetto, quanto dal modo in cui esso viene presentato. Proseguendo nell’analisi delle altre osservazioni mosse dagli angioliniani e soprattutto delle risposte elaborate dai sostenitori del coreografo francese, si può vedere come proprio la modalità rappresentativa che contraddistingue la disciplina coreica segni non soltanto la sua differenza dall’arte figurativa, ma dia anche ragione di un’affinità, per così dire, esclusiva che la lega all’oggetto di cui si offre come imitazione : la natura. Uno dei decisivi motivi di scontro tra angioliniani e noverriani consta nel difficile rapporto tra ballo e azione. 3 Scrive l’ammiratore del coreografo italiano a proposito di Apelle, e Campaspe : « Il programma promette tre quarti del tempo in azione, un altro quarto nel ballo. Tutto all’opposto ; trovate tre quarti occupati dal ballo, un quarto appena dall’azione. Quale interesse può mai eccitare nell’animo dello spettatore un’azione tanto male divisa ? Pare che Noverre si compiaccia di sacrificare sempre l’azione per formare degli episodi ». 4 La critica mossa a Noverre è di lasciare troppo spazio alla danza sacrificando così lo svolgimento del dramma a cui il programma – per converso – si dedica profusamente. A questa obiezione è evidentemente sotteso il presupposto di una cesura netta tra rappresentazione drammatica ed esibizione coreica : la danza viene ritenuta incapace di alcuna portata significativa, essa può ricoprire soltanto una mera funzione ornamentale o ludica. Il rimprovero che nelle Memorie il noverriano muove al suo antagonista è quello di misconoscere la stretta analogia che lega, al contrario, proprio azione e danza. L’obiettore sottolinea come l’angioliniano incorra in un doppio fraintendimento, ovvero quello di scambiare sia il progresso nell’animazione delle scene come una serie di episodi che distolgono dallo svolgimento del dramma sia i diversi gruppi che scaturiscono alla fine di simili movimenti come delle interruzioni. 5 La ragione di una simile obiezione muove dal riconoscimento da parte del noverriano di una capacità agente di primo piano del gesto nelle vicende di cui il balletto vuole essere rappresentazione. Come aveva, infatti, già eccepito un altro anonimo sostenitore del coreografo francese in risposta alla medesima lettera scagliata dall’angioliniano : 1
Non avete osservato come in un momento, con un semplice gesto, senza che le persone cangiassero di luogo, era mutata la figura del gruppo, come in quello di Venere ed altri ? Avete voi veduto questo altre volte in qualche galleria, o altrove ? Accordate vi priego di buon animo che i gruppi del ballo di
1
Due lettere scritte a diversi soggetti, cit., p. 90. Cfr. Memorie per servire alla storia degli spettacoli, cit., p. 146. 3 Si approfondirà ulteriormente questo concetto infra, cap. iii, § 4. 4 Due lettere scritte a diversi soggetti, cit., p. 90. 5 Cfr. Memorie per servire alla storia degli spettacoli, cit., p. 146. 2
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cui parliamo, condecorando e non interponendo mai l’azione, siano que’ gruppi veramente graziosi che voi definite assai bene esser quelli che nascono dall’azione medesima. 1
Gli ammiratori di Noverre non considerano alla stregua di un inutile orpello il movimento che costituisce variamente il tessuto del balletto perché vi riconoscono il filo stesso dell’azione e, insieme, la differenza precipua della danza rispetto alla rappresentazione figurativa. La disciplina coreica è contraddistinta, infatti, dalla capacità non tanto di presentare una successione di quadri, quanto di riuscire a mostrarne il legame necessario : come le azioni dell’uomo determinano il formarsi e lo sciogliersi di determinate vicende e situazioni, parimenti il movimento del danzatore è in grado di segnare il passaggio da una composizione figurativa all’altra. 2 Quest’analogia tra danza e azione è resa ancora più stretta dal fatto che lo stesso movimento con cui il ballerino si esprime rappresenta lo strumento fondamentale con cui l’uomo agisce e comunica : il gesto. Traendo dalla natura non soltanto l’oggetto della propria imitazione ma anche il suo mezzo specifico, la danza segna dunque una distanza incolmabile rispetto alla pittura. Una distanza che – come illustra magistralmente Noverre già nel 1760 – avvicina di contro la disciplina coreica alla realtà :
Un beau Tableau n’est qu’une copie de la nature ; un beau Ballet est la nature même, embellie de tous les charmes de l’Art. Si des simples images m’entraînent à l’illusion ; si la magie de la Peinture me transporte ; si je suis attendri à la vue d’un Tableau ; si mon âme séduite, est vivement affectée par le prestige ; si les couleurs & les pinceaux dans les mains du Peintre habile, se jouent de mes sens au point de me montrer la nature, da la faire parler, de l’entendre & de lui répondre ; quelle sera ma sensibilité ! Que deviendrai-je, & quelle sensation n’éprouverai-je pas à la vue d’une représentation encore plus vraie, d’une action rendue par mes semblables ! Quel empire n’auront pas sur mon imagination des Tableaux vivants & variés ! Rien n’intéresse si sort l’humanité que l’humanité même. 3
La danza coincide con la natura senza annullarsi in essa. Grazie al suo mezzo espressivo specifico, la disciplina coreica è capace di rispecchiare tanto la forma quanto l’attività del suo modello : il gesto si espone continuamente nello spazio e nel tempo senza limitarsi a
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Due lettere scritte a diversi soggetti, cit., p. 97. Scrive lo stesso Noverre : « Chaque Ballet devrait, à mon sens offrir une Scène qui enchaînât & qui liât intimement le premier Acte avec le second, le second avec le troisième, &c. [...] Par ce moyen, plus de vide, plus d’inutilité, plus de longuer & plus de froid dans la Danse de l’Opéra ; tout serait saillant & animé ; tout marcherait au but & de concert ; tout réduirait parce que tout serait spirituel & paroîtrait dans un jour plus avantageux ; tout enfin serait illusion & deviendrait intéressant, parce que tout serait d’accord, et que chaque partie tenant la place qu’elle doit occuper naturellement, s’entr’aiderait et se prêterait réciproquement des forces » (Noverre, Lettres sur la danse, cit., pp. 133-134 ; « Ogni balletto dovrebbe, a mio avviso, offrire una scena che incateni e leghi intimamente il primo atto al secondo, il secondo al terzo e via di seguito. [...] Con questo sistema non ci sarebbero più vuoti, cose inutili e lunghezze insopportabili oltre a raffreddamenti nella danza dell’Opéra ; tutto sarebbe essenziale e vivo ; tutto camminerebbe di concerto verso il finale e tutto sarebbe motivo di incanto per lo spettatore : tutto infine sarebbe illusione e diventerebbe interessante perché ogni cosa giocherebbe in accordo con l’altra » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 48 ; questa edizione italiana manca di tradurre le ultime parole del paragrafo francese che recitano « e perché ogni parte prendendo il posto che deve occupare naturalmente si aiuterebbe e si presterebbe reciprocamente delle forze »). Questo appello alla capacità espressiva del movimento è ribadito da Noverre anche nel discorso sull’insegnamento e l’apprendimento della danza : per il coreografo non conta tanto la tecnica o il virtuosismo fini a se stessi quanto la capacità da parte di qualsiasi gesto di mostrare l’intenzione o il sentimento che naturalmente lo muove (cfr. infra, cap. iii, § 4, in particolarep. 156 nota 1). 3 Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., pp. 52-53 (« Un bel quadro non è che una copia della natura ; un bel balletto è la natura stessa, abbellita dalle magie dell’arte. Se le semplici immagini mi trascinano all’illusione ; se il mio animo, sedotto, è vivamente colpito dal loro fascino, se i colori e i pennelli, in mano al pittore abile, si prendono giuoco dei miei sensi al punto di mostrarmi la natura, di farla parlare, di capirla e di risponderle ; quale sarà la mia sensibilità, che cosa diverrò e quale sensazione non proverò alla vista di una rappresentazione ancora più vera, di un’azione resa dai miei simili ! Quale dominio non avranno sulla mia immaginazione i quadri viventi e variati ! Nulla interessa così fortemente l’umanità come l’umanità stessa », Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 32). 2
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trovare sistemazione all’interno di essi, bensì dando una continua e nuova foggia al reale stesso che vuole riflettere. In questo suo costituzionale e ininterrotto fare segno si ritrova dunque la cifra essenziale della danza e, insieme, ciò che essa ha da dire alle altre arti. Ancora più approfonditamente vi si può rintracciare lo scarto che questa disciplina determina rispetto a un modello di rappresentazione riassumibile non solo nella catalogazione e sistemazione di segni, ma anche nel rapporto univoco ed esaustivo con l’oggetto imitato. In quanto « rappresentativa di azione successiva » 1 – come la definisce lo stesso Angiolini – l’arte tersicorea è capace, infatti, di esprimere sia quell’ordinata varietà in cui consta la natura sia il suo carattere diveniente, propriamente creativo. Ciò che occorre ancora mostrare è come questo processo coinvolga tanto l’oggetto quanto il soggetto della mimesi. L’analisi di una celebre messa in scena del mito di Pigmalione – divenuta ben presto uno dei manifesti del nuovo modo di “danzare” settecentesco – ne offre l’opportunità, ma soprattutto permette di inserire nuovamente la danza all’interno del più ampio ripensamento della rappresentazione, in particolare artistica, che caratterizza il secolo dei Lumi.
4. Arte della danza e danza dell’arte : il mito di Pigmalione
Il mito di Pigmalione conosce nel Settecento una delle sue stagioni di massima fortuna, divenendo luogo di interrogazione e intreccio privilegiato tra le arti e la filosofia del tempo. 2 La densità e la forza semantica sprigionate dal mito e dalle sue diverse rielaborazioni artistiche – tanto letterarie quanto figurative – rappresentano sia un prezioso strumento di provocazione e sovversione della celebre formula cartesiana del corpo come semplice “statua”, pura res extensa soggetta alla direzione del pensiero, sia una metafora feconda per analizzare e descrivere il processo di creazione e fruizione artistica – e, in particolare, il suo carattere personale e produttivo – oggetto di indagine della nascente disciplina estetica. 3 Come scrive Jean Starobinski :
Se i Pigmalioni abbondano nel Settecento, è perché non solo questo secolo pone il problema dell’animazione della materia, ma anche perché i suoi artisti sognano una perfezione imitativa la cui ricompensa sarebbe un abbraccio affettuoso, concesso dall’opera diventata viva. Non è senza importanza che il solo scritto di soggetto mitico dovuto a J.-J. Rousseau sia proprio un Pygmalion, nel quale il narcisismo di fondo dello scrittore può liberamente sfogarsi : il desiderio dell’artista è corrisposto dall’essere che egli ha modellato ad immagine del proprio ideale. Si noterà il limite qui toccato. In un linguaggio ancora mitico, la favola di Pigmalione simboleggia un’esigenza di espressione di sé, la cui prossima manifestazione consisterà nel rifiutare ogni mediazione mitica, ogni ricorso a una favola preesistente. 4
1 Angiolini, Riflessioni di Gasparo Angiolini sopra l’Uso dei Programmi nei Balli pantomimi, in Il ballo pantomimo, cit., nel 2009, p. 120. 2 Il tema di questo paragrafo è stato oggetto di un intervento da parte di chi scrive all’interno del convegno organizzato dalla Consulta Universitaria del Teatro e dedicato a Silvana Sinisi ed Eugenia Casini Ropa; tale contributo è ora disponibile anche negli atti delle giornate di studio: L. Aimo, La danza e il mito di Pigmalione nel Settecento. Una prospettiva di lettura, in Danza e teatro, cit., pp. 51-60. 3 La bibliografia relativa al mito di Pigmalione è molto ricca. Ci si limita qui a ricordare alcuni studi fondamentali per inquadrare la ripresa del racconto ovidiano nel xviii secolo : J. L. Carr, Pygmalion and the Philosophes : The Animated Statue in Eighteenth Century France, « Journal of the Warburg and Courtauld Institutes », xxiii (1960), 3/4, pp. 239255 ; A. Gaillard, Le corps des statues. Le vivant et son simulacre à l’âge classique (de Descartes à Diderot), Paris, Honoré Champion, 2003 ; I. Mülder Bach, Im Zeichen Pygmalions : das Modelle der Statue und die Entdeckung der Darstellung im 18. Jahrhundert, München, Fink, 1998 ; Pygmalions des Lumières. Houdar de La Motte, Boureau-Deslandes, Saint-Lambert, Jullien dit Desboulmiers, J.J. Rousseau, Baculard d’Arnaud, Rétif de la Bretonne, a cura di H. Coulet, Paris, Desjonquères, 1998 ; H. Sckommodau, Pygmalion bei Franzosen und Deutschen im 18. Jahrhundert, Wiesbaden, Steiner, 1970. 4 J. Starobinski, Le remède dans le mal : critique et légitimation de l’artifice à l’âge des Lumières, Paris, Gallimard, 1989, tr. it. di A. Martinelli, Il rimedio nel male. Critica e legittimazione dell’artificio nell’età dei lumi, Torino, Einaudi, 1990, pp. 226-227.
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La danza è immersa nel medesimo clima culturale ed esemplifica in maniera straordinaria questa ricerca espressiva che accomuna tanto le arti quanto la filosofia settecentesche. Riscoprendo la capacità del gesto non solo di dilettare ma di significare, il balletto cerca infatti di liberarsi da una mimesi tesa a riprodurre oggetti della natura per riconquistare la possibilità di manifestare al pari della natura. Gli inviti da parte di Noverre ad abbandonare ogni sorta di movimento e virtuosismo fini a se stessi e a riportare sul palcoscenico l’arte antica della pantomima lo confermano : il ballerino è chiamato a trasformarsi da uomo-macchina – alla “La Mettrie” – che riproduce figure e passi stereotipati, a plesso anima-corpo in grado di immedesimarsi nel soggetto che deve rappresentare al fine di far scaturire dall’interno le proprie forme e i propri significati. Come scrive il coreografo :
Concluons, Monsieur, qu’il est véritablement peu de Ballets raisonnés ; que la Danse est une belle statue agréablement dessinée ; qu’elle brille également par les contours, les positions gracieuses, la noblesse des ses attitudes ; mais qu’il lui manque une âme. Les connoisseurs la regardent avec les mêmes yeux que Pigmalion lorsqu’il contemploit son Ouvrage ; ils sont les mêmes vœux que lui, & ils desirent ardemment que le sentiment l’anime, que le génie l’éclaire, & que l’esprit lui enseigne à s’exprimer. 1
La messa in scena di Pigmalione da parte di Marie Sallé al Covent Garden di Londra nel 1734 offre una preziosa lente d’ingrandimento per mostrare questa capacità da parte del corpo di esprimere al pari della natura. Anzitutto questo spettacolo ricopre un ruolo chiave all’interno della storia della danza : lo dimostrano le celebri e multiformi riprese del mito che si susseguono lungo tutto il secolo, 2 ma soprattutto l’essenziale funzione di spartiacque tra il puro divertissement e il nascente ballet en action che – a partire da Louis de Cahusac 3 – la storiografia gli ha riconosciuto e che trova negli scritti e nelle opere di Noverre e Angiolini di qualche decennio più tardi la sua più compiuta formulazione. In secondo luogo il movimento per così dire “ossimorico”, ovvero di contrazione e dilatazione al tempo stesso del meccanismo mimetico che contraddistingue il balletto, offre un’esemplificazione efficace di quel carattere espressivo, proprio della rappresentazione gestuale, auspicato non solo dalla riforma della danza ma anche dalla contemporanea ricerca artistica e filosofica. In mancanza di qualsiasi traccia coreografica o iconografica della rappresentazione, l’unica fonte a disposizione per la ricostruzione dell’evento è il resoconto del balletto contenuto in una lettera pubblicata sul Mercure de France nell’aprile del 1734. 4 Dal racconto dell’anonimo spettatore si evince che la ballerina progetta la sua rappresentazione seguendo fedelmente il mito ovidiano ; 5 al tempo stesso, però, l’espunzione di alcuni particolari
1 Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., p. 128 (« Concludiamo, Signore, che ci sono davvero pochi balletti ragionati ; che la danza è una bella statua piacevolmente disegnata ; che brilla ugualmente per i contorni, le posizioni aggraziate e la nobiltà delle sue attitudini, ma che le manca un’anima. I conoscitori la guardano con gli stessi occhi con i quali Pigmalione contemplava la sua opera ; essi fanno gli stessi voti di lui, e desiderano ardentemente che il sentimento la animi, che il genio la illumini e che lo spirito le insegni ad esprimersi » Idem, Lettere sulla danza, cit., pp. 46-47). 2 Ci si limita a citare alcune delle più famose : F. Riccoboni (Parigi 1734), J.-B. Lany (Berlino 1745), J.-P. Rameau (Parigi 1748), F.A. Hilverding (Vienna 1763), J. G. Noverre (Vienna 1772), G. Angiolini (Vienna 1776), J. Dauberval (Londra 1784), L. J. Milon (Parigi 1800). Sarebbe stato interessante poter confrontare la performance della Sallé con quelle progettate da Noverre e Angiolini ma purtroppo di entrambe le opere non è stato reperito alcun programma o descrizione approfondita in merito (cfr. Dahms, Jean Georges Noverre “Ballet en action”, cit., p. 317; Eadem, Der konservative Revolutionär, cit., p. 427 e Tozzi, Il balletto pantomimo del Settecento, cit., pp. 167-169). Si avrà tuttavia modo di intrecciare lo spettacolo della ballerina francese con un altro balletto del coreografo italiano, cfr. infra, cap. III, § 4, p. 156 nota 2. 3 Cfr. Cahusac, La danse ancienne et moderne, cit., p. 229. 4 Cfr. Lettre à M. ***, rist. anast., cit., pp. 211-212. Secondo Émile Dacier, è possibile che la lettera sia stata scritta da Nicolas-Claude Thieriot, amico di Voltaire. Cfr. É. Dacier, Une danseuse de l’Opéra sous Louis XV. Mlle Sallé (17071756), Paris, Plon, 1909, rist. anast. ; Genève, Minkoff, 1972, pp. 154-155. 5 Cfr. P. Ovidio Nasone, Metamorfosi, tr. it. di G. Faranda Villa, Milano, Rizzoli, 1995, l. x, vv. 220-297.
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della vicenda e la costruzione drammaturgica del balletto sembrano evidenziare un progressivo slittamento del fuoco dell’azione dall’asse pigmalionico a quello della sua controparte femminile. In primo luogo, a differenza di quanto avviene nel racconto di Ovidio e nella maggior parte delle sue rielaborazioni artistiche, non viene registrato dallo spettatore alcun riferimento alla ragione che spinge Pigmalione a innamorarsi della statua, ovvero al suo disgusto per le donne e la loro dissolutezza. In secondo luogo il personaggio maschile si trova a ricoprire un ruolo secondario nello sviluppo stesso dell’azione. Mentre in Ovidio la trasformazione della statua non soltanto è resa possibile dal desiderio di Pigmalione esaudito da Venere, ma è anche per così dire appurata ed espressa letterariamente attraverso l’esperienza percettiva dello scultore stesso che, sdraiatosi al fianco della statua, ne avverte la metamorfosi, dalla descrizione del balletto contenuta nel Mercure de France si constata, invece, come l’artista sia all’inizio solo spettatore dell’animazione. È nella solitudine del piedistallo, tra gli occhi increduli degli apprendisti e dello scultore, che la figura marmorea esce dalla propria insensibilità e mostra lo stupore per la sua nuova esistenza e il mondo circostante. 1 Dal punto di vista strettamente storico, la maggiore importanza conferita al personaggio femminile rispetto a quello maschile è del tutto comprensibile se si pone a mente che la Sallé non fu solo interprete del balletto bensì anche coreografa e ideatrice dei costumi dell’intera rappresentazione : fu al tempo stesso Pigmalione e Galatea della sua opera. Tralasciando però per un attimo questo dato biografico – già oggetto di ampia e feconda riflessione da parte di studi di diverso taglio e genere 2 – e concentrandosi proprio sulla semplice costruzione drammaturgica del balletto, un simile spostamento dell’attenzione dall’artista all’opera muove una serie di prime considerazioni teoriche. Nelle diverse riprese e interpretazioni artistiche fino ad allora offerte del racconto mitico ciò a cui si assiste o ciò a cui si tenta di dare spiegazione è quella che si potrebbe chiamare platonicamente la creazione artistica di un simulacro. 3 Il racconto di Pigmalione si differenzia, infatti, strutturalmente dai miti di Zeusi o Dibutade perché l’opera artistica non copia in questo caso alcun modello. La statua è frutto dell’immaginazione dello scultore e della sua arte, ma allo stesso tempo non è neppure una mera fantasia. Si tratta di un artefatto con un’anima e un corpo, di un simulacro per l’appunto, investito di una sua autonoma esistenza e progettualità nel mondo. Rispetto a questa efficace delucidazione del mito, tuttavia, la sua versione coreica è caratterizzata da un’eccedenza. L’esperienza emblematica di Marie Sallé, lodata dall’anonimo spettatore sia per la capacità inventiva da lei dimostrata sia per le sue doti di ballerina, mostra come nell’arte della danza creatore e creatura precipitino inevitabilmente in uno. Il martello e lo scalpello con cui gli apprendisti entrano in scena, gli stessi gioielli con cui Pigmalione vuole adornare la sua statua sembrano proprio andare a ricalcare questa differenza se paragonati con la semplicità dell’abbigliamento di Galatea. Senza panier, 4 senza alcun ornamento sul capo, ma con una semplice veste di mussolina indosso 5 – in netta contrapposizione, quindi, non soltanto con l’apparato strumentale degli artisti figurativi, ma anche con gli abiti sfarzosi e le maschere sino ad allora ampiamente in uso sulla scena – la Sallé dispone esclusivamente
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Cfr. Lettre à M. ***, rist. anast., cit., p. 211. Ci si limita a ricordare le interpretazioni più significative : Foster, Coreografia e narrazione, cit., pp. 12-26 ; Cohen, Art, Dance, and the Body in French Culture of the Ancien Régime, cit., in particolare le pp. 260-261; M. D. Sheriff, Moved By Love. Ispired Artists and Deviant Women in Eighteenth-Century France, Chicago-London, The University of Chicago Press, 2004, in particolare le pp. 189-194. 3 Cfr. a tal proposito lo studio di V. Stoichita, L’effetto Pigmalione : breve storia dei simulacri da Ovidio a Hitchcock, tr. it. di B. Sforza, Milano, Il Saggiatore, 2006. 4 Si tratta di una sottogonna in stecche di balena che dava all’abito una forma piatta e ovoidale. 5 Cfr. Lettre à M. ***, rist. anast., cit., p. 211. 2
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del proprio corpo come materia e mezzo di creazione artistica. In questa rappresentazione di Pigmalione, dunque, non ci si trova di fronte a un prodotto dell’immaginazione altrui che acquisisce poi un’esistenza propria, quanto all’esibizione della capacità insita in ciascun corpo di dare forma e vita, di costruire per l’appunto immagini. Occorre tuttavia comprendere più nello specifico il particolare tipo di rappresentazione in gioco. La natura paradossale dell’immagine consiste nell’essere sempre al tempo stesso medesima e altra. “Essere un’immagine”, infatti, equivale propriamente a “essere a immagine di…” ovvero significa non esistere solo per sé ma assomigliare e rimandare ad altro da sé. 2 Ciò comporta che un’immagine debba essere al tempo stesso abbastanza somigliante al modello da poter essere riconosciuta come sua immagine ma anche sufficientemente distinta per non essere confusa con il modello stesso. Negli scritti dei riformatori della danza si assiste, però, a un’accentuazione del principio di somiglianza. Nella lettera prima citata, ad esempio, Noverre sostiene che una perfetta imitazione da parte di un ballerino richieda non solo una somiglianza formale bensì sostanziale ovvero « le même goût, les mêmes dispositions, la même conformation, la même intelligence, & les mêmes organes de l’original que l’on se propose d’imiter ». 3 Proprio al pari di Galatea il danzatore non soltanto non deve dare forma a nulla al di fuori di sé, ma non ha neppure alcun modello esteriore su cui modellarsi. Egli deve essere semplicemente un Proteo che, animato dal sentimento, sia capace col proprio corpo di esprimere il succedersi delle sue passioni interne. Questa precipitazione verso l’interno del meccanismo mimetico è uno dei caratteri innovativi e peculiari della nascente danza teatrale, ma ne rappresenta anche uno dei nodi problematici principali a causa della difficoltà da parte dei teorici della danza di chiarire proprio la natura del rapporto espressivo tra l’immagine interiore – passione o sentimento che sia – e la sua rappresentazione corporea esteriore. 4 Noverre, ad esempio, cerca di distinguere tra puri movimenti di danza o movimenti meccanici e i cosiddetti movimenti espressivi o pantomimici ricorrendo al concetto di azione : 1
L’action en matière de Danse est l’Art de faire passer par l’expression vraie de nos mouvements, de nos gestes & de la physionomie, nos sentiments & nos passions dans l‘âme des Spectateurs. L’action n’est donc autre chose que la pantomime. Tout doit peindre, tout doit parler chez le Danseur ; chaque geste, chaque attitude, chaque port de bras doit avoir une expression différente ; la vraie Pantomime, en tout genre, suit la nature dans toutes ses nuances. 5
Come si può evincere da queste poche righe, il rischio che corre la riflessione di Noverre è quello di rimanere intrappolata in un intreccio di echi e rimandi senza risposta poiché il concetto di azione finisce per essere definito attraverso quello stesso concetto di espressione che avrebbe dovuto contribuire a spiegare. Ciò che tuttavia emerge chiaramente è come la distinzione tra danza semplice e danza pantomima che il coreografo cerca di tracciare non consta tanto in una differenza di passi o figure bensì di intenzione e qualità di movimento :
1 A tal proposito si rimanda alla ix lettera di Noverre in cui il coreografo motiva il suo rifiuto delle maschere con la necessità da parte del ballerino di poter impiegare e mostrare la propria espressività corporea sin dal volto. 2 Per un’introduzione al problema si rimanda a J. J. Wunenburger, Philosophie des images, Paris, Presses Universitaires de France, 1997, cit., tr. it. di S. Arecco, Filosofia delle immagini, Torino, Einaudi, 1999. 3 Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., p. 113 (« lo stesso gusto, le stesse disposizioni, la stessa conformazione, la stessa intelligenza e gli stessi mezzi dell’originale che si propone di imitare » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 44). 4 Cfr. a tal proposito Jeschke, Noverre, Lessing, Engel. Zur Theorie der Körperbewegung in der zweiten Hälfte des 18. Jahrhunderts, cit. 5 Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., pp. 262-263 (« L’“azione” in materia di danza è l’arte di trasportare, attraverso l’espressione vera dei nostri movimenti, dei nostri gesti e della fisionomia, i nostri sentimenti e le nostre passioni nell’anima degli spettatori. L’ “azione” è semplicemente la pantomima. Ogni cosa deve descrivere, tutto deve parlare con il danzatore ; ogni gesto, ogni attitudine, ogni “port de bras” deve avere un’espressione differente ; la vera pantomima in ogni genere segue la natura in tutte le sue sfumature » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 79).
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qualsiasi gesto deve farsi tramite delle passioni e azioni da rappresentare nonché del modo specificatamente singolare e unico con cui ogni soggetto le vive – in modo analogo a quanto accade spontaneamente nella vita di tutti i giorni. 1 La riflessione di Cahusac – pur non incorrendo in un minor numero di lacune e contraddizioni rispetto a quelle del coreografo francese – suggerisce una possibile pista di approfondimento di questo particolare meccanismo mimetico. A differenza di Noverre, il drammaturgo basa esplicitamente la sua concezione della rappresentazione corporea sulla teoria del linguaggio d’azione elaborata da Condillac a partire dal suo Essai sur l’origine des connaissances humaines, 2 ma soprattutto indica proprio nel Pigmalione della Sallé una delle possibili traduzioni coreiche di quelle proprietà del gesto messe in luce dal filosofo. Nello specifico, assomigliando a una versione coreica anticipata dell’esperimento mentale di lì a pochi anni elaborato dal pensatore francese, 3 la situazione limite messa in scena dalla ballerina consente di mettere a fuoco la portata espressiva del gesto, a partire anzitutto dal fulcro del balletto : l’animazione della statua. Assumendo in via preliminare l’apparato concettuale proprio della mimesi classica, il quesito fondamentale da porsi verte intorno al possibile modello esteriore o interiore sul quale la Sallé avrebbe potuto plasmare la propria immagine gestuale per mostrare la trasformazione della statua in un corpo vivente. In quell’azione, in quel movimento iniziale che precede qualsiasi passo di danza o gesto pantomimico codificato e che né la pittura né la parola sanno cogliere, arrestandosi sempre un momento prima o un attimo dopo, che cosa può aver imitato la danzatrice ? A una simile domanda non si può che rispondere : nulla. Come il linguaggio originario dell’uomo descritto da Condillac, 4 quel plesso di actions per
1 Ulteriori argomenti a favore di questa lettura sono offerti nella seconda e nella quarta delle Lettres in cui il maestro dà suggerimenti circa l’insegnamento e l’apprendimento del ballo. Anzitutto egli raccomanda ai coreografi di far sì che ogni ballerino riesca a far proprio il balletto : « Le Maître de Ballets, à son exemple, doit faire recommencer une Scène en action, jusqu’à ce qu’enfin ceux qui l’exécutent aient rencontré cet instant de naturel inné chez tous les hommes ; instant précieux qui se montre toujours avec autant de force que de vérité lorsqu’il est produit par le sentiment » (Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., p. 94 ; « Il maître de ballets [...] deve ripetere una scena in azione finché coloro che la eseguono non abbiano finalmente colto quell’istante di naturalezza innato in tutti gli uomini ; istante prezioso che si mostra sempre con tanta forza quanta verità quando è prodotto dal sentimento » Idem, Lettere sulla danza, cit., p. 25). I danzatori, da parte loro, devono arrivare alle prove con la mente sgombra di modelli e passi precostituiti e compenetrarsi nel soggetto. Solo in questo modo l’immaginazione può fornire loro i mezzi per dargli autenticamente corpo dall’interno : « On ne réussit dans les compositions théâtrales qu’autant que le cœur est agité ; que l’âme est vivement émue ; que l’imagination est embrasée » (Idem, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., p. 59 ; « Si riesce nelle composizioni teatrali solo quando il cuore è agitato, l’animo vivamente commosso, l’immaginazione infuocata » Idem, Lettere sulla danza, cit., pp. 33-34). 2 Cfr. Condillac, Saggio sull’origine delle conoscenze umane, cit., in particolare le pp. 207-306. Gli studi di Condillac sul gesto vengono assorbiti e impiegati esplicitamente dalla coeva riflessione coreica. Lo dimostra non soltanto il trattato di Cahusac (La danse ancienne et moderne, cit., in particolare le pp. 49-51 e 229-230) ma anche l’opera angioliniana La vendetta ingegnosa o La statua di Condillac. Ciò che è interessante notare in questo balletto non è soltanto la ripresa del motivo dell’animazione bensì il riferimento diretto che il coreografo fa al filosofo francese sia nel titolo sia nel brevissimo testo del programma. Vi si legge infatti : « Consiste questa sua vendetta nell’animare una Statua, che rappresenta una Najade dai Pastorelli festeggiata in Arcadia, la quale acquista le idee per la via dei sensi, a imitazione dell’ingegnosa Statua di Condillac, e d’oggetto in oggetto preferendo sempre quello che più le piace fissa la sua attenzione, e si dichiara amante del Pastorello Tirsi » (G. Angiolini, La vendetta ingegnosa o La statua di Condillac, in Demofoonte. Dramma per musica da rappresentarsi nel Nobilissimo Teatro Venier in San Benedetto il Carnovale dell’Anno 1791, Venezia, Modesto Fenzo, 1791, pp. 23-25, qui p. 25). 3 Cfr. É. B . de Condillac, Traité des sensations, Londres, De Bure, 1754 ; tr. it. di G. Viano, Trattato delle sensazioni, in Opere, introduzione di C. A. Viano, Torino, utet, 1976, pp. 339-578. In quest’opera il filosofo utilizza l’ipotesi di una statua che improvvisamente si animi come esperimento mentale per indagare il processo conoscitivo e, in particolare, le possibilità di apprendimento dischiuse dal corpo e dal movimento. 4 Cfr. Condillac, Saggio sull’origine delle conoscenze umane, cit., in particolare le pp. 207-306 e Idem, La logique, ou les premieres développements de l’art de penser, Paris, L’Esprit, 1780, tr. it. di G. Viano, La logica, in Idem, Opere, introduzione di C. A. Viano, Torino, utet, 1976, pp. 673-773.
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l’appunto – ovvero di suoni e movimenti – in cui ogni cosa è espressa in modo immediato, globale e sinestesico perché precede ogni distinzione logica tra forma e contenuto ed è estraneo ad alcun fine comunicativo, il gesto con cui Galatea esce dalla sua insensibilità, il gesto con cui la Sallé mostra semplicemente la differenza tra un corpo inanimato e uno vivo non imita niente perché non riproduce alcuna relazione tra segno e designato. Scrive il filosofo : « Il compito dell’azione non è analizzare. Poiché rappresenta i sentimenti solo in quanto ne è l’effetto, l’azione rappresenta insieme tutti i sentimenti che proviamo nel medesimo istante e le idee simultanee nel nostro pensiero sono naturalmente simultanee in questo linguaggio ». 1 Seguendo lo sviluppo del balletto descritto dal Mercure de France, a questo carattere immediato del gesto se ne aggiunge però anche un altro, ad esso intimamente legato. Se lo stupore di Galatea per la sua nuova condizione e il mondo circostante s’incarna istantaneamente in movimento, allo stesso tempo – come mette ben in luce Gabriele Brandstetter 2 – è il movimento che si produce come stupore offrendosi quale unico e originario mezzo di conoscenza tanto di sé quanto del mondo circostante. Il passo a due che segue l’animazione della statua, in cui Galatea impara specularmente da Pigmalione i passi della danza dai più semplici ai più difficili, rappresenta in quest’ottica l’esemplificazione coreica di questo processo di formazione. 3 Come ha infatti ancora esplicato Condillac, è solo a partire dal linguaggio d’azione, dal successivo lavoro di riflessione e astrazione che si opera a partire da esso e su di esso che può venire sviluppata non solo ogni tipo di danza 4 ma anche ogni forma di linguaggio, di arte e conseguentemente di pensiero più elaborata. 5 In questa versione di Pigmalione, dunque, ciò che viene messo in scena non è tanto un corpo-oggetto, strumento meccanico di riproduzione di un modello esteriore oppure apparato visibile di un mondo interiore già precostituito, bensì un corpo che si struttura come soggetto e come oggetto al tempo stesso solo tramite la costruzione di relazioni spazio-temporali di cui il movimento costituisce la condizione di possibilità indispensabile. È a questa complessa funzione espressiva del gesto – ovvero alla sua capacità di portare a presentazione ciò che prima giaceva indifferenziato e al tempo stesso di rimanere intriso del carattere immediato, totalizzante e irriducibile di questo stesso sfondo – che fa esplicito riferimento Cahusac, non solo nel paragrafo del suo trattato sull’origine della danza ma anche in quello sulla possibilità stessa del ballet en action. 6 Il merito che il teorico riconosce al balletto della Sallé rispetto ai divertissement precedenti non è quello, infatti, di aver inventato nuovi passi o recuperato gesti antichi e neppure quello di aver narrato propriamente una storia, bensì quello di aver sviluppato un’azione, di avere intenzionalmente recuperato e messo in scena il carattere naturalmente formativo – e non meramente meccanico o riproduttivo – del movimento.
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Ivi, p. 731. Cfr. G. Brandstetter, Der Tanz der Statue. Zur Repräsentation von Bewegung im Theater des 18. Jahrhunderts, in Pygmalion. Die Geschichte des Mythos in der abendländischen Kultur, a cura di M. Mayer, G. Neumann, Freiburg im Breisgau, Rombach, 1997, pp. 393-422, in particolare p. 403. 3 Cfr. Lettre à M. ***, rist. anast., cit., p. 211. 4 Cfr. Condillac, Saggio sull’origine delle conoscenze umane, cit., in particolare le pp. 210-236. 5 Cfr. Idem, La logica, cit., in particolare le pp. 730-770. 6 Cfr. Cahusac, La danse ancienne et moderne, cit., pp. 49-51 e pp. 229-230. 2
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NOTA A MARGINE Certo le mie ricerche, come quelle di Foucault, hanno carattere archeologico e i fenomeni con cui esse hanno a che fare si svolgono nel tempo e implicano quindi un’attenzione ai documenti e alla diacronia che non può non seguire le leggi della filologia storica ; ma l’arché che esse raggiungono – e questo vale, forse, per ogni ricerca storica – non è un’origine presupposta nel tempo, ma, situandosi all’incrocio di diacronia e sincronia, rende intellegibile non meno il presente del ricercatore che il passato del suo oggetto. G. Agamben, Signatura rerum. Sul metodo
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gni indagine muove da un’interrogazione e a questa ritorna per verificare il percorso fatto e i risultati conseguiti, ma anche per rilanciare in avanti la ricerca. Il presente studio ha preso avvio da un vuoto. Il ballo in azione non solo è irrimediabilmente perduto nelle sue manifestazioni concrete ma è anche irraggiungibile nella sua forma : mancano coordinate spazio-temporali nonché concettuali in grado di definirne precisamente il perimetro. Per far fronte a questa assenza si è avvicinato l’oggetto d’indagine in modo indiretto, attraverso le innumerevoli orme da esso lasciate e le diverse relazioni intrattenute con altre espressioni artistiche e del sapere più consolidate. Nello specifico, grazie all’intreccio di un complesso eterogeneo di frammenti coreici con la riflessione estetica sul gesto, il linguaggio e le arti che percorre tutto il xviii secolo, è emerso come la danza che viene dispiegata, o per lo meno intravista e auspicata, all’interno della riforma del ballo può essere definita imitativa non perché copia forme della natura, esteriori o interiori al corpo umano che siano, ma perché al pari della natura fa apparire ciò che prima non c’era. Capace di significare senza denotare, la disciplina di Tersicore custodisce infatti nell’unico principio dinamico del movimento corporeo l’originario luogo di espressione di ogni possibile azione, storia, arte e narrazione. Questo carattere archetipico della danza viene intuito dagli stessi riformatori dell’epoca. Un’immagine utilizzata da Angiolini lo conferma e chiarifica in maniera evidente. Sia il maestro di ballo italiano sia il collega francese convengono, infatti, sull’estensione unica e peculiare della disciplina coreica e sulla conseguente necessità per ogni buon ballerino o compositore di imparare e impiegare tutte le arti. 1 Come precisa però l’allievo di Hilverding, le diverse tecniche e capacità non vanno intese come semplici competenze a se stanti da incrociare, altrimenti il ballo rappresenterebbe soltanto l’occasione di una riunione di tutte queste arti : la danza corrisponderebbe a un modello dell’Accademia di pittura che funge da oggetto per una serie di produzioni artistiche ma che rimane celato e non curato dal pubblico, attento solo ad ammirarne i disegni da esso derivati. 2 Da questo paragone istituito tra il ballo e un modello vivente – ovvero tra la danza e l’oggetto dell’imitazione, un uomo, e non una sua qualche riproduzione e tanto meno un
1 Cfr. Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets, cit., pp. 76-77 e Angiolini, Lettere di Gasparo Angiolini a Monsieur 2 Ivi, p. 70. Noverre sopra i Balli Pantomimi, in Il ballo pantomimo, cit., qui lettera ii, p. 76-77.
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nota a margine
mezzo espressivo – traspare in modo lucido ed efficace la pregnanza semantica di quel carattere negativo che è scaturito dalla presente ricerca. La danza come arte è la messa in primo piano di un gesto che è sotteso a ogni forma artistica, di un gesto che consumandosi nella sua azione lascia tracce della sua evenienza ma non è riconducibile e risolvibile in alcuna di esse. La danza è, al tempo stesso, prima di tutte le arti e l’ultima a perfezionarsi perché, consistendo in una ri-presentificazione di una presenzialità originaria a partire dalla quale è possibile ogni forma o modello, è in sé potenzialmente infinita, non delimitabile. La danza – al pari dei concetti stessi di arte e natura – è un’unità asintotica che, come scrive Angiolini, rappresenta l’ « estratto » 1 di tutte le altre discipline. Attraverso l’analisi di programmi di ballo, la ricostruzione di celebri dibattiti del tempo, le voci di filosofi interessati variamente alla portata significativa del linguaggio gestuale e la messa a fuoco di tutta una serie variegata di fonti in cui la disciplina coreica viene anche solo brevemente tematizzata, il presente lavoro ha dunque mostrato come l’apparente vuoto contenutistico-concettuale che qualifica la danza del Settecento non è da ricondurre soltanto alle particolari caratteristiche del campo d’indagine. Il segno negativo che traspare variamente dall’interrogazione dell’arte coreica – e in particolar modo da una sua indagine critica – trova in questa stagione teatrale un luogo di apparizione per diverse ragioni privilegiato, ma va ricondotto più propriamente all’essenziale matrice espressiva ovvero “originariamente creativa” del suo minimo comune denominatore, il gesto. Proprio per il carattere essenzialmente sorgivo dell’oggetto d’indagine il percorso fin qui condotto non può definirsi concluso o definitivo. Rimangono altre tracce da esaminare, altre voci da ascoltare, altri confronti da intrecciare : a partire da quello con la musica o altre forme coreiche, precedenti e posteriori, sino ad arrivare alla presenza e all’influenza della danza all’interno della letteratura e, più in generale, del sistema del sapere e della cultura settecentesca. L’argomentazione svolta può inoltre offrire un prezioso punto di partenza e un termine di riflessione per alcuni temi centrali della ricerca teatrologica e, più ampiamente, estetologica contemporanea quali il post-drammatico o la performance : queste forme e categorie espressive, infatti, sembrano mettere a fuoco e portare alle loro estreme conseguenze alcuni aspetti della mimesi coreica già emersi nel corso nel xviii secolo. In conclusione si può affermare che la danza è definibile autenticamente ed esemplarmente arché non perché rappresenti un’origine remota e innata da cui si staccano fenomeni più o meno diversi, bensì perché costituisce l’inizio mai esausto, sempre immanente al flusso della tradizione. La danza è origine in atto che interessa e chiama in causa il presente.
1
Ivi, p. 77.
Inserto iconografico
Fig. 1. Frontespizio del manoscritto di [Jean Georges Noverre], Théorie et pratique de la Danse, [1766] (P-Bv, Zb. król. wol. 795).
Fig. 2. Bozzetto di costume da ballo a opera di L. R. Boquet ([Noverre], Théorie et pratique de la Danse; P-Bv, Zb. król. wol. 802, p. 46).
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Fig. 3. Bozzetto di costumi da ballo a opera di L. R. Boquet ([Noverre], Théorie et pratique de la Danse ; P-Bv, Zb. król. wol. 801, p. 42).
Fig. 4. [Marie-Auguste Vestris], incisione caricaturale attribuita a Francesco Bartolozzi e pubblicata il 2 aprile 1781 (Ö-Ad, DdM ic D 020).
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Fig. 5. Aus dem Ballet Adelheid von Ponthieu, incisione in Almanach des Theaters in Wien, Wien, Joseph Kurzböcken, 1774 (Ö-Nw, MF 3274 Neu Mik).
Fig. 6. Jason et Médée, incisione a colori di John Boydell pubblicata il 3 luglio 1781 in Cheapside Londra (Ö-Ad, DdM ic D 019).
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Fig. 7. Frontespizio del programma di ballo noverriano Médée et Jason ([Noverre], Théorie et pratique de la Danse ; P-Bv, Zb. król. wol. 796, p. 3).
Fig. 8. Bozzetto di costume da ballo a opera di L. R. Boquet ([Noverre], Théorie et pratique de la Danse ; P-Bv, Zb. król. wol. 801, p. 3).
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Fig. 9. Bozzetto di costume da ballo a opera di L. R. Boquet ([Noverre], Théorie et pratique de la Danse ; P-Bv, Zb. król. wol. 801, p. 4).
Fig. 10. Bozzetto di costume da ballo a opera di L. R. Boquet ([Noverre], Théorie et pratique de la Danse ; P-Bv, Zb. król. wol. 801, p. 5).
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Fig. 11. Bozzetto di costume da ballo a opera di L. R. Boquet ([Noverre], Théorie et pratique de la Danse ; P-Bv, Zb. król. wol. 801, p. 9).
Fig. 12. Bozzetto di costume da ballo a opera di L. R. Boquet ([Noverre], Théorie et pratique de la Danse ; P-Bv, Zb. król. wol. 801, p. 11).
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Fig. 13. Bozzetto di costume da ballo a opera di L. R. Boquet ([Noverre], Théorie et pratique de la Danse ; P-Bv, Zb. król. wol. 801, p. 12).
Fig. 14. Bozzetto di costume da ballo a opera di L. R. Boquet ([Noverre], Théorie et pratique de la Danse ; P-Bv, Zb. król. wol. 801, p. 13).
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Fig. 15. Bozzetto di costume da ballo a opera di L. R. Boquet ([Noverre], Théorie et pratique de la Danse ; P-Bv, Zb. król. wol. 801, p. 14).
Fig. 16. Bozzetto di costume da ballo a opera di L. R. Boquet ([Noverre], Théorie et pratique de la Danse ; P-Bv, Zb. król. wol. 801, p. 15).
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Fig. 17. Bozzetto di costume da ballo a opera di L. R. Boquet ([Noverre], Théorie et pratique de la Danse ; P-Bv, Zb. król. wol. 801, p. 16).
Fig. 18. Aus dem Ballet Alexander und Campaspe, incisione in Almanach des Theaters in Wien, Wien, Joseph Kurzböcken, 1774 (Ö-Nw, MF 3274 Neu Mik).
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Fig. 19. Frontespizio del programma di ballo Alexandre ([Noverre], Théorie et pratique de la Danse ; P-Bv, Zb. król. wol. 796, p. 148).
Fig. 20. Bozzetto di costume da ballo a opera di L. R. Boquet ([Noverre], Théorie et pratique de la Danse ; P-Bv, Zb. król. wol. 803, p. 22).
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Fig. 21. Bozzetto di costume da ballo a opera di L. R. Boquet ([Noverre], Théorie et pratique de la Danse ; P-Bv, Zb. król. wol. 803, p. 23).
Fig. 22. Bozzetto di costume da ballo a opera di L. R. Boquet ([Noverre], Théorie et pratique de la Danse ; P-Bv, Zb. król. wol. 803, p. 26).
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Fig. 23. Frontespizio del programma di ballo noverriano, Apelle, et Campaspe, ou le Triomphe d’Alexandre sur soi même (I-Ba, S.I.H.I 15/5, p. 3).
Fig. 24. Avviso al pubblico milanese all’interno del programma di ballo noverriano, Apelle, e Campaspe, o sia il Trionfo di Alessandro sopra di se stesso (I-Ba, S.I.H.I 15/5, p. 21).
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Fig. 25. Argomento del programma di ballo noverriano, Apelle, e Campaspe, o sia il Trionfo di Alessandro sopra di se stesso (I-Ba, S.I.H.I 15/5, p. 25).
Fig. 26. Scena prima del programma di ballo noverriano, Apelle, e Campaspe, o sia il Trionfo di Alessandro sopra di se stesso (I-Ba, S.I.H.I 15/5, p. 27).
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TAVOLA SINOTTICA 1 La danza Balli
Du Bos, Réflexions critiques sur la poësie et sur la peinture
1733 1734
Sallé, Pygmalion Condillac, Essai sur l’origine des connaissances humaines Batteux, Les Beaux-Arts réduits à un même principe Batteux, Lettres sur la phrase française Baumgarten, Aesthetica Diderot, voce Art nell’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences (1751-1780) Diderot, Lettres sur les sourds et les muets Cahusac, La danse ancienne et moderne ou traité historique de la danse Condillac, Traité des sensations
1746 1748 1750 1751
1754
Noverre, Les Fêtes chinoises
1755 1757
Noverre, Les Réjouissances flamandes
1758/59
Diderot, Le Fils naturel e Entretiens sur le Fils naturel Noverre, L’Amour corsaire Noverre, Le Jaloux sans Rival
1760 Angiolini, Le Festin de Pierre
1762 1763
Angiolini, Citera assediata Noverre, Medée et Jason Angiolini, Semiramis Noverre, Alexandre
1766 1771 1773
1774
1775
Angiolini, Dissertation sur les Ballets Pantomimes des Anciens Noverre, Théorie et pratique de la Danse
Noverre, Agamennon vengé Noverre, Adèle de Ponthieu Noverre, Les Horaces et les Curiaces Noverre, Alexander und Kampaspe
Noverre, Apelle, e Campaspe
Noverre, Eutimo, ed Eucari
Lessing, Laokoon
Angiolini, Lettere di Gasparo Angiolini a Monsieur Noverre sopra i Balli Pantomimi Noverre, Introduction au ballet des Horaces ou Petite réponse aux grandes lettres du sr. Angiolini Riflessioni sopra la pretesa risposta del sig. Noverre all’Angiolini Due lettere scritte a diversi soggetti l’anno 1774 Lettre d’un des petits oracles de Monsieur Angiolini au grand Noverre Angiolini, Riflessioni di Gasparo Angiolini sopra l’Uso dei Programmi nei Balli pantomimi Memorie per servire alla storia degli spettacoli di Milano degli anni 1774, e 1775 Noverre, Recueil de Programmes
1776
Engel, Ideen zu einer Mimik Arteaga, Ragionamento sopra il ballo pantomimico Encyclopédie méthodique. Nouvele édition enrichie de remarques dédiée à la sérénissime République de Venise, vol. Équitation, escrime, danse, et l’art de nager
1785 1787 1791
Diderot, Le Père de famille Noverre, Lettres sur la Danse et sur les Ballets
1761
1765
L’estetica
Scritti
Angiolini, La vendetta ingegnosa o La statua di Condillac
1 Questa tavola sintetizza il percorso investigativo tracciato nel presente studio. Nello specifico mette in evidenza i principali intrecci tra danza ed estetica (in particolar modo tra il 1751 e il 1785) che sono stati indagati al fine di approfondire lo statuto rappresentativo del ballet en action e di mostrare la trasformazione del paradigma mimetico dell’arte nel Settecento.
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BIBLIOGRAFIA 1 Fonti La danza 1. I protagonisti della riforma coreica settecentesca 1. 1. Opere principali di Gasparo Angiolini Le Festin de Pierre. Ballet pantomime, Vienne, Jean Thomas Trattner, 1761 (Ö-Nb, MF 6263) ; rist. anast. in Gluck Christoph Willibald, Don Juan/Semiramis. Ballets Pantomimes von Gasparo Angiolini, in Idem, Sämtliche Werke, a cura di R. Engländer, Sezione ii : Tanzdramen, vol. i, Kassel, Barenreiter, 1966, pp. xxii-xxvii. Dissertation sur les Ballets Pantomimes des Anciens : pubbliée pour Servir de Programme au Ballet Pantomime Tragique de Semiramis : Vienne le 31 janvier 1765, Vienne, Jean Thomas de Trattnern, 1765 ; rist. anast. Milano, Dalle Nogare e Armetti, 1956 ; tr. it. di S. Onesti, Dissertazione sui balli pantomimi degli antichi, per servire da programma al ballo pantomimo tragico di Semiramide, in Onesti Stefania, “L’arte di parlare danzando”. Gasparo Angiolini e la Dissertazione sui balli pantomimi degli antichi, « Danza e Ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni », i (2009), pp. 1-34, qui pp. 18-32. Lettere di Gasparo Angiolini a Monsieur Noverre sopra i Balli Pantomimi, Milano, Gio. Batista Bianchi, 1773 (I-Bb, documento digitalizzato MAG.CD.43) ; ora in Il ballo pantomimo. Lettere, saggi e libelli sulla danza (1773-1785), a cura di Lombardi Carmela, Torino, Paravia, 1998, pp. 49-88. Riflessioni di Gasparo Angiolini sopra l’Uso dei Programmi nei Balli pantomimi, Londra [Milano ?], 1775 (IBa, S.N.P.vii.21/12) ; ora in Il ballo pantomimo. Lettere, saggi e libelli sulla danza (1773-1785), a cura di Lombardi Carmela, Torino, Paravia, 1998, pp. 117-124.
1. 1. 1. Selezione di programmi e avvisi di ballo Theseus in Kreta. Ein heroisch-pantomimisches Ballet in fünf Akten, Wien, Logenmeister, s.d. (Ö-Nw, 629309 - A Theat. -S. ; 845.767-A Theat. - S.). Avviso, in Zon-Zon principe di Kibin-Kin-Ka. Dramma giocoso, Milano, Gio. Batista Bianchi, 1773, pp. [6970] (I-Ba, S.I.H.I. 14/4). Avviso del compositore de’ balli, in Le pazzie di Orlando. Dramma giocoso, Milano, Gio. Batista Bianchi, 1773, pp. [53-58] (I-Ba, S.I.H.I. 14/5). La partenza d’Enea, o sia Didone abbandonata, in Merope. Dramma per musica da rappresentarsi nel Nobilissimo Teatro di San Benedetto il Carnovale dell’Anno 1773, Venezia, Modesto Fenzo, 1773, pp. 22-23 (I-Bg, Correr-S. Benedetto 191, 59 A 191/4). Der Cid. Ein großes tragisch-pantomimisches Ballet, Wien, Logenmeister, 1774 (Ö-Nw, 449476 - A.Mus. ; Ö-Sw, A 23510). Der König und der Pachter, ein heroisch-pantomimisches Ballet, Wien, Logenmeister, 1774 (Ö-Nw, 629310 - A Theat. -S.). Montezuma oder die Eroberung von Mexico, ein tragisch-pantomimisches Ballet in fünf Akten, Wien, Logenmeister, 1775 (Ö-Nw, 698427- A Theat. - S.).
1 L’articolazione della bibliografia rispecchia il doppio binario su cui è costruito lo studio (la danza, da una parte, l’estetica – con le relative arti di riferimento per la disciplina coreica – dall’altra). Le suddivisioni all’interno del materiale precipuamente coreologico cercano di rendere conto della varietà di fonti e di studi sulla danza e di agevolare l’orientamento del lettore all’interno di essa. Nelle diverse sezioni in cui si sviluppa la bibliografia i testi si succedono secondo l’ordine alfabetico degli autori. A parità d’autore l’elenco delle opere è ordinato in base alla data di pubblicazione. Dei manoscritti o documenti a stampa di difficile reperimento – in special modo di quelli relativi ai protagonisti della riforma coreica settecentesca – sono stati segnalati tra parentesi il luogo in cui sono stati consultati e la relativa segnatura.
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bibliografia
La vendetta ingegnosa o La statua di Condillac, in Demofoonte. Dramma per musica da rappresentarsi nel Nobilissimo Teatro Venier in San Benedetto il Carnovale dell’Anno 1791, Venezia, Modesto Fenzo, 1791, pp. 23-25 (I-Bg, Correr-S. Benedetto 198, 59 A 198/4).
1. 2. Opere principali di Jean Georges Noverre Lettres sur la Danse et sur les Ballets, Stuttgart-Lyon, Aimé Delaroche, 1760 (Ö-Ad, DdM 414) ; rist. anast. New York, Broude Brothers, 1967 ; rist. anast. Whitefish (Mt, Usa), Kessinger Publishing, 2010. Théorie et pratique de la Danse simple et composée ; de l’Art des Ballets ; de la Musique ; du Costume et des Décorations par Mr. Noverre Directeur de la Danse et Me. des Ballets de S.A.S. le duc régnant de Würtemberg, [1766], manoscritto in 11 volumi (P-Bv, Zb. król. wol. 795-805). Programmen zu Balleten, aufgeführet auf der k. k. privilegirten Schaubühne in Wien, Wien, [Ghelen], 1772 (Ö-Nw, 2873- A. Mus.). Recueil de Programmes de Ballets de M. Noverre Maître des Ballets de la Cour imperial et royale, Vienne, Joseph Kurzböck, 1776 (Ö-Sw, A 1384989) ; rist. anast. Genève, Minkoff Reprint, 1973. Théorie et Pratique de la danse en général ; de la Composition des Ballets, de la Musique, du Costume, et des Décorations qui leur sont propres [1790], copia di un manoscritto di Noverre da parte del Chevalier de Berny (Bibliothèque national de France-Bibiothèque-Musée de l’Opéra national de Paris-Garnier, Rés. 1045). Programmes des grands ballets historiques, héroïques, nationaux, moraux et allégoriques de la composition de Mr. N., [1791], e Habits de costumes pour l’exécution des Ballets de Mr. Noverre dessinés par Mr. Boquet, premier dessinateur des menus plaisirs du Roi de France, [1791], manoscritto in due volumi (Biblioteca Reale di Stoccolma, S. 254 : 1-2). Lettres a un artiste sur les Fêtes Publiques Paris an ix de la Republique (1800-1801), Paris, Prault, [1801] (Ö-Ad, 5172). Lettres sur la Danse, sur les Ballets et les Arts, St. Petersbourg, Jean Charles Schnoor, 1803-1804, 2 voll. (D-Sb, Os 9093 1/4). Lettres sur les Arts imitateurs en général et sur la Danse en particulier, Paris, Léopold Collin, 1807, 2 voll. (Ö-Ad, DdM 790 ; DdM 795).
1. 2. 1. Successive edizioni e traduzioni delle Lettres (ancora vivente Noverre) Lettres sur la Danse et sur les Ballets, Wien, Jean Thomas Trattner, 1767 (Ö-Ad, 795). Briefe über die Tanzkunst und über die Ballette, tr. ted. di J. J. C. Bode, G. E. Lessing, Hamburg-Bremen, J. H. Cramer, 1769 ; rist. anast. con postfazione e bibliografia a cura di K. Petermann, « Documenta Choreologica », vol. xv, Leipzig, Zentralantiquariat der Deutschen Demokratischen Republik, 1977. Lettere sopra la Danza e sopra li Balli, tr. it. di D. Rossi, Napoli, 1778 (manoscritto conservato nella New York Public Library - Dance Collection - Fondo Walter Toscanini ; un microfilm dello stesso è conservato presso la Fondazione Giorgio Cini di Venezia). Lettres sur le Danse et sur le Ballets, Londres-Paris, la Veuve Dessain junior, 1783. The Works of Monsieur Noverre. Translated from the French, London, G. Robinson, 1783 (Ö-Ad, DdM 415).
1. 2. 2. Principali edizioni postume delle Lettres e dei programmi di ballo Ueber den heutigen gesellschaftlichen Tanz und das Ballet. Nebts einem Auszuge aus : Lessing’s Uebersetzung der Briefe Noverre’s über die Tanzkunst, a cura di R. Voss, Weimar, Kühn, 1862. Lettres sur la danse et sur les ballets, a cura di A. Levinson, Paris, Éditions de la Tourelle, 1927. Letters on Dancing and Ballets, tr. ing. di C.W. Beaumont, London, C. W. Beaumont, 1930 (19512) ; Brooklyn-New York, Dance Horizons, 1966 (19752) ; Alton, Dance Books, 2004. Cartas sobre la danza, tr. sp. di P. Palant, Buenos Aires, Anaquel, 1945. Cartas sobre la danza y sobre los ballets, preceduta da una biografia a cura di A. Levinson, tr. sp. di S. Uriburu, Buenos Aires, Centurion, 1946 ; Ciudad de la Habana, Arte y Literatura, 1985 ; Madrid, Librerías Deportivas Esteban Sanz, 2004. Lettres sur la danse et les arts imitateurs, a cura di F. Divoire, Paris, 1952. Lettere sulla danza, a cura di A. Testa, Roma, Di Giacomo, 1980
bibliografia
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Indice dei nomi
Accornero Matteo, 39n
Addison Joseph, 56, 60 Adshead Janet, 43n Agazzi Elena, 39 Agamben Giorgio, 159 Aimo Laura, 11n, 71n, 152n Alberti Alessandra, 34n Alembert Jean-Baptiste Le Rond de, 55n, 60, 62n, 64n, 99n, 148n Aliverti Maria Ines, 39 Angioletti Chiara, 39n Angiolini Gasparo (Gaspare, Gaspero), 11, 17, 29n, 30n, 31, 32n, 33, 34, 37n, 46n, 53, 54, 55n, 63, 65n, 66, 75, 76n, 77-79, 81, 84, 93n, 96, 98, 99, 113n, 114n, 118, 120n, 125, 126n, 129, 132, 133-137, 142, 143, 149, 150, 152, 153, 156n, 159, 160 Anthony James R., 54n Arbeau Thoinot, 29, 54 Arecco Sergio, 155n Aristosseno, 21n Aristotele, 59 Arouet François-Marie (Voltaire), 39n, 80, 98, 108n, 150, 153n Arteaga Esteban de, 64, 112n, 122 Assunto Rosario, 52n, 58n Auerbach Erich, 59 Aurnhammer Achim, 45n Avellini Luisa, 22n Ayrenhoff Cornelius von, 125
Baculard d’Arnaud François Thomas de, 152n
Bandella Monica, 33n Barbarisi Gennaro, 36n, 148n Barilli Bruno, 21, 22, 23, 47 Barnes Clive, 31n Bartolozzi Francesco, 138n Basso Alberto, 35n, Batllori Miguel, 64n Batteux Charles, 12, 52n, 53, 57, 58n, 60, 80, 92-103, 105, 111 Baumgarten Alexander Gottlieb, 47, 48n, 49, 50, 57 Bausch Pina, 39n, 43n Baxmann Inge, 44 Beauchamp Charles-Louis, 30, 125n Bellia Vincenzo, 25n Bellina Anna Laura, 37, 54, 75n, 78n Bellini Manuele, 53n Bender Wolfgang, 45n
Beniscelli Alberto, 123n Benjamin Walter, 19 Bertani Mauro, 19n Bertolini Michele, 39n, 123n, 148, 149n Beta Simone, 76n, 77n Biagi Ravenni Gabriella, 37 Bianconi Lorenzo, 35n Biggi Parodi Elena, 38 e n Blasis Carlo, 34n, 35n, 66 Blatter Christoph, 85n Blumenberg Hans, 59 Boccherini Gastone, 37n Bode Johann Joachim Christoph, 55 Bollino Fernando, 58n, 92n, 94n, 96, 99, 100n, 102n, 103 Bonfantini Mario, 98n Bonnet Jacques, 53, 54n Borsa Matteo, 132 Borsari Andrea, 58n Bouchon Marie Françoise, 29n Bourdelot Bonnet Jacques, 54n Boureau-Deslandes André François, 152n Bournonville August, 30 Brandenburg Irene, 33n Brandstetter Gabriele, 26, 43n, 44, 45n, 46, 157 Branscombe Peter, 31n Breidbach Olaf, 117n Brighenti Giacomo, 30n Brini Savorelli Mirella, 107n Brown Bruce Alan, 54n, 127 Brumana Biancamaria, 138n Bryson Norman, 25n Bühler Karl, 89n Burba Olimpia, 58n Burette Pierre Jean, 73, 74, 75 Buschmeier Gabriele, 54n
Cafiero Rosa, 38
Cahusac Louis de, 29, 44n, 46, 53, 54n, 55n, 63, 64, 73n, 74-76, 81, 84, 95, 96, 117, 118, 122, 132, 140, 153 156, 157 Cagli Bruno, 38n Calliachi Niccolò, 74 Calzabigi Ranieri de, 37, 54 Calzecchi Onesti Rosa, , 20n Calzolari Andrea, 60n, 109n Cambiano Giuseppe, 71 Campa Cecilia, 82 Candiani Rosy, 37
208
indice dei nomi
Cantelli Chiara, 52n Caparrotta Francesco, 48n Cappelletto Chiara, 58n Capra Carlo, 36n, 148n Carandini Silvia, 37n Carchia Gianni, 22n, 58n Carones Laura, 133n Carpani Roberta, 11n, 37n Carpi Schirone Elena, 64n Carr John L., 152n Carreira M. Xoán, 35n Cascetta Annamaria, 11n Casini Paolo, 109n Casini Ropa Eugenia, 33n, 152n Cassiodoro, 84 Cederna Camilla Maria, 130n Celi Claudia, 29n, 123n Cerruto Elena, 25n Ceruti Mauro, 25n Cervellati Elena, 35n Chaiklin Sharon, 25n Chaouche Sabine, 42 e n Chazin-Bennahum Judith, 46 Chegai Andrea, 38 Chiarini Paolo, 88 Chiarle Angelo, 116n Chouillet Jacques, 103 Christhout Marie-Françoise, 30n, 65n, 115n Cillario Graziella, 72n Coglitore Roberta, 25n Cohen Albert, 54n Cohen Sarah R., 41n Cohen Selma Jeanne, 65n Colombo Laura, 42n Colonna Deda Cristina, 121n Cometa Michele, 25, 59n, 61n, 63n Condillac Étienne Bonnot de, 12, 53, 57, 70, 92n, 112n, 156, 157 Corso Antonio, 142n Corvi Roberta, 48n Coseriu Eugenio, 106n Cotticelli Francesco, 38n Coulet Henri, 152n Crittodinamio, 76n Croce Benedetto, 59 e n Croll Gerhard, 29n, 54n Cronk Nicholas, 108n Crousaz Jean Pierre de, 52n Cuniberto Flavio, 22n Czerkl Eva, 59n
D’Ablancourt Nicolas Perrot, 76n
Dacier Émile, 153n Dahms Sybille, 32n, 33n, 40, 54n, 66n, 75n, 110n, 116n, 120n, 127n, 137n, 138n, 140n, 141n, 153n
Dalla Palma Sisto, 23 D’Amico Fedele, 76n D’Amico Silvio, 29n D’Angelo Paolo, 22n, 64n Daolmi Davide, 39 Degrada Francesco, 36n, 148n Dekonick Ralph, 62n Della Corte Andrea, 54n De Marinis Marco, 33n Derra de Moroda Friderica, 31n, 32, 65n, 73n, 116n, 124n, 137n Desideri Fabrizio, 52n Desmond Jane C., 25n Despréaux Jean-Étienne, 37n, 61n Di Bernardi Vito, 20 Di Cesare Donatella, 106n Diderot Denis, 12, 39, 44n, 46, 52n, 53, 55n, 60, 6265, 66n, 70, 73, 80, 88, 93, 102-114, 122n, 123n, 133, 148, 152n Dieckmann Herbert, 62n, 103n, 109 Di Lecce Giorgio, 77n Diodato Roberto, 48, 49n Di Tondo Ornella, 28n, 35n Doolittle James, 112n, 103n Du Bos Jean Baptiste, 12, 52n, 53-56, 57n, 60, 62, 80-85, 88n, 92, 94n, 95, 97, 101, 102, 108 Dufort Giambattista, 27, 35, 125 Duodo Loredana, 38n, 148n Dupetit Camilla, 141n Dupetit Maria Anna, 141n Duprè Eleonora, 141n Durazzo Giacomo, 37 e n
Eco Umberto, 70, 106
Einsiedel Friedrich Hildebrand von, 91 Elia Barbara, 21n Engel Johann Jacob ( Jakob), 12, 39, 45, 53, 56, 65, 66, 84-91, 95, 97, 101, 109n, 123n, 155n Engländer Richard, 54n, 75n, 78n
Fabre Jean, 62n, 103n
Fabris Rita, 30n, 148n Falcone Francesca, 30n, 35n, 37 Falletti Clelia, 41n Fama Marianovella, 116n Fanchi Paolo, 141n Faranda Villa Giovanna, 153n Fatica Ottavio, 59n Fattal Michel, 69n Favier, 125 Fazio Mara, 29n, 120n Ferrari Franco, 21n Ferrero Alfredo, 35n Feuillet Raoul Auger, 30, 32n, 38n, 54, 125
indice dei nomi Fischer-Lichte Erika, 60n Fontana Alessandro, 19n Formigari Lia, 56n Fornaroli Cia, 32, 37n Foster Susan Leigh, 41, 42-44, 129, 130n, 131, 147, 154n Foucault Michel, 19, 21, 22n, 23n, 47, 67, 124, 159 Franco Susanne, 43 Franko Mark, 121 Frantz Pierre, 29n, 118, 120n Franzini Elio, 49n, 52, 58n, 60n, 62n, 63n, 67, 72 Freda Pitt Irene, 35n Fried Michael, 123n, 148 Fubini Enrico, 59, 61, 82 Fumaroli Marc, 71, 72n
G
aillard Aurélie, 152n Galasso Giuseppe, 59n Gallet Cristina, 141n Gallet Sebastiano, 141 n Gambino Renata, 25n Garda Michela, 82n Garroni Emilio, 47, 51, 57n Gebauer Gunter, 59 Genette Gérard, 130 Genetti Stefano, 42n Gialdroni Teresa Maria, 38 Giannuzzi Imma, 28n Giles Jeffrey, 46 Giordano Gloria, 37, 38n, 125n, 148n Girard René, 59 Giulini Alessandro, 130n Gluck Christoph Willibald, 33n, 54n, 75, 78n, 127n, 133n Goethe Johann Wolfgang, 11, 42n, 61, 79n, 117n Goodden Angelica, 42 Goudar Ange, 132 Graham Martha, 24 Gravina Gian Vincenzo, 98 Greppi Emanuele, 130n Grilli Marialuisa, 66n, 108n, 109n, 114n Grimani Antonio, 38n, 148n Grossatesta Gaetano, 38n, 148 Gruber Gernot, 54n Guaita Camilla, 39n, 123n Guest Ann Hutchinson, 30n Guest Ivor, 35n, 41n Guiderdoni-Bruslé Agnès, 62n Guiragossian Carr Diana, 113n Gurisatti Giovanni, 85n, 89
Haas Robert, 54n, 75n Haitzinger Nicole, 117n Heartz Daniel, 54n
209
Heeg Günther, 42, 60n Hegel Georg Wilhelm Friedrich, 57, 61 Hilverding van Wewen Franz (Anton Christoph), 31, 34, 65, 127, 129, 153n, 159 Hinterhäuser Hans, 59n Hofmannsthal Hugo von, 69 Hohenegger Hansmichael, 57n Holmström Gram Kirsten, 42 Hortschansky Klaus, 54n, Houdar de La Motte Antoine, 152n Huschka Sabine, 44n, 46, 47n, 134n, 137n, 138n, 139
I
ffland August Wilhelm, 91 Izzi Giuseppe, 98n
J
aworska Krystyna, 58n Jeschke Claudia, 45, 58n, 85n, 88n, 91, 124, 125n, 155n Jullien Adolphe, 28n Jullien Jean Auguste (Desboulmiers), 152n Jürgensen Knud Arne, 30n
Kant Immanuel, 57, 58, 94n
Kindermann Heinz, 60n Kintzler Catherine, 29n Klein Gabriele, 43n Koegler Horst, 31n Koller Hermann, 58n Koritz Amy, 26n Košenina Alexander, 85n Kratz Tilla, 103n Kremer Nathalie, 62n Krüger Manfred, 40 e n Kuzmick Hansell Kathleen, 29n, 35n, 41, 127n, 128, 148
L
achmann Karl, 88n Lacoue-Labarthe Philippe, 103n Lambranzi Gregorio, 116 La Rocca Patrizia, 27n, 72n, 142n Laurenti Jean Noël, 29n Le Brun Charles, 91, 93, 123n, 140, 141n Lecomte Nathalie, 29n, 43, 44, 76n Lecoq Anne-Marie, 72n Le Moal Philippe, 29n L’Épée Charles Michel de, 104n Leroi-Gourhan André, 69n Lessing Gotthold Ephraim, 39, 42, 45, 53, 55, 60, 61, 63, 79n, 85n, 88, 91n, 111, 133, 155n Lesure François, 54n Lethen Helmuth, 85n Liechtenhan Rudolf, 35n Little Meredith Ellis, 30n
210
indice dei nomi
Li Vigni Anna, 48n Lo Iacono Concetta, 35n, 39n Lombard Alfred, 80n Lombardi Carmela, 27n, 35, 73n Lovejoy Arthur, 56n Luciano, 42, 70, 76-78 Luijdjens Adriano H., 20n Lupi Walter F., 148n Lutter Christina, 25n Lynham Deryck, 40 e n
M
agri Gennaro, 35n, 72, 77, 125 Maione Paologiovanni, 38n Mamy Sylvie, 131n Manger Klaus, 45n Mariti Luciano, 85n, 90 Marliani Antonio, 141n Marri Federico, 37n Martinelli Antonio, 152n Martinuzzi Paola, 39 e n Mayer Mathias, 157n Mazzara Federica, 25n Mazzocca Fernando, 36n, 148n Mazzocut-Mis Maddalena, 21n, 53n, 80n, 105, 123n McGowan Margaret M., 115n Melchiorre Virgilio, 50n Ménestrier Claude-François, 54n, 73, 74 Metastasio Pietro, 38n, 116n, 150 Michel Artur, 65n Migliorini Ermanno, 52n, 57n, 94n Milizia Francesco, 73 e n Modica Massimo, 52n, 58n, 62, 111n, 112, 122n Mollica Fabio, 38 Monteverdi Claudio, 116n Moore Lillian, 29n Moormann Eric Maria, 142n Moravia Sergio, 85n Morelli Alamanno, 91 Morelli Giovanni, 37n Mori Elisabetta, 30n Moritz Karl Philipp, 61 Morpurgo Tagliabue Guido, 97n Morris Gay, 26n Mugellesi Rossana, 142n Mülder Bach Inka, 152n Muraro Maria Teresa, 116n Muratori Ludovico Antonio, 98
Naerebout Frederik G., 77n Nancy Jean-Luc, 115 Naudeix Laura, 29n Neumann Gerhard, 157n Niedecken Hans, 40
Nocilli Cecilia, 20n, 27n Nordera Marina, 43, 44, 46, 76n Nørlyng Ole, 30n Novati Francesco, 130n Noverre Jean Georges, 11, 12, 17, 28n, 29, 31-35, 36n, 37n, 40, 42, 43n, 45, 46n, 54n, 55, 56, 63, 65n, 66, 75, 76, 79, 85, 88n, 91n, 92, 93, 96n, 98, 99, 102, 103, 106n, 107, 109n, 110, 112n, 113, 115, 116n, 118n, 119, 120, 121n, 122, 123n, 125-127, 128n, 129131, 132n, 133-137, 138n, 140, 141n, 142, 143, 144n, 145, 146n, 147-151, 153, 155, 156, 159n Nye Edward, 42, 43, 126, 127, 129-131, 137n
Oberzaucher-Schüller Gunhild, 35n, 58n Oggionni Eva, 39n Omero, 20n, 52n, 69n, 71 Onesti Stefania, 78n, 129 Ovidio Nasone Publio, 153n, 154
P
agnini Caterina, 33n Panaitescu Emilio, 124n Pappacena Flavia, 28n, 31, 34, 35, 37, 53, 66n, 92, 93n, 120n, 137n, 144 Parini Giuseppe, 36n, 37, 148n Paszkowski Anna, 109n Peserico Manuela, 25n Pestelli Giorgio, 35n Petermann Kurt, 55n Pietrini Sandra, 91n Pinotti Andrea, 117n Piselli Francesco, 48n Planelli Antonio, 73 Platone, 20, 21n, 70 Plinio Secondo Gaio, 142 Poli Silvia, 21n Polli Alessia, 41n Pontremoli Alessandro, 20n, 25n, 27n, 32, 33n, 36, 43n, 72n, 120n, 142n, 148n Previdi Elena Maria, 38 Proust Jacques, 62n, 103n Prudhommeau Germaine, 77n Pusci Lucio, 89n
Quintiliano Marco Fabio, 70, 100n Radice Roberto, 69n
Ralph Richard, 65n Rameau Pierre, 55n, 107, 109n, 153n Randi Elena, 33, 34, 35n, 66n, 120n, 130, 137n, 140n, 141n Rasori Giovanni, 56n, 88 Redaelli Miriam, 25n Reisenleitner Markus, 25n Requeno Vincenzo, 76n
indice dei nomi Restif Nicolas-Edme (Rétif de la Bretonne), 152n Rétif de la Bretonne, v. Restif Nicolas-Edme Riccoboni Luigi, 88n Richardson Jonathan, 62 Richter Maria, 37n, 46n Risi Clemens, 46n Romagnoli Alberto, 59n Romagnoli Angela, 38 Rosati Giampiero, 142n Roselt Jens, 46n Rosenfeld Sophia, 70n Rosini Sara, 37, 130n, 145n Rossi Domenico, 34n Rossi Roberto, 108n Roth Wölfle Lotte, 32n Rousseau Jean-Jacques, 60, 80, 106n, 148, 152 Ruffin Elena, 30n, 34n Ruffini Franco, 85n Ruschioni Ada, 98n Russell Charles, 54n, 75n Russo Luigi, 80n, 97n
S
acchi Giovenale, 73 Sadie Stanley, 29n Saint Denis Ruth, 20n, 24 Saint-Lambert Jean François de, 152n Saint-Léon Arthur, 37n Sainte-Albine Pierre Rémond de, 88n Salieri Antonio, 38 Sallé Marie, 34, 43n, 65, 81n, 103n, 147, 153, 154, 156, 157 Sartori Claudio, 30 Sasportes José, 30n, 34n, 36, 37n, 45n, 131, 132n, 134n Schelling Friedrich Wilhelm Joseph von, 61 Schiller Friedrich, 42, 45 Schink Johann Friederich, 132, 133n Schito Maria Maddalena, 30n Schlegel Friedrich, 61 Schlottermüller Uwe, 37n, 46n Schneider Ulrich Johannes, 46n Schönert Jörg, 60n Schroedter Stephanie, 32n, 41, 116n Schweizer Niklaus Rudolf, 62n Sckommodau Hans, 152n Scotti Massimo, 72n Seregni Giovanni, 130n Serra Carlo, 21n, 80n Sgai Francesco, 35n, 77 Sheriff Mary D., 154n Sità Maria Grazia, 38n Smith George Gregory, 56n Somaini Antonio, 117n
211
Sparti Barbara, 33n, 120n Starobinski Jean, 152 Steele Richard, 56n Stefanelli Stefania, 91n Stoichita Victor I., 154n Strack Friedrick, 45n Sträßner Matthias, 42n Sulzer Johann Georg, 55, 85 Sutton Julia, 29n
Tani Gino, 29n, 31n, 54n, 115n
Tatarkiewicz Wladyslaw, 58n Tedesco Salvatore, 48n, 49 Terrades Antonio, 141n Tessari Roberto, 12n, 39, 60n Testa Alberto, 33n, 34n, 54n, 63n, 75n Tetamo Elisa, 142n Thépot Fanny, 43n, 137n Thomas Helen, 26n Thompson Wendy, 65n Thurner Christina, 47n, 107 Tintori Giampiero, 30n Tobler Georg Christoph, 11 Tomko Linda J., 44n Torrigiani Ivo, 57n, 92n Torsello Sergio, 28n Toscanini Walter, 32n, 34n Tozzi Lorenzo, 33, 35n, 54n, 75n, 78n, 119n, 148n, 153 Trentin Giovanna, 30n Tugal Pierre, 40 Tunstall Kate E., 112n
Urup Henning, 30n Valery Paul, 21n
Van Meurs Jan ( Johannes), 73 Varela Francisco, 25n Varloot Jean, 62n, 103n Venuti Roberto, 79n Vercellone Federico, 117n Verdi Vighetti Leonardo, 59n Veroli Patrizia, 32n, 33n, 34n, 121n Verri Alessandro, 37n, 130 Verri Pietro, 37, 130 Versini Laurent, 63n, 66n, 103n, 122 Viano Carlo Augusto, 57n, 156n Viano Giorgia, 57n, 156n Vianovi Fiorella, 57n Vicentini Claudio, 80n, 83n Viganò Onorato, 30n, 125n Villeneuve Caterina, 141n Vincenzi Paola, 53n Viola Luisa, 22n
212
indice dei nomi
Voltaire (v. Arouet François-Marie), 39n, 79, 80, 98, 150, 153n Voss Ernst Theodor, 85n
W
arburton William, 70 Weaver John, 65 Wehren Julia, 47n Wehrhahn Matthias, 85n Weiner Howard, 37n, 46n Wengrower Hilda, 25n Wieland Christoph Martin, 42 Wilson G.B.L., 65n
Winckelmann Johann Joachim, 61 Winter Maria Hannah, 41 Woitas Monika, 41, 54n Wulf Christoph, 26n, 58, 59 Wunenburger Jean-Jacques, 155n
Z
anlonghi Giovanna, 11n, 39 Zannino Franco, 69n Zardin Danilo, 11n Zepharovic Jakob Edler von, 125, 126n Ziino Agostino, 38n Zini Valeria, 19n
co mposto, in car atter e dan t e m on oty pe, da l la fabr izio serr a editore, p i s a · rom a . imp ress o e r ilegato in i ta l i a n e l la t ipo g r afia di ag nan o, ag na n o p i s a n o ( p i s a ) . * Marzo 2012 (cz2/fg13)
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B I B LI O T E CA D I D RAM M AT URG IA co l la na diretta da annamaria c asc etta 1. Fabrizio Fiaschini, L’«incessabil agitazione». Giovan Battista Andreini tra professione, cultura e religione, 2006, pp. 220, con figure in bianco / nero (studi). 2. Il corpo glorioso. Il riscatto dell’uomo nelle teologie e nelle rappresentazioni della resurrezione, Atti del II Simposio internazionale di studi sulle Arti per il Sacro, Roma, Pontificia Università Lateranense, 6-7 maggio 2005, a cura di Claudio Bernardi, Carla Bino, Manuele Gragnolati, 2006, pp. 160 con figg. in bianco /nero (materiali). 3. Roberta Carpani, Scritture in festa. Studi sul teatro tra Seicento e Settecento, 2008, pp. 168, con figure in bianco / nero (studi). 4. Arianna Frattali, Presenze femminili fra teatro e salotto. Drammi e melodrammi nel Settecento lombardo-veneto, 2010, pp. 192, con figure in bianco / nero (studi). 5. Laura Aimo, Mimesi della natura e ballet d’action. Per un’estetica della danza teatrale, 2012, pp. 216, con figure a colori e in bianco / nero (studi).