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Italian Pages 127 [128] Year 2022
Cesare Maria Cornaggia
Dalla parte del desiderio
Da una paternità un metodo nella cura
Margini
Collana diretta da Filippo La Porta
Margini | 14
Cesare Maria Cornaggia
Dalla parte del desiderio Da una paternità un metodo nella cura Prefazione di Julián Carrón Postfazione di Giovanni Stanghellini
© 2022, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Margini ISSN: 2612-7229 n. 14 – maggio 2022 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-308-2 ISBN – Ebook: 978-88-5529-333-4 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Diversity people © Volte – stock.adobe.com
Al mio maestro, il prof. Italo Carta. A tutti i miei pazienti, che mi hanno permesso di fare un breve tratto di strada assieme a loro. A tutti coloro che hanno fatto suonare “le quiete stanze” al loro canto.
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Prefazione di Julián Carrón
Il libro che avete tra le mani trabocca di una rara familiarità con l’umano. Inoltrarsi nelle sue pagine ci fa gustare tutto il fascino di una conoscenza dell’umano che è frutto di una attenzione premurosa e pronta a lasciarsi sorprendere dai segni che la realtà offre proprio per facilitare quel percorso conoscitivo che raggiunge le pieghe più profonde della persona. È impossibile pretendere di riassumere in poche righe tutta la ricchezza accumulata da Cesare Cornaggia nei tanti anni di esperienza nel mondo della psichiatria. Il mio tentativo è molto più modesto e consiste in un caldo invito a una immersione nell’umano che emerge in ogni pagina di questo libro. È di questo che ciascuno potrà fare tesoro per il proprio rapporto con la realtà, guidato dalla mano di un uomo che ha deciso di condividere con noi il percorso che ha fatto assieme al suo maestro, ai suoi colleghi e ai suoi pazienti. Chi accetterà di immergersi in questa sovrabbondanza di umanità difficilmente potrà evitare di sentirsi conquistato e trascinato ad assecondare il desiderio di stare nel reale con la stessa intelligenza della realtà che l’autore ci testimonia. La prima cosa che sorprende è un approccio alla realtà che possiamo identificare come uno sguardo sull’umano pieno di
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simpatia verso chiunque, in qualunque situazione si trovi. Il punto di partenza è la percezione di essere alla presenza di una cosa sacra – l’io di ciascuno –, davanti alla quale ci si può presentare solo in punta di piedi, senza avere la presunzione di sapere già, per lasciarsi mostrare dalla persona stessa i propri tratti, la storia che si trascina dietro, con i suoi drammi e le sue domande. È un rispetto profondo per il mistero dell’altro ciò che queste pagine ci testimoniano: “Dentro ad ognuno di noi c’è una parte inconoscibile, indicibile, che è la più profonda […]. L’essere umano non è mai totalmente accessibile, è costituito da una trascendenza incolmabile, ma è attraverso questa limitazione intuitiva che diventa reale la mia intangibile singolarità, così come quella dell’altro. […] Questo è alla base del desiderio di essere riconosciuti come portatori di una storia unica”.1
Perciò il «primo compito» è «quello di credere e di dare fiducia a colui che si sarebbe rivolto a noi, chiedendoci aiuto»2, come dice un giorno il maestro rivolgendosi a Cornaggia: «Tu non dai nulla al paziente, puoi solo accompagnarlo, iniziando a dare a lui fiducia, a fargli sentire che lo stimi, perché questo è proprio quello che lui non ha mai provato ed avuto»3. Facendo questo, si è tutti tesi a intercettare qualsiasi indizio, perché «qualsiasi sintomo è l’espressione di questo suo grande bisogno o desiderio, che è quello di dirci delle cose importanti»4. Ma per poter cogliere tutto il valore dei sintomi occorre da parte nostra una grande familiarità con la nostra umanità, colta
1. Infra, p. 54. 2. Infra, p. 19. 3. Infra, p. 23. 4. Infra, p. 19.
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in tutta la sua profondità, senza fermarsi alla superficie delle cose. Può facilitare a comprendere in modo sintetico questa dinamica uno dei passaggi del libro, quello in cui il maestro si serve di autori della letteratura universale a noi familiari per spiegare che cosa significa non rimanere alla superficie, evitando di ridurre la persona alla somma dei suoi sintomi o limiti. Lucia [la protagonista de I promessi sposi] si comporta esattamente come il vescovo Myriel ha fatto con Jean Valjean ne I Miserabili di Victor Hugo: ha guardato al profondo, al cuore dell’Innominato, non alla persona come appariva o al ruolo che nel mondo aveva assunto. Non si è rivolta all’Innominato come tale, ma all’uomo che si celava dietro (e che desiderava uscire). Allo stesso modo, il vescovo Myriel ha guardato non al ladro, ma al desiderio dell’uomo che aveva di fronte. Torna ancora alla mente la samaritana.5
Continua il maestro: Credo proprio che la cosa che conta di più sia questo cogliere il cuore, il desiderio, dell’altro, non occupandosi di ciò che appare, di quello che risulta essere il ruolo che l’altro ha assunto, chissà poi per quale strada o per quale ragione, nel mondo. Questo vale soprattutto se pensiamo come pressoché ogni ruolo assunto nel mondo, e ci metto dentro anche di malato, sia una riduzione del desiderio. Quello che conta è arrivare dritti al cuore: solo questo permette l’incontro e quindi il cambiamento attraverso il perdono, come in Lucia e come nel vescovo Myriel.6
L’effetto che questo atteggiamento ha sulla persona è ben descritto dalla frase di una giovane paziente: «Sono cambiata quando ho iniziato a capire che sono voluta bene senza che
5. Infra, p. 98. 6. Infra, pp. 98-99.
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ci debba essere un motivo per questo, e ciò era quello che io non credevo possibile nella mia vita»7. Che sguardo sulla sua persona deve avere avvertito questa donna per compiere una tale rivoluzione nella coscienza di sé! Solo nell’incontro con qualcuno che ci abbraccia così come siamo possiamo anche noi abbracciarci e così conoscerci. […] Perché tutti noi abbiamo bisogno di sentirci desiderati ed i nostri pazienti ancor più di noi, perché sono passati attraverso le notti profonde del silenzio e dell’abbandono.8
Se basta un incontro, uno sguardo di «simpatia totale, da uomo a uomo»9, per mettere in moto il cambiamento della persona, perché dovrebbe esserci bisogno di altro? Tale questione apre al secondo fattore decisivo per la scoperta dell’umano che Cornaggia condivide con noi. Ascoltiamo da lui stesso come il suo maestro lo ha introdotto a questa dimensione del suo lavoro necessaria per raggiungere lo scopo di aiutare la persona nel punto in cui essa s’incastra, portandola a una comprensione più completa di sé e, quindi, liberandola dalla trappola di cui è prigioniera: Sembrava talvolta che la nostra prassi ricalcasse semplicemente un buon rapporto inter-umano. Ma non era proprio così. Mi sembrava, poi, che fosse lui [il maestro] a seguire il paziente, mentre tanti, prima di lui, ci avevano insegnato che era il paziente semmai che doveva seguire noi. Lui ribatté immediatamente: “Certo, è così. Il metodo lo stabilisce il paziente, anzi il paziente stesso è il metodo”.10
7. Infra, p. 29. 8. Infra, pp. 87-88. 9. C. Pavese, Dialoghi col compagno – Paesi tuoi, in Id., Saggi letterari, Einaudi, Torino 1968, p. 235. 10. Infra, p. 109.
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Questo significa che occorre, sì, incontrare la persona dove la persona è. Ma il lavoro da fare non finisce lì, perché la persona va a chiedere aiuto proprio perché è piena di “nebbia” o di confusione, e non sa come uscire dalla situazione in cui si trova. Qui comincia il lavoro nel senso più tecnico del termine. Infatti, continua il maestro, «è vero che il paziente è il metodo, perché ci indica il percorso, ma siamo noi, poi, che dobbiamo guidare ed aiutare lui a leggere il suo mondo interno. E qui entra la nostra competenza specifica»11. Il libro è pieno di casi che documentano come si sviluppa tale processo e ciascuno potrà rendersi conto del valore della competenza professionale come strumento per poter liberare la persona dalla riduzione di sé a cui l’hanno indotta i fatti che le sono accaduti nella vita e per permetterle di accettarsi così come è, senza censurare niente di sé. Da quanto veniamo dicendo sarà già apparsa evidente la portata unica del rapporto di Cornaggia con il suo maestro. Ciascuno potrà sorprenderlo in ogni caso che viene affrontato. Sono riassuntive queste parole: il mio maestro […] non parlava o spiegava prolissamente, ma faceva accadere dentro di noi quello che poi noi avremmo imparato a far accadere dentro ai nostri pazienti. Forse proprio questo far accadere dentro di sé qualcosa che ci cambia è imparare a fare terapia. Non potrei, infatti, definire la terapia se non come un rapporto che cambia.12
Il regalo più bello che possiamo ricevere nella vita è trovare un maestro che ci introduca alla realtà facendo accadere in noi ciò che abbiamo bisogno di imparare per vivere all’altezza della nostra umanità, qualunque sia la situazione esistenziale e
11. Infra, p. 110. 12. Infra, p. 23.
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il contesto in cui ci troviamo a vivere. È l’eredità che in punto di morte il maestro mette nelle mani Cornaggia: “[…] lo stare davanti alla realtà, per come essa è, rivela lo sguardo che tu hai, il bello ed il brutto che hai e che sei dentro di te, soprattutto ti fa dire sì o no dinanzi a quello che vedi, se vuoi starci oppure no”. La realtà, per il maestro, era sempre stata ciò che lo guidava, il suo sestante. E così è stata, mi sembrava, sino a quell’ultimo nostro istante.13
13. Infra, p. 116.
Dalla parte del desiderio
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Antefatto: un incontro
Era una domenica come tante altre, ero andato a messa e mi ero seduto dietro all’altare centrale, il quale aveva una serie di panche tutt’attorno. Era appena iniziato il sermone, quando lui comparve da dietro, battendomi sulla spalla, era venuto lì apposta, avendomi probabilmente visto da dove si trovava, per dirmi di attenderlo sul sagrato alla fine della funzione. Mi stupii molto, un po’ per il modo ed un po’ per la cosa in sé. Ancora di più mi stupì poi il motivo per il quale mi chiese di fermarmi: mi propose di andare a lavorare con lui. L’avevo conosciuto anni prima, il professore, quello che poi avrei sempre chiamato – tra me e me – il “mio maestro”, ma non ci avevo mai lavorato assieme né lui aveva mai avuto particolari legami con me, prima di allora. Per questo la sua richiesta mi stupì molto. La mia carriera era già ampiamente avviata e, cosa assai sciocca, non ero, in quel momento, alla ricerca di maestri, per i quali credevo fossero per me passati i tempi. Ma in me, dopo lo stupore, prevalse la curiosità e la sfida di una nuova avventura, così gli dissi di sì, non sapendo, ovviamente, cosa mi attendeva. Da lì a poco, capii che tutto il mio modo di lavorare e la mia stessa vita sarebbero cambiate radicalmente e per sempre.
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Lavorammo assieme, in ospedale, in università e nelle comunità, per molti anni, sicuramente i miei più belli, alla scoperta di un mondo di relazioni, di incontri, di parole, di pensieri, di realtà, di volti e di storie, che ogni giorno ci costruivano, cambiandoci in continuazione.
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I Abitare un mondo possibile
Il mio maestro ripeteva in ogni occasione come noi, nella nostra veste di professionisti della salute mentale, avevamo come primo compito quello di credere e di dare fiducia a colui che si sarebbe rivolto a noi, chiedendoci aiuto. Questo – ci diceva – perché, se una persona sviluppa un disturbo psicologico di qualsivoglia natura, lo fa soltanto per mettersi in contatto e per parlare con noi; quindi, qualsiasi sintomo è l’espressione di questo suo grande bisogno o desiderio, che è quello di dirci delle cose importanti. Io lo chiamavo “professore”, ero l’unico a farlo nel team, gli altri lo chiamavano con il suo nome, ma a me non riusciva, preferivo così, ma debbo credere, a distanza di tempo, che se lui non mi ha mai corretto, forse aveva piacere che io lo chiamassi in quel modo. Il professore mi diceva, in sostanza, due cose. La prima: il tuo paziente con il suo sintomo ti parla, sei tu che devi capirlo, non pensare mai che sia lui a sbagliare o che non abbia cose da dire. La seconda: il suo sintomo è l’espressione di qualcosa di assolutamente profondo ed irrinunciabile per lui, che tu devi imparare a guardare e a cui devi credere, iniziando ad affidarti a quella che è la manifestazione della sua verità.
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L’esperienza concreta di tutto questo è stato per me l’incontro con Angelo1, un ragazzo giovane, che entrava e usciva in continuazione dal nostro reparto ospedaliero, era certamente schizofrenico, ma di quelli che delirano tanto, tutto il giorno e tutti i giorni. Era in contatto con alieni e vedeva volare sempre astronavi attorno a sé. Erano almeno un paio d’anni che lo seguivamo, senza riuscire a cavarne alcunché, almeno secondo quello che noi credevamo di dover cavare da lui. Un giorno, mi recai nello studio del professore e gli raccontai sorridendo – poi mi resi conto che mi stavo comportando proprio come uno sciocco – che Angelo mi aveva detto, poco prima, che avrebbe voluto sposarsi, avere dei figli e che avrebbe voluto fare tutto in breve tempo. Il mio maestro non si stupì per nulla e, con la sua solita flemma ed una naturalezza disarmante, mi disse: “Beh, cosa c’è da stupirsi, mi sembra che sia giusto e bello che un ragazzo giovane dica questo, perché pensi che non possa accadere a lui tutto questo?”. Rimasi di stucco ed ancora oggi, a distanza di anni, mi ricordo questo momento come uno dei più importanti della mia vita professionale. Ero io che limitavo le possibilità nell’orizzonte esistenziale di Angelo, non era la schizofrenia a farlo. Il mio maestro mi fece distinguere con chiarezza e semplicità come una cosa fosse la malattia, un’altra cosa fosse il sano desiderio della persona. Le due cose non erano in contraddizione o incompatibili l’una con l’altra. Quante volte non avevo tenuto conto di questo nella mia pratica psichiatrica! Insomma, qualsiasi espressione schizofrenica non doveva impedirmi di guardare ad Angelo, prendendo sul serio e accogliendo come possibile il suo desiderio sano di essere uomo come gli altri e di possedere una vita come gli altri. 1. Eventi e persone citate nel volume fanno riferimento a figure e storie letterariamente rielaborate dall’autore. Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti accaduti è puramente casuale.
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Avvertii immediatamente come lo sguardo del professore avesse stravolto il modo con cui guardare Angelo; dapprima rimasi male, poi mi accorsi che si aprivano orizzonti nuovi sia dinanzi a me sia dinanzi ad Angelo. Il maestro aveva sempre uno sguardo che vedeva di gran lunga più lontano di quanto io facessi. Riunii i miei assistenti e riferii loro della conversazione con il professore e conclusi che tutti noi dovevamo, assieme, cambiare il nostro sguardo verso Angelo. Da quell’istante abbiamo incominciato tutti a guardare, con una tenerezza ed un rispetto diversi, Angelo, a condividere il suo desiderio come una cosa bella e sana e ad immaginarlo come possibile. Finalmente, tra noi ed Angelo si è andata creando un’inimmaginabile nuova relazione, che pescava su di una stima vera, affatto ipocrita. Alcuni anni più tardi, Angelo aveva una casa sua, lavorava come muratore, aveva amici come tanti e non venne più ricoverato. Non so spiegarmi ancora oggi cosa esattamente sia successo, ma sono certo che quel momento nella stanza del maestro è stato quello che ha mutato totalmente il destino di Angelo e, di conseguenza, anche il nostro. Proprio a partire da questa esperienza, ho capito come non dobbiamo mai limitare il nostro sguardo sull’altro. Ma come posso vedere e accettare ciò che vedono i miei pazienti? La mia storia mi ha fatto comprendere come sia fondamentale interrogarsi sul mondo che i miei pazienti abitano, ovvero il punto di vista da cui osservano la realtà. Dobbiamo, in sostanza, sempre porci nella posizione di chiederci da quale mondo la persona ci sta parlando. Angelo mi aveva fatto tornare alla mente quanto accaduto molti anni prima, quando ancora ero un giovane specializzando in psichiatria. Mentre salivo le scale del reparto dove facevo tirocinio, incappai in due giovani, in calzoncini e maglietta, con sulle spalle un telo da bagno. Alla mia domanda su dove stessero andando, risposero che stavano andando in piscina.
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Io, molto ingenuamente, dissi loro che in ospedale non c’era la piscina; fu così che uno di loro mi fissò profondamente negli occhi e mi disse: “Dottore, la differenza fondamentale che esiste tra lei e noi è che a noi, per andare in piscina, non serve la piscina”. Restai interdetto per una buona mezz’ora, fermo sulle scale, senza più sapere se scendere o salire. Mi fu chiaro, però, in quel momento, che stavamo parlando da due mondi diversi, ma, soprattutto, che ero io che dovevo dispormi ad entrare nel loro mondo per potere tentare almeno di capirne in parte il contenuto. In fondo i due giovani, allo stesso modo di Angelo, mi avevano invitato a raggiungerli, anche se questo – lo capii però molto tempo dopo! – non voleva dire che dovevo andare con loro a fare il bagno in una piscina inesistente, ma dovevo cercare, senza giudicare, di vedere e di accettare tutto quanto potesse essere condivisibile con loro. Il mio maestro, parlando di Angelo, ci aveva fatto comprendere come potevamo sopportare tranquillamente gli alieni o le astronavi che volavano, delle quali, tutto sommato, potevamo pure disinteressarci, cogliendo invece l’occasione di spostare la nostra attenzione e condividere con lui il desiderio sano di potersi sposare e di avere una vita normale, desiderio che coerentemente apparteneva alle semplici ed assolutamente normali aspirazioni di un giovane ragazzotto brianzolo. Ecco, questa era la strada che ci aveva indicato il maestro: l’importanza di non mettere al centro le astronavi, ma di condividere con il paziente quel desiderio, che poi era stato magari un tempo anche il nostro di giovani uomini. Soltanto questo avrebbe restituito ad Angelo, e anche a noi, la possibilità di non avere più bisogno degli alieni. Angelo avrebbe potuto fare a meno di alieni ed astronavi ed avrebbe potuto avvicinarsi a noi, fidandosi, perché aveva potuto sperimentare per primo la nostra stima in lui. Quando pensai a questo, però, mi accorsi che era stato possibile comprendere questa provocazione, in quanto il mio ma-
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estro, per primo, non mi aveva giudicato, quando ero entrato, sorridendo in modo sciocco nel suo studio e riferendo, senza averle minimamente comprese nella loro portata, le parole di Angelo. Fu il suo non giudizio negativo su di me a permettermi di stimare Angelo e di non cadere io nella mia stessa disistima. Questo, d’altra parte, era il modo con cui il mio maestro ci insegnava: non parlava o spiegava prolissamente, ma faceva accadere dentro di noi quello che poi noi avremmo imparato a far accadere dentro ai nostri pazienti. Forse proprio questo far accadere dentro di sé qualcosa che ci cambia è imparare a fare terapia. Non potrei, infatti, definire la terapia se non come un rapporto che cambia. Quando raccontai al mio maestro il benessere conquistato da Angelo, lui non si stupì per nulla e mi disse una cosa che era solito ripetere in ogni occasione di formazione del personale: “Vedi Cesare, le risorse le ha sempre il paziente, non pensare mai di averle tu; al paziente non fornirai mai delle risorse, semmai dovrai darti da fare perché lui attivi le proprie. Tu non dai nulla al paziente, puoi solo accompagnarlo, iniziando a dare a lui fiducia, a fargli sentire che lo stimi, perché questo è proprio quello che lui non ha mai provato ed avuto. E ricordati anche che questo è proprio quello che il tuo paziente non vuole fare, per questo ti boicotterà, perché per lui è molto faticoso e fonte di dolore fare quei passaggi che lo possono portare a quella che noi chiamiamo guarigione; deve prima comprendere e convincersi che esiste un modo di funzionare meno doloroso e più economico di quello che appartiene alla sua malattia”. Poi aggiunse: “Con Angelo è successo proprio questo, tu hai avuto modo di dare fiducia a lui, pescando nella fiducia che tu avevi in te, ed hai potuto disinteressarti delle astronavi per rimettere lui al centro, finalmente incuriosendoti di lui come persona e non come somma dei suoi sintomi”. Ripensai ad alcuni pazienti che non erano più venuti da me o che erano scomparsi, talvolta rifiutandomi in malo modo, tal-
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volta assentandosi senza fare rumore. Mi accorsi che con loro era forse accaduto questo. Forse non si erano più fatti vedere perché avevano percepito che io non avevo sufficientemente fiducia in loro. Credo che, come in ogni nostro rapporto inter umano, la caduta della fiducia implichi un inevitabile logoramento del rapporto, sino alla sua fine. Ora che mi trovo a raccontare alcune delle cose vissute con il mio maestro e negli anni che seguirono mi rendo conto che troppo facilmente noi professionisti ci ricordiamo di quelle persone con cui, per dirla semplicemente, il rapporto è andato bene o ci hanno ringraziato, ma penso anche alle tante persone con cui, forse, le cose non sono andate per nulla bene e che magari sono ancora arrabbiate con noi per qualcosa di sbagliato che abbiamo fatto o che non abbiamo fatto. Ma loro non sono tornate a dircelo. Riflettendo su queste cose, in tanti dei nostri discorsi che riempivano ogni spazio che si trovava nel nostro lavoro, tale era la passione che ci muoveva, ricordo che il mio maestro mi disse: “Cesare, ricordati sempre” – iniziava sempre così quando stava per dirmi cose che non avrei mai dimenticato – “i nostri pazienti hanno dentro una saggezza che supera la nostra, quello che noi dimentichiamo è che loro si conoscono di più di quanto li conosciamo noi, e noi, a volte, siamo come quelle mamme che credono di sapere sempre quale è il bene dei loro figli e non li lasciano liberi di ascoltare dentro di loro quello che loro ritengono essere il loro bene. Ci sono pazienti che si allontanano, forse non sono ancora pronti al cambiamento, ma devi lo stesso lasciarli andare, pensa a quante volte tu, nella tua vita, non hai fatto quello che avresti dovuto fare, perché anche tu non eri pronto. Questi pazienti, prima o poi, torneranno da te. Ce ne sono altri, invece, che se ne vanno perché a loro non hai creduto con sufficiente forza, allora per questi devi interrogarti sul tuo tradimento e chiederti fino in fondo se sei in grado di credere ancora in loro, perché tu devi cre-
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dere anche per loro. Semmai scopristi che non sei in grado di farlo, allora sarà arrivato il momento di cambiare mestiere”. Mi venne in mente il vecchio film di Ingmar Bergman “Il posto delle fragole”, spesso citato da Franco Basaglia, nella scena in cui il protagonista, il professor Borg, interrogato in sogno su quale fosse il primo dovere di un medico, tentennò e non riuscì a trovare la risposta giusta, che era quella di “chiedere perdono”. A partire da questo episodio, nella mia testa, si fece sempre più spazio il bisogno di darmi una serie di slogan, che, nel caso di Angelo, avrebbe potuto essere: “Abitare un mondo possibile”, affermando con questo che è necessario cercare, creare e condividere l’abitabilità di un mondo possibile per il paziente e per me, e non fermarsi all’incoerenza del suo mondo con quello reale.
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II Cercare il desiderio
Il mio maestro spesso pescava nell’etimologia delle parole quando voleva spiegarci qualcosa. E per la parola “cura” si riferiva al suo legame linguistico con la parola “curiosità”, “guardare”, “osservare” (dalla radice ku, come dal russo cùjati, “ascoltare”). L’origine e il contenuto di questa parola calzavano perfettamente con quanto lui ci faceva vedere ogni giorno, anche con il semplice suo entrare in reparto. Era curioso del paziente che aveva davanti, gli interessava proprio, non mentiva né con lui né con gli altri né soprattutto con sé stesso. Mi ricordava il grande Karl Jaspers quando, arrivato ad Heidelberg nel 1913, spendeva tutto il suo tempo in stretta vicinanza con i pazienti, perché alla ricerca del senso di quell’incomprensibile che loro andavano dicendo. Il mio maestro era lo specchio di Jaspers: cercava il senso nelle parole dell’altro, ma quello che soprattutto mi stupiva era che lui glielo attribui va per primo, anche quando non lo trovava immediatamente. Più tardi, avrei imparato a chiamare questa prassi il “credito di senso” che noi dobbiamo sempre attribuire all’altro. Come era stato con Angelo, la curiosità diventava una parola d’ordine.
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Ma perché la curiosità è così importante? La curiosità è essenziale perché ognuno di noi è curioso di ciò da cui si attende qualcosa di buono. Questo i nostri pazienti lo percepiscono subito e, nella gran parte dei casi, se ne meravigliano tantissimo, proprio perché non sono abituati, a partire dalle proprie esperienze infantili o dalle loro prime relazioni, ad essere davanti a qualcuno che si attende qualcosa di buono da loro. Sperimentare su di sé la curiosità è, pertanto, una grande iniezione di autostima e di stupore, dal momento che, se una persona attende qualcosa di buono da me, allora vuole dire che io sono un bene e che io posso fare cose buone. Mi ricordo Giancarlo, che era un religioso. Si presentò da me, con la richiesta di essere aiutato a superare un suo grande disagio, connotato dal fatto che, pur vivendo felicemente la sua strada, alla notte, alcune volte, non riusciva a fermarsi dal viaggiare in internet in siti pornografici, spendendo magari ore in questa sua attività che giudicava assolutamente degradante e non in armonia con la sua persona. Tutto questo lo portava a pensare di non essere degno della scelta vocazionale fatta anni prima. Alla prima seduta gli dissi che mi sembrava che la questione fosse quella di capire se lui potesse consentirsi il desiderio di vivere fino in fondo la sua vocazione. In effetti, lui mi disse come avesse sempre ritenuto che non gli fosse riconosciuta questa capacità e questa possibilità dalle persone a lui vicine. Gli risposi, di getto, che mi sembrava tendesse ad essere eccessivamente obbediente a questi “altri” e che il suo sintomo altro non fosse che il modo per confermare a sé stesso continuamente la sua indegnità. In tal modo, egli, da un lato, accontentava questi “altri”, dall’altro lato poteva non sfidare più la realizzazione del suo desiderio con la paura di fallire ancora. Immediatamente, dinanzi al palesarsi di questa evidenza, Giancarlo avvertì di essere dentro una trappola, ma intuì anche che non era impossibile lasciare il suo mondo parallelo di degrado. Parlai di questa prima seduta con il mio
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maestro, il quale confermò la posizione, che oramai appariva chiara, di incentrarsi sul desiderio e non sul sintomo. “Vedi Cesare” mi disse “tu hai detto, senza tante parole, a Giancarlo che lui era incastrato, perché lui voleva uscire dalla sua posizione, ma, allo stesso tempo, voleva come obbedire al suo entourage, confermando la non idoneità e non degnità sua, che lui si sentiva addosso, a partire dalla sua infanzia. L’avergli fatto sperimentare emotivamente, dentro di lui, che esiste un altro modo di guardarsi gli permetterà di cambiare”. E così fu. Poco tempo dopo, qualche seduta successiva, Giancarlo mi disse di essersi reso conto che l’unica cosa che poteva comunicare all’altro era lo sguardo con cui lui era stato, a sua volta, guardato e si riferì immediatamente a due occasioni specifiche della sua vita: allo sguardo che anni prima lo aveva condotto in convento ed allo sguardo che aveva sperimentato su di sé nella nostra prima seduta. Ricordo un’altra giovane paziente che un giorno mi disse: “Sono cambiata quando ho iniziato a capire che sono voluta bene senza che ci debba essere un motivo per questo, e ciò era quello che io non credevo possibile nella mia vita; soltanto allora mi sono accorta di me e delle persone che mi hanno voluto bene. Questo mi ha permesso di accettare che anche io potevo decidere per me e potevo prendermi cura di me, potevo capire che non ero mai stata felice e che potevo essere felice”. Questa è quella che noi chiamiamo l’esperienza del riconoscimento, cioè l’esperienza di riconoscere sé stessi attraverso l’altro e questo è ciò che molto manca alla stragrande maggioranza delle persone che si rivolgono a noi oggi. Mi vengono alla mente tante situazioni, specie di giovani ragazzi che, come schiavi, sono costretti a lungo ad inseguire performance perché immaginano di dovere rispondere alle aspettative dell’altro, in specie dei propri genitori. Crescono magari prendendo sempre ottimi voti a scuola o agli esami in
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università, sono sempre composti e mai disobbedienti, per poi arrivare a capire soltanto molto tardi che hanno vissuto da schiavi e non hanno mai individuato il proprio desiderio. Essere riconosciuti è la sola cosa che permette di venire in contatto e di poter cominciare a saperci fare, con il proprio desiderio. A questo riguardo, il mio maestro mi ricordava sempre come fosse importante individuare ogni volta se una persona si muoveva per essere amata oppure perché era già amata. Nel primo caso, questa incarnava la condizione prima descritta: non seguiva il proprio desiderio, ma si affannava ad inseguire il desiderio dell’altro, al fine di immaginare di essere amata o di non essere abbandonata dall’altro; nel secondo caso, era libera, ovvero seguiva il proprio desiderio, spinta dalla certezza di poterlo raggiungere, proprio in quanto portatrice della stima e dello sguardo dell’altro. “L’obbedienza è cosa buona, ma quando in un ragazzo è eccessiva, di essa dobbiamo sempre dubitare. La paura di perdere l’altro spesso nasce proprio dal fatto che non ci si sia sentiti riconosciuti e valorizzati da bambini, allorquando è necessario lo sguardo fiducioso dell’altro. Così il ragazzo continua a cercare nell’altro la rassicurazione di essere buono o giusto, oppure semplicemente di andare bene, e ne diviene, nella gran parte dei casi, dipendente”. Così ci parlava il maestro, che ci fece ben presto osservare come questa posizione fosse assai diffusa nella contemporaneità ed alla base delle così onnipresenti dipendenze, non soltanto di quelle relazionali, perché se io devo fare quello che l’altro si aspetta da me, non imparerò mai ad ascoltarmi e tutto resterà nella dimensione del bisogno, mai del desiderio. Un giorno ci mettemmo ad interrogare il nostro maestro su questa questione del bisogno e del desiderio, sulla quale lui continuamente insisteva. “Per capire bisogno e desiderio, bisogna partire dalla comprensione della dipendenza, che non è altro che una patologia del desiderio, quando esso diviene
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o resta bisogno. Noi, come uomini, siamo mancanti e, come tali, cerchiamo di colmare la nostra mancanza con il bisogno. Il bisogno non prevede tempi di attesa, non contempla negoziazione, è un imperativo, che spesso giace sul corpo e nel qui ed ora. Il desiderio, invece, non nasce dalla mancanza, anzi, è la mancanza che nasce dal desiderio”. Tutto questo ci stupiva assai. “Potremmo anche dire che desiderio e mancanza, in qualche modo, coincidono. Il desiderio è come un seme che ci è stato messo dentro, una spinta verso un ‘più in là’, come direbbe Montale1, perché ci fa sentire inadeguati, cioè lontani dalle stelle, senza un pezzo che ci completa. Per questo, come uomini, siamo destinati a muoverci sotto questa spinta seguendo il desiderio, oppure rinunciare ad esso nel nichilismo o nella depressione”. Questo discorso mi riportò alla mente Orazio, un uomo di oltre sessant’anni, che un giorno mi riferì un ricordo infantile, che aveva lasciato un segno indelebile nella sua mente. Si ricordava bambino, accovacciato in un angolo contro al muro dell’oratorio, mentre vedeva gli altri ragazzini come lui che giocavano a pallone. Quel bambino li guardava, avendo timore di non essere come loro, di essere diverso e non capace, neppure di giocare a pallone. Mentre i suoi compagni giocavano, lui piangeva, era triste, non avrebbe mai potuto essere come loro. “Ecco il dolore”, disse il maestro, che poi continuò: “Orazio ha tutto il dolore del suo sentirsi incapace, della sua inadeguatezza, magari e, perché no, della sua depressione. Potremmo fermarci qui, ci fosse soltanto questo, quel bambino potrebbe anche stare benino, magari un po’ ritirato, pensando o sapendo di non riuscire ad essere come gli altri oppure di non essere capace di giocare al pallone. Ma in lui
1. E. Montale, Maestrale, in Id., Ossi di seppia, Mondadori, Milano 1948, pp. 96-97.
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vi è prepotente il desiderio che punge, come una spina insopportabile, perché lui è uomo come gli altri, è questo che lo fa davvero soffrire, non avesse questo desiderio soffrirebbe di meno, è il fatto che lui sa di essere fatto per altro e che questo altro è per lui che lo fa soffrire veramente in modo lacerante. Lo strazio nasce della mancanza di questo altro, non dal non potere essere come i suoi amici”. Questi pensieri vorticavano in me e il maestro incalzava: “Non è mai sbagliato il desiderio, quindi anche il desiderio di Orazio. Il suo bisogno può tradirlo, il suo desiderio mai. Lui ha un bisogno, quello di potere giocare con gli altri ragazzi, ma ancora di più ha un desiderio, che è quello di essere uomo e uomo come gli altri. Questo desiderio non tradisce, come ti ho sempre detto, potremmo definirlo un bisogno che rispetta la libertà e la verità. Vedi Cesare, è vero che il piccolo Orazio si vedeva inadeguato rispetto ai suoi compagni, ma questa inadeguatezza lo radicava nella mancanza ontologica che lo costituiva, facendo sì che sentisse ancora più profondamente e dolorosamente la sua lontananza dalle stelle e pertanto il suo de-siderio (dalla sua origine latina de-sidus). Questa è la ragione per la quale noi dobbiamo sempre riconoscere e stimare il desiderio dell’altro”. Divenne molto chiaro, nel tempo, quello che ci ripeteva spesso: “Il dolore può essere una donazione di senso”, ed ancora “bisogna dare dignità al sintomo”. Effettivamente, Orazio, come già Angelo, portava la sua incongruenza come un segnale prepotente, per chi davvero lo avesse voluto ascoltare, del suo desiderio più profondo. Il malessere di Orazio e di Angelo, il loro dolore, il loro sintomo – il ritiro di uno o le navicelle spaziali dell’altro – rappresentavano una domanda profondissima di senso e di riconoscimento. Il maestro ci aveva fatto comprendere come la terapia nascesse dalla stima verso quella domanda. In secondo luogo, ci aveva messo mirabilmente davanti al dato inequivocabile che il sintomo, nei
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due casi, come in tutti, è espressione di qualcosa di grande e di importante che spinge. “L’uomo poco uomo è anche poco matto” ci disse il maestro un giorno.
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III Trovare un senso
Un giorno Cristina mi disse, dopo una profondissima crisi delle sue: “Ogni volta che mi succede di stare male è come se una ruspa scavasse in me più a fondo della volta precedente. Però, quando mi riprendo, è più grande anche la profondità che ho nel conoscere me ed il mondo e più grande è la mia capacità di volere bene”. La sua esperienza di dolore e, per dirla in breve, di depressione, che lei viveva ciclicamente, la portava a scoprire e a conoscere sempre maggiori parti di sé, lasciando ogni volta il posto a qualcosa che assomigliava più ad una esperienza mistica, che ad una esperienza di malattia. Ricordava Simone Weil, quando scriveva: «La grazia colma, ma può entrare soltanto là dove c’è un vuoto a riceverla; e, quel vuoto, è essa a farlo»1. La depressione era mirabilmente, per Cristina, una risorsa. “Hai detto bene, Cesare” mi disse il maestro un giorno, con in mano il volumetto di Camus dedicato al mito di Sisifo2, da lui molto amato. “L’esperienza depressiva scava dentro di noi e 1. S. Weil, L’ombra e la grazia, tr. it. di F. Fortini, Bompiani, Milano 2002, p. 23. 2. Cfr. A. Camus, Le mythe de Sysiphe, Gallimard, Paris 1942.
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ci mette a nudo di fronte alla realtà. Tocca, in qualche modo, la verità. Camus ci mette davanti agli occhi, in questo libretto, l’unica cosa che conta di tutta la questione del suicidio, cioè la domanda se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta. Camus era interessato, infatti, a quando Sisifo scendeva dalla montagna, consapevole del supplizio che, da lì a poco, avrebbe nuovamente subito e quindi del destino che lo attendeva – che era quello di faticare inutilmente –, e non a quando Sisifo era nel pieno del suo sforzo mentre saliva con sulle spalle il peso del suo macigno. La depressione crea qualcosa di simile, un vuoto nel quale giacciono le domande più profonde. Ancora una volta è chiaro come sia la domanda la cosa essenziale: possiamo avere domande senza risposta, ma non risposte senza domande. Il depresso di cui devi preoccuparti è quello che non si fa più domande, non quello che non trova le risposte”. “È quello per il quale il verde del prato è troppo verde?”. “Sì, è proprio quello per il quale la realtà è troppo forte e diviene intollerabile. La realtà può darci risposte che ci piacciono oppure risposte che non vorremmo, ma ci dà risposte e suscita domande, quando la realtà diviene ‘troppa’, allora non riusciamo più a starci davanti”. Capii molto a fondo questa cosa, quando mi trovai all’obitorio, dinanzi al corpo di Federica, che ero andato a riconoscere, morta nel suo bagno, suicida. Aveva chiuso senza dire una parola la sua avventura terrena. Il maestro mi guardò profondamente: “Cesare, in ospedale tante volte vediamo persone, magari giovani, che urlano o imprecano, perché il loro corpo muore prima della loro mente, che non vuole morire oppure che non è ancora pronta, dobbiamo anche accettare che a volte accada che sia la mente a morire prima del corpo”. In quel momento – ricordo – gli dissi che avevo deciso di cambiare mestiere, perché davanti a quella morte volontaria mi sembrava fosse arrivato il momento di farlo. Lui non disse una parola e per la prima volta nella vita – non lo avrebbe
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fatto mai più – mi abbracciò ed affondò la mia testa con forza contro il suo petto. Credo che mi tenne così per poco tempo, ma a me sembrò una piccola, tenera eternità. Credo piansi, ma ripresi – ed oggi dico fortunatamente – il mio lavoro: me lo potei permettere soltanto perché, anche dinanzi alla morte volontaria di Federica, quell’abbraccio era stata una benedizione, la benedizione del padre. Federica aveva cercato continuamente di trovare la sua strada, il suo posto nel mondo, senza mai trovarlo. Neanche gli uomini che la corteggiavano erano una consolazione per lei, in fondo non riusciva a pensarsi con un uomo, forse troppo innamorata di suo padre. Era una giovane donna dall’aspetto assolutamente intrigante, molto ricca e di una intelligenza acutissima; queste straordinarie doti si scioglievano come neve al sole dinanzi alla sua fragilità disarmante. Quel giorno, poco prima dell’atto estremo, mi telefonò e mi salutò. Io non capii, tanto che ora quel saluto mi torna quasi ogni giorno alla mente, da un lato nella forma di un rimorso per non aver intuito che forse Federica voleva darmi l’annuncio del suo gesto, dall’altro lato nella forma di un prezioso ed affettuoso messaggio d’addio dato a qualcuno che lei reputava significativo. Aspetto di incontrarla nuovamente lassù per poterle chiedere cosa avesse realmente voluto dirmi. “Come ti ho sempre detto, non possiamo essere noi a dare senso alla vita dell’altro. Possiamo soltanto aiutarlo a trovare un senso, ma sarà soltanto lui che lo individuerà. Possiamo accompagnarlo, ma la strada la sa lui. Quando lui si allontana da te e lo senti tacere è allora che ti devi preoccupare, ma la tua attenzione umile a lui potrà essere la sua salvezza. È ancora il tema della stima e della curiosità verso l’altro al centro della questione. Pensa a quando tu cercavi e cerchi il senso della tua vita. Parlare di senso è come parlare di significato, cioè del signum facere (fare un segno), cioè di quel qualcosa per cui tu immagini di lasciare o lasci un segno che testimoni
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il tuo passaggio nel mondo o, per meglio dire, il tuo essere nel mondo, il tuo essere qui ed ora”. “Come nasce questo senso?”. “Dopo il riconoscimento e la stima, è il nostro primo passo autonomo, quando cerchiamo di passare dal senso dato dai nostri genitori al senso che troviamo dentro noi stessi e che ci è permesso soltanto dalla autostima, la quale, a sua volta, nasce dallo sguardo del riconoscimento e della stima dell’altro”. Questo sguardo del maestro mi sembrava portare, in ogni occasione, una ventata di libertà. Era questa una cosa che mi stupiva sempre molto. Qualsiasi parola-chiave lui individuasse (stima, riconoscimento, senso od altro) pareva sempre aprire spazi di libertà. Questa libertà – poi ho capito – era il rispetto che lui aveva per ciascuno. Un giorno gli chiesi maggiori spiegazioni su come avrei dovuto muovermi dinanzi alla questione del senso del nostro paziente e lui mi disse: “La domanda di senso che muove una relazione terapeutica ottiene una risposta soltanto nella misura in cui il paziente viene accompagnato ed aiutato, come prima cosa, a trasformare le sue emozioni in affetti, cioè in emozioni che trovano una direzione ed un oggetto. L’emozione è stimolata dagli accadimenti del presente, ma proviene, in modo non elaborato e disordinato, dal passato, dalla storia non ancora narrabile di ciascuno. Nasce da un sé confuso, incerto sul proprio ruolo nella propria storia, e si rivolge a un sé ancora confuso, incerto e combattuto sul proprio ruolo nella sua cronaca attuale”. “Ma come si innesta la terapia?”. “La terapia che si realizza, con e attraverso la relazione, è quella che riesce a restituire al paziente ed a insegnare a gestire quell’altro sé, deturpato o cancellato dalla memoria, nel passato come nel presente, nella storia come nella cronaca attuale, ed innanzi tutto in quell’ibrido tra storia e cronaca che è la relazione terapeutica. In questo modo, le emozioni generiche, spesso impersonali, impulsive od espulsive (come quelle di Federica), trovano un riferimento, un oggetto ed un soggetto, si orientano, si individuano, si
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indirizzano, e diventano affetti”. “Come si opera tutto questo?”. “Vuol dire proporre, con forza e convinzione, esercizi di quella che possiamo chiamare ‘pratica filosofica’, che aiutino il paziente a spendere tempo nel sentire il corpo, nel sentirsi corpo, e nel nutrirsi di piacere e sicurezza con le sensazioni. Vuol dire aiutare il paziente ad usare il pensiero meno per concettualizzare e immaginare e più per ascoltare la fisicità del corpo e della natura, convertendo le funzioni mentali al compito originario e originale di attendenti della corporeità. Sopra un solido e acquisito senso di sé allora potrà davvero crescere un nuovo significato di sé, non più falsamente basico e identitario”. Forse era proprio questo che non aveva funzionato con Federica. Non era mai riuscita a trovare un rapporto vero con l’altro (ed evidentemente anche con me), il quale risultava sempre lontano, irraggiungibile. Il suo mondo interiore era sempre stato un terribile fuoco esplosivo ed incontenibile, mai compreso o motivato. Tutta la realtà rappresentava un dato eccessivo e fastidioso, era il prato troppo verde. Lei aveva bisogno di pace. La differenza che esisteva tra Cristina e Federica appariva adesso evidente. La prima trovava nella sua esperienza depressiva il senso di sé, l’altra l’impossibilità di esistere; con la prima l’esperienza depressiva ci avvicinava in una domanda di senso che condividevamo, nella seconda si approfondiva un solco di lontananza ed incomunicabilità, finché si è restati senza parole, con la sola eccezione di quel saluto. Non a caso, il maestro continuava a ripetere: “Con chi medita l’atto estremo bisogna continuare a tenere aperta la parola, parlare continuamente con lui, anche dello stesso atto, quasi come a farglielo agire nel dialogo con noi, piuttosto che nella realtà”. Chissà se Federica, in quell’ultima telefonata, forse non avesse voluto fare proprio questo? Era quello che mi chiedevo, men-
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tre lui riprese: “Noi dobbiamo sempre essere lì pronti a parlare, poi potrà accadere che il nostro paziente smetta di parlare proprio perché sa che, se ne parlasse, finirebbe per non fare più quel gesto che vuole fare, è allora che si allontanerà senza appello e senza altra possibilità da noi. Noi non potremo mai impedire nulla a chi decide davvero”. Pensando a Cristina, invece, mi sembrava straordinario come la sua esperienza depressiva le aumentasse il vuoto, come elemento di ricchezza da colmare di significato. Cristina era una donnetta piccolina, per statura ed umiltà, una donnetta di quelle che non si vedono, ma che, una volta assenti, ti accorgi di come colmino la vita. Ogni volta che usciva da un episodio depressivo mi stupiva, per come avesse sempre capito qualcosa di più di sé stessa: riprendeva la vita come un nuovo inizio, come forse dovremmo fare tutti noi, se fossimo più consapevoli della nostra pochezza, che lei incarnava con una leggerezza disarmante. Era grata nella relazione, perché era grata nella vita e questa sua posizione umana faceva comprendere come fosse quella la vera sua terapia o il suo antidoto alla morte. Una volta credo di averglielo detto, dichiarandomi “medico inutile” davanti a lei. Ci siamo fatti una grande risata. Ce lo diceva spesso il maestro: “La posizione etica ed umana della persona è la cosa più importante, quella che spesso permette di tenere duro nelle difficoltà o nei momenti di tenebra, quella che ti permette di tenere la barra dritta, fino a quando non si sia usciti dalla nebbia delle angosce, delle ansie, delle paure, della depressione, della notte dell’anima”.
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IV Guardare l’altro nella sua integrità
“Cristiana, la questione è che lei ha bisogno di imparare a dire ‘Io’”. “Non riesco a farlo, non ci sono mai riuscita, a volte mi sembra di essere due persone: una che si propone e fa le cose, ad esempio sul lavoro, ed una che non sa farlo, come in altre situazioni”. “Quali sono queste altre situazioni?”. “Quelle in cui devo essere in un certo modo per andare bene”. “Quali situazioni ricorda?”. “Come con i miei genitori o con alcuni amici. Ho sempre la sensazione di essere sola”. “Ci si deve sentire soli se non si può essere sé stessi”. “C’è poi una terza versione di me. Quella che si rannicchia in posizione fetale ai piedi di un altro”. “Che bello. Mi faccia un esempio”. “Come mi succede qui, con lei”. “Come le accade questo?”. “Mi accade con lei, perché lei non si scandalizza per come sono”.
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“Sa che lei, dicendomi questo, mi ha fatto e mi sta facendo un grande regalo”. “Quale?”. “Il regalo che mi ha fatto è stato quello di avermi permesso di vedere tutto di lei”. Riportai questo colloquio tra me e Cristiana, una mia paziente, al maestro. Io ne ero rimasto profondamente colpito, tanto che Cristiana stessa se ne era accorta. Non ero riuscito a trattenere la mia emozione, intensissima di fronte a quelle parole. Lei mi fece davvero un grande regalo. Per Cristiana, ma a quel punto anche per me, si era creato un luogo dove lei poteva mettersi tutta senza vergogna e nella mia commozione poteva consentire anche a me di non avere vergogna, neppure io, di me stesso. Non vi era nulla di edipico e nulla di dipendente: accovacciarsi ai piedi di qualcuno consente di trovare tutta l’accettazione e tutta la certezza di cui si ha bisogno. Il maestro mi disse, anche lui stupito: “Non so come tu e Cristiana siate giunti a questo punto, ma è molto bello. Cristiana sente che può accovacciarsi ai tuoi piedi. Non è un gesto da poco, potremmo riferirci a tutta una ritualità, una liturgia dei piedi, pensa alla Madonna ai piedi della croce oppure a Maria di Betania (Gv 12,1-3) ai piedi di Gesù. Mettersi ai piedi di qualcuno non è un atto di sottomissione, ma è un atto di consegna e di ricapitolazione. Cristiana non ti ha consegnato una parte di sé, ma il tutto di sé. Si è rannicchiata, e questo per lei ha voluto dire di potersi cibare dell’essere guardata nella sua integrità. Questo è l’elemento terapeutico che è accaduto tra te e Cristiana, perché questo essere guardata nella propria integrità consente un’operazione che consegnerà certamente a Cristiana dignità ed identità”. “Noi terapeuti, quindi, non siamo una sorta di idoli, forse Cristiana ha rimandato a qual-
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cosa di paterno, ma ho percepito anche un’esperienza affettiva in questo”. “Cesare, è lampante in questo caso come il centro della terapia non sia soltanto il riconoscimento basato sull’autostima, ma quello basato anche sull’affetto, sull’accoglienza dell’altro così come è. Nell’esperienza ebraica questo è ben evidente nella benedizione che il genitore faceva ai propri figli prima di morire (‘Caro figliolo, devo dirti che per me è stata una gioia straordinaria il fatto di essere tua madre/tuo padre, una gioia enorme, talmente grande che mi ha fatto paura’)”. “Vuol dire che questo affetto è il filo rosso all’interno del rapporto tra professionista e paziente?”. “Certamente, questo lo è stato tra te e Cristiana; in questo dialogo che tu mi hai portato, sembra riproporsi, come una metafora, proprio quello che accade nella stanza di terapia, dove il paziente ed il terapeuta sono vicini con le loro parti, più e meno buone, senza la vergogna di mostrarsi. È proprio quella che viene definita la genitorialità nella terapia: la possibilità di ricreare e rivivere il percorso genitoriale dal versante materno e paterno insieme al paziente. Il terapeuta ed il paziente si incontrano nell’accoglienza e nel riconoscimento e questo precede il merito e la stima”. “Mi sembra che il punto centrale sia l’incontro con l’umano, per quello che è”. “Certo, per questo un buon rapporto umano già di per sé è terapia. Quello che tu hai aggiunto, e che specifica il nostro lavoro, è che tu sei stato lì a vivere tutta la interezza di Cristiana”. Mi venne in mente la dott.ssa Rachele, psicologa clinica, la mia allieva prediletta, con cui lavoro ormai da molti anni. Un giorno lei scrisse che il riconoscimento è l’esperienza più profonda dell’essere umano, in quanto è ciò che gli permette di sentirsi amato in tutte le sue componenti, anche quelle che sentiamo come negative, ma che definire il termine “riconoscimento” è complesso, in quanto il termine porta con sé tutta una stratificazione emotiva, affettiva e relazionale, che non
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si riuscirebbe forse neppure ad esaurire. Lei affermava che si potrebbe cercare di definirlo con una immagine, quella dello sguardo che ti permette di accomodarti dentro una relazione, di accomodarti sperimentando la libertà dell’espressione di te: la relazione come atmosfera di casa. In quella frase mi colpiva la continuità di pensiero che era evidentemente passata dal maestro a lei. La questione che si pone, quindi, è quella dell’accoglimento di tutte le nostre parti, sia quelle belle sia quelle brutte, in quanto tutti noi siamo una sorta di meticci di cose che ci piacciono e di cose di cui ci vergogniamo. Il maestro riprese: “Bisogna tenere a mente tre parole chiave: incontro, esperienza, perdono, preceduti probabilmente da un’attesa reciproca. Tu e Cristiana avete avuto un incontro, cioè è accaduto che vi siate riconosciuti in uno spazio di scambio, che diviene uno spazio unico. L’esperienza è data dal fatto che Cristiana ha portato dei pezzi di sé stessa che tu hai fatto risuonare anche nella tua storia. Li hai accolti, non ti sei fatto spaventare, neppure dal fatto di avere magari avuto dinanzi qualcosa che da sola Cristiana non riusciva a gestire, e che tu stesso temevi di non essere in grado di gestire. Entrambi avete perciò fatto esperienza, prima dentro di voi, poi nel riconoscimento reciproco, che qualcosa di assai poco nobile, che era dentro di voi, poteva essere letto in maniera diversa. Infine, proprio a partire da questa esperienza, è avvenuto o sta per avvenire il cambiamento, ancora suo e tuo: per Cristiana certamente un’apertura e per te il lasciarti attraversare da un amore gratuito verso una persona che si presenta come paziente, il lasciare che l’altro ti risuoni dentro, non solo come portatore di un disagio, ma anche e soprattutto come portatore di una storia comune. Cristiana si è resa disponibile ad esplorare un
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ignoto, che era dato dal fatto di abbandonare le vecchie dolorose certezze e, fidandosi di te, e tu di lei, vi siete incamminati verso qualcosa di diverso. Avete costruito assieme una narrazione ed una ermeneutica nuova”. Era un fiume in piena il maestro. Forse era stato colpito da Cristiana e da quello che era avvenuto tra lei e me. “Professore, qualche seduta dopo Cristiana mi disse che non era vero che lei non aveva avuto un inizio nella vita, ma che aveva dovuto verosimilmente soltanto fare uno strano percorso”. Mi rispose: “Come figlia, Cristiana necessitava di essere riconosciuta dal padre, cioè amata per le sue parti belle e per le sue parti brutte, nello stesso modo e con il medesimo sguardo amorevole, solo così avrebbe potuto, perdonando il padre, restare totalmente figlia. Questo è stato esattamente quello che è accaduto mentre si accovacciava ai tuoi piedi, atto che, in termini di metafora ovviamente, esprimeva la ricapitolazione della sua identità, a quel punto benedetta da te”. Io, quasi vergognandomi, dovetti ammettere a me stesso che non mi ero accorto della portata di significato che il maestro mi aveva mostrato così chiaramente. “Come il figlio necessita di essere riconosciuto dal padre, cioè amato per le sue parti belle e le sue parti brutte, allo stesso modo, egli necessita di accettare nel padre le sue parti buone e quelle non buone. Così potrà anche lui, perdonando il padre, restare totalmente figlio. Per essere davvero padre, bisogna continuare ed essere totalmente figlio, in una continuità che permette la generatività. Quindi, non preoccuparti delle tue fragilità, ma guardale, se puoi, amandole”. Matteo era un giovane insegnante di liceo. Una persona molto equilibrata, semplice, per bene, si potrebbe dire, forse un poco isolata seppure pronta a rispondere bene alle relazioni inter-
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personali quando accadessero. Nel corso delle nostre sedute, comprendemmo assieme come una sua reticenza a proporsi nelle relazioni nascesse dalla sua omosessualità da sempre presente e della quale lui era assolutamente consapevole. Essa era, però, da lui vissuta come un di meno. Abbastanza presto chiarimmo come la sua omosessualità non fosse una definizione di lui, semmai una connotazione, una tra le tante, non migliore e non peggiore della mia eterosessualità. In sostanza, gli dissi che la mia eterosessualità non mi dava nulla di più e nulla di meno di quello che la sua omosessualità potesse dare a lui. Dopo un percorso sostanzialmente sereno, in cui ci accompagnammo, Matteo ed io ci chiedemmo se esistesse in lui o meno una malattia, un disagio, un problema, e Matteo propose un no. Io però lo incalzai: “Una questione c’è, ed è che lei si trova oggi ancora in una posizione infantile, quella dell’uomo mancante, perché così lei si è sempre concepito, a causa della sua omosessualità vissuta come un di meno, ma l’uomo nasce ontologicamente come mancante, non ha bisogno di essere omosessuale per essere mancante, per questo oggi lei fatica a fare il passaggio alla adultità, cioè alla dimensione dell’uomo desiderante”. Matteo mi lasciò, in quell’occasione, contento, pur se con un impegno. Aveva fatto esperienza del suo essere incastrato in una posizione che di fatto lo ancorava in un non passaggio alla adultità. Non c’è malattia, ma il fatto di essersi concepito come mancante, non in quanto uomo, ma in quanto omosessuale, lo aveva portato a non evolvere con una domanda pienamente umana dinanzi alla realtà. Il suo problema adesso era quello di tutti gli uomini. Matteo aveva un percorso da fare, ma questo ora non aveva nulla a che fare con la sua omosessualità. Decidemmo di rincontrarci nel tempo a venire, e ci demmo un appuntamento a più lungo termine. A questo punto, il maestro mi disse: “Il percorso che porta dalla fanciullezza alla adultità passa attraverso tre tappe: l’uomo
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mancante (il bimbo bisognoso di tutto), l’uomo domandante (l’adolescente che, dinanzi alla sua mancanza, guarda il mondo cercando), l’uomo desiderante (l’adulto che sa fare parlare la propria alterità interna con la alterità esterna). Ancora è evidente come, per diventare adulti, bisogna passare dal bisogno al desiderio e tu, rendendo palese come la questione che la sua omosessualità fosse un fattore come gli altri e da accogliere come gli altri, hai reso possibile un passaggio verso l’ascolto del desiderio, piuttosto che verso l’inseguire un bisogno rispetto ad una concepita mancanza”.
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V Prendersi per mano
Un giorno entrò inattesa in reparto una giovane donna, carina, simpatica, molto semplice e direi pacata. Anna – così scoprii si chiamava – affermava di essere incinta di Dio, per questo il medico del Pronto Soccorso l’aveva ricoverata. Nella sua semplicità ella non voleva per nulla portare via qualcosa alla già nota Madonna, semplicemente, secondo lei, Dio, nella sua più che libera onnipotenza, dopo duemila anni dalla nascita del suo, sino ad allora considerato, unigenito, aveva deciso di dare alla luce un secondo figlio. È così che ella si preparava a questa prospettiva a dir poco miracolosa. Al mattino, ero il primo ad arrivare in reparto e, come prima cosa, ero abituato a fare un giro nelle stanze per salutare i pazienti e rendermi conto della loro salute. Mi fermavo sempre con piacere al letto di Anna, la quale era contenta della mia visita e delle parole che ci scambiavamo, sempre con grande pacatezza. Intanto, il mio vicario le aveva somministrato una buona dose di terapia farmacologica. Dopo qualche giorno, nel mio consueto giro mattutino, Anna mi disse: “Professore, a me fa sempre piacere il suo saluto mattutino, ma oggi debbo dirle che sto male. Vede, io pensavo di essere predestina-
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ta a generare il secondogenito di Dio, immaginavo che sarei stata adorata e venerata nei secoli a venire da tutta l’umanità. Vede professore, stanotte ho capito che nulla di questo è vero e che io non sono bellissima e santissima come credevo, che non attendo alcun figlio e che sono una poveretta, neanche tanto bella, che non sarò venerata in eterno e che sono pure matta”. Non fu facile per me affrontare questa dichiarazione di consapevolezza. Tecnicamente questa si chiama depressione post-psicotica, ma questo non aggiungeva nulla alla nostra relazione e non mi dava alcuno spunto per superare l’impasse del momento. Ci voleva qualcuno che prendesse Anna per mano, qualcuno che, dopo averle tolto il suo delirio, le ridonasse un’altra possibilità. Mi tornarono allora alla mente il “mondo possibile” di Angelo, lo sguardo di stima per Giancarlo, il ritrovamento di senso di Cristina. Anna aveva avuto bisogno di costruirsi il proprio delirio, per non cadere in uno sconforto senza fine, per salvarsi dal baratro vertiginoso di una realtà inaccettabile. Tolto il delirio, mi accorsi di averla spogliata, di averle forse fatto un torto o un furto. Ne parlai con il mio maestro: “Vedi Cesare, spesso, specie nel campo delle psicosi, dove l’intollerabilità del reale ha portato la persona sino alla scissione, per evitare la morte o la disintegrazione, dovremmo immaginare la nostra pratica quotidiana, che inizia proprio quando la psicosi mostra le sue crepe, come un lento ed amorevole processo di liberazione, non soltanto dai processi sociali di dimenticanza, ma soprattutto dalla sofferenza stessa della psicosi, dai vincoli soffocanti di ordine affettivo, per fare intravvedere la possibilità di una riaffermazione di sé, di una propria piena titolarità, prima di tutto personale, e quindi sociale, alla persona che ci sta dinanzi.
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Questo può avvenire soltanto attraverso quello che Tagliabue1 definiva un lento e faticoso processo, che parte dal soddisfacimento dei propri bisogni elementari, magari dalla tua mano che accompagna la persona nelle cose più semplici, e che poi si sviluppa attraverso la costruzione o la ricostruzione di un clima relazionale che alimenta un senso di sicurezza ed autostima. Franco Rotelli parlava in modo molto semplice di ‘buon rapporto con la persona’, di ‘buon rapporto con le cose’2. Dobbiamo quindi essere in grado di fronteggiare una prossimità con la sofferenza molto forte, forse senza precedenti, se vogliamo affermare davvero un modo nuovo di fare psichiatria”. Fu a partire da questo dialogo che iniziai ad occuparmi di residenzialità: collocare le persone in una medesima casa corrispondeva proprio all’operare, nel quotidiano, quella prossimità di cui parlava il maestro, trasformandola in qualcosa di terapeutico. Insomma, di Anna mi interessava molto di più il suo dolore dopo essersi accorta di non essere incinta di Dio, piuttosto che la, pur doverosa, cura del suo delirio. Sembrava anche a me di essere più reale in questo modo, proprio come anche Anna avrebbe dovuto essere più “reale”. Fu così che aprimmo una comunità, con una decina di pazienti ed altrettanti operatori, dove si viveva e lavorava assieme, partendo dal quotidiano. Ci si svegliava assieme, si mangiava assieme, ci si lavava assieme, era il lento recupero di sé stessi attraverso i piccoli gesti del quotidiano. Si dava la possibilità di collocare
1. L. Tagliabue, Quale formazione per le pratiche di residenzialità, in C.M. Cornaggia et al., Residenze per la salute mentale. Nuove politiche in psichiatria, A.I.R.Sa.M., Bergamo 1997, pp. 37-56. 2. F. Rotelli, Quale psichiatria? Taccuino e lezioni, Alpha e Beta, Merano 2021, p. 68.
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in un medesimo spazio le proprie angosce, le proprie speranze, i propri sogni, le proprie parole, quelle che servono per essere e per sognare, i propri bisogni ed il proprio desiderio, i propri affetti, specie quelli lacerati dalla sofferenza, bisognosi di trovare la possibilità di conciliare le proprie parti in conflitto. Si dormiva anche assieme, perché, come dice un vecchio proverbio milanese, sogni e peti stanno assieme nel letto (sogni e pètt restan tucc nel let), metafora della condivisione sia delle nostre più alte aspirazioni sia delle nostre piccole o grandi meschinità. Spazzare via dal patio le foglie secche o lavare i piatti diventavano sostanzialmente lo spazio ove avveniva l’incontro e dove tutti potevamo collocare, come Cristiana aveva fatto, ai piedi dell’altro, le cose che ciascuno aveva dentro ed alle quali più teneva. In sostanza, era un fare accadere le cose in modo tale che, attraverso la metafora dello spazio esterno, si rendesse possibile, nello spazio interno, il riconoscimento e l’imprevisto. Il mio maestro passava periodicamente a trovarci e ci ripeteva spesso: “Il vostro lavoro deve passare attraverso tre passaggi. Il primo è quello di diagnosticare, che non è categorizzare, questo porta ad aumentare la distanza, ma che è quello di dare un nome alla propria sofferenza, alla propria incapacità, alla propria confusione. Il secondo passaggio è quello di interpretare, cioè di fornire al paziente chiavi di lettura di ciò che dentro di lui accade. In questo modo si arriva al terzo passaggio, che è quello di cambiare insieme, che avviene proprio nel prendere parte ad una trama narrativa che possa portare a scenari diversi da quelli dai quali si è partiti, ricostruendo il paziente la propria storia e giungendo, insieme al terapeuta, portatore della sua, ad una nuova trama che libera
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entrambi. Si dà così la possibilità alla persona che sta con noi di costruire una nuova semantica ed una nuova ermeneutica. Se farete questo, sarete stati terapeuti, se non lo farete, avrete soltanto fatto intrattenimento”. “Professore, per fare questo non servono o non servono soltanto le parole, ma deve avvenire un’esperienza. Come la riconosciamo?”. “L’esperienza avviene quando le cose accadono nel qui ed ora, nel presente, quando avvengono nella carne, cioè nel nostro profondo e quando sono emozione che diviene affetto. Non dimenticate mai, infine, che l’incontro, quando è esperienza, va in due direzioni, cioè deve essere reciproco”. Mi venne immediatamente alla mente Filippo, quando un giorno mi chiese, nel corso di una seduta: “Professore, voglio chiederle una cosa. Io, nel tempo che sono venuto qui e nei dialoghi con lei, mi sono accorto di essere cambiato, ma ora mi chiedo: anche lei è cambiato o era pronto a cambiare nel dialogo con me? Perché credo che quello che accade in me, per essere vero, deve accadere, almeno un po’ anche in lei”. Trovai questa frase di una straordinaria potenza e soprattutto fortemente provocatoria. Assieme al mio maestro è stata questa frase di Filippo ad obbligarmi a rifarmi, da lì in poi, questa domanda ogni volta e con ciascuno. “Cesare, pensa ad una persona che ci porta il suo dolore; il primo istinto è quello di difenderci, perché quel suo dolore richiama uno stesso dolore dentro di noi, tuttavia se accogliamo questa esperienza, il dolore dell’altro diventa strumento per incontrare il nostro dolore, quello che magari non è ancora del tutto razionalizzato e, quindi, si genera un incontro che si basa su di una esperienza diversa, ma unica allo stesso tempo. Per questo, cambiamo anche noi”.
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Ciò non significa un uso strumentale del dolore dell’altro, ma l’accoglienza del dolore dell’altro come esperienza simile al nostro stesso dolore. Nell’esperienza comunitaria questo diventava assolutamente palese, tanto che qualsiasi operatore o era in grado di mettere in gioco il proprio dolore oppure doveva, prima o poi, lasciare il mestiere. “Dentro ognuno di noi c’è una parte inconoscibile, indicibile, che è la più profonda, che è quella che si struttura fin dai primi momenti di vita e che vive, in prima istanza, degli sguardi ricevuti da parte dell’altro. Non a caso ognuno, rispetto a sé ed alla propria immagine, ha un modo di guardarsi che è risultato di tutto lo sguardo che ha vissuto in precedenza. La parte non conosciuta di sé resta un punto inaccessibile, si dovrebbe dire sacrale, poiché si origina da esperienze che non possono venire mentalizzate, ma sono state introiettate, passando per altri canali, che non sono la parola o la comunicazione, ma il corpo. Per questo, nel vostro lavoro di comunità, partite dal corpo, dal toccarsi, dal manipolarsi. L’essere umano non è mai totalmente accessibile, è costituito da una trascendenza incolmabile, ma è attraverso questa limitazione intuitiva che diventa reale la mia intangibile singolarità, così come quella dell’altro. Questa trascendenza incolmabile è l’alterità che è in me e che può essere solo svelata nell’incontro con l’altro e nel modo in cui l’altro si fa spazio dentro di me. Il non essere totalmente accessibile significa che esiste, in ognuno di noi, una impronta originaria che non può essere verbalizzata, ma viene vissuta continuamente e soltanto nell’incontro con l’altro, con la sua propria impronta originaria. Questo è alla base del desiderio di essere riconosciuti come portatori di una storia unica”.
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Era evidente il motivo per il quale il maestro, oltre che laurea to in Medicina, fosse anche laureato in Teologia. Egli, non a caso, sosteneva come non fosse per nulla certo che la psichiatria appartenesse alla medicina, almeno non più di quanto appartenesse alle scienze umane, un poco come Eugenio Borgna che – citando Clemens Brentano – definiva la psichiatria la sorella, sfortunata, della poesia3. Bruna si è fermata con noi per qualche anno. Rompeva ogni cosa ed urlava soltanto. Fu l’incoscienza della nostra gioventù e del nostro entusiasmo a farcela portare in un normalissimo appartamento, dove noi restavamo con lei giorno e notte. Ci mettemmo d’accordo con il chirurgo dell’ospedale vicino, avvertendolo che, verosimilmente, saremmo ricorsi al suo aiuto molto spesso, in quanto Bruna ingoiava ogni cosa. La soluzione, sino ad allora presa da chi ci aveva preceduto, era stata quella di farla vivere, in buona sostanza, in una sorta di collocazione che assomigliava più ad una gabbia che ad un luogo dignitoso. Non so dire come accadde, ma, dopo un paio d’anni ed un numero indicibile di accessi in pronto soccorso, Bruna aveva iniziato a mangiare a tavola con noi, usando il coltello e la forchetta. Sono certo che a Buckingham Palace si mangiasse meglio, ma a noi parve allora un risultato straordinario, degno di un pranzo dalla regina. Iniziò anche a parlarci. Fu lei ad insegnarmi che tutto il lavoro del quotidiano passa attraverso la metafora del prendersi cura e della curiosità, offrendo all’altro soltanto la possibilità, possibilità di esserci, possibilità di fare, di stare, di parlare, di ascoltare, e così via. “Questo è quello che dovremmo noi per primi fare con noi stessi e non lo facciamo” concluse il mio maestro.
3. E. Borgna, La follia che è anche in noi, Einaudi, Torino 2019, p. 5.
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VI Non pretendere
Guido era uno studente universitario, un poco indietro con gli esami, che giunse alla mia osservazione per una sorta di blocco emotivo proprio rispetto a questi. Non dava più gli esami oppure si faceva letteralmente bocciare. Era persona molto a modo, precisa, ossequiosa, che presentava un quadro sostanzialmente ossessivo e di ansia rispetto alla propria immagine ed al proprio futuro, un perfezionismo che non gli faceva certamente bene. Proprio questo aveva agito da primum movens nella decisione di venire da me, in quanto non si sentiva sicuro circa la scelta da lui tempo prima effettuata di studiare Agraria. Parlammo, in modo piuttosto generico, per alcune sedute, poi, improvvisamente, Guido si presentò molto rasserenato, lasciando anche me perplesso, e mi disse che dalla seduta precedente il suo atteggiamento nei confronti degli studi e della sua scelta accademica erano radicalmente cambiati. Mi disse che il punto di svolta aveva a che fare con qualcosa su cui lavorava da due o tre mesi a questa parte. Aveva riflettuto sulle risposte generiche che spesso le persone danno di fronte agli sbagli degli altri (“È capitato, succede…”), in un modo del tutto impersonale. E questo era quello che lui si era sentito dire per molto
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tempo dai suoi amici, quando non faceva un esame o veniva bocciato. “Professore, l’altra volta, quando io le ho chiesto: ‘E se avessi fatto la scelta sbagliata?’, lei mi ha risposto: ‘Può essere, ma anche se lei avesse fatto la scelta sbagliata, adesso lei è qui’. Quando ho sentito queste parole, io ho iniziato a vivere la possibile scelta sbagliata non più come una condanna”. Io, molto incuriosito, lo incalzai: “Quando lei mi ha detto che forse aveva fatto la scelta sbagliata, io le ho risposto: ‘Anche se lei avesse fatto la scelta sbagliata, adesso lei è qui’: cosa differenzia questa risposta da ‘beh! cosa succede se uno ha fatto una scelta sbagliata? anche altri fanno scelte sbagliate’”. Guido rispose senza alcuna esitazione: “Quella non è una parola detta a me”. Ed aggiunse: “Nella tragedia greca ci sono delle parti che dice il coro e sono le parti rivolte all’uditorio, che è generico, è il popolo, la mentalità corrente. La frase detta ‘lei ha sbagliato’ è detta al protagonista e questo fa sì che quella frase diventi vera. Fino a quel momento non avevo mai preso in considerazione il fatto di avere potuto sbagliare, avevo paura; la scorsa volta sono tornato a casa e mi sono detto che avevo potuto pure avere sbagliato. Non immagina la serenità con la quale sono uscito di qua la volta scorsa, la possibilità di avere sbagliato era una ipotesi sconosciuta per me”. Guido mi portò alla memoria due aneddoti. Il primo riprendeva l’immagine di quando capita di essere, in una ascesa in parete, bloccati a metà, quando si è senza sufficiente fiducia o forza per proseguire la salita e si è con una grande paura o senza più energie per potere ridiscendere. Il secondo si rifaceva al ricordo di un racconto fatto da un amico allo stesso Guido. Un bambino chiede al padre: “Cosa faremo se perdiamo il treno?”, “Prenderemo quello dopo”, “E se perdiamo anche quello dopo?”, “Prendiamo quello dopo ancora”, dopo molte domande e risposte tutte uguali, il padre cambia
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risposta e dice: “Ci aiuteremo”, ed il figlio smette di fare ulteriori domande. Questo era quello che era accaduto in lui e che gli aveva permesso di accettare la situazione e di essere finalmente sereno. Questo accadimento è tutto percorso e giocato nella relazione e nella frase illuminante, che è stata: “Anche se lei avesse fatto la scelta sbagliata, adesso lei è qui”, in risposta al suo dubbio. Cosa è successo? L’analogia con il teatro greco, che Guido ha fatto durante la seduta, è già un’ottima interpretazione: in essa viene sottolineata la differenza tra una risposta “corale”, impersonale nel mittente e nel destinatario, ed una risposta “individuale”, personale in partenza e in arrivo. È questa una risposta “individuante”, sia per il soggetto che per l’oggetto, è una risposta di riconoscimento, che svela e manifesta il carattere affettivo, e perciò autentico, della relazione. Di più, mostra che la relazione è insieme “di servizio” ed “interpersonale”, caratteristica peculiare della relazione psicoterapeutica. Ma non basta, c’è qualcosa di più del teatro greco che Guido ha colto con il cuore e non ancora con la mente. “Adesso lei è qui” esce dall’antinomia “ho sbagliato-non ho sbagliato” ed entra nel suo vero dubbio, quello che sino ad allora non si era mai posto: “sono sbagliato-non sono sbagliato?”, che ha per immediata conseguenza: “Sono accolto o rifiutato? accolgo o rifiuto me stesso?”. La mia risposta, in qualche modo, aveva risolto la domanda: “Per me non sei sbagliato, sei qui con me e io sono e sto qui con te”. La risposta va addirittura al di là del dubbio e prefigura una relazione inter-personale terapeutica, prodromo di una relazione intra-personale sana, dove lo sbaglio e lo sbagliare non sono determinanti, perché non interferiscono con l’accoglienza e non la pregiudicano. Adesso sì che si può stare tranquilli come in un’“atmosfera di casa” – come scriveva la dott.ssa Rebecca – e si può tranquil-
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lamente sbagliare, nello studio e nelle scelte (professionali e non), perché la posta in gioco è modesta, è solo dell’oggetto che ho (preso, perso, costruito giusto o sbagliato), non del soggetto che sono (vincente, perdente, giusto, sbagliato, ma sempre e comunque accolto e mai rifiutato). È evidente che in me Guido ha incontrato una figura genitoriale – materna o paterna francamente non importa – e l’incontro ha funzionato innanzitutto per le caratteristiche di credibilità che, in qualche modo, esistevano tra me e Guido, che gli hanno consentito di identificarmi come schermo possibile per la proiezione transferale. Da lì è nata la frase felicissima o più semplicemente fortunata, che sposta l’accoglienza dalla domanda alla persona e slega così l’argomento della domanda dal desiderio della persona, liberandola. È allora che ci si può pure fermare a metà parete e si può pure perdere il treno, perché, essendo insieme, ci siamo presi per mano. Un’ultima considerazione direi psicologico-religiosa: la risposta illuminante trasporta Guido da una dimensione islamica o vetero-testamentaria, dove il fedele è suddito, ad una cristiana, dove il fedele è e rimane figlio, anche quando è prodigo, e lo colloca in una relazione inter- ed intra-personale di pace, amministrata e regolata dall’accoglienza e dalla misericordia (la legge del cuore). La tematica dello sbaglio è comune non solo in questa relazione, ma in generale nella condizione umana. Il terapeuta può, pertanto, uscire dalla performance e presentarsi anch’egli umano al paziente, che ha bisogno di sentirsi riconosciuto. Non sembra, in questo caso, tanto importante sbagliare o fare la cosa giusta, la cosa fondamentale è esserci per entrambi in una dimensione che diventa davvero umana, senza più il terrore del giudizio sia per il paziente che per il terapeuta. Guido può mettere la sua parte fragile davanti e, soprattutto, vuole
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che sia guardata ed accettata come parte di lui, non in modo impersonale, come farebbe il coro nella tragedia greca. Infatti, si esce dal fatto di dover apparire e si entra nel concreto del poter sbagliare, senza che questo tolga dignità a chi è paziente, ma anche a chi è terapeuta. Quest’ultimo, rinfrancato, può lasciare entrare il paziente, e grazie a lui fare esperienza, non di invincibilità, ma di umanità gratuita, bella e basata sul perdono di sé. L’incontro avviene nel momento in cui si esce dalla pretesa di sé con sé stesso e dell’altro su di sé. Guido aveva una richiesta molto delicata, che si celava dietro ad una più insidiosa, che è “dimmi che non ho sbagliato”. La pretesa comune è quella di non sentire minacciato il proprio potere, quella di non incorrere in giudizi negativi, quella di non vedersi inficiato in un ruolo. Io sono stato esposto a tale pretesa, che ho sentito su di me ed ho immaginato fosse la medesima da parte del paziente. L’incontro è avvenuto nel momento in cui vi è stata la disponibilità ad uscire dalla pretesa di non fallire. Nel momento in cui io ho compiuto una vera operazione di riconoscimento: “Lei è qui ed io sono qui e questo basta nella perfezione imperfetta del nostro incontro”. Si esce, in questo modo, dalla pretesa e si entra nel possibile ovvero nella possibilità di potere travalicare il potere del ruolo e trovarsi a metà strada (parete) dell’essere umano. Mi ascoltava con grande curiosità il mio maestro. Avevo presentato questo caso in uno dei nostri incontri, dove mi ero sentito assolutamente alla stregua di Guido: dovevo anch’io non sfigurare nel presentare il caso, magari i miei assistenti avrebbero goduto nel prendermi in castagna in qualche cosa. Alla fine, egli disse: “La questione della performance ci riguarda tutti, ci accomuna. Abbiamo bisogno di uscire dall’ordine del giudizio per essere liberi e per poter accedere al godimento”. Questo mi portava a quanto io stesso andavo ripetendo
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ai miei assistenti, quando imponevo loro, specie nel nostro lavoro di comunità, il motto di “giudicare i comportamenti e le cose dell’altro uscendo dalla dimensione del biasimo”, cioè dare un senso, dare un nome, senza che questo comporti una valutazione negativa dell’altro. Il maestro riprese: “L’altro fa quello che può, ci dice quello che può, a partire dal mondo nel quale è collocato e che lui abita e del quale noi dobbiamo conoscere il linguaggio. Anche noi temiamo il giudizio negativo, ma il non biasimo significa riconoscere all’altro quel credito di senso di cui parliamo da tanto tempo e che abbiamo sempre nella mente. Il rapporto tra Guido e Cesare ci ha insegnato come, uscendo dal giudizio negativo inteso come biasimo, e come, restando fedeli a quello che avevamo definito il credito di senso, la fiducia, la stima e soprattutto la non pretesa, avvenga l’esperienza dell’accompagnamento che rende possibile ciò che era imprevisto in Guido”.
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VII Saperci fare con il mondo dell’altro
Nella comunità che avevamo inaugurato e che aveva iniziato a lavorare a pieno regime, ci chiedevamo quale fosse il nostro sapere. Il maestro ci aveva da subito insegnato come noi, come équipe, dovessimo avere un solo sapere: quello condiviso e provvisorio. Condiviso perché deve essere un patrimonio di ciascun operatore, provvisorio in quanto deve essere sempre pronto a cambiare, mutando la realtà o ciò che ci fa vedere il paziente. “La comunità – diceva il maestro – è anzitutto un luogo, ma soprattutto l’équipe è un luogo. Martin Heidegger affermava che ‘abitare è essere’1, Benedetto Saraceno che ‘la psichiatria è una storia di case’2. Voi siete quindi anzitutto un luogo, un luogo di sapere e di incontro. Voi stessi siete lo strumento del sapere. Ma qual è il sapere di un’équipe? È il produrre una visione dell’altro e di sé con i contributi di tutti. Una rappresentazione di una persona da parte di tutti, come in un quadro cubista. Tutti conosciamo, ad esempio Grazia, ma possiamo metterla insieme soltanto unendo, noi tutti insieme, 1. Cfr. M. Heidegger, Costruire, abitare, pensare, tr. it., Mimesis, Milano 2010. 2. B. Saraceno, Sulla povertà della psichiatria, DeriveApprodi, Roma 2017, p. 23.
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i pezzi di lei stessa che ha gettato su di noi. Possiamo anche usare questo metodo per strutturare immagini destrutturate e, nello stesso modo, destrutturare immagini strutturate. Aiutare Grazia a tirare fuori le proprie parti inconsapevoli, porta anche noi a tirare fuori le cose inconsapevoli”. Grazia aveva un grave disturbo borderline, rompeva ogni cosa nella nostra casa e tutto finiva per ruotare attorno a lei, ai suoi agiti, che ci sconfortavano continuamente. Ma il maestro incalzava: “Dinanzi al vetro rotto, Grazia agisce e non ci piace. Ma dopo il vetro rotto, voi dovete elaborare, riconoscere e dare un significato. Il soggetto borderline vi costringe a tirare fuori quello che siete, nell’emergenza, cioè dinanzi al vetro rotto, voi dovete uscire per quello che siete”. “Perché?”, gli chiesi. “Perché, dinanzi all’agito, la prima cosa che viene fuori è la tua reazione, la quale ha a che fare con la tua personalità, con quello che sei tu, questo il soggetto borderline lo sa ed è così che, tenendoti sempre sull’emergenza, il soggetto borderline ti tiene sempre sul filo di ciò che sei”. “Professore, come dovremmo rispondere allora noi?”. “Con quella che chiamiamo distanza terapeutica, cioè, prima di agire o, peggio, di reagire, chiediamoci cosa serve a lui che io faccia o cosa è utile a lui che io dica”. Quello che mi stupì, e che mi ricordò anche Guido, fu quello che il maestro ribadì: “Il soggetto borderline non vuole regole generali, ma soltanto regole riferite a sé stesso. Non vuole sentirsi dire: ‘Non si spaccano i vetri’, ma: ‘Non è buona cosa per te spaccare i vetri’, capite la differenza?”. Il maestro insisteva, come arrivando al nucleo centrale di quello che voleva comunicarci: “Quante volte vi ho detto che dovete partire dalla soggettività della persona, in questo caso da Grazia e dal mondo dal quale ci parla, come già ci siamo già detti. Non dobbiamo tanto pensare a che disturbo Grazia abbia, ma a che persona Grazia sia. Non è importante l’oggettività, ma la soggettività”. A quel punto, io chiesi: “Professore, come la rottura del vetro di Grazia può trovare posto nella relazione?”. Il maestro conti-
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nuò: “Ricordatevi sempre che tutto ciò che si pone dentro alla relazione può essere rimodulato, rinegoziato, rielaborato. Dinanzi ad una persona borderline, il nostro compito e la nostra unica possibilità è farci carico e tentare di tenere insieme una relazione, che l’agito pare distruggere (d’altra parte, questa è la sua finalità). Non dobbiamo farci distruggere noi, come il padre fa quando il bambino o il ragazzo lo attacca per misurarlo o per misurarsi. Dobbiamo fare in modo che il drop-out sia dei pazienti borderline e non degli operatori. Non a caso, i dati più recenti ci dicono che, se i servizi riescono a tenere insieme una relazione, si assiste ad una modificazione della sintomatologia impulsiva nel giro di un anno. La prima area clinica che va in remissione dopo un anno è l’impulsività clinica. Se voi riuscite a tenere per un anno il paziente problematico, la situazione si regge”. “Ma questo è proprio quello che è accaduto con Bruna!”, esclamai io. “Quando poi si supera questa prima fase, emerge la seconda area problematica: lo stato emozionale depressivo atipico, quello dettato dal vuoto. La sovreccitazione proveniente dal mondo interno traumatico del soggetto borderline è quello che lo tiene vivo. La sua impulsività gli serve, perché lo protegge dallo sconforto depressivo (come Anna era difesa dal suo mondo delirante). La terza, dopo forse qualche anno, è quella che possiamo definire come la diffusione dell’identità. La persona inizia a gettare a noi aspetti del sé, gestiti indipendentemente uno dall’altro, e siamo noi che possiamo, piano piano, rimetterli assieme”. “La rabbia che evoca il paziente borderline, pertanto, non è un problema mio, ma un problema nostro” disse uno di noi, ed il maestro: “Lavorare con il paziente borderline è lavorare con la rabbia, tutti insieme; Winnicott3 parlava addirittura dell’odio nel controtransfert, noi possiamo anche essere arrabbiati,
3. Cfr. D. Winnicott, Dalla pediatria alla psicoanalisi, tr. it. di C. Ranchetti, Martinelli, Firenze 1981.
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l’importante è come la gestiamo questa rabbia, qual è il nostro atteggiamento. Questo perché, se non fai nulla o fai finta di nulla, aumenti la spinta alla provocazione, se invece rispondi, agisci come specchio e legittimi il comportamento dell’altro. È quello che capita a tanti genitori quando sono provocati dai loro figli. In linea teorica si dovrebbe dire che, se rispondi in modo modulato, fai vedere che c’è un posto della rabbia, ma anche un modo per gestirla (rispondere con rabbia modulata). Certamente, voi sapete che è più facile dirlo che farlo”. “Professore, come mai si cade così spesso nella violenza oppure nel rifiuto?”. “Accade perché le persone borderline innescano sequenze emozionali negative. Se il sintomo non ha per noi senso e noi non ci occupiamo di cosa sta dietro all’agito, quindi non ci sforziamo di ricercare il suo senso, non resta che la punizione, proprio perché il dialogo, che qui chiamerei la ricerca di senso, è rotto. Per questo tante volte abbiamo parlato del “credito di senso” che dobbiamo sempre riconoscere all’altro. Questo credito di senso, che ci ha insegnato Jaspers4, è quello che previene la violenza o il rifiuto. Pensate a quello che accadeva nei vecchi manicomi, era proprio questa caduta di senso a legittimare la violenza, così come nel Nazionalsocialismo era questa mancanza di senso che legittimava la soppressione del disabile o anche semplicemente, per non arrivare all’estremo, è la causa degli atteggiamenti autoritari o repressivi. Questo clima aumenta la sequenza aggressiva, anche perché l’équipe diventa un soggetto che non mentalizza e quindi anche lei finisce per operare per agiti”. “Professore, vuole dire che l’équipe perde la capacità di autoriflettere e la relazione si deteriora per questo? Come si può andare al di là di questi fenomeni? E come si può non entrare nel turbine distruttivo?”. “Bisogna rimuovere gli ostacoli al trattamento, 4. Cfr. K. Jaspers, Psicologia delle visioni del mondo, tr. it. di V. Loriga, Astrolabio, Roma 1950.
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trovare delle vie per valorizzare il sintomo e l’agito, approfondendo sempre senso, funzione, storia. Se non si fa questo, la rabbia dei soggetti borderline diventa la rabbia degli operatori e le caratteristiche dei pazienti borderline diventano speculari nell’équipe”. Anche la rabbia di noi operatori andava gestita, perché lavorare in una casa pretendeva lavorare molto più con noi stessi che con coloro che ospitavamo. Spesso, dopo un agito, si provava un senso di fallimento, di inutilità, di incapacità, oppure si proiettava la nostra rabbia sugli amministratori che non ci fornivano i mezzi adeguati. Il maestro ci guardava sempre con pacatezza e ci rassicurava: “Ogni volta che voi vivete queste emozioni, sappiate che sono le stesse che il soggetto borderline ha vissuto per primo, il suo senso di fallimento, il suo non sentirsi capace. Ve lo ha buttato addosso, in modo tale che, comprendendolo voi, lo possa comprendere anche lui”. “Ma allora, dovremmo sorbirci tutta questa rabbia, per poi farne cosa?”. “Con questa rabbia siete entrati nel suo mondo, ora sapete da dove vi parla. Provate ad immaginare che sia un dono che lui vi fa”. Avevamo troppo rispetto e troppa stima per non assalirlo, ma ogni tanto quando ci diceva queste cose, magari poco dopo che era accaduto un agito, lo avremmo istintivamente fatto. Invece lui ci indicava un percorso possibile. Ogni tanto, però, ci si divertiva proprio. Ci si lasciava andare nel vivere cose assieme e questi erano i momenti più belli. Vivere la casa assieme voleva spesso dire scambiarci ruoli e compiti, anche permetterci di debordare dal consueto. Ricordo una finale di partita del torneo di calcetto – io non ero personalmente presente, ma mi fu raccontata con grande soddisfazione. In quel torneo si giocava con squadre a sette e si potevano fare numerosi cambi nel corso della partita, a patto che il rapporto utenti-operatori restasse però fisso a quattro e tre. Nel corso della finale l’arbitro fischiò un calcio di rigore ed un giocatore lo assalì, cercando di picchiarlo. I suoi compagni
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di squadra lo rincorsero e lo placcarono a terra. Bellissimo: il picchiatore era un dirigente psichiatra ed i compagni che lo bloccavano a terra i suoi pazienti! Credo nessuna pratica di gioco di ruolo o nessun intervento paradosso avrebbe potuto essere così azzeccato. Infatti ho trovato assolutamente esilarante questo episodio, che ha fatto a tutti sperimentare come nella e dalla follia si possa entrare ed uscire e come, nei nostri ruoli, di folli o di controllori, possiamo interscambiarci senza accorgercene. Quel dirigente psichiatra, nella sua piccola follia momentanea, aveva in fondo insegnato ai suoi stessi pazienti che si poteva anche impazzire e che di questo ci si poteva non vergognare. In fondo, vivevamo un mondo possibile. Non siamo andati a fare il bagno in una piscina inesistente, ma abbiamo giocato assieme in un campo reale, permettendo a ciascuno di mettere dentro a quel gioco cose diverse. Forse abbiamo messo dentro anche le nostre angosce e le nostre aspettative, uno dell’altro. Ci siamo guardati, ci siamo accompagnati, abbiamo trasformato le nostre emozioni in parole, abbiamo cercato quelle che ci facevano essere, abbiamo sopportato i silenzi, o forse piano piano li abbiamo riempiti, accorgendoci poi di essere un poco più ricchi, abbiamo anche pianto, come quando è morto Tobia, il più vecchio di noi, quello che ci guardava sempre di sottecchi e rideva. Abbiamo ascoltato Battista, che quando mi incontrava mi diceva sempre: “Guarda che anche tu non sei tutto giusto”. Eppure una sera, mentre stavo per lasciare la casa, Battista mi disse: “Tu adesso vai a casa dove ti aspetta tua moglie ed io resto invece qui. Non saremo mai uguali”. Battista, a distanza di tanti anni dai famosi due giovani che andavano nella piscina inesistente, mi aveva fatto vedere come vi fosse una differenza, questa volta molto più profonda tra me e i miei pazienti, una differenza che, pur con tutto quello che in una casa assieme si faceva, non poteva superare un’ambiguità di fondo, che era proprio quella che io quella sera andavo a casa e lui no.
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VIII Lavorare tra dipendenza e soggettività
Santiago era un religioso, fondatore di un piccolo ordine di suore, mi aveva contattato per caso, in quanto affetto da una seria forma di epilessia. Prima di mettermi a fare lo psichiatra mi ero occupato di questa malattia e fu così che lo presi in cura. Dopo un tempo molto breve e con una giusta somministrazione di farmaco, Santiago guarì praticamente in modo completo dalle crisi. Un giorno ci incontrammo e, parlando della sua malattia e del suo essersi prontamente ristabilito, egli mi disse: “Cesare – lui mi dava del tu –, ricordati sempre che io sono guarito, ma che tu sei un medico inutile”. Avrei capito soltanto decenni dopo cosa Santiago avesse voluto dirmi. Lo capii una sera nel corso di una seduta con Giacomo, un uomo che aveva perso il lavoro e non era riuscito più a trovare una nuova strada, restando incastrato in un meccanismo di totale disistima di sé, di senso di fallimento, di assenza di prospettive sul futuro. Aveva trascorso un periodo di profondo isolamento, uscendo da casa evitava il portiere, nascondendosi negli angoli dell’ingresso per non farsi vedere in ore nelle quali normalmente una persona lavora, talvolta tornava invece apposta per farsi vedere rientrare nell’ora solita di fine lavoro. Alzandosi al mattino, il cielo era sempre
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grigio, lui me lo descriveva così anche quando era azzurro e assolato (la realtà, in questo caso, era poca, non troppa, e questo mi confortava, il prato non era troppo verde). Quella sera, parlammo del senso del vivere, di quel senso che egli non trovava più, di come il non “fare” niente avesse oramai finito per corrispondere al non “essere” niente. Ci trovammo a parlare del “fare qualcosa” e dell’“essere qualcosa” e di come, oramai, la società attuale faccia del tutto combaciare queste due espressioni. Ci chiedemmo, a quel punto, se il lavorare fosse il modo che tutti noi avevamo per essere, senza il quale non eravamo più nulla. Fu in quel momento che mi tornò alla mente il “sei un medico inutile”, come se Santiago mi avesse raccomandato di non pensare mai che il mio essere medico sostituisse il mio essere. Questo, d’altronde, quante volte me lo aveva ripetuto il maestro! Con Giacomo, però, quella sera ci incontrammo. Riprendendo la vicenda di Sisifo che talvolta accompagnava i nostri dialoghi, ci incuriosimmo entrambi, non tanto su quando Sisifo saliva sulla montagna, cioè mentre stava lavorando in qualche modo, ma su quando lui scendeva, non lavorava, cioè mentre doveva dare un senso all’ineluttabile crudele destino che lo attendeva e dinanzi al quale lui era impotente. Questa lettura di Sisifo fatta insieme rincuorò Giacomo: l’ineluttabile destino di Sisifo, in fondo, era la sua condizione di disoccupazione. Nello stesso tempo, con quella frase di Santiago, che ora risuonava più come un affettuoso augurio piuttosto che come un oscuro presagio, la condizione di disoccupato di Giacomo diventava anche la mia, non di persona disoccupata, ma di medico che non doveva trovare il senso di sé nel suo essere medico, ma nel suo essere uomo. Solo così riuscii a comprendere Giacomo, non potevo pescare nel mio successo professionale, che evidentemente ci distanziava, ma dovevo chiedermi chi io fossi come persona e, per chiedermi chi io fossi, il mio essere medico era inutile. In quella seduta parlammo a lungo,
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distesi, sereni, con un condiviso piacere, e non ci accorgemmo entrambi che l’ora era finita o facemmo assieme finta di niente. Ogni tanto il nostro compito è quello di separare o di risignificare (ovvero dare un nuovo significato): nel caso di Giacomo, la questione era il separare il “fare” dall’“essere” e ridefinire la questione della disoccupazione non più come un giudizio su di sé. Ricordo Jacopo, un uomo con una lunga storia di omosessualità scoperta assieme tanto tempo fa. Dopo vicende lavorative negative, egli era tornato ad immergersi in un tipico assetto di dipendenza, in un mondo di chat, che precedentemente aveva lasciato quando si era prodigato in un complesso percorso per essere assunto in un ruolo assai importante in una multinazionale. Venuta meno quella opportunità, ci siamo trovati ad analizzare le ragioni di questa sua ricaduta, immediatamente successiva, nella dipendenza dalle chat. Abbiamo quindi iniziato a parlare di questa sua ricerca, acuita dal fallimento del suo inserimento lavorativo. Comprendemmo come la frustrazione del suo bisogno narcisistico, data dall’esclusione dalla carriera desiderata per la quale si sentiva bello, elegante, importante, era così intollerabile che, quasi nell’immediatezza, aveva dovuto sostituirla con una sua ricerca narcisistica infantile, concretizzatasi nel guardarsi allo specchio in mutande ed essere contento della sua conchiglia addominale. Fu un momento di grande sofferenza per Jacopo riconoscere, ma era pronto a farlo, questo suo bisogno di compensare la questione. Ci accorgemmo assieme come il suo desiderio di essere un professionista riconosciuto era stato da lui ridotto ad avere una bella conchiglia addominale. Abbiamo chiamato quanto accaduto una “riduzione” del suo desiderio, così come mi aveva insegnato il mio maestro: ogni dipendenza nasce da una riduzione del desiderio, oppure da una regressione del desiderio a bisogno. La posizione narcisistica di Jacopo era rimasta immutata, ma, nel primo caso, si muoveva in modo
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costruttivo verso una sorta di realizzazione almeno professionale e relazionale di sé, nel secondo caso restava incastrata in una ripetitività simil-onanistica di azioni non finalizzate alla relazione o alla realizzazione di qualcosa di sé. Parlammo a lungo di cosa intendesse lui per realizzazione di sé, quale fosse la sua soggettività. Mentre ne discutevo con il mio maestro, lui mi fece vedere come, nel caso di Jacopo, avevo spostato il problema dalla sua dipendenza alla ricentratura del suo desiderio. “Hai potuto, con lui, cogliere la regressione nella dipendenza, per la paura di non riuscire a realizzarsi nella professione sperata, ma hai fatto emergere anche come questa nascesse dalla scarsa stima e dalla scarsa fiducia in sé, così, assieme a te ha guardato e condiviso la sua paura e riscoperto il suo desiderio”. Questa confusione sul desiderio non esime nessuno: anche la vita spirituale, specie delle persone consacrate, può essere accompagnata da dipendenze diverse, magari affettive. Anna, una giovane consacrata, giunse alla mia osservazione dopo due innamoramenti dai contorni piuttosto malati, però assai simili tra di loro. Dopo un breve percorso fatto assieme, mi disse: “Con lei ho capito la confusione che nasce quando si vive una affezione-dipendenza, da tenere ben distinta dal rapporto affettivo che si ha con il centro della propria storia e di sé stessi. La dipendenza mi faceva diventare schiava. Stavo male se non arrivava un messaggio sms da lui, invece la vita della mia vocazione è ad un livello che non porta ad una ossessione, dove il mondo inizia e finisce in quel particolare, l’sms. Nell’ossessione mi sentivo sola, nella mia vocazione mi sento ora forte e libera. Quando il legaccio psicologico era più forte di me, era come se io fossi zoppa e non potessi correre, mentre invece ora sento che ho dentro la possibilità di fare qualcosa, allora è una mia scelta, posso mettermi in ginocchio oppure correre. L’avere dato, con il lavoro con lei, un nome alle carenze psicologiche che avevo, ed avere preso coscienza
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di queste, mi ha dato una libertà che finalmente posso giocare nella relazione con me stessa e con la mia vocazione e questa relazione è nuova”. Questo pensiero che Anna mi ha regalato dopo circa due anni di lavoro assieme, mi era sembrato illuminante. Ancora una volta bisognava separare e cercare di dare nome al desiderio ed alla propria soggettività. Anna era consacrata, ma, in quelle due occasioni, si era assolutamente innamorata, con tutto il suo pensiero ed il suo mondo emotivo (così a lei sembrava) che non si staccavano neppure per un istante dalla persona che lei credeva di amare. Aveva finito, come faceva Jacopo quando era preso dalle sue chat, a non vivere la realtà che aveva dinanzi, ma a restare tutta presa dalla rimuginazione verso l’altro. Il suo desiderio di essere amata, tanto provato nel momento dell’incontro con la propria vocazione, era ridotto al bisogno di essere amata dalla persona di cui credeva di essere innamorata. Questo passaggio, che era pieno di sofferenza, poco si distingueva dalla riduzione del desiderio di Jacopo che voleva sentirsi fiero di sé perché professionista o perché bello e aitante in mutande davanti allo specchio. “Hai detto bene, Cesare”, incalzò il maestro, “il lavoro consiste nell’individuare e nominare il desiderio, ricercare il coraggio del desiderio e, dinanzi alla paura, svelare come dietro all’apparente sostituzione di un desiderio con un altro vi sia in realtà la sua riduzione. E questa riduzione non regge nel tempo, ma porta, prima o poi, alla sofferenza ed alla perdita di sé, al cinismo, che fa dire: io non posso raggiungere il mio desiderio. Devi essere sempre accorto, quando vedi che una persona cede sul desiderio. Nel caso di Anna, lei si è accorta soltanto dopo che era libera solo nel suo rapporto con la propria vocazione, piuttosto che con quei due uomini e che l’attesa dei loro sms era, nella sua quotidianità, una caduta nella dipendenza e nella schiavitù”.
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Anna riprese la sua storia vocazionale, in realtà mai lasciata davvero, e Jacopo si buttò nella costruzione di un proprio studio professionale. Il mio maestro commentò: “Avete fatto un buon lavoro, nel senso che avete smascherato la questione, che era appunto quella del non coraggio rispetto al proprio desiderio ed alla propria soggettività. Hai fatto come ci diceva Bion1, quando affermava che dobbiamo leggere assieme il mondo confuso dell’altro, dipanarne i significati e ridarli al paziente. Certamente, avete raggiunto assieme una nuova narrativa del sé che ha permesso, dentro a una nuova semantica ed a una nuova ermeneutica, di riconoscere il proprio desiderio originale e di scoprire che quello che si credeva il nuovo desiderio era semplicemente la copertura della paura di non avere più il coraggio del proprio di desiderio. Pensa a quante volte tu stesso hai fatto in modo, nella tua vita, di ridurre il tuo desiderio, magari senza accorgertene! L’avere a che fare con il desiderio dell’altro ti impone sempre di avere a che fare con il tuo desiderio, soprattutto impone di riscoprire il coraggio del desiderio. Così è stato per Jacopo e così è stato per Anna”.
1. Cfr. L. Grinberg - E. Sor - E. Tabak de Bianchedi, Introduzione al pensiero di Bion, Cortina, Milano 1993.
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IX Passare dal bisogno al desiderio
Il maestro ci invitava sempre ad essere molto attenti ai giovani che faticano oggi a trovare una loro dimensione di desiderio, perché è il desiderio che rompe la dipendenza. Viviana, giovane universitaria, venne nel mio studio dopo essere scomparsa per tre giorni dalla propria casa, il giorno prima della discussione della sua tesi di laurea, senza avvisare e senza dire dove fosse ai propri genitori. Viviana aveva detto di avere fatto tutti gli esami, assieme alla madre era andata a comprare un paio di scarpe bianche nuove da mettere con un abito appena acquistato per la discussione ed aveva scritto a mano, sempre dietro un’eccessiva attenzione della madre, gli inviti per la festa di laurea che si sarebbe svolta subito dopo. Tornata a casa, previa una telefonata, Viviana comunicò ai suoi genitori di non aver dato, nei cinque anni precedenti, se non due esami. Non ci sarebbe stata alcuna laurea e semplicemente non sapeva come dirlo a loro. Neppure il suo ragazzo, un baldo giovane molto attivo e sportivo, lo sapeva. Incominciammo assieme a parlarne. Finalmente, Viviana poteva liberarsi da una profonda angoscia che, in fondo, l’aveva accompagnata costantemente nei cinque anni precedenti, che l’avevano costretta a costruirsi una doppia immagine, quasi
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una doppia vita. Era una ragazza molto carina, frequentava soltanto persone pacate, era considerata una ragazza modello, faceva volontariato e – grande ironia della sorte – era sempre stata brava agli esami (i pochi dati). Anche il suo ragazzo, con il quale non aveva rapporti sessuali per essere fedele ai mandati della Chiesa, era fiero di una ragazza così. Quel bellissimo seppur tragico momento della fuga da casa per non poter dire la verità è stato il momento più importante della vita di Viviana, sino ad allora. Rileggemmo la sua storia. Viviana non era mai riuscita a separarsi dal desiderio dei suoi genitori, aveva aderito a tutto ed a tutti, ma non era capace di accettare e soprattutto non era capace di dire ai genitori che non aveva fatto quello che loro volevano da lei, magari anche affermando che questo era accaduto perché non aveva avuto mai alcuna voglia di farlo. La sua medesima consistenza era data dalla adesione o, nel caso, dall’opposizione passiva all’altro. I suoi genitori, come sempre avviene in situazioni di questo tipo, non avevano mai capito la situazione, non si erano mai accorti di nulla ed ogni loro complimento fatto alla figlia risultava trasformarsi semplicemente in un rinforzo della sua posizione malata. Anche per il suo ragazzo fu una scoperta difficile da capire, così come difficile da rileggere fu per lui la sua medesima posizione che, in fondo, era stata di complicità. Dopo meno di un anno di nostri incontri, Viviana lasciò l’Italia, si recò in Sud-America in una missione per sei mesi, poi tornò, lasciò il suo ragazzo e andò a vivere per conto proprio, trovando un buon lavoro di segretariato in una organizzazione internazionale. Fu contenta e, poco dopo, trovò un altro ragazzo, meno borghese e più bizzarro. “Ancora una volta”, incalzò il maestro, “hai visto il no al desiderio, in un contesto dove l’identità di sé era talmente fragile che Viviana doveva, per sentirsi esistere e sentirsi stimare, essere come l’altro. In questo caso, vi è stato addirittura il ri-
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schio di un agito importante. Ricorderai come, a volte, si sia arrivati persino all’omicidio dei propri genitori oppure alla scelta per una morte volontaria, quando insopportabile è stata la possibilità di andare incontro alla realtà. Nel nostro caso, Viviana percepiva, fortunatamente, di avere risorse proprie importanti e, di queste, nel momento tragico della sua fuga, si è fidata. Poi, tu, Cesare, le hai permesso di riconoscerle e di autorizzarsi a trasgredire, quindi ad andare in Sud-America, dove, fortunatamente, le cose sono andate bene e lei ha trovato una sua strada ben lontana, fortunatamente, da quella dei suoi genitori”. Non mi convinceva, però, del tutto questa spiegazione, mi sembrava troppo semplice. Fu così che cercai di provocare il maestro, come mi accadeva raramente: “Professore, e se non fosse stata capace di entrare in contatto con la realtà? Cosa sarebbe accaduto? Anch’io, quando mi disse che avrebbe voluto recarsi in Sud-America, la appoggiai, ma onestamente non so se lo feci coscientemente oppure soltanto perché non sapevo bene neppure io cosa fare. Ero consapevole dell’intelligenza di una scelta oppure mi sono affidato ad un imprevisto, per dirla alla Montale1, ad un evento esterno dal quale aspettarsi la realizzazione di una speranza?”. “Cesare”, mi rispose, “anche tu eri impotente come lei e lo sentivi dentro. Forse hai fatto bene a non dirglielo, l’avrebbe sconfortata. Come Kipling2 hai giocato anche tu la tua partita a dadi con lei. Non allarmarti per questo”. Prese un lungo respiro e si rivolse a tutti: “Vedete, ogni sintomo nasce dall’incapacità a stare dinanzi alla realtà.
1. Cfr. E. Montale, Prima del viaggio, in Id., Satura, Mondadori, Milano 2009, pp. 236-237: «[…] E ora che ne sarà / del mio viaggio? / Troppo accuratamente l’ho studiato / senza saperne nulla. Un imprevisto / è la sola speranza. Ma mi dicono / ch’è una stoltezza dirselo». 2. Cfr. R. Kipling, Se, in Id., Ricompense e fate, tr. it., Faligi, Aosta 2014 (ed. digitale).
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Come con tutti i casi che sempre vediamo, noi possiamo soltanto aiutare le persone a stare dinanzi alla realtà, sapendo che ce la possono fare. E questa convinzione nasce fondamentalmente da due cose: la prima è l’attivazione delle loro risorse, la seconda una nuova ermeneutica che loro possono trovare dentro a sé stesse e con la quale possono rileggere la loro vita e la realtà. Noi abbiamo soltanto questi due compiti. Anzi forse ve n’è anche un altro che sta prima degli altri ed è quello che dobbiamo credere noi per primi nella possibilità che tutto questo avvenga, la convinzione dobbiamo averla noi. Tutto il resto non centra la questione vera. Ogni malattia è espressione soltanto di un meccanismo di difesa che funziona male. Nel caso di Viviana era la sua incapacità di opporsi all’altro. Vedete, Viviana non era capace di dire di no, ma, fortunatamente, non era capace di dire neppure di sì. Questo fatto, paradossalmente, l’ha salvata. Da un lato le ha impedito, infatti, di aderire totalmente ai suoi genitori, dall’altro lato l’ha fatta stare talmente male che le ha permesso di risorgere. Per questo la patologia mentale spesso è una grande risorsa, da non disperdere mai: mai perdere l’occasione data dalla propria follia”. “Professore, ci spieghi meglio”. “Clinicamente, noi potremmo semplicemente definire Viviana una donna passivo-aggressiva. Fatto questo, cosa avremmo guadagnato?”. Il maestro spesso ci faceva vedere come la diagnosi fosse sempre importante, ma come non risolvesse mai il problema. “Vedete, Viviana non era capace di affermare sé. Nello stesso tempo, non era capace di accettare che il suo sé fosse da gettare. Ha dovuto fare in modo che emergesse la questione, per trovare finalmente la propria strada. Ci ha impiegato tanto tempo, ma così è”. Io, poi, le donne passivo-aggressive riuscivo poco a tollerarle. Mi infastidivano probabilmente per qualche motivo che aveva a che fare con certe mie storie passate. Ricordo la fatica fatta con Giulia, una donna alla quale nulla mai andava bene. Qualsiasi cosa le venisse proposto da me o da qualsivoglia persona
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intorno a lei non andava mai bene. Fu così che si trovò sola, almeno praticamente, perché tutte le persone si allontanavano da lei, frustrate nelle loro buone intenzioni verso di lei e questo paradossalmente confermava ciò che lei voleva dire di sé stessa: nessuno le voleva bene e nessuno si era mai occupato veramente di lei. Questa radicata posizione, in fondo assolutamente aggressiva e da lei non riconosciuta, si era trasferita nei nostri incontri di terapia, in una attualizzazione straordinaria, che vedeva me un incapace, che non dava mai a lei alcun suggerimento utile, che non capiva e che non sapeva nel modo più assoluto percepire il suo malessere. Ogni volta che avevo un appuntamento con lei, dovevo prendermi qualche minuto per respirare un poco e disporre il mio animo a non cedere alle sue aggressioni. Più volte le feci notare come, sebbene ai suoi occhi io fossi assolutamente incapace, lei continuasse a venire da me, non cambiasse terapeuta ed anzi anche mi pagasse. Lentamente cercai di farle notare come vi fosse qualcosa di perverso in tutto questo. Pagava per recarsi da una persona che non la capiva e che era incapace. Eppure in una città come Milano di terapeuti, ed anche bravi, ce ne sono tanti. Mentre raccontavo queste cose, il mio maestro commentò: “Queste persone hanno bisogno di questa posizione che giustamente tu hai chiamato ‘perversa’, è il loro modo per vendicarsi dei tanti torti subiti, dai quali essi pretendono di ricevere un risarcimento, che ovviamente nessuno dà loro. Raccontaci come sei uscito dall’impasse”. “Professore, se cercavo di divincolarmi, in fondo incrementavo un suo vissuto di abbandono radicale. Sono stato lì, a farmi aggredire, con la preoccupazione di non cedere mai. Avevo in qualche modo capito che mollare sarebbe stata un’ulteriore conferma della sua condizione di solitudine. Per non entrare,
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però, in collusione con lei, ogni tanto mi arrabbiavo mostrandole degli elementi della sua perversione. Decideva qualche volta di non venire agli appuntamenti, dicendo che era inutile, ma poi tornava come se nulla fosse. A dire il vero, non so bene quale fu la molla che fece fare un giro di boa alla nostra relazione. Forse il mio semplice esserci con la mente attiva. Lei, molto lentamente, comprese che la vittima di tutto era proprio lei, anche quando pensava di vendicarsi, restava lei la vittima. Così iniziò ad avvertire che lei stessa era la creatrice della sua trappola. Questo – credo – mutò la sua semantica e le fece intravvedere una nuova ermeneutica”. “Certo, penso anch’io che sia accaduto proprio questo, sebbene ritenga importante anche il fatto che tu, proprio tu che tolleri poco le persone passivo-aggressive, abbia retto e le abbia fatto vedere che, in fondo, le volevi bene. Forse questa tua debolezza è stata la tua forza, sei stato più attento con lei proprio perché ti sapevi fragile. Credo anche che quei minuti prima della visita, che ti prendevi per respirare un po’, siano stati essenziali al buon esito del vostro rapporto. Vedi, a volte contano le piccole cose. Non sapremo sempre, anzi, credo che raramente ci renderemo conto di quando e per cosa accade il cambiamento, ma, come con Viviana, questo cambiamento avviene quando l’altro avverte, tramite il rapporto con te o con noi, che il suo modo di vivere è poco economico, è una trappola per usare il termine che spesso usiamo. Insomma, per dirla come abbiamo sempre fatto altre volte, il suo sintomo, che inizialmente nasce per proteggerlo, da soluzione o tentativo di soluzione del suo problema diviene lui stesso il principale problema”.
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X Entrare nell’adultità
“Non pensate di fare il vostro lavoro senza tenere sempre conto della famiglia. Da quella molto spesso, nel nostro lavoro, dobbiamo partire. Oggi ci troviamo dinanzi ad una frequente condizione nella quale i genitori dei nostri pazienti non sono cresciuti neppure loro, ovvero non sono divenuti adulti. Per diventare adulti, bisogna anzitutto separarsi dai propri rapporti originari, ovvero quelli con i propri di genitori”. Io mi ricordai di una coppia che, assieme alla dott.ssa Rachele, psicologa clinica, la mia amata allieva, abbiamo seguito per almeno un paio d’anni. Prima di iniziare, obiettai al maestro che, in quella occasione, come in molte altre, il nostro percorso aveva portato ad aiutare le persone a separarsi, piuttosto che a stare assieme, ma lui, sempre pacato, disse: “Racconta. Bisogna sempre lavorare per la libertà e la verità, non per un esito prestabilito, l’esito è la conseguenza della trasparenza del nostro lavoro”. Fui io ad essere ingaggiato inizialmente dalla giovane sposa, Alessandra, simpatica, bella, vivace, un tipo assolutamente intrigante. Mi portò una grande inquietudine, si era sposata da poco e da pochissimo aveva iniziato a tradire il marito, come praticamente sempre avviene in queste circostanze, con un amico e pure testimone di nozze del marito. Non capiva cosa
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stesse accadendo e perché. Dichiarava di amare molto profondamente – ed era vero – il marito, pur dinanzi all’evidenza dei suoi precocissimi tradimenti. Iniziammo a guardare dentro a questa storia e subito ci rendemmo conto che con un altro ragazzo vi era stato un altro tradimento pochi giorni prima delle nozze. E tutto questo accadeva in una ragazza che nulla aveva di frivolo o di non profondamente serio o di insincero. Lentamente scoprimmo come avesse avuto un’infanzia e una fanciullezza piuttosto difficili, specie nei suoi rapporti con la figura materna, la quale era stata molto male mentre lei era fanciulla e di questo malessere lei si era sempre sentita colpevole. Era cresciuta assolutamente dipendente dai bisogni materni, ai quali sentiva di dover assolutamente rispondere in ogni momento e prontamente, non scoprendo mai quali potessero essere invece i suoi desideri. Un allontanamento della madre portava in lei vissuti di abbandono e di colpa, come se lei fosse esposta a qualsivoglia pericolo, mentre la vicinanza della stessa madre le procurava rabbia, in quanto la faceva sentire non libera. Questa straziante posizione, che la faceva essere sempre divisa tra due posizioni opposte ed estreme, l’aveva accompagnata nella vita successiva. Nelle sue relazioni affettive, da un lato cercava persone stimolanti e vivaci come lei, che trovava eccitanti e piacevoli, dall’altro lato sentiva di essere attratta da coloro, magari religiosi, forse anche un poco bigotti, socialmente accettati, che garantivano l’adesione ad un precostituito ideale affine al sapore del suo contesto familiare originario. Di fatto Alessandra non riusciva a divincolarsi dall’innamorarsi di persone accettate e gradite al suo immaginario familiare (quali il marito) e contemporaneamente dall’essere realmente, non soltanto attratta, ma anche innamorata di persone vivaci e stimolanti, anche un poco trasgressive (come l’amante). In questa posizione lei era imprigionata. Il marito, Gilberto, dal canto suo, era proprio una persona perbene. Pacata, intelligente, un bel ragazzo, religiosissimo e serio. Nella
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sua storia, era di quei ragazzi che abbiamo sempre chiamato “troppo obbedienti”, quelli che sono cresciuti più attraverso l’emulazione che attraverso il conflitto. Come ogni buona persona troppo obbediente aveva accettato, peraltro amorevolmente, tutto di Alessandra, non riuscendo però a capire la reale dimensione e portata delle sue posizioni emotive. Fu così che invitai Alessandra a proseguire il lavoro assieme anche a Gilberto e coinvolsi, nel nostro lavoro, la dott.ssa Rachele. Fu presto evidente come, da una parte Alessandra, che intanto aveva smesso di tradire il marito, era colma di sofferenza, perché proseguiva a vivere dentro a sé stessa il suo profondo dilaniamento, dall’altra parte anche Gilberto era profondamente sofferente, non riuscendo a capire gli accadimenti e a gestire la situazione. Anche lui aveva aderito ad un modello ereditato, quasi come un codice, dal proprio contesto famigliare originario che era molto religioso, direi anche moralistico, secondo il quale Alessandra entrava in un progetto di vita di fede un poco precostituito ed astratto. Ovviamente questo ideale era il contrario di Alessandra, la quale, invece, era molto carne e sangue. Lentamente il quadro si fece sempre più chiaro a tutti. Sia Alessandra sia Gilberto, con il loro progetto matrimoniale, sinceramente ed onestamente avevano scelto qualcosa che rispondeva ad un loro bisogno individuale irrisolto nei confronti del loro mondo originario, la famiglia, senza rendersene minimamente conto. Alessandra, scegliendo come marito Gilberto, aderiva al modello familiare che la desiderava inserita in un contesto pacato e religioso, mentre, allo stesso tempo, si illudeva di tenere sotto controllo le sue pulsioni trasgressive ed i suoi vissuti abbandonici. Gilberto, dal canto suo, realizzava, sposando Alessandra, la continuità con il suo contesto originario, proseguendo magari un po’ borghesemente il modello culturale e morale della sua famiglia. Quando videro il re nudo, pur nella sofferenza, i due riuscirono a separarsi giu-
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stamente anche senza particolare rancore l’uno verso l’altro. Alessandra, dopo un poco di tempo, realizzò una relazione affettiva sana con un altro ragazzo, e così accadde anche per Gilberto. Entrambi, con questo evento, si separarono, almeno dentro di loro, da quei legacci che li tenevano prigionieri dei loro contesti familiari. “Quello che ci hai fatto vedere, Cesare, è stato come il passaggio all’adultità comporta necessariamente la rottura con il proprio mondo originario, io lo chiamo il perdono dei propri genitori. Alessandra aveva da perdonare il malessere infantile della madre, il suo bisogno di cure richieste ingiustamente ad una figlia, ed un padre che non era stato capace di difenderla. Gilberto, dal canto suo, aveva da perdonare i genitori, un poco borghesi – per dirla alla sessantottina – perché lo avevano intruppato in un mondo rigoroso per la paura della trasgressione e per uno sguardo poco fiducioso a lui. Soltanto dando nome a questa loro storia e separandosi da essa, Alessandra e Gilberto ebbero la possibilità di riconoscersi davvero e di separarsi senza rancore. Il loro matrimonio, d’altra parte, era stato semplicemente il maldestro tentativo di tenere tutto assieme, cioè di proseguire ad essere figli, ovvero di seguire il codice familiare originario e nello stesso tempo di staccarsi. Questo è però un progetto impossibile. In casi come questo bisognerebbe chiedere il riconoscimento di nullità del matrimonio. Credo che moltissimi matrimoni, oggi, siano simili, seguano illusioni similari”. “Professore, in che termini?”. “Possiamo leggere questa vicenda come tutte le altre analoghe, utilizzando termini diversi, ma raggiungendo la medesima conclusione ultima. Potremmo leggerla, come altre volte abbiamo fatto, in un non passaggio dal bisogno al desiderio. Entrambi nello sposarsi hanno seguito il loro bisogno – come prima ci hai fatto vedere Cesare –, ma nessuno dei due ha seguito un desiderio, troppo incastrati nella non risoluzione del loro rapporto originario. Insomma,
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ognuno ha cercato nell’altro la soluzione di sé stesso e questa è l’illusione che accompagna gran parte dei matrimoni oggi. Una persona, per sposarsi, invece, ha bisogno di essere risolta in sé stessa e, soprattutto, separata dal suo contesto originario. I genitori di oggi si preoccupano troppo di dare radici e troppo poco di dare ali ai propri figli. Nello specifico caso che tu hai descritto, Alessandra ha tentato di diventare adulta cercando di adeguarsi al modello borghese, cattolico ed un po’ bigotto che Gilberto rappresentava e che coincideva con il desiderio dei suoi genitori. Facendo questo, però, doveva nascondere a sé stessa la parte più profonda e forse più autentica di sé, quella trasgressiva, vivace, forse anche sessualmente più attiva e non ce l’ha fatta. Si potrebbe dire “fortunatamente”, almeno per come sono andate le cose. Avete fatto bene, tu e la dott.ssa Rachele, a non fare nulla per evitare la separazione. Questa probabilmente sarebbe avvenuta, in ogni caso, prima o poi e magari il tutto sarebbe avvenuto con figli e complicazioni ulteriori. Anche Gilberto saltava parti di sé, forse essendosi passivizzato eccessivamente su Alessandra”. “Professore, in che altro modo può leggersi questa storia?”. “Credo abbiamo detto tutto. Potremmo semmai ancora vedere come sia essenziale produrre una nuova narrazione della propria vita. Alessandra ha potuto rileggere la propria storia, passando da una lettura che vedeva lei come colpevole dei disagi della madre ad una lettura che la vedeva piccolina a tentare di mettere assieme pezzi disuniti di una famiglia patologica, di cui lei era vittima. Questa lettura ha potuto permettere a lei di scoprire la trappola in cui si trovava e che riviveva nell’oggi, per cui continuamente entrava e usciva da una condizione nella quale si sentiva obbligata a stare. Tradiva e stava nella storia bigotta: straordinariamente lei era altamente etica nell’uno e nell’altro momento con il rischio – purtroppo – di cadere nella scissione. Tu e la dott.ssa Rachele le avete fornito la possibilità
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di rileggersi tutta assieme e quindi di trovare una sua unità, di mandare a quel paese la propria storia bigotta e di non vivere più come immorale la sua trasgressione”. “E Gilberto?”. “Gilberto ha potuto rinarrarsi attraverso le proprie scelte, che evidentemente non aveva davvero capito, e ha potuto scegliere davvero per sé la propria modalità di esistere. Questo, però, implicava un allontanamento da Alessandra”.
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XI Perdonare e perdonarsi
“Tempo fa vi avevo parlato dei tre passaggi della cura: diagnosticare, interpretare, cambiare assieme. Questi stessi passaggi oggi vorrei riproporveli con altre tre parole chiave: riconoscimento, benedizione, perdono. Il riconoscimento parte o forse consiste proprio nello sguardo come esperienza che genera nell’altro una visione nuova di sé e che com-prende tutto. Pensate all’incontro tra l’Innominato ed il Cardinal Federigo. Appena introdotto l’Innominato, Federigo gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a una persona desiderata. […] ‘Dio veramente grande! Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure…! eppure provo un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita!’.1
Solo nell’incontro con qualcuno che ci abbraccia così come siamo possiamo anche noi abbracciarci e così conoscerci. An-
1. A. Manzoni, I promessi sposi (1840), a cura di G. Bezzola, Rizzoli, Milano 1977, cap. XXIII, pp. 83, 89.
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cora una volta, come tante volte vi ho detto, l’incontro avviene soltanto se prima vi è una attesa, come appunto avviene per una ‘persona desiderata’. Perché tutti noi abbiamo bisogno di sentirci desiderati ed i nostri pazienti ancor più di noi, perché sono passati attraverso le notti profonde del silenzio e dell’abbandono. Noi non possiamo portarli magicamente od onnipotentemente fuori da quelle notti, ma possiamo starci con loro. La seconda parola è pertanto benedizione. La notte prima dell’incontro con il cardinal Federigo, è Lucia a dire all’Innominato: ‘Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia’2. Questa affermazione rappresenta l’inizio necessario, la prima tappa indispensabile di ogni riconoscimento. È la benedizione (che significa: ti vedo, ti amo per quello che sei, non per quel che potresti-dovresti essere). Benedizione, sotto questo aspetto, è sinonimo di riconoscimento. Possiamo immaginare il paziente come un peccatore, immerso nella colpa e nella vergogna che, per uscirne, deve prima sentirsi perdonato, guardato e accettato come cattivo-sbagliato, ma non solo cattivo-sbagliato. Deve essere rassicurato sul fatto che la sua cattiveria è perdonabile attraverso una bontà che già esiste in lui, anche se non se ne accorge. Se Dio perdona ‘per un’opera di misericordia’, vuole dire che l’Innominato quest’opera può compierla, cioè che dentro a lui, insieme alla malvagità, c’è già (in nuce) la capacità della misericordia. Lucia, straordinariamente ed ancor prima del cardinal Federigo, mostra la capacità buona dell’Innominato ed, in qualche modo, tocca il suo desiderio. È sufficiente questo per portare l’Innominato alla notte insonne senza ritorno. È in questo modo che il cattivo viene perdonato, perché è (anche) buono lui (il paziente), non o non soltanto perché è buono l’altro (Lucia, Federigo, il terapeuta…). L’altro (Lu-
2. Ivi, cap. XXI, p. 50.
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cia, Federigo, il terapeuta…) serve a renderlo consapevole del buono-sano che ha/è dentro, mescolato insieme al cattivomalato, e sarà questa consapevolezza che consentirà l’interiorizzazione del perdono e permetterà di arrivare a prendersi amorosamente cura delle proprie imperfezioni (cattiverie, debolezze, malattie), che continueranno ad esistere. Questo è il vero cambiamento del soggetto che non migliora perché viene perdonato, ma che perdona e si perdona (attraverso l’altro) il male grazie al bene che è in lui, cominciando ad accettarsi per quello che è: un meticcio di luce ed ombra, salute e malattia. Il terapeuta sembra essere ancor prima una Lucia che un Federigo, perché avvia un processo di salute interiore che impara a nutrirsi di quella sanità interiore, prima nascosta dal male, finalmente scoperta e coltivata con cura e pazienza dentro di sé. È, questa del perdonarsi e del curarsi, la strada dell’adultità, laddove l’abitudine a farsi perdonare e a farsi curare rappresentano invece l’amaro percorso della dipendenza. Il perdono, che è la terza parola, ovvero l’assoluzione, permette il distacco, il lasciare andare sé stesso e l’altro, perché la colpa da sola mantiene il legame e soffoca la libertà. In questo modo, io posso perdonare, cioè farmi il regalo più grande: quello di lasciare andare i miei legami traumatici, i miei ricordi dolorosi, i miei rancori, i miei traumi passati, i tradimenti dei miei genitori e posso aprirmi ad un domani che parta da quello che sono oggi. In questo modo io, come l’Innominato (al quale il Manzoni, non a caso, non dà un nome, perché tutti possiamo riconoscerci in lui), posso passare dal momento fondante della colpa al momento ri-fondante del riconoscimento: ‘Io mi conosco ora’ dice, immediatamente dopo il suo travaglio, l’Innominato. Questo è il rinascere in un rapporto terapeutico o non terapeutico che sia”. A quel punto, io chiesi: “Qual è il nostro bisogno ontologico ed il trauma che noi continuamente incontriamo nel nostro mestiere e, forse anche, nel mestiere di cercare di essere uo-
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mini?”. “Ti rispondo come ha risposto Stanghellini nel suo libro: ‘Noi viviamo una esistenza traumatica, macchiata dall’esperienza tragica del nostro mancato incontro con l’Altro. Il trauma non è semplicemente un accidente che ha luogo in un tempo remoto, un episodio nella nostra vita che non può essere appropriato nella nostra identità narrativa e che rimane senza una iscrizione semantica, relegato nel nostro inconscio dinamico. Il trauma è una parte integrante della nostra esistenza quotidiana, è una esperienza che viviamo, la quale è tutt’uno con il nostro bisogno e il nostro desiderio di stabilire relazioni’3”. “Insomma”, riprendo io: “Si potrebbe dire che la cura inizia qui. Ricordo quello che scriveva Paul Ricoeur: ‘Vi è nella sete di stima un desiderio di esistere non attraverso l’affermazione di sé stessi, ma attraverso la grazia del riconoscimento altrui. Vi è tra questa stima e la posizione egoistica e solipsistica della vita, tutta la distanza che c’è tra il semplice desiderio e ciò che la fenomenologia dello spirito chiama il desiderio del desiderio’4. Il maestro concluse: “Ricordati anche la filosofa Martha Nussbaum, quando scriveva che lo specialista della cura della salute mentale deve avere ‘la capacità di immaginare come ci si sente nei panni di una persona diversa da sé; dovrebbe essere un lettore intelligente della storia della persona che ha di fronte e dovrebbe comprendere poi le emozioni, i desideri e le speranze che una certa persona potrebbe custodire’5. Ogni tanto, mi chiedo se esiste una tal persona. Non a caso Heidegger, circa un secolo fa, affermava che ‘la scienza ci può rendere edotti 3. G. Stanghellini, Noi siamo un dialogo. Antropologia, psicopatologia, cura, Cortina, Milano 2017, p. 123. 4. P. Ricoeur, Finitudine e colpa, tr. it. di M. Girardet, il Mulino Bologna 1970, p. 211. 5. M.C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, il Mulino, Bologna 2011, pp. 95-96.
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su ogni sorta di dettagli interessanti circa la natura umana, ma non può risolvere il problema riguardante la natura e l’essenza della condizione umana’6”. Io incalzai: “Professore, se il sintomo non è un accidente in una persona, ma è ciò che conduce e spiega la sua vera essenza, è un’opportunità contingente per un possibile incontro fra la persona e la sua alterità, allora vuole dire che, mediante il sintomo, l’alterità – vale a dire la dimensione nascosta della nostra esistenza – si manifesta. Ma come si introduce, allora, la parola cambiamento, perché non risulti fuorviante?”. “Non si può cambiare una persona, la si può semplicemente aiutare ad ampliare il suo sguardo su di sé e sulla realtà. Un esempio che mi piace fare è quello di una persona davanti ad un quadro del quale vede solo un piccolo particolare, la cura consiste nel permettere alla persona di fare alcuni passi indietro per potere beneficiare della vista della bellezza d’insieme che non è altro che il proprio sé. Vengono in mente i due passaggi del Vangelo della samaritana al pozzo e della parabola del seminatore7”. La cosa mi incuriosì e gli chiesi di continuare. “Il padrone del campo, dopo la semina, ordina di lasciare crescere grano e zizzania assieme. Non chiede di separarli al momento, ma soltanto dopo la mietitura. Questo racconto ci vuole dire che non dobbiamo preoccuparci se siamo fatti anche di zizzania, siamo quel misto di cose buone e di cose cattive di cui abbiamo sempre parlato. In secondo luogo, questa parabola ci invita a non giudicare cosa sia buono e cosa sia non buono prima che sia arrivato un giudizio finale. Questo passaggio evangelico ci aiuta a non giudicare mai il valore dell’altro.
6. M. Heidegger, La questione della tecnica, in Id., Segnavia, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 52. 7. Cfr. Gv 4,5-15; Mt 13,24-30.
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Qualcuno che giudicava, avrebbe potuto dire che l’Innominato fosse soltanto zizzania e non lo era. Aveva bisogno semplicemente di scoprire il buono che era in lui. Fino a quel momento grano e zizzania erano cresciuti assieme nel suo campo e, alla fine, vinse il grano”. “Ed il passaggio della samaritana al pozzo?”. “L’incontro tra Gesù e la samaritana è come una metafora del riconoscimento reciproco o dell’incontro/esperienza. La samaritana riconosce in Gesù colui che può fornirle l’acqua che non fa tornare la sete e, allo stesso tempo, Gesù riconosce nella samaritana il suo bisogno più autentico, quello di avere quell’acqua. Nessuno dei due guarda ai bisogni dell’altro, ma guarda ai desideri profondi. Soltanto all’inizio, brevemente, parlano dell’acqua in quanto tale, ma subito passano dal bisogno al desiderio. È a quel punto che l’incontro diviene qualcosa che cambia per sempre e che diventa un punto di svolta della vita. Gesù non si ferma a chiedere cosa lei facesse, ma guarda al suo desiderio: l’acqua di vita. Gesù risponde al suo desiderio, non chiede altro e soprattutto non giudica”. “Con questo possiamo dire che il desiderio è il luogo del l’incontro?”. “Certamente, ma attenzione, al desiderio tante volte ci arriviamo molto lentamente e attraverso un lungo lavoro, perché il desiderio potrebbe anche essere coperto dal dolore o dalla paura che si sono stratificati su di esso”. E poi incalzò, dicendo: “Cesare, raccontaci tu cosa è accaduto negli incontri tra te e don Aldo, forse è utile a tutti”. “Don Aldo era uomo letterato, di grande cultura e di grande spessore umano. Ancora studente, aveva incontrato un sacerdote molto carismatico e presto era divenuto uno dei suoi più vicini seguaci, vivendo in stretto contatto con lui per diversi anni, sino a giungere, in età un poco più adulta, a divenire un membro del suo ordine religioso. La sua esistenza successi-
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va era stata connotata da esperienze grandi e ricche di riconoscimenti di valore, effettivamente consolidati, nel campo delle lettere e nel campo della sua missione sacerdotale. Pur dinanzi a tutto questo, egli viveva di fondo sempre un poco schivo, talora triste tanto che, negli anni, aveva effettuato percorsi psicoterapeutici, con psichiatri di formazione lacaniana, e percorsi farmacologici con antidepressivi. Viveva insomma una sensazione di cielo grigio e cupo sulla testa. Dai nostri incontri emerse come lui si fosse sentito sempre incerto, bisognoso di rassicurazione, era questo che lo rendeva schivo. Vi era in lui la sensazione di una continua e sottile insoddisfazione, accompagnata da sensazioni di indegnità, come ci fosse sempre qualcosa da rincorrere o giustificare. Mi disse da subito di avere vissuto un’infanzia piuttosto infelice: aveva perso precocemente il padre, che se ne era andato senza più occuparsi della famiglia, e aveva sempre sentito le angosce della madre su di sé. Questo lo aveva portato a sentirsi sempre diverso dagli altri suoi coetanei, connotando la sua esistenza con un giudizio di ‘di meno’ che lui dava di sé stesso. Don Aldo mi disse che, da un po’ di tempo, aveva il sospetto che molto del suo disagio potesse aver avuto origine dal fatto che egli pensava di aver deciso di seguire la strada del sacerdozio soltanto a motivo di questi suoi vissuti di inferiorità, che così egli avrebbe immaginato di compensare. Io commentai, abbastanza deciso, che questa semmai avrebbe potuto essere soltanto una condizione di partenza, non una motivazione. Inoltre, gli dissi che non avrebbe potuto reggere la vita consacrata per un tempo così lungo, se non avesse avuto una ragione più profonda e vera di quella semplicemente da riferirsi all’essersi sentito inferiore ai suoi pari. La seduta successiva a questo dialogo, don Aldo tornò molto sereno e sorridente, dicendo che le cose erano cambiate in modo deciso e che provava sensazioni nuove. Collegandosi all’ultima mia
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frase della seduta precedente, disse di aver avvertito qualcosa dentro di sé che cambiava profondamente e velocemente: ‘Ho capito che non ho un passato da negare, ma una storia che è la mia’”. Il maestro intervenne: “Mi sembra di grande interesse capire quello che è accaduto. Don Aldo, nonostante la terapia precedente che non conosciamo, sentiva dentro a sé stesso ancora la presenza di un inaccettabile, che lo rendeva diverso ai suoi stessi occhi. Con il tuo intervento, magari un po’ azzardato, che ha trasformato la parola ‘motivazione’ in ‘condizione di partenza’, hai permesso a don Aldo di rileggere la propria storia come un percorso che aveva dovuto compiere, nella sua vita, per arrivare ad essere quello che desiderava, indipendentemente dalle sue fragilità, anzi ha percepito che queste erano state semmai una molla utile a sé stesso. Questo significava anche che nulla era falso di sé, anzi che tutto di sé apparteneva a lui e al disegno misterioso su di lui”. “In quella seduta, don Aldo mi raccontò un sogno: si trovava assieme ad un signore, che aveva avuto un’apparizione ed aspettava la seconda, ma per questa attendeva un testimone, che potesse validarla. Questo testimone avrebbe dovuto essere il sacerdote che era stato ‘la chiave’ nella vita di Aldo. Costui arriva, don Aldo gli va incontro e gli chiede di fermarsi perché quel signore aveva bisogno che lui gli facesse da testimone per la seconda apparizione, ma lui gli dice: ‘Adesso questo lo fai tu’. Ascoltata la mia lettura (abbastanza evidente) circa l’autorizzazione a sé stesso, aggiungo semplicemente come il signore in attesa della seconda apparizione (la sua seconda vita/autorizzazione/visione di sé) si doveva identificare in lui medesimo. Nel sogno, apparivano i due pezzi dello stesso don Aldo, il quale poteva finalmente autorizzarsi alla verità della seconda apparizione (la vita sacerdotale) e ritrovarsi unito”.
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“Certo” riprese il maestro: “Questo è il passaggio che avete fatto. Don Aldo ha potuto sperimentare su di sé, attraverso di te, che non era vero che non avesse avuto un inizio, ma che aveva dovuto fare soltanto uno strano percorso; ha compreso che il tradimento di suo padre e la fragilità di sua madre non sono stati soltanto dei limiti, ma anche una spinta. Vedete, soltanto il Maligno è quello che vuole che tutto sia male”. “Questo è accaduto ed accade anche a noi”. “Certamente, anche per la nostra scelta professionale abbiamo avuto un punto di debolezza dal quale siamo partiti, magari illudendoci di risolverlo. Molti di noi lo hanno magari risolto, altri magari no. Questo non è importante, essenziale è che noi ne abbiamo preso consapevolezza e ci siamo resi conto che non eravamo soltanto quel limite, ma che forse quel limite ci ha fatto crescere. Se tu, Cesare, non avessi tu stesso vissuto la tua debolezza, non saresti stato capace di coglierla con l’affetto con il quale l’hai accolta in don Aldo”. “Se il nostro lavoro è quello di lavorare con il desiderio dell’altro, dobbiamo per forza lavorare con il nostro di desiderio”. “E magari avere una piccola storia di problema con il nostro desiderio” soggiunse il maestro. “Dobbiamo soprattutto leggere la nostra storia, che è un intreccio di un trauma, che non soltanto è avvenuto in un tempo antico, come in don Aldo con l’abbandono del padre e la inadeguatezza della madre, ma che riaccade continuamente nel presente, a patto che non trovi una sua riscrittura dentro ad una nuova identità narrativa di sé ed una nuova semantica. Il trauma è, come abbiamo visto affermare da Stanghellini, l’esperienza del ‘fallimento nell’incontro con l’Altro’8. Per questo, ogni terapia nasce dall’incontro”.
8. G. Stanghellini, Noi siamo un dialogo, cit., p. 124.
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Io, però, a quel punto ripresi: “Ma se così fosse, basterebbe un incontro profondamente umano per definire una cura, ma così non è”. Sembrava indispettito il maestro quando mi rispose: “Distingui sempre ciò che è cura da ciò che è prendersi cura. Nella cura, prima, c’è un aspecifico che riguarda la posizione umana, che è imprescindibile dalla cura medesima. Soltanto dopo viene lo specifico della cura. Potremmo immaginare la nostra seduta, la nostra cura, come un grande aspecifico di incontro, dove mettiamo noi e l’altro dentro ad uno spazio ove avviene qualcosa che diventa esperienza. Io, come specifico, metterei soltanto tre cose: le libere associazioni, il transfert e l’interpretazione. In una epoca dove l’errore ed il non sapere paiono non possibili e condizioni da debellare il fatto di fermarsi sulla mancanza costitutiva dell’essere umano è l’occasione di riprendere pezzi di sé. Ad oggi, fin dalla infanzia, si cerca di avere soggetti performanti ed efficienti e senza desiderio (che poi cadono preda di fastidi, voglie ed agiti) in nome della cancellazione della mancanza e dell’errore. Probabilmente la ricerca è quella di super-uomini narcisisti e indifferenti all’altro e ai propri desideri. Il lavoro terapeutico dovrebbe porsi in controtendenza, dovrebbe essere prima di tutto un atto di umiltà del terapeuta che si mette pazientemente nella posizione di ascoltare, ascoltare, ascoltare e ancora ascoltare il paziente senza giudicare, ma creando invece l’occasione di un incontro. Ci dovrebbe essere una comunione continua tra la conoscenza didattica e tecnica e l’umanità dello sguardo verso la sofferenza altrui con la timida accettazione del fatto che è la stessa mia sofferenza, ma che non si è da soli a guardarla. Il dolore non è cancellabile, la terapia non è un atto magico, ma attraverso la terapia e soprattutto attraverso l’incontro con l’altro esso acquista dignità e può essere maggiormente accolto in quanto è comunque un’esperienza data. Di certo non si può rimarginare la ferita originaria del distacco, il bisogno primordiale di
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accoglimento, come l’infanzia disastrata di don Aldo, ma lo si può modellare nell’incontro con l’altro senza una pretesa di possesso, ma con una consapevolezza condivisa. Il dolore non è sicuramente da elogiare ma è un pezzo fondamentale dell’esistenza come la gioia e lo si deve guardare. Per concludere mi sembra doveroso citare Borgna che dice: Nella fragilità si nascondono valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza estenuata e di dignità, di intuizione dell’indicibile e dell’invisibile che sono nella vita e che consentono di immedesimarci con più facilità e con più passione negli stati d’animo e nelle emozioni, nei modi di essere esistenziali degli altri da noi’, quindi perché tirarci indietro?9
In fondo, dobbiamo ricordare come, se da una parte è vero che il paziente ha trovato una sorta di sua soluzione attraverso il sintomo, questo stesso è alla fine divenuto un problema, qualcosa di disfunzionale, quindi esso stesso si è trasformato in una questione da risolvere nuovamente. Bisogna, pertanto, fare vedere al paziente che questa soluzione al problema è divenuta essa stessa un problema. Questa cosa si chiama soggettivizzazione del sintomo e permette un governo, se così si può dire, dello stesso. In fondo, come vi ho sempre detto, ogni malattia, in psichiatria, è semplicemente una difesa mal riuscita. Pertanto, il sintomo non è sempre una soluzione, ma è anche un problema. Noi, con la cura, ovvero con gli interventi tecnici, entriamo soltanto in questi casi”. Il maestro poi proseguì: “Lucia si comporta esattamente come il vescovo Myriel ha fatto con Jean Valjean ne I Miserabili di Victor Hugo10: ha guardato al profondo, al cuore dell’Inno-
9. E. Borgna, La fragilità che è in noi, Einaudi, Torino 2014, pp. 3-4. 10. Cfr. V. Hugo, I Miserabili, tr. it. di M. Picchi, Einaudi, Torino 2014, vol. I, parte I, libro II, cap. XXII. Una notte l’ex galeotto Jean Valjean, da poco in libertà vigilata, bussa alla porta di Myriel, chiedendo cibo e ospita-
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minato, non alla persona come appariva o al ruolo che nel mondo aveva assunto. Non si è rivolta all’Innominato come tale, ma all’uomo che si celava dietro (e che desiderava uscire). Allo stesso modo, il vescovo Myriel ha guardato non al ladro, ma al desiderio dell’uomo che aveva di fronte. Torna ancora alla mente la samaritana. Lei, al pozzo, era andata a prendere l’acqua che faceva tornare la sete, ma il suo cuore desiderava quella che non faceva tornare la sete. Credo proprio che la cosa che conta di più sia questo cogliere il cuore, il desiderio, dell’altro, non occupandosi di ciò che appare, di quello che risulta essere il ruolo che l’altro ha assunto, chissà poi per quale strada o per quale ragione, nel mondo. Questo vale soprattutto se pensiamo come pressoché ogni ruolo assunto nel mondo, e ci metto dentro anche il ruolo di malato, sia una riduzione del desiderio. Quello che conta è arrivare dritti al cuore: solo questo permette l’incontro e quindi il cambiamento attraverso il perdono, come in Lucia e come nel vescovo Myriel”. “Professore, ci faccia un esempio”. “Pensate a Moses, l’uomo che veniva dal Ghana. L’abbiamo ricoverato dopo che aveva mandato all’ospedale diversi poliziotti che erano andati a fare una retata nella casa abusiva dove si era rifugiato. Senza casa, senza lavoro, senza permessi, era stato totalmente abbandonato dalle istituzioni, le stesse
lità. Il buon vescovo lo nutre e gli lascia la camera da letto migliore. Valjean, incapace di dormire in un letto comodo dopo anni passati in prigione, si aggira per la casa e, trovata l’argenteria del vescovo, la prende e fugge via. La mattina seguente, dei poliziotti catturano Valjean e lo portano dal vescovo. Questi ordina loro di rilasciare l’uomo, dicendo di aver regalato lui stesso all’ex prigioniero l’argenteria e non solo: rimprovera Valjean di essersi dimenticato di prendersi anche i candelabri, molto più preziosi. Quando i poliziotti se ne vanno, il vescovo dice al ladro di usare quel preziosissimo argento per redimersi e diventare un uomo onesto.
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che avrebbero dovuto occuparsi di lui, tanto che a lui restava soltanto il rifugiarsi nell’abusivismo e nella marginalità. Ricordate quando è arrivato? Era legato alla barella dell’ambulanza come un salame e sputava a tutti quelli che gli si avvicinavano. Noi, semplicemente, siamo andati da lui e gli abbiamo parlato, lo abbiamo slegato e ci siamo occupati del suo problema e del suo desiderio, che non era altro che quello di tornare dalla sua famiglia in Ghana. Quando tu, Cesare, hai iniziato a slegarlo gli abbiamo detto che saremmo stati assieme a cercare le soluzioni per lui e che noi avevamo bisogno di lui per poterlo fare e che, per questo, ci fidavamo di lui. D’altra parte, ricordate quello che ci siamo detti più volte in quei giorni? Se noi potevamo avere poca fiducia in lui che ci sputava, quanta meno poteva averne lui in noi, che rappresentavamo un’istituzione che lo aveva più volte tradito? Lui aveva certamente meno ragioni di fidarsi di noi, di quelle che avevamo noi di fidarci di lui”. “Professore, questo esempio è chiaro, ma è sostanzialmente sociale, perché non ci fa un esempio più sul versante clinico?”. Venne in mente a me e raccontai. Mi ricordai di Simonetta, giovane donna che aveva da sempre avvertito dentro di sé un sentimento di tristezza, di mestizia, come se il mondo fosse sempre in bianco e nero. Eppure, faceva una vita sostanzialmente normale, si era laureata e lavorava come insegnante, aveva amici, seppure nessun affetto particolare. Non aveva mai avuto ragazzi stabili e, nelle poche occasioni di relazioni affettive, li aveva trattati molto male, facendoli, quasi sadicamente, soffrire in vario modo, li aveva un po’ usati, per dirla come lo diceva lei, come fazzolettini Kleenex. Anche gli amici più stretti li faceva soffrire, trovando di volta in volta il modo di farlo. Venne da me proprio per questa atmosfera triste che la permeava, senza un apparente motivo e per questi suoi comportamenti che rischiavano di isolarla sempre di più. Lavorammo assieme per circa due anni.
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Emerse, quasi da subito, una storia infantile di abuso, agito su di lei da un vicino di casa. Dopo pochissimo lavoro assieme, inizialmente a piccoli flash, questo ricordo emerse dalla sua memoria. Poi, entrammo, con i suoi ricordi, nelle cupe stanze dove avvenne il trauma e lentamente questo prese forma nei suoi contorni più definiti. Ciò che fu maggiormente doloroso per lei fu l’emergere del fatto che, quando lei allora immediatamente avvisò i suoi genitori, questi non fecero nulla. Questo secondo trauma fu così intenso da produrre una scissione in Simonetta tanto che, dopo di allora, il ricordo emerse soltanto nel corso della nostra terapia, a distanza di molti anni. Analizzammo come l’atmosfera di tristezza che lei cronicamente viveva pescava in un profondo senso di colpa al quale non sapeva dare nome, oltre all’impressione di essere brutta, deteriorata, non amabile. Aveva una rabbia profonda che nasceva chiaramente da un vissuto di colpa rispetto a quanto accaduto. In particolare, la colpa era fortemente e drammaticamente acuita dalla mancata denuncia dei suoi genitori, vissuta da lei, bambina, come la conferma incontestabile, come un marchio sulla pelle del fatto che lei, proprio lei, sarebbe stata la colpevole. Approfondimmo a lungo questa rabbia. La prima svolta nel nostro lavoro avvenne quando iniziò nella sua mente a palesarsi l’ipotesi che lei non fosse la colpevole di una nefandezza causata da lei, ma piuttosto la vittima di un abuso perpetrato su di lei. Dopo questo passaggio, avvenne il secondo passo, che toccava quello che chiamammo il secondo trauma: il non sostegno da parte dei suoi genitori. La rabbia era dilaniante. Ci accorgemmo come tutte le cattiverie che lei compiva con i ragazzi che incontrava oppure con le persone maggiormente vicine a lei nascevano da un suo bisogno di vendetta, strettamente correlato alla rabbia profonda. In una delle nostre sedute, dopo circa un anno di lavoro, mi uscì la frase: “Ma lei si sta vendicando con le persone sbagliate, vorrebbe vendicarsi dei suoi genitori, ma si vendica e colpisce
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i suoi amici, che non c’entrano niente”. Questa frase felice, oppure semplicemente fortunata, aprì una nuova fase di lavoro intenso di Simonetta dentro a sé stessa. Iniziò a separare il primo abuso (del vicino di casa) dal secondo (il tradimento dei suoi genitori). Verso il primo visse nel suo profondo la chiarezza di essere lei la vittima e non la colpevole (concezione che il secondo abuso aveva fortemente acuito), tanto da arrivare, pur a distanza di molti anni, a sporgere denuncia alla persona, denuncia non dal sapore della vendetta, ma della giustizia e della protezione di eventuali nuove vittime. Circa il secondo trauma, lesse con chiarezza la trappola nella quale si era infilata. Si vendicava con gli altri uomini o i suoi amici, sostituendo il vero bersaglio della sua rabbia (i genitori inetti), creando una sorta di meccanismo che si automanteneva proprio sulla colpa: mi sento sporca e cattiva, allora colpisco e faccio nefandezze, confermando quindi di essere sporca ed indegna. Guardammo, poi, e glielo dissi, come alla fin fine non fosse così cattiva: non era riuscita a fare così male e non aveva inflitto così gravi nefandezze agli altri. Le dissi proprio che non era riuscita a diventare così cattiva e che la sua vendetta forse non era così tremenda, ridemmo molto quando glielo dissi. Valeva la pena, in modo molto più semplice, accettare che quell’atto ignobile, che aveva condizionato tutta la sua esistenza sino ad allora, l’aveva condotta dentro a quel tunnel ripetitivo, dal quale lei stessa aveva voglia di uscire, e che questa era la ragione per la quale era venuta inizialmente da me. Accanto alle sue cose nefande poteva vederne molte altre di sé positive, come il dedicarsi con grande passione al volontariato oppure alle sue relazioni buone, oppure, più semplicemente, alla voglia che aveva di godere, anche fisicamente, dei rapporti con gli altri o con i ragazzi. “Molto bene, Cesare, Simonetta ha potuto accettare che il proprio corpo fosse anche buono, che in fondo era stata sì un
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po’ carogna con i ragazzi che aveva incontrato, ma poi non lo era stata così tanto, che aveva tante altre cose belle in sé e che era mossa da un grande desiderio. Credo abbiano agito due cose: la prima l’uscita dal senso di colpa del primo trauma, poi la constatazione che cose buone e cose meno buone possono convivere, che c’è stata una ragione che l’ha condotta magari a fare un po’ di male e che questo poi non era così grave come le sembrava”. “Professore, poi abbiamo guardato come queste cose, in fondo anche buone, la riguardavano. Lentamente, lei è riuscita a perdonarsi ed anche a perdonare i propri genitori, staccandosi finalmente da loro. Trovò presto un ragazzo, con il quale ritrovò una sua femminilità ed un suo erotismo assolutamente nuovo. Un giorno, nello studio, invitai anche i genitori, i quali chiesero scusa e ci fu un abbraccio tra di loro”.
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XII Andare oltre all’apparenza
Io non ho mai visto il maestro comportarsi in modo diverso a seconda della persona che aveva dinanzi. Mi ricordai di Santina. Lei tratteneva ogni sua emozione dentro di sé, la sua psiche era come una cassapanca chiusa, serrata, con dentro tutte le sue emozioni più profonde, che non poteva dire, che non poteva esplicitare, perché sarebbero state destruenti, nella sua fantasia, per lei e per gli altri. Questa sua chiusura la riferiva al vissuto di abbandono che lei provava nei confronti del padre, di quel suo padre traditore che si volgeva sempre altrove, che non la guardava mai, che la denigrava. Fu così che sposò Angelo, il quale si muoveva esattamente come il padre: come lui la denigrava, la trattava male e la considerava di nessun valore. Con Angelo lei così era autorizzata a continuare a mantenere chiusa la cassapanca, nella quale erano conservate le sue emozioni. L’avere un marito assai simile al padre le consentiva, in sostanza, di non doversi aprire, in fondo nessuno le chiedeva nulla e lei poteva arroccarsi, non mettersi in gioco, non essere. Dopo che Gianni, il figlio, ebbe un grave incidente mortale, lei ebbe il desiderio profondo di aprire quella cassapanca, di guardarci dentro e di guardarsi.
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Fu il mistero di questa morte che le fece balenare l’idea prima, ed il desiderio poi, di aprire quella cassapanca. Santina fece una prima lettura e mi disse che lei, pigra sin da bambina, aveva messo la polvere sotto il tappeto ed era cresciuta senza dire e senza dirsi niente, che aveva sposato Angelo, che non chiedeva mai parole, pensieri o spiegazioni a lei. Io, però, le proposi un’altra lettura, quella di una lei, fanciulla, che aveva dovuto chiudere quella cassapanca, perché soltanto la sua chiusura le avrebbe consentito di mantenere la fedeltà al padre amato e di salvare lo stesso dal suo tradimento. Successivamente, con la scelta di sposare Angelo, figura molto simile al padre, lei aveva potuto continuare a mantenere questa fedeltà. Il maestro commentò come questa lettura differente non cambiasse la realtà dei fatti: “Vedi Cesare, noi non possiamo cambiare la storia, possiamo solo individuare dei vissuti differenti della stessa storia e farne quindi una nuova narrativa”. Infatti aggiunse che era importante che lei potesse guardarsi sapendo che il suo sintomo, cioè il suo silenzio emotivo, fosse stato per lei e dentro alla sua storia l’elemento etico più nobile ed elevato, e non l’espressione secca o diretta di una sua carenza o di un suo deficit. Continuò: “Questo accade perché la loro mente resta un guazzabuglio di emozioni e di pensieri che non sanno governare e, non a caso, Bion1 specificava il nostro lavoro di psichiatri o di psicologi degli adulti con la necessità di offrire all’altro una mente che possa accogliere il loro disordine e possa renderlo a loro leggibile, cioè ne cambi l’ermeneutica. Ciò che appare fondamentale nelle parole di Bion è la possibilità di avere un contenitore che possa fare da traduttore ed accoglienza degli stati interni dei pazienti. L’immagine che più rappresenta
1. Cfr. J.S. Grotstein, Un raggio di intensa oscurità. L’eredità di Wilfred Bion, tr. it. di I. Negri, Cortina, Milano 2010.
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tale pensiero è quella di un pescatore che toglie i nodi dalla rete e la rende nuovamente capace di essere lanciata nel mare. Tale passaggio non è proprio solo dei professionisti, che sono chiamati a farlo in quanto strumenti di cura, ma appartiene all’essere umano, nel momento in cui esso riscopre la curiosità verso l’altro, mettendo da parte la paura che l’incontro con l’ignoto genera. Analogamente, la fenomenologia ci fa vedere come il cambiamento passi proprio attraverso una diversa ermeneutica del proprio mondo interno2. A questo si aggiunge il fatto che il cambiamento passa attraverso l’ascolto attivo ed il vivere una temporalità tridimensionale che consente al soggetto di percepirsi in movimento e capace di ampliare la propria prospettiva di sguardo sulla realtà. Non a caso, siamo oggi in un’epoca di diffusione terribile delle dipendenze e delle esperienze borderline, proprio perché il mondo ed il tempo sono fermi sulla sola dimensione del presente. La dipendenza, che noi professionisti siamo chiamati a curare, si colloca in questo spazio tra me e l’altro, allorquando io lo voglia a tutti i costi colmare. Ma io e l’altro dobbiamo essere ben separati, ed è proprio in questa separazione che nasce l’esperienza dell’autocoscienza, perché diveniamo capaci di uno sguardo di attesa aperto al mondo. In questa separazione, che vuole dire anche distanza e solitudine, l’uomo può ascoltarsi nel suo profondo, sentire salire le proprie assenze, sentirsi permeare da una nostalgia antica, sentire che dal pianto nasce un anelito irresistibile e costitutivo, assetato di una risposta che è solo accennata, tenendo in mano una domanda che lo spinge sempre più in là. In questa solitudine, in questa separazione, in questa distanza nasce il sentimento di sé, la domanda costitutiva del ‘Io chi sono?’. Quel ‘Io chi sono?’ che sta in mezzo alla
2. Cfr. A. Molaro - G. Stanghellini, Storia della fenomenologia clinica. Le origini, gli sviluppi, la scuola italiana, UTET, Torino 2020.
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carenza originaria che mi spinge a cercare ed al riconoscimento paterno che mi nomina al mondo e mi dice che ce la farò. Certo, la lettura diversa che hai fatto con Santina ha permesso a lei di vedersi non ghiacciata in un presente ripetitivo. Lei era ormai entrata in un mondo che la vedeva schiacciata nel terrore di rivivere l’abbandono. Tutto doveva tacere. L’ipotesi che, al di là dell’abbandono del padre, lei potesse vedere che vi era anche un amore per lei, le dava la possibilità di poter entrare nella posizione di attesa, e solo quella poteva farle aprire la sua cassapanca. Hai aperto con lei e compreso le sue emozioni, ne hai dato nome e significato e lei ha potuto guidarti dentro al suo mondo. Lei era divenuta tutta apparenza e non viveva. La tua presenza le ha consentito di non avere paura”. “Lei ci ha sempre insegnato a non avere paura, ma come fare?”. “A non avere paura a me lo ha insegnato mio padre: avere sempre la certezza di quello che sei e che quello che fai è ciò che puoi fare, questo ti dona serenità, perché ti fa passare dalla condizione di essere dipendente dal tuo progetto o dall’obbligo che tu stesso ti dai. Nel chiederti cosa è la speranza, pensa alla questione di fondo e cioè al legame che questa ha con il desiderio profondo: la persona è felice quando realizza il suo desiderio, oppure è felice quando individua o ha il suo desiderio? Possedere il desiderio (che corrisponde all’adultità) è proiettare sé in un tempo che deve ancora venire; questo vuole dire entrare nella triplice dimensione del tempo, allargando il presente, il quale, dal canto suo, è determinato unicamente dal bisogno. Questo passaggio produce la liberazione dall’esito, per Santina il non essere abbandonata e l’ingresso in una dimensione di sé e del tempo ove vige la possibilità della realizzazione del desiderio, che può permettersi di divenire e di affermarsi gradualmente, anche se vuoi attraverso inizialmente al sogno.
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La speranza del tuo paziente è figlia della grande speranza che tu hai prima ed assieme a lui. Pensa al genitore, il quale non dona soltanto la vita, ma dona anche la morte (se non avesse ‘donato’ la vita ai suoi figli, non avrebbe donato loro anche il destino ultimo di morire). Questa è la vera ‘responsabilità’ del genitore: la responsabilità della speranza e del desiderio proprio, oltre a quello, strettamente legato, di andare oltre all’apparenza. Noi siamo, pertanto, debitori di una speranza (che, sotto questo aspetto, è anche senso) ai nostri figli ed a tutte le persone che incontriamo. Dinanzi a questo, dobbiamo pertanto porci e riproporci la questione della speranza che noi abbiamo sulla vita e, nella nostra vita, abbiamo imparato che la speranza vive e si realizza nell’oggi, unica dimensione temporale nella quale noi siamo incarnati. Mi viene in mente un dato essenziale. Noi abbiamo a che fare con persone, come Santina, che sono schiacciate, come tante volte ci siamo detti, tra due emozioni fondamentali che, a loro volta legate alla dimensione del tempo, li schiacciano in una corporeità ghiacciata nell’oggi. Da un lato il passato è fonte di una profonda nostalgia, dall’altro lato il futuro è irto della paura, di un ignoto pieno di una propria impotenza, questo faceva tenere tutto fermo e chiuso in Santina. Come la speranza ha rotto in Santina questo blocco? Introducendo, da quello che hai detto, il valore dell’oggi dentro ad una compagnia umana piena di riconoscimento, stima e senso. Questa compagnia umana è, a mio parere, la paternità, che non si ferma mai all’apparenza”.
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XIII Il paziente è il metodo
Seguendo il maestro tutti i giorni, nella sua pratica e nei suoi discorsi, capitava di non riuscire molto a scindere gli aspetti tecnici del nostro lavoro dagli aspetti semplicemente umani. Sembrava talvolta che la nostra prassi ricalcasse semplicemente un buon rapporto inter-umano. Ma non era proprio così. Mi sembrava, poi, che fosse lui a seguire il paziente, mentre tanti, prima di lui, ci avevano insegnato che era il paziente semmai che doveva seguire noi. Lui ribatté immediatamente: “Certo, è così. Il metodo lo stabilisce il paziente, anzi il paziente stesso è il metodo”. Volevo capire di più e gli chiesi di andare avanti. “‘Il paziente è il metodo’ è la sintesi di quello che facciamo. D’altra parte, ce lo insegna la fenomenologia che è l’oggetto della conoscenza a determinare il metodo con il quale arriviamo a conoscerlo. Anzitutto, il paziente conosce sé stesso meglio di quanto lo conosci tu e le risorse le ha lui, lui sa dove si nasconde il suo desiderio. Ha bisogno di dipanare la nebbia, il buio, la confusione, per creare, con te, significati e narrative nuovi. Questi però sono già dentro di lui e quindi è solo lui che te li può lentamente fare vedere, se sarai capace – potremmo dire – di conquistarlo.
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Attraverso la stima che tu hai di lui, lui potrà avere stima di te e poi di sé. E tu sai bene come la stima non sia per nulla gratis. È lui che ti può dire dove andare e dove trovare le cose recondite che da solo non riuscirebbe a toccare, i cassetti, per dirla alla Salvador Dalí1, che non vorrebbe aprire. Per questo il nostro mestiere sfiora qualcosa che ha a che fare con la sacralità, anche sbagliassimo mille volte. Lui stabilisce anche i tempi”. “Ma allora vuole dire che noi dobbiamo fare quello che lui ci fa fare?”. “Niente affatto. Tra te ed il paziente c’è un patto: lui chiede a te di curare un suo sintomo attraverso una competenza che tu hai e che lui non ha. Tu ti rendi disponibile ad offrire questa competenza in cambio dell’onorario che lui ti paga. Il contratto è chiaro. E da questo contratto non si deve sgarrare. Se è vero che la nostra relazione è simmetrica, perché è una relazione tra uomini alla pari, è anche asimmetrica, perché il paziente chiede a noi qualcosa e noi, speriamo, pensiamo di dargliela. Pertanto, è vero che il paziente è il metodo, perché ci indica il percorso, ma siamo noi, poi, che dobbiamo guidare ed aiutare lui a leggere il suo mondo interno. E qui entra la nostra competenza specifica”. “Professore, Donald Winnicott2 parlava di una competenza che non si insegna, che ci è propria”. “Non è proprio così. Winnicott parlava di competenza riferendosi alla madre, la quale conosce il proprio figlio, distinguendolo da tutti gli altri, attraverso la curiosità. E quante volte noi abbiamo parlato di curiosità! Ma, dopo questa, dobbiamo
1. Cfr. S. Dalí, Stipo antropomorfo, riportato in C. Brook, in «artdossier», n. 160, 2000 (inserto redazionale allegato), p. 3: «Il corpo umano […] è oggi pieno di cassetti segreti che solo la psicoanalisi è in grado di aprire». 2. Cfr. D. Winnicott, I bambini e le loro madri, tr. it. di M.L. Mascagni e R. Gaddini, Cortina, Milano 1987.
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mettere in campo la tecnica, quella per cui tanto a lungo hai studiato”. “Ci fa un esempio?”. “Ricorderete certamente Nicoletta. Venne da noi tanto tempo fa, dopo un episodio psicotico acuto, avvenuto mentre si trovava al palazzo del ghiaccio: aveva ritenuto di essere stata inviata da Dio a salvare tutti gli uomini tramite una serie di interventi che da lì a poco avrebbe dovuto mettere in atto. Dal palazzo del ghiaccio è giunta direttamente in reparto. Si è ripresa prontamente, ma poi abbiamo lavorato a lungo sui suoi temi, non quelli deliranti, ma quelli che avevano connotato tutto il suo pensiero negli anni precedenti alla crisi. Era una gran brava ragazza, tanto che successivamente alla cura si è laureata bene, ha iniziato a lavorare con successo ed è andata velocemente ad abitare da sola, mantenendo discrete relazioni interpersonali. Dopo il ricovero, l’abbiamo seguita a lungo soprattutto perché, mentre noi avevamo stima in lei, lei l’aveva in noi. Siamo andati dentro al suo mondo, scoprendo come lei si fosse considerata sempre poco adeguata in tutta la sua vita, specie a causa di un sospetto, che lei non aveva il coraggio di approfondire, circa il proprio orientamento sessuale. Ciò che maggiormente colpiva era il modo con il quale lei leggeva la sua storia: cresciuta in un contesto molto protettivo, era rimasta incastrata in un rapporto troppo vicino con una madre debole, che non aveva mai rappresentato per lei un modello o semplicemente un punto di riferimento e che non le aveva concesso di immaginarsi donna, soprattutto di immaginarsi una donna capace di stare nel mondo, come appunto non lo era mai stata la madre. Era cresciuta sempre con un sentimento di mancanza e di inadeguatezza. Crescendo piuttosto isolata, era divenuta una ragazza, come la chiamiamo noi, troppo obbediente e senza reali relazioni e senza il senso di una propria consistenza. Esplose quel giorno al palazzo del ghiaccio, in una delle rarissime circostanze nelle quali era
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uscita con alcuni pari. Noi abbiamo riletto la storia assieme a lei, incamminandoci in una scoperta delle sue doti, che lei non aveva mai visto, immaginando insieme a lei che ci si poteva staccare dalla madre, che si poteva avere un proprio senso di sé ed, infine, che il suo orientamento sessuale, in fondo, non era così importante. Lei esisteva al di là dei suoi genitori poco consistenti e poteva non occuparsi di loro. Tutto questo è stata tecnica. Questo è lo specifico del nostro lavoro”. “Professore, in che modo Nicoletta è stato il metodo?”. “Avremmo potuto definire Nicoletta una portatrice di psicosi, come d’altra parte era avvenuto al palazzo del ghiaccio, avremmo potuto seguirla con controlli periodici, non chiedendoci altro. Invece, l’abbiamo seguita – questo termine mi sembra opportuno –, siamo entrati con lei nel suo mondo interno, abbiamo toccato le sue ferite ed i suoi traumi, a partire da dove ci portava lei, abbiamo assieme preso atto che si poteva stare a fianco di queste ferite e di questi traumi senza morire, senza disintegrarsi. In sostanza, lei ci ha portato sino alla possibilità di sperimentare assieme che potevamo fare a meno della psicosi. Poi, colla fiducia reciproca che si andava col tempo incrementando abbiamo dato significati diversi allo stesso trauma. Vedi, Cesare, del trauma dobbiamo occuparcene quando esso vive ancora nel presente, un trauma che non vive nel presente, che non si riattualizza nell’oggi, è un trauma che possiamo lasciare dove è. Ma in Nicoletta, il senso di non potere essere donna e l’invidia che lei stessa aveva delle donne belle, intelligenti o capaci non era segno di attrazione omosessuale, ma era soltanto espressione di un desiderio di essere come loro, di possedere lei stessa quella capacità di essere donna. Accanto a questo, sperimentando su di sé che nessun giudizio da parte nostra era in gioco, ha potuto comprendere nel suo profondo che la questione della sua eventuale omosessualità non era poi così importante. Da qui ha potuto, assieme a noi, rileggere gli altri elementi del suo mondo interno. Questa è
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tecnica, perché, per fare questo lavoro, abbiamo avuto bisogno di Husserl, di Freud, di Jung, per dirne alcuni, e di tutti gli altri che si sono susseguiti negli anni sino a noi”. “Mi fa un altro esempio di cambio di ermeneutica?”. “Ti ricordi di Giovanni? È venuto da noi dopo una fase di grandi litigate o presunte risse con la moglie. Lei lo accusava di violenze nefande ai suoi danni, violenze fisiche, sessuali, psicologiche, facendosi forza di alleanze malate con gli amici di lei e di lui, così che Giovanni finiva per risultare agli occhi di tutti un pericolosissimo soggetto. Soltanto attraverso una chiara posizione nostra riuscimmo a non arrivare a diffide, tribunali o, peggio ancora, all’allontanamento delle figlie. Giovanni era la vera vittima del vittimismo della moglie, la quale ben si guardò dal venire in terapia, ma restò fissa nella posizione accusatoria. La questione era, per noi, però, quella che riguardava Giovanni, il quale non usciva dalla posizione di accusato di nefandezze, ma sembrava restarci con una buona quota di complicità”. “Mi ricordo bene di Giovanni, ma lei a cosa si riferisce?”. “Al fatto che, seguendo Giovanni, abbiamo assieme compreso come lui provenisse da un’esperienza familiare difficile, con un padre-padrone, padrone anzitutto della madre debole e – lei sì – vittima. Un padre solo successivamente padrone anche del figlio, il quale poi non era stato capace di staccarsi da questa figura senza confini. Egli era con la moglie, che era ovviamente una persona gravemente passivo-aggressiva, totalmente oblativo, cercando di curare, attraverso la moglie, la propria madre dalle angherie del proprio padre. In questa ricostruzione, freudianamente di coazione a ripetere, Giovanni si trovava a subire le accuse della moglie che, in fondo, erano quelle della madre verso il padre. Soltanto comprendendo questo, emerse la totale dipendenza di Giovanni da questa situazione, che spiegava la sua non consistente opposizione alle accuse di nefandezze da parte della moglie. Lui riviveva la nefandezza del padre. In questo, paradossalmente, era anche
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lui molto obbediente, tanto obbediente da avere fatto quello che il padre desiderava: Giovanni aveva, in fondo, ricostruito un nucleo molto simile al suo. Soltanto la lettura di tutto questo ha permesso un cambiamento ed una sana separazione dei due coniugi”. “Giovanni ha potuto rileggere quello che avveniva nella sua famiglia come una riedizione della sua famiglia originale. La nuova narrazione gli ha permesso di staccarsi dal padre e di prendersi cura della madre direttamente e non nell’illusione di farlo attraverso la moglie”. “Ancora una volta, Cesare, vale la pena di ripetere come ognuno, prima di sposarsi o di entrare in convento, oppure di fare qualsivoglia altra scelta di questo tipo, debba perdonare i propri genitori e la propria storia”. Passava così il tempo con il maestro. Si trascorrevano intere ore, o mezze giornate, parlando dei pazienti, delle teorie, degli accadimenti del mondo, e molto di noi. Lui affermava di non avere mai fondato una scuola, in realtà la fondava ogni giorno per coloro che erano con lui. Non vi era differenza tra scuola e corpo, presenza. Per questo si stava con lui, proprio per la sua presenza. In questo era molto paterno, anche se lui non ha mai voluto crearsi dei figli che lo seguissero. Voleva che tutti volassero con le loro ali. Il mio grande privilegio è stato quello di stargli a fianco per tanti anni, a partire da quella domenica in cui mi fermò in basilica. Fu così che nel tempo, con altri che da lui erano partiti nel loro lavoro, abbiamo iniziato a trovarci per chiacchierare attorno ai nostri pensieri, magari con un po’ di insofferenza delle nostre mogli e dei nostri mariti, e ci siamo ritrovati noi accovacciati ai piedi dei pensieri, delle filosofie, delle storie nostre e dei nostri pazienti, dell’umano che ci circonda, in fondo accovacciati metaforicamente ai suoi piedi, grati di una passione che non ci lascerà più.
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XIV L’ultimo insegnamento: stare davanti alla realtà
Quel giorno, mi trovavo davanti alla sua stanza d’ospedale. Non ne sarebbe più uscito, entrambi lo sapevamo, senza ovviamente dircelo. Mentre mi trovavo ancora sulla soglia, arrivò una telefonata sul suo cellulare, e lui, con la calma di sempre, con la disponibilità di sempre, rispose ad una donna che aveva ancora bisogno di lui. Parlava come potessero rivedersi da lì a poco. Dopo che entrai nella stanza, l’infermiera, che da circa un mese era sempre presente, giorno e notte, uscì. Forse ella capì che avevamo bisogno, o perlomeno che io avevo bisogno di quel momento da solo con lui. Non so quanto questo momento durò, ma mi sembrò un’eternità, pari a quel giorno che lui mi abbracciò dopo la morte volontaria di Federica. Il maestro si mise a parlare, non so neppure perché, di ciò che potesse definirsi bello e di ciò che potesse definirsi brutto. Prese probabilmente spunto, per questo discorso, da un articolo letto qualche giorno prima su un quotidiano, il cui autore definiva come non fosse possibile stabilire il bello ed il brutto in modo oggettivo. Il maestro, amante sempre della realtà e della verità, era stato indispettito da questo articolo, che io neppure avevo letto. Non capivo, poi, la ragione per la quale parlare della definizione e della distinzione di bello
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o di brutto, in un dialogo che verosimilmente sarebbe stato il nostro ultimo dialogo. Lo capii, come avveniva spesso con lui, soltanto tempo dopo. Lui iniziò: “Io non capisco tutta questa discussione sul bello e sul brutto. Io, dovessi rispondere a che cosa è bello ed a che cosa è brutto, non lo farei parlando o spiegando, ma soltanto mettendo in fila tante fotografie, ad esempio dei campi di sterminio nazisti, dei bombardamenti del Vietnam, o altro simile, e poi metterei in fila tante altre fotografie di fiori, di paesaggi, di tramonti, di montagne. Poi chiederei a coloro che dicono che non vi è differenza tra il bello ed il brutto e che la distinzione è solo soggettiva, di guardare bene le fotografie e poi di parlare”. “Professore, con questo cosa otterrebbe?” timidamente gli chiesi. “Stare davanti alla realtà, per come essa è, rivela lo sguardo che tu hai, il bello ed il brutto che hai e che sei dentro di te, soprattutto ti fa dire sì o no dinanzi a quello che vedi, se vuoi starci oppure no”. La realtà, per il maestro, era sempre stata ciò che lo guidava, il suo sestante. E così è stata, mi sembrava, sino a quell’ultimo nostro istante, anche perché, in quel momento, mi accorsi che il maestro, con quel discorso di stare dinanzi alla realtà e che questo stare dinanzi alla realtà rivela ciò che sei e ciò che desideri nel tuo profondo, stava preparandosi lui all’incontro che da lì a poche ore avrebbe fatto con Dio. Si preparava a stare dinanzi alla cosa più bella tra tutte quelle che aveva visto sino ad allora, per dirgli di sì. Mentre così parlavamo, d’un tratto mi chiese di mettergli il pappagallo, in quanto sentiva il bisogno di urinare. Fu questo il momento che io ricordo – sembra un paradosso – come il più intenso tra i tanti negli anni trascorsi assieme. Non chiamò l’infermiera che era sulla porta, avrebbe potuto farlo, chiese a me di fare quell’operazione, che trovai di una intimità e di una famigliarità straordinaria. Mi commossi profondamente e, con
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una mano che tremando traduceva un mio timore reverenziale, ma anche una grande gratitudine, eseguii quello che mi chiese. Soltanto allora, e mai così intensamente come in quell’occasione, sentii che mi aveva davvero considerato e permesso di considerarmi suo allievo. Vissi quella richiesta di mettergli il pappagallo come un grande regalo. Tra me e me pensavo a come fosse strano vivere così quella semplice cosa, ma proprio lui me lo aveva sempre insegnato, che la vita passa attraverso le piccole cose, quelle più umili, più semplici, e che per queste saremo giudicati. Fu allora che avvertii che potevamo, con grande pace, quella che mi aveva sempre insegnato, separarci, dicendoci, senza ipocrisie, “arrivederci a presto”.
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Postfazione di Giovanni Stanghellini
“Sto imparando a mettere tra parentesi le mie sovrastrutture di pensiero nel muovermi nel rapporto con il paziente. Sto imparando ad abbandonare il ‘sentiero segnato’: non presupporre l’universalità di certi aspetti della mente umana e concentrarmi sulla loro ricerca perdendo di vista la singolarità dell’Altro, ma invece presupporre la differenza, l’unicità di ciascuna persona. È stato un terremoto. La mia precedente formazione definiva percorsi prestabiliti che mi impedivano di stare con la persona che mi stava davanti”. Credo che queste frasi, pronunciate da un’Allieva durante il suo percorso formativo, non stonerebbero affatto nel contesto del saggio – o forse sarebbe meglio chiamarla memoria autobiografica, o romanzo di formazione – scritto da Cesare Cornaggia, che tutti gli aspiranti psicoterapeuti dovrebbe leggere e meditare. Coloro che cercano di insegnare il mestiere a giovani psicologi e psichiatri sanno quanto essi siano avidi di “sentieri segnati”: interviste diagnostiche, protocolli terapeutici, tecniche di cura, linee guida. Quanto, nelle aule di formazione, risuoni sovente meschina e sinistra la richiesta: “Sì, tutto bello quel-
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lo che ha detto, ma in pratica che si deve fare con quel tipo di paziente?”. Viviamo nell’età della tecnica, quindi perché sorprenderci se un giovane aspirante professionista della salute mentale si aspetta che il suo istruttore – la parola “Maestro” sarebbe in questo contesto stonata se non blasfema – gli indichi un “come si fa” da applicare pedissequamente? La richiesta dello scolaro è formulata con la massima ingenuità, ignara dei suoi presupposti epistemologici ed etici, e cioè: – che la conoscenza si debba necessariamente tradurre in una pratica protocollabile e manualizzabile; – che una conoscenza che non si traduce meccanicamente in una pratica sia un inutile lusso e perdita di tempo – il che equivale a ritenere che pensare sia un’inutile perdita di tempo; – che ci sia un modo di fare con il paziente che l’istruttore deve impartire allo scolaro affinché quest’ultimo lo applichi passivamente, non diversamente da quanto si suppone debba accadere in un corso di avviamento professionale per un idraulico o un elettricista; – che esistano “tipi” di pazienti, come esistono tipi di circui ti elettrici o impianti idraulici, invece che individui unici e irripetibili; – che tali presunti “tipi” di pazienti debbano ritenersi destinatari di tecniche impersonali (come si fa, dove il si passivante è quasi un lapsus linguistico che afferma la genericità e la mancanza di originalità della cura); – e, infine, che applicando alla lettera tali istruzioni lo scolaro-esecutore sia sollevato dalla responsabilità personale relativa a ciò che ha fatto, fornendo la tecnica un alibi morale ed epistemico a chi la applica – “Ho fatto quel che mi è stato insegnato di fare”. Insomma: la cura trasformata in un’istanza paradossale della banalità del male.
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Il tono di Cesare Cornaggia è decisamente più soave del mio, ma il contenuto del pensiero espresso in questo libro è tutt’altro che conciliante. I personaggi di questo racconto sono tre: Il Maestro, l’Allievo, e il Paziente. La trama prevede che il Maestro e l’Allievo siano l’uno accanto all’altro fino alla fine, e che anche nel loro ultimo gesto, nell’ultima richiesta del primo e nell’ultima offerta del secondo, entrambi esprimano con umiltà il proprio destino di essere carne attraversata dallo spirito, cioè dalla passione e dalla compassione. Entrambi testimoniano che la cura dell’anima – l’anima del Paziente, il terzo personaggio di questa storia, sempre presente, mai eclissato da assiomi teorici e mai scansato per seguire sentieri segnati – non va consegnata nelle mani di poveri di spirito educati da gente che crede che insegnare consista nell’abilitare meccanici a rettifiche timiche e riparazioni di guasti cognitivi. Essere sempre di fronte al fatto materiale – essere sempre di fronte all’Altro. E l’essenza dell’Altro – sia esso il Paziente, o l’Allievo, o il Maestro – è la sua alterità. Questo, mi pare, il principio ispiratore di questa raccolta di esperienze intime e personali. Ciò che affascina del modo in cui Cesare Cornaggia tratta queste esperienze dell’Altro è la serenità che lo accompagna. La serenità di chi, pur di fronte all’inquietudine che promana dall’incontro con l’Altro che non si lascia catturare da artifici teorici, non dispera; anzi, sentendosi sempre un eterno principiante e avendo fiducia nella propria capacità di continuare ad imparare, si dispone anche di fronte al Paziente come un Allievo. Guai se uno dei tre personaggi (ma la regola vale soprattutto per il Maestro e l’Allievo) produce una cattura teorica dell’Altro che ne annulla l’alterità, e con essa l’inquietudine. Guai se l’alterità dell’Altro e la relativa inquietudine producono un’insoddisfazione di fronte alla quale la macchina delle somiglianze reagisce automaticamente per ristabilire senso e ordine – macchina umana-troppo-umana che ha il potere di assimila-
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re il dissimile attraverso un’analogia, di controllare lo strano attraverso una narrazione (ne abbiamo fin sopra i capelli delle magnifiche sorti e progressive delle medicine narrative!), di domesticare il caos attraverso un concetto. Resistere a questo automatismo, disciplinare questa insoddisfazione, valorizzare questa incertezza, riconoscere la vitalità di questa inquietudine significa conquistare un nuovo modo di fare esperienza, un altro modo di vedere, un modo più autentico di stare di fronte all’Allievo da parte del Maestro, al Maestro da parte dell’Allievo, al Paziente da parte di entrambi – perché no, infine, come effetto di queste testimonianza del Maestro e dell’Allievo, un modo più autentico da parte del Paziente di stare di fronte al suo Altro. La formazione dello psicoterapeuta è una sapiente miscela di sapere, saper-fare e saper-esserci. Questo breve scritto ci parla soprattutto di quest’ultimo ingrediente della miscela – saperessere di fronte al Paziente. La formazione psicoterapeutica è in primis un gesto di longanimità di fronte al dissimile e alla sua singolarità. La posta in gioco è la presenza reale dell’Altro. La presenza è reale solo nella misura in cui è singolare, cioè incompossibile a un’idea, a un concetto o a un simbolo. La presenza è reale in quanto incandescente, quando cioè arde di vita. Per chi non tollera l’incertezza non c’è alternativa all’assimilare l’Altro allo Stesso, al sottomettere l’Altro a un’intervista diagnostica, a un protocollo terapeutico, a una tecnica di cura prescritta da qualche linea guida. Ad essere complice del mancato riconoscimento dell’Altro – ed è ben noto quanto la sofferenza e la malattia dell’Altro inizino dove termina la mia capacità di comprensione e di riconoscimento.
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Indice
Prefazione di Julián Carrón
p. 9 Dalla parte del desiderio
Antefatto: un incontro I. Abitare un mondo possibile II. Cercare il desiderio
p. 17 p. 19 p. 27
III. Trovare un senso
p. 35
IV. Guardare l’altro nella sua integrità
p. 41
V. Prendersi per mano VI. Non pretendere VII. Saperci fare con il mondo dell’altro VIII. Lavorare tra dipendenza e soggettività IX. Passare dal bisogno al desiderio X. Entrare nell’adultità XI. Perdonare e perdonarsi XII. Andare oltre all’apparenza
p. 49 p. 57 p. 63 p. 69 p. 75 p. 81 p. 87 p. 103
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XIII. Il paziente è il metodo
p. 109
XIV. L’ultimo insegnamento: stare davanti alla realtà
p. 115
Postfazione di Giovanni Stanghellini
p. 119
Margini Collana di letterature e scritture non canoniche Diretta da
Filippo La Porta
1. Andrea Di Consoli, Diario dello smarrimento. 2. Aurora Bertrana, Paradisi oceanici. 3. Antonio Fiori, I Poeti del sogno. Piccola antologia. 4. Giovanni Catelli, Parigi, e un padre. 5. Lucilio Santoni, Legato con amore in un volume. Quasi un diario. 6. Luciano Curreri, Il non memorabile verdetto dell’ingratitudine. Seguito dai Sei pensieri grati e gratis. 7. Francesco Borrasso, Restare vivo. 8. Domenico Calcaterra, L’anno del bradipo. Diario di un critico di provincia. 9. Natàlia Cerezo, Nelle città nascoste. 10. Xavier Farré, L’auditorio di Görlitz. (Visioni poetiche). 11. Michele Rago, Pagine di diario (1951-1996). 12. Foulek Ringelheim, La seconda vita di Abram Potz. 13. Fabrizio Cossalter, Frammenti dell’età di mezzo. 14. Cesare Maria Cornaggia, Dalla parte del desiderio. Da una paternità un metodo nella cura.
Dalla parte del desiderio «Credo proprio che la cosa che conta di più sia questo cogliere il cuore, il desiderio, dell’altro, non occupandosi di ciò che appare, di quello che risulta essere il ruolo che l’altro ha assunto, chissà poi per quale strada o per quale ragione, nel mondo. Quello che conta è arrivare dritti al cuore: solo questo permette l’incontro e quindi il cambiamento attraverso il perdono». Ripercorrendo la propria storia e l’incontro con il maestro, Cesare Maria Cornaggia, psicoterapeuta e docente universitario, rilegge il proprio mestiere come un cammino che lo ha reso sempre più compagno dei pazienti che gli si facevano incontro. La scoperta dell’umano sotto la diagnosi, la curiosità stringente, la prassi sfidante del maestro che non permetteva a nessuno dei suoi allievi di ridurre la persona ad una malattia. Si compone così una galleria di ricordi e relazioni: ogni paziente, con il suo insegnamento, segna una via di amicizia e stima tra maestro e autore, che li lega per la vita. Cesare Maria Cornaggia è medico psichiatra e da sempre opera a Milano, sia in ambito pubblico che privato. Ha lavorato in diverse istituzioni, sia in Italia che in Germania, occupandosi, in ambito clinico e di ricerca, delle patologie psichiatriche, in particolare nelle realtà residenziali, e delle patologie di confine tra la psichiatria e la neurologia. La sua formazione si fonda in particolare sulla fenomenologia dinamica, aprendosi al campo sistemico relazionale. Attualmente è professore associato all’Università di Milano Bicocca.
Margini | 14 € 6,00
Collana diretta da Filippo La Porta
ISBN ebook 9788855293334