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French, Spanish, Italian Pages 749 [752] Year 2013
Actas del XXVIé Congreso Internacional de Lingüística y de Filología Románicas Volumen VII
XXVI CILFR Congreso Internacional de Lingüística y de Filología Románicas 6–11 de septiembre de 2010 Valencia
De Gruyter
Actas del XXVI Congreso Internacional de Lingüística y de Filología Románicas Valencia 2010 Editores: Emili Casanova Herrero, Cesáreo Calvo Rigual
Volumen VII Sección 11: Filología y lingüística de los textos y de los diccionarios de las lenguas románicas. Variaciones diasistemáticas en época antigua Sección 16: Historia de la lingüística y de la filología románicas
De Gruyter
ISBN 978-3-11-029985-4 e-ISBN 978-3-11-030001-7 Library of Congress Cataloging-in-Publication Data A CIP catalog record for this book has been applied for at the Library of Congress. Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über http://dnb.dnb.de abrufbar. © 2013 Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston Gesamtherstellung: Hubert & Co. GmbH & Co. KG, Göttingen
∞ Gedruckt auf säurefreiem Papier Printed in Germany www.degruyter.com
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Siamo distanti dalla situazione del veronese che, nonostante le vicissitudini diacroniche che hanno portato le /e/ finali non flessionali a confluire in /o/, distingue chiaramente quattro vocali finali (Bertoletti 2005: 123ss.): i
e
i
e
o
a
o
a
Come si vede, i riscontri più stretti vengono dai testi di area emiliano-romagnola. Per il vocalismo finale di questa zona sono stati ricostruiti due stadi diversi: uno, più recente, con caduta fonologizzata delle vocali finali e falsa restituzione (Corti 1962: lii; Vincenti 1974: lxxxiii); uno, anteriore alla caduta, con confusione delle vocali in [ə] (Contini 1938: 315 n. 15; Sanfilippo 2007: 424). I testi mostrano però, da una parte, che la confusione / è più frequente di quella /, dall’altra che i casi di per sono spesso marcati morfologicamente. Ciò permette forse di ricostruire una fase ancora più antica: /i/ i
>
e
>
(morf.)
o
>
a
>
/o/ [u]
/a/
(morf.)
In /i/ e in /a/ erano probabilmente confluite anche delle e etimologiche appartenenti a determinati morfemi flessivi: rispettivamente i plurali di I classe (tipo carti), alcuni singolari di III (tipo imperadori), le desinenze verbali di 3a pers. sing. (tipo credi); e altri singolari di batero, fosso ‹fosse› (Elsheikh 2001: xxxix), mant.a. movo ‹muove›, moresso (Ghinassi 1965: 97), trent.a. nadalo ‹natale›, morisso (Coletti / Cordin / Zamboni 1992: 188). 10 Cfr. ravenn.a. quigle ‹quelli›, livre ‹libri› (Sanfilippo 2007: 425), ferr.a. tuone ‹tuoni› (Contini 1938: 313), bol.a. quilli che son offese, tute li nostri amici (Vincenti 1974: lxxxii), moden.a. amixe, ladre (Elsheikh 2001: xxxix), mant.a. saxe, altre (Ghinassi 1965: 97). 11 Cfr. ravenn.a. le selvi, le charti (Sanfilippo 2007: 425 e 432), ferr.a. dixi, diexi (Contini 1938: 313), bol. le carti, imperadori ‹imperatore›, credi ‹crede› (Formentin 2002: 108). Tuttavia in bol e ferr. (Corti 1960: 41s.; 1962: liii) la -i per -e è ristretta ai plurali di I classe, ai singolari di III e alle desinenze di 3a singolare. 12 Secondo Contini (1935: 44 n. 1) -u per -o, pur presente in diversi testi sett., è frequente solo in bolognese. Cfr. i numerosissimi casi di Matteo dei Libri (Vincenti 1974: lxxxi).
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Come abbiamo imparato a scrivere in toscano
III (tipo nepota). Le restanti e erano confluite in una vocale posteriore la cui realizzazione, come mostrano le grafie, doveva arrivare fino a [u]. L’emil.a. potrebbe essere stato un tempo tipologicamente –e in gran misura anche diacronicamente, perché le corrispondenze etimologiche sono le stesse– identico al dialetto lunigiano moderno di Sassalbo, che ha tre vocali finali /i o a/. Rispetto a questo quadro, nel nostro testo, date le confusioni più frequenti tra ‹i› ed ‹e›, è probabile che siamo a uno stadio più avanzato con due sole vocali finali /a/ ed //, insomma al sistema attestato attualmente nella montagna modenese dal dialetto di Piandelagotti (Loporcaro 2005-2006: 78 e 93): Sassalbo
[kroa] ‹croce›
Piandelagotti [nva] ‹neve›
[fruto] ‹frutto›
[mentro] ‹mentre› [pradi] ‹prati›
[krd] ‹credo›
[fjum] ‹fiume›
[lt] ‹letti›
L’insegnamento che ne deriva, mi sembra, è che anche testi contaminati come i nostri possono essere preziosi per la ricostruzione linguistica.
Conclusioni Cercando di trarre qualche generalizzazione, possiamo dire che, a definire l’intensità del processo di commutazione, partecipano diversi parametri: − il parametro alterità: vi sono aree che si assimilano (Napoli, l’Emilia...) e aree che mantengono la distanza (la Sicilia); − il parametro testo: non è la stessa cosa copiare la Divina Commedia e la Leggenda di Gianni di Procida; è lecito attendersi che quanto maggiore sia la formalizzazione del testo, maggiore sia anche il rispetto del copista;13 − il parametro copista: è legato a fattori così individuali che difficilmente una tassonomia riuscirà a esaurire tutti i casi possibili; si possono identificare tuttavia alcuni poli: il copista assimilante contro il copista rispettoso; il copista che peggiora contro quello che migliora andando avanti nel testo;14 − il parametro destinatario: è difficile separarlo dall’anteriore (impossibile nel caso di «copisti per passione»): si può distinguere il committente che preferisce un testo puro da quello che ne vuole uno facilitato; − il parametro tratto: esistono tratti locali che hanno più probabilità di affiorare, e tratti originari che hanno più probabilità di essere conservati (ma anche qui non si può escludere un certo grado di idiosincrasia). Ma non si dimentichi che proprio da un formidabile processo di commutazione (la trascrizione toscana dei poeti siciliani) nasce la lingua poetica italiana: si leggano le ancora utili pagine di Devoto (1954: 51). 14 Attenzione: un copista assimilante che peggiora farà trasparire sempre meno i suoi tratti locali, proprio come un copista rispettoso che migliora. 13
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Marcello Barbato
È augurabile che si facciano altri sondaggi e anche comparazioni con altre situazioni romanze.15 Credo che resterà tuttavia innegabile una certa specificità dell’Italia, il cui caso mi sembra contraddistinto dai seguenti fattori: − l’assenza di unità politica (determinante, nonostante tutti i possibili distinguo, in altri casi); − la centralità economica della Toscana: «la Toscana era una parte d’Italia assai più importante, demograficamente ed economicamente, di quanto non sia oggi» (Castellani [1982] 2010, 116) e, all’interno della Toscana, «Firenze era non soltanto la culla della cultura italiana, ma una delle più grandi città del mondo, e forse quella che contava di più dal punto di vista economico e finanziario» (ibid. 115); − lo schiacciante predominio della produzione toscana: nel periodo che qui ci interessa la Toscana ha il monopolio quasi assoluto della prosa volgare (D’Agostino 2001: 539ss.); la regione si impone per motivi quantitatitivi prima ancora che qualitativi, per il numero di opere come la Leggenda di Gianni di Procida prima che per la Divina Commedia;16 − la centralità strutturale del toscano, su cui ha scritto pagine ancora validissime Salvioni (1890: 378s. = 2008: 355s.): nel toscano trovano quasi naturalmente un terreno comune i volgari settentrionali e meridionali. Nonostante siano necessari studi più sistematici, dal nostro caso mi sembra confermata l’importanza della trasmissione manoscritta nella preistoria della nostra unificazione linguistica. Attraverso la lingua dei testimoni si può ricostruire, da un lato, come gli scriventi di varie aree hanno a poco a poco abbandonato le loro abitudini di scrittura per avvicinarsi al modello toscano, dall’altro come il toscano ha cominciato, lentamente, a farsi italiano. Il nostro rimane tuttavia un processo di lunga durata e non privo di discontinuità, come appare se dalla prima metà del XIV ci spostiamo nella seconda metà del XV. Osserva Trovato (1991: 112): «a Napoli la stampa di un testo toscano (mettiamo il Decameron) implica la proliferazione di meridionalismi non necessariamente inconsci». Nella stampa veneziana del 1476 del Plinio toscano di Landino, si osserva lo stesso fenomeno che abbiamo visto nel Liber, per quanto con un tasso molto più basso di dialettizzazione: i venetismi infatti si limitano al Proemio e scompaiono nel resto dell’opera (Barbato 2001: 129s.). È un po’ la storia dell’Italia, in fondo, dove l’unità non è mai scontata ma appare ogni volta da rifare... Un punto di partenza può essere l’affermazione di Gleßgen (2007: 409): «les copies ont une tendance naturelle à neutraliser les marques diatopiques de leurs modèles, notamment dans les graphies. Les copies contribuent donc au processus de préstandardisation». Questo principio poi è stato dimostrato more geometrico da Yan Greub (2007), in un discorso nato per il francese, ma applicabile ovunque nel processo di standardizzazione agiscano «a) une utilisation importante de l’écrit, comprenant des opérations nombreuses de copie; b) une participation significative de l’écrit au processus d’élaboration d’une variété véhiculaire/de prestige» (ibid. 434). Per l’area spagnola Castillo Lluch 2006 lamenta l’assenza di studi d’insieme ma dà utili indicazioni. 16 Secondo un sondaggio relativo al periodo immediatamente precedente (1211-1261), più della metà dei testi centro-sett. conservati, escludendo la lirica, proviene dalla Toscana (inclusa la Corsica), meno di un terzo dall’area settentrionale e meno di un sesto da quella mediana (Barbato 2005: 191).
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Marcello Barbato
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Clara Barros (Centro de Linguística da Universidade do Porto)
A estruturação discursiva de versões portuguesas da legislação de Afonso X: afinidades e discordâncias
O tema desta comunicação é a análise linguístico-discursiva das versões portuguesas de alguns textos jurídicos da legislação de Afonso X –Primeyra Partida, Foro Real, Flores de Dereyto (de que já me ocupei em trabalhos anteriores: Barros 1994; 2002; 2010) e Tempos dos Preitos1, que analiso aqui pela primeira vez. O meu objectivo é demonstrar que essas versões apresentam traços concordantes que as filiam numa mesma tradição discursiva2 ainda que revelem alguma diversidade. Proponho-me, portanto, descrever a estruturação discursiva de um tipo específico de texto, incidindo sobre textos do primeiro período do português medieval e procurando explicitar características do discurso jurídico medieval em português. Começarei por retomar alguns dados e resultados atingidos nos trabalhos anteriores que elaborei sobre os textos, Primeyra Partida, Foro Real e Flores de Direito. Analisarei em seguida aspectos da estrutura textual de Tempos dos Preitos, versão portuguesa editada por José de Azevedo Ferreira em 1986 e incluída na edição de Jean Roudil da ‹Summa de los nueve tiempos de los pleytos› (Roudil, 1986, 65-80, 151-169, 387406), atribuída a Jacobo de Junta ou Jacobo (de las leyes).3 Trata-se de um texto curto, um manuscrito que ocupa apenas três fólios, 67v a70r, no nº4 do maço 6º de Forais Antigos do Arquivo Nacional da Torre do Tombo. A edição apresenta 121 linhas de texto impresso. Procederei por fim ao confronto dos textos anteriormente estudados (Primeyra Partida, Foro Real e Flores de Direito) com Tempos dos Preitos, procurando tirar algumas conclusões acerca das afinidades e das diferenças que este texto revela em relação aos outros três, tentando levantar modelos tipológicos e descobrir tradições discursivas institucionalizadas e estáveis. Os textos do corpus em análise são estudados como pertencentes a géneros discursivos que funcionam como modelos estabelecidos de uma tradição de intertextualidade, observável quer na situação social e institucional em que o texto ocorre quer em aspectos de ordem macroestrutural e microestrutural da sua realização linguística. Essa observação e análise não deixam de focar as estratégias utilizadas pelo Locutor para gerir os textos, alguns dispositivos activados nessa gestão, os actos de discurso Utilizei as edições de Azevedo (1980; 1987; 1989; 2001) dos manuscritos existentes no Arquivo Nacional da Torre do Tombo. 2 Utilizo o conceito de Daniel Jacob e Johannes Kabatek que definem tradições discursivas como«moldes histórico-normativos, socialmente establecidos, que se respetan en la producción del discurso. A través de estas categorías, cada discurso, y de ahí cada texto histórico, no sólo forma parte de una lengua determinada (o de varias lenguas) sino que se sitúa dentro de una filiación intertextual, constituida por una serie de elementos repetitivos, tanto en el plano de los ‹entornos› (constelaciones situacionales, mediales o institucionales) como en el plano de las formas detectables en la superficie del texto mismo.» (Jacob / Kabatek 2001: VIII). 3 Esta versão portuguesa foi também publicada em Azevedo (2001: 339-375). 1
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Clara Barros
predominantes e os moldes sintáctico-semânticos mais insistentemente utilizados nessa realização. Ocupo-me da estruturação dos discursos e da caracterização do sentido neles construído, tendo necessariamente em conta as condições da sua produção-recepção. A estrutura composicional destes textos legislativos reflecte a multiplicidade dos seus objectivos: estabelecer disposições legislativas; afirmar a legitimidade da acção legisladora; informar / transmitir o conhecimento das leis; persuadir o Alocutário da justeza, necessidade e oportunidade dessas leis; delinear e operacionalizar a praxis do futuro aplicador da legislação. Está neles patente, além disso, uma necessidade de afirmação e de auto-legitimação que se concretiza na coexistência de um discurso legislativo expositivo, de carácter prescritivo e não prescritivo, e um discurso legislativo justificativo, que previne resistências ou contradiscursos potenciais. A análise das diferentes dimensões linguístico-discursivas deste complexo discurso legislativo informa-nos acerca das ‹possibilidades› linguísticas deste período da língua uma vez que a necessidade de traduzir conteúdos de grande subtileza (no recorte de noções, na definição de termos e na formulação ajustada e rigorosa de determinações legislativas) obriga a uma competente utilização dos recursos disponíveis na língua e à exploração adequada de modos de organização discursiva. Há certamente, neste período, um conjunto de prescrições normativas que regulamentam o uso da língua e enquadram as enunciações em função das suas condições de produçãorecepção. No caso do discurso jurídico, são particularmente relevantes as relações institucionais e interpessoais que remetem para uma situação de interacção específica, que não deixa de impor limites às componentes da textualidade. Há paradigmas que se repetem e que interessa apreender – sendo que, na sua natureza em alguma medida formular, se efectiva em parte o carácter formal do discurso destes textos jurídicos. Na estrutura regular ou típica da configuração interna do texto da lei, reconhecemse os modos de realização dos actos directivos que traduzem as disposições legislativas e os diferentes esquemas construcionais realizados concretamente no corpo central das prescrições. Tem particular relevo a natureza condicional dos actos injuntivos e a insistente presença de verbos jussivos e indicadores de carácter psicológico e modal –uns e outros actualizados frequentemente como elementos introdutores da formulação das leis. Surgem novas formas de organização dos enunciados, com explicitude de mecanismos introdutórios. Verifica-se, na configuração compositiva dos discursos em estudo, que a uma efectiva intenção directiva, correspondente à enunciação de disposições legislativas, se aliam quer uma intenção de argumentar e de persuadir, quer ainda, se bem que não em todos esses discursos nem na mesma extensão e insistência, um propósito de informar, de explicar e mesmo de ensinar. O discurso legislativo expositivo presente nos textos que me ocupam não se esgota, portanto, na estrita prescrição de disposições legislativas. Integram-no também segmentos de índole definitória e de orientação informativa e também didáctica. No entanto, a orientação prescritiva é predominante –sendo que no Foro Real ela é mesmo exclusiva. Não se pode ignorar, entretanto, que nas Flores de Dereyto, e nos Tempos dos Preitos ocorrem injunções não impositivas. O discurso legislativo expositivo destes textos apresenta uma estruturação característica. A mais frequente construção que aí se recorta é a que apresenta proposições ou orações
A estruturação discursiva de versões portuguesas da legislação de Afonso X
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condicionais com o verbo no conjuntivo –com valor eventual / potencial–, a que se articulam orações com formas de imperativo ou conjuntivo (funcionando este como modo supletivo do imperativo). Tal construção corresponde a raciocínios condicionais do tipo: «Se A então B», em que B realiza uma injunção que surge dependente de uma condicional –projectando um acto de discurso directivo condicional, e não categórico. Essa condicional, que se realiza em soluções diversas, desenha um mundo virtual, ou melhor eventual, em que se aplicarão as determinações estabelecidas na injunção. A fórmula seguinte traduz o quadro antes esboçado que de seguida se exemplifica:4 δ ( α → β) directiva δ: Se for / acontecer α, então faça-se β. Se foi / aconteceu α, então faça-se β. (1)
E se o demãdado quiser que lhy den libello, devem lho dar se nõ for en pequenos preytos […] (TemPr, II, f).
(2)
E se a parte o maẽfestar que foy demandada, deve o juyz a poer o prazo pera pagar e condane o en aquello en que maenfestar (TemPr, II, e).
(3)
E se a parte aprendeu o que dixerõ os testigoos, nõ pode sobre aquellas cousas aduzer mays testigoos (TemPr, VI, e).
Estamos claramente em presença de actos ilocutórios condicionais, a cumprirem-se, não de forma categórica, mas apenas no caso em que o que se enuncia numa proposição condicional P seja verdadeiro. Trata-se de raciocínios de tipo genérico que pretendem abarcar todas as condições de aplicação da lei. A oração de se introduz um determinado estado de coisas e a oração de então introduz um mundo possível de ordem deôntica, um mundo «do que é devido» ou «do que se deve fazer» na prática de aplicação da lei. Este complexo ‹oração condicional + oração injuntiva› surge por vezes, nos textos do corpus, introduzido por verbo jussivo ou de teor jussivo, actualizado com um sujeito que remete para uma autoridade, de índole diversa, ou por um elemento de natureza modal. Tipicamente, este verbo jussivo e este elemento modal regem uma completiva. As dimensões fundamentais do discurso legislativo expositivo congregam-se no seguinte esquema em três membros: ‹verbo jussivo/elemento modal – oração condicional – oração injuntiva›. Observa-se uma actualização variável deste esquema nos quatro textos: – no Foro Real surge com regularidade a estrutura referida: verbo ilocutório jussivo ou de teor jussivo, construído com o sujeito «nós rei D. Afonso», a que se liga o complexo integrado por oração condicional e oração injuntiva, com forma de imperativo ou conjuntivo. Nas citações, adoptarei o seguinte esquema: (i) o primeiro elemento especifica a obra, através das seguintes abreviaturas: FoR para o Foro Real, FlD para as Flores de Dereyto , PrP para Primeyra Partida e TemPr para os Tempos dos Preitos, (ii); o número romano, que segue a abreviatura, especifica o Livro, nos casos do Foro Real e das Flores de Dereyto, o Título, no caso da Primeyra Partida; e o Tempo, no caso dos Tempos dos Preitos, (iii); o(s) número(s) árabe(s) indica(m) a(s) linha(s) e as letras minúsculas indicam os parágrafos nos Tempos dos Preitos.
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– na Primeyra Partida é escassa a ocorrência de verbos ilocutórios jussivos ou de índole jussiva que tenham como sujeito a autoridade régia. Neste texto, o Locutor transfere a autoridade exigida por tais verbos para outras instâncias, de diversa natureza, institucional ou mesmo sobrenatural; a que apresenta mais frequente ocorrência é, sem dúvida, a «Santa Igreja». – nas Flores de Dereyto este esquema construcional ocorre também. Dado, porém, o estatuto do eu-enunciador Jacob de Junta face ao seu Alocutário, o Príncipe D. Afonso, não encontramos verbos ilocutórios jussivos a introduzir os enunciados, mas antes um elemento modal –verificando-se ainda que as injunções se concretizam em actos directivos não impositivos, como o conselho ou a recomendação, em que se projectam correntemente os modais poder e dever. – nos Tempos dos Preitos o eu-enunciador apresenta-se como uma instância jurídica legislativa, um jurista, um especialista do direito, com uma posição discursiva superior prédefinida; os enunciados são introduzidos pelos verbos modais dever e poder, e as injunções concretizam-se em actos directivos como a recomendação/conselho. Mas ao contrário do que se verifica nas Flores de Dereyto, o Locutor nunca assume a sua identidade (no entanto, quer Jean Roudil, que estudou toda a tradição da obra de Jacob de Junta (Roudil 1986; 2000), quer Azevedo Ferreira, editor da versão portuguesa (Azevedo 2001), atribuem a obra a esse autor, Jacob de Junta). Ilustro de seguida a análise proposta com alguns exemplos retirados do Foro Real e da Primeyra Partida:5 (4)
[...] ben mandamos que se cartas algũas teuer que façã pera seu preyto, que as possa aduzer e prouar per ellas [...] (FoR, II, 552).
(5) Firmemente deffendemos que nenhuus nõ seyã ousados de casar contra mandamẽto da Sancta Eygreya (FoR, III, 65-66). (6)
E por ende manda a Santa Igreia que os prelados seiã sleudos cõ muy grã femença como aquelles que am de teer lugar dos apostolos en terra (PrP, VIII, 471-473).
(7) E dizemos que se os gaados paçerẽ todo o ano eno termho hu morã seus donos que deuẽ dar todo o dizemo en aquelas eygreias onde elles som freegueses (PrP, XXIII, 231-233).
Ao contrário do que se observa nestes dois textos, nas Flores de Dereyto e nos Tempos dos Preitos surgem introdutores modais de actos directivos que invocam a conveniência das disposições, sem endossar a responsabilidade a nenhuma autoridade individualizada; parecem invocar um princípio de razoabilidade estabilizado no falante comum, como se pode ver no seguinte exemplo: (8)
Razon est e dereyto que fillos nen netos non possã chamar a juyzo seus padres nen suas madres nem avoos nem bissavoos (FlD, 226-228).
(9) ca cousa certa é que se non é seu juyz non e teodo de vijr razoar, poys que non é su juyz aquel que o aplazava (TemPr, I, d). Estão assinalados a negrito o verbo jussivo / modal e a oração injuntiva.
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Convém ter presente, a este propósito, que nas Flores de Direyto e nos Tempos dos Preitos as injunções se concretizam como actos directivos não impositivos, como a recomendação e o conselho, em que com elevada frequência operam os modais «poder» e «dever». O Locutor expõe o que se deve, o que se pode ou não se deve, não se pode fazer nas diversas circunstâncias de ocorrência possível. Voltando ao esquema sintáctico-semântico geral reconhecível como regularmente presente na realização dos enunciados do discurso legislativo medieval, observa-se com certa frequência a ausência do segmento correspondente ao verbo jussivo ou ao elemento modal; tal ausência conduz mesmo a que a estrutura mais frequente seja a que se concretiza no complexo ‹oração condicional + oração injuntiva›. Verifica-se por vezes que este esquema sintáctico-semântico aparece reduzido ao segmento injuntivo. Sirvam de exemplo: (10) Nenhua molher nõ razõe preyto alleo nẽ possa ser pessoeyro doutrẽ, mays seu preyto publico razoe se quiser (FoR, I, 599-600). (11) Todo ome que aplazado é dant’el Rey subre pleyto alguu non deue seer aplaçado de outro juiz meor de mentre que é na corte por razõ de este enplazamẽto (FlD, 217-219). (12) E nẽhũu delles nõ deue a auer proprio nẽ deuẽ a sair de ssas claustras (PrP, X, 731). (13) os testigoos deven a jurar ante que diga nada e doutra guisa nõ valla o que dixeren (TemPr, II, c). (14) E os testigoos devẽ a dizer verdade assy polla hũa parte come pola outra (TemPr, VI, i). (15) O juiz deve dar a sentença en publico e en logar conveniavel e nõ en logar torpe. E deve dar a sentença seendo e nõ stando nẽ andando (TemPr, IX, e).
Observe-se que os verbos modais que ocorrem na oração principal exprimem o obrigatório (obrigação deôntica) –como «dever», «nõ deuer», «ser teudo de»– ou o interdito (interdição deôntica)– como «nõ poder», «nõ ser ousado de»; ocorrem ainda modais com valor variável ou difícil de determinar, como «poder», que, no entanto, ocupa tendencialmente a área do permitido. Para completar esta reflexão sobre o discurso legislativo expositivo, impõe-se caracterizar a referência ao Alocutário –ou, mais exactamente, ao destinatário das directivas. O destinatário tem, em princípio, um estatuto inferior ao do Locutor, que sobre ele pretende exercer alguma forma de influência, que se traduzirá no controle do seu comportamento. Anote-se que Flores de Dereyto envolve um quadro enunciativo em que tal situação em parte se não verifica. (Barros 2010: 179-181). As prescrições realizadas nos actos em referência são dirigidas aos intervenientes no processo de aplicação da justiça, ou seja, aos agentes de uma instância judicial –como os juízes e os alcaides, efectivos aplicadores da lei–, mas também aos escrivães ou aos representantes das partes envolvidas nesse processo –como os advogados (vozeiros) e os procuradores (pessoeiros) – e mesmo às próprias partes envolvidas num processo; para todos estes intervenientes são determinados os comportamentos devidos. As leis têm sobretudo
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como destinatários específicos os indivíduos com funções administrativas judiciais quando os textos se ocupam do direito processual: é tipicamente o caso de Tempos dos Preitos, Flores de Dereyto nos livros IIº e IIIº e alguns títulos do Iº Livro, e no IIº Livro do Foro Real, em que a preocupação dominante é a organização judiciária e a aplicação da justiça. Os destinatários das directivas que surgem como sujeito dos verbos modais deônticos e das formas de imperativo que realizam a prescrição, podem ser referidos como grupo ou individualmente, havendo normas gerais que pretendem assegurar o comportamento adequado desses intervenientes e também a consideração de circunstâncias específicas. Vejamos os seguintes excertos: (16) ca o juiz nõ deue iuygar segundo sa conciencia, pero que o pleyto sabya, mays segundo que as razoes forẽ teudas ant’el (FlD, 846-847). (17) A segunda cousa é que o juyz cite en tempo convenyavel (TemPr, I, c). (18) E se a parte o maẽfestar que foy demandada, deve o juyz a poer o prazo pera pagar (TemPr, II, e). (19) E se o demandado quiser que lhy den libello, devem lho a dar (TemPr, II, f). (20) A terceyra cousa é que o aplazado deve vijr pero que nõ seya da jurisdiçõ do juyz que o faz aplazar (TemPr, I, d). (21) Se preyto de iustiça ou de coomya for começado ante o alcayde [...] as partes nõ possã fazer nenhũa auença [...] E se o querelloso fezer algũa cousa contra isto, peyte a el rey sa coomha dubrada (FoR, II, 415 [...] 421).
Verifica-se também a ocorrência de casos em que há auto-inclusão do Locutor no destinatário dos actos injuntivos. A presença do pronome «nós», primeira pesssoa, indicia, nesses casos, que o Locutor pertence a um determinado grupo, o dos cristãos, o dos homens de bem, o dos juristas, dos responsáveis pela aplicação da lei, que têm a obrigação de observar um determinado comportamento. As construções em que tal se exprime apresentam o predicado «dever», traduzindo obrigação deôntica, neste caso claramente coincidente com uma obrigação ético-moral; identificam essas construções seis ocorrências da forma verbal modal «deuemos»» no Foro Real, doze no texto da Primeyra Partida e cinco nos Tempos dos Preitos, em que ocorre também duas vezes o genérico «deve homem». No texto das Flores de Dereyto não figura nenhuma ocorrência da forma verbal «devemos», traduzindo a auto-inclusão do Locutor, porque não seria conveniente nem aceitável que o Locutor Jacob de Junta e o Príncipe D. Afonso surgissem como elementos de um mesmo conjunto de indivíduos. No texto dos Tempos dos Preitos estão ausentes as formas introdutórias das formulações injuntivas que traduzem a disposição psicológica do Locutor. Esta configuração contém já algumas indicações sobre o estatuto de, e a relação entre, o Locutor e o Alocutário / destinatário das injunções. Essas posições discursivas são marcadas por uma reconhecível assimetria, verificando-se ainda nos textos do Foro Real e da Primeyra Partida uma diversificada estratégia tendente a fundamentar/consolidar a posição superior do eu-
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enunciador rei. No texto das Flores de Dereyto, o eu-enunciador Jacob de Junta retira o seu estatuto da sua reafirmada sabedoria. Em Tempos dos Preitos o Locutor assumese obviamente como um jurista, de reconhecida sabedoria em matéria de leis, mas não há actos de composição do discurso em que apareça assinalada a assimetria de posição discursiva entre ele e o alocutário. A posição superior do Locutor é definida pelos próprios actos de conselho / sugestão e por surgir como sujeito emissor de determinações deônticas expressas em verbos modais. O conhecimento da lei é reiterado pela conformidade ao direito comum em vigor que surge em numerosas referências; «diz o dereyto que e peremptorio» (TemPr, II, b); «segundo o que manda a ley» (TemPr, VI, e); «segundo que diz o dereyto» (TemPr,VI, i), «en outros casos que mãda a lee» (TemPr, II, f). O destinatário das prescrições contidas nos Tempos dos Preitos é, em princípio, como nos outros textos do corpus, o futuro aplicador da lei, uma vez que se expõem normas que regem a aplicação da justiça; mas a referência a essa entidade desenha-se de forma variada ao longo do texto, apresentando particularidades. Interessa sublinhar que nos Tempos dos Preitos se trata de direito processual, dirigido a um alocutário que é o aplicador da lei, frequentemente explicitado –o juiz (26x), embora também ocorram actos injuntivos dirigidos a outros intervenientes no processo, como as partes envolvidas (31 ocorrências), por vezes também explicitamente nomeadas, como o demandador (7) e o demandado (6), e mesmo as testemunhas ‹os testigoos› (13). Há mesmo casos extremos: No Tempo nono, num texto de 11 linhas encontram-se 11 formas de verbo modal dirigidas ao destinatário –o juiz–, que é mencionado logo no primeiro enunciado «O juyz nõ dé a sentença aginha». Vejam-se as restantes formas: «deve a dar en scripto...», «deve seer dada presentes as partes...», «deve juyz dar a sentença...», «deve a condepnar nas despessas...», «deve dar a sentença en publico...», «e deve dar a sentença seendo...», «E a sentença deve seer certa...», «o juyz deve a condẽpnar a parte vençuda...», «e (deve) fazer aa parte que lhas dé...», «e deve jurar sobr’ ellas», «nõ pode o juyz tolher...». A consulta dos dados estatísticos e dos índices de frequência que figuram no estudo linguístico que Azevedo Ferreira fez de Tempos dos Preitos (Azevedo Ferreira, 2001: 350352) apoia dois aspectos que referi na minha análise. Por um lado, a elevada frequência dos verbos modais comprova o teor prescritivo deste texto: dever, com 48 ocorrências, e poder, com 25, representam quase 20% (ou seja um quinto) do total das formas verbais do texto. Os tempos mais frequentes são o presente do indicativo com 158 ocorrências das quais quase metade é constituída por formas dos verbos modais e o infinitivo presente nas completivas introduzidas pelos modais. Por outro lado, é de destacar que os substantivos mais frequentes são os designativos do Alocutário / futuro aplicador da lei e das partes envolvidas no processo. As duas formas nominais mais frequentes do texto são ‹parte› (31 ocorrências) e ‹juyz› (26), seguidas, por ordem decrescente, de ‹testigoos› (13); ‹demandador› (7) e ‹demandado› (6). O texto dos Tempos dos Preitos apresenta construções com diversos conectores como ca (7 ocorrências); mays (4) e pero (8), que revelam que nos textos do corpus em estudo o discurso legislativo expositivo é frequentemente acompanhado por um outro, que lhe serve de enquadramento argumentativo –constituindo o que já referi como discurso legislativo justificativo. No que respeita às construções com a conjunção ca, surge uma forma de argumentação / justificação em que se apresenta uma razão ‹nova› que se pretende fazer aceitar. Em termos
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genéricos, nestas orações institui-se explicitamente a conveniência ético-moral de uma determinada directiva. A formulação linguística é variada, mas denota um denominador comum: afirma-se que se trata de uma directiva adequada do ponto de vista ético, aspecto a que se alia igualmente, por vezes, um inegável alcance prático. Pode considerar-se exemplificativo desse funcionamento, o seguinte passo dos Tempos dos Preitos: (22) ca se o juyz aplazar ou poser tempo en gran festa non é teodo o aplazado de vijr (TemPr, I, c).
Estas orações podem instituir explicitamente uma razão de alegada conveniência. Veja-se o seguinte exemplo de Tempos dos Preitos que é de uma explicitude quase tautológica: (23) ca certa cousa é que se non é seu juyz non é teodo de vijr razoar, poys que non é seu juyz aquel que o aplazava (TemPr, I, d).
Há diversos segmentos justificativos, como se pode ver nos seguintes exemplos: (24) ca se tolher o rescripto nõ ficará nenhua cousa da jurisdiçõ (TemPr, III, b). (25) ca eu nõ posso demandar contra a voz de Pedro se eu quisesse seer seu herdeyro (TemPr, VII, e).
Não posso deixar de referir também a presença neste texto de construções contrastivas, que também desempenham um papel relevante no discurso justificativo. Anoto que a justificação introduzida pelos morfemas contrastivos surge, tipicamente, como antecipação ou prevenção de contradiscursos. Os contrastivos que ocorrem no texto analisado são as conjunções «mais» e «pero» (também combinado com «que» na forma «pero que»). Repare-se nos seguintes exemplos: (26) Pero ante que o juyz receba a prova deve a catar se valeyra se fosse. E pero que de lla primeyra valha pode avijr que nõ deve a valer (TemPr, VII, e). (27) E pero se á o juyz sospeyto, primeyramente o deve a dizer (TemPr, III, c).
Sublinho ainda que a preocupação em facilitar a compreensão se apresenta claramente como um princípio que preside à elaboração deste texto legislativo, que utiliza diversas estratégias tendentes a favorecer a eficaz transmissão dos conteúdos; é, na verdade, muito evidente a preocupação de «fazer entender» que atravessa este texto. E que se concretiza, por um lado, em segmentação, divisão e subdivisão de temáticas, e, por outro, em reformulações e repetição parafrástica e em sequências explicativas que situam este discurso entre o jurídico e o pedagógico, didáctico. Para além de veicular a legislação, o texto dos Tempos dos Preitos propõe-se definir e explicar os conceitos e termos utilizados, de maneira a facultar ao Alocutário condições favoráveis à apreensão conceptual e à aquisição de uma terminologia específica. De um modo geral, as definições seguem o esquema «x quer dizer y» –em que se supõe que o elemento «y» faz parte do universo de saberes do Alocutário e é, portanto, de significado mais acessível. A definição surge em estrutura equativa metalinguística, marcada com a forma «quer dizer», que opera uma reformulação parafrástica simplificativa,
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tornando, em princípio, mais acessível o significado de um termo. Podemos observar algumas construções exemplificativas desse modelo: (28) como se dixer que aquel que o tija en poder abscondera o testamento, que quer dizer a manda (TemPr, I, b). (29) A primeyra cousa é que o juyz cite qual quer parte, quer dizer que emplaze… (TemPr, I, b). (30) A segunda cousa é que o juyz cite en tempo convenyavel, que quer dizer que empraze (TemPr, I, c).
Em alguns casos não se opera mera reformulação parafrásica simplificativa, mas estabelece-se uma interpretação do sentido de um segmento textual tendo a forma verbal valor deôntico –«deve entender-se»: (31) Eno que diz a ley que o juiz non há y mais que fazer poys cognosce a demanda, entende-se que o juiz nõ deve mays ouvir o preyto (TemPr, IV, c).
O texto de Tempos dos Preitos tem, pois, dimensões de índole explicativa, de índole informativa e mesmo de índole didáctica. A preocupação de explicitude observa-se sobretudo na explicação de termos, na tradução por sinónimos de conhecimento comum e na exemplificação, surgindo o morfema como (11ocorrências) a introduzir os exemplos que contemplam cenários possíveis de aplicabilidade da norma de comportamento descrita. Este texto move-se, portanto, entre informação / ensinamento e legislação: assegura, por um lado, a transferência de conhecimentos (de conceitos e de terminologia) e, por outro lado, veicula a legislação propriamente dita que prescreve comportamentos e a praxis do futuro aplicador da lei. A organização macro-estrutural de Tempos dos Preitos apresenta uma divisão e subdivisão em partes, segundo um modelo. Com efeito, há segmentos textuais em que se observam marcas configuracionais de segmentação e organizadores metadiscursivos que delimitam os conjuntos que o Locutor apresenta como constitutivos do texto, como, por exemplo, fórmulas de ‹abertura› e um índice temático. Encontramos fórmulas de ‹abertura› das unidades (definidas como tempos –unidades cronológicas de praxis jurídica). Observam-se também actos discursivos de definição e de segmentação dos temas, e dos subtemas num conjunto de procedimentos de índole metadiscursiva destinados a facilitar a interpretação. A explicitação da organização textual visa também favorecer a apreensão do texto pelo Alocutário, o que confirma que estes textos legislativos têm uma acentuada preocupação didáctica. No início de Tempo dos Preitos figura um índice completo do seu conteúdo. O texto inicial de cada segmento identificado como uma dimensão cronológica/um Tempo, orientada enquanto parte de uma ordenação, está também sempre claramente assinalado pela presença de uma fórmula que se repete: índice numérico dos assuntos que nele figuram –a tomar, sem dúvida, como instrumento explícito de ordenação / planificação.
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A tabela seguinte dá conta das formas de explicitação da composição sequencial deste texto: Tempo
Numeral
Deíctico
Prologo
Subdivisão / Verbo modal Todos os preytos podem se partir en IX tempos
Iº
O TEMPO PRIMEYRO
Eno tempo da citaçon
IIII cousas deve ome a catar
IIº
O TEMPO SEGUNDO
O tempo segundo é quando as partes devẽ vijr ant’o juyz
e III cousas deve ome catar
IIIº
Ø
Enno terceyro tempo das eyxeyções ou deffensoes
sage deve seer o demandado
IVº
ENO TEMPO QUARTO
Eno tempo quarto quando se começa o pleyto
devemos catar que o pleyto se comece por demanda feyta en juyzo
Vº
O TEMPO QUINTO
Eno tempo quinto
as partes deven a jurar de calupnya…
VIº
ENO TEMPO SEXTO
Eno tempo das provas
devemos catar que presentes seyan as partes
VIIº
DO TEMPO SEPTIMO
En tempo quando as partes razoã sobre las provas
muytas cousas se podẽ dizer
VIIIº
TEMPO OYTAVO
Eno tempo oytavo quando as partes enserrã o preyto
nõ á y al senõ que o juyz pregunte as partes ante que seya o preyto sarrado
IXº
TEMPO NONO
Eno tẽpo da sentença
devemos catar que o juyz nõ dé a sentença aginha, mays deve a dar en scripto
Retomo, em conclusão, algumas das afinidades e das diferenças entre o texto de Tempo dos Preitos, que aqui analisei pela primeira vez, e os de Primeyra Partida, Foro Real e Flores de Direito de que me ocupei em trabalhos anteriores. Procedi a esse confronto como contributo para o estabelecimento de modelos tipológicos e das tradições discursivas. Para além das afinidades de ordem composicional que ficaram evidentes, destaco outras afinidades e diferenças em Tempo dos Preitos no que toca à estruturação discursiva do discurso jurídico legislativo. Este texto é marcado por algum didactismo que o aproxima da Primeyra Partida e das Flores de Direito, recordando particularmente os livros II e III desta última obra, que se ocupam respectivamente das provas e das sentenças, logo de direito processual. Verifica-se em Tempo dos Preitos uma ausência de verbos jussivos –estando presente neste texto uma estrutura menos complexa com verbos modais. A diminuta dimensão dos segmentos do discurso justificativo está de acordo com as dimensões do próprio texto. Observa-se a ocorrência de construções com causais e contrastivas e de explicação de termos e de exemplificação.
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Tal como os três outros textos mencionados, este texto é marcado pela heterogeneidade enunciativa e surgem vozes diferentes no discurso: seja uma opinião geral que é invocada: ‹muytos dizẽ›; ou a afirmação do que é deonticamente prescrito: «diz o dereyto que e peremptorio» (TemPr, II, b); «segundo o que manda a ley» (TemPr, VI, e); «segundo que diz o dereyto» (TemPr,VI, i), «en outros casos que mãda a lee» (TemPr, II, f). Mas nos Tempos dos Preytos, o Locutor não surge explicitamente como instância discursiva e este aspecto diferencia este texto dos restantes. É sem dúvida um jurista, autoinclui-se no conjunto dos aplicadores da lei, quer pelo uso do indefinido, «deve ome (a) catar», quer sobretudo pelo uso da 1ª pessoa do plural «devemos catar que…» (entendendose – nós os juristas…). Este texto tem sem dúvida dimensões de índole explicativa, de índole informativa e mesmo de índole didáctica. Manifesta uma preocupação de explicitude –havendo lugar para explicação de termos, tradução por sinónimos de conhecimento comum e exemplificação. Observa-se uma utilização muito frequente de termos técnicos como libelo, contumácia, o rescripto, a jurisdição, com solenidade, excepções, defensões, jurar de calúnia, citação, prazo. É o discurso de um jurista que se dirige a agentes de prática jurídica. Expõe diversas determinações legislativas tendentes a regular a actuação do aplicador da lei. Está portanto pragmaticamente orientado para o direito processual. Trata-se de um texto jurídico explicativo com uma dimensão didáctico-doutrinal. Um exemplo muito claro de explicitude pode ser observado no Tempo Septimo que se inicia com uma expressão indeterminada: «Muytas cousas se podem dizer» para logo explicitar uma enumeração de exemplos de cenários possíveis que poderiam ocorrer na apresentação das provas, terminando com a exposição de um caso eventual com uso do imperfeito do conjuntivo com valor hipotético: «como se eu fizesse demanda a Pedro...». Esta construção remete claramente para um mundo possível potencial / eventual. A avaliação dos aspectos específicos de Tempos dos Preitos e dos que constituem traços comuns a outros textos jurídicos do mesmo período, não deixa dúvidas de que estamos perante um conjunto que pertence a uma mesma tradição de formas da escrita medieval, de algum modo institucionalizadas, estáveis, conjunto que poderá ter sido eventualmente muito vasto. Tempos dos Preitos mantém também afinidades de âmbito geral com o texto da Primeira Partida apresentando formas análogas de construção enunciativa. Constitui uma realização possível do discurso jurídico medieval em português orientada para o direito processual como o Livro II do Foro Real, que se ocupa da gestão dos processos, e os livros IIº e IIIº de Flores de Direyto que tratam respectivamente das provas e das sentenças. No livro Iº de Flores de Direyto os títulos sobre «os emprazamentos» são análogos aos «Tempos» primeiro, segundo e terceiro: o Título IX e o Título XIV aproximam-se do «Tempo segundo» e o Título I do Livro IIº é também análogo ao «Tempo segundo». O Alocutário designado por juyz dos Tempos dos Preitos corresponde genericamente ao Alocutário Príncipe D. Afonso ou Juiz das Flores de Dereyto. Recordando o início desse texto «que uos plazeria que uos escollesse algũas flores de dereyto per que podessedes auer algũa carreyra ordĩada pera entender e pera deliurar os preytos segundo as leys dos sabedores» somos tentados a pensar que algumas dessas «flores» se encontram nos Tempos dos Preitos. Recorde-se que o editor da versão portuguesa de Tempos dos Preitos atribui o texto a Jacobo de Junta, como o próprio título da
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edição indica: «Edição e estudo linguístico dos Tempos dos Preitos de Jacobo de Junta». E Jean Roudil, editor e estudioso de toda a tradição de textos da Summa de los siete Tiempos de los Pleitos, bem como da tradição das Flores de Derecho sublinha logo no prefácio da edição de 1986 que «…ces oeuvres correspondent tout de même bien à un type de discours opposable à d’autres, spécifique, bref, à un style» (Roudil 1986, 5). A análise comparativa dos textos permite de facto detectar uma intertextualidade particularmente notória no caso das Flores de Direito e dos Tempos dos Preitos, que em certos segmentos chega mesmo a uma identidade. Referirei apenas dois curtos exemplos: (32) se é filho que é en poder do padre, que atal nõ pode demandar a seu padre en juyzo sem lecença do juyz seno sobre sãs cousas que gaanhou per sãs armas ou por avogarya ou por outro officio alguu (TemPr, I, b). (33) fillos nen netos non possa chamar a juyzo seus padres nen suas madres nen auoos […] Outrossy porventura o fillo seendo en poder do padre e gaanasse algo de dunadio del Rey. Ou de oste […] ou fosse maestre dalgũa arte,por razon de seu offizio ou de sa maestria podẽ chamar lhos filhos aos padres a iuyzo pero ante deuẽ demandar pidir mercee ao juiz que lho outurgue (FlD, 228…240). (34) o servo nõ pode demãdar seu senur en juyzo senõ en cousas estremadas, como se dixer que aquelle que o tija en poder abscondera o testamento, que quer dizer a manda, en que o quitava de servidõe eno que foy seu senhor, bem o pode fazer e pode demandar en uyzo aquel que o tẽ en poder (TemPr, I, b). (35) Nenhuus seruos non podem chamar seus senhores ao juízo seno sobre cousas asijnadas/…/ Se o senhur manda en seu testamento forrar alguu de seus seruos. E o herdeyro que tem o testamento nono quer mostrar por razon que o seruo aya liure de seu foramento pode o demandar en iuyzo que mostre aaquel testamento en que o deu o senhur por forro (FlD, 289…303).
Os textos analisados constituem portanto exemplo de um género específico, de uma prática discursiva histórica e socioculturalmente determinada, mas também se afirmam como inovadores em relação a anteriores formulações do género; em certa medida, por serem dos primeiros na Hispânia Medieval, «constroem» o género do discurso jurídico medieval. Entre a funcionalidade pragmática imediata e um certo grau de normatividade ou ritualização histórica dessa funcionalidade, o texto jurídico é marcado por um modelo tipológico estável, institucionalizado. Procurei analisar aspectos da organização e composição discursiva que são comuns aos textos em estudo, apontando para a existência de certos tópicos e também de formas de estruturação da argumentação que na época estavam disponíveis, o que permite um conhecimento do discurso legislativo medieval do ponto de vista do seu funcionamento textual-discursivo, e também oferece alguns dados sobre as características da escrita não literária medieval.
A estruturação discursiva de versões portuguesas da legislação de Afonso X
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Anders Bengtsson (Université de Stockholm)
La polynomie dans le ms. 305 de Queen’s College (Oxford)
1. Introduction Trait stylistique propre au Moyen Âge et à la Renaissance, la polynomie abonde dans les textes de différents genres. Il s’avère aussi que les termes employés par les chercheurs qui s’y sont consacrés diffèrent. Ayant pris le parti de nous servir de deux termes, à savoir «réduplication synonymique» et «polynomie», qui sont particulièrement adaptés à notre étude, nous sommes conscients que nous aurions également pu parler d’information plurielle (voir Venckeleer 1993: 341), ce qui montre que le procédé stylistique a déjà fait couler beaucoup d’encre. Nous nous proposons ici d’étudier un manuscrit tardif, le 305 du Queen’s College, conservé à Oxford, qui renferne de nombreux exemples de polynomie. En effet, c’est un manuscrit remarquable non seulement par sa taille –il se compose de 379 feuillets de parchemin, mesurant 398 sur 285 millimètres, ce qui fait de lui peut-être le plus grand légendier du Moyen Âge– mais aussi par les nombreuses occurrences du phénomène dit de réduplication synonymique. Datant du XVe siècle, le manuscrit ne contient pas moins de 114 légendes; c’est probablement une copie d’un recueil plus ancien perdu (Meyer 1905: 216). Comme Meyer l’a souligné, on a raison de croire que le légendier, dont le manuscrit Queen’s College 305 est l’unique copie, a été constitué au XIVe siècle. En ce qui concerne la langue, elle n’appelle pas de remarques particulières, mais contentons-nous de dire que le manuscrit (ou le légendier) a sans doute été exécuté dans l’Est (Meyer 1905: 220). Ces traits ne seront donc pas l’objectif de cette étude même s’ils pourraient être intéressants pour certains chercheurs. Si nous en venons à présent au contenu, ce légendier méthodique renferme 114 articles dans l’ordre suivant: apôtres et évangélistes, art. 4-20, martyrs, art. 2361, confesseurs, art. 62-80 et saintes, art. 87-114. Mais il est évident que les nombreux exemples de la polynomie sont dus à un phénomène particulier, car le manuscrit a la particularité d’avoir été exécuté par deux mains différentes. Meyer signale à ce sujet que la première écriture s’arrête au milieu d’un mot avec le feuillet 150; au feuillet 151 commence la seconde écriture (1905: 215). Cette seconde écriture paraît plus récente que celle de son prédécesseur, mais cela s’explique peut-être par le fait que le second copiste était tout simplement plus jeune que le premier. C’est dans l’article 73, qui contient la Vie saint Brandan, que commence la seconde écriture; ce sont donc les textes subséquents à celui-là qui nous intéressent pour une seule raison, la polynomie. Cela étonne peut-être, mais les études sur ce manuscrit sont peu nombreuses, même si des chercheurs ont
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parfois souligné l’intérêt qu’il offre (voir par exemple Dembowski 1977: 172 et nous-même: Bengtsson 1996: XXX). S’agissant d’un témoin tardif, ses variantes sont rarement inclues dans les éditions critiques, ce qui est parfaitement compréhensible, car, vu ses amplifications et ses digressions, la qualité de ce témoin n’est pas des meilleures. Mais, ce faisant, on oublie de fournir des éléments susceptibles d’intéresser les chercheurs dans le domaine de la stylistique par exemple. Il convient en effet de montrer la façon dont le copiste travaille, car c’est quelqu’un qui ne cesse d’amplifier ses textes: s’il n’emploie pas tout le temps la polynomie, il explique très souvent des passages dans les textes sources. Son côté glossateur qui est visible tout au long des textes n’est pas négligeable, mais il est vrai qu’il est négligé par les chercheurs. On pourrait taxer certaines de ses variantes de manque d’érudition, à en juger par ce passage: entrepris del palazin (ch. XXIV, l. 978)1 qui est transformé pour ainsi dire par notre copiste en un développement explicatif: entrepris, c’est-à-dire malade d’une maladie qui se nomme palazin, c’est-à-dire paralitique. De même, à la fin du récit, nous relevons ung paralitique, c’est-à-dire impotent de tous ses membres (XXXVII, 1490). Cela montre un peu la manie d’explications du copiste, omniprésente dans son œuvre. D’autres passages qui semblent témoigner d’une certaine maladresse ne manquent pas. Citons pour illustrer, disons, cette insécurité linguistique, d’autres variantes: ne goustoit, c’est-à-dire ne menjoit (XXII, 895) et biere, c’est-à-dire du vas en quoy estoit le corps de sainct Martial et gisoit (XXXVII, 1492). Dans le milieu ecclésiastisque, le substantif biere ne devait poser de problème à personne, mais cette explication est loin d’être la seule à surprendre. Mais parfois, avouons-le, l’explication fournie par le copiste suit le modèle établi, ce qui est illustré par le développement explicatif suivant: sayetes, c’est-à-dire flesches ou dars, où il explique le terme vieilli ou désuet, car on a bien saietes dans le texte de départ (XX, 766). Le verbe cremir dans le texte source est un autre exemple qui illustre ce procédé mis en œuvre par le copiste: ce verbe ne se retrouve en effet jamais dans le manuscrit Queen’s College 305, mais est chaque fois explicité par les deux verbes craindre et doubter.2 Citons à ce propos les imparfaits craignoit et doubtoit pour cremoit (III, 119). D’origine latine, l’amplification est un moyen stylistique qui apparaît dans de nombreux textes en Moyen Âge. Dès le latin tardif, les formules telles que plagas et feritas, firmiter et inviolabiter sont recurrents dans les textes juridiques et légaux (Politzer 1961: 485). Nous avons là des exemples de substantifs et d’adverbes, mais Politzer a également pu relever des verbes, en l’occurrence des infinitifs: havere, tenere et possedire. Comme il va ressortir de notre étude, nous pourrons relever non seulement des binômes, mais aussi des trinômes, chose fréquente en ancien et moyen français, d’où notre préférence pour le terme de polynomie, particulièrement adapté à notre étude, car le recours sans cesse aux binômes, aux trinômes et même aux tétranômes dans le manuscrit Queen’s College 305 frappe tout lecteur (voir p. ex. Dembowski 1977: 172) et nous amène à nous servir du terme polynomie avant tout autre. Les principes qui régissent la polynomie peuvent être divers et nous tenterons ici d’expliquer les mécanismes expliquant son emploi dans le manuscrit en question. Nous l’avons vu, le côté glossateur de notre copiste, ajoutant sans cesse des phrases explicatives Par la suite, nous renverrons au chapitre et à ligne dans l’édition de la Vie de saint Marcel de Molly Lynde-Recchia (2005). 2 Voir le chapitre suivant pour toutes les occurrences de ces verbes. 1
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n’est pas sans intérêt si l’on veut expliquer ce phénomène. Le second copiste ajoute, d’une manière générale, un synonyme s’il le juge nécessaire (et nous verrons plus loin que certains couples sont récurrents). Mais il faudrait également noter que, s’il y a déjà un binôme dans le texte de départ, il en ajoute même un troisième et, s’il y a un trinôme, –ce qui arrive de temps à autre–, il crée un tétranôme. Tout ceci devient par conséquent une manie et finit presque par créer un effet comique dans les textes. Toutefois, il n’est pas certain que l’emploi de la polynomie soit uniforme dans tous les textes à partir du feuillet 151, où le second copiste commence son travail. On pourrait peut-être avancer l’hypothèse que l’emploi va diminuant vers la fin, lorsque le copiste se lasse de sa tâche. Or, d’après nos recherches, le phénomène apparaît tout au long des textes, en tout cas dans ceux que nous avons déjà dépouillés (Bengtsson 2010). Pour cette étude-ci, nous avons choisi une seule vie de saint, à savoir la Vie de saint Marcel (article numéroté 84). 1.1. La synonomie Quels critères choisir pour décider s’il y a synonymie ou non? Tout d’abord, il faut avouer que la polynomie rentre dans un domaine plus vaste, celui de la répétition. D’après Madeleine Frédéric (1985: 129), on peut discerner trois classes de répétition: formelle, morpho-sémantique et sémantique. Elle compte aussi deux sous-groupes dans la dernière classe: la répétition synonymique linguistique et la répétition synonymique situationnelle. Bien entendu, c’est le premier sous-groupe qui nous intéresse dans cette étude; si deux ou plusieurs unités lexicales ont le même sens dénotatif et le même sens connotatif, il est bel et bien question de synonymie. Cela veut dire que la substitution d’une unité à l’autre n’entraînerait aucune altération du message, ce qui semble tout à fait suffisant comme critère dans le meilleur des mondes. Ce critère peut néanmoins être trompeur dans la mesure où il n’existe guère de synonymie totale dans les textes médiévaux. Empruntons à ce propos les exemples du français moderne de Robert Martin: si livre et bouquin sont commutables dans tout environnement, ôter et enlever ne le sont pas (1976: 115). Cela dit, il n’est pas tout à fait certain que livre puisse remplacer bouquin et vice versa dans tout contexte en français moderne et l’application de ce critère ne sera pas plus aisée dans le cas du moyen français… Le dépouillement de nos textes tels qu’ils sont contenus dans le manuscrit 305 de Queen’s College montre de toute évidence que la synonymie totale est rare pour des raisons que l’on comprend: le dessein de notre copiste n’était peut-être pas de trouver une équivalence parfaite entre les termes, mais plutôt d’expliquer le sens du premier terme, quitte à sortir du champ lexical. D’ailleurs, il est très malaisé de comprendre tous les mécanismes qui régissent son suremploi de la polynomie et plusieurs explications peuvent être avancées dans ce domaine. Il s’en servit peut-être afin de se faire entendre dans le brouhaha ou il était tout simplement payé à la ligne, ce qui l’amenait à développer les textes sources. D’où notre question: est-ce qu’il suit les procédés existants de l’époque ou, explication plus hasardeuse, le recours à la polynomie est-il une tentation de faire preuve de son érudition? Si l’explication de certains termes peut effectivement faire partie de ce dernier objectif, force est de constater que les termes qui sont suivis par des termes synonymes se passeraient en effet d’explication pour un lecteur médiéval, comme nous allons le voir. Le fait d’expliquer le verbe baptiziez (XXIII,
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970) en fournissant le binôme baptizié et receut baptesme semble gratuit, s’il ne relève pas d’un manque d’érudition, ce qui pourrait être le cas. Certains binômes semblent relever de l’idiosyncrasie tels que terre mote et tremblant (XI, 393). Que voulons-nous donc dire par synonymie? Nous nous fonderons sur l’idée qu’il y a synonymie si une séquence de deux synonymes appartient à la même catégorie grammaticale et si ces deux sont placés sur le même plan de hiérarchie syntaxique (voir Buridant 1980: 5). À quelques exceptions près, les cas qui se présentent dans nos textes semblent tous relever de la synonymie partielle. Ainsi, on trouve entre autres les couples voye et chemin, pais et terre, etc., des couples qui ne sont pas sans exemple dans d’autres textes médiévaux; au contraire, car il semble s’agir de séquences formulaires stéréotypées dans de nombreux cas (cf. Buridant 1980: 15). Une autre particularité révélatrice des couples synonymes semble être l’irréversibilité, à titre d’exemple voye et chemin, car nous n’attendons pas à rencontrer *chemin et voye, en tout cas dans les textes dépouillés dans ce manuscrit. La fixation est donc un élément caractéristique de la polynomie comme le signale Alexandre Lorian (1973: 66). C’est un principe qui semble être suivi par les auteurs du Moyen Âge, en dépit des différences qui existent entre les époques. Il ne faut pas pour autant en déduire que les synonymes dans les couples étaient en vigueur simultanément, ce que Arnulf Stefenelli a montré (1981). On ne s’étonne pas non plus de rencontrer des exemples de la réduplication synonymique dans les textes du Moyen Âge, car les auteurs et les copistes s’y livrent dès les premiers textes en français. Si ce procédé stylistique apparaît presque partout, il est évident que le nombre de binômes n’est pas uniforme dans tous les textes pendant toutes les périodes. En outre, il est à noter que les auteurs de la Renaissance vont jusqu’à en abuser; dans ce cas-là, on pourrait même parler d’hypertrophie. N’est-il pas lieu de rappeler ici la parodie qu’en fait François Rabelais dans le titre de son roman Les horribles et espouventables faictz et prouesses du trés-renommé Pantagruel (Lorian 1973: 90)? Cela dit, ce n’est pas un pur hasard si notre copiste du XVe siècle s’en sert autant, s’inscrivant dans la tendance qui régnait à l’époque. La récurrence de certains couples et surtout le choix de certains termes frappent sans doute plus d’un, puisqu’il est plutôt rare de rencontrer tant d’exemples de polynomie, en tout cas dans les textes hagiographiques. Il faut à présent en venir à l’étude de la Vie de saint Marcel et au procédé de travail sur la polynomie dans le manuscrit Queen’s College 305. Afin de repérer les couples synonymes, il faut tout d’abord considérer les conjonctions comme un indice révélateur, puisqu’elles indiquent le degré de cohésion des séries de lexèmes de même nature, ce qui nous permet de relever les binômes, les trinômes et les tétranômes. En premier lieu, on y distingue les ensembles de substantifs et ensuite les formules adjectivales, deux catégories qui semblent majoritaires dans les textes que renferme le manuscrit. Les formules adverbiales sont, quant à elles, peu nombreuses, ce que nous avons déjà constaté ailleurs (Bengtsson 2010: 72). En revanche, on compte bon nombre de formules verbales dans tous les textes, ce que nous avons eu l’occasion de signaler auparavant (Bengtsson 1996: XXXI; Bengtsson 2010). La plupart de ces formules verbales se constituent d’infinitifs compléments d’un même auxiliaire modal et de séries de participes passés introduits par le même auxiliaire de temps ou de voix.
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1.2. Inventaire Il est peut-être superflu de présenter le texte choisi pour cette étude, la Vie de saint Marcel. Étant donné que c’est un texte très long –le nombre de mots est de 35.000 mots environ–, on s’attend à voir des polynômes du même genre et de la même nature que dans les autres textes dépouillés (cf. Bengtsson 2010), mais en plus grand nombre. Au total, on y compte 126 occurrences. Il va de soi que certains couples reviennent plus d’une fois, ce qui fait que nous ne les répéterons pas tous, mais comme on le verra, toutes les catégories grammaticales y sont représentées. Si nous commençons par les verbes désignant l’action de revenir, nous relevons 15 occurrences du couple repeirer et retourner (cf. Stefenelli 1981: 266) toujours dans le même ordre. Les couples repeyra et retourna et ne repeira et ne retourna mie se retrouvent par exemple dans le premier chapitre (lignes 31 et 32). D’après le FEW, le premier verbe est attesté jusqu’au XIVe siècle dans ce sens (10, 261a). Un autre couple verbal qui revient à plusieurs reprises est deguerpir et laisser, dont on compte une dizaine d’occurrences. Le chapitre III nous fournit à titre d’exemple l’impératif ne deguerpissons et ne laissons mie (135) et deux occurrences de l’imparfait subjonctif deguerpissent et laissassent (105); il est à noter que la deuxième occurrence se trouve dans une longue variante explicative commençant au vers 108. On notera aussi que seul le premier verbe est pourvu d’un préfixe et non pas le second (cf. à ce sujet Stefenelli 1981: 148). D’autres exemples qui méritent d’être signalés sont les verbes signifiant «guérir»: saner et garir, où l’on semble avoir une synonomie totale. Chose assez rare, le binôme apparaît déjà dans le texte source dans une des six occurrences (XXXVII, 1493), sans être completé par un troisième synonyme. Une autre possibilité pour le copiste de rendre le même sens est de faire une formulation: restabliz et mis en santé (XXVIII, 1119), le premier terme étant déjà dans le texte de départ. Si nous en venons aux substantifs, le doublet ydre et ydole offre un intérêt particulier, étant donné qu’il s’agit ici de deux variantes graphiques (FEW 4, 539b). On en rélève huit occurrences, toujours dans le même ordre; dans le chapitre VII, on a ydre et ydole (311), ydres et ydoles (320) et une occurrence où le binôme d’ydres et d’ymages est devenu un trinôme dans le manuscrit 305: de ydres, ydoles et d’ymaiges (279). En outre, nous relevons six occurrences de enfermeté et maladie (VIII, 329, XXIV, 1000, XXIV, 1005 etc.), la plupart au singulier. Ce couple irréversible apparaît également dans la Vie de sainte Geneviève (Bengtsson 2010: 69). Stefenelli ne mentionne pas ces deux substantifs, mais l’apparition des adjectifs correspondants enferm et malade est indiquée comme simultanée (1981: 273). Le couple siecle et monde, également irréversible, est attesté sept fois (XII, 436, XII, 444, XX, 806 etc.). Ces couples irréversibles sont également attestés dans la Vie de sainte Marie l’Égyptienne, ce qui n’est pas surprenant. Dans le domaine des adjectifs, on remarquera desvé, en usage jusqu’en 1550 selon le FEW (10, 186a), qui, lui est completé par un syntagme prépositionnel, hors du sens (X, 356, X, 362, XXVIII, 1120). Chaque fois que l’on rencontre desvé, on rencontre également un développement explicatif; une fois, notre copiste ajoute même de mémoire (XXVIII, 1103). Curieusement, on ne rencontre ni forsené ni fou dans ces passages (cf. Stefenelli 1981: 141 et 284). Il faut en outre citer l’adjectif permenable qui dans la Vie de saint Marcel est toujours complété par pardurable (XX; 829, XXII, 899, XXXV; 1421). S’il est possible de relever des couples avec le même sens dans
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la catégorie des verbes, faisons mention du couple permanoir et demourer qui apparaît trois fois en tout (XII, 447, XIII, 463, XVII, 616), dans le sens de «rester» (cf. Stefenelli 1981: 125). Comme on peut le constater, le verbe simple manoir n’est jamais attesté, mais il est toujours pourvu du suffixe par- ou per-. Enfin, il y a peu de choses à dire sur les formules adverbiales qui sont attestées dans ce texte, car elles sont peu nombreuses. Citons à titre d’exemple durement et asprement (VII, 285, XIX, 648, XIX, 674), où l’on ne s’étonnera pas de voir que la formule est précédée chaque fois par l’adverbe d’intensité moult; c’est même le cas dans le texte de départ pour la première et dernière occurrence. Il ne s’agit donc pas du sens que l’on rencontre plus tôt, en ancien français, où durement est une variante expressive de mout mais le sens est bel et bien «d’une manière dure». Venons-en à présent aux possibilités offertes par les couples verbaux, vu que c’est une catégorie grammaticale qui mérite d’être explorée. Le couple occire et tuer apparaît sept fois (IV, 151, VI, 219, VII, 293 etc.): le second terme tuer se substitue à occire comme la forme normale en moyen français d’après Stefenelli (1981: 171). Or, on peut remarquer que ce couple est parfois complété par d’autres étymons qui ne signifient pas forcément la même chose. Dans ces cas, il s’agit de précisions naturelles telles que decollé (XV, 541), car le duc Étienne avait justement fait décapiter une fille nommée Valérie, ou que noyé et fait mourir (XIX, 687), où l’histoire parle d’un jeune homme, Hildebert, qui fut noyé dans le Gard. Si nous restons dans le domaine de la mort pour ainsi dire, signalons le couple decapiter et decoller qui revient six fois, dont cinq dans le chapitre XIV (483, 484, 489 etc.). On voit là combien certains mots peuvent rentrer dans plus d’un champ sémantique comme decoller, car on l’avait vu compléter le binôme occire et tuer auparavant. Il ressort de ce qui précède que d’abord, toutes les classes grammaticales sont représentées dans la Vie de saint Marcel de Lymoges, ensuite, certains couples se retrouvent dans les autres textes dépouillés, mais d’autres sont propres à ce texte. Dans notre étude précédente, nous avions pu relever différents étymons qui font partie des polynômes. Il suffit de penser aux verbes signifiant «cacher»; dans la Vie de sainte Marie l’Égyptienne, on avait rencontré la panoplie de verbes représentant quatre étymons différents qui apparaissent d’une part dans un trinôme: escondu, cachie et mussie (29.9), et un binôme: reposte et escondue (29.10). À ce sujet, la Vie de saint Marcel nous offre seulement une occurrence, à savoir repostz et cachiez (XIX, 685). Un couple de synonymes qui est propre à ce texte est craindre et douter qui apparaissent sept fois (III, 119, XX, 767, XX, 776 etc.). Ces deux verbes n’apparaissent jamais dans le texte de départ, car chaque fois, le manuscrit de base utilisé dans l’édition de Lynde-Recchia nous fournit une forme verbale du verbe cremir, qui est donc explicité par les deux autres termes. Dans une de ces occurrences, on arrive peut-être à déceler une légère variation dans l’ordre, car dans un passage, on lit (te) doubte et crainz (XXXIV, 1378). Quoi qu’il en soit, l’engouement du copiste pour certains couples synonymes est tout à fait évident, ce qui n’est guère surprenant si l’on étudie les couples relevés par Stefenelli (1981: 166, note 91). Ainsi, on trouve les adjectifs lyez et joyeulx (XXXIV, 1375) et lyee et joyeuse (XIV, 499), où la différence entre la joie intérieure et extérieure s’est apparemment estompée. Cf. à ce sujet Stefenelli (1981: 168). Une fois, nous relevons lyez, joyeux et haytiez (XXXI, 1334), c’est-à-dire en forme de trinôme avec un nouveau troisième élément qui est unique pour ce texte. Ce qui est exceptionnel avec les substantifs joye et lyesse
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(XXVI, 1070), c’est qu’ils se trouvent à l’ordre inverse. Une fois, le copiste se livre à une explication qui frôle la comique: ne s’en esleassent, c’est-à-dire rejoyssent et n’en eussent nulle joye (XX, 744). Plus loin, on rencontre encore un couple du même champ sémantique: se esleessez ne a resjouyr (XXXVI, 1464). Le premier verbe ne devance guère le second en ce qui concerne la datation, car, l’itératif resjouir apparaît à la fin du XIIe siècle (FEW 4, 77a) et esleecier un peu plus tôt, mais au même siècle (FEW 5, 129b). Ce verbe est rarissime au XVe siècle, ce qui explique sans doute qu’il est explicité par le copiste. Pour les verbes signifiant «briser», nous relevons debrisassent et despessassent (XXII, 872), briserent et rompirent (XXIX, 1152) et même combrises et despieces (XXX, 1195) et combrissa et despiessa (XXX, 1198) qui se trouvent tous les deux dans le même passage; la proximité s’avère donc être un facteur favorisant le même type de binôme. Le verbe combrisier est d’ailleurs un verbe très rare, surtout en moyen français. Pour finir, nous citons un verbe polysémique: d’abord, le sens de «promettre» dans voé et promis (XIII, 463, XXXII, 1287), et ensuite, le sens de «fiancer» dans le tétranôme plevye, fiancee et promise et juré (de avoir en mariage) (XII, 448). Ici, l’expansion a lieu dans le premier élément, car on lit dans le texte source plevie et juree. Sinon, il arrive aussi dans la Vie de saint Marcel qu’un binôme suive le modèle établi, si fréquent dans les textes du Moyen Àge, où le premier terme, d’origine savante est complété par un terme populaire. Attesté une fois dans le manuscrit 305, le couple operacions et œuvres (XXXII, 1311) n’étonne pas par sa nature, mais parce que le terme savant ne figure pas dans le texte de départ, mais est introduit par notre copiste. Appartiennent également à cette catégorie les nombreuses occurrences de decapiter et decoller (voir supra), où le premier terme, d’origine savante, attesté en 1320 d’après le FEW (3, 23a) est également introduit par le copiste. Même si la préposition juste ne figure pas sous sa forme savante juxte que nous avons pu relever dans la Vie de sainte Marie l’Égyptienne (72.8), le copiste se voit obligé de fournir un développement explicatif à cet endroit: jouste, delez et au plus pres (XV, 1564) pour que ne subsiste aucun doute sur le sens de cette préposition. Il faut également signaler que, dans ce même texte, on avait la variante dejouste et pres (4.8). Mais le contraire est également possible, c’est-à-dire que le terme d’origine savante constitue le deuxième élément: citons le binôme quantité et multitude (XXVIII, 1198), où le texte source porte simplement mout de. Le trinôme vivre, vie et substentacion en est un autre exemple (XXI, 864): le dernier terme devait être relativement récent pour le copiste, étant donné qu’il est attesté à la fin du XIIIe siècle (FEW 12, 476a). La même chose vaut certainement pour le couple prépositionnel fors et excepté (XXVI, 1063) avec le second terme qui lui aussi était assez récent (XIVe siècle selon le FEW 3, 272b). La question qui s’impose est par conséquent est de savoir si c’est simplement la latinisation qui est le motif de l’usage de ce substantif d’origine savante ou si le copiste veut faire preuve de son érudition. Il est parfois nécessaire d’expliciter un mot difficile ou tombé en désuétude et c’est un trait recurrent chez notre copiste. Alors, il n’est pas surprenant de rencontrer le couple turbe et compagnie qui revient cinq fois dans la Vie de saint Marcel (XVII, 597, XX, 764 et 797 etc.). Le sens du premier terme («foule») semble avoir été en vigueur jusqu’au XIIIe siècle d’après le FEW (13:2, 420a). Nous rencontrons un cas similaire dans le couple verbal querir et chercher (XIX, 658), où le premier verbe était déjà tombé en désuétude (Stefenelli 1981: 173). Le trinôme jut, dormy et repousa (IX, 351) en est encore un autre exemple, même si
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l’on s’attendait peut-être dans ce cas-là à rencontrer sommeiller (cf. Stefenelli 1981: 276). Comme nous le savons, le verbe gesir était en train de tomber en désuétude à l’époque, bien que certaines formes continuent à exister plus longtemps (Stefenelli 1981: 188). Mais un autre binôme, à savoir gisoit et estoit malade (VIII, 325), illustre également un autre phénomène: cette fois-ci, il s’agit –nous l’avons déjà vu dans la Vie de sainte Geneviève– des cas où estre fait fonction de verbum vicarium, ce qui n’est pas du tout rare dans les textes du ms. Queen’s College 305. De même, nous rencontrons gisoient et estoient, un couple qui s’enchaîne avec un autre couple déjà cité plus haut: les desveez et hors du sens (XXVIII, 1120), c’est-à-dire que, parfois, nous avons même des binômes en cascade. Quelques binômes constituent un groupe à part que nous préférons dénommer des couples aspectuels. Dans un endroit dans la Vie de saint Marcel, nous rencontrons en effet le couple ne vouloit ne ne voult (XXIII, 953), c’est-à-dire deux formes verbales issues du même verbe, la seule différence étant l’aspect. On peut noter que le texte de départ fournit l’imparfait. Ce genre de binôme ne manque pas dans les autres textes. D’autres cas offerts par le copiste sont plus difficiles à expliquer. Comment comprendre la raison de compléter l’adjectif parleur qui n’a guère besoin d’explicitation, avec langagier (XX, 831)? Ce dernier terme est d’ailleurs attesté en 1382 d’après le FEW (5, 361b). Ce sont là des exemples qui confèrent à ce texte un air comique, d’après nous, car le sens du premier terme n’était sans aucun doute obscur pour personne. En outre, on peut facilement citer d’autres exemples qui appartiennent à ce groupe, bien que l’on ne comprenne pas toujours la raison de tous ces ajouts explicatifs. Or, la première occurrence que nous voudrions citer semble tout à fait transparente: sire et seigneur (III, 141). Est-il une manière perspicace de rappeler au lecteur la déclinaison bicasuelle, tombée en désuétude à l’époque de la confection du manuscrit, ou simplement d’expliciter le premier terme? En étudiant le passage en question, on se rend vite à l’évidence: il s’agit en effet d’une explicitation pour éviter des malentendus, car dans le passage, il est question de Jesu Criz. De surcroît, nous relevons plus loin le couple seigneur et mary (XXVI, 1067), où le second terme précise le sens dont il est question dans le passage, puisqu’on lit dans le texte: si vint au lit son signor. L’exemple suivant, baron et mary (XXVII, 1089), nous apprendra de manière définitive que nous avons affaire au mari de la comtesse Benoîte. Cette étude aura montré que de nombreuses occurrences sont récurrentes dans plusieurs textes que renferme le manuscrit Queen’s College 305. Par conséquent, s’il nous arrive de rencontrer une fois le couple angle et coignet dans Bathilde (3.8), le côté glossateur du copiste apparaît pleinement, puisqu’il nous fournit dans Marie le trinôme angle et quanton ou cognet (38.14), où le copiste, pour une fois, a opté pour deux conjonctions dans ce trinôme, et et ou, ce qui pourrait être un indice révélateur. Nous avons du mal à comprendre l’ajout des autres termes, issus des mots latins CANTHUS et CUNEUS, à moins que le copiste ne soit en train de créer son propre glossaire. Ici, la Vie de saint Marcel va dans le même sens –avec, notons-le, l’ordre irréversible–, nous offrant une phrase explicative: angles, c’est-à-dire aux IIII cantons et coignetz (XXXI, 1218). C’est peut-être le troisième terme qui est le plus intéressant, étant donné que c’est aussi le plus récent, datant du XIVe siècle (FEW 2:2, 1534b). Comme le texte de départ porte seulement, angles, on peut bien supposer que la confection d’un glossaire est en cours.
La polynomie dans le ms. 305 de Queen’s College (Oxford)
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1.3. Remarques finales Au terme de cette analyse, il est temps de conclure. Dans cette étude a été analysée une vie de saint que renferme le manuscrit Queen’s College 305, conservé à Oxford, du point de vue de l’occurrence de la polynomie. Par le recours à la polynomie, le second copiste, qui succède au premier copiste au feuillet 151, au beau milieu de la Vie de saint Brendan, confère aux textes une dimension supplémentaire. De manière générale, on peut dire qu’il souffre d’une véritable manie, car, en truffant ses textes de binômes, de trinômes et même de tétranômes, le copiste du 305 crée, peut-être à son insu, un glossaire. Dans le texte étudié, la Vie de saint Marcel, non seulement la fréquence, mais aussi la nature de ces couples synonymes frappent le lecteur, quoique ces paramètres soient assez uniformes dans l’ensemble. Quant à la nature de ces couples, nous avons pu relever des binômes qui ne nécessiteraient aucune explication, mais aussi des cas où un terme d’origine savante complète le premier. Contrairement à ce qu’on pourrait penser, le copiste ne suit donc pas uniquement le modèle établi que l’on connaît: expliciter un terme jugé difficile ou démodé. Toute sorte de terme est donc explicitée dans le manuscrit 305 de Queen’s College sans que nous en sachions la raison exacte. Pour comprendre la raison de cette polynomie, plusieurs hypothèses pourraient être avancées. Payé à la ligne, le copiste avait tout intérêt à augmenter le corps du texte, ce qui pourrait être le cas dans le manuscrit 305. Mais il se peut également que les termes superflus soient nécessaires pour se faire entendre dans le brouhaha. Une troisième possibilité était peut-être une manière de faire montre de son érudition en créant un glossaire adapté à l’époque. Quoi qu’il en soit, les occurrences que nous avons pu examiner ne paraissent pas relever de la contingence, mais d’un choix chez le copiste.
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Anders Bengtsson
Meyer, Paul (1905): Notice du ms. 305 de Queen’s College. In: R 34, 215-236. Politzer, Robert L. (1961): Synonymic Repetition in Late Latin and Romance. In: Language 37, 484-487. Stefenelli, Arnulf (1981): Geschichte des französischen Kernwortschatzes. Berlin : Erich Schmidt.
Venckeleer, Theo (1993): L’information plurielle comme levier interprétatif en moyen français. In: Actes du VIIe Colloque sur le Moyen Français. Le Moyen Français 33, 339-348.
Micaela Carrera de la Red (Universidad de Valladolid, España)
Parámetros de variación morfosintáctica en textos clasificados como «Autos» en la Nueva Granada del siglo XVIII1
1. Los «documentos oficiales» como registro Cuando se trata del análisis de la variación de registros, los textos hispánicos relacionados con la administración americana se podrían situar en la llamada prosa diplomática, considerada junto con prosa académica, ficción, etc. como un registro no marcado (o «muy extenso»), un macro-registro que posee un amplio rango de variación lingüística dentro de unas características comunes compartidas (Conrad / Biber 2001: 3). Los registros no marcados carecen de fronteras claras y entre ellos se producen cruces, de los cuales surgen nuevos registros. En la lengua española actual, junto con la prosa académica de las ciencias naturales (o registro científico) se habla del registro documentos oficiales con un puesto muy cercano al foco informacional (Parodi 2005: 44-75)2, dentro del cual se identifican registros tales como el legal o el epistolar, este último a su vez multifuncional. El objetivo específico de esta contribución es describir en expedientes documentales que reciben la denominación global de Auto el subtipo textual denominado «auto», la parte del que toma el nombre y que, dentro del macro-registro documentos oficiales, pertenece al registro legal. Los textos del subtipo «auto» elegidos para análisis lingüístico multidimensional pertenecen a cuatro expedientes de otros tantos legajos (números 316, 362, 514 y 754) de la primera mitad del siglo XVIII (con fechas entre 1708 y 1759) fechados en distintas poblaciones de la actual Colombia (Valle de Upar, Antioquia y Santa Fé de Bogotá). Llegaron en 1788-1789 al Archivo General de Indias (Sevilla) no a través de Simancas, sino de la Secretaría del Perú (en el Consejo de Indias desde 1604).
Este trabajo forma parte de un Proyecto de Investigación I+D+i del MICINN (FFI 2008-02015) para el estudio multidimensional de los registros en la historia del español en Colombia. 2 Precisamente, en la escala de registros desde los más contextuales o interactivos a los más informativos (o informacionales) en la lengua inglesa del siglo XVIII, uno de los extremos lo ocupa el registro llamado «documentos oficiales» (official documents) (Atkinson 2001: 56). 1
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2. Contexto situacional: política, administración y justicia En la diplomática y en la tipología documental, los siglos XVIII y XIX españoles corresponden a la que los estudiosos denominan precisamente así, «etapa española», originada por la instauración de la Casa de Borbón en el trono, hecho que, desde la acción de gobierno, supone una profunda transformación en la estructuración institucional, centrada de forma particular, tal como recoge el Decreto de 29 de junio de 1707, en un propósito de unificación legislativa (Tamayo 1996: 179-180). Las fichas descriptivas de los fondos del Archivo General de Indias de Sevilla ponen al día sobre las reformas administrativas de los Borbones, en el siglo XVIII, en lo que se refiere a la parte americana de la corona española.3 La estructura administrativa borbónica provoca un nuevo esquema de relaciones entre el rey y los secretarios o ministros y entre éstos y las autoridades indianas. En esta perspectiva de reestructuración y cambio hay que situar las instituciones del espacio geopolítico conformado por el Nuevo Reino de Granada junto con las Provincias de Cartagena, Santa Marta, demarcaciones todas ellas integradas en el año de 1739 en el naciente Virreinato de Nueva Granada, además de la Provincia de Popayán, vinculada hasta aquellos momentos a la Audiencia de Quito. Mientras que la mayoría de los «Autos» y «Pleitos» conservados en el A.G.I. de Sevilla, emprendidos en América durante el siglo XVIII, se encuentran en la Sección Escribanía de Cámara, también hasta principios del siglo XVII en la Sección de Justicia, un buen número de expedientes con una portada de Autos se incardina en legajos no del entorno de Justicia sino de la sección destinada a documentos oficiales de «Gobierno», en el caso concreto de Nueva Granada, en la entidad de gobernación nombrada como «Audiencia y Virreinato». Los niveles de dependencia archivística de los expedientes de los Autos seleccionados en el Archivo General de Indias (Sevilla) son los siguientes: A) Secretaría del Perú > Consejo > 5) Cartas y expedientes > 5.9) Del juzgado de Bienes de Difuntos de Santa Fe (TEXTO 1: DIFUNTOS 1; TEXTO 2: DIFUNTOS 2). B) Secretaría del Perú > Consejo > 6) Expedientes > 6.4) Expedientes y testimonios de autos sueltos: -Distrito de la Audiencia Secular (TEXTO 3: INDIOS 1; TEXTO 4: INDIOS 2; TEXTO 5: INDIOS 3; TEXTO 6: CRIMEN; TEXTO 7: ADULTERIO). Estos expedientes por causas diversas requerían al Consejo de Indias, en su calidad de «Tribunal Supremo», para dirimir en última instancia.
La dirección electrónica para hacer la consulta, con fecha de junio de 2010, fue la siguiente: http:// www.mcu.es/archivos/MC/AGI/FondosDocumentales/CuadroFondos.html. Las Secretarías de Estado y de Despacho «asumen todas las competencias que hasta entonces tenía el Consejo de Indias en materia de gobierno, gracia y justicia y hacienda, quedando aquel reducido a su tarea asesora y a ser Tribunal Supremo de la justicia indiana» hasta que en 1754 se crea el Despacho Universal de Indias para ocuparse en exclusiva de todos los asuntos relacionados con América. 3
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Parámetros de variación morfosintáctica en textos clasificados como «Autos»
3. Registros en los expedientes de Autos Las Tablas 2, 3, 4 y 5 recogen la composición de los expedientes de los que se extrae la muestra de siete textos pertenecientes al subtipo «auto»: a) Expediente sobre Bienes de Difuntos (1708, Santa Fé de Bogotá); b) Auto sobre la denuncia por parte del capitán D. José López de Carvajal de maltratos a indios (1712-1717, Antioquia); c) Testimonio de autos criminales contra Andrés Jacinto César y Bartolomé Flores, vecinos de Valle de Upar (1734, Valle de Upar); d) Autos sobre el adulterio de Doña Luisa de Llerena (1756-1759, Santa Fé de Bogotá). Los diferentes géneros textuales se distribuyen entre tres registros bien identificados: el legal, el epistolar y el económico. Los textos 1 y 2 («DIFUNTOS») pertenecen a una institución, el Juzgado General de Bienes de Difuntos, que mandaba a la metrópoli la noticia del fallecimiento, por si alguien pudiera reclamar la herencia o parte de ella, al tratarse de muertes producidas sin testamento (ab intestato). En los textos 3, 4 y 5 («INDIOS»), el expediente responde a una petición de cargos: el coronel Don José López de Carvajal solicitaba el cargo de gobernador de la provincia de Antioquia y la denuncia de maltrato a los indios en los descubrimientos del río Murri, en el Chocó, consisten en meros testimonios para favorecer la concesión del cargo. El texto 6 («CRIMEN») trata del asesinato de un teniente del ejército en un contexto de comercio ilícito en el Valle de Upar. El texto 7 («ADULTERIO») pertenece a un expediente del escándalo público por adulterio de Luisa de Llerena, mujer de un militar, que afectó a autoridades del más alto rango (Virreyes, Gobernadores, etc.) y contiene, también, una apelación de los inculpados en primera instancia: Registros Legal
Epistolar Económico
Categorías textuales
Palabras N = 5059
1Auto1 (TEXTO 1: «DIFUNTOS») 1Auto2 (TEXTO 2: «DIFUNTOS») Decreto Carta poder Carta presentación/ informe Carta petición (cargo oficial) Carta petición (particular)
121 229 577 909
Tasación Cuentas Recibo
386 895 111
608 733 490
Tabla 2. Composición del expediente sobre Bienes de Difuntos (1708 Santa Fe de Bogotá) Registros Legal Epistolar → →
Categorías textuales
Palabras N = 12959
2Auto1 (TEXTO 3: «INDIOS1») 2Auto2 (TEXTO 4: «INDIOS2») 2Auto3 (TEXTO 5: «INDIOS3») Real cédula Carta infome Carta petición cargo Carta petición cargo [Memorial]
570 388 991 1167
Apuntamiento (Informe) Listado
2460 2160
Tabla 3. Composición del expediente sobre Petición de Cargo
1081 1042 3100
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Registros
Categorías textuales
Palabras N = 9955
Epistolar
Carta petición Carta respuesta
172 380
Legal
3Auto1 (TEXTO 6: «CRIMEN») 3Auto2 3Auto3 (Cabeza del proceso) 3Auto4 Diligencia Provisión (del juez) Noticia1 Noticia2 Noticia3
602 212 307 688 430 344 36 172 76
[Testimonios] →
Certificación Declaración1 Declaración2 Declaración3 Listado (Memoria)
258 2236 1032 2494 516
Tabla 4. Expediente sobre hechos criminales (asesinato)
El cuarto expediente –Tabla 5– ocupa tres legajos, aunque el legajo consultado es el primero, en el que se contiene buena parte de los Autos y de los Testimonios. Registros Legal
[Testimonios]
Epistolar → → →
Categorías textuales
Palabras N = 25532
Auto (TEXTO 7: «ADULTERIO») Certificación Interrogatorio Escrito de apelación Carta petición Carta poder1 Carta poder2 Carta informe1 Carta informe2 Carta informe3 Carta informe4 Carta reprobación1 Carta reprobación2 Información Informe Memorial
1296 480 6804 4104 1848 294 912 84 3276 1554 7224 3636 1296 1600 5950 9504
Tabla 5. Descripción de una parte del proceso de inculpación por adulterio
Ninguno de ellos es obra de un único autor, sino que se conjuga la autoría del escribano o del juez encargado de la tramitación de los «Testimonios» y de la redacción de las resoluciones generales o parciales (es decir, de los «autos»), con el discurso de otros intervinientes que participan en la acción con textos de otro tipo. Las fronteras entre los tres registros se desdibujan, sobre todo entre el registro epistolar y el legal. Un ejemplo claro de esta falta de fronteras es la «carta poder», también llamada desde la diplomática «carta comisión» (Tamayo 1996: 153-154), que pertenece al registro legal. Además, la tipología de géneros textuales de estos expedientes es muy compleja y se
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completa con manifestaciones textuales –informes, memoriales, inventarios, etc. –que, si bien enlazan con la tradición administrativa castellana llevada a América y se incluyen bajo el genérico Auto, no pertenecen al registro legal sensu esctricto.
4. Análisis multidimensional del subtipo «auto» 4.1. Rasgos lingüísticos Los rasgos lingüísticos (morfológicos, sintácticos y léxicos) tomados en cuenta son noventa y nueve (Carrera de la Red 2011: 133-135). Sus funciones se sopesan mediante la consulta de gramáticas y estudios particulares de la lengua española. Contamos también con los 82 rasgos propuestos para el estudio de la variación de registros en español actual por Biber, Davies / Jones / Tracy-Ventura (2006: 1-37). Se etiquetan los textos de forma semiautomática con ayuda de un editor de textos .xml (Oxygen v.12.0) y el recuento de los rasgos lingüísticos traslada las ocurrencias a una tabla excel, desde la que se hallan los promedios con un método normado de 1000 palabras por texto. La media y la desviación estándar –aquellos rasgos con una desviación superior al 10% figuran en la Tabla 6– ayudan a no caracterizar un registro a base de un criterio significativo basado tan solo en el número de ocurrencias de un único rasgo lingüístico (una variable) en un texto concreto. Por ejemplo, en el análisis de estos textos, el rasgo «se no reflexivo o pasiva» (20otrse), que representa una desviación estándar muy significativa con un 15.10, tiene 10 ocurrencias en INDIOS3 (se sirviese de suspenderla, cuanto se hallavan en el citio de Murri, etc.), y 2 ocurrencias en ADULTERIO (demás particulares de cuya justificación se trata); el adjetivo atributivo pospuesto (27adjatribpos), con un 17.3, en CRIMEN tiene 15 ocurrencias (circunstancias justas, indisio propincuo, balandras extranjeras, etc.) y 1 en DIFUNTOS1 (oficiales reales). +--------------------------------------------------------------+---------------------------+---------------------+ | NÚM .- RASGO EFECTIVOS PESOS | MEDIA DESV. EST. | MIN. MAX. | +----------------------------------------------------------------+---------------------------+--------------------+ B.CLASES NOMINALES | 3 . 5nom - 5noms 7 7.00 | 158.13 63.44 | 113.54 302.04 | | 4 . 6nom - 6nompl 7 7.00 | 54.58 27.84 | 19.93 114.29 | C.CLASES DE PRONOMBRES | 20 . 22cl - 22clitic 7 7.00 | 26.21 21.33 | 9.63 66.12 | E. OTROS ELEMENTOS DE SNs | 31 . 33ar - 33artdef 7 7.00 | 84.20 20.92 | 55.08 118.37 | G.VERBOS: MARCADORES DE TIEMPO Y MODO | 40 . 42in - 42ind 7 7.00 | 68.93 55.73 | 8.26 195.92 | | 42 . 44su - 44subj 7 7.00 | 27.07 34.00 | 3.62 107.44 | | 44 . 46pr - 46pres 7 7.00 | 44.34 29.91 | 21.39 99.17 | | 46 . 48pr - 48pret 7 7.00 | 32.19 28.49 | 8.26 97.96 |
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H.VERBOS:CLASES LÉXICO / SEMÁNTICAS | 58 . 60vf - 60vfacil 7 7.00 | 30.35 22.81 | 5.35 69.39 | K.CLASES DE PALABRAS FUNCIONALES | 71 . 73pr - 73prepos 7 7.00 | 187.28 75.81 | 122.27 363.27 | | 73 . 75co - 75conj 7 7.00 | 51.19 32.88 | 1.81 97.96 | N.CLÁUSULAS POSTNOMINALES (RELATIVAS) | 88 . 90cl - 90clreqind 7 7.00 | 25.97 22.12 | 0.00 69.39 | +-------------------------------------------------------+----------------------+----------------------
Tabla 6. Cálculo de media, desviación estándar, máximos y mínimos
4.2. Análisis estadístico Los rasgos normados se someten a un método de análisis de componentes principales (ACP). La aplicación estadística muestra una gran precisión de los cálculos: el 100% de los datos se obtiene con seis valores propios (Tabla 7), si bien los cinco primeros valores propios garantizan que los resultados se asemejen mucho a la información real (explican el 94.83% del total). Los dos primeros ejes aportarían ya más del cincuenta por ciento de la situación real; con el tercero se obtiene casi el 75%. Esto hace ver que la muestra es suficientemente representativa para el estudio: los datos que se extraigan de este análisis se ajustan de forma muy precisa a la realidad. NÚM. 1 2 3 4 5 6 7
VAL. PROPIOS 35.7435 18.1516 10.5834 9.9643 7.1099 4.4474 0.0000
PORCENTAJE 41.56 21.11 12.31 11.59 8.27 5.17 0.00
PORC. ACUM. 41.56 62.67 74.97 86.56 94.83 100.00 100.00
************************************************************************** ***************************************** ************************** ************************* ******************* ************* *
Tabla 7. Valores propios
Las tablas de correlaciones que se establecen entre los noventa y siete rasgos lingüísticos (exceptuados dos de tipo léxico que se dejan de lado en esta ocasión: type-token y longitud de palabras) arrojan el porcentaje de contribución a los factores o ejes de correlación. Los rasgos lingüísticos que ofrecen una contribución del 90.00% en los factores 1 y 2 son los siguientes: 3NSs = Sintagmas Nominales sin determinantes 4nominal= Nominalizaciones 5noms = Nombres singulares 6nompl= Nombres plurales 8nompr=Nombres propios 16formtrat= Formas de tratamiento
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19seexplet= Pronombre «se» expletivo 20otrse= «Se» no reflexivo, no pasivo, no expletivo (se impersonal) 22clitic= Clíticos 27adjatribpos= Adjetivos atributivos pospuestos 30adjpartic= Funciones adjetivales del participio 35poses= Posesivos 39advneg= Adverbios de negación 41advmente= Adverbios en –mente 46pres= Presente (ind/subj) 48pret= Pretérito 56vestar= Verbo «estar» 57vpublic= Verbos públicos (de comunicación) 58vprivad= Verbos privados (verbos mentales / perceptuales) 60vfacil= Verbos de facilitación / causación 67vinf= Formas de infinitivo 69haber= «Haber» existencial 70gerun= Gerundio 73prepos= Preposiciones 75conj= Conjunciones 77conjmul= Conjunciones múltiples 91clrqsub= Cláusulas de relativo con que en subjuntivo 99coord= Marcadores de coordinación (adversativa, adición, disyunción)
Es relevante fijarse en aquellos rasgos correlados muy negativamente, es decir, aquellos cuya presencia condiciona negativamente la aparición de los otros. Es el caso de los «verbos privados (57vprivad)», cuya presencia condiciona la aparición del «verbo ser (55vser)», o el de las «cláusulas relativas con el que (94clelqu)» que se correlaciona muy negativamente con aquellas «estructuras con marcadores de coordinación (ilación, adversación, etc.) (99coord)». 4.3. El subtipo «auto» y la dimensión 1: Foco de implicación / referencialidad La culminación del análisis multidimensional implica la puesta en conexión de los rasgos lingüísticos con distintas dimensiones contextuales. Los resultados estadísticos del factor 1 se pone en relación con la dimensión 1 o foco contextual o interactivo (Parodi 2010: 120-121). Esta dimensión 1 aplicada el subtipo «auto» en el siglo XVIII neogranadino nos permitirá comprobar hasta qué punto se corresponde con un registro situado en el polo más extremo de lo informacional. Puesto que en el análisis de componentes principales (ACP) todos los rasgos correlados –positivos y negativos– tienen el mismo peso (cf. Tabla 8), en la interpretación multidimensional del análisis hay que aplicar la complementariedad de ambos polos de cada foco: los rasgos marcados como positivos se asocian con uno de los polos de cada foco, mientras que los negativos se relacionan con el otro polo.
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55ser 51fut 94clelqu 24pronindef 31adjsotr 93clrecuy 98enfatiz 10aum 9dim 74preposcompl 92clrecual 97atenuad
0.68 0.53 0.52 0.49 0.48 0.46 0.43 0.39 0.34 0.32 0.30 0.30
27adjatribpos 73prepos 77conjmul 38advmo 81cltem 34dempre 3SNs 87clnqu 59vpersua 5noms 7nomd 48pret 41advmente 65pasinag
-0.98 -0.97 -0.95 -0,95 -0.94 -0.94 -0.94 -0.94 -0.93 -0.93 -0.92 -0.92 -0.92 -0.91
61vaspect 56vestar 6nompl 50perf 99coord 66passe 42ind 30adjpartic 58vprivad 79clcau 18pronse
-0.91 -0.90 -0.90 -0.89 -0.87 -0.87 -0.87 -0.87 -0.86 -0.86 -0.85
Tabla 8. Factor 1
4.3.1. Polo de la implicación / interactividad Si bien todos los textos contribuyen en cada uno de los factores, la mayor contribución en el polo positivo del factor 1corresponde a tres textos: DIFUNTOS2 (5.01), ADULTERIO (4.24) e INDIOS3 (3.05). El polo positivo del foco interaccional o contextual se asocia con rasgos como el verbo ser (55vser, 0.68) –con función de verbo conector y para indicar cualidades permanentes de los participantes–, el tiempo verbal de futuro (51fut, 0.53) –utilizado como guía de la resolución legal (se le mandará canselar su escriptura, DIFUNTOS2, se le dará noticia de este Auto, CRIMEN)–, o las cláusulas adjetivas de relativo –el que (94clelqu, 0.52), cuyo (93clrecuy, 0.46) y el cual (92clrecual, 0.30)– que son rasgos de una estructura textual interactiva a la vez que marca de una sintaxis compleja. Hay un caso de cruce entre una adjetiva relativa con el que y una cláusula complementante: mandava y mandó el que teniendo a la vista las mandas hechas certifique de su cumplimiento, INDIOS1. En este polo implicacional la complejidad sintáctica está representada por las preposiciones complejas (74preposcompl, 0.32) (en atención a lo pedido, debajo de la fiansa, DIFUNTOS2; en cuanto al primero (…), hasta después de las cuatro (…)). La implicación del emisor característica del polo positivo se refuerza con los rasgos estructuradores del discurso, como son los atenuadores (97atenuad, 0.30): por la deuda que parece tiene al Señor Don Luis Beltrán (ADULTERIO); se pueda (o a lo menos) formar un indisio propincuo (CRIMEN); reconosieron muchas todas al parecer de oro de lavores (INDIOS3), y los enfatizadores (98enfatiz, 0.39): como rectísimo fundamento para su conseción Su Merced lo espidió la dicha subdelegazión con la solegnidad dispuesta en tales casos (CRIMEN), deponen contextamente los seis primeros testigos (ADULTERIO). Son representativos de la contextualidad los adjetivos de cantidad, tamaño e indefinidos (31adjsotr, 0.48) (mismo tiempo, tales casos, CRIMEN; medio real, DIFUNTOS2) y los pronombres indefinidos (24pronindef, 0.49) (otro, otros, CRIMEN; a cada uno, DIFUNTOS1, DIFUNTOS2). También afectan a la interacción componentes del sintagma nominal, aumentativos (10aum, 0.39) y diminutivos (9dim, 0.34), que forman parte de la expresividad de la lengua, si bien en estos textos se manifiestan en términos lexicalizados: hijuela (nombre de documento), DIFUNTOS2, playón, ADULTERIO.
Parámetros de variación morfosintáctica en textos clasificados como «Autos»
71
4.3.2. Polo de la referencia / informacional Más numerosos y con puntuaciones más elevadas son los rasgos vinculados al polo informacional o de la objetividad. Los textos con mayor contribución en el polo negativo son INDIOS1 (-13.77) e INDIOS2 (-1.28). Destacan las puntuaciones de aquellos sintagmas nominales sin ningún determinante (3SNs, -0.94) (ØRío de la Magdalena,Ø jurisdisción de la ciudad de Tamalameque de la Capitanía General, CRIMEN, a quien se nombró por Capellán, Don José Sagito de Montoya, Cacique, INDIOS1) de los nombres en singular (5noms, -0.93), en plural (6nompl, -0.90), «considerados portadores de la carga referencia del texto y una alta frecuencia de ellos señala una fuerte densidad informacional» (Parodi 2010: 120), y nombres derivados (7nomd, -0.92) (librería, certificación, DIFUNTOS1), que, por un lado, «permiten integrar información en pocas palabras» y, por otro, son «recurso típico del lenguaje técnico (académico)» (Parodi 2010: 91). También son importantes los adjetivos atributivos (calificativos) pospuestos (27adjatribpos, -0.98), adjetivos «de fuerte contenido descriptivo, sobre todo físico o material» (RAE 2010: 256) (indios fugitivos, plantas frutales, pasto espiritual, indios tributarios, INDIOS2), así como los adjetivos se encuentran los participios en función adjetiva (30adjpartic, -0.86) (cavildo abierto, INDIOS1; carta resivida, indios alistados, INDIOS2), para lo referencial, para «la integración y precisión de grandes cantidades de información en un texto» (Parodi 2010: 120-121). Los adjetivos demostrativos prepuestos (34dempre, -0.94) (esta provincia, esta jornada, INDIOS1, estos Autos, aquellos indios, INDIOS2) actualizan el sustantivo y son, junto con los cuantificadores, una estrecha manera de vincular lo textual y extratextual. La complejidad sintáctica está muy bien representada en este polo informacional por la puntuación de las preposiciones (73prepos, -0.97) y de las conjunciones múltiples (77conjmul, -0.95), así como por las cláusulas complementantes nominales con «que» (87clnqu, -0.94) (hiso su merced acuerdo de que diferentes vezinos de esta ciudad havían hecho, INDIOS1), las cláusulas temporales ( y las cláusulas causales, que ponen en conocimiento los argumentos que sostienen la acción pasada o futura (79clcau, -0.86) (por cuanto ha resevido carta del Lizenciado Gregorio de Salazar[…], INDIOS1). En el mismo sentido se marca también la deixis temporal (81cltem, -0.94) (después de haverse autorisado el testimonio, INDIOS1; cuando su merced se halló en aquel paraje, INDIOS2). En el modo indicativo, que «expresa la modalidad declarativa experiencial» (Parodi 2010: 87-88), predomina la función representativa y su modalidad distintiva la declarativa (42ind, -0.85). Los verbos de persuasión (59vpersua, -0.93) (solizitar, fazilite, CRIMEN; mandó, DIFUNTOS2), los aspectuales (61vaspect, -0.91) (estén obligados a, DIFUNTOS2; iba a comisar, viene a recaer, CRIMEN) y los verbos privados (58vprivad, -0.86) (conste/consta, proveyó, INDIOS1; nesesitan, observe, INDIOS2), todos ellos asociados a las acciones de tipo intelectual, son muy adecuados para los objetivos informacionales. La voz pasiva sin agente (65pasinag, -0.91) y la pasiva refleja con se (66passe, -0.87) son rasgos que se asocian, así mismo, con el polo informacional de la dimensión 1. 4.4. Distribución del subtipo «autos» En la Tabla 9 se refleja qué textos están más cerca del punto central de aportaciones de los datos (columna DISTO): el texto INDIOS1 es el que se aleja más en la varianza (195.49), seguido del texto DIFUNTOS1 (100.56). Son los dos textos que más se alejan del conjunto.
72
Micaela Carrera de la Red TEXTOS
PESO REL.
DISTO
2
3
4
5
3
4
5
DIFUNTOS1
14.29
100.56
0.19
-9.65
0.56
2.15
1.44
0.0
73.3
0.4
6.6
4.2
DIFUNTOS2
14.29
66.39
5.01
-1.01
-2.55
-2.15
-5.34
10.0
0.8
8.8
6.6
57.2
TEXTOS
PESO REL.
DISTO
INDIOS1
14.29
195.49
-13.77
1.47
-1.11
-0.78
-0.44
75.8
1.7
1.7
0.9
0.4
INDIOS2
14.29
28.95
-1.28
0.39
1.02
-0.24
-0.47
0.7
0.1
1.4
0.1
0.4
INDIOS3
14.29
75.99
3.05
4.67
-1.43
6.51
0.29
3.7
17.2
2.8
60.7
0.2
CRIMEN
14.29
67.36
2.56
2.39
7.08
-1.65
0.20
2.6
4.5
67.8
3.9
0.2
ADULTERIO
14.29
67.26
4.24
1.73
-3.57
-3.84
4.32
7.2
2.4
17.2
21.1
37.5
COORDENADAS 1
CONTRIBUCIONES 1
COORDENADAS
2
CONTRIBUCIONES
Tabla 9. Contribución de los textos a los factores
Esos datos se pueden conjugar con las contribuciones de los textos a cada uno de los factores y, de acuerdo con los porcentajes de contribución respecto a los dos primeros factores, se puede hacer ya una distribución de los siete autos en los siguientes subgrupos: a) INDIOS1 (50.84) b) DIFUNTOS1 (24.70) c) INDIOS3 (8.2), DIFUNTOS2 (6.9), ADULTERIO (5.5), CRIMEN (3.2), INDIOS2 (0.47)
5. Conclusión A falta de un futuro análisis de estos textos frente a otras dimensiones contextuales (foco narrativo, de explicitación, persuasivo, etc) que completará la descripción de este tipo textual, en el foco interaccional la suma de lo positivo (interactivo y contextual) y lo negativo (distancia frente a la información) revela el siguiente resultado: las resoluciones legales llamadas autos del siglo XVIII en las distintas demarcasiones de la actual Colombia no están tan cerca del foco informacional como se presuponía por su pertenencia al registro legal. Lo interaccional tiene mucha fuerza y es decisivo en el estilo de lengua de este tipo textual.
Anexo I. Fragmentos de los autos clasificados por su contribución a) Texto 1: Indios1 Auto sobre los indios y dominios del entorno del río Murri AGI, Santa Fe 362, N. 22a / 1712 septiembre 1 (Antioquia, Colombia) / F. J. de Foronda (escribano).
Parámetros de variación morfosintáctica en textos clasificados como «Autos»
73
Número aproximado de palabras: 245 [margen Auto] En la ciudad de Antioquia, en veinte y ocho de Abril, de mil setesientos y doze años, el Señor Capitán de Mar y Guerra, Don José Lopes de Carvajal, Governador y Capitán General de esta Provincia, dijo que por cuanto después de haverse autorisado el testimonio mandado sacar de estos autos hiso sumerced acuerdo de que diferentes vezinos de esta ciudad havían hecho en cavildo abierto mandas para ayuda de la entrada que se efectuó así de bastimentos como de dinero […]. Sin envargo de inferirse del contexto de los autos lo que ha precedido en este caso mandava y mandó el que teniendo a la vista las mandas hechas, certifiqué de su cunplimiento, y que fecho con este auto, se insiste por testimonio al pie del signo del que está sacado para que asi venga Su Magestad en el conocimiento del desembolso que ha havido para los costos y gastos expresados y quien lo ha hecho asi lo proveyó, mandó y firmó. Don José López de Carvajal. Ante mí Francisco José de Foronda.
b) Texto 1: Difuntos1 Autos de Bienes de Difuntos AGI, Santa Fe 316/ 1708 marzo 9 (Santafé de Bogotá, Colombia) / Diego Antonio López (receptor). Número aproximado de palabras: 121. Rasgos destacados: 6nompl, 7nomd, 18pronse [margen Auto] Désele traslado del escripto del defensor al Maestre de Campo Don José de Herrera y notifíquesele, exiva la librería para que se abalue y se citen y emplasen todos los hermanos y hermanas del Doctor Don Gaspar de Herrera, entendiéndose con las religiosas para que digan y aleguen de su derecho y los oficiales reales liquiden lo que se le estuviere deviendo a dicho Doctor de su estipendio hasta el día de su muerte le pague y entere al dicho Maestre de Campo, dando resivo y pasando certificación al presente escrivano para que se ponga con los Autos. Proveyolo el señor Lizenciado Don Bartolomé Grillo Ranxel del Consejo de Su Magestad, su Oidor y Alcalde de Corte, Jues General de Bienes de Difuntos. En Santa Fe, a veinte y tres de abril de mil setecientos y ocho años. López . [En Santa Fe]
c) Texto 5: Indios3 Auto sobre los indios y descubrimientos en el entorno del río Murri AGI, Santa Fe 362, N. 22a / 1712 septiembre 1 (Antioquia, Colombia). Francisco José de Foronda (escribano). Número aproximado de palabras: 708. Rasgos positivos: 55ser, 94clelqu, 24pronindef. Rasgos negativos: 6nompl, 7nomd, 34dempre, 48pret, 66passe, 30adjpartic, 18pronse. [margen Auto] En la ciudad de Antioquia, en dies y ocho de junio de mil setesientos y dose años, el señor Capitán de Mar y Guerra Don José Lópes de Carvajal, Governador y Capitán General de esta provincia, dijo que los indios que salieron con las cartas que se refieren en el auto antecedente fueron Estevan Tovare y Pedro Enauda, Alcaldes nombrados en la agregación que se hiso en el rio de Murri de los indios que se sacaron de diferentes parajes, siendo como es el primero muy ladino en el idioma castellano y ambos de los que bajaron de orden de su merzed por el rio Verde avajo al reconocimiento de sus riveras y tierras que en sus coraterales tiene […] aunque toparon alguna tierra intratable y otras de savanas y en las montañas llanas de muy avajo reconocieron algunos ranchos de indios que digeron eran simarrones con algunos senbrados y asimismo dan razón que desde lo alto de Incoco, así a la parte del norte reconocieron un rio que deciende, según las señas que dieron, de las montañas que corren norte, sur, y las aguas desienden para el este y corre la buelta del norte, a donde se descubren dilatadísimas tierras de montañas […]Y digeron dichos indios de que doy fe. Don José Lópes de Carvajal. Ante mí, Francisco José de Foronda.
74
Micaela Carrera de la Red
d) Texto 2: Difuntos2 Autos de Bienes de Difuntos AGI, Santa Fe 316 / 1708 marzo 9 (Santafé de Bogotá, Colombia) / Francisco de Alcaraz (escribano de cabildo). Número aproximado de palabras: 229. Rasgos positivos: 55ser, 51fut, 24pronindef, 9dim, 74preposcompl, 92clrecual. Rasgos negativos: 6nompl, 48pret, 18pronse. [margen Auto]. Vistos estos Autos, en atención a lo pedido por la parte y repondido por el defensor, se le adjudican al Maestre de Campo Don José de Herrera Sotomayor todos los bienes que se inventariaron por fin y muerte del Doctor Don Gaspar de Herrera y Sotomayor, su hermano, según los abaluos que de ellos se hisieron debajo de la fiansa y obligación que tiene dada de traer y presentar resivo de todos los demás sus hermanos de la porción que a cada uno le ha tocado de hijuela, que es de cien patacones y medio real que hasiéndolo se le mandará canselar su escriptura y désele el testimonio o certificación que pide y sean por exhivido los dies y ocho patacones del quinto, los cuales se distribuían en misas. Luego proveyolo el señor lizenciado Don Bartolomé Grillo Rangel del Consejo de Su Magestad, su Oidor y Alcalde de Corte de la Real Audiencia de este Reino y Jues General de Bienes de Difuntos. En Santa Fe, a dies y seis de Mayo de mil setesientos y ocho años. López. [firmas] En testimonio [signo] de verdad, | Estevan Gallo, | escribano real. En testimonio [signo] de verdad | Francisco Peres del Barco, | escribano público | En testimonio [signo] de Verdad | Francisco de Alcazar, escrivano | de cabildo
d) Texto 7: Adulterio Auto sobre la participación de capitanes del batallón en la causa por adulterio contra Luisa de Llerena AGI, Santa Fe 754 / 1759, septiembre 13 (Cartagena de Indias, Colombia) / Bernardo de Alcantud (escribano del Rey). Número aproximado de palabras: 552. Rasgos positivos: 93clrecuy, 98enfatiz, 24pronindef, 94clelqu. Rasgos negativos: 6nompl, 50perf, 18pronse. [margen Auto] Visto, dixo Su Señoría que en concideración de zertificarse por el número de las contenidas nueve testificaciones que del Señor Lizenciado Don José Gozalbes de Sala, Teniente de Governador de esta ciudad y provincia, en el día nuebe de septiembre del año pasado de mil setecientos cincuenta y seis, se mantubo en su casa y no pasó en persona a la hacienda que nombran el Bosque hasta la tarde, después de las cuatro de ella y de haber comido y bebido café, prontos ya los coches y bolantes para su regreso con los combidados que asistieron al festejo del día a esta dicha ciudad y casa de Su Señoría, donde estaba dispuesto un baile en obsequio del Dulze Nombre de María, cuyo nombre tiene la Señora governadora, sin embargo que desde la mañana asistieron en la estancia las señoras muger e hija del dicho Señor Gozalbes […]después de haber comido y bebido café en ella como que malo uno malo otro asistió justificándose más lo falzo del informe en que supune haberse hecho el combite por Su Señoría para ganarle la voluntad y contraerle su dictámen en fabor de dichos capitanes […] por tanto devía de mandar y mandó se compulze testimonio de estos autos y del despacho del Excelentísimo Señor Virrey comprehensibo del expresado informe y demás actuado en su cumplimiento que todo ello pasa por ante Gaspar Rodriguez Vidal, escribano teniente público […] En veinte y dos de dicho mes saqué testimonio de estas diligencias en veinte tres foxas y lo entregué al Señor governador y comandante General y para que conste lo anoto. Alcantud […]
e) Texto 6: Crimen Auto criminal contra dos vecinos de Valledupar, por matar a balazos a Juan González de Noriega AGI, Santa Fe 514, N.7 / 1734, julio 31 (Río de la Hacha, Colombia) / Pedro José Mozo de la Torre. Número aproximado de palabras: 935. Rasgos positivos: 51fut, 9dim. Rasgos negativos: 56vestar, 7nomd, 6nompl, 34dempre, 61vaspect, 81cltem, 79clcau. [margen Auto] En la ciudad del Río del Hacha en treinta y un días del mes de julio de mil cetecientos treinta y cuatro años. El señor Don Pedro José Mozo de la Torre, capitán por Su Magestad de una de las
Parámetros de variación morfosintáctica en textos clasificados como «Autos»
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compañías veteranas del Presidio de la ciudad de Santa Marta y teniente general en ésta y su Governación, dixo que por cuanto por haver acontesido en el caño de Menchiquejo del Río de la Magdalena jurisdisción de la ciudad de Tamalameque de la Capitanía General de estas provisiones que siertos introductores del ilícito comersio dieron muerte por boca de fuego al teniente de infantería beterana don Juan Gonzales de Noriega, quien con una guardia presidiaria del de la ciudad de Santa Marta con lexítimo despacho y orden les iba a comisar varias canoas, que incluían efectos y comersio del maltrato, […]tal que a lo notorio de la justificazión dijere y declarare para que con este medio cuando no se logre el pleno del juisio para mejor prozeder en aquellas partes o en esta se pueda (o a lo menos) formar un indisio propincuo con que se fasilite el proseso de este conosimiento y en su consecuencia, y conforme a derecho benga el fixo artículo de reconoser delincuentes de tan horrendo crimen y porque a Su Merced acompaña el dicho señor alcalde, con que viene a recaer todo este Govierno en el señor su compañero el capitán Don Juan Cardales de Armas, se le dará noticia de este Auto, por el cual así lo proveyó, mandó y firmó con testigos por no haver escrivano. Don Pedro José Mozo de la Torre. Juan Miguel Vásquez. Eujenio de Espínola y Molina
f) Texto 4: Indios2 Auto sobre los indios y dominios del entorno del río Murri AGI, Santa Fe 362, N. 22a / 1712 septiembre 1 (Antioquia, Colombia) / F. J. de Foronda (escribano). Número aproximado de palabras: 385. Rasgos negativos: 5noms, 27adjatribpos, 34dempre, 41advmente, 61vaspect, 6nompl, 30adjpartic, 18pronse, 48pret. [margen Auto] En la ciudad de Antioquia, en dies y ciete de junio de mil setesientos y doze años, el señor Capitán de Mar y Guerra Don José Lópes de Carvajal, Governador y Capitan General de esta Provincia, dijo que por cuanto ha resevido carta del Lizenciado Gregorio de Salazar y Santillana, a quien se nombró por Capellán de la congregación que hizo de indios fugitivos hecha en el Río de Murri y sus riveras, en que le participa el fruto que va haciendo en aquellos indios y afecto con que van pagando a Su Magestad sus reales tributos […] y porque dichos indios alistados acavan de salir a dicho rio de Murri a donde precisamente para mantenerse nesesitan de fabricar sus casas de vivienda, plantar sus plantas frutales y rosas de maíz para su sustento, en que han menester alguna disgreción de tiempo o ya sea en correspondencia del buen deseo que manifiestan de resevir el pasto espiritual y dominio de Su Magestad y sus ministros. Usando de la benignidad que ordena se observe con los indios naturales, devia declarar y declaró, reservava y reservó de la paga y satisfación de tributos a todos los indios tributarios que constan de la lista remitida desde el día en que se hizo hasta el año cunplido, de calidad que solo estén obligados a pagarlo según la tasa que está hecha por navidad del año de setesientos y treze venidero y desde alli en adelante, y que en el testimonio mandado sacar de las matrículas anteriores se agregue la nuebamente resevida carta zitada y este auto así lo proveyó, mandó y firmó. Don José Lópes de Carvajal. Ante mí, Francisco José de Foronda.
Bibliografía Atkinson, Dwight (2001): Scientific discourse across history: a combined multidimensional / rethorical analysis of the Philosophical Transactions of the Royal Society of London. In: Conrad, Susan / Biber, Douglas (edd): Variation in English: Multidimensional Studies. Edimburgo: Pearson Education Limited, 45-65. Biber, Gouglas / Davies, Mark / Jones, James K. / Tracy-Ventura, Nicole (2006): Spoken and written register variation in Spanish: A multi-dimensional analysis. In: Corpora 1/1, 1-37.
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Micaela Carrera de la Red
Carrera de la Red, Micaela (2009): «Registros e historia del español en América: el ejemplo de Colombia». Lingüística 22, 11-34. –– (2011): Introducción al estudio del registro periodístico en el siglo XIX a través de El Redactor Americano (Santafé de Bogotá, 1806-1809). In: Cuadernos de la ALFAL. Conrad, Susan / Biber, Douglas (edd): Variation in English: Multidimensional Studies. Edimburgo: Pearson Education Limited. Parodi, Giovanni (2005): Lingüística de corpus y análisis multidimensional: exploración de la variación en el Corpus PUCV-2003. In: Revista de la Sociedad Española de Lingüística 35/1, 45-76. –– (2010): Lingüística de Corpus: de la teoría a la empiria. Madrid / Franckfurt: Iberoamericana / Vervuert. Real Academia Española (2010): Nueva Gramática de la Lengua Española. Madrid: Espasa. Tamayo Machuca, Alberto (1996): Archivística, diplomática y sigilografía. Madrid: Cátedra.
Eleonora Ciambelli (Istituto Italiano di Scienze Umane, Napoli)
La stratificazione lessicale submersa in un Codice diplomatico normanno
0. Premessa L’importanza che i codici diplomatici rivestono nell’ambito di studi linguistici condotti su testi sia dell’alto che del basso Medioevo è ormai riconosciuta. Essi si presentano come raccolte di atti notarili, ovvero documenti considerati testimonianza di un uso vivo della lingua. La canonica distinzione tra ‹parte formulistica› e ‹parte libera› costituenti gli atti risale a Sabatini, il quale in uno studio del 1968 segnalava una netta differenza tra la prima «stereotipata e intessuta di forme cristallizzate e contaminate, l’altra fortemente aderente all’uso volgare» (Sabatini 1968, poi ripubblicato in 1996: 227). Gli atti notarili medievali erano redatti da notai che padroneggiavano il latino, consapevoli probabilmente delle trasformazioni che investono la lingua dell’anno Mille. Tuttavia, la diffusione di strutture aderenti alla lingua viva a quest’altezza cronologica è dilagante a tutti i livelli, fino a determinare un uso inevitabile di parole ‹contaminate› che si differenziano dal latino e non possono in alcun modo essere grammaticalizzate, per riprendere un concetto elaborato da Sabatini (ibídem, 227). Le strutture lessicali volgari entrano, quindi, in maniera preponderante nei documenti «prevalentemente in quelle parti di testo per cui lo scrivente non disponeva di modelli preesistenti, correlati al bagaglio delle nozioni e dei riferimenti necessari per l’esercizio della funzione notarile» (Giuliani 2007: 21). Una descrizione della lingua ‹contaminata› di cui si sta parlando prevede lo studio di una situazione complessa e diversificata sotto molteplici punti di vista. Inevitabilmente il quadro storico, caratterizzato da un forte particolarismo politico, si riversa sul piano sociale, culturale e linguistico. All’arrivo dei Normanni, la Campania era governata da un groviglio di domini bizantini –Napoli e Amalfi– e longobardi –Salerno, Capua e Benevento– in lotta tra loro per il predominio sulle regioni circostanti. Una situazione del genere si rivelò ben presto territorio fertile per l’insediamento delle forze normanne che si presentavano come uno sparuto gruppo di soldati. L’usanza, da parte dei potenti locali, di assoldare al proprio servizio mercenari per la lotta alla prevaricazione reciproca costituì la principale condizione di insediamento da parte dei Normanni in Campania. Solo in seguito iniziò l’espansione che li avrebbe portati a dominare tutto il meridione. Dal momento che i testi rispondono alla storia, è inevitabile che le testimonianze scritte dell’epoca riflettano una situazione sociale piuttosto stratificata. Di conseguenza,
78
Eleonora Ciambelli
nell’ambito di una raccolta di documenti notarili di provenienza campana, risalenti all’epoca dell’insediamento normanno, ci si può aspettare un forte livello di stratificazione lessicale. Nonostante le strutture volgari si insedino a tutti i livelli, indubbiamente le parole possono costituire la più chiara testimonianza dell’uso inevitabile di forme altrimenti non grammaticalizzabili. In questo contributo si cercherà di evidenziare la stratificazione linguistica presente nei documenti del Codice diplomatico normanno di Aversa (da questo momento CDNA), prendendo in esame alcuni esempi tratti da un lessico di provenienza bizantina, longobarda e normanna e contemporaneamente sottolineando l’importanza delle strutture latine preesistenti.
1. Il lessico del Codice diplomatico normanno di Aversa Dall’esame dei duecentodiciannove atti notarili contenuti nel CDNA1 è emersa una situazione di cui si tenterà una descrizione. Le parole sono state scelte attraverso una metodologia di indagine che ha previsto una selezione del materiale lessicale, operando uno scarto rispetto ai principali dizionari di lingua latina e un’analisi dei lessemi sul Thesaurus Linguae Latinae. In seguito i lemmi sono stati raccolti in un glossario ed esaminati attraverso i principali dizionari di latino medievale ed etimologici romanzi. 1.1. Elemento latino La maggior parte del materiale raccolto è di origine latina, spesso involgarita dai tratti regionali. Si osservino gli esempi seguenti:2 justitiarius ‹giudice di controversie civili e penali›3 1.
Tunc supradictus archiepiscopus, una cum iusticiariis et cum magistro Petro de Musano (CDNA LXX Cart. San Lorenzo e San Paolo, [1158], 121);
2.
Dum regii iusticiarii, Florius de Cammarota, et Matheus de Venabulo, et Iohannes de Lavalle…in choro Beati Pauli plenariam et sollempnem curiam congregassent (CDNA LXX Cart. San Lorenzo e San Paolo, [1158], 121);
Il CDNA è una raccolta di documenti che riguardano donazioni alle chiese di San Lorenzo, San Paolo e San Lorenzo ad Aversa. 2 Gli esempi riportano la numerazione e la pagina assegnata all’atto nell’edizione diplomatica utilizzata per lo spoglio lessicale, realizzata nel 1927 da Alfonso Gallo per opera della Società Napoletana di Storia Patria. L’edizione è divisa in due cartari –San Lorenzo e San Paolo; San Biagio– e la maggior parte dei documenti è trascritta da originali, quindi la datazione è quasi sempre sicura. I documenti contenuti nel Cartario di San Biagio provengono da una copia di epoca successiva, ma comunque non sono stati scartati dall’indagine lessicale. 3 I lemmi proposti sono registrati nella stessa forma in cui sono stati lemmatizzati all’interno di uno dei dizionari di riferimento, ovvero il Mediae Latinitatis Lexicon Minus di Niermeyer. 1
La stratificazione lessicale submersa in un Codice diplomatico normanno
3.
4.
5.
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Super hoc autem et bona mea voluntate, coram eodem domino iustitiario, et iudicibus, et subscriptis testibus, guadiam et me ipsum ipsi domino Calpeh, venerabili magno priori, dedi accipere (CDNA CXXXI Cart. San Lorenzo e San Paolo, 6 maggio 1186, 247); Nos autem prenominati iusticiarius, et Silvester baronus et prefati iudices, habito consilio cum sapientibus, cognoscentes predictum priorem, pro parte monasterii, iustam causam habere, absolvimus, per sententiam diffinitivam, ipsum priorem et partem predicti monasterii (CDNA CLVII Cart. San Lorenzo e San Paolo, dicembre 1196, 303-304); –Constantia Dei gratia Romanorum imperatrix semper augusta et regina Sicilie, prelatis ecclesiarum, comitibus, baronibus, iustitiariis, camerariis, baiulis et universis quibus lictere iste ostense fuerint, fidelibus suis, gratiam suam et bonam voluntatem (CDNA LIX Cart. San Biagio, 3 settembre (mercoledì) 1298, 413).
Nei dizionari e nei glossari di latino medievale il lessema justitiarius assume significato di «juge ayant un puovoir d’origine publique (Ch. commun. Laudun. a. 1128); juge quelconque qui préside un tribunal (Placita Anglonormanna a. 1130-1133); officier de la curia royale chargé de pouvoirs judiciaires» (Niermeyer I, 751); «iustitiarius, giustiziere» (Sella 300). I dizionari etimologici specificano l’origine romanza ed in particolar modo normanna del lemma: «Fr. justicier ‹seigneur qui rend la justice, qui a droit de justice› (seit 12.jh.) afr. justecier PMor» (FEW 5, 86b); «la voce e l’uso son penetrate nell’Italia meridionale con i Normanni, (a.) fr. justicier (XII sec.), da justice (lat. jūstitia) passato anche allo spagn. e al port. (justitiarius) […]» (DEI III, 1825); «giustiziere esecutore di condanne capitali» (av. 1292, B. Giamboni e Fiore; nel lat. mediev. di Bari si incontra iustitiarius nel 1155 e nel 1219: Bezz.). Vc. dotta, lat. iustitĭtia(m) (da iūstum) «secondo il diritto (iūs)». I der. sono, invece, di form. romanza. Giustiziare è trad. del fr. med. justicier (sec. XII) e di questo ha tolto due sign., entrambi presenti nei testi del sec. XIII: «giudice» (cfr. in Cielo d’Alcamo, av. 1250: «molti lo disïarono marchesi e justizieri») e «esecutore di giustizia» (DELIN 671). Tuttavia, un chiarimento esaustivo sull’origine della parola justitiarius è fornito dal dizionario di Rezasco: «Giudice criminale nel Napoletano e nel Siciliano introduttovi dai Normanni in iscambio del longobardo Castaldo. Quanto alla Sicilia, uno per Valle, a giudicare i delitti più gravi, le cause civili de Feudi non quaternati, e le appellazioni dalli Straticoti, giudici criminali, e dai Bajuli, giudici civili. Doveva per ciò il Giustiziere girar sempre la sua Valle, non dimorando più di quattro giorni per luogo, ove erano Straticoti o Bajuli, eccetto se alcuna causa non richiedesse più tempo. Federigo imperatore gli levò tutto il civile […] -Tav. Rot.; Maestro o Maestro Giustiziere, o Gran Giustiziere, Ufficiale creato dai Normanni nel Regno di Sicilia e di Puglia» (Rezasco 481-482). Esplorando la storia del lemma emerge, quindi, un’origine normanna evidentemente esportata in Italia meridionale. L’altezza cronologica delle occorrenze di justitiarius nel CDNA è successiva rispetto alle prime attestazioni della parola rintracciate in area galloromanza. Il significato da attribuire sulla base dei contesti sintattici in cui il lemma compare nei documenti esaminati sembrerebbe piuttosto generico, sarebbe un approssimativo ‹giustiziere›. Tuttavia potrebbe essere già evidente una specializzazione della carica, nel sintagma regio iustitiario dell’esempio 2 o nel sintagma domino iustitiario dell’esempio 4. Un ulteriore approfondimento sulle competenze degli iustitiarii è fornito da alcuni studi più recenti: Il giustiziere, che era l’organo fondamentale, nelle province, del potere regio, veniva nominato esclusivamente dal sovrano, la cui discrezionalità era assoluta (Tavilla, in AA. VV. 1991: 368).
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Inoltre: L’istituzione dei camerari e dei giustizieri è collocata da Romualdo Salernitano intorno al 1140 […]; dopo il 1140, invece, troviamo giustizieri quasi in ogni parte dello Stato. Bisogna notare, però, che essi all’inizio, pur esercitando le loro funzioni in zone determinate, non furono strettamente collegati al distretto loro assegnato: manca infatti il titolo territoriale che i giustizieri porteranno in seguito (Caravale 1966: 224).
Le differenze rispetto alle altre cariche sono chiarite da Tavilla: il necessario requisito dell’imparzialità impediva loro di essere originari della regione in cui erano chiamati a svolgere le funzioni (Tavilla, in AA. VV. 1991: 368).
Caravale (1966: 225) spiega, infine, la netta differenza che c’era, nello Stato normanno, tra giustizieri e baiuli: i primi esercitavano il potere anche in campo penale, mentre gli altri avevano solo competenze in materia civile. L’esempio proposto può risultare di una qualche utilità per addentrarsi nelle problematiche inerenti al contenuto semantico delle cariche amministrative attestate dai documenti medievali. In generale, si può affermare che non sempre risultano evidenti le specificazioni di tali cariche e spesso soltanto uno studio storico più ampio e approfondito può chiarire le differenze che intercorrono tra magistrature diverse. La stratificazione in oggetto risulta palese su piani differenti nell’esempio citato: la base etimologica latina del lemma presenta continuatori solo nelle lingue romanze –di conseguenza, dall’etimo iustitia si è sviluppato iustitiarius, attestato prima nella Francia del Nord, poi esportato dai Normanni in Italia meridionale; inoltre, da un punto di vista squisitamente semantico, il significato attribuibile a iustitiarius non è sempre chiarito dai contesti sintattici in cui il lemma compare. 1.2. Elemento bizantino Le parole di origine greca, spesso celate da una forma latina, sono frequenti nei documenti del CDNA. Si vedano i seguenti esempi: angaria ‹prestazione obbligatoria› 1. et neque a vobis, neque a vestris heredibus vel successoribus…aliquos contrarium habeant, neque a monachis, vel hominibus eorum, affidaturam, plateaticum, vel aliquos tollant, vel aliquam angariam facere faciant (CDNA VII Cart. San Lorenzo e San Paolo, maggio 1092, 12, copia); 2. ego Robertus secundus Aversanus episcopus, recipio in defensione ecclesie Sancti Pauli, et nostra nostrorumque successorum, Petrum Forignanensem, de villa que vocatur Mairanum, liberum scilicet hominem ab omni servili condicione angaria et parangaria (CDNA XVIII Cart. San Lorenzo e San Paolo, 27 luglio 1119, 27).
I dizionari di latino medievale attribuiscono diversi significati al lessema angaria: «Onera agris aut personis imposita» (DuC.-Fr. I 248c); «gr.: service de courrier ou de transport, imposé
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par l’état aux particuliers, à exécuter soit à cheval, soit en voiture, à pied ou par voie d’eau (Marculfus a. 720-730); […] les mêmes services imposées aux dépendants par leurs seigneurs, particulièrement les transports par voiture (D. Ludov. II imp. a. 865) […]; une redevance à acquitter en nature (Concil. Roman. a. 826) […]; (gener.) charge oppressive (Annal. Saxo, a. 1124) […]; (abstr.) contrainte (Cosmas, usque ad a. 1125)» (Niermeyer I, 57); «prestazione« (Sella 21); «obbligo feudale di prestazione professionale; tributo; gabella« (Aprosio I.1, 81). Tuttavia, in questo caso, la ricostruzione della storia etimologica della parola, è facilitata dal LEI: «prestazione personale (generalmente non retribuita) a favore del feudatario […]. Nell’antico impero persiano i corrieri che portavano la posta da una stazione all’altra e che avevano il diritto alla prestazione personale della popolazione, si chiamavano Ággaroi, che corrisponde alla voce greca Ággeloi ‹corrieri›. La denominazione del servizio coattivo in questione, 'αγγαρεία, acquistò il significato più esteso di ‹lavoro forzato per un pubblico servizio›; la voce è molto frequente in epoca bizantina ed è ancora diffusa in tutte le lingue balcaniche […]. Lat. ANGARĪAE (< ἀγγαρεία) è attestato nel Corpus Juris (metà del sec. IV, Carisio, ThesLL 1, 44) ed è frequente nel lat. mediev. dei documenti longobardi, visigotici, carolingi e romani […]» (LEI II, 1168 e sgg.). Le informazioni riportate dal LEI possono essere ampliate soltanto dai dizionari tecnici: «prestazione di lavoro coattivamente imposta e non retribuita» (GlossConsGiur, 32 alla vc. angarìe); «obbligo feudale di seguire il Comune od il Principe colla persona e cogli animali, ma ricevendo la mercede, senza la quale quest’obbligo si chiamava, invece, parangaria […]» (Rezasco 34). Il significato di angaria nei documenti del CDNA è chiarito soprattutto dall’esempio 2, in cui il lemma compare in relazione a parangaria. Evidentemente tra le due parole si stabilisce una relazione semantica di inversione, per cui si tratta di prestazioni obbligatorie, delle quali la prima prevede una forma di retribuzione, mentre l’altra si presta gratuitamente. Anche in questo caso il significato del lemma esaminato è chiarito da una consultazione integrale di dizionari tecnici e specialistici. Il contesto di riferimento può fornire la spia per una determinazione della relazione che si stabilisce tra i due lessemi. La stratificazione in oggetto è chiaramente evidente nella forma latinizzata del lemma che, infatti, da Vàrvaro (1997: 153) era stato inserito nei tratti di origine latina, dotati spesso di un’origine remota diversa, in questo caso greca. 1.3. Elemento germanico Anche l’elemento germanico costituisce una parte del lessico raccolto nei documenti del CDNA. Si osservi l’esempio seguente: launegilt ‹ricompensa› 1.
recepi ab eodem domino Caleph priore dante cum predicto suo advocato et vice prefati domini abbatis et predicti monasterii, finitum launegilt, mantellum laneum (CDNA CXXXI Cart. San Lorenzo e San Paolo, 6 maggio 1186, 245).
Il lemma launegilt è frequente nei placiti medievali: «LAUNECHILDE, et LAUNEGILT, Reciprocum donum, seu pretium quodammodo rei donatae (Placit. a. 814)» (DuC.-Fr. V,
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44a); «launechilt, launichildus, launegild, donativo: Ecclesiae Venetae, Venezia a. 906» (Sella 308). Ancora una volta, la storia etimologica della parola è chiarita dai dizionari: «indennità che si deve pagare per l’uccisione di un uomo libero; v. dotta del diritto longobardo, lat. medioev. guidrigildum, widrigildus, dal long. *widregild id., cui corrispondono l’a. sass. wedergeld e il franc. werigild» (DEI III, 1892, alla vc. guidrigildo); «giur., piccolo dono come dimostrazione di aver accettato un dono maggiore; v. dotta long. launigild (Edictum Rothari) corrispondente all’a. sass. lōngëld, a. ted. lōngëlt ricompensa, cfr. ted. Lohn ricompensa e gild danaro» (DEI III 2268, alla vc. lonigildo); «nel diritto longobardo, indennità dovuta per pagare un torto (av. 1876, G. Capponi). Vc germ., longob. *widregild ‹ricompensa›, lett. contro (widre) mercede, denaro (gild)» (DELIN 705). Inoltre, per l’analisi delle parole di origine longobarda, risultano molto utili le fonti del LEI che spesso testimoniano l’alta frequenza delle parole nei documenti provenienti dall’Italia meridionale: «launegilt: compenso dovunto al donatore a. 1083 CDB» (Minervini, LEIMat); «lat. mediev. venez. launechild, launichil: donativo 1015 S. Gior. Ma.» (Montecchio, LEIMat); «Campania: Codex Diplomaticus Cavensis, anno 881» (SerraLineamenti, LEIMat); «CDL 288,10: Lucca 750 (originale)» (LEIMat); «CDL II 325, II Brioni 770 (originale)» (LEIMat); «CDL 186, 18 Savana 736 (originale)» (LEIMat); «lat. mediev. Bari launegild, launegilt (1164)» (Nitti, LEIMat). In questo caso, i dizionari spogliati e le fonti esaminate sembrano presentare un significato unanime, avvalorato dall’unico contesto di riferimento presente nei documenti del CDNA. Il launegilt era una ‹ricompensa› che nel caso dell’esempio proposto viene prestata da un ecclesiastico a beneficio dell’autore stesso dell’atto. Si tratta di una pratica molto diffusa nel diritto longobardo e dotata di sue specificazioni. 1.4. Elemento normanno In un codice diplomatico di origine normanna ci si può chiaramente aspettare un ampio numero di gallicismi. Si osservino i seguenti esempi: scutarius ‹scudiere› 1. 2. 3. 4.
5. 6.
Gaufredus scutarius (CDNA XL Cart. San Lorenzo e San Paolo, giugno 1140, 69); Amundio scutarius (CDNA LVII Cart. San Lorenzo e San Paolo, marzo 1150, 100); Ego Iacobus, filius quondam Iohannis scuterii (CDNA LXXXVIII Cart. San Lorenzo e San Paolo, marzo 1166, 156); Predictum locum, per prescriptos fines indicatum, nos qui supra presbiter Andreas et Angelus scutarius, qui sumus distributores supradicti subcentoris...dedimus, tradimus atque optulimus (CDNA CXLII Cart. San Lorenzo e San Paolo, ottobre 1191, 268); ab oriente est finis terra Iohannis scuterii (CDNA CLIII Cart. San Lorenzo e San Paolo, luglio 1196, 292); Drogo scutarius (CDNA XV Cart. San Biagio, maggio 1154, 334).
Dalle occorrenze proposte, emerge un fenomeno evidente: il suffisso latino -ARIUS presenta un doppio sviluppo nel lessema scutarius, ovvero un esito in -arius, ma anche una
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variante in -erius. Tale considerazione ci addentra in un ordine di problemi molto diffuso nello studio sui testi medievali di provenienza galloromanza. La terminazione in -erius è considerata di ascendenza galloromanza, a differenza dell’altro esito che mantiene una forma latina. Nei documenti del CDNA la maggior parte dei nomi indicanti mestieri presentano tale suffisso ed è stata registrata una forte alternanza tra i due esiti. Tuttavia scutarius è uno degli unici due sostantivi con doppia terminazione, testimonianza della forte oscillazione di strati diversi presente nei testi risalenti a quest’altezza cronologica. Nei dizionari di latino medievale anche il significato del lemma sembra particolarmente oscillante. In realtà originariamente lo scutarius designava il «fabbricante di scudi» che solo successivamente è diventato ‹scudiero›, ovvero ‹portatore di scudo›, quindi un ufficiale. Il contenuto semantico del lessema si è specializzato in Francia all’altezza del XII secolo. Si osservino le seguenti attestazioni: «confectionneur de boucliers (Capit. de villis, a. 795) […]; scutaire de la garde impériale (Chron. reg. Visig. sec. vii ex., cont. s. viii) […]; porteur du bouclier, dignitaire aulique (Berthold. Aug., Ann., a. 1065) […]; écuyer (Bertrand, Cart. d’Angers a. 1082-1106)» (Niermeyer II, 1238); «fabbricante di scudi, cognome» (Aprosio 2.2, 314). Anche dalle attestazioni presenti nei dizionari etimologici risulta chiara la differenziazione in oggetto: «scūtarius‚ 1. schildmacher, 2, schildträger. 1. Ital. scudaio, prov. escudier. 2. Frz. écuier, prov. escudier (> ital. scudiere, katal. escuder, span. escudero, portg. escudeiro)» (REW 7755); «Afr. escuhier ‹faiseur de boucliers› (flandr. ca. 1250), escucier (Paris 1292), escuer (hap. 13 jh.), escutier (Lille 15 jh.) […], apr. escusser (ClermF. ca. 1190) […]; mfr. escutier ‹porteur de bouclier› (1542)» (FEW 11, 354b); «Risale al lat. scūtārius da scūtum, attraverso il prov. escudier. Nel lat. tardo e mediev. scutarius era dapprima un soldato a cavallo, specie della guardia imperiale, poi giovane che aspira al grado di cavaliere (signif. sviluppatosi in Francia e di qui estesosi); anche scuerius (XII sec.), scuderius (a. 1170 a Padova), scuterius (XIII sec.) e scutarius (XII sec.)» (DEI V, 3429); «valletto d’armi che portava lo scudo del cavaliere al cui servizio si trovava» […]; Provz. escudier, dal lat. tardo scutāriu(m)‚ ‹armato di scudo› da scūtum ‹scudo› (DELIN 1488). Nei dizionari tecnici e specialistici viene registrato con il secondo significato proposto: «Giovane gentiluomo che serviva nelle bisogne dell’arme il Cavaliere: Donzello» (Rezasco 1034). Alcune considerazioni interessanti sembrano quelle offerte da Bezzola: La parola scudiere in Italia secondo il REW sarebbe un gallicismo […]. La sola ragione fonetica per ammettere un tal prestito sarebbe la desinenza -iere […]. La voce scutarius è antica; figura già in documenti sotto Costantino, poi Ammiano, nelle Not. Dign. e nel Cod. Theod. col significato di ‹soldato di guardia armato dello scudo›; questi SCUTARII, militi a cavallo, formavano sia dei grossi nuclei distribuiti nelle provincie, sia una parte della guardia imperiale. In questo senso ‹SCUTARIUS› passò ai nuovi regni germanici nel medio evo, e lo accolse pure la nuova società feudale che andava costituendosi in Francia ( Bezzola 1925: 113-114).
I contesti sintattici riportati negli esempi relativi a scutarius non risultano particolarmente utili ai fini della determinazione del significato della parola. I confini semantici di scutarius nel CDNA restano piuttosto indefiniti. Come nel caso di justitiarius, in presenza di lessemi designanti nomi di mestieri o cariche amministrative e giuridiche, il significato può risultare meno oscuro solo in seguito alla consultazione integrale di strumenti specialistici o letture
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approfondite. La difficoltà nell’attribuzione di un significato certo è determinata dalla funzione sintattica di tali sostantivi o in generale dalla loro funzione semantica in relazione al testo. Nella maggior parte dei casi, essi costituiscono la testa di sintagmi nominali o preposizionali apposti come firme dell’atto giuridico o designanti descrizioni di terre e di confini.
2. Considerazioni finali La stratificazione lessicale è una caratteristica rilevante nello studio dei documenti diplomatici. Essa riflette indubbiamente le condizioni storiche e socio-culturali che imperversavano in Italia meridionale intorno all’anno Mille. Il tessuto linguistico dei documenti contenuti nel CDNA si presenta estremamente variegato, ma la presenza dominante di parole di origine latina dipende indubbiamente dalla natura stessa dei documenti che a quest’altezza cronologica rispondono ad una lingua considerata ufficiale, rispetto alla formazione e diffusione dei volgari, già in atto. Vàrvaro (1997: 152) ricorda che: si tratta di documenti non solo latini, ma di provenienza per lo più comitale o vescovile, che non rispecchiano certo la parlata del luogo né quella degli immigrati normanni, tanto più che i notai sono di norma locali e in grande maggioranza tutt’altro che rozzi.
Certamente le parti interessanti di testo saranno le cosiddette ‹parti libere› di cui si parlava all’inizio, maggiormente intessute di forme volgari, in quanto contenenti il lessico appartenente all’oralità, ormai entrato nell’uso quotidiano, considerato dai notai inevitabile, probabilmente anche per la funzione di lettura dell’atto stesso alle parti contraenti. Un lessico di questo tipo può avere diverse provenienze, in relazione alle dominazioni che hanno interessato la Campania dell’Alto Medioevo. Sulla base di tali considerazioni sono stati analizzati elementi di origine greca, longobarda, normanna. La parte di lessico di origine bizantina è facilmente spiegabile. L’influenza esercitata dai Greci nel Mediterraneo è durata secoli e si è espansa anche alle strutture politico-militari e al campo artistico, oltre alla forte impronta da essi lasciata nei termini di origine ecclesiastica. I ducati di Napoli e Amalfi, di formazione bizantina, per secoli parteciparono alle lotte per il predominio sulle regioni circostanti. Di conseguenza, è indubbio che ampie aree della Campania fossero abitate da popolazioni grecofone. Le parole di origine longobarda rispondono alla stessa motivazione dei grecismi, ovvero l’importante presenza dei Longobardi in Campania, dove erano detentori dei principati di Benevento e Salerno. I longobardismi si diffondono soprattutto nelle parole del campo politico, legate alla designazione di cariche amministrative lasciate in vigore dai Normanni, o nel campo della descrizione di terreni. L’esempio presentato dimostra la volontà, da parte dei nuovi colonizzatori provenuti dal Nord, di conservare intatte alcune funzioni di natura politica. Un dato di questo tipo può risultare di qualche utilità per comprendere il carattere della conquista normanna in Italia meridionale. Fino al momento della costituzione del Regno di Sicilia, avvenuta con Ruggero nel 1130, ma anche in seguito, essi non si preoccuparono di
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creare un apparato statale in cui sostituire le strutture preesistenti con le proprie e spesso anche i funzionari o le istituzioni di origine bizantina e longobarda furono lasciate in vigore. Tali considerazioni offrono motivazioni valide alla constatazione di un basso numero di longobardismi all’interno del CDNA, come di grecismi e, sorprendentemente, di normannismi. L’esempio proposto, scutarius, rappresenta l’indice di una parte di sostantivi di origine galloromanza, designanti nomi di mestieri. Quasi tutti i nomi di mestieri reperiti nei documenti presi in esame presentano il morfema derivazionale -ARIU, suffisso agentivo che produce un derivato nominale. Nel CDNA talvolta ha una veste veste normanna -erius, ma nella maggior parte delle occorrenze conserva la forma latina -arius. Si potrebbe parlare di una stratificazione che si articola su un livello lessicale e semantico e risulta particolarmente evidente nell’esempio riguardante la componente dei normannismi. Il problema dell’alternanza -arius / -erius nei documenti del CDNA apre uno spiraglio di considerazioni di carattere lessicale che, a loro volta, si ricollegano alle problematiche di carattere storico. La parola scutarius è attestata in italiano antico nella forma scudaio, ovvero ‹artigiano che fabbrica o vende scudi; [milit.] cavaliere con armamento pesante› (TLIO), ma anche nella forma scudiero: ‹Persona, anche di bassa condizione, che, per professione o per tirocinio al cavalierato, accompagnava i cavalieri portando loro lo scudo e prendendosi cura delle armi e dei cavalli; addetto al servizio di un signore o di una dama; dignitario di corte, preposto alle scuderie del sovrano› (TLIO). Di conseguenza, potrebbe essere lecito pensare che il doppio esito manifesti una specializzazione del sostantivo, designante il nome di un mestiere oppure di una carica militare. Tuttavia, è impensabile che a quest’altezza cronologica esista una specializzazione connotata dalla derivazione del morfema e comunque i contesti dei documenti del CDNA non forniscono informazioni di carattere semantico sufficienti a provare riflessioni di questo tipo. L’osservazione del Meyer-Lübke, riportata da Bezzola, riguardante la possibilità che scutarius in italiano sia un prestito dal francese, è provata dall’origine storica della parola, anche se in italiano antico il lemma è attestato con il doppio esito che sottolinea una differenza di significato. Tale considerazione permette di comprendere fino a che punto il piano lessicale e quello storico-semantico siano strettamente intrecciati in questi documenti. Lo scutarius designava inizialmente il fabbricante di scudi, da scūtum latino, ma nella Francia del Nord il lessema ha subito l’evoluzione ampiamente documentata. Non sembra facile stabilire, sulla base dei contesti sintattici esaminati, se durante l’espansione normanna in Campania, tale sostantivo avesse già assunto un contenuto semantico diverso rispetto a quello iniziale. Il problema si articola su un doppio binario, connotato da un versante semantico e da una spiegazione di carattere storico. Si tratterebbe di capire se una carica militare importante nella Francia del Nord come quella dello ‹scudiero› sia stata trapiantata anche nelle operazioni di conquista. Tuttavia, i documenti del CDNA da questo punto di vista non possono fornire un valido sussidio. A tal riguardo, sembra opportuno precisare che Aversa è stata la prima contea di fondazione normanna nel meridione, per cui anche le categorie di cui si discute devono essere prese in considerazione con cautela. Dai pochi esempi presentati, si evince che la stratificazione linguistica è presente a tutti i livelli nei documenti del CDNA, ma spiegare le cause storiche degli influssi o dei prestiti linguistici non è semplice perchè tali processi si articolano in maniera eterogenea sul territorio. Potrà risultare utile il quadro complessivo che Vàrvaro (1997: 163) aveva dipinto in seguito ad uno spoglio di un campione degli atti contenuti nel CDNA:
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In complesso non c’è dubbio che la Terra di Lavoro avesse nel sec. XI una parlata neolatina ben caratterizzata e solidamente impiantata. Le forme del terreno e dell’insediamento agricolo conservano per gran parte la terminologia locale romanza, anche con voci assai poco comuni altrove. I resti bizantini ed anche quelli longobardi sono marginali ed in buona parte spariranno presto. I gallicismi non sono pochi, ma neppure tanti da far pensare che ad Aversa il francese sia stato il sostrato per una successiva adozione del campano.
Abbreviazioni Aprosio: Aprosio, Sergio (2001): Vocabolario ligure storico-bibliografico (sec. X-XX). Savona: Editore Sabatelli. DEI: Battisti, Carlo / Alessio, Giovanni (1950-1957): Dizionario etimologico italiano. 5 voll. Firenze: Barbera. DELIN: Cortellazzo Manlio / Zolli, Paolo (1999): Dizionario etimologico della lingua italiana. Bologna: Zanichelli. DuC.-Fr.: Du Cange, Fresne (1889): Glossarium mediae et infimae latinitatis. Niort: L. Favre, Imprimeur- Éditeur. FEW: von Wartburg, Walter (1922 e segg.): Französisches etymologisches Wörterbuch. Eine Darstellung des galloromanischen Sprachschatzes. Bonn /Leipzig / Tübingen / Basel. GlossConsGiur: Istituto per la documentazione giuridica del Consiglio nazionale delle ricerche (1980, 1984): Glossario delle consuetudini giuridiche dall’unità d’Italia. 3 voll. Firenze. LEI: Pfister, Max / Schweickardt, Wolfgang (in corso d’opera): Lessico etimologico italiano. Wiesbaden: Dr. Ludwig Reichert Verlag. LEIMat: Materiale del Lessico Etimologico Italiano. Niermeyer: Niermeyer, Jan Frederik (1954-1976): Mediae latinitatis lexicon minus. Lexique latin medieval. Leiden (éd. remaniée par J. W. J. Burgers. 2 voll. Boston, 2002). REW: Meyer-Lübke, W. (1930): Romanisches etymologisches Wörterbuch. Heidelberg: Carl Winter. Rezasco: Rezasco, Giulio (1881): Dizionario del linguaggio italiano storico ed amministrativo. Firenze: Le Monnier (ristampa Bologna: Forni 1966). Sella: Sella, Pietro (1944): Glossario latino-italiano (Stato della Chiesa-Veneto-Abruzzi). Città del Vaticano: Biblioteca apostolica vaticana. TLIO: Opera del vocabolario italiano (diretto da P. Beltrami): Tesoro della lingua italiana delle origini, materiale reperibile on line.
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Chiara De Caprio / Francesco Montuori (Università degli Studi di Napoli «Federico II»)
Copia, riuso e rimaneggiamento della Quarta Parte della Cronaca di Partenope tra Quattro e Cinquecento1
1. Premessa A partire dal Cinquecento, con la designazione Cronaca di Partenope (CrP) si indica un complesso di scritture storiche in volgare di età e tradizione disparate, avente come oggetto la storia della città di Napoli e del Regno, dalle circostanze mitiche che portarono alla fondazione di Cuma sino alla fine del XIV secolo. Se la ricezione del corpus si è compiuta nel Cinquecento, la ricostruzione della sua consistenza si è interrotta più di una volta nel corso di ricerche pluriennali, tant’è che ancora oggi la CrP è sprovvista di studi che diano conto del suo «statuto mobile» e del suo «basso gradiente di autorialità».2 Inoltre, resta inesplorata la storia del ri-uso della cronaca nei secoli immediatamente successivi: fra la fine del ’400 e i primi decenni del ’500, per effetto della fine della dinastia aragonese, nell’ambito di un più ampio e generale processo di rilettura del «passato medievale», personalità diverse per spessore e consapevolezza culturale raccolsero e rielaborarono il testo trecentesco secondo nuove prospettive che consentissero di reinterpretare i caratteri fondamentali della storia del Regno e della città di Napoli. Alla luce del quadro sin qui ricostruito, in questa sede illustreremo le caratteristiche della parte della CrP nota come Quarta Parte (QP) e metteremo a fuoco i modi di selezione, organizzazione e rielaborazione attraverso i quali essa è inglobata nella primo-cinquecentesca Cronica di Napoli di Notar Giacomo (CrN).3 Sono di Chiara De Caprio i §§ 1 e 3, di Francesco Montuori il § 2; di entrambi il § 4. Per tali aspetti si veda Vàrvaro (1999). Per una panoramica degli studi sulla cronachistica campana si rimanda a De Caprio (2011). Quando questo articolo era già in bozze è apparsa, per i tipi della Brill, l’edizione a cura di Samantha Kelly della Rutgers University: la studiosa americana pubblica in edizione critica le prime due parti della CrP e ricostruisce la stratificazione del testo senza toccare i principali temi trattati in questo lavoro. 3 Nelle trascrizioni dei testi le abbreviazioni sono sciolte fra parentesi tonde. Laddove le parole si presentino nella forma a piene lettere con oscillazioni, lo scioglimento è adeguato alla forma con maggior numero d’occorrenze. Nel settore delle grafie si è intervenuti limitatamente alla distinzione fra u e v e alla uniformazione di j e i in i. Si è conservata la j solo quando è cifra finale di numero romano. Sono rispettate tutte le altre particolarità grafiche del manoscritto e della stampa. Gli
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2. Compilazione e trasmissione del testo: la struttura della Cronaca di Partenope e della Quarta Parte Alla fine degli anni ’80 del XV secolo viene stampata a Napoli la più importante raccolta di cronache in volgare; il corpus narra la storia della città dalla sua fondazione fino agli ultimi anni del Trecento:4 Incomenza una nobilissima (et) vera antiqua cronica. Composta per lo generosissimo missere Iohan(n)e Villano recolta da molti antiqui quale è delectevole (et) de gran piacere per sapere le antiquitate dello regno de Sicilia citra (et) ultra el faro inde la quale se tracta de mutamenti de multi stati (et) incom(m)enza da la edificatione de Cuma. Lege feliciter. || De la cità de Napoli la quale intra l’altre cità del mo(n)do p(er) la multitudine de li Cavallieri (et) di loro po(m)pe (et) dilecte richeze àve acquistata fama gra(n)dissima; le quale cose tutti se narrano in diversi volumi (et) croniche (et) in questa presente scriptura brevemente se componeno. || Come li homin zentili de la cità de Euboya de la p(ro)vincia de Calcidia venero alla isula de Procida chiamata (et) edificaro Cuma. Cap(itulo) p(ri)mo. || Et primo de la sua origine (et) principio (et) de la impositione del nomo [...]. [cap. 1, A2 r]
Della CrP è oggi possibile documentare una discreta fortuna tardo-trecentesca e primoquattrocentesca, comprovata dalla relativamente ricca tradizione manoscritta, che conta almeno 19 codici. Tuttavia con la princeps attribuita a Francesco Del Tuppo, il medesimo stampatore che pochi anni prima aveva pubblicato gli atti del processo ai Baroni ribelli all’autorità di Ferrante I d’Aragona e puniti dal re di Napoli, la CrP assume forma e strutture (e quindi anche funzioni) nuove. Secondo le sintesi di Francesco Sabatini (1975: 133-140 e 266-269) e Gennaro Maria Monti (1936), infatti, nella CrP sono riconoscibili una prima parte (corrispondente ai interventi editoriali non segnalati si sono limitati all’introduzione di divisioni di parola, maiuscole, minuscole, accenti, apostrofi e punteggiatura secondo l’uso moderno. Per la stampa di Del Tuppo si offre il rimando in base alla numerazione dei capitoli dell’intera cronaca e, occasionalmente, si cita anche il foglio o il numero del capitulo della stampa con relativa rubrica. Per le citazioni della CrN si fornisce sia il numero del paragrafo che la carta del ms. 4 In sequenza nei capitoli 1-16 c’è la storia della Napoli greco-romana, in 17-33 la materia virgiliana, in 34-50 i primi tre secoli dell’era cristiana, in 51-58 il periodo da Giustiniano agli stati prenormanni, in 59-65 i Normanni, in 66-77 gli Svevi e gli Angiò; il cap. 78 ha una rubrica che recita «Incomenza ricontando che fo il conte Raimundo Berlingere de Provenza» (E2 r), il n. 79 narra della cometa del 1263; quindi, con una nuova numerazione e un nuovo incipit («Comenza lo octavo libro dove tracta de la venuta del re Carolo di Puglia (et) di soi facti (et) de molti mutatione che forono in Italia a lo suo tempo») ha inizio la sequenza 80-96 da Carlo Angiò ad Andrea d’Ungheria, il 97 è su Carlo II d’Angiò, mentre in 98-151, proseguendo nella numerazione ma con nuovo incipit («Cronica del re Roberto che fe’ per recuperare la insula d(e) Sicilia») si racconta dall’invasione della Sicilia di Roberto d’Angiò (1325) all’arrivo a L’Aquila di Luigi d’Angiò (1382). Alla CrP segue una descrizione dei Bagni, i centri termali intorno a Napoli, introdotta da una rubrica: «Sequita uno tractato de li Bagni de Pizolo (et) de Trepergule (et) de Agnano (et) de tutte le confini in lo quale per recreatione de le gente cossì breve de molti libri auctentici è tracto» (H7 r). Segue un capitolo di norme igieniche preventive e poi la descrizione di trentasette Bagni.
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capp. 1-57 della stampa), basata in gran parte su precedenti scritture latine sintetizzate prima della metà del sec. XIV, e una Seconda Parte (SP), rimaneggiamento della cosiddetta Breve informazione di Bartolomeo Caracciolo Carafa (1347-1350): entrambe sono presenti in tutti i testimoni e perciò saranno state giustapposte nell’ultimo quarto del Trecento. Nei capitoli 5896 della stampa (e anche in alcuni importanti manoscritti, come nel Palermitano e nell’Estense) la SP è contaminata con una redazione meridionale di 18 capitoli dall’ottavo libro della Nuova Cronica di Giovanni Villani.5 Una terza parte presenta due compendi di Villani di diversa lunghezza e contenuto e occorre in diverse forme in buona parte dei codici.6 Rispetto al corpus così delineato e distribuito nei manoscritti, la princeps ha due novità di grande rilievo: innanzitutto non include nel corpus cronachistico i due grandi compendi da Villani (la cosiddetta Terza Parte) e a tale scelta si conformerà tutta la tradizione a stampa successiva, fino all’ultimo editore moderno (Altamura 1974). La nuova «forma» non oblitera il fortissimo legame che i compilatori avevano stabilito con la storiografia fiorentina, come testimonia il titolo della rubrica di esordio dell’opera (Cronache del Villani) registrato sul dorso dell’edizione consultata nella Biblioteca Nazionale di Napoli e ancora documentato, per esempio, nel repertorio di Giustiniani (1793: 38-39).7 La seconda innovazione della stampa di Del Tuppo è l’inserimento, in coda alla cronaca, prima della tradizionale sezione dedicata ai Bagni termali, di una nuova ampia trattazione angioino-durazzesca (dal 1325 al 1382), denominata QP, introdotta dalla rubrica «Cronica del re Roberto che fe’ per recuperare la insula d(e) Sicilia. Cap(itulo) lxxviiij» (F7 r). Anche la giustapposizione finale di tale sezione, che forza perfino il corso cronologico della narrazione, è testimonianza di una rilettura della storia di Napoli, i cui eventi sono raccontati con fonti nuove rispetto al passato non perché esse integrino la fenomenologia delle vicende quotidiane cittadine ma perché sono giudicate più adatte a rappresentare in modo esemplare il recente passato della comunità e delle istituzioni di Napoli. Ma, in via preliminare, è opportuno indagare innanzitutto sulla consistenza della QP, giacché la stessa tipologia testuale cui essa appartiene appare incerta: è una cronaca a sé o è la fusione di materiale provvisorio o è parte di un lavoro compilatorio collettivo di lunga durata? La QP è una sezione narrativa autonoma, dotata di deboli richiami interni di breve respiro, che viene aggiunta, nella stampa, alla fine del rimaneggiamento della Breve informazione di Bartolomeo Caracciolo Carafa. Oltre alla rubrica iniziale, anche i primi righi della QP si presentano come un esordio, dove si manifesta lo sforzo del compilatore di ricapitolare la questione del possesso della Sicilia per poter raccontare delle spedizioni del 1325-1326: Per le sigle e le descrizioni dei mss. si rinvia ai lavori citati di Monti e Sabatini. In particolare il primo compendio, la parte III A, è la rielaborazione in 202 capitoli degli eventi del Regno fino al 1326 contenuti nei libri II e IV-IX della Nuova Cronica; nel secondo compendio, la cosiddetta parte III B, si riscrivono 65 capitoli dei libri I-VIII dell’opera di Giovanni Villani, su eventi mitici e storici fino al 1297. 7 Lo studio delle fonti della storiografia volgare meridionale è un settore ancora tutto da indagare, importante perché analoghe suggestioni di origine toscana sono ormai accertate, per esempio, nella sporadica produzione lirica locale: sull’argomento si vedano i lavori di Rosario Coluccia e si tenga conto dell’affermazione di Dionisotti (1967: 38), secondo cui non vi è «nessuna traccia da Roma a Napoli a Bari all’Aquila a Sulmona, per non parlare della Sicilia, d’un qualche contributo alla letteratura italiana sulla base proposta dai Toscani e da Dante, fino oltre la metà del Quattrocento». 5 6
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Como è notorio, la insula de Sicilia se rebellò co(n)tra lo re Carlo primo (e) venne in potere del re Pietro de Aragona. (E) q(ue)lla tenendo in pace, vene(n)do a lo solio de lo Regno d(e) Sicilia el re Roberto, fiolo de lo re Carlo seco(n)do, che era prude(n)te (e) richo, havendo p(er) male che la insula de Sicilia Ultra el Faro non devesse esser unita co· lo Regno de Sicilia, volendola [st.: vedendola] recup(er)are, primo mandò a(m)bassatori a li pr[i]ncipali de q(uel)la insula, se se volea(n)o reducere a la fidelità sua como era de dovere [...]. [F7 v]
Tuttavia la QP è giustapposta al resto della CrP attraverso l’introduzione di relazioni di continuità narrativa che ne consentono la contestualizzazione. La SP termina con i capitoli 95 e 96 su Roberto d’Angiò e la sua controversa successione attraverso la nipote Giovanna e il giovane Andrea d’Ungheria: «Como al Re Roberto soccese Iohanna prima figliola duca de Calabria suo figlio» e «Como fo prima mogliere de Re Andrea la dicta regina Iohanna. Capitulo lxxvij». L’esordio della QP è, invece, nel cap. 98 dedicato alla spedizione per la riconquista della Sicilia compiuta da Roberto d’Angiò nel 1325 circa: «Cronica del re Roberto che fe’ per recuperare la insula d(e) Sicilia. Cap(itulo) lxxviiij». La giustapposizione di due eventi in una serie cronologicamente discontinua induce il curatore dell’edizione a introdurre un capitolo di raccordo, il n. 97, la cui rubrica è: «Como Re Carlo secundo fe’ ampliare la cità de Napoli. Ca(pitulo) lxxviij»; e che inizia con un esplicito riferimento all’inversione nella linearità del racconto: «È de necessitate donare a li lecturi recreatione (e) lasare la preposata materia (e) retornare ad Carlo seco(n)do figliol del re Carlo primo». Anche alcuni richiami ad altre sezioni della Cronica inducono a ispirare nel lettore un senso di continuità narrativa e di unità compositiva8. Ma è del massimo interesse, e in questa sede può essere solo enunciata, la circostanza che esistano due apografi diretti della princeps, il ms. della Cronaca del Ferraiolo (Coluccia 1987) e la stampa del 1526: in entrambi gli esemplari si tenta autonomamente di eliminare gli errori riconosciuti, si adatta la lingua in base ai propri usi e gusti, si ristruttura il testo per evitare contraddizioni o per migliorare la scansione del contenuto. Tali atteggiamenti inducono a trattare diversamente l’esordio della QP: la stampa del 1526 apre un nuovo libro con la rubrica «Cronica del re Roberto», relegando il cap. 97 alla fine del libro precedente; nel ms. di Ferraiolo, invece, una nuova numerazione delle rubriche inizia con il cap. 101, cioè con l’arrivo del re di Ungheria nel Regno: «Como venne lo re da Ungaria a lo Rengnio de Sicilia. Capitulo uno».9 In definitiva la QP ha una struttura fondamentalmente annalistica, ottenuta assemblando, in narrazioni coerenti e progressive, materiali di diversa origine, sommari contenenti informazioni compendiate e informazioni in comune con la Nuova Cronica di Giovanni Villani e con il proseguimento scritto da Matteo Villani. Come si è visto, nella rubrica iniziale della CrP il materiale narrativo è esplicitamente attribuito a un’opera di compilazione («le quale cose tutti se narrano in diversi volumi (et) croniche (et) in questa presente scriptura brevemente se componeno»), attività da interpretare non tanto come ‹redazione› ma in un senso attivo di ‹raccolta di materiali di diversa provenienza›.10 Anche la QP sembra essere Il principale richiamo «esterno» è nel cap. 147 (H4 v), dove si ripete quanto detto nella parte I, al cap. 31 (B3 r) sulla profezia che riguardava l’uovo di Castel dell’Ovo. 9 Nella princeps: «Como vene lo re de Ungaria a lo Regno de Sicilia. Capitulo lxxvii»; nella stampa del 1526, nel III libro: «Como venne lo re de Ungaria allo Regno de Sicilia. Cap. iiii». 10 Il significato di ‹stesura di un testo, redazione› è l’unico ad occorrere nel TLIO (Tesoro della Lingua 8
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frutto di compilazione di materiali già esistenti, stratificati in una composizione provvisoria che lascia ancora trasparire i diversi livelli di scrittura. Le rubriche, già presenti e numerate nell’antigrafo, mostrano chiari segni di incertezza nella numerazione, che è spesso imprecisa ma, come si vede dalla tabella seguente, sostanzialmente continua, nonché evidenti indizi di incompletezza, come nel cap. 130 (G5 v), dove è inserita a testo una frase irrelata, un abbozzo di «argomento» forse frutto di una forma di rielaborazione avvenuta durante il passaggio dal sommario alla narrazione: dopo la rubrica («Como lo re Louise de Ungaria procedendo alla vendecta dello re Andrea fe’ menare presone lo principe de Taranto e Filippo suo fratello. Capitulo cij»), si legge all’inzio del capitolo: «La vendecta che era lo proposito del re Louise dovere mettere in executione dello dicto re Andrea» e quindi, senza soluzione di continuità, il reale esordio del testo: «inde lo medesmo dì che fe’ decapitare lo dicto duca Carolo fe’ mettere in presone lo principe de Taranto e Filippo suo fratello [...]». Intrecciando i dati forniti dalle rubriche con il contenuto dei capitoli si può ipotizzare una struttura compilativa segmentabile in sette sezioni narrative e compositive: – Sezione 1. capp. 98-102 (numerati 79-81, 77 più uno non numerato): anni 1325-1328 e 1334; dovevano essere una forma di continuazione della Breve informazione con sezioni riguardanti Carlo duca di Angiò (impresa di Sicilia e tensione verso la giustizia) e la successione a re Roberto. – Sezione 2. capp. 103-128 (numerati 79-103, più uno non numerato): anni 1328-1348; è una continuazione della Breve informazione condotta fino alla vendetta del 1348 compiuta dal re Luigi d’Ungheria. – Sezione 3. capp. 129-132 (numerati 104-107): anni 1355-1362; capitoli obituari su Luigi di Durazzo, Luigi di Taranto e matrimonio di Giovanna con Iacopo di Maiorca. – Sezione 4. capp. 133-142 (numerati 103-112): anni 1348-1382; riprende la narrazione dal 1348 (conformemente alla numerazione dei capitoli) con un’introduzione riepilogativa sulla genealogia dei Durazzo fino all’incoronazione di Margherita di Durazzo. – Sezione 5. capp. 143-145 (numerati 113-115): anni 1355-1374; testi su Maria di Durazzo e Filippo di Taranto. – Sezione 6. capp. 146-148 (numerati 116-118): anni 1363-1376; i matrimoni di Giovanna I. – Sezione 7. capp. 149-151 (numerati 119 più due non numerati) 1381-1384; monarchia di Carlo III di Durazzo e della moglie Margherita; Luigi II d’Angiò entra all’Aquila. In queste trafile narrative lineari, in qualche modo avallate dalla numerazione delle rubriche, è possibile osservare anche degli addensamenti compositivi relativi alle fonti del testo e al modo in cui esse si sono stratificate durante la loro elaborazione nella scrittura. La prima sezione, per esempio, ha uno spiccato gusto aneddotico e moralistico che si manifesta nel ricorso al discorso diretto o a lamentazioni di ascendenza biblica per lo scioglimento dell’intreccio (cap. 100) oppure in una sintassi del periodo che oscilla tra la giustapposizione delle frasi per allineare le azioni in quadri e la coordinazione per scandire i momenti della narrazione. In questa sezione si osserva la contaminazione di materiale di origine locale e di provenienza fiorentina. Nel cap. 101 si racconta che re Roberto e il re d’Ungheria si incontrarono a «Pumigliano» e quindi «ferose grande honore [...]. Basarose Italiana delle Origini), s.v. Ma si veda anche la voce compilare, il cui primo significato è ‹Accumulare e riunire dati in un unico testo›; comporre un ‹opera servendosi di materiali già esistenti›.
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inde la bocha». L’istituto dell’osculum pacis è in comune con il racconto di Giovanni Villani (XIII 10), secondo cui «il re Ruberto gli si fece incontro infino a’ prati di Nola, basciandosi in bocca con grandi acoglienze», dove il luogo dell’incontro è invece diverso. L’indicazione di Pomigliano occorre in un volgarizzamento meridionale della Chronica Pontificum et Imperatorum di Martin Polono contenuto nel ms. Vat. lat. 4601 (Monti 1945), secondo cui i convenevoli avvennero «alla villa de Pomillano», sebbene con modalità meno formali: «amendui li Re sopradicti abraczau l’uno et l’altro con grande allegrecze». Nella seconda sezione si ha un ordinato andamento annalistico di notizie derivanti da diverse fonti (sommarî e cronache) rielaborate con gusto per la narrazione e tono abbastanza neutro. Il punto di vista politico del narratore non è ostile ad Andrea di Ungheria (cap. 113), soprattutto per la compassione dei nefasti effetti del suo assassinio sul Regno e su Napoli in particolare (cap. 122). Nella sezione seguente, invece, il tono è filo-angioino (cap. 130), così come nella quarta sezione, dove, in uno schema narrativo filo-durazzesco e anti-ungherese ascrivibile alla storiografia militante di un cronista locale, si mescolano e giustappongono ingredienti derivanti da compendî di Matteo Villani. Il caso più chiaro sono i capp. 125 e 126128, dove si ripetono notizie quasi uguali, rispettivamente per rielaborazione del cronista fiorentino e per il contributo di altre fonti. La stratificazione si può seguire in questo caso facilmente, sotto la guida dell’errato scioglimento di un’abbreviazione, che nel cap. 125 ha trasformato Filippo II di Taranto (cioè presumibilmente philo con l tagliata) in «missere Philosopho»; invece nei successivi tre capitoli, di uguale argomento, si legge «lo [dicto] principe de Taranto (et) Filippo suo fratello» (capp. 127 e 128).11 Interessi localistici e spunti moraleggianti sono visibili nei rinvii alle fonti orali12 e nei riferimenti al momento della scrittura inseriti nella narrazione, ovviamente preziosi anche per datare la composizione dei testi. I più significativi aggiornamenti sono nel cap. 133 (Margherita di Durazzo «che per mo’ per voluntate de Dio è regina»), nel cap. 141 (le figlie del re di Ungheria) e nella giustapposizione degli ultimi capitoli della settima sezione. Anche indizi linguistici significano l’attività di stratificazione dei livelli compositivi. Infatti l’avanzato stato di koinizzazione della lingua della QP (Sabatini 1975: 139) non è riuscita a rendere omogenea la lingua delle diverse sezioni, che mantengono piccole differenze nella distribuzione di tratti fono-morfologici e lessicali. Indubbiamente la cattiva qualità delle lezioni tràdite dalla princeps induce alla cautela nel valutare la sincerità del dettato dal punto di vista linguistico. E la scarsa presenza di sicuri indizi di meridionalità come la chiusura e, per il Trecento, il dittongamento metafonetico lasciano intendere un livellamento sul modello fiorentino-latineggiante che non sorprende affatto. Lo stato della tradizione e la qualità del testo della stampa non consentono l’individuazione del responsabile di alcuni alcuni probabili ipercorrettismi a consuetudini grafiche meridionali (andaoscende cap. 110 e tornascende cap. 137; tombo ‹tòmolo› cap. 111), che del resto sono attestati anche in altre parti del testo (dando ‹danno› cap. 96) e che si avvicinano di più ai fenomeni che caratterizzano la copia della princeps nel ms. di Ferraiolo piuttosto che i «superadeguamenti» verso il fiorentino operati, secondo Sabatini (1975: 135), nel La distribuzione generale è la seguente: Filosofo è nei capp. 125, 133, 139-141 e 146; Filippo nei capp. 127, 128, 143 e 144. 12 Nel cap. 141 si legge: «e fo dicto che fecero intossicare lo dicto misser Louise predicto per certo modo fandoli li cristeri e cossì era dicto publiche e tenuto per li Napolitani». 11
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manoscritto palermitano, affine stemmaticamente alla stampa di Del Tuppo. Lo spoglio delle occorrenze del morfema desinenziale di III persona nel passato remoto dei verbi della prima coniugazione fornisce dati di distribuzione molto interessanti: nei primi 35 capitoli si ha 24 volte -ò e 21 volte -ao; nella seconda metà dell’opera, cioè negli altri diciotto capitoli, -ò occorre solo 7 volte, mentre -ao ben 47. Alcune spie lessicali inducono a pensare che le caratteristiche linguistiche del testo siano influenzate dall’origine del materiale cronachistico e dal gusto dei diversi compilatori. Per esempio la distribuzione dei geosinonimi e degli allotropi non sempre è casuale, dal momento che i termini locali ricorrono con maggiore frequenza nella quarta sezione del testo, quella «durazzesca», dove per lunghi tratti la composizione si deve a una scrittura originale che gestisce con autonomia il compendio dei fatti raccontati da Matteo Villani e la combinazione con le notizie di fonte locale, e quindi controlla senza affanno anche i ritmi della narrazione. Alcune coppie si distribuiscono quindi con buona regolarità: moglie nelle prime due sezioni, mogliere nella quarta e nella quinta (tranne un paio di eccezioni); regno è solo nella prima sezione, mentre negli altri capitoli c’è sempre reame; anche sepelito tende ad essere sostituito con atterato; e così via. Naturalmente non è facile valutare se l’assenza di tratti linguistici meridionali in alcune sezioni della cronaca sia indizio di un incompleto adeguamento quattrocentesco o sia un ingrediente originale del testo nella sua formazione nel XIV secolo. Si osserva, ad esempio, la quasi totale assenza di forme flesse dei verbi nei modi impersonali. Gli unici esempi13 occorrono nella seconda metà del testo, a ulteriore testimonianza di una maggiore schiettezza linguistica. Se osserviamo i passi corrispondenti nella rielaborazione di Notar Giacomo (cfr. § 3), si osserva che l’adattamento riassuntivo della QP della CrP spinge il rielaboratore a moltiplicare le forme coniugate. Ma è improbabile che le forme coniugate siano state obliterate nel corso della trasmissione del testo: sono invece indotto a pensare che la princeps presenti un testo a uno stadio precedente rispetto alla specializzazione stilistica delle forme flesse, visibile nei testi documentari quattrocenteschi, e tra questi proprio nella stampa di Del Tuppo relativa agli atti del processo dei Baroni (Ledgeway 2009: 589).
3. Il rimaneggiamento della Quarta Parte nella Cronica di Napoli La cosiddetta Cronica di Napoli di Notar Giacomo (CrN), composta entro il primo ventennio del XVI secolo, narra le vicende di Napoli e del Regno dalle mitiche origini della città sino al 1511. Essa è tràdita, in veste autografa, dal solo manoscritto Brancacciano II F 6 della Biblioteca Nazionale di Napoli, vero e proprio «codice-archivio», ricco di correzioni e aggiunte marginali, al quale il cronista affida un testo progressivo, oggetto di revisioni e ampliamenti in fasi successive di scrittura.14 La prima parte della cronaca (cc. 1r-34r), «La quale licentia ipsi la pigliaro de bona voglia perché àpero paura in quella nocte esserono tagliati ad pezo» (cap. 134); «E standone in questo tractato venne lo cardinale de Napoli e lo conte de Avellino» e «Et lo re e la regina volendone scendere a la cità de Gaeta per pigliare recreatione, como ille dicivano [...] dubitavano de non venire alle mane del re de Ungaria» (cap. 137). 14 Per il carattere «progressivo» del testo sia consentito rimandare a De Caprio (2004).
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dedicata a eventi compresi fra la fondazione di Napoli e il regno di Carlo III di Durazzo (1386), concentra le vicende di un così ampio lasso di tempo in sessantasette paragrafi, distribuiti su trentaquattro carte caratterizzate da una complessa e caotica morfologia materiale.15 In particolare, per l’età angioino-durazzesca, la CrN utilizza come ipotesti principali due parti della CrP, la Seconda Parte (SP) e la Quarta Parte (QP):16 il dettato della SP è alla base dei §§ 56-57, relativi all’avvento al trono di Roberto e ai primi anni del tumultuoso regno di Giovanna I; a sua volta, la QP funge da testo-guida per i §§ 58-66, dedicati agli eventi che vanno dalla morte di Andrea d’Ungheria (1345) all’entrata di Luigi d’Angiò all’Aquila (1382). In questa sede, descriverò le modalità di ristrutturazione dei contenuti e i processi quantitativi di ampliamento e riduzione della QP17, per poi delineare, in modo inevitabilmente cursorio, alcune caratteristiche sintattiche e microstilistiche dell’adattamento.18 Dei cinquantaquattro capitoli in cui la QP è suddivisa nella stampa deltuppiana, la CrN ne utilizza quaranta.19 Nel processo di assemblaggio dell’ipotesto, quattordici capitoli della stampa sono alla base del dettato di nove paragrafi della CrN (dal § 58 al § 66), mentre i restanti ventisei sono utilizzati per dieci annotazioni marginali (cc. 27r-31v) con le quali Notar Giacomo arricchisce il resoconto sia dei §§ 56-57, dipendenti dalla SP, sia dei §§ 5866, il cui contenuto, come si è detto, deriva dal rimaneggiamento della QP. La volontà di tener conto di entrambe le parti della CrP è particolarmente evidente nel lavoro di ampliamento del § 57: la succinta narrazione basata sulla SP è infatti ampliata attraverso l’integrazione di informazioni disseminate in ben diciotto capitoli della QP, che il cronista riorganizza in una fitta serie di annotazioni marginali. Il rapporto non sempre coerente fra il paragrafo e i marginalia mostra che il resoconto della morte di Andrea e della conseguente invasione ungherese è, non casualmente, il «punto di crisi» nella sutura fra le due parti della CrP. Infatti, mentre la SP offre una scarna esposizione di eventi ancora scottanti ai tempi in cui fu composto l’ipotesto da cui essa deriva20, la QP, al contrario, pur con «sviste e contraddizioni», «intesse a più riprese la trama del suo racconto» intorno all’uccisione di Andrea d’Ungheria e all’invasione del Regno, per poi procedere con un particolareggiato resoconto delle lotte fra le opposte fazioni della famiglia reale e con una «precisa descrizione» della conquista di Napoli ad opera di Carlo III (Sabatini 1975: 138-139). Nel manoscritto i paragrafi, segnalati dallo spazio bianco in apertura e chiusura di ciascun blocco di testo, non sono numerati. 16 Da Genette mutuo le definizioni di ipotesto e ipertesto rispettivamente per il testo «anteriore» e il testo che «si innesta» sull’ipotesto (Genette 1997: § i). 17 Seguendo Genette (1997: §§ xlvi-xlvii), distinguo tra procedimenti tematici (estensione ed escissione) e stilistici (espansione e concisione). Designo quindi con escissione la soppressione di blocchi narrativi presenti nell’ipotesto, con concisione il processo mediante il quale si abbrevia l’ipotesto «senza sopprimere alcuna parte tematicamente significativa, ma riscrivendolo in uno stile più stringato» (Genette 1997: § xlvii, 281). 18 Per motivi di spazio non darò conto degli elementi filologici che rendono fondato il confronto fra il testo tràdito dalla stampa e il rimaneggiamento di Notar Giacomo. 19 Notar Giacomo non si avvale del dettato dei capitoli 100, 103, 104, 105, 108, 110, 111, 116, 118, 119, 121, 126, 133, 147. 20 Si tratta della Breve Informazione di Bartolomeo Caracciolo, redatta fra il 1347 e il 1350 e dedicata a Luigi di Taranto, secondo marito di Giovanna. 15
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Per quanto concerne le trasformazioni di tipo quantitativo, va osservato che le escissioni di capitoli dell’ipotesto sono realizzate secondo una chiara strategia di lettura che si muove lungo tre fondamentali direttrici: (a.) soppressione delle registrazioni dei fenomeni naturali; (b.) disinteresse per gli episodi dal tono favolistico; (c.) esigenza di ridurre le contraddizioni dell’ipotesto.21 Un primo gruppo di espunzioni concerne i blocchi tematici dedicati a fenomeni atmosferici e calamità naturali: i capitoli 108, 111 e 119 della stampa, assenti nella CrN, sono infatti dedicati all’apparizione di una cometa (cap. 108), al sopraggiungere di una carestia (cap. 111), a una violenta tempesta che colpisce duramente il Molo (cap. 119). L’assenza di un secondo gruppo di capitoli (capp. 100 e 147), invero più sparuto, può essere spiegata con l’esigenza di ridurre l’elemento più schiettamente aneddotico e gli inserti novellistici nella narrazione: nel cap. 100 la liberalità e il senso di giustizia di Carlo d’Angiò emergono icasticamente dalle parole che il figlio di Roberto, in qualità di vicario generale del Regno, pronuncia dinanzi ad un cavallo vecchio e denutrito, abbandonato dal suo irriconoscente padrone: No(n) inte(n)diti che è la bestia che domanda iusticia del patrone? Andati (e) commandati ad missere Marcho le done da mangiare fin’a che vive et tractelo bene, perché, havendo servito sano (e) iovene, è iusta cosa sia nutrito vechio (e) infermo. [QP cap. 100: Como lo re Roberto fe’ lo dicto duca Carlo vicario suo generale e como era ministratore de la iusticia. Cap(itulo) lxxxj]
Ancor più marcato l’elemento favolistico nel cap. 147; in esso, infatti, si fornisce un altro tassello della fortuna delle leggende virgiliane e si dà conto delle sorti del cosiddetto uovo di Virgilio sotto il regno di Giovanna I.22 Il disinteresse per gli accenni alla materia virgiliana presenti nella QP acquista particolare significato se si considera che anche nei paragrafi che dipendono dalla Prima Parte della CrP sono eliminati proprio i blocchi tematici relativi ai prodigi di Virgilio. Infine, un terzo tipo di escissioni va riconnesso all’esigenza di razionalizzare la disposizione della materia della cronichetta durazzesca. Infatti, non sono serviti come ipotesto sei capitoli (103, 104, 105, 126 e in parte 110, 116) che forniscono informazioni inesatte o parzialmente presenti anche in altri luoghi della cronichetta: le espunzioni hanno quindi il compito di porre rimedio alle incoerenze dell’ipotesto. Un’istanza di razionalizzazione analoga emerge anche dall’accorpamento di blocchi tematici che nella stampa sono frazionati in più paragrafi, ora contigui (ad es. capp. 98 e 99 > § 58; capp. 139, 140, 141, 142 > § 60), ora distanti (capp. 132 e 146 > § 62). Attraverso questa operazione di ri-assemblaggio, con la sola eccezione del § 58, che spezza la continuità narrativa e cronologica rispetto a quanto precedentemente narrato, i §§ da 59 a 66 della CrN proseguono secondo una diacronia di eventi che va dalla morte di Andrea d’Ungheria all’avvento di Carlo III. L’analisi della ristrutturazione dei contenuti consente di affermare che Notar Giacomo rilegge le diverse parti della CrP secondo un nuovo orizzonte d’interesse. Il cronista, infatti, elimina drasticamente materiali di sapore aneddotico e leggendario e mira alla ricostruzione Sfuggono a queste tre linee i soli capitoli 118, 121, 133. Sulle leggende virgiliane, accanto al classico lavoro di Comparetti, si può ora consultare la ponderosa monografia di Ziolkowski / Putnam (2008: 945-952), nella quale si sottolinea la centralità delle leggende virgiliane nella prima sezione della CrP.
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della crisi dinastica e politica di età durazzesca, che, all’indomani dell’invasione di Carlo VIII (1494) e del crollo della dinastia aragonese, non poteva che essere il nuovo «centro di interesse» del corpus cronachistico trecentesco. La derivazione di singoli paragrafi della CrN da più unità tematiche dell’ipotesto fa sì che, in taluni casi, i «punti di sutura» dei capitoli del testo di partenza coincidano con quelli che potremmo definire i «punti di crisi» delle strutture sintattico-testuali del testo di arrivo. Un esempio di quanto detto si rinviene nel § 62: a metà del paragrafo si registra un caso di referenza ambigua di una proforma (Lo quale) che rinvia a un Topic di discorso semi-attivo (il re Giacomo di Maiorca): De po’ la morte de re Loyse fo tractato matrimo(n)io tra la regina Ioanna prima et re Iac(ob)o de Mayorica et q(ue)sto in lo anno 1363. Et indel medesimo t(em)po m(essere) Loyse de Navarra pigliò p(er) moglie mada(m)ma la duchessa de Durazo in lo anno 1362 et ve(n)ne con tre galee. Dove ancho venne lo Gran Maystro de Rode con doy galee. Et in questo tempo venne in Nap(o) li lo re de Cipri et fo invitato da m(essere) Ioann(e) Cossa ad Capuana et poy se partìo. Et q(ue) sta fo la terza volta ch(e) se maritao la regina Ioanna prima. Lo q(u)ale stava male (con)te(n)to p(er)ch(é) no(n) poteva signiorizar(e) lo Reg(n)o; dove se nne andò in le p(ar)te de Spagna et, p(er) la guerra ch(e) se faceva tra lo re de Inghilterra et lo re de Spagna, nc(e) fo priso et recactato p(er) grande q(uan)-tità de denari, li quali mo(n)tava(n)o duce(n)tomilia florini; et accactao più denari co(n) favor(e) de la regina et andò ad recuperar(e) le terr(e) de la heredit(à) ch(e) teneva re de Aragona et p(er) questa c(aus)a fo morto. [CrN § 62, cc. 32r rg. 28-32v rg. 13; correggo in accactao la forma actactao del ms.]
Nel passo in esame il referente testuale di Lo quale è quel re Iacobo de Mayorica introdotto ad inizio del paragrafo e non più richiamato all’attenzione del lettore: in presenza di altre catene anaforiche per Topics umani, la ripresa con Lo quale rende faticoso l’esatto recupero dell’antecedente e vìola il principio funzionale secondo cui la menzione di un Topic semiattivo deve essere codificata in modo non ambiguo.23 Come hanno mostrato, fra gli altri, i lavori di De Blasi (1982), Palermo (1994), Librandi (2000), l’ipocodificazione di Topics semi-attivi o, al contrario, l’ipercodificazione di Topics attivi sono fenomeni ben documentati fra Quattro- e Cinquecento sia nei cosiddetti «testi misti» sia negli scritti riconducibili al polo diastraticamente basso del continuum sociolinguistico. In questo specifico caso pare interessante poter documentare che l’ambiguità del brano in questione è senz’altro frutto della sutura di due distinti capitoli della QP (capp. 132 e 146) nei quali si aveva una diversa organizzazione tematica. È dunque la soppressione di informazioni essenziali alla coerenza e coesione testuale dell’ipotesto a provocare fratture nella continuità tematica dell’ipertesto: Po’ la morte de re Louise fo tractato matrimonio tra la regina Iohanna prima (e) re Iacobo de Maiorica (e) questo fo a li a(n)ni Mccclxiij; (e) inde lo medesmo te(m)po lo s(igniore) Louise de Navarra pigliò per moglie mada(m)ma la ducessa de Durazo (e) fo a li Mccclxxij de la octava ind(ictione) et venne con tre galee. Dove venne ancora lo Gran Maistro de Rodi con dui galee; (e) in questo medesmo te(m)po ve(n)ne in Napoli el re de Cipri (e) fo invitato ad Capuana da missere Iohanne Costa (e) po’ se partìo. [QP cap. 132: Come venne de Maiorica re Iacobo per pigliare la regina Iohanna prima per mogliere. Cap(itulo) cvij] Per tali aspetti ci si limita a rimandare a Givón (1983).
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La supradicta regina se maritao la tercia volta et prese missere Iacobo figliolo de lo re de Maiorica; (e) male contento perché non poté signorezare allo Reame secondo ipso voliva, se nde andao inde le parti de Spagnia (e) fonce pigliato (e) recattato de grande quantità de denari perché se trovao alla bactaglia che fece lo re de Ingliterra (e) lo re d(e) Spagnia; li quali dinari montavano ducentomilia florine; (e) poi de questo similatamente era male contento; accatao molti dinari con favore de la dicta regina (e) andaosende a li parte de Cathalognia ad recuperare le terre de la heredità sua, le quale possediva re de Aragona, (e) in questa causa fo morto. [QP cap. 146: Come se maritao la sopradicta regina la tercia volta. Capitulo cxvj]
Anche nei casi di concisione la soppressione di informazioni dell’ipotesto fa sì che nell’ipertesto la saldatura delle informazioni si sfaldi e si allenti il controllo sulla coerenza generale del brano. Ad esempio, nel passo che segue, la CrN è meno perspicua e chiara della QP a causa dell’eliminazione del sintagma verbale fo pigliato e della parziale riformulazione che ne deriva: missere Annorico, conte de Sancto Martino in Montibus Preventis cardinale, fo mandato inde lo Reame per papa Clemento ad guardare lo dicto Reame. Fo pigliato con grandi honori inde la cità de Napoli (e) foli dato per stancia lo monasterio d(e) Sa(n)cto Severino. [QP cap. 120: Como missere Annorico cardinale fo gubernatore dello Riame. Capitulo lxxxxiiij] m(essere) Americo, cont(e) de Sancto Ma(r)tino in Mo(n)tib(us) P(re)ve(n)tis car(dina)le, fo ma(n)dato indel Ream(e) da papa Cleme(n)t(e) ad guardar(e) el Ream(e). Dove p(er) la cità de Nap(oli) et p(er) sta(n)cia li fo dat(o) lo mon(aste)rio de S(anc)to Severi(n)o. [CrN annot. al § 56, sul marg.inf. di c. 27v]
Infine, mi pare significativo che nel lavoro di concisione si perdano alcune caratteristiche dell’organizzazione sintattico-testuale dell’ipotesto. Cito, inevitabilmente in modo cursorio, alcune linee-guida sintattico-stilistiche del rimaneggiamento: la semplificazione di catene anaforiche fondate sulla ricorrenza parziale di parole-chiave mediante la convertibilità verbo-nome (vd. es. (1) chiamare-chiamata); la tendenza a risolvere le strutture ipotattiche del’ipotesto attraverso la linea duttile e rapida della successione paratattica (es. (2): [...] e durò la festa per uno mese. E facta la dicta festa e noze, se partìo lo re de Ungaria > durò per uno mese la festa et noze. Se partìo re de Ungaria, nomine Carllo); la soppressione delle gerundive e delle participiali prolettiche che nell’ipotesto fungono da uncinamento sintattico per favorire la coesione tra il periodo in cui sono inserite e il cotesto che immediatamente precede (vd. es. (2) per l’eliminazione di una subordinata participale che nell’ipotesto fungeva da elemento connettivo di ordine transfrastico): (1) fece chiamare tutti li Reale che stavano indella cità de Napoli. Alla quale chiamata contra consiglio humano, bestialissimamente, senza securitate, per loro peccati, ce andaro missere Roberto imperatore de Costantinopoli, missere Philosopho suo fratello [...]. [QP cap. 125: Como la regina Iohanna si partio per mare (e) gìo ad P(ro)venza per pagura del re Louise, re de Ungaria. Cap(itulo) C] et fece chiamar(e) tucti li Reali ch(e) era(n)o in Nap(oli). Dove, senza loro securità, bestialem(en) te nc(e) andaro m(essere) Roberto imperator(e) de Costantinopoli, m(essere) Philosopho suo fr(at) ello [...]. [CrN annot. al § 57, sui margg. sin. e inf. di c. 28v]
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(2) Dove foro facti assai triumphe (e) feste inde la cità de Napoli […]; (e) durò la festa per uno mese. (E) facta la dicta festa (e) noze, se partìo lo re de Ungaria chiamato Carlo (e) andosende in Ungaria. [QP cap. 102: Como fo contracto lo matrimonio tra lo re Andrea (e) la regina Iohanna prima (e) partìose lo re de Ungaria] Dove re And(rea) sposao la dicta regina Ioa(n)na p(ri)ma et durò p(er) uno mese la festa et noze. Se partìo re de Ungaria n(omin)e Carllo [...]. [CrN annot. al § 57, sui margg. sin. e inf. di c. 28r]
Sulla scorta di tale primo sondaggio, in vista di più ampie e articolate analisi, si può concludere che la testualità della CrN va assimilata a quella delle cosiddette «copie parziali» (Reeve 1994), nelle quali i passi originali sono affiancati da sezioni che dipendono da testi preesistenti: la facies sintattico-stilistica di queste ultime è quindi fortemente determinata dalla maggiore o minore capacità di rielaborazione sintattica e stilistica dell’ipotesto. In tali casi la doppia disamina, filologica e linguistica, consente, da un canto, di cogliere le diverse varietà e «sincronie» di lingua che coesistono nel singolo testo, dall’altro, di ricostruire le cause dell’interna stratificazione del tessuto testuale.
4. Conclusioni L’analisi sin qui condotta sulla QP conferma il giudizio dello storico Bartolommeo Capasso, che la definiva fonte di grande interesse per gli anni angioino-durazzeschi e ne auspicava una nuova edizione. A tal fine va tenuto presente che la stampa Del Tuppo disegna un nuovo assetto del corpus. In tale nuova architettura non rientrano i compendî da Villani e si introduce la cosiddetta QP come provvisorio tentativo di proseguire la Breve informazione di Caracciolo. In seguito, sottratta al circuito entro il quale era stata originariamente concepita, la QP è variamente sottoposta a mutamenti nella struttura (oltre che nella lingua), imputabili a una nuova e diversa selezione degli argomenti in funzione di rinnovati interessi politici e culturali impliciti nel lavoro dei rielaboratori.
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De Blasi, Nicola (1982): Tra scritto e parlato. Venti lettere mercantili meridionali e toscane del primo Quattrocento. Napoli: Liguori. De Caprio, Chiara (2004): Fra codice e testo: il caso della Cronica di Napoli di Notar Giacomo, con una riflessione sulla categoria di «codice-archivio». In: MedRom 28, 3, 390-419. –– (2011): L’edizione dei testi cronachistici in volgare. Problemi di metodo ed ipotesi di lavoro. In corso di stampa in: Archivio Storico delle Province Napoletane. Dionisotti, Carlo (1967): Geografia e storia della letteratura italiana. Torino: Einaudi. Genette, Gérard (1997): Palinsesti. La letteratura al secondo grado. Torino: Einaudi [ed. or. (1982): Palimpsestes. La littérature au second degré. Paris: Éd. du Seuil]. Givón, Talmy (1983): Topic Continuity in Discourse: an Introduction. In: Topic Continuity in Discourse: Quantitave Cross-Language Studies, Amsterdam / Philadelphia: Benjamins, 1-41. Ledgeway, Adam (2009): Grammatica diacronica del napoletano. Tübingen: Niemeyer. Librandi, Rita (2000): Gradazioni tipologiche e testuali nei «Sermoni» di Domenica da Paradiso (1473-1553). In: SLI 26, 2, 196-234. Monti, Giovanni Maria (1936): La «Cronaca di Partenope» (Premessa all’edizione critica). In: Dai Normanni agli Aragonesi. Terza serie di studi storico-giuridici. Trani: Vecchi & C., 31-59. –– (1945): Una nuova fonte di storia angioina: un’altra cronaca martiniana in volgare. In: Archivio Storico delle Province Napoletane 67, 75-98. Palermo, Massimo (1994): Il carteggio Vaianese (1537-1539). Un contributo allo studio della lingua d’uso nel Cinquecento. Firenze: Accademia della Crusca. Reeve, Michael D. (1994): Errori in autografi. In: Chiesa, Paolo / Pinelli, Lucia (edd.): Gli autografi medievali. Problemi paleografici e filologici. Spoleto: Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, 37-60. Sabatini, Francesco (1975): Napoli angioina. Cultura e società. Napoli: ESI. TLIO: Tesoro della Lingua Italiana delle Origini, a cura di P. G. Beltrami: http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO. Vàrvaro, Alberto (1999): Il testo letterario. In: Boitani, Piero / Mancini, Marco / Vàrvaro, Alberto: Lo Spazio Letterario del Medioevo. 2. Il Medioevo volgare. I.I. La produzione del testo. Roma: Salerno Editrice, 387-422. Ziolkowski, Jan M. / Putnam, Michael J. C. (2008): The Virgilian Tradition. The first fifteen hundred years. New Haven / London: Yale University Press.
Elena de la Cruz Vergari (Universitat Rovira i Virgili)
Li sens dans l’œuvre de Jehan Renart: étude sémantique
1. Contenu de l’article Nous analysons la diversité sémantique du mot sens dans l’œuvre attribuée jusqu’à présent à Jehan Renart, écrivain du XIIIe siècle en langue d’oïl, à savoir: l’Escoufle, le Lai de l’Ombre et le Roman de la Rose ou de Guillaume de Dole.1 Nous observons comment fonctionne cette polysémie à l’intérieur des textes comme élément lié à la conception et à la construction du texte littéraire de notre auteur.
Nous ne tenons compte que des textes narratifs «courtois», qui sont d’attribution certaine. Du Plait Renart de Dammartin contre Vairon, son roncin 40 atteste sentir «ressentir de la douleur»; De Renart et de Piaudoue XVIII, 3 et 5, où hors du sens fonctionne comme adjectif et sentir respectivement ; XXXI, 10 assener (Lejeune-Dehousse 1968: 377-442). Pour les textes étudiés, nous suivons la chronologie la plus récemment admise, brièvement esquissée dans Zink (1979: 7-16); nous présentons aussi les éditions suivies et leurs abréviations, entre crochets, ainsi que les traductions et les concordanciers utilisés: – Escoufle [Escoufle]: Le texte se conserve dans un seul manuscrit. Nous citons dans le présent travail l’édition de Michelant / Meyer (1894). Nous nous sommes servie de la traduction de Micha (1992). – Lai de l’ombre [Ombre]: Nous citons l’édition de Bédier (1929), en tenant compte aussi de son édition, dite critique (1890), et l’édition, plus récente, de Lecoy (1983), pour les variantes des 7 manuscrits conservés (d’où nous avons tiré la nomenclature). Nous nous sommes également servie de la concordance de Stasse (1979). Nous tenons compte de la traduction en italien de Limentani (1970); en espagnol de Carmona (1986) et de de Riquer (1987); en anglais de Winters (1986) et de Levy / Hindley (2004). Nous signalons aussi l’absence de traduction en langue française. – Roman de la Rose ou de Guillaume de Dole [Dole] est conservé dans un seul manuscrit. Nous citons l’édition de Lecoy (1962). Nous avons tenu compte du précieux concordancier d’Andrieu / Piolle / Plouzeau (1978), ainsi que de la base électronique du Laboratoire de Français Ancien (LFA, ); cette base peut être interrogée sur le site http://www.lib.uchicago.edu/efts/ ARTFL/projects/TLA/ (10/12/2010). En ce qui concerne la traduction, nous avons consulté la version en français moderne offerte par Dufournet / Kooijman / Ménage / Tronc (1979); et celle offerte en espagnol par Carmona (1991). 1
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2. Problème de départ Les prologues des textes médiévaux contiennent des mots métalittéraires tels matière, conjointure et sens. Cependant, nous pouvons rencontrer dans un même prologue le mot sens recouvrant plusieurs significations:2 il appartient à la sémantique littéraire et peut annoncer l’herméneutique mais il est, en même temps, relié à la tâche d’écrivain. A l’intérieur des textes, sens fait appel à la morale, à la sagesse d’un code courtois partagé par la tradition, l’auteur et le lecteur de l’époque. Puisque le mot sens apparaît donc lié à la production du texte, à la capacité de l’auteur, au code et à la réception, notre étude explore la sémantique de sens, le mot sémantique par excellence, pour aboutir aux procédés créatifs du texte, inscrits par un auteur qui construit consciemment son récit. A ce propos nous avons choisi l’œuvre de Jehan Renart, auteur en langue d’oïl du XIIIe siècle, pour les raisons suivantes: (i) conscience littéraire d’auteur3, (ii) attestations nombreuses et diverses de sens dans les prologues et les textes.4
3. Considérations préliminaires. Études précédentes L’étude de la signification métalittéraire de sens, d’usage restreint mais qui intéressait l’exégèse des textes, a abouti à un débat entre J. Rychner (1976), qui offrait une nouvelle interprétation du san, ‹talent› de l’auteur du prologue du Chevalier de la Charrette, et J. Frappier, défenseur de l’interprétation traditionnelle, «signification» du récit. Pour ce dernier, «le sujet offre au surplus un intérêt capital, car il met en cause non seulement l’interprétation du Chevalier de la Charrette, mais aussi l’art poétique de Chrétien et même celui du roman courtois en général» (Frappier 1972: 22). Favorable à l’interprétation de J. Rychner, D. Koenig (1973) a dépouillé 30 œuvres, dans Sen / sens et savoir et leurs synonymes dans quelques romans courtois du 12e et du début du 13e siècle, y comprises celles de Jehan Renart. L’auteur présente un classement sémantique très détaillé, défini par 12 significations, notamment ‹sagesse, intelligence›, et ‹bon sens›. En 1978, G. S. Burgess élargissait la liste dressée par Frappier à propos de Sen(s), ‹meaning›, in Twelfth-century french. Plus tard, en 1987, Brucker analysait dans le genre narratif du début du XIIIe siècle, où se situe la production de Jehan Renart, le champ sémantique de la sagesse de sens à travers 6 significations, dont ‹bon sens› est considéré la signification de base (XIIe et XIIIe siècle).
Les sémèmes seront entourés par des guillemets doubles [«], ainsi que les citations. Les sèmes par des guillemets simples [‹]. Nous avons essayé d’éviter l’emploi sémantique, au sens strict, de sens. Dans notre texte, nous avons réservé signification pour caractériser le sémème linguistique de sens, au sens large. Pour la terminologie, voir Guiraud (1986). 3 Autour de la conscience littéraire de Jehan Renart, voir Simó (1999: 208) et Zink (1979: 26). 4 Burgess (1989: 73): «cortoisie and sens are central to the way Jehan Renart has structured his text». 2
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4. Analyse des occurrences du corpus Notre corpus est formé de 78 occurrences du substantif sens sous trois formes différentes: sen, sens et senz, que nous retenons comme des variantes.5 Ces trois variantes, que désormais nous rassemblons sous l’étiquette à but unifiant de «sens», apparaissent: 46 fois dans l’Escoufle, 15 (+1 attestation, écartée à juste titre par tous les éditeurs, v. 194, ms. CGF) dans Ombre6, et 17 dans Dole. 4.1. La rime et la possession du sens Dans les couplets où apparaît sens en fin de vers (Escoufle 12 att.; Ombre 8 att.; Dole 7 att.), la rime la plus sollicitée est celle des pronoms possessifs (dont la forme varie selon les éditions: suen/s, sien/s, soen/s respectivement), (Escoufle v. 2766, 3190, 7706; Ombre 193, 376, 572, 614, 876, 914; Dole 599, 2064, 2356, 2494, 3100, 3378).7 Sur 78 occurrences de sens, 32 sont déterminées par des adjectifs possessifs: 25 à la troisième personne (singulier et pluriel)8, 7 à la première personne du singulier9, et 1 à la deuxième personne du pluriel, en vouvoiement (Escoufle 8065). La proportion diminue du point de vue chronologique de l’œuvre: 24 attestations sur 45 dans Escoufle, Ombre 5/15, Dole 3/17. Mais d’autres structures verbales: avoir, enclore [en li], metre, chargier, estre nue (‹dépossédée›), estre plaine, estre [en li]10 nous semblent exprimer autrement la même notion de possession, ainsi que les compléments de nom (Ombre 867 et Dole 2931). Nous nous accordons avec Koenig (1973: 135): «Jean Renart semble avoir considéré ces trois formes comme appartenant au même mot». Koenig (1973: 135-149) analyse le sémantisme, de sen/sens/senz dans les textes de Jehan Renart retenus dans notre travail. Le tableau reproduit à la page 136 (où sont répertoriées toutes les formes des manuscrits) coïncide avec le nôtre sauf pour O[mbre] 426 CDEFG où, d’après l’édition critique publiée par Bédier (1890), le manuscrit B y serait aussi concerné. 6 Nous suivons le texte de Bédier (1929) issu du manuscrit E. 7 Tens (Escoufle 3516, 4241); suivent les formes verbales du présent de l’indicatif à la première personne du singulier pens(e) (Escoufle 3929, 7771) et porpense (Escoufle 5137); la même forme sens (Escoufle 3286-7; Ombre 425-6); et le nom de la ville, Sens (Escoufle 5385, 7159). 8 Escoufle 2, 118, 1315, 1576, 2118, 2842, 3190, 3126, 3256, 3718, 3908, 3915, 3950, 4264, 4532, 5488, 7472, 7552, 7560, 7600, 8498; Ombre 35, 39, 956; Dole 5276. 9 Escoufle: 2557, 3288, 3516, 5559; Ombre 3, 614. 10 Tournures sans possessif mais avec une valeur que nous jugeons d’appartenance: Verbe avoir: Escoufle 2766 (renforcé avec tant), 3130 (tournure négative), 5555; Ombre 6; Dole 3013 (avec la tournure plus… que nule…), 3650 (avec tant); imparfait du subjonctif: Escoufle 7159 (imp. subj., subordonnée hypothétique; avec autant).Verbe enclore [en li]; (passé composé, aux. avoir): Escoufle 3713. Le verbe metre (plus-que-parfait de l’indicatif, aux. avoir), Escoufle 4129: «Et nature avoit en eus mis Tant sens et biauté, et franchise». Verbe chargier (imparfait de l’indicatif, aux. estre; tournure négative): Escoufle 5137: «A ce pert bien que n’iere mie Chargiés de raison ne de sens». Périphrase estre nue (plus-que-parfait du subjonctif): Escoufle 5443: «S’or estïés ci toute nue De sens et d’avoir et d’amis». Périphrase estre plaine (imparfait de l’indicatif): Dole 720: «Tant ert plaine de cortoisie Et de sens o la grant beauté». Estre [en li]: Escoufle 5574, 8498. 5
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4.2. Par son sens et la coordination de sens Le sens désigne souvent la qualité qui permet la réalisation d’une action adéquate (Brucker 1987: 339) et il introduit la valeur circonstancielle à travers la tournure par+déterminant possessif11, souvent coordonnée avec des mots dénotant d’autres qualités. Sens apparaît coordonné12 à d’autres qualités courtoises que nous présentons en ordre décroissant: biauté / beauté (7 occurrences; concernant des sujets masculins aussi bien que féminins), raison / reson (4 occurrences), prouece / pröece (3 occurrences) et à l’allégorie d’Amors dont une occurrence apparaît dans une bataille que mènent raison et sens contre Amors et les autres deux en alliance avec Amors, après un combat intérieur ou dialectique [voir infra 4.3]. Si dans Escoufle la coordination est souvent employée, les autres textes en font un emploi plus sobre et forment plutôt des paires en opposition. Le prologue d’Ombre 35-36 oppose sens et mesure à folie.13 De même, les expressions relevées dans les textes de notre auteur: [issir/estre] fors del sens (Escoufle 3516, 7706), hors du sens (Dole 3378) s’opposent à raison/reson et font ainsi appel au ‹bon sens›. 4.3. Le sens comme sujet Le sens est aussi sujet d’actions.14 Souvent, la personnification devient allégorie manifeste dans la représentation psychologique des luttes intérieures des personnages où Sens est en alliance avec raison/reson et raprime, tense, tout le hardement, emble le duel et remet es voies de raison. Dans Escoufle 7552 le sens semble assurer la prudence15 et, en dernière instance, capable d’aprendre aucune rien à aucun (Dole 5276). Si Amour peut participer de la folie, sens pourrait s’associer à ce qu’aujourd’hui nous appelons ‹conscience› (Escoufle 3910). Ainsi, le sens contrôle le comportement du sujet, Escoufle 118, 1260, 1315, 1576, 2118, 3126, 4241, 5488, 747; Escoufle 4241, Ombre 376 et Dole 4060 et 5551 seront classés comme des expressions, voir infra 4.4. 12 Nous ne considérons que les qualités coordonés à travers les conjonctions et et ni. Escoufle: savoir (118), effors (1260), aiue (1315), dons, onor (1576), despense (2118), biauté (2766), vasselages (2842), prouece (3126), aage (tournure négative; 3130), Diex (3190), eürs (tournure négative; 3512), biauté, proesce (3713), amor, raison (3929), raison (3950), biauté, franchise (4129), gentillesce (4264), raison (5137), avoir, amis (5443), joiaus (5488), espoir, mesure (tournure négative; 5555), avoir (7159), aiue (7472), Amour (7565). Ombre: debonneretez, biauté (140), vie (193), cortoisie (425), Amors (956). Dole: proece (350), beauté (720, 3013), cuer (3100), reson (3650), biauté, pris (3656). 13 Rappelons que l’édition de Lecoy (1983) diverge et le vers 35 ne contient pas sens dans ce vers. 14 Escoufle «Se mes sens a moi nel raprime» (3256), «Mais ses sens li aloit emblant Son duel, por decevoir son pere» (3718), «Et ses sens la remet es voies De raison, qui mout li keurt seure» (908), «Se ses sens ne l’eüst tensée, El li fust lués salie au col» (7552), «Ne traient pas a une corde Sens et Amour uniement» (7565), «Ses sens [l’]en tout le hardement Et hontes, qu’ele crient et doute» (7600), «Com m’a vostre sens deceüe Ki vous ai entor moi eüe» (8065), «Mais ses grant sens vaint et seuronde Sa biauté avoec la largece» (8498). Ombre «Ses sens sa folie entrelet Et mesaventure le let» (5). Dole «Ne se contint pas come sires, Car ses granz senz et sa proece, Sa bonté et sa grant largece L’assist mout plus bas que ne die (Ce li vint de grant cortoisie)» (350), «Ses granz senz li a ja appris» (5276). 15 «Etant situé à l’opposé de la notion ‹mouvement passionnel›» (Brucker 1987: 334). 11
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pour le maintenir loin de toute action déraisonnable, même avec des sentiments positifs (Escoufle 7706): «Il sembloit estre fors del sens, Tant ot de joie et de lïece». 4.4. Expressions avec sens Nous relevons quelques expressions rattachées à sens: Issir (fors) del sens Estre fors / hors del sens Estre en son sens Par sens Faire sens Venir de grant sens En tos / toz sens En autre sens
Escoufle
Ombre
Dole
3516, 7706
614
3378, 5218
4241 5385 3287 -
376 572, 876 914 426
4060, 5551 599, 787, 2064, 2494 2494 -
Et deux structures parallèles de type proverbial: Ombre 914 «Mout vient a homme de grant sens, Qu’i fet cortoisie au besoing».16 Dole 2064 «Mout vient a home de grant sen, Qui fet cortoisie au besoig».17
4.5. Sentir et dérivés Nous ne retenons pas dans notre étude le verbe sentir (Escoufle 3028, 4650, 4656; Ombre 123, 401; Dole 4587) ni asener (Ombre 908, 402) ni le substantif asentement (Escoufle 8579), à cause de sa faible présence. Nous n’avons recensé aucune attestation de l’adjectif sené/e. Forsené/e n’apparaît qu’une fois dans nos textes (Dole 3951); Jehan Renart semble préférer les expressions de trait possessif type avoir sens (Escoufle 7159, 7771; Dole 3013), estre plaine de sens (Dole 720); ou, au contraire, estre / issir fors / hors del sens (Escoufle 3516, 7706; dans Dole 3378, il apparaît en tant qu’adjectif). 4.6. Conclusions de l’étude des occurrences En dépit du grand nombre d’attestation de sens dans l’Escoufle (46 occ.), il est présent dans un style formulaire: d’un côté 23 sont associées à d’autres qualités courtoises (y comprises les personnifications) [4.2, 4.3], 34 avec un trait de possession et 9 avec la tournure par+déterminant possessif [4.1]. Si nous examinons Ombre et Dole, ce sont les expressions «Qu’i fet cortoisie au besoing» corriger Qui, comme le montre l’édition du même Bédier (1890). Sous une forme un peu différente mais avec la locution venir de grant sen et besoig: Dole 599 «Et ce li venoit de grant sen, Q’a son besoig estoit tot prest».
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figées faire [un grant] sens et venir de grant sens qui, respectivement et proportionnellement à Escoufle, ont une forte présence [4.4]. Du point de vue chronologique, nous assistons à une variation stylistique de l’auteur qui équilibre ses emplois grâce à la limitation des traits récurrents dans l’Escoufle. D’un autre côté, dans le dernier texte en date étudié, les occurrences se situent appuyées à la rime, où semblerait aussi se glisser le trait possessif [4.1].
5. Li sens dans l’œuvre de Jehan Renart: étude sémantique 5.1. Le sens intérieur ou la «connaissance»: du savoir-vivre au savoir-faire Parmi le choix des multiples sèmes proposés par les études critiques de la sphère du sens intellectuel, nous voudrions signaler deux sèmes qui peuvent, tout en tenant compte de l’insertion des textes dans un code littéraire concret, aider à la compréhension du récit de notre auteur.18 Nous estimons que, les concepts modernes de savoir-vivre et de savoir-faire peuvent s’appliquer à notre auteur et à des contextes affins. Autrement dit, d’un côté il s’agirait de la ‹sagesse› et, de l’autre, du ‹savoir›. Le Nouveau Petit Robert (Robert 1996: 2045) offre des définitions qui assument les significations présentées au cours de notre étude: pour savoir-vivre les deux acceptions nous semblent adéquates, la première étant «art de bien diriger sa vie», qui sous-entend une nuance morale renforcée par l’adverbe bien et où se trouve implicite la «direction» attesté par le verbe diriger; la deuxième acception «qualité d’une personne qui connaît et sait appliquer les règles de la politesse» fait appel à un code quelconque constituant des règles précises de conduite et rattaché donc aussi à une morale; la première acception de savoir-faire convient aussi aux textes: «habilité à faire réussir ce qu’on entreprend, à résoudre des problèmes pratiques; compétence, expérience dans l’exercice d’une activité artistique ou intellectuelle».19 À partir de l’établissement de ces deux sèmes l’œuvre de Jehan Renart est pleine de sens ‹savoir-faire›. La notion base n’est pas ‹bon sens› ni ‹sagesse› chez notre auteur même s’il s’en sert lorsque le sens est opposé à folie et allié à reson / raison. 5.1.1. Sens personnifié: le ‹savoir-vivre› Sens est un gardien des passions subies par les personnages féminins, moteurs de l’action (Carmona 1988: 84). Dans Jehan Renart les pulsions des héroïnes ne se cachent pas, au contraire, elles semblent diriger la trame, ce mécanisme littéraire construit par le sens de Toutefois, nous signalons que les traductions consultées ne s’accordent pas toujours à cette distinction. Par exemple, l’expression venir de grant sens n’offre jamais, dans les traductions consultées, une solution sémantiquement stable. 19 La solution ici proposée ne manque pas d’exceptions et ne prétend éliminer sa profondeur et sa rigueur complexe. Il est parfois difficile d’attacher une notion dynamique ou statique au contexte mais, en général, elle nous semble pouvoir aider au déchiffrement du texte. Pour le sème ‹bon sens›, si adéquat dans son opposition à «folie», nous préférons aussi la formule savoir-vivre puisque la folie du chant courtois nous semble rattachée à la démesure et à ce qui est inconvenable du point de vue du code. 18
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l’auteur [voir infra 5.1.2]. Dans l’Escoufle, Aelis suit deux mouvements: le premier contre sens, lorsqu’elle saute par la fenêtre et suit amors; dans le deuxième mouvement, conseillée par sens, elle entend jusqu’au bout le récit de Guilliaume, avant de se jeter à son cou. La réception devait attendre avec la même émotion réprimée la rencontre des deux aimants, postposée pendant plus de 300 vers, dans un mise en abyme qui permet la reconnaissance et aboutit au climax final, fêté à grand train. Dans l’Ombre, l’union de sens et amors entraîne celle des cœurs des héros du lai. Ensuite, dans Dole, le sens de Lïenor permet la fin heureuse du récit: «Mout est bien la chose avenue, Si com el l’avoit proposee» (Dole 5022-5023), «Par son grant sens ravigora Sa mere et toz ceuz de l’ostel» (Dole 4060-4061); Chez Jehan Renart c’est le savoir-faire du domaine de la parole qui triomphe, tandis que la force physique est ridiculisée; lorsque le neveu se jette sur Lïenor, acusée d’outrage: «Il a trete l’espee nue Et s’en vet grant pas vers la sale […] Il s’est abuissiez a un fust Si qu’il chaï o tot s’espee […] Or n’a il pooir que il face trop grant mal, se n’est de parole» (Dole 3916-3917, 3924-3925, 3930-3931). 5.1.2. Les prologues: le ‹savoir-faire› Analysons maintenant les prologues20 des trois textes comme espace privilégié du discours métalittéraire et directement rattaché à l’écrivain du XIIe et XIIIe siècle. Notons tout d’abord que Jehan Renart n’emploie jamais le terme sens avec la signification que la critique a dégagée dans les prologues si étudiés de Chrétien de Troyes ou de Marie de France qui parlent de la senefiance du récit [voir supra 3], mais avec celle de ce ‹savoir-faire›21 qui triomphe, de cette ingéniosité qui doit servir à bien dire, en opposition à la conduite de ce sénéchal dont Jehan Renart nous dit que «Bien les a toz morz et traïz Par son engin li seneschaus» (Dole 40444045). Le prologue d’Ombre, qui contient 4 occurrences, insiste sur ce même point (4-6): Mès, puis que j’é le sens d’estruire Aucun bien, en dit et en fet Vilains est qui ses gas en fet
L’auteur le souligne encore à la fin du prologue d’Ombre: (v. 38-40): «Et por ce ai cest lai empris Que je voil mon sens desploier A bien dire…». 5.2. Li sens entre «signification» et «manière / direction»: une polysémie déclarée Mais Jehan Renart ne nous parle point de l’autre sens «signification» dans ses prologues. Nous devons chercher à l’intérieur des textes pour trouver une «signification» toute diverse.
Nous suivons la délimitation des prologues des éditions choisies: Escoufle 1-46, Ombre 1-52, Dole 1-30. 21 «The notion of user son sens is evidently for Jehan at the heart of the creative process. Sens must here be interpreted as ‹talent, literary skill›. Jehan is convinced of his ability to impart something significant to his public» (Burgess 1989: 74).
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5.2.1. En autre sens Juste à l’équateur du lai, la dame explicite une mauvaise interprétation par le chevalier de son comportement. Cette occurrence attire notre attention:22 Je n’entendoie au regart rien Se cortoisie non et sens; Mais vos l’avés en autre sens Noté folement: si m’en poise. [Ombre 424-427]
Le message est ici concerné: autre souligne la possibilité multiple de choix dans l’interprétation de l’acceuil offert par la dame au prétendant.23 Burgess le relie au sèmeme «manière» mais, en tout cas, le sens de la phrase ne varie pas puisque la signification du geste continue à être à la source de la polysémie exprimée par le déterminant. 5.2.2. En toz sens Dans les langues romanes en tous les sens [du terme] ou dans tous les sens [d’un mot] (fr.), en tots els sentits (cat.), en todos os sentidos (gal.), em todos os sentidos (port./bré.), en todos los sentidos (esp.), in tutti i sensi (it.) la polysémie est présente. Deux occurrences témoignent de cette locution (Escoufle 3286, Dole 2494). L’Altfranzösisches Wörterbuch (2002: 9, 463) n’est pas très précis, dans l’article sens, il regroupe trois expressions: a toz sens, de toz sens, en toz sens u. ähnl. traduites par «in allen Richtungen, von allen Seiten, in jeder Weise». Nous interrogeons les deux attestations de l’expression pour voir comment elles peuvent fonctionner du point de vue sémantique dans leur emploi syntagmatique. Jehan Renart nous décrit le cheval de Guillaume de Dole (2494) «A tornoiement n’avoit tel Palefroi com estoit li soens, Qu’il estoit plus blans en toz sens Que ne soit nule noiz negie». Lecoy (1962) traduit dans son glossaire «sous tous les rapports», mais la «signification» peutêtre aussi convoquée et l’adjectif blans pourrait faire référence à la couleur mais aussi à la qualité de brillant (Tobler / Lommatzsch 1973: 10, 138). Escoufle 8936-8937 mêle le blanc à la lumière: «Si que la clarté de cascune [piere] Luist sor le blanc de sa poitrine». Dans l’Escoufle, Aelis est triste d’être séparée de Guillaume, la scène est très sensuelle: […] Ele s’est nue Levée en son lit en estant; Entre ses dens a dit itant: «Ahi! Guilliaumes, biax amis, Tantes foïes avés mis Vos beles mains qui si sont blanches A cest bel ventre et a ces hanches Et tasté mon cors en tos sens ! [3280-3287] Nous suivons l’édition de Bédier (1890) à cause d’une ponctuation que nous jugeons plus adéquate. Rappelons que l’édition de Lecoy (1983) diverge: «mes vous l’avez en autre assens». 23 Les traductions consultées varient selon les solutions choisies et la ponctuation: Limentani (1970: 55) «Ma voi in altro modo, stoltamente, L’avete interpretato»; Levy / Hindley (2004) et Winters (1986: 112) dans leurs glossaires: «sense, meaning». Carmona (1986: 84) «que lo hayas interpretado tan neciamente». 22
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Les traducteurs n’hésitent pas à rendre tasté>tâté24 du français moderne et en accord avec vos beles mains (Micha 1992), mais Tobler / Lommatzsch (2002: 10, 138) nous rappellent que le sens du goût pouvait aussi être concerné, comme dans tastar (cat.), a. pr. tastar, a. esp. tastar, it. tastare et ses dérivés. Jehan Renart profite de cette polysémie dans un entourage syntagmatique propice, qui confère à l’image un goût licencieux. Plusieurs études appuient ce procédé stylistique de Jehan Renart qui se sert de la polysémie pour offrir des sens simultanés à la réception comme un défi interprétatif, d’où les lecteurs avisés tireront un sourire complice.25 Et en dernière instance, rien ne nous empêche d’y ajouter «manière». La simultanéité des sémèmes de sens produit un effet où se fondent plusieurs images érotiques dynamiques, comme un sorte d’image narrative suggestive dont les scènes se multiplient et convoquent tous les sens.26 5.2.3. La mise en abyme du procédé créatif de Jehan Renart: entre polysémie et homophonie L’auteur nous expose ce procédé dans la scène où Aelis cache à la comtesse ses larmes lorsqu’elle entend le nom de son aimé: ‑– Por coi? –Dame, por mes amis Que j’ai si tos arriere mis Que jou n’en sai ne vent ne voie. Or oiés com el l’en desvoie Celant l’ami sos les amis: Por tant seulement qu’ele a mis Une letre après le mi, Li fait ele le nom d’ami Et l’amor par pluisors entendre [Escoufle 7317-7325]
Dans l’autre occurrence, Dole 3661 «Il tasta a son affichal», tasta ne peut faire référence qu’au toucher. Voir aussi Cortés Zaborras (2000: 353): «conjugando ambos sentidos mediante el verbo deduire» cite «que que nous nous deduis[ï]ons Com amant en mainte manière» (Escoufle 7592-7593). Clifford (1986: 89) le souligne aussi: «[…] in the Le Lai de l’ombre they [the linguistic clichés for courtly love] contribute to a style which intermingles linguistic tones and which is paralleled by a narrative where several different interpretations are possible». Álvarez (1995: 545) signale dans Dole: «a malícia de Jouglet –e Jouglet é uma figura do narrador– mantém em tensão um sentido ‹normal› ou inocente e um sentido perverso ou obsceno». 26 Zink (1979: 120-123) expose la technique de Jehan Renart qui: «invite son lecteur à analyser le roman, à le décomposer en ses divers éléments de façon à saisir le sens de chacun d’eux en prenant conscience du travail de l’écriture qui s’exerce sur lui […] ce décalage constamment entretenu, ce glissement perpétuel à côté de la norme […] tout cela met en évidence le processus de l’écriture qui crée ces équivoques, les supporte à la force du style, elles et leur sens […]. Le sens n’est pas à chercher en profondeur, en creusant péniblement sous le texte, mais il est le résultat d’un mouvement latéral, d’un glissement à la surface du texte […] Il ne laisse voir de lui qu’un sourire […] il ne se manifeste que par ses artifices.» 24 25
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6. Conclusions: li sens dans l’œuvre de Jehan Renart Dans l’œuvre de Jehan Renart li sens renvoie au ‹savoir-faire›; le ‹bon sens› et la ‹sagesse› y sont discrètement attestées et les sens perceptifs et l’idée essentielle de l’œuvre littéraire n’y sont jamais convoqués. Comme l’expose le prologue de Dole, l’auteur se concentre sur ses procédés créatifs. Li sens est intérieur et il est projeté, à l’aide de la préposition par et des verbes de mouvement, surtout à travers ses héroïnes. Aelis ne tombe pas dans la misère à cause de son savoir-faire, le chevalier du lai fait preuve de grant sens ainsi que le stratagème de Lïenor. Les gestes et les astuces, la fortune qui éloigne le bonheur et puis rassemble tout est, en fin de comptes, le résultat du sens desploié par cet auteur sur ses personnages, qui s’efforce au bien dire. Car ce savoir-faire de la parole peut aussi s’employer au mal dire, comme fait le sénéchal de Dole. Ce double usage moral revient à la réception, interprète active d’un message polysémique superposé où, loin de la sagesse et du bon sens, l’auteur habile peut accorder un espace sensuel subtilement évoqué.27
Figure 1: Sémantisme de li sens dans l’œuvre de Jehan Renart28
Je remercie May Plouzeau, Gilles Roques, Albert Gier, Anna Maria Mussons, Jacky Verrier, Cosima Vergari et Fray Xavier [bibliothécaire du Montestir de Poblet] pour leur soutient et por lor grant sens. 28 Par des soucis de visualisation de la coïncidence entre les aires concernées, notre figure ne représente pas les données quantitatives, puisque le sémème «connaissance» l’emporte sur les autres (96%). 27
Li sens dans l’œuvre de Jehan Renart: étude sémantique
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Antonio Augusto Domínguez Carregal (Universidade de Santiago de Compostela)
Doo no léxico do sufrimento amoroso da lírica profana galego-portuguesa1
1. Introducción Dentro da tradición poética da lírica profana galego-portuguesa, o campo léxico do sufrimento amoroso xoga un papel primordial na configuración dos xéneros poéticos, a saber: a cantiga de amor, a cantiga de amigo e a cantiga de escarnio. Nesta familia lexical, temos termos destacados como coita, afan, pesar e verbos como sofrer, levar, viver. Neste traballo, analizaremos a presenza do substantivo doo e dos seus termos afins (doer, dor) na tradición lírica galego-portuguesa.
2. Etimoloxía Dentro da familia léxica de doo, atopamos en galego-portugués tres formas principais (doer, doo e dor), con significados diferenciados, aínda que derivadas dunha mesma raíz verbal latina. Como observan Ernout e Meillet (41985:181): doleō, -ēs, -uī (dolitus sum attesté épigraphiquement), -itum, -ēre (formes tardives doleunt, doliēns): éprouver de la douleur, avoir mal, souffrir (physiquement et moralement) (...). Ancien, usuel. Panroman. M. L. 2721 Formes nominales, dérivés et composés: dolor m.: douleur. Ancien, usuel, panroman, M. L. 2724.(...) En bas latin, à côté de dolor apparaît une forme dolus (refaite sur le génitif pluriel dolōrum commun à dolor et à dolus?), qui est demeurée dans les langues romanes, à côté de dolor: fr. deuil, it. duolo, esp. duelo, etc.; cf. B. W. s. u.; M. L. 2727 et Thes. s. u. dolor, 1827, 25 sqq.
O presente traballo realizouse no marco de actividades englobadas no programa de bolsa de FPI vinculada ao proxecto HUM2005-01300, «El vocabulario de los trovadores gallego-portugueses en su contexto románico» do Ministerio de Educación e Ciencia, financiado con fondos FEDER.
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Como podemos observar, en latín clásico os termos formantes desta familia léxica expresan indistintamente a dor física e a psicolóxica. A forma dolus aparecerá posteriormente, en época tardoimperial, e desde cedo especialízase para a expresión da dor psicolóxica, como xa sinalaron Löfstedt (1936: 96-97) e Piel (1940: 234), que afirma a propósito da creación dos substantivos deverbais: Existem em latim também substantivos da primeira e da segunda declinação, que correspondem a verbos das três outras conjugações, p. ex. mola a partir de molĕre, gaudium a par de gaudēre, e o port. dó, ant. doo, ou, melhor, que dolus perdeu o seu antigo significado por ser interpretado como um abstracto de dolere demonstra que de dolēre se criou um substantivo dolus, sinónimo de dolor
E destaca em nota ao texto: O emprêgo de dolus por dolor é censurado por S. Agostinho como sendo contrário ao bom uso: multi fratres imperitiores latinitatis loquuntur sic, uc dicant «dolus illum torquet» pro eo quod est «dolor» (in Evang. Joh. 7,18), contudo o próprio S. Ambrósio emprega dolus neste sentido, o que aliás se verifica em numerosos textos e inscrições vulgares e tardios.
A difusión da oposición entre dous substantivos, dolor ‹dor física› e dolus ‹dor psicolóxica› deuse xa desde antigo, xa que existen resultados etimolóxicos das dúas formas en practicamente todas as linguas románicas, como atesta o REW (51972: §§2724, 2727), aínda que a situación é lixeiramemte distinta en cada lingua en concreto. En galego-portugués, rexístranse os dous subastantivos con significados diferenciados desde antigo. Así, Machado (51989: II, 350-357) recolle xa no século xiii atestacións dos dous termos co significado actual, así como Lorenzo (1977). Xa na área galorrománica, a situación é diversa. Como observa Warturg no FEW (III, 119-122), dolor Im gallorom. ist es nicht sehr volkstümlich; es ist viel eher ein ausdruck der medizin, der kirche, der literatur. Im volk sagt man eher mal usw. Deshalb ist auch douleur in den dial. wb. wenig belegt.
Pola contra, dŏlus recollería na lingua popular ambos significados: Die meisten gallorom. idiome haben die allgemeine bed. «physischer oder moralischer schmerz» bewahrt.
Polo tanto, temos aquí unha situación bastante diverxente da que podemos apreciar no caso galego-portugués. Interésanos especialmente a situación desta familia lexical na lírica medieval de expresión occitánica e oïtánica, xa que son dúas tradicións literarias coas que entronca a poesía profana galego-portuguesa. No caso da lírica occitana, podemos observar a análise de Bec (1968: 548-549), que non ve distincións semánticas entre os dous termos: Dol. Ce lexème, à l’instar de toutes les variantes lexématiques développées autour du même noyau sémique (dolor, dolent, doler), constitue à lui seul un signifiant minimal et, par là, inducteur: c’est-à-dire qu’il peut suffire sans expansion ni contexte, à colorer douloureusement tout un énoncé.
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Dentro desta familia léxica, polo tanto, non habería grandes diferenzas de significado entre os diferentes termos. Bec enumera de seguido as variantes, sen afondar en distincións, como no caso de dolor: Dolor. C’est, de toute évidence, un lexème également fondamental.
A seguinte especialista en traballar o léxico poético occitano, Cropp, segue a opinión do autor precedente. Ao analizar os termos relacionados ao sufrimento na lírica occitana, a autora dedica unha epígrafe aos termos dol, dolor (1975: 280-282), e afirma: Issus respectivement du lat. médiéval dolus et du lat. cl. dolor, les termes dol et dolor, ‹douleur, chagrin›, s’emploient tous les deux en ancien provençal pour désigner la douleur physique et la douleur morale. Ils apparaissent parfois l’un à côté de l’autre.
Como vemos, os dous estudiosos coinciden en agrupar os dous termos como equivalentes sinomímicos e consideran o seu uso alternante como simple variación estilística. No caso da lírica francesa medieval, a situación é lixeiramente diversa. Lavis (1972) destaca na súa monografía o papel central da oposición joie / dolor na lírica d’oïl, e dedica un capítulo ao estudo dos termos englobados no campo léxico de dolor. Dentro da súa lista de «substituts partiels» deste, destaca duel, e dá unha definición etimolóxica do mesmo (1972: 276): Duel répresente le latin dolus, attesté depuis le iiie siècle après J.-C. et qui a survécu dans les parlers gallo-romans avec le sens ‹douleur›; en moyen français, s’est dévelopée la signification ‹chagrin provoqué par un decès›. Notons encore que dolus s’est conservé quasi dans toute la Romania: roumain dor, italien duolo, friul dul, catalan dol, espagnol duelo, portugais dó (FEW III, 121 b).
Ao final da exposición dos hipónimos de dolor en francés antigo, o autor danos unha táboa comparativa (1972: 284) entre os mesmos. Para este, o termo será o hiperónimo do campo sémico, portando todos os significados posibles relacionados coa dor, e duel será un membro máis da familia, opóndose semanticamente a este pola ausencia dos trazos [englobant] e [physique], isto é, o segundo termo estará reservado soamente a descricións de sufrimento de carácter psicolóxico e específico.
3. Doo na lírica profana galego-portuguesa Dentro da nosa tradición lírica, temos unha situación lixeiramente diversa das tradicións líricas galorrománicas, xa que non se rexistra a presenza do substantivo door, que sí estará presente nas Cantigas de Santa Maria2, cun significado dobre de dor física e psicolóxica: Ca Deus en ssi meesmo, ele mingua non á, nen fame nen sede nen frio nunca ja, nen door nen coyta; pois quen sse doerá del, nen piedade averá nen pesar? (CSM 50) Citamos o texto pola edición de Mettmann (1959-1972).
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No caso de doo, contamos na lírica profana galego-portuguesa3 cun número reducido de exemplos, empregados en contextos moi similares. Así, nas cantigas de amor, dispomos dunha vintena de aparicións, que sempre obedecen unha mesma situación actancial: o trobador, eu lírico, roga a un interlocutor –xeralmente a súa senhor– para que se apiade do seu sufrimento amoroso, causado pola altivez da amada; situación que é xeralmente expresada por esquemas verbais do tipo aver, prender ou tomar doo, como podemos observar nos seguintes exemplos:4 Senhor fremosa, par Deus, gran razon seria ja agora se en prazer vus caesse de quererdes prender doo de min; ca ben dê-la sazon que vus eu vi e que vusco falei, Deu-lo sabe, ca nunca desejei ben d’ este mundo se o vosso non, (VasFrzSend, 151,26, I)
Non á ome que m’ entenda com’ og’ eu vivo coitado, nen que de min doo prenda, ca non é cousa guisada. Ca non ous’ eu dizer nada a ome que seja nado de com’ og’ é mia fazenda! (FerRdzCalh, 47,15, I)
Meu Sennor Deus, venno-vus eu rogar, con a mayor coita que nunca vi aver a ome, avede de mi doo, Sennor, e nunca tal pesar me façades, meu Sennor Deus, veer per que eu aja o corp’ a perder! (FerGarEsg, 43,5, I)
Porque vus nunca podedes perder en aver doo de min, e por qual vos fezo Nostro Señor, e por al porque soub’ eu qual sodes, coñecer, e polo ben que vos quer’ outrossí ¡ay, meu lume, doédevos de min! (PayGmzCha, 114,21, III)
Senhor, todos m’ entenden ja mia morte ond’ ei eu a morrer. E an mui gran doo de mi; e non mi poden i valer; ca dizen que eu mi-o busquei mui ben, porque eu vus ameimolher a que non ousará (nen soo non s’ atreverá) nulh’ ome de lhi falar i. (NunEaCer, 104,10, I) Ay mia senhor! lume d’ aquestes meus olhos, que eu vi sempre por meu mal, non vus ous’ eu por min falar en al; mais, mia senhor, rogo-vus eu por Deus que vus prenda doo de mi por quant’ affan por vos soffri! Avede vos doo de mi por quant’ affan soffr’ e soffri! (VaGil, 152,13, III e fiinda)
E se o vós, mha senhor, entender esto quiserdes, averedes hi, a meu cuydar, algun doo de min. Poys vus Deus fez tanto ben entender, entended’ or’ en qual coyta me ten o voss’ amor porque vus quero ben. (RoyPaezRib, 147,13, II)
Tal hom’ é cuitado d’ amor que se non dol ergo de ssy; mays d’ outra guis’ aven a mi, se mi valha Nostro Senhor: por gram coyta que d’ amor ey ja sempre doo averei de quen d’ ele coytado for, (MartSrz, 97,43, I)
Citamos os textos por MedDB: base de datos da lírica profana galego-portuguesa, dirixida por Mercedes Brea. A identificación dos trobadores e a numeración dos textos segue a proposta de Tavani (1967), corrixida puntualmente pola base de datos. 4 Aparte dos exemplos citados, o termo é empregad tamén nas cantigas 109,1; 15,12; 79,12; 79,37; 79,46; 44,9; 123,6; 25,102; 25,111; 133,6 e 157,12. 3
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Somente nun caso constatamos un distanciamento deste esquema actancial, cando o trobador expresa a súa angustia amorosa a través dun simil metonímico: Que doo que agora ey dos meus olhos polo chorar que faram, poy’ los eu levar, senhor, hu vos non veerey, ca nunca os ey a partir de chorar, hu vos eu non vyr. (RoyFdz, 143,16, I)
No caso das cantigas de amigo, existe unha maior diversidade temática, xa que hai máis personaxes que interveñen como suxeitos líricos, en distintas situacións. Contamos con 11 exemplos de uso en 9 cantigas, tanto de autores que o empregan nas súas cantigas de amor como de outros que non o fan. Así, nalgúns casos o eu lírico feminino, a amiga, terá pena do sufrimento do amigo, e así o expresará: Pero que eu meu amigo roguei que se non fosse, sol non se leixou por mi de s’ ir, e, quand’ aqui chegou, por quant’ el viu que me lh’ eu assanhei, chorou tan muit’ e tan de coraçon que chorei eu con doo del enton (FerGvzSeav, 44, 7, I)
- Per boa fe, amiga, ben vus digo que, hu estava migu’ en vós falando, esmoreceu e ben, assy andando, morrerá, se vus d’ el doo non filha. - Sy, filhará, ay amiga, ja quando! Mays non tenhades vós por maravilha d’ andar por mi coytado meu amigo. (JBav, 64,1, II)
U el falou comigo, disse m’ esta razon: por Deus, que lhi faria? e dixi lh’ eu enton: «Averei de vós doo eno meu coraçon»; muito venho pagada de quanto lhi falei; mais á m’ el namorada que nunca lhi guarrei (JServ, 77,20, III)
Tanto mal sofre, se Deus mi perdom, que ja eu, amiga, d’ el doo ei, e per quanto de sa fazenda sei, tod’ este mal é por esta razom: porque nom cuida de mi bem aver, viv’ em coita, coitado por morrer. (Den, 25,62, II)
Noutros casos, a amiga roga directamente ao amigo que se apiade dela: Por Deus, filhe-xi-vos de min doo; melhor iredes migo ca soo, levade-me vosc’, amigo. (JSrzCoe, 79,4, III)
Ou reflexiona sobre o seu pesar: Ai Deus, que doo que eu de mi ei, por que se foi meu amigu’ e fiquei pequena e d’ el namorada. (PVeer, 123,1, I)
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Tamén o amigo pode sofrer polo pesar causado pola separación dos amantes, e aínda así respectar o código da fin’amors e non desvelar o nome da súa dama: Mias amigas, quero-m’ eu des aqui querer a meu amigo mui gran ben, ca o dia que s’ ele foi d’ aquen viu-me chorar e con doo de mi, u chorava, começou-m’ a catar, viu-me chorar e filhou-s’ a chorar. (PArm, 121,11, I) come vós, des i chorava triste de se partir soo, e catava m’ el os panos que eu tragia con doo, mais, pero o preguntavan por que chorava, negó o, mais a min non o negava e por esto sõo certãa, ‘miga, que por vós chorava (RodEaRed, 141,1, III)
Tamén nalgún caso a amiga rógalle á madre para que se apiade da súa condición: Se vos non pesar ende, madr’, irei u m’ atende meu amigo, no monte. (...) E filhe-xi-vos doo como m’ atende soo meu amigo, no monte. (RoyFdz, 142,7, I, III)
Contamos con poucos casos de doo presente en cantigas de escarnio. Interesante é o caso dos escarnios de tipo amoroso, no que o trobador critica a actitude altiva da dama: Non á, dona Maria, nulh’ omen, que soubesse o ben que vus eu quero, que doo non ouvesse de min, e choraria, se dereito fezesse, porque vus quero ben, o mal que mi queredes. O ben que vus eu quero, vos no’-no entendedes; e entend’ eu e sei o mal que me queredes. (NunEaCer, 140,3, II)
Ou a ruptura do código da fin’amors pola identificación da dama: Med’ ei ao pertigueir’ e ando soo, que semelha Pero Gil no feijoo, e non vi mia senhor, ond’ ei gran doo, Milia Sancha Fernándiz, que muit’ amo. Antolha-xe-me riso, pertigueiro: chamo Milia Sancha Fernándiz, que muit’ amo. (Alf X, 18,24, II)
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O único exemplo que temos de escarnio persoal escapa aos esquemas actanciais que vimos ata o momento, xa que o termo é empregado nun contexto alleo ao sufrimento amoroso: Pero Coelho é deitado da terra pelos meirinhos, por que britou os caminhos; mais de seu padr’ ei gran doo: non á mais dun filho soo e ficou dele lançado. (MenRdzBre, 100,1, I)
Cabe destacar tamén este exemplo singular de partimen, no que o trobador chama a todos os namorados a demostrar o seu pesar pola morte do rei D. Denis de Portugal: Os namorados que troban d’ amor todos devian gran doo fazer e non tomar en si nen un prazer, porque perderon tan boo senhor come el rei don Denis de Portugal, de que non pode dizer nen un mal homen, pero seja posfaçador. (Johan, 62,2, I)
4. Doer na lírica profana galego-portuguesa Dentro da familia lexical aquí analizada, atopamos na lírica profana galego-portuguesa tamén a forma verbal doer, con usos semellantes aos que presenta a forma doo, como podemos ver nos seguintes exemplos: Nunca coitas de tantas guisas vi como me fazedes, senhor, soffrer; e non vus queredes de min doer! E, vel por Deus, doede-vus de mi! Ca, senhor, moir’, e vedes que mi-aven: se vus alguen mal quer, quero-lh’ eu mal, e quero mal quantos vus queren ben. (JsrzCoe, 79,40, I) Sennor fremosa, por Nostro Sennor, e por mesura e porque non á en min se non mort’ -e cedo seráe porque sõo vosso servidor, e polo ben que vos quer’ outrossí ¡ay, meu lume, doédevos de min! (PayGmzCha, 114,21, I)
E sabe Deus que adur eu vin i dizer-vus como me vejo morrer por vos, senhor; mais non poss’ al fazer! E vel por Deus, doede-vus de mi, ca por vos moir’, esto sabede ben; e se quiserdes, mia senhor, por én non me deviades leixar morrer. (RoyQuey, 148,24, II) Pois ante vós estou aqui, senhor d’ este meu coraçom, por Deus, teede por razom, por quanto mal por vós sofri, de vos querer de mi doer ou de me leixardes morrer. (Den, 25,75, I)
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Tamén destaca o seu uso en estruturas subordinadas, como no seguinte exemplo: E porque o al nom é rem, se nom o bem que vos Deus deu, querede-vos doer do meu mal e dos meus olhos, meu bem, que vos virom por mal de si, quando vos virom, e por mi. (Den, 25,3)
Canto á temática, vemos tamén unha maior variación nas cantigas que empregan o verbo doer, como por exemplo críticas do trobador á altivez da súa dama: Ca demo me log’ a prender fui, de pran, u a fui veer! Porque s’ ela non quer doer de min, mal-dia foi nacer! Que non ei eu end’ al fazer, enquant’ ela poder’ viver. (FerFdzCog, 40,7, IV)
Assi me trax coitado e aficad’ amor, e tam atormentado, que se nostro senhor a ma senhor nom met’ en cor que se de mi doa d’ amor, nunca averei prazer e sabor. (Den, 25,16, I)
Ou críticas directas a Deus, xa que é en última instancia o causante do mal do trobador: Quan muit’ eu am’ ũa moller non o sabe Nostro Sennor, nen ar sabe quam gran pavor ey og’ eu d’ ela, cuido-m’ eu; ca, se o soubesse, sei eu ca se doeria de mi e non me faria assi querer ben a que me mal quer. Pero que dizen que negar non xe Lle pode nulla ren que El non sabia, sei eu ben que aind’ El non sabe qual ben ll’ eu quero nen sab’ o mal que m’ ela por si faz aver, ca se o soubesse, doers’-ia de mi, a meu coidar. (FerGarESg, 43,12, I e II)
Tamén contamos con casos de doer en cantigas de amigo: Pois vós, meu amigo, morar queredes en casa del-rei, fazede lo que vos direi, se Nostro Senhor vos empar: doede-vos vós do meu mal, que por vós lev’ e non por al. (Lopo, 86,8)
E sodes desmesurada que vos non queredes doer do meu amigo, que morrer vejo, e and’ eu coitada; quanta coita el sigo ten sei que toda lhi por mi ven (Af MdzBest, 7,7, II)
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E algunhas cantigas de escarnio: Abadessa, oí dizer que érades mui sabedor de todo ben; e, por amor de Deus, querede-vos doer de min, que ogano casei, que ben vos juro que non sei mais que un asno de foder. (AfEaCot, 2,1, I)
Por én partid’ este feito de cedo ca de mal dizer non tirades prol; e como s’ én Johan Eanes dol, ja de vós perdeu vergonha e medo, ca entend’ el que se dev’ a sentir de mal dizer que a seu olho vir que pode log’ acertar con seu dedo. (EstGuar, 30,31, II)
5. Conclusión Como podemos comprobar ao final da análise dos exemplos, na lírica profana galegoportuguesa hai unha clara separación entre os lexemas que portan o significado da dor física, por unha parte, e da dor psicolóxica, por outra. Esta clara división non coincide coas dos posibles modelos literarios románicos, xa que non hai coincidencia no campo lingüístico, aínda que cabería unha análise máis detallada dos exemplos occitánicos e oïtánicos desde a visión externa para poder confirmar afirmacións como as que fan Bec e Cropp.
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Vicent Josep Escartí (Universitat de València / IIFV)
Els usos lingüístics dels memorialistes valencians, de l’edat mitjana a la renaixença1
1. La memorialística, una font per a la història de la llengua Són nombroses a Europa les investigacions que s’ocupen dels escrits memorialístics, que han rebut diferents denominacions, segons la llengua que emprem i sense que siga sempre fàcil establir una etiqueta exacta o genèrica per a tots ells (Escartí 1990; 1998: 7-13). Un problema en la denominació que el trobem, fins i tot, en àmbits d’investigació amb molta més tradició en el tema (Mouysset 2007: 75-100). Als territoris de parla catalana, més enllà de les publicacions puntuals i meritòries que s’han encarregat d’editar alguns d’aquests textos o d’estudiar-los, només recentment s’han pres iniciatives per tal de fer un inventari inicial que anirà completant-se amb estudis concrets o de conjunt que són encara escassos (Simon 1988; Torres 2000; Simó 1990; 1995; Escartí 1990, 1994a, 2010c). De fet, només una completa catalogació i l’estudi de les característiques de totes les peces que ens hagen pogut pervindre ens permetrà avançar en el coneixement d’aquests documents tan valuosos per a la història i la filologia. Especialment, per descobrir els usos lingüístics dels seus autors, perquè l’elecció de la llengua era absolutament subjectiva: no esperaven, quasi mai, ser llegits per ningú. Si de cas, els seus papers podien arribar a un cercle reduït d’amics i coneguts –en rares ocasions– o, potser, a una posteritat indefinida i sense rostre (Escartí 1990: 126). Era un tema, aquest de la llengua, que ja deixàvem pendent en una ocasió anterior (Escartí 1990: 127), i al qual només s’havia aproximat –i durant el període del barroc– un treball de Batlle / Rafanell (1986). Pel que fa al cas valencià –com a la resta de països de parla catalana–, l’evolució en els usos lingüístics són bastant coneguts als àmbits oficials i literaris. Grosso modo, podríem dir que a l’edat mitjana es donava un cert bilingüisme llatí / català, amb l’afegit de l’occità en poesia, i que, cap a finals del XV començà a aparéixer esporàdicament el castellà en els versos i en algun paper erudit. Després de les Germanies, la cosa canviarà bastant: la societat –la noblesa i els estaments regidors– viuen immersos en el projecte imperial del cèsar Carles i la idea d’una monarquia hispànica única pren una força inusitada. Això s’accentua en el moment d’annexió de Portugal. Els teòrics –clergues erudits, generalment–, veuen clara la conveniència Aquest estudi s’inclou al projecte «La cultura literaria medieval y moderna en la tradición manuscrita e impresa (IV)» FFI 2009-14206, del Ministerio de Educación y Ciencia del Gobierno de España i dels treballs del Grup de Recerca Consolidada 2009SGR808 «Manuscrits», de la Generalitat de Catalunya.
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d’aquell projecte i, en el pla lingüístic, un home com Pere Antoni Beuter ho arriba a formular obertament, demanant una sola llengua per al conjunt dels territoris hispànics (Beuter 1546: 2 r). I així, mentre la Primera part de la Història de València (1538) apareix estampada en català, la segona ja ix directament en castellà (1551). A la vista de la possibilitat d’un major mercat i emparat en aquell projecte que ell mateix justificava, traduïrà i ampliarà la primera part, que passa a ser Corónica general de toda España (Escartí 2010a), en ser republicada. L’historiador i noble Rafael Martí de Viciana encara fa una passa més endavant, en aquella mateixa línia: si els seus manuscrits foren redactats en català –com ell mateix arriba a afirmar, encara que recentment hom ho haja posat en dubte (Colón 2002)–, la veritat és que eixiren a la llum en castellà, en una operació ben clara, com va posar de relleu Ferrando (2003) i com ja s’ha dit en algun altre lloc (Escartí 2002). S’obria, per als escriptors dels nostres territoris, la possibilitat d’escriure en castellà i, a cada segle que passarà, la tendència es veurà accentuada. Però, aquells memorialistes que varen escriure calladament, a la soledat de les seues cambres, sense voluntat de publicar, ¿en quina llengua optaren per redactar els seus escrits? ¿Canviaren de llengua a partir del segle XVI o, per contra, servaren una major fidelitat lingüística, atés que la seua obra no pretenia veure la llum a través de les premses i, per tant, no patien la pressió dels editors i dels mercats?
2. Dietaris i memòries en català (ss. XIV-XVIII) Molt possiblement els primers textos valencians que podrien rebre amb propietat el nom de «dietari» són ja de la fi del segle XV. Tanmateix, no costa gens de reconéixer alguns altres escrits que, per les seues característiques, podrem denominar «protodietaris», malgrat que sovint apareguen barrejats amb altres tipus de textos. Si admetem que el dietari es pot veure com una recapitulació del dia, durant dies successius (Bourcier 1977: 4), encara podríem detectar més fàcilment aquesta protodietarística derivada, en bona mesura, de l’activitat professional de llurs autors, generalment notaris i escrivans, els quals no pretenen cap altra cosa que anotar de forma succinta determinats fets que els han semblat interessants i fer servir aquelles notes com a recordatori personal i privat. En aquest espai dels protodietaristes dels segles XIV i XV hauríem de destacar, entre altres, els notaris Berenguer Cardona, Antoni d’Altarriba i Pere Alfonso; o Jaume i Gaspar Eiximeno, escrivans de la Sala del Consell de la ciutat de València (Rodrigo 1930 i 1931; Escartí 1995b). En aquests casos, estaven avesats a l’ús del llatí i del català –i encara el castellà i l’aragonés, en part–, i les seues anotacions, encara que solen ser en català, també usen el llatí de tant en tant. I caldria no deixar de banda una de les mostres inicials –de finals del XIV– que, enmig de les anotacions estrictament professionals, presenta notes de l’àmbit més clarament privat, atés que fan referència a qüestions sentimentals (Gimeno / Palasí 1986). És un cas, però, excepcional. I cal assenyalar que Pere Seriol, l’autor d’aquestes notes, usà sempre el català. Un altre tipus d’escrits protodietarístics seran certes parts d’obres historiogràfiques com cronicons, annals i altres papers semblats, on, lluny dels interessos nacionals o àulics propis de la gran historiografia catalana dels segles XIII i XIV, predominaran els interessos locals que acabaran
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sent majoritaris en alguns casos. Serà un exemple primerenc la part final de l’encara inèdita Crònica universal de 1427, conservada a la Biblioterca Nacional de Madrid (ms. 17.711), de la qual ja va donar notícia Miquel Coll i Alentorn (1991: 355), i on es passa de la història universal a les anotacions centrades en la vida quotidiana de la ciutat de València, en forma incipient d’escrit memorialístic. Aquest text és íntegrament en català. El mateix podríem dir del conegut com Dietari del capellà d’Alfons el Magnànim, atribuït al clergue Melcior Miralles i publicat en diferents ocasions (Sanchis 1932; Miralles 1988, 1991 2001 i 2011), on es conjugen trets de la cronística pròpiament dita i dels escrits memorialístics amb notícies i anècdotes pròximes al món quotidià de l’autor, a la segona meitat del segle XV valencià, com ja hem destacat en altres llocs, en remarcar les parts que configuren aquest escrit (Escartí 1988: 16-12). Miralles era, també, conscient del poder de l’escriptura, i no s’està de dir que «lo que és en escrits, és memòria perdurable» (Sanchis 1932: 45). També en aquest cas la llengua de l’obra és el català, tot i presentar alguns títols o indicacions en llatí, en correspondència a la formació eclesiàstica del seu autor. Dos textos més, de menor abast, però igualment interessants i que presenten aquesta barreja de crònica i dietari, serien els coneguts com Crònica de Pere Maça, editada per Hinojosa Montalvo (1979) i els Annals Valencians (Cabanes 1983), on, tot partint d’interessos universalistes, s’acaba informant de fets i notícies de caràcter local o regnícola. Tots dos usen el català. En qualsevol cas, per tal que els veritables dietaris o llibres de memòries poguessen aparéixer, hagueren de confluir totes dues tendències. I caldria afegir-hi l’interés «oficial» per conservar la memòria històrica de la ciutat o de les institucions seues i que podríem xifrar en l’existència d’un altre tipus de reculls de notícies que també hem de situar originàriament a les acaballes del món medieval: el Llibre de memòries de la ciutat de València (Carreres 1930-1935; Furió 2004) i el Llibre d’antiquitats de la Seu (Sanchis 1926; Martí Mestre 1994) segurament podrien ser considerats modèlics per part d’aquells que recollirien després notícies i confegirien dietaris. D’abast plurisecular, segueixen fidels a la llengua durant tot el seu recorregut, i només el de la Seu cau en la temptació d’incloure unes poques notícies en castellà, ja a finals del XVII i, l’última, de la fi del XVIII (Martí Mestre 1994, II: 364). Tanmateix, en certs aspectes, aquests textos es diferencien clarament dels dietaris: el seu abast cronològic va més enllà de la durada de la vida d’un autor i esdevenen pluriseculars, tal com les institucions que els han generat. Al cas del Llibre de memòries, per altra banda, cal assenyalar que diversos fragments –de vegades obra d’un sol autor– han circulat, amb més o menys divergències, com obres diferents, i la filiació de les quals encara no es troba del tot ressolta (Furió 2004). De fet, segurament emparentat amb el Llibre de memòries en una mesura que a hores d’ara no podem precisar, caldrà parlar de l’encara inèdit Notícies de València y altres curiosidads, que es conserva manuscrit a la Biblioteca del Palau de Peralada (ms. 53) i sobre el qual preparem actualment un treball. Tot apunta que és el mateix que va consultar Hipòlit de Samper, en redactar la seua Montesa ilustrada (1669), i que allà apareix com obra de Jaume d’Anglesola. El manuscrit degué desaparéixer dels circuits erudits poc després, atés que els bibliògrafs valencians clàssics no el citen, i tampoc coneix la seua localització Almarche (1919: 79-81). S’hi recullen notícies de caire públic majoritàriament, però també personals; abasta entre els anys 1406 i 1537 i, a més d’aparéixer informacions degudes a diferents mans, una part important degué ser redactada pel ja dit Anglesola. Aquest dietari és en català, i cal no oblidar que la part final del mateix hauria estat redactada en el moment exacte de l’acostament de la
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noblesa a la cort virregnal, després del conflicte agermanat, amb l’inici de la moda del castellà com a llengua de relació als àmbits cortesans, com pot veure’s perfectament al Cortesano, de Lluís del Milà (Escartí 2009a; Milà 2010). Encara, cal dir que la mateixa Guerra de les Germanies va motivar alguns textos que, tot i trobar-se emparentats clarament amb la crònica, fins al punt que han estat qualificats així sovint, en molts fragments s’aproximen a l’estructura del dietari. Ens referim als escrits del cavaller Guillem Ramon Català de Valleriola (1490?-1558) i del notari Miquel Garcia, que relaten, amb periodicitat quasi diària, la revolta agermanada (Duran 1984). En tots dos casos es narra la revolta des de l’angle dels guanyadors i la llengua emprada és el català. Com també ho serà en el llarg fragment del mestre en teologia i sotsagristà de la Seu de València, Pere Martí, que narra aquells mateixos esdeveniments dins el Llibre d’antiquitats, del qual fou l’iniciador (Martí Mestre 1994: I, 56-89; II, 12-25; Escartí 1998: 87-115). Una mica posterior és l’obra de Jeroni Sòria –que seria publicada per Francesc de P. Momblanch (Sòria 1960)–, un dietari que conté notícies de caire públic i privat entre els anys 1503 i 1558. Descendent d’italians i mercader a València, arribà a emparentar amb la noblesa local. Dedica bona part del seu text al relat de les Germanies i a la seua posterior repressió, i, també, a la revolta dels moriscos de la serra d’Espadà (1526), però majoritàriament s’ocupa de detalls personals i familiars. Aquest text és íntegrament en català i és una clara evidència de la ràpida assimilació que es produïa en els fills dels immigrants arribats a terres valencianes. D’un parent de Sòria, encara, és també un altre text en català que es conserva manuscrit a continuació d’aquell, redactat pel ciutadà Miquel Jeroni Llopis, i que només recentment ha estat editat (Martí Mestre 1995). Amb notícies de caràcter personal generalment, el dietarista Llopis recull notícies entre el 1573 i el 1588 i no deixa de cridar l’atenció el fet que algunes d’aquelles entrades comencen amb la fórmula «Sia’m en memòria a mi…» –o semblant– que remarca la voluntat de servir-se del dietari com a element recordatori. De característiques diferents i centrat en un fet insòlit molt concret –el robatori i la recuperació posterior del Santíssim a Alcoi, el 1568–, trobem un altre text de caire memorialístic, redactat pel notari Gaspar Cantó, de qui no sabem pràcticament res. La relació, segurament apuntada primer dins un volum dels seus protocols, degué passar, potser, a constituir un text autònom d’on beuria, després, Vicent Carbonell, redactor d’un llibre de festes que celebrava el centenari del cas portentós (Carbonell 1672). El relat, solament conservat ara en una edició dels segle XIX, va ser publicat recentment (Escartí 1998: 117124) i és de destacar el fet que apareixen marques clares del llenguatge notarial. Aquest text, és en català, com també l’anònima Relació de l’entrada i estança a València del rei don Felip II (Escartí 1998: 125-137), que descriu la visita reial del 1586, la qual és ben pròxima, d’altra banda, a la que, coetàniament, redactà el notari Genís Moltó sobre l’estada del monarca a Gandia, per aquells mateixos dies (Sanz s.a.: 1-4). Les anotacions del cavaller valencià Pere Escrivà i Sabata (1572-1630), només recentment descobertes, són datades entre 1606 i 1629. De caire memorialístic, no passen de ser simples dades recordatòries, d’ús estrictament privat, inserides en un llibre d’administració econòmica i d’interés molt relatiu. Tanmateix, presenten la particularitat de ser una mostra embrionària del que podria haver estat un «llibre de família» i, per altra part, mostren l’ús una mica «exòtic» encara del castellà entre la noblesa valenciana, atés que Escrivà combina les dues llengües, encara que maldestrament (Baydal / Escartí en premsa).
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Però, molt possiblement, el primer autor que podríem destacar com un vertader «dietarista» valencià –si entenem el mot «dietari» com un escrit on es pretén narrar l’activitat més o menys diària de l’autor–, és el noble i lletraferit Bernat Guillem Català de Valleriola (1568-1608), fundador de l’Acadèmia dels Nocturns, a València, on s’usà majoritàriament el castellà. No obstant això, hem d’assenyalar que aquest dietari, un veritable «llibre de família» –conegut a partir del seu modern editor com Autobiografia–, es troba escrit quasi totalment en la llengua pròpia del país, tret d’algunes excepcions que obeeixen a clares raons sociolingüístiques, si s’exceptua algun cas que fa la impressió de ser una provatura poc reeixida. I així, l’autor usarà l’espanyol en reproduir converses específiques o, també, durant el període en què exercí de corregidor a Lleó, encara que les últimes entrades, poc abans de la seua mort, tornen a ser en català. Al text es contenen notícies des del mateix naixement de l’autor fins al 1607 i ha rebut l’atenció d’estudiosos com Roca (1997a) o Campos (1999). Un any després de la mort de Bernat G. Català es produïa l’expulsió dels moriscos. Aquell esdeveniment històric va generar un munt d’escrits de caràcter divers. Entre d’altres, nombroses relacions, encara que totes en castellà (Escartí 2009b: 15-25). En català, però, l’únic paper que s’entreté a narrar amb un cert detall i de manera exclusiva l’èxode dels moriscos valencians és la Relació vertadera del cavaller Maximilià Cerdà de Tallada (1560/65-1630), membre de l’Acadèmia dels Nocturns també –on participà amb diferents composicions–, i fill del jurisconsult i escriptor Tomàs Cerdà de Tallada. A la seua Relació verdadera…, que no arribà a la impremta fins els nostres dies (Lozano 2001), es fa un relat succint de l’expulsió i es donen detalls impagables. A més, l’autor, en algun moment, deixa translluir una certa «pietat» envers els expulsos –cosa no massa freqüent en els escrits que se n’ocuparen. Tot seguit cal parlar d’un dels millors memorialistes del barroc valencià, que va gaudir d’una edició primerenca de la seua obra, a cura de Vicent Castañeda i Alcover (Porcar 1934) i per això va poder suscitar un estudi de Joan Fuster (1975), el qual elaborà un interessantíssim article que pot ser considerat modèlic. Ens referim a mossén Pere Joan Porcar (1560-1629), capellà beneficiat de Sant Martí, a València, el qual bàsicament recull les notícies que corrien per la ciutat entre els anys 1589 i 1628. També proporciona dades biogràfiques que han estat aprofitades pels seus editors (Porcar 1983; Lozano 2004; 2008). De fet, el dietari de Porcar resulta tan interessant perquè recull les opinions de l’home mitjà del barroc i s’aixopluga sovint sota l’anonimat del poble a qui, en bona mesura, representa (Escartí 1994a: 285). El dietari de Porcar només presenta alguna mostra de temptacions del seu autor per redactar notícies en castellà. Una mica posterior a Porcar seria el dietari de Josep Aznar i del seu nét, Francesc Sanç (Boluda / Pons / Galiana 1995). Aquest text destaca la importància de fenòmens «espectaculars» –com ara les pandèmies que assotaren les terres valencianes a mitjan segle XVII– a l’hora de motivar o incentivar l’inici o la continuació dels dietaris, en tant que els seus autors es veuen «pressionats» per unes circumtàncies del tot inusuals. Però el text és un dels exemples més clars de «llibre de família», tant pels temes tractats –administració econòmica i dades familiars–, com pel fet d’haver estat continuat per un dels descendents de l’inciador. En tots dos casos, els autors usaren el català, malgrat que el segon, Francesc Sanç, és senyor de Sorió i membre de la petita noblesa valenciana. De la primera meitat del segle XVII, encara, caldria esmentar el «llibre de compte i raó» –amb anotacions dietarístiques– del palmiter Miquel Ferrer (Mandingorra 2007), que conté notes entre el 1612 i el 1634, de caire personal i familiar, amb barreja de català i de castellà;
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i les Memòries curioses, de mossén Vicent Torralba, que presenten l’estranya particularitat d’un bilingüisme absurd i difícil d’explicar, tal com ja assenyalava Antoni Ferrando, que n’ha estat l’editor (Ferrando 1995). Torralba, per altra banda, es mostra més interessat en l’anotació de notícies de caire públic. Ja de la segona meitat del XVII és el millor dels dietaris valencians del barroc. Obra de mossén Joaquim Aierdi (1613-1688), un clergue valencià d’origen basc, estava conformat, en principi, per, almenys, set volums que devien abraçar entre els anys 1657 i 1682, si més no. Tanmateix, només ens n’han pervingut dos volums –de 1661 a 1664 i de 1678 a 1679– que només de fa poc han estat editats (Aierdi 1999). Aquest beneficiat de la Seu va anar confegint una narració que recull la vida quotidiana valenciana del seu temps i que no deixa translluir res de la seua pròpia vida personal. És un fidel retratista de la València del barroc, com ja hem explicat (Escartí 2001). D’Aierdi, encara, cal dir que és autor del Libre de diferents calendaris de actes de mi, mosén Joachim Aierdi, que es podria encabir sota l’etiqueta de «llibre de família», on l’autor anota les qüestions econòmiques més quotidianes, tant de la seua activitat professional –beneficat de la seu de València– com de la seua pròpia casa, on ocupa un lloc destacat el treball domèstic de les dones que contracta (Baixauli 2004). Si a les seues Notícies el castellà sols apareix en boca del rei –i poquíssima cosa més–, en aquest escrit més personal encara, la llengua majoritària és el català, i apareix el llatí en algunes indicacions de caire legal o judicial, com era d’habitud. El conjunt de l’obra d’Aierdi, a més, diferencia dos àmbits: la recol·lecció de notícies «públiques» i l’estricta privacitat (Escartí 1994-1995). Entre Porcar i Aierdi ens caldria situar una altra mostra de literatura memorialística: la Relació del segon centenar de la canonització de sant Vicent Ferrer, de mossén Vicent Gil († 1673), canonge de la Seu, únic text conegut en català d’aquest autor (Escartí 1994b). La Relació…, datada el 1655, és una narració àgil, de prosa acurada, acostada als registes més cultes del moment. El text s’ajusta al relat de les festes vicentines de manera succinta i sense el detallisme que trobem en altres escrits (Escartí 2008: 56-59). També citarem el Llibre de fets meus propis, de Francesc Alconchell, de poca entitat, però que conté dades de caire professional i personal entre el 1646 i el 1684 (Guardiola 2006); i les Notícies –simples i breus notes marginals als protocols– del notari valencià Bertomeu Blasco i Siurana (1635-1715), ja a cavall dels segles XVII i XVIII, on es combinen el castellà i el català (Escartí 1992). El darrer testimoni de l’ús del català en l’àmbit memorialístic al País Valencià durant l’edat moderna localitzat fins al moment, serà la vastíssima obra de mossén Josep Esplugues, capellà de Montaverner. Aquest mossén prenia nota de tot allò que li semblava interessant, o quan l’escripturació d’un fet o detall podria ser útil a ell o als administradors del temple que regentava. En una desena de volums es conserven els seus escrits de tipus administratiu, a més d’un volum on reconta la construcció del nou edifici parroquial i tots els problemes que l’envoltaren. Sols una part ha estat editada per Emili Casanova (1989; 2001). En altres escrits, però, Esplugues fa servir el castellà, i no hem d’oblidar que aquell mossén va viure durant el govern de la diòcesi valenciana per part de l’arquebisbe Andreu Mayoral, que dictà disposicions específiques per tal de fer fora el català dels llibres de les administracions eclesiàstiques valencianes, que, en algunes parròquies, encara pervivia.
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3. La producció dietarística valenciana en castellà (ss. XVII-XIX) Segurament el primer testimoni de l’ús del castellà a la dietarística valenciana podem datar-lo al segle XVII i vinculat, clarament, a l’estament social de la noblesa, que va ser el primer grup que, en voler acostar-se al poder reial –com ja hem dit–, adoptaria el castellà com a llengua de relació amb els representants de la monarquia. El procés, que és de sobres conegut, acabà afectant àmbits més personals. Respecte a la literatura, no en són pocs, però, els exemples de pervivència en català a València, entre el 1500 i el 1850, malgrat una evident davallada (Escartí 2010b), sobretot a nivell imprés. Els dietaris i els llibres de memòries i tota la resta de documentació d’estil semblant, també experimentaran el canvi, encara que, pel que sembla, amb una lentitud major. Així, a l’àmbit de la memorialística comptarem amb diferents testimonis de l’ús de la llengua veïna. L’expulsió dels moriscos, com ja hem dit, va fer córrer molta tinta. I precisament d’un dels actors principals d’aquell drama, l’algemesinenc Jaume Bleda (1552-1622) és l’obra que descriu amb més detall l’èxode dels criptomusulmans de la península ibèrica i, en especial, de l’antic regne de València: la Corónica de los moros de España (València, 1619), que conté, al seu llibre VIII, una memòria autojustificativa del dominicà Bleda sobre les seues actuacions. És un dels papers autobiogràfics més clarament personal i més desconegut de la nostra memorialística. De fet, només recentment s’ha destacat aquesta qualitat d’aquell fragment que és, sense dubte, un dels millors (Vincent / Benítez 2001); i més recentment encara s’ha editat aquesta part, que comprén els capítols XVIII-XXV del Libro octavo (Escartí 2009b). El text de Bleda, en castellà, fa examen de consciència i retrata les inquietuds i els temors del frare dominicà, però també la ideologia antimorisca. No s’apartava, Jaume Bleda, de la línia principal que motivaria l’anomenat «memorialisme justificatiu» que apareix als segles XVI i XVII (Andrés 2005). Però, potser el primer dietari que usa el castellà de manera sistemàtica, es troba clarament vinculat a la noblesa local del moment. Els germans Àlvar i Dídac de Vich i de Castellví –especialment aquest darrer– redactaren un dietari amb anotacions lacòniques que s’inicia el 1619. Fins al 1621 hi va escriure don Àlvar, mentre que la resta, entre el 1626 i el 1632, és ja de don Dídac (1584-1657). El text que ens ha pervingut, val a dir que es troba mutilat i que se’ns ha transmés gràcies a una còpia del segle XVIII, encara que per això mateix també podria tractar-se d’una traducció d’aquell moment anterior a la desaparició de l’original. En qualsevol cas, l’opció del castellà és ben plausible, com ja hem assenyalat, si tenim en compte les característiques sociolingüístiques de la València del seu temps. El dietari, per altra banda, va ser estudiat i editat a primeries del segle XX (Almarche 1919: 187-25; Vich 1921) i conté notícies pròpies d’aquesta mena de reculls. Una altra mostra de l’ús de la llengua de Castella –aquesta molt més justificada– és la de Clara Maldonado de la Cerda, nascuda a Lima (Perú) i de nissaga castellana, que acabà la seua vida a Oliva, per matrimoni amb Alonso de Celada, procurador dels Centelles a l’esmentada població i regidor de l’enginy de sucre. En quedar viuda, Clara de la Cerda va ocupar el lloc de l’espòs i ens deixà abundoses mostres de la seua administració econòmica personal, però també, entre els seus papers, anotacions memorialístiques, en les quals, en alguna ocasió, fa servir paraules o expressions valencianes (Martí i Ascó 2000).
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Si, com hem vist més amunt, les pestes que afectaren el regne de València durant el segle XVII suscitaren anotacions dietarístiques als textos d’Aznar i Sancho, en castellà aquella pandèmia suscitarà una altra manifestació memorialística ben interessant. No es tracta d’un dietari ni, tan sols, de cap part d’un d’ells –com passa en el cas del català Miquel Parets (Escartí 1995)–, sinó una extensa relació redactada per Francesc Gavaldà, un frare dominicà que participà directament en les tasques d’auxili a la població malalta. La Memoria de los sucessos particulares de Valencia y su reino (Gavaldà 1651) narra les vicisituds de la ciutat de València, principalment, per tal de combatre la malaltia. També narra el robatori del Santíssim a l’església de Paiporta, que és vist com un senyal de grans desgràcies, i la seua posterior recuperació miraculosa. Finalment, inclou un relat sobre la participació valenciana en el setge de Tortosa, un episodi més de la guera que, a Catalunya, s’havia iniciat el 1640. El conjunt del text, redactat en prosa no massa recargolada, vol ser fonamentalment descriptiu i, també, alliçonador. D’un altre noble valencià del XVII és un interesantíssim dietari que es conserva manuscrit i que, sense dubte, mereix més atenció del que se li ha dispensat fins ara. Es tracta de les memòries del vicecanceller de la Corona d’Aragó Cristòfor Crespí de Valldaura (1599-1671). El seu manuscrit, servat a la Biblioteca Nacional de Madrid (ms. 5.742), no el va conéixer ni tan sols l’erudit Vicent Ximeno (1747-1749, II: 64-65). Crespí, nascut a Sant Mateu, arribà a ser catedràtic de lleis a la Universitat de València i el 1627 començà a ocupar càrrecs públics: a València, primer, i després ja a Madrid, on, finalment, Felip III d’Aragó i IV de Castella el nomenà vicecanllecer dels regnes de la Corona d’Aragó, pel juny de 1652. Exactament en aquella data simbòlica, l’autor inicia el seu Diario de su vida y asistencia al Consejo de Aragón desde el 9 de junio de 1625 al 1691. Al dietari –de més de 400 pàgines i tot en castellà- el vicecanceller va relatant-nos l’activitat lligada al càrrec i algunes notícies de les coses que passaven a la cort i a Madrid, a més de certs comentaris sobre la situació a Catalunya i a València. Crida l’atenció que al manuscrit conservat –que és una còpia passada a net–, fins i tot hi figure la descripció de la mort del seu autor. Un altre text en castellà és el de Josep Agramunt, de qui no coneixem pràcticament res. En aquest manuscrit es poden diferenciar dues parts. A la primera, amb intencions de cronista, l’autor anotà dades històriques des del segle XII. A la segona s’inicia el veritable dietari i el mateix autor n’és conscient de les diferències i arriba a explicitar-ho al pròleg del seu escrit (Escartí 1994: 287). El text, però, no passa de ser un recull d’anotacions curtes i esquemàtiques, amb comentaris breus, si és el cas. Ha estat publicat darrerament en un volum miscel·lani (Esponera / Callado 2004), juntament amb un altre dietari, el d’Ignasi Benavent, el qual porta per títol Cosas más notables sucedidas en Valencia desde el año 1657. Aquest text s’allargassa fins al segle XVIII, continuat per altres mans. Cal assenyalar que aquest dietari presenta, juntament amb les notícies habituals, dades sobre la vida de l’autor (Esponera / Callado 2004). La Guerra de Successió a València va ser un altre motiu que esperonà, sense dubte, la confecció de dietaris i memòries. En aquest cas, totes les que ens han arribat són en castellà i escrites per partidaris del bàndol vencedor. Tanmateix, ens consta algun altre text, ara com ara perdut per sempre més o il·localitzat, redactat per algun partidari dels Àustries. De fet, el dietarista Josep Vicent Ortí i Major ens informa que, en escorcollar-se el convent de Sant Doménec de València, el 8 de novembre de 1707, hom va localitzar un retrat de Carles III d’Àustria, i «en un quadernillo de rezo, notado por días, lo que iva sucediendo en Valencia,
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pero con falsedad» (Escartí 2007: 16). Un altre dietarista, Isidre Planes, ens indica que l’autor d’aquelles «notas contra el señor Felipe V y a favor del archiduque» era el frare Josep Giner, el qual, segons informa el mateix Planes, va ser castigat amb l’exili (Escartí 2007: 16-17). El càstig devia ser suficientment convincent com per fer desaparéixer qualssevol escrits memorialístics a favor del bàndol austriacista. De fet, sembla que els borbònics tingueren una especial cura a fer desaparéixer tots els escrits a favor dels enemics (Escartí 2007: 18). Per contra, no són pocs els textos que, narrant determinats episodis de la contesa bèl·lica –sovint des de l’òptica borbònica–, circularen, bé manuscrits, bé impresos (Escartí 2007: 16-27), amb intenció propagandística i que pertanyen més bé al gènere de les relacions de notícies. Sí que convé, però, detenir-nos en dos grans dietaris del període: els dels esmentats Josep V. Ortí i Major (1673-1750) i Isidre Planes († 1729). El Diario de Josep Vident Ortí i Major és un dels textos que narra més directament la Guerra de Successió al regne de València, encara que, cronològicament, abasta fins que acabà l’enfrontament, a Catalunya, mostrant, en això, el sentiment de nacionalitat aragonesa –de la Corona d’Aragó. Provinent d’una nissaga de buròcrates lletraferits ennoblits i vinculats a les administracions valencianes, Josep V. Ortí va redactar un dietari que conté notícies referides a molts aspectes de la vida quotidiana de la València del moment, amb freqüents inclusions de dades provinents de les corts de Felip d’Anjou o de Carles III, i amb la incorporació de notícies clarament ideologitzades –com ara la propaganda contra els britànics– o les opinions de l’autor, que tot i no ser massa abundoses, no s’està d’amagar, si convé. El Diario, per altra banda, no estava previst que fos publicat i ni tan sols el seu autor suposava una lectura del mateix per part d’algú més (Escartí 2007: 39). Tot i que el conjunt del Diario d’Ortí es troba en castellà, cal assenyalar que aquest escriptor confegí diferents obres en vers, en català (Furió 2001; Sansano 2001). Molt més ric en opinions, crítiques i detalls és l’encara inèdit dietari del capellà Isidre Planes. La seua obra és de les més profuses en dades sobre la vida quotidiana a la València del moment i presenta, també, una major qualitat literària. Però, el text de Planes ens ha arribat ara com ara en un estat certament «complex» de conservació: dispers i mutilat, amb pèrdua d’algun volum –conservat en part en una edició «periodística» i segurament fragmentària– i sense cap estudi sobre l’autor o els seus manuscrits (Escartí 2007: 22-24). Tanmateix, sabem, per via del bibliògraf Ximeno (1747, II: 216), que Planes tenia afecció a escriure història i va redactar divereses obres cronístiques. Però l’escrit més original són els cinc volums dels Sucessos fatales de la ciudad y reyno de Valencia o manual diario de lo sucedido desde el año 1705. L’obra volia servir d’exemple i d’escarment a les generacions futures i el mateix Planes ho explicita, a la justificació inicial (Escartí 2007: 24). La resta del segle XVIII s’escolarà, ja, sense massa aportacions dietarístiques, potser com a conseqüència de la proliferació de gacetes i d’altres papers informatius, que comencen a ser col·leccionats i que, en passar per les premses, eren ja en castellà. Tanmateix, al segle XIX –i fins a començaments del XX– encara podrem detectar alguns escrits memorialístics de molt diferent qualitat. Així, podem parlar del text de l’algutzir d’Albalat de la Ribera, Roc Garcia, que conté anotacions d’interés purament local, en un castellà maldestre, entre el 1839 i el 1861 (Escartí 1993 i 1994c); o del text del suecà Francesc Vercher, pràcticament coetani però de menor entitat (Fos 1979). De major interés resulta el text de l’il·licità Aurel·lià Ibarra i Manzoni, Diario de mi prisión, que conté el relat de l’estada d’aquest polític en presó, entre els anys 1866 i 1867 (Ibarra 1995), i en un castellà
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afectat i fruit de l’aprenentatge escolar. A aquests escrits hauríem d’afegir, entre d’altres, els de Bernat Rico i Josep Rico, de Monòver, que contenen notícies de l’àmbit rural entre els anys 1894 i 1932, a més de dades sobre la família de l’escriptor Azorín (Poveda / Payà 1998) i el de Frederic Benavent (Benavent 2001), que presenten els lògics valencianismes propis de la gent de les nostres comarques que amb prou pena sabien expressar-se en castellà. D’un estil semblant és el text de Matilde Gras, que seria una de les primeres dones que redactaria unes memòries, a València, tot i que en realitat l’escrit gire al voltant del seu marit difunt, el sindicalista de Sueca Camil Albert (Vendrell 1981).
4. A tall de conlusió Pel que fa a la llengua escollida pels autors resulta evident que, en català, la producció memorialística valenciana va ser única des dels inicis fins al segle XVII, i durant aquesta centúria va ser majoritària i donà textos de major qualitat. Serà al XVIII quan el castellà comence a guanyar terreny clarament, tot i que, més enllà dels exemples referits a la Guerra de Successió, no va produir cap exemplar massa ressenyable. La presència quasi permanent de premsa «periòdica» a partir d’un determinat moment d’aquell segle –que ja arrancava d’abans i tot (Infelise 2005)– i l’alfabetització en castellà –quan n’hi havia– comportarà que, per un costat, els possibles dietaristes ja no senten la necessitat de redactar ells les notícies, sinó que incorporen retalls de premsa als seus volums, o col·leccionen aquesta mena de papers. Per altra banda, el català desapareix de l’escena memorialística durant tot el segle XIX –almenys fins on sabem nosaltres– i no serà fins al segle XX que tornarà a fer acte de presència, precisament a l’obra d’un gran bibliòfil i col·leccionista de tota mena de papers històrics també: Nicolau Primitiu (1877-1971), el qual inicia els seus escrits dietarístics en castellà, el 1916, però se’n passa al valencià a partir del 22 d’octubre de 1926 (Garín / Gavara 2008: 244), tot reprenent, així, l’activitat dietarística en llengua catalana al País Valencià contemporani. Després, arribaria Joan Fuster, però aquestes dietaris ja són de caire més literari i inauguraran un escenari que s’ha anat enriquint, sobretot després de l’adveniment de la democràcia.
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Antoni Ferrando Francés (Universitat de València)
Interés de la versió aragonesa del Llibre dels feits del rei en Jaume en la fixació del text català
0.Objectius Les Gestas del rey don Jayme de Aragón [d’ara endavant Gestas] és la biografia en aragonés que Juan Fernández de Heredia dedicà a Jaume I (1213-1276). Fins a la recent edició de ms. C del Llibre dels feits (València, 2010) no s’ha tingut en compte aquesta obra d’Heredia en les edicions crítiques del text jaumí. En relació a la ubicació textual de les Gestas dins una de les dues famílies que ens han transmés el text català del Llibre dels feits, només Stefano Asperti (1982) i Francisco José Martínez Roy (2010) han argumentat a favor de la seua adscripció a la família encapçalada pel manuscrit de Poblet (1343), o ms. H, en el primer cas, i a favor de la família encapçalada pel manuscrit dels comtes d’Aiamans (1380), o ms. C, en el segon. Davant els resultats contradictoris d’aquestes anàlisis i l’escassa utilització ecdòtica de les Gestas per a la fixació del text català del Llibre dels feits, em propose ací justificar l’interés filològic de les Gestas i discutir la seua ubicació en el procés de transmissió textual de la crònica jaumina.
1. Juan Fernández de Heredia i la seua labor traductora: la Grant Crónica de los Conquiridores Conseller (1338), ambaixador de Pere el Cerimoniós i Joan I davant els papes d’Avinyó i les corts de Castella, Navarra, França i Anglaterra, castellà d’Amposta, almirall pontifici, Gran Mestre de l’Orde de Sant Joan de Jerusalem (1377), militar i religiós, Juan Fernández de Heredia (c. 1315-1396) va ser un dels personatges més importants del regne d’Aragó medieval i, sense dubte, el més famós escriptor en llengua aragonesa de tots els temps. La seua activa participació en campanyes a la Mediterrània oriental, destinades a frenar l’expansió turca i a fer possible el somni de recuperar Terra Santa, el van posar en contacte directe amb la cultura grega. Allí combinà les iniciatives militars amb la direcció de traduccions d’obres d’escriptors llatins i grecs, generalment de caràcter historiogràfic. Afeccionat a la història, col·laborà activament amb el Cerimoniós en les seues mampreses
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historiogràfiques. Entre les seues aportacions destaquen la Grant Crónica de Espanya, el Libro de los Emperadores, la Grant Crónica de los Conquiridores, la Crónica de Morea, la Flor de las Ystorias de Orient i el Libro de Marco Polo. Aquests treballs comportaven bàsicament tres activitats: la de recopilació, la de traducció i la de síntesi. La recopilació va ser, en Juan Fernández de Heredia, la tasca més personal. La traducció i la síntesi corrien a càrrec dels seus col·laboradors, però no sense la seua intervenció personal. Així doncs, Heredia no va ser l’autor material de tots aquests llibres, però sí el director d’un gran equip d’erudits, traductors i copistes al seu servei, que realitzava les tasques que els assignava d’acord amb uns criteris i unes tries prèviament traçats. Això és el que es dedueix si més no del pròleg de la Grant Crónica de los Conquiridores, quan afirma: «Et por tal como el dicho senyor Maestro [de la Orden del Hospital] de la vida siempre lohó et alabó los fechos de los grandes conquiridores et príncipes, por aquesto él ordenó et fizo la present Crónica, en la qual epilogó ciertos príncipes, los quales él fizo sacar de diversas ystorias». Heredia s’hi involucra activament i és per això que en aquest, com en altres llibres, no li’n podem negar l’autoria intel·lectual. Les traduccions del scriptorium heredià no presenten una llengua uniforme, ja que l’aragonés mostrava una gran variació diatòpica, els traductors procedien dels més diversos indrets del regne i cada un dels quals es deixava endur per diferents graus d’interferència de fenòmens castellans i catalans. Encara que la preocupació fonamental d’Heredia no era lingüística, sinó historiogràfica, la seua labor traductora, realitzada en gran part a Avinyó, on ja se’l documenta el 1351 i on residí de manera permanent des del 1382, contribuí decisivament al conreu i el prestigi de l’aragonés. La Grant Crónica de los Conquiridores, una recopilació de biografies de grans personatges de la història universal, consta de dues parts: en la primera, de 16 llibres, figuren setze personatges de l’antiguitat, alguns mitològics, anteriors a Crist, com Alexandre Magne, Cirus, Aníbal i Cèsar; en la segona, de 18 llibres, figuren els emperadors August i Tiberi, Atila, Carlemany, Mussa i Tariq, Gengis Khan i, entre els hispànics, només el rei Ferran III de Castella i el rei Jaume I d’Aragó, que és precisament l’últim dels divuit personatges biografiats. L’obra, ja iniciada cap a 1360, va ser copiada entre 1385 i 1393 a la ciutat d’Avinyó. És, per tant, una de les darreres obres d’Heredia, que morí el 1396. Feta sota la inspiració de les Vides paral·les, de Plutarc, és un compendi que reflecteix la influència d’aquell primer humanisme que irradiava des de la cort pontifícia d’Avinyó.
2. Les Gestas del rey don Jayme de Aragón: fonts, datació, trets, autoria Per a les Gestas, Heredia es basà en la versió catalana del Llibre dels feits de Jaume I, sovint batejat en llatí com a Gesta Jacobi regis Aragonum. Talment com Pere Marsili va fer amb la seua versió al llatí de la crònica jaumina, Heredia ordenà a l’erudit a qui encarregà de redactar la biografia del rei Jaume que ho fes en tercera persona, i no en primera, per tal d’homologar-la al gènere historiogràfic a l’ús, que prescindís de les seccions de caràcter més personal o anecdòtic i que en resumís la resta. Com en altres obres eixides del scriptorium d’Heredia, l’autor material de la biografia del rei Jaume no es limità a usar com a font exclusiva el Llibre dels feits, sinó que, sens dubte sota la inspiració d’Heredia, incorporà dades relacionades amb Aragó, procedents d’altres
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fonts, sobretot de la primera redacció de la Crónica de San Juan de la Peña. Però aquests afegits afecten el conjunt molt poc, prou menys que les ampliacions de Marsili. El llibre de les Gestas comença per aquest íncipit: «Aquí comiença el XVII libro de las gestas [et] memorables fechos del virtuoso et muy excelent rey don Jayme de Aragón, et primerament de su començamiento et generación, et de las cosas que aprés se siguieron». D’acord amb el propòsit de Fernández de Heredia, el traductor-redactor distribuí la biografia en capítols, amb els seus títols, que no coincideixen amb les divisions que presenten els manuscrits catalans del Llibre dels feits. Un bon nombre de fragments de les Gestas reprodueix quasi literalment el contingut corresponent del text català. Altres vegades, el redactor els deixa en la mínima expressió. I n’hi ha un grapat, sobretot els que corresponen als capítols 34-46 i 494-553 de l’edició de Bruguera, dels quals s’ha prescindit totalment. Encara que a les Gestas alternen l’estil directe i l’indirecte, la tònica general n’és l’estil indirecte, per bé que no sempre practica l’alternança d’estils d’acord amb el text català, i a vegades posa en estil directe allò que en tots els manuscrits del Llibre dels feits apareix en estil indirecte, com ara en aquest fragment del cap. 89 del ms. C (95 en l’edició de Bruguera): Et quando el castellán fue con el rey de Mallorcas, fabló él secretament ensemble con sus fraires con el rey, et díxoles tales paraulas: «Senyor, yo vos suplico et prego carament, por el grant amor que vós me avedes todo tiempo avido et por la fe et firme esperança que yo he en vós, que vós fagades con los prelados et con los ricoshombres que la Orden del Hospital aya part en aquesta ysla, porque todos lo aurá[n] al Espital en mal et se lo daran a vergonya que en tantos buenos fechos de armas sean estados et que no sean estados a la presa de Mallorcas» (ed. Martínez Roy 2010: 107-108).
Heus ací el text català corresponent: E, quant fo vengut, dix que volia ab nós parlar, ab sos frares solament. E pregà’ns molt carament que, per la amor que nós li havíem e per la fe que ell havia en nós, que nós que volguéssem e que li aguisàssem ab los bisbes e ab los richs hòmens que l’Espital hagués part en la ylla aquella, que tots temps seria aontat l’Espital, que en tan bon feyt com aquell havia estat, e a pendre Mallorques no fos estat (ed. Ferrando/Escartí 2010: 196).
Conscient de la procedència oral del Llibre del feits, el redactor de les Gestas sol remarcar aquest tret amb fórmules com «solie dezir el rey don Jaime» o «según el rey manifestó después», tal com ho va fer Marsili en la seua versió llatina. Al capdavall, el text jaumí confirma una tradició que devia estar prou viva en temps d’Heredia. Des d’un angle merament filològic i textual, les seccions més interessants són les que calquen quasi literalment el text català. Ho ha remarcat recentment Colón (2010), que no s’ha estat d’advertir, tanmateix, que «l’estudi de l’aragonès en relació amb els seus veïns de llevant i de ponent és ple de paranys, i que hi calen molta cura i molta prudència en el tractament». S’ha especulat amb la possibilitat que un dels col·laboradors d’Heredia, l’escrivà saragossà Juan de Barbastro, autor de la còpia del manuscrit C del Llibre dels feits, hagués intervingut en la traducció aragonesa de la crònica jaumina «en torno a 1386» (Martínez Roy 2010: LXVII), però no s’ha adduït cap document en suport d’aquesta hipòtesi. Sabem que, el 1386, ja feia algun temps que la còpia del Llibre dels feits acabada el 1380 per Barbastro havia estat enviada pel rei Pere el Cerimoniós a la Ciutat de Mallorca, però puc avançar ja, com després justificaré, que la font d’Heredia no va ser la versió catalana que copià Barbastro.
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3. La transmissió textual del Libre dels feits: la consideració crítica de les Gestas Per situar les Gestas en la tradició textual del Llibre dels feits convé que recordem, ni que siga succintament, com es produí, ja a segle XIV, la bifurcació textual de la crònica jaumina. L’anàlisi textual de tots els manuscrits conservats del Llibre dels feits anteriors a la primera edició completa de la crònica jaumina (València,1557), ha permés considerar l’existència de dues famílies: la representada exclusivament per l’anomenat manuscrit de Poblet, o ms. H, copiat el 1343 per Celestí Destorrents, que se sol batejar com a família α, i la representada per la resta de manuscrits, quatre complets i dos fragmentaris, el més antic dels quals és l’anomenat manuscrit d’Aiamans (per haver estat propietat dels comtes d’Aiamans entre el segle XVIII i el XX), o ms. C, que és el que va copiar Juan de Barbastro el 1380 i que és avui el cappare de la família β. En la classificació dels manuscrits de la crònica jaumina seguim les sigles que proposà, el 1912, Jaume Massó i Torrents, que va reservar les lletres A i B per als dos manuscrits hipotèticament més antics, ara desapareguts: el model que utilitzà Pere Marsili el 1313 per a fer la seua versió llatina i el model que utilitzà el 1343 Celestí Destorrents per al ms. H, respectivament. Els quatre manuscrits complets són: a) el ms. H, en pergamí, copiat el 1343 per encàrrec de l’abat Ponç de Copons a partir d’un manuscrit en paper que Pere el Cerimoniós li havia deixat (avui Ms. 1 de la Biblioteca de la Universitat de Barcelona). És el manuscrit de base de l’edició crítica de Jordi Bruguera (1991); b) el ms. C, en pergamí, copiat el 1380 per orde del rei Pere el Cerimoniós al scriptorium del seu Palau Reial de Barcelona, destinat a la ciutat de Mallorca (avui Ms. 1734 de la Biblioteca de Catalunya. És la base de l’edició filològica d’Antoni Ferrando i Vicent J. Escartí (2010), c) el ms. D, en paper, copiat cap a 1500 a partir del manuscrit que guardava l’Arxiu de la Ciutat de València (avui Ms. II-475 de la Biblioteca del Palacio Real, de Madrid). Ha estat editat per la Generalitat Valenciana (2009), amb transcripció de Juan Galiana i Jaime J. Chiner. d) el ms. E, en paper, copiat a les primeres dècades del segle XVI probablement a partir d’un antígraf basat en el ms. de l’Arxiu de la Ciutat de València (avui Ms. 10121 de la Biblioteca Nacional, de Madrid); e) el ms. N, en paper, copiat en la primera meitat del segle XVI, que pertangué a Jerónimo Zurita (avui Ms. 9-47699 de la Biblioteca de l’Academia de la Historia, de Madrid). Els dos manuscrits fragmentaris són: f) el ms. O, en pergamí, copiat cap a 1380 i del qual només conservem els capítols 170-178 del Llibre dels feits, que possiblement va pertànyer al Consell de Cent de Barcelona (avui Ms. B-129 de l’Institut Municipal d’Història, de Barcelona); i g) el ms. F, de mitjan segle XV, que en realitat és un compendi dels capítols referits a la conquista de València (avui Ms. Y-III-5 de la Biblioteca de San Lorenzo del Escorial). El ms. H i totes les seues reproduccions modernes, manuscrites o editades, es caracteritzen perquè no conserven el títol del Llibre dels feits, comencen pel mot «Retrau», presenten 571 paràgrafs o capítols (o 566 en l’edició crítica de Bruguera, per agrupació de cinc capítols) i tenen unes variants textuals pròpies (arc de sant Martí, oreneta, emprendre, bres, etc.), que
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semblen respondre a les preferències catalanoorientals del copista Destorrents (Ferrando 2001). El ms. C i tots els que pertanyen a la mateixa família conserven el títol complet –«Aquest es lo començament del pròlech sobre el libre que féu el rey en Jacme, per la gràcia de Déu rey de Aragó e de Mallorches e de València, comte de Barchinona e d’Urgell e senyor de Muntpesler, de tots los fets e de les gràcies que nostre Senyor li féu en la sua vida. Incipit prologus»–, comencen pel mot «Recompta», presenten 484 paràgrafs o capítols, i tenen unes variants textuals pròpies (arc de sant Joan, oroneta, mamprendre, breçol, etc.), que, en paraules de Coromines, són de «fort matís extrem-occidental», el mateix parlar que aprengué el rei Jaume I, ja que residí predominantment a les terres de ponent fins als 19 anys d’edat. El ms. C presenta les mateixes característiques que el manuscrit en pergamí de l’Arxiu del Palau Reial de Barcelona descrit en un document del 4 de febrer de 1367, pel qual Arnau de la Penya reconeix haver rebut de Bernat Descoll, de la casa del rei, 70 sous i 6 diners de Barcelona per les 484 caplletres que havia dibuixat en «quodam libro dicti domini regis vocato Libre dels fets del rey en Jacme, de bona memòria», corresponents exactament als 484 capítols de C. Document, avalat per un altre de 1371, que ens il·lustra que el treball de còpia degué realitzar-se com a més tard el 1366 (Ferrando 2010: 50). La bifurcació textual de la versió catalana podria ser fins i tot anterior a la versió llatina de Marsili (1313), el primer text conegut del Llibre dels feits, perquè la col·lació textual de Marsili amb els mss. H i C revela una similitud molt més gran entre Marsili i el text del ms. C que no entre Marsili i el ms. H, raó per la qual Manuel de Montoliu va iniciar la frustrada edició crítica del Llibre dels feits acarant el text del ms. C i la versió de Marsili. Heus ací uns quants exemples que il·lustren les diferències textuals entre la versió de Marsili i els ms. H i C (adoptem ací la numeració de l’edició de Bruguera): QUADRE COMPARATIU DE LES VARIANTS TEXTUALS ENTRE LA VERSIÓ DE MARSILI I ELS MSS H (1343) I C (1380) a) coincidències entre el Ms. H i Marsil enfront de C: Capítol
Ms. H
Versió de Marsili
Ms. C
458
avoçtarda
avoztardas
ostarda
563
Jacme, fiyl nostre
Iacobus, filius noster
Jacme
b) coincidències entre el Ms. C i Marsili enfront de H: Capítol
Ms. H
Versió de Marsili
Ms. C
100
que·ls sirvents anassen combatre la rocha
et pedites impugnabant rupem ubi extra antrum, et equites ascenderunt per collem de super, ut ab aliqua parte eius exitus non pateret
que·ls sirvents anassen combatre la rocha e nós que pujàssem per .I. collet sobre la rocha
235
Sogorp
Cenobium Scarpi
Escarp
393
Açnares de Luna
Aznarii Darue
Aznàriz d’Arbe
501
-------
rogavitque ut rex Castelle cum e nós pregam al rey que entràs suo consorte veniret ad civitatem en València e ell atorgà’ns-ho e plach molt a la regina Valencie
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Aquests exemples mereixen uns breus comentaris. La coincidència entre Marsili i H en el cas d’avoçtarda sembla confirmar que aquesta era l’opció original i que probablement el model de C, datable el 1366, hauria alterat en ostarda, forma present també als mss. D, E i N, semblant al francés outarde, potser per considerar-la una variant més genuïna. En el cas de fill nostre, l’absència en C podria explicar-se perquè acabava d’aparéixer el mateix sintagma una línia més amunt: seria així una opció estilística del model de C, ja que aquesta absència també és compartida per D, E i N. En canvi, els quatre exemples següents posen de manifest dos tipus d’error en H: els dels capítols 100 i 501 són produïts per homeiotelèuton (provocat per la reiteració pròxima de «la rocha» i de «la regina»), i els dels capítols 235 i 393 responen a una diferent transcripció del mateix topònim i del mateix cognom. El primer tipus d’error il·lustra els nombrosos casos d’omissions textuals –«massa», segons Bruguera– de H. El segon confirma la correcció textual de C («Escarp» i «d’Arbe») enfront de H («Sogorp» i «Açnares de Luna»), ja que són lliçons avalades per Marsili, per les Gestas i per la documentació històrica. L’estudi del text de C ens ha permés confirmar que C és no solament més complet que H, sinó també, grafies a part, el més ajustat a l’original jaumí, sobretot quant al lèxic i l’onomàstica (Ferrando 2010). Crida poderosament l’atenció el fet que en els estudis sobre la bifurcació textual del Llibre dels feits i en la interpretació d’un bon nombre dels seus passatges o mots problemàtics a penes s’haja recorregut a les Gestas, potser perquè, en haver estat considerades sobretot com a resum de la crònica jaumina, no s’ha tingut en compte que contenien la traducció quasi literal de molts fragments. Només cal observar les edicions de Soldevila i de Bruguera per confirmar-ho. La constatació afecta fins i tot els traductors actuals de l’obra, generalment deutors de l’edició modernitzada de Josep Maria de Casacuberta o de l’edició crítica de Jordi Bruguera. Només l’ha tingut present recentment Josep Maria Pujol (Vinas 2008), però sense deixar d’adoptar el ms. H com a text base de la seua traducció. I, tanmateix, la consulta del text d’Heredia hauria pogut resoldre un bon nombre de problemes de fixació i d’interpretació i, doncs, de traducció. He dit un ‹bon nombre› de problemes i no ‹molts›, perquè en el treball de síntesi de les Gestas es van reelaborar uns quants fragments per evitar els loci critici de l’original jaumí. Així, davant un mot indocumentat com guilando del ms. H (capítol 23.13 de l’ed. Bruguera), referit a un tipus de cavall ràpid, que en el ms. C i la seua família és transcrit a tort per guiçado (capítol 24 ed. Ferrando / Escartí 2010: 127) –lectura segurament ja present en el model de C de 1366, per tal com també es troba en la resta de la família β–, l’autor del nostre resum recorre probablement a Marsili, que l’havia traduït com a bonum equum ‹bon cavall›, i posa «un buen caballo et sus armas». En relació a l’asdcripció textual del text d’Heredia, cal dir, però, que un bon estudiós italià del Llibre dels feits, Stefano Asperti (1982) sí que el va tenir present en les seues «indagini» sobre l’arquetip del Llibre dels feits. Ara bé, en centrar-se només en una secció i observar certes diferències entre el text d’Heredia i el ms. C, arribà a la conclusió que el text d’Heredia s’havia d’adscriure a la família populatense. Una conclusió que, tanmateix, va considerar provisional, atés que només havia examinat una quarantena de capítols. El fet és que no solament Bruguera, sinó altres estudiosos, com en un primer moment Ferrando (2001: 512) i fins i tot Colón (2010: 71) hem repetit acríticament aquesta conclusió. José Martínez Roy (2010:48) ja reconeix que el text d’Heredia s’ha d’adscriure a la família β, però dubta de si prové de C o d’un model comú, subarquetip del qual dependrien la versió catalana de 1380 i la d’Heredia, tot i que s’inclina per la segona hipòtesi. Ho examinarem seguidament.
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4. La ubicació textual de les Gestas En el seu estudi sobre l’aragonés de les Gestas, Colón (2010: 73- 74) reprodueix els capítols 127, 128 i 129 del Llibre dels feits segons l’edició de Bruguera per contrastar-lo lingüísticament amb la versió d’Heredia (Martínez Roy 2010: 133-135). Adoptaré aquesta mateixa secció de la crònica jaumina per fer un contrast textual entre els mss. H, C i D i la traducció d’Heredia. Els tres capítols de H corresponen al capítol 114 i a part del 115 de C (ed. Ferrando / Escartí 2010: 215-217). El text corresponent del ms. D (42v-43v) presenta la mateixa distribució de C (Generalitat Valenciana 2009: 181-182). La tria d’aquesta secció ens servirà així com a criteri objectiu per a examinar l’adscripció textual de les Gestas i per a intentar verificar la seua dependència, o no, del ms. C. QUADRE COMPARATIU DE LES VARIANTS TEXTUALS ENTRE GESTAS I ELS MSS. H, C, D Línia ed. Colón (1) 11 (2) 12 (3) 32
Gestas
Ms. H
Ms. C
Ms. D
d’isti regno frontera en Valencia
aquel regne de frontera en València
(4) 33 (5) 34 (6) 47
de la tierra ----[B.] es logar plano
de terra vuy dejús Déu Burriana és loch pla
(7) 48 (8) 50
fuéssedes podran [...] venir a vos començar a entrar en el regno ---en Mallorchas et don Garcia d’Uerta, su hermano de Xátiva sin número ballesteros
fóssets venrà-vos-hi
aquest regne de front en la ciutat de València de vostra terra huy Déu lo loch de Burriana és pla érets verran-vos-hi
aquest regne de front en la ciutat de València de vostra terra huy Déu lo loch de Burriana és pla érets veuran-vos-hi
començar al regne
començar al regne
lo mills al cap de la Pera e don Garcia d’Orta, son frare de Xàtiva més de nombre los ballesters
lo mills al cap de la Pera e don Garcia d’Orta, son frare de Xàtiva més de nombre los ballesters
(9) 54 (10) 63 (11) 66 (12) 67 (13) 69 (14) 78 (15) 79
començar a conquerir lo regne almenys al cap de la --son frare d’Ixàtiva més de comte les balestes
Aquest contrast textual ens permet deduir que el text de les Gestas coincideix amb H en 2, 3, 4, 6, i 7 (33’3%), que coincideix amb C en 1, 12, 13, 14 i 15 (33’3%), i que adopta solucions pròpies en la resta (33’3%). D’entrada, uns resultats com aquests permeten descartar que les Gestas depenguen de H o de C. El contrast textual també revela que moltes de les discrepàncies constatades (probablement 1, 2, 5, 8, 9, 11, 12, 15) són fruit del procés de còpia. I així mateix apunta que l’autor de les Gestas degué consultar més d’una font, ja que algunes de les solucions pròpies (com 5, 9, 11) podrien justificar-se com a alternatives del traductor-adaptador davant les discrepàncies entre les fonts consultades. Ara bé, malgrat posar en evidència que el model de C, i
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indirectament el de D, és a dir, la còpia cancelleresca de 1366, tractà de millorar lingüísticament el text català (3, 4, 6, 7) –raó que explica part de les discrepàncies entre H i les Gestas–, el ms. C preservà en general millor que H la integritat textual i, de manera especial, la historicitat de l’onomàstica (11, 12, 13). No es pot descartar, però, que part d’aqueixes discrepàncies siguen atribuïbles a l’heterogeneïtat textual interna de la seua font. Així i tot, és gràcies a H que, malgrat les seues omissions textuals (11, 12), podem reconstruir algunes omissions (5) de la família β. Com també és gràcies al testimoni conjunt de C i de les Gestas, per un costat, i de H i de les Gestas, per altre, que podem reconstruir hipotèticament almenys part de la fase textual més antiga del Llibre dels feits. Ara bé, per dilucidar l’adscripció textual de les Gestas a la família α o a la β, ens caldria ampliar el contrast textual a seccions més extenses del Llibre des feits. No cal dir que, en la comparació entre els mss. catalans, s’han d’excloure, per raons metodològiques –no tingudes en compte en els estudis de Bruguera–, els fragments de C corresponents als capítols 2.12-20.25 i 21.43-35.14 de l’edició de Bruguera, per tal com aquells foren afegits després de 1557 per una maldestra mà mallorquina, com també s’han d’eliminar els corresponents a 124.9-127.3 de H, perquè foren afegits modernament. En el primer cas, però, poden ser substituïts per D, el manuscrit més pròxim a C, si coincideixen. El quadre comparatiu següent entre les Gestas i els mss. H i C, tot i que els exemples han estat triats a l’atzar (van numerats correlativament entre parèntesis i referits als capítols corresponents de l’edició de Bruguera), apunta a una dependència de les Gestas de la segona família. QUADRE COMPARATIU DE LES VARIANTS TEXTUALS ENTRE GESTAS I ELS MSS. H, C Capítol
Gestas
(1) 23
un buen caballo
Ms. H guirlando
Ms. C guiçado
(2) 24
Borja
Burbáguena
Borja
(3) 27
Sobrearbre
Loarre
Sobrari
(4) 60
con bien
ab bé
hac bé
(5) 85
xech
xech
ret
(6) 100
que el rey con los de cavallo puyasse ------por un collado sobre la peña bevir en vuestra tierra andando por viure anan per vostra terra aquella --------secans
(7) 180 (8) 187
e nós que pujàssem per I collet sobre la rocha viure en vostra terra anan per la terra sas
(9) 187
Espioca
Ezpiota
Espioca
(10) 235
Escarp
Sogorp
Eescarp
(11) 254
Boyla
Bufila
Bulla
(12) 369
Orentosa
Montesa
Orentosa
(13) 393
Aznárez dArbe
Açnares de Luna
Aznàriz d’Arbe
(14) 456
en Ontinyen e en Burçon
en Ontinyen e·n Biar
en Biar
(15) 458
abutardas
avoçtarda
ostarda
(16) 485
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arch de sent Martí
arch de sent Joan
Interés de la versió aragonesa del Llibre dels feits del rei en Jaume en la fixació del text català
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No cal dir que moltes de les discrepàncies entre aquestes fonts són imputables a dificultats de comprensió d’algun mot o passatge (3, 4, 5, 9, 12) i a oblits (6, 14). Però el conjunt ens dóna una idea molt aproximada de l’adscripció textual de les Gestas. Dels setze casos adduïts, constatem que en tres les Gestas adopten solucions pròpies, bé per a eludir problemes textuals de les fonts consultades (8, 16), o bé perquè s’han inspirat en Marsili (1). Dels tretze casos restants, les Gestas només coincideixen amb H en tres casos (4, 5, 15) i parcialment en un quart cas (14) (30’7%). En canvi, les Gestas coincideixen amb C en set casos (2, 3, 7, 9, 11, 12, 13) (53’8%). Si ara ens centrem en l’aspecte textual dels vuit exemples de topònims i antropònims reportats en les tres fonts, veiem que les Gestas coincideixen amb C en set casos (87’5 %) i amb H en cap cas, si bé s’aproxima en el d’Ezpiota. I si adoptem el punt de vista de la historicitat onomàstica, constatem que, pel que fa als set exemples de topònims, les Gestes s’hi ajusten en quatre casos (2, 3, 9, 10), H en tres casos (11, 12, 14) i C en cinc casos (2, 4, 9, 10, 14). D’altra banda, les Gestas comparteixen amb C, però no amb H, alguns errors provocats per homoiotelèuton, atribuïbles, per tant, al model de C. Així, llegim: e no·s partí de nós tro fom en Toledo. E l’arquibisbe exí a nós a Alcalà; e així abdós anàrem ensemps ab nós tro en Toledo. E estiguem en Toledo VIII dies (cap. 475 ed. Bruguera) e no·s partí de nós tro fom en Toledo. E estiguem en Toledo VIII dies (cap. 401 ed. Ferrando/ Escartí) et non se partió d’él nin lo quiso dexar entro que fueron en Toledo, en la qual ciudat estuvieron VIII días (Gestas p. 378 ed. Martínez Roy)
En conseqüència, hem de relacionar les Gestas amb la família β i, més concretament, amb un text molt pròxim al que es copià el 1366 a l’Arxiu del Palau Reial de Barcelona, ja que és quasi idèntic, però no igual, com posen de manifest certes coincidències de les Gestas amb H. En altres mots, la versió de les Gestas s’adscriu a la versió que Pere el Cerimoniós considerà com la canònica, atés que és a partir d’aquesta còpia de 1366-1367 que se’n tragueren de noves i ‹oficials› per als diferents regnes de la Corona: la de C, per a la Ciutat de Mallorca, la del model més antic de D per a la Ciutat de València i la d’O probablement per a la Ciutat de Barcelona, perquè totes tres són pràcticament iguals. Només cal examinar-ne els capítols 170-178, els únics capítols compartits per tots els manuscrits de la família β, per comprovar-ho (Ferrando 2010: 39-42). En canvi, no es coneix cap còpia medieval del Llibre dels feits realitzada a partir del model de H, tot i que es guardava a l’Arxiu del Palau Reial, senyal evident que un rei tan rigorós en el maneig de la historiografia com Pere el Cerimoniós havia adoptat un criteri ecdòtic molt clar. I, en conseqüència, podria haver assenyalat a Heredia quin era el model més apropiat per a la traducció aragonesa. El model d’Heredia devia ser el mateix, o un de molt pròxim, que el que serví d’antígraf per a la còpia de 1366, hipòtesi que ens duria a datar abans d’aquest any la còpia que va aconseguir Heredia.
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5. A tall de conclusió: l’interés ecdòtic de les Gestas De la col·lació dels fragments i exemples que he adduït per a determinar l’adscripció textual de les Gestas, es dedueix clarament la importància de la traducció d’Heredia per a fixar i interpretar el text català, fins ara massa obviada. Ho il·lustrarem a continuació. No cal dir que la comparació entre el text aragonés de les Gestas i el text català del Llibre dels feits també pot aportar molts elements de lingüística contrastiva diacrònica, però ara ens centrarem en els aspectes ecdòtics. En primer lloc, el contrast entre H, C i les Gestas resol no pocs problemes d’interpretació del text jaumí, que a vegades han estat objecte d’estudis monogràfics sense tenir en compte l’obra d’Heredia. Així, observem que: – «ninea» (21.45 de l’ed. de Bruguera), que esdevé «vivea» a C, D, E, V, és la lliçó correcta, perquè és «poca edat» a les Gestas i així és com ho demana el context; – «Burbàgena» (24.11) és, en canvi, un testimoni aïllat enfront de «Borja» de C, D, E, V i de les Gestas; – «ab si quart de cavalers» (26.21), que C transcriu «ab si quatre cavallers», és «ab si quatro a cavallo» a les Gestas; – «primer» (27.5) és «primero» a les Gestes i no pot ser «privar» de C, D, E, V; – «d’onrar» (31.16) no pot ser tampoc «donar» de C, D, E, V, sinó «honrar» de les Gestas; – «ab bé» (60.3), que C transcriu «hac bé», és «con bien» a les Gestes; – «formiga» (160.10), que C transcriu «formatge», no és una bona lliçó de H, ja que Heredia l’interpreta com «un dinero», és a dir, com un producte d’escàs valor, com era a l’època el d’una tallada de formatge; – «espantà’s» (171.7), que C, D, E, V i també O llegeixen «emparà’s», només pot ser com a les Gestas: «se emparó»; – «era la guerra tan solevada» (188.7), en C és «era la terra tan sollevada», és a dir, és la «tierra» de què ens parla les Gestas; – «havien calada per algarreda» (191.14), que C transcriu «havien tallada per fer algarada», és «avien tallado pora fazer una algarrada» a les Gestas; – «Sanç de Mora» (223.7), que esdevé «sens demora» a C, D, E, V, és un personatge indocumentat, però Heredia també en parla com a «Sant de Mora»; – «riu d’Uyldecona» (237.31), que C transcriu «riu de Ulldecona» i D, E, V «riu de Tortosa», troba a les Gestes una eixida airosa: «esta otra part del río de Ebro»; – «almarge» (256.3), que C transcriu «almarjal» i D, E, V «la marjal», també és «almarjal» a les Gestas; – «cavallers de sarraïns» (256.11) és precisat a C, D, E, V com a «cavallers de València, de sarrahins» i a les Gestas com a «cavalleros moros de la ciudat»; – «batayla» (276.14), que a C, D, E,V és «bastida», també és correctament «bastida» a les Gestas; – «arquebisbe de Terragona» (281.20) és transcrit «arquebisbe de Narbona» a C, D, E, V i a les Gestas; – «venguda» (303.13) no pot ser sinó «vegada» de C, D, E, V i les Gestas; – «la nostra cort» (335.8), a C, D, E. V «lo nostre acort», és «nuestra entención e voluntat» a les Gestas;
Interés de la versió aragonesa del Llibre dels feits del rei en Jaume en la fixació del text català
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– «quam querere» (388.5) és transcrit «quam que sunt» a C, D, E i a les Gestas. No cal dir que el text català és també ecdòticament ben útil per a les Gestas. Comparem, per exemple, «agora, creyet, vos dará tanto de lo suyo» (ed. Martínez Roy 2010: 166) amb les lliçons «lo Ceyt» de C, «la Seyt» de H i «lo rey Zahén» de D, E, V (ed. Bruguera 166.30), on «creyet» no pot ser sinó una lectura errònia de les transcripcions de C o de H. En segon lloc, les Gestas són d’un considerable ajut ecdòtic per al català en lexemes que comparteixen un mateix ètim. La comparació entre el text aragonés i el text català confirma que el lèxic de la crònica jaumina no solament té moltes concomitàncies amb el català occidental, sinó més precisament amb el català extremoccidental, com ja va assenyalar Coromines. Així, Heredia recorre a la sinonímia en «cuna o breçol» per a traduir el geosinònim oriental «breç» (5.32), que en realitat deu ser una alteració en H de l’occidental «breçol», de C. En «cerca del vall», les Gestas reflecteixen literalment un aragonesisme del Llibre dels feits (170.13), present en el català extremoccidental. També és ben útil la comparació en el cas dels arabismes. Així, en algarrada / algarreda (H 191.14) / algarrada (C) observem la mà catalanooriental de Destorrents; en exortí / exortiquí (H) / exortí (C), una lectura errònia de H; en trujamán / trujanman H 74.7) / torcimany (C), una modernització de C. I és particularment útil en el cas de l’onomàstica. Així, comparem «Algerres et Restanya» d’Heredia amb «Algerós e Restanya» de H, amb «Algerrés e Rascaya» de C, D, E, i amb «Algerrés Racanya» de V, nom de les poblacions valencianes Algirós i Rascanya; o «Sant Garrén» d’Heredia amb «Sen Garrén» de H, C i amb «Sen Gayrén» de D, E, V, que correspon a la població aragonesa de Sangarrén; o «todo aquello» d’Heredia amb «tot ço» de H (349.4), esdevingut els topònims fantasmes «Botzo» a C, «Torzo» a D, E, N, i «Tormo» a V. Finalment, les Gestas confirmen el caràcter ‹oficial› del model de C, ja que en deriven clarament. A la vista d’aquesta conclusió, estaria ben justificada l’adopció del ms. C com a codex optimus per a l’edició crítica del Llibre dels feits, tal com hem argumentat en altres llocs (Ferrando / Escartí 1995; Ferrando 2001) i com més recentment ha aconsellat Colón (2008: 333). Ja no és sols qüestió de la «quantitat de testimonis que van en la mateixa línia», sinó qüestió de la qualitat textual, de l’aval documental múltiple i del criteri institucional. De fet, aquest punt de vista no és nou del tot. Ja l’havia defensat, el 1903, el mallorquí Gabriel Llabrés, i el mateix Bruguera (1991, I: 22-24) se’n va fer ressò, en afirmar que «el monarca no se’n degué fiar gaire [de la còpia de Destorrents], si tenim present que trenta-sis anys més tard en féu fer una altra còpia a Joan de Barbastre, que necessàriament se serví d’un altre original», i en reconéixer que el model de C «devia gaudir d’una certa autoritat oficial, vist el major nombre de mss. a què donà origen», conseqüència d’un «possible privilegi d’oficialitat». Heredia, que probablement ja s’havia tret una còpia del Llibre dels feits abans de la còpia cancelleresca de 1366, sabé triar l’opció adequada. Certament, ja comptem amb una bona edició crítica del Llibre dels feits, la de Jordi Bruguera, però crec que encara l’hem de considerar provisional. En alguns casos, perquè ha incorregut en oblits, com en el sintagma «e don Garcia d’Orta» (129.6), més amunt adduït, present a tota la família β i també a les Gestas, però no assenyalat; i en molts altres casos perquè, en no haver tingut en compte ni Heredia ni Marsili, no sempre ens ha donat les lliçons correctes ni ha interpretat escaientment les de H. Quant a les Gestas, ara comptem amb l’edició de Martínez Roy (2010), però s’hi troba a faltar un estudi lingüístic i un anàlisi contrastiva amb la versió catalana. Ara caldrà esperar l’edició crítica de la versió de fra Pere Marsili que es prepara com a
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tesi doctoral a la Universitat d’Alacant sota la direcció de Juan Francisco Mesa, perquè puguem disposar d’uns materials imprescindibles per a la fixació definitiva de Llibre dels feits. Només després d’aquests dos treballs seria possible donar a llum una edició crítica més completa i rigorosa de la crònica jaumina. Una edició que tingués en compte no solament els manuscrits complets de la tradició catalana, llatina i aragonesa, sinó també les versions parcials catalanes, com la del ms. F, la de l’Aurem Opus (AO) de València (1515) i les versions de la part referida a la conquista de Mallorca, que ja va donar a conéixer Josep Maria Quadrado. Més encara, no s’hauria de prescindir de les nombroses marques de lectura de molts d’aquests textos. I en tota aquesta operació, les Gestas del rey don Jayme de Aragón hauran de convertir-se, com hem pogut comprovar, en un referent imprescindible.
Bibliografia Asperti, Stefano (1982): Indagini sul Libre dels feyts de Jaume I. Dall’originale a l’archetip. In: RJb 33, 269-285. Bruguera, Jordi (ed.) (1991): Llibre dels fets del rei en Jaume (2 voll.). Barcelona: Barcino. — (1999): El vocabulari del Llibre dels fets del rei Jaume I. València: Institut Interuniversitari de Filologia Valenciana / Publicacions de l’Abadia de Montserrat. Colón, Germà (2008): Les edicions cincentistes valencianes de la Crònica del rei Jaume. In: Colón, Germà / Martínez Romero, Tomàs (edd.): El rei Jaume I. Fets, actes i paraules. Castelló / Barcelona: Fundació Germà Colón / Publicacions de l’Abadia de Montserrat, 313-334. — (2008): Sobre el aragonès de les Gestas del rey don Jayme de Aragón. In: Colón, Germà / Gimeno, Lluís (edd.): La llengua catalana en temps de Jaume I. Castelló de la Plana, Universitat Jaume I, 71-80. Ferrando, Antoni (2001): Aproximació dialectològica al Llibre dels fets de Jaume I. In: Arxiu de Textos Catalans Antics 20, 511-521. — (2010): El Llibre dels feits del rei en Jaume. La versió canònica de la crònica jaumina. In: Ferrando, Antoni / Escartí, Vicent Josep (edd.): Jaume I. Llibre dels feits del rei en Jaume. València: Acadèmia Valenciana de la Llengua, 25-58. Ferrando, Antoni / Escartí, Vicent Josep (edd.) (1995): Llibre dels fets de Jaume I. Catarroja / Barcelona: Afers. — (2010): Llibre dels feits del rei en Jaume. València: Acadèmia Valenciana de la Llengua. Foulché-Delbosch, Raymond (ed.) (1909): Gestas del rey don Jaime de Aragón. Madrid: Sociedad de Bibliófilos Madrileños. Generalitat Valenciana (2009): Libre que féu lo gloriós rey en Jaume. Transcripció per Jaime J. Chiner i Juan Galiana. València: Conselleria de Cultura i Esport de la Generalitat Valenciana. Martínez Roy, Francisco José (ed.) (2010): Libro de las gestas de Jaime I, rey de Aragón. Compilación aragonesa patrocinada por Juan Fernández de Heredia. Zaragoza: Larumbe. Martínez San Pedro, María de los Desamparados (1984): La crónica latina de Jaime I: edición crítica, estudio preliminar e índices. Almería. Vinas, Agnès i Robert (edd.) (2008): El Llibre dels fets de Jaume el Conqueridor. Versió en català modern de Josep Maria Pujol. Mallorca: Editorial Moll.
Mar Garachana Camarero (Universitat de Barcelona)
Ço és (a saber). La reformulació als textos catalans antics1
1. Reformulació i reformuladors al català antic La reformulació textual consisteix en un tipus de relació semàntica entre continguts textuals informativament propers. Més concretament, la reformulació textual suposa tornar a formular o ampliar una informació donada, per tal de fer-la més transparent o per tal d’aclarir i concretar el seu sentit. En aquest treball ens centrarem en una de les manifestacions de la reformulació explicativa o parafràstica al català antic; la vehiculada per ço és i ço és a saber –formes majoritàries al corpus– i les seves variants formals (so és, zo és, so és a ssaber, zo és a saber, ço és saber). A (1), per exemple, tenim una estructura reformulativa, la segona part de la qual permet ampliar la informació continguda al primer enunciat. Es diu que el rei Pere regnava en un gran regne i a continuació s’especifica, mitjançant una enumeració, l’abast dels territoris que conformaven aquest regne. A través de la equació entre enunciats, un contingut discursiu es torna a reproduir amb variants més o menys acusades. El connector reformulatiu posa en relació dos fragments textuals el segon dels quals consisteix en una nova formulació del primer, de manera que aquest segon enunciat té una funció metadiscursiva –metalingüística de vegades– respecte del primer (Rossari 1994). 1.
Aquest rey En Pere destrenyia gran terra, so és saber lo regne d’ Aragó, e tota Catalunya, e Carchacès, e Bedarès, e Montpesler e tota Prohensa aytant com del Emperi era (Bernat Desclot, Crònica II, pág. 44, l. 8, anys 1275-1299, apud cica)
A part de ço és i ço és a saber, al català antic existien d’altres reformuladors formats sobre la base d’aquests, com ara so convé a saber, so és a entendre, so és a dir, a saber, és a saber (2), ço és saber, dels què no ens ocuparem en aquest treball. Tot i així, hem de remarcar que l’existència d’aquests marcadors tan pròxims a ço és i a ço és a saber és una prova fefaent de la transparència semàntica del marcador. Com que el significat de les parts encara no està opacat, es possible emprar sinònims del verb copulatiu (ço convé a saber) o del verb saber (so és a entendre, so és a dir). Aquest treball s’ha realitzat en el marc de dos projectes d’investigació: Gramática de las perífrasis verbales del español. Historia, Pragmática y Discurso (FFI2008-00948/FILO) i Artificial Language Evolution in Autonomous Robots (European STREP grant: 214856).
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Mar Garachana Camarero
2.
a. Primerament, que·l dit P.Girona fassa e sia tengut de fer ·I· reretaule de sent Miquel aytal e d’aytal forma e rana e obrage que és aqueyl qui és en la glesa parroquial de Sent Jacme de Perspenyà, és a ssaber d’aytals o semblans històries e d’aytal pint o semblant e d’aytals obrages d’or fi e d’aytals obrages d’argent daurat ( «Encàrrec d’un retaule de sant Miquel», 10 de gener de 1376, apud Mil anys de llengua i literatura catalanes al Rosselló, p. 56)
Les formes a saber i és a saber, que no van prosperar al català (a diferència del castellà i del francès), son el resultat d’un escurçament de la forma gramaticalitzada del marcador discursiu. El mateix escurçament s’observa a ço és saber, on s’ha eliminat la a prepositiva. Aquesta pèrdua de cos fonètic és pròpia dels processos de gramaticalització, de manera especial als estadis més avançats (vid. Lehmann 1982/1995).2 En aquest treball, s’estudiarà el procés de gramaticalització dels connectors reformulatius més freqüents al català antic –ço és i ço és a saber– i el seu funcionament a la llengua antiga, tenint en compte no només els valors del connector, sinó també les tradicions discursives en les quals era emprat. Per a dur a terme aquest treball, s’ha consultat el CICA (Corpus informatitzat del català antic), creat en el si del projecte per l’elaboració de la Gramàtica del català antic, dirigida per Manel Pérez-Saldanya i Josep Martines. Aquest corpus bàsic s’ha completat amb la lectura de les obres Mil anys de llengua i literatura catalanes al Rosselló i Primers textos de la llengua catalana. S’ha seleccionat un total de 1676 ocurrències dels marcadors discursius i de les seves variants.
2. L’ètim i l’evolució semàntica Pel que fa a l’ètim, ço és i ço és a saber es poden relacionar amb el marcador reformulatiu hoc est, documentat en llatí des de l’etapa arcaica, present als textos clàssics i vigent al llatí tardà. Hoc est alternava les seves tasques reformulatives amb el marcador id est, que alguna vegada ha estat assenyalat com a origen de la forma esto es del castellà (Pons 2008): 3. 4.
Diapasón harmoniam, hoc est, universitatem concentus (Pl. 2, 84) apud Wölfflin Eduard (1900). Phicos thalassion, id est, fucus Marinus (Pl. n.h. 26) apud Wölfflin, Eduard (1900).
L’evolució formal des de hoc est fins al català ço és es pot explicar per l’acció de les lleis fonètiques pertinents. El procés evolutiu seria el següent: 5.
ecce hoc
> açò > ço
Ço és una simplificació d’açò, procedent del reforç articulatori de la forma llatina hoc mitjançant la partícula ECCE. La simplificació de açò en ço s’explica per un procés d’afèresi que es dona en uns quants supòsits: quan ço funciona com antecedent d’una oració de relatiu, en els connectors per ço, per ço que, per ço car, per ço com, ço és La forma és a dir, connector reformulatiu del català actual és també el resultat d’un escurçament de la forma ço és a dir.
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a saber, ço és i amb un possessiu o seguit per la preposició de per expressar possessió –cfr. Alcover / Moll (1962/1993) i Moll (1991) per una explicació més detinguda–. El marcador del català, com abans el del llatí, és l’encarregat de subratllar l’equació semàntica que la reformulació estableix entre dos fragments discursius. El demostratiu ço (hoc en llatí) funciona com un resumtiu que remet anafòricament a l’enunciat previ resumintlo en una forma pronominal neutra. El verb és és un verb de contingut molt vague, que estableix l’estructura ecuativa que iguala, establint una equivalència sintàctica i semàntica, el que s’ha dit i el que es dirà a continuació. Aquesta equivalència és l’essència del significat reformulatiu. Ço és es converteix d’aquesta manera en una mena d’igual matemàtic, bé que en aquesta ocasió l’equivalència es dona en termes argumentatius: 6.
X=Z
El marcador formula una instrucció per tal que el destinatari del missatge interpreti com a variants de significat els fragments textuals que apareixen respectivament abans i després del marcador: 7.
Q = Q’
La variant ço és a saber és una concreció del sentit descrit, al valor equatiu de l’expressió ço és se li afegeix la preposició direccional a i el verb transitiu saber, l’objecte directe del qual és el fragment discursiu que ve al darrera: això és a saber X, o el que és el mateix, això és per que s’entengui X. Tot i que en català es troben les formes ço és i ço és a saber plenament gramaticalitzades, hi ha contextos al segle xiii on encara es pot reconèixer el sentit anafòric del demostratiu, que referiria un fragment textual anterior. Per exemple, a (8), on el so és enquax conserva bona part del sentit etimològic de això és gairebé: 8.
ÀGATA Àgata dita de agios, que vol aytant dir co «sant», e teos, que vol dir «santa de Déu». O dita Agatha de a, que vol dir «senes», e geos, que «terra», e teos, que «Déus»; so és enquax «deuessa senes terra»; senes amor de les causes terenals. (Vides de Sants Rosselloneses Segle XIIIb, apud CICA)
3. El reformulador ço és (a saber). Estructura sintàctica Pel que fa al funcionament de ço és i ço és a saber dins del text, cal assenyalar que aquests marcadors de vegades queden integrats en l’estructura sintàctica de l’enunciat del què formen part. És el cas d’exemples com el següent: 9.
E Sent Aman atorgà -li mol benignament la primera demanda, So és que li perdonà, mas temé si mesclar en los secglars negocis, per què no volc consentir a la segona demanda, e pertís del rey. (Vides de Sants Rosselloneses, Segle XIIIb, apud CICA)
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Mar Garachana Camarero
Però, de manera habitual, el marcador reformulatiu té un funcionament parentètic, és a dir, apareix entre pauses –tot i que la llengua antiga no sempre dona testimoni gràfic d’aquest fet– aïllat de la resta de l’oració i amb un abast que afecta a tot l’enunciat. Es tracta del que hom ha anomenat un matisador (vid. Cuenca 1990, 2001, 2003). En el nostre cas, el matisador té una posició fixa determinada per l’estructura equativa a què dóna lloc: es situa al mig de dos arguments que queden vertebrats pel marcador discursiu, que actua com a eix al voltant del qual s’estableix la simetria semàntica. 10. A ço és / ço és a saber B
Amb freqüència, la reformulació es dóna al sí d’una oració, de manera que la vinculació metadiscursiva es dóna en una perspectiva intraoracional. Així ho podem veure als següents exemples, on el conjunt reformulat és un argument del verb principal –per ex., el subjecte (11) o l’objecte directe (12)– o un adjunt –un complement circumstancial de temps (13). 11. Los altres, emperò, so és los bisbes ab tots los del bras ecclesiàstich, los comptes, biscomptes ý barons ab tots los del bras militar ý totes les ciutats ý viles per lo bras real, salvo una o dos, entraren en aquesta demanda ý perseveraren (Los col·loquis de la insigne ciutat de Tortosa, Segle XVIb, apud CICA) 12.
a. E aprés aquest Remiro, hi hac nou reys e bons crestians. E lo derer fon appellat Eutiza, lo qual fon rey molt cruell. Aquest manà que los clergues e bisbes de tota sa senyoria tinguessen drudes, ço és, amigues (Sumari d’Espanya-5, Segle XVb, apud CICA)
b. E Senta Agnès li respòs: —Eu no sacrificaré als déus teus, ni seré ensutzada per altruys legezes, cor eu é garda ab mi qui ·m garda lo meu cors, so és l’ àngel del meu Séyer—. (Vides de Sants Rosselloneses, Segle XIIIb, apud CICA)
13.
(per cor no dejunam en los digmenges per alegretat e per reverència, per rasó e per exempli de Jhesuchrist, qui en aytal dia de la sua ressurectió menjà does vegades, so és quant entrà als discípols, les portes clauses, e éls li donaren una part de pex torat e bresca de mel; e altra vegada cant los discípols anaven en Emaús) (Vides de Sants Rosselloneses, Segle XIIIb, apud CICA)
Així doncs, sovint, el fragment reformulatiu constitueix un apart discursiu que s’integra dins de l’oració principal. Reformulatiu i terme reformulador conformen un incís argumentatiu. Contràriament al que podria fer pensar el sentit reformulador, aclaridor del significat de la reformulació, no sempre hi ha immediatesa en la posició del terme reformulat i del terme reformulador, sinó que de vegades queden separats per incisos més o menys pronunciats. Així al següent exemple, on el pronom personal ell (él) és especificat mitjançant la reformulació que apareix unes paraules més endavant: 14.
On vos conseyl que si él ho vol fer, que la li donets; so és lo chomte de Barcelona, lo melor cavaler, e ·l pus prous e del pus alt linyatge qui sia e ·l món. (Crònica_II [Desclot], Segle XIIIb, apud CICA)
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El paral·lelisme sintàctic que caracteritza a les estructures reformulatives determina que el segon membre mantingui les mateixes característiques formals del membre que reformula. Així, si l’element reformulat és un substantiu, el terme reformulador també ho es (exemple 15). El mateix passa amb la resta de categories gramaticals (vid. 16 per als sspp). 15.
Aquest rey En Pere destrenyia gran terra, so és saber lo regne d’ Aragó e tota Catalunya, e Carchacès, e Bedarès, e Montpesler e tota Prohensa aytant com del Emperi era. (Crònica_ II [Desclot], Segle XIIIb, apud CICA)
16. E dejunam en lo cart dia, so és en lo dimercres, per cor adoncs lo Seyor fo liurat per En Judas. (Vides de Sants Rosselloneses, Segle XIIIb, apud CICA)
En el cas que el que es reformula sigui una estructura amb forma oracional, el segon membre acostuma a anar introduït per un que, marca del caràcter oracional de l’estructura reformulada. 17.
E apelà -lo Simeon per ·III· noms, so és que l’ apelà «saludar» e «lum» e «glòria del pòbol d’ Irael. (Vides de Sants Rosselloneses, Segle XIIIb, apud CICA)
18.
Les quals processons anaren ab est orde, so és, que tots los capellans anaven ab les muses al cap ý sombreros, ab sos gayatos en les mans, com qui va en romeria. (Libre d’Antiquitats de la Seu de València 1, Segle XVIa, apud CICA)
Menys freqüent és que aquest paral·lelisme sintàctic no es mantingui; malgrat tot, en ocasions es trenca amb la identitat categorial. Així passa als exemples de (19-20), on el terme reformulat té la forma d’un adjectiu i el terme reformulador és un sintagma preposicional. 19. a[n]iy, ý p[er] co[m] animal més fort de llos de quatra peus; p[er] aco[m]part en lo mes més fort que tots los altres messos. Astà co[m]post aquest signa da ·XXVII· astellas. És signa mascolí, orientall, so és, da lavant. (Llibre dels planetes i dels signes, Segle XVIb, apud cica) 20.
Encare, de totes aquestes, alcunes n’ í à qui són aromàtiques (ço és, de bona odor), alcunes no; e alcunes dolçes, altres no. (Regiment de sanitat a Jaume II, Segle XVa, apud CICA)
Però, en aquests casos tots dos termes compleixen una mateixa funció sintàctica, la de atribut. És a dir, allà on es trenca la unitat categorial s’imposa la igualtat funcional.
4. Les tradicions discursives en l’evolució de ço és i ço és a saber A partir de les dades amb què hem treballat (vid. quadre 1), es pot dir que els connectors ço és i ço és a saber van néixer lligats a dos tradicions textuals concretes: els textos jurídics i els textos religiosos i morals.
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Mar Garachana Camarero
Ço és administratius científ.-tècnics Cròniq i historiografia dietaris epistolar jurídic llibres de cort
Segle Segle S e g l e S e g l e S e g l e Segle Segle Segle Segle XIIIa XIIIb XIVa XIVb XVa XVb XVIa XVIb XVIIa 0,36% 5,3% 1/275 15/292 3% 9/292 0,36% 1% 1/275 3/292 0,3% 1/292 37,5% 35,2% 43,8% 3/8 97/275 128/292 9,4% 3% 26/275 9/292
2,8% 9/312 19,8% 62/312 6,4% 20/312 3,5% 11/312 6,7% 21/312 7% 22/312 0,5% 1/312 3,5% 11/312 7% 22/312
4,8% 14/291 12,3% 36/291 0,34% 1/291 8% 23/291 1,3% 4/291 4,4% 13/291 0,34% 1/291 2,7% 8/291 62,1% 181/291
5,6% 15/268 11,5% 31/268 13,4% 36/268 21,2% 57/268 13,4% 36/268 0,37% 1/268
13,6% 16/117 3,6% 2/55 32,4% 38/117 20,5% 24/117
12,7% 7/55
16,4% 9/55 52,7% 33,3% 29/55 4/12 12,7% 7/55 0,85% 41,6% 1/117 5/12
prosa cancelleresca
prosa de ficció
religiosa i moral
12,5% 35,2% 3,4% 1/8 97/275 10/292
Ço és a saber
Segle Segle S e g l e S e g l e S e g l e Segle Segle Segle Segle XIIIa XIIIb XIVa XIVb XVa XVb XVIa XVIb XVIIa
administratius
------
------
científ.-tècnics
------
------
------
2,5% 7/275
2,7% 8/292 3,4% 10/292 1,7% 5/292
0,32% 0,34% 1/312 1/291 12,5% 0,68% 39/312 2/291 5,1% -----16/312
-------
-------
-------
-------
jurídic
50% 4/8
llibres de cort
------
9,4% 23% 26/275 67/292 7% ------19/275
3,2% -----10/312 0,64% 1,37% 2/312 4/291
prosa cancelleresca
-------
-------
-------
-------
prosa de ficció
------
------
------
religiosa i moral
------
Total
8
cròniqu i historiografia dietaris i epistolaris
14,5% 39/268 15,2% 32,5% 1,8% 41/268 38/117 1/55
25% 3/12
-----1,5% 4/268
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0,34% 1/291 0,68% 2/291
3% 8/268
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0,36% 9,2% 1/275 27/292
12,5% 39/312 8,3% 26/312
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275
312
291
268
117
55
12
292
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Quadre 1. Ús dels connectors ço és i ço és a saber en relació amb les tradicions discursives
Ço és (a saber). La reformulació als textos catalans antics
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Si observem aquest quadre, podem comprovar que la freqüència d’ús més alta d’aquests connectors és concentra en les esmentades tradicions discursives fins a mitjans del segle xiv. A la segona meitat del segle xiv trobem una diferència marcada entre ambdós connectors: ço és té més freqüència d’ús als textos científics i tècnics i ço és a saber, als científics i tècnics i a la prosa de ficció. A partir d’aquest moment, ço és a saber pateix una forta davallada en la seva utilització, mentre que ço és abandona l’especialització d’etapes anteriors, de manera que ja no podem trobar tendències d’ús tan marcades. A la primera meitat del segle xv s’utilitza sobretot als textos religiosos i morals; a la segona meitat d’aquest segle, en canvi, destaca als dietaris i epistolaris. Durant la primera part del xvi, és més freqüent a les cròniques i als textos religiosos i morals, mentre que a la segona part del xvi el seu ús torna a ser més elevat als dietaris i epistolaris. Finalment, al segle xvii presenta una freqüència d’ús no molt diferent als diferents tipus textuals als quals es fa servir (dietaris i epistolaris, lllibres de cort i prosa de ficció). Malgrat tot, les tradicions discursives assenyalades ens permeten marcar certes diferències funcionals entre ço és i ço és a saber. Ço és resulta la forma més habitual i versàtil com es pot veure al quadre 1. Aquest marcador apareix a tots els tipus de textos considerats. Ço és a saber apareix amb una freqüència d’ús bastant més baixa, força especialitzat al text jurídic, i falta en algunes tradicions textuals com ara als epistolaris i dietaris i a la prosa cancelleresca. En aquesta línia, la seva presència va ser molt minoritària als textos administratius. Ara bé, en alguns moments i en alguns gèneres ço és a saber va tenir una presència semblant a la de ço és, o, fins i tot, superior. Així, les primeres aparicions dels marcadors reformulatius als textos escrits es donen als textos jurídics en una proporció superior per a ço és a saber. Al segle xiv, el de més ús de ço és a saber, aquest connector fou majoritari a la prosa religiosa i moral, i als textos científics i tècnics presentava una freqüència d’ús gairebé idèntica a la de ço és. Per la seva banda, a les cròniques i textos historiogràfics ço és a saber va ser la forma més emprada fins a mitjans del segle xiv, quan ambdós marcadors gairebé igualen la seva presència. Ja per últim, hem de dir que l’aparició dels marcadors reformulatius als textos de ficció va anar de la mà del marcador menys freqüent (ço és a saber), que a la segona meitat del segle xiv va ser la forma majoritària. Al segle xv, coincidint amb la decadència general de ço és a saber, la forma més llarga va patir una forta davallada. En síntesi, la forma ço és a saber presentava limitacions referents als valors que expressava i al tipus de text on s’utilitzava. Pel contrari, ço és no presentava aquestes limitacions, de manera que estava molt més arrelat al sistema dels marcadors del català. No és d’estranyar, doncs, que les restriccions funcionals de ço és a saber acabessin portant al connector a la seva progressiva desaparició, molt abans que a ço és. Com podem veure, des de començaments del segle xv ço és a saber s’utilitza molt poc i no arriba al segle xvi. A diferència d’altres llengües romàniques el català no presenta cap derivat del marcador ço és a saber.
5. Valors del marcador ço és (a saber) en català antic Com avançàvem, els connectors ço és i ço és a saber en català antic estan especialitzats en l’expressió de la reformulació parafràstica, explicativa. Més concretament, els valors reformuladors de ço és i ço és a saber es concreten en les següents funcions:
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Mar Garachana Camarero
a) Reformulació parafràstica (fer una paràfrasis del que s’ha dit abans) Ço és i ço és a saber introdueixen un fragment discursiu la funció del qual és la de donar una nova versió d’una informació prèviament enunciada al text. Comunicativament, es pot dir que el membre reformulador, és a dir, el fragment textual que es presenta com a reformulació del què s’ha dit conforma una millor expressió del contingut que es vol transmetre, ja sigui perquè s’especifica més el que es vol comunicar, ja sigui perquè es formula d’una manera que el parlant considera més entenedora. Per aquest motiu, no es gaire habitual limitar-se a dir d’una altra manera el que ja s’ha dit, com seria el cas de (21), on es repeteix amb lleugeres variants el supòsit de que un pare o una mare visquin més que llur fills: 21.
succeex els béns de pare o de la mare mortz abintestatz. E aquel fil que axí viu una ora o plus, successor del pare o de la mare. E si el pare o la mare sobreviu a aquel fil, so és que més viva que aquel fil o aquela fila, e aquel fil mor entestat, no avent fils ne files ne jermans, ven e pertayn a aquel pare o aquela mare tota la successió, sens tot contrast. (Costums de Tortosa, Segle XIIIb, apud CICA)
Més freqüents són altres casos on la reformulació té un valor de concreció, de precisió, i ampliació de la informació que s’ha donat abans, per tal de fer-la més transparent i precisa. D’ells passem a tractar. b) Especificació, concreció o explicació: la reformulació permet especificar, ampliar, una mica més el que s’ha dit a la primera part de l’estructura reformulativa o bé introduir una aclaració -especificació no enumerativa 22. ab lo emperador, ý tots los grans del present regne, salvo lo compte de Oliva, que per sa indisposició no hera aribat, hí mestre de Muntesa, ý de molta altra cavalleria. Ý, axí, li feren la volta per la ciutat, so és, per lo carrer dels Serrans, per la plaça de Sanct Bertomeu ý per lo carrer de Cavallés, ý per lo Mercat, ý per los Aludés, ý plaça dels Caxés, ý per Sanct Martí. (Llibre de A, segle XVIa, apud CICA)
-especificació enumerativa 23.
Un macip jove robà e forsà una santa monga; per què, los clerges l’ amenaren davant Sent Joan, e dixeren que aquel era escomenyador, per cor avia does ànimes perdudes; so és: la sua e aquela de la monya. (Vides de Sants Rosselloneses, Segle XIIIb, apud CICA)
-explicació 24.
E com lo dit senyor rey En Jacme fo passat d’ esta vida, lo dit senyor inffant En Pere, fill seu, e ·l dit senyor inffant En Jacme, axí mateix fill seu, se coronà cascun rey: ço és a saber, que ·l senyor inffant En Pere anà a Ceragossa, et aquí aplegà ses corts, et posaren -li la corona del realme d’ Aragó ab gran solepnitat et ab gran alegra et ab gran festa. (Crònica [Muntaner], Segle XIVb, apud CICA)
Ço és (a saber). La reformulació als textos catalans antics
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-aclaració (moltes vegades serveix per desfer una ambigüitat) 25.
dix aquest que ell ha vist en poder deldit Bernat Togores lo dit falchó e conex bé que aquell que ells apellaven en lo loch de Luchmajor «Galiana». Demanat del senyals del dit falchó, e dix que ell ha, so és lo dit falchó, los lagremés ben trancats e déu ésser de dos coltells de la ala dreta escart i una ploma de sa coha rossagada. (No serets tots temps batle (1/2), Segle XIVb, apud CICA)
Així doncs, la principal funció dels reformuladors ço és i ço és a saber és la de proporcionar més informació. Tenen una funció amplificadora. Aquesta funció es pot concretar, com als exemples anteriors, en la formulació d’una informació que amplia els continguts informatius que l’antecedeixen mitjançant una aclaració, una especificació o una explicació. c) Valor conclusiu 26.
Lo senyor qui establex o fa procurador en pleit o en negocis, ço és, en afers a aministrar, pusque aquel remoure e revocar ans del pleit començat o aprés lo pleit començat, qualque hora a ell plaurà, e menar son pleit en sa pròpia persona o per altre procurador, si fer ó volrrà. (Furs de València, Segle XIVa, apud CICA)
d) definició: la segona part de l’estructura reformuladora funciona com a definició de la primera, és la seva glossa 27.
a. E adoncs lo pretor, so és lo loctenent del seyor, la manà despular, e, despulada, él féu -la adur là on les putanes estaven. Vides de Sants Rosselloneses Segle XIIIb
b. E enayxí ela lo tirà, ligat, per tot lo mercat. Enaprés ela lo gità en una latrina, so és, en una clavegera. (Vides de Sants Rosselloneses, Segle XIIIb, apud CICA)
e) Traducció d’un text llatí previ 28.
nostra lenga vol aytant dir co «vel·lant», per cor él vetlà a sí, e a Déu, e al seu folc, al seu pòbol. A sí per conservacion de nedesa; a Déu per vera comtemplacion; e al folc, so és al pòbol, per contínua predicació. (Vides de Sants Rosselloneses, Segle XIIIb, apud CICA)
29. En aquest cap avien de ésser los càrcers que són dits emissiones equorum, so és lochs de ont trametien ý exien los cavalls ab los carros ý la columna que aquí potser era la meta. (Llibre de les grandeses de Tarragona, Segle XVIa, apud CICA) 30.
In tercio gradu est nepos e neptis, nét e néta del frare e de la jermana e nepos e neptis patrui magni et amite magne et avunculi magni e matertere magne, so és nét e néta de l’ avoncle e de la tia, de part de pare e de mare. (Costums de Tortosa, Segle XIIIb, apud CICA)
f) Rectificació 31.
qui de marit e de muler, on, si aital fil naix estant lo pare en casa o dins ·X· meses que ·l marit serà partit de son alberch on la muler, presumció que d’ aquel matrimoni, so és d’ aquel marit. (Costums de Tortosa, Segle XIII, apud CICA)
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Mar Garachana Camarero
g) Introducció d’una conseqüència del que s’ha enunciat al terme reformulat 32.
Si testador establex alcun hereu, pot fer substitut a aquel en aquesta forma: «establesch Johan hereu meu; e si no pren la heretat o no la pot pendre o no la vol pendre, so és que diga que no vol ésser hereu, substituex -li Bernat». (Costums de Tortosa, Segle XIIIb, apud CICA)
h) introducció d’un enunciat que conté una ampliació del que s’ha enunciat abans, en moltes ocasions es tracta d’un procediment de focalització discursiva 33.
E sàpies que aquelò que tu vols no ó poràs ab mi acabar–. E ·l pretor dix -li –Una de dues cozes elegex so es és: que ab les autres verges fasses sacrificis a la nostra deuessa, o que esties ab les putanes–. (Vides de Sants Rosselloneses, XIIIb, apud CICA)
34.
Per què En Quincià li dix: –Elig que tu volràs, so és: que sacrifiques als déus, o sostenges diverses turmens–. (Vides de Sants Rosselloneses, Segle XIIIb, apud CICA)
En contextos com els anteriors la funció reformuladora del connector resulta redundant, donat que el primer membre ja conté alguna peça que és indicadora que a continuació es presentaran dues o més alternatives, que són les que explicaran la tria formulada al primer enunciat. En el primer cas, el SP per la manera sagüent funciona a manera d’introductor de l’explicació. En el segon cas, una de dues cozes elegex també té aquest valor introductori que queda destacat pel connector. Ara bé, la referència catafòrica no sempre es precisa. Així al següent exemple, ço és introdueix una explicació que amplia el contingut anterior sense que hi hagi cap catàfora al primer enunciat, de manera que ço és es converteix en una mena d’introductor del rema de l’enunciat: 35. En lo present dia comparegut denant nosaltres e cort nostra lo honorable en Martí Gallach, arrendador de la sisa del peix de l’ any propassat, e à afermat ésser -li deguts, ço és, per en Domingo e Bernat Moner, ·XXX· sous, e per en […] Cerveró, ·XI· sous ·V·, e per n’ Anthoni Guerau, ·XXXI· sous de sisa de peix, e à ·ns request los hi féssem pagar e a vós scriure. (El manual de consells de Gandia a la fi del segle XV, 1/2, Segle XVb, apud CICA) 36. Ítem, és convengut que cascun de los damont dits metran ab nau, so és en pagament al patró, ·lxvi· lliures 3 sous 4 ducats barceloneses, que són, per tots tres, ·cc· lliures. («Contracte de nòlit per anar a Gaieta i Romania», 1418, apud, Mil anys de llengua i literatura catalanes al Rosselló, p.64)
En aquests casos, el reformulador apareix molt debilitat de la seva funció reformuladora i el que realment queda destacat és aquesta funció focalitzadora. 37. Establiren e hordenaren la justícia, els jurats e els prohòmens consellers de la ciutat que nengun traginer no gós aportar ne metre en la dita ciutat, ne en los ravals d’aquella, ne encara en nengun loch o lochs que sia del realench dins lo terme de la ciutat, ço és a saber, alcú vi que no sia del realench. (Manual de Consells de la ciutat de València 1, Segle XIVa, apud CICA)
D’aquestes funcions del marcador discursiu, les úniques realment rentables són l’especificativa (enumerativa o no), la lexicogràfica, especialment en la seva vessant
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d’introduir definicions (la funció traductora és menys freqüent) i la focalitzadora. Els altres valors del marcador no van ser mai massa representatius. A tots aquests valors subjau una funció més bàsica dels marcadors com a organitzadors textuals. És a dir, ço és i ço és a saber guien la correcta interpretació del text des del moment que la seva presència actua com a indicadora que el fragment textual que segueix és una nova versió de la informació prèviament presentada. En el vessant funcional, es pot apreciar una certa distribució funcional entre ço és i ço és a saber. Així, ço és a saber és molt poc utilitzat per a la introducció de membres que funcionen com a traducció o definició d’un membre anterior. I no s’utilitza ni amb sentit consecutiu ni per introduir un sinònim del terme que conforma el primer membre de l’estructura reformulativa. Tampoc introdueix textos llatins. Ço és, en canvi, apareix funcionant amb tots els valors de la reformulació textual. Malgrat tot, durant l’etapa de la seva més gran utilització ço és a saber era majoritari en algunes funcions. Així al xiv, l’expressió de les enumeracions especificatives va estar controlada per ço és a saber, amb una freqüència d’ús per sobre de la de ço és. També es remarcable la freqüència d’ús de ço és a saber en el terreny de la ampliació del terme reformulat, el qual conté una marca catafórica que apunta al terme reformulatiu. En aquesta àrea de significat ço és a saber va destacar fins a la segona meitat del segle xiv. De manera que es pot dir que en el terreny de les funcions marcades per ço és i ço és a saber les d’enumeració especificativa i d’ampliació d’un enunciat previ semblen estar controlades pel segon d’aquests marcadors, mentre que els altres valors queden en un molt segon pla.
Conclusions La reformulació textual al català antic va estar centralitzada per dos marcadors discursius, ço és i ço és a saber, que compartien funcions i presentaven una forma propera, però, al mateix temps, oferien diferències funcionals prou significatives com per a considerar-los connectors diferents. La posterior evolució de la llengua va relegar aquests dos reformuladors, que van ser substituïts per noves formes de reformulació textual.
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Rosalía García Cornejo (Universidad Pablo de Olavide)
La organización textual en los documentos notariales de la primera mitad del siglo XIII
El documento que registra negocios entre particulares en los siglos X-XII y en la primera mitad del XIII es el resultado de una larga evolución que tiene entre sus antecedentes a los generados tras la caída del imperio romano de Occidente. Esos documentos poseen un denominador común: la transacción o enajenación de uno o varios bienes a cambio de otros, sean de carácter pecuniario o no. Precisamente en este trabajo nos centraremos en aquellos textos que formalizan la tradición de un bien a cambio de dinero, concretamente en aquellos pertenecientes a la primera mitad del siglo XIII y localizados en el reino de Castilla. La mayoría de los documentos de ese tipo que se producen antes de la compilación justinianea muestra caracteres bien distintos de los que se materializan en el reino hispánico en los documentos visigodos. Una de las diferencias lingüísticas más llamativas entre el documento romano antejustinianeo y el visigótico es que el primero prefiere la redacción objetiva (cf. 1a-b), de tal forma que el autor del documento, el sujeto empírico (cf. Ducrot 1986: 175-238) –el escribano, notario o scriptor–, se limita a describir, a constatar, la actuación en un negocio y no participa en ella. El visigodo se encuentra expresado en redacción subjetiva, es decir, el otorgante del documento manifiesta su actuación en el negocio en primera persona (cf. 1c-d). En este caso, el otorgante coincide con el locutor del mensaje, pues a él se atribuye la responsabilidad de lo dicho (cf. Ducrot 1986: 175-238): (1) a. Cl(audius) Iulianus mil(es) leg(ionis) XIII G(eminae) (centuria) Cl(audi) Mari emit mancipio|que accepit mulierem nomine Theudotem... (doc. 89, 160, Font IRAnteJ).
b. Andueia Batonis emit manci[pioque accepit] | domus partem dimidiam, interantibus partem [dex]tram, que est Alb(urno) Maiori uico Pirustar[um in]t[er] ad[fines Platorem Accep]|tianum et Ingenum Callisti (denariis trecentis de Veturi[o Valente]. (doc. 90, 159, FontIRAnteJ).
c. Definito igitur et accepto a vobis omne praetium, quod in placitum venit nostrum [...] ex hac die habeas, teneas et possideas, iure tuo in perpetuum vindices ac defendas... (doc. XI, FormVis).
d. + h. Domno et sourino meo Desi/derio Gregorios uinditor. Quoniam / hos inter nobis placuit adque conuenit ut / ego tibi uindere et uindo portione [de] ter[ra / de terra, ipsa terra in possessione regias / te tam... quanq[...] ero... / noto pretio qot inter nob[is] bone pacis conue[nit:] / id est auri solidus nome[ro...] et relicuas qua parte... pro cos tu imtor dedisti [...] uinditore de te accepi... / me ... (doc. 63, 586-601, DHV).
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Estas características condicionan gramaticalmente la forma personal del verbo que describe esa actuación: en los documentos romanos figura en la tercera persona del singular (cf. 1a-b: emit, accepit) y en los visigodos lo hace en la primera persona (cf. 1c: definito, accepto), de tal manera que el centro deíctico del documento se relaciona entonces con el sujeto otorgante, el sujeto que protagoniza la acción jurídica, el locutor lingüístico, que aparece expreso mediante los pronombres personales relativos a la primera persona (cf. 1c: ego, me). Así el texto queda anclado en las coordenadas espaciales y temporales que se relacionan con ese yo discursivo. De ahí que los verba dispositiva1 del documento visigótico se encuentren expresados en presente de indicativo (cf. 1c: definito, accepto; 1d: vindo), mientras que en el documento romano se expresan en el pretérito de ese mismo modo verbal (cf. 1a: accepit, emit). Esas palabras dispositivas son en el terreno lingüístico equivalentes a los realizativos explícitos de Austin: indican que emitir la expresión es realizar una acción. Pero además si el que el formula la expresión (el otorgante) está actuando, tiene que estar haciendo algo, de ahí la preferencia por el presente y por la voz activa. En esencia esas palabras indican que hay algo que está haciendo la persona que emite la expresión en el momento en que la emite (Austin 1955: conferencias 2, 3 y 4) y además comprometen a quien las usa a cierta línea de acción, se trata de un verbo compromisorio (Austin 1955: conferencia 12). En el plano jurídico, la acción que realiza el otorgante a través del documento repercute necesariamente en un individuo o un conjunto de individuos, el receptor y destinatario del documento, el alocutario, el personaje discursivo al que se orienta la enunciación y que ha sido elegido por el emisor (Escandell 1993: 32; 2005: 30-31). En los textos se manifiesta en los pronombres y posesivos de segunda persona (cf. 1c: vobis, tuo; 1d: tibi, te...), y en la forma personal del verbo (cf. 1c: habeas, teneas, possideas, vindices, defendas; 1d: dedisti). Los tipos documentales que ilustran los ejemplos (1c-d), a diferencia de lo que ocurre con los ilustrados en (1a-b), suponen una forma de comunicación escrita entre un yo emisor y un tú receptor, no es extraño entonces que para su expresión adopten algunas de las características que singularizan a los documentos de carácter epistolar. Es posible que ya en el mundo romano los particulares utilizaran frecuentemente las epístolas con intenciones jurídicas, así la carta traspasa el ámbito y el fin que tradicionalmente se le había encomendado, especialmente en las transmisiones de derecho –como las donaciones–, pero también en la esfera del derecho de obligaciones, es decir, en aquellos casos en que se realizaban negocios como las compraventas, los arrendamientos, etc., para cuya validez no se requería ninguna formalidad, sino que bastaba el consentimiento que otorgaban quienes intervenían en el negocio (Rodríguez 1999: 478-479). Efectivamente, a pesar de que esos documentos son escasos, ya en el primer siglo de nuestra era encontramos un texto de compraventa expresado en forma subjetiva a través del verbo compromisorio, que se formula en la primera persona del singular del pretérito (cf. 2: emi): (2) Gargilius Secundus n(ummis) | CXV a S[t]el[o] Reperii Beeoso vila Lopetei | rite uti l(icet) bovem | emi teste Cesdio c(enturion)i || leg(ionis) V, Muto Admeto | c(enturion)i leg(ionis) I. R(edhibitio) i(us) c(ivile) a(besto). Emtum | C. Fuufio Cn. Min|icio cos. V [I]d(u)s S[eptembres]. R(ebus) p(raestari) r(ecte) Lilus | Duerretus vet(eranus). || II.a manus. T(itus) Cesdius T(iti) f(ilius) leg(ionis) V. | III.a man. N(umerius) Iunnius Marci f(ilius). | IV.a man. Ti(berius) Lievus | Erepus | leg. V Numerii f(ilius). V.a man. Caius Aius Ti(berii) f(ilius) Seceduus. | VI.a man. V(enditoris) ipsius. (doc. 137, 29-119; FontIRAnteJ). En derecho se emplea la denominación de verba dispositiva para hacer referencia al verbo o al conjunto de palabras que describen la actuación en el negocio.
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Como si de una carta comercial se tratara, en el encabezamiento figuran los datos referidos al emisor, el otorgante del documento y locutor lingüístico, Gargilio Secundo, y al receptoralocutario, Stelo Reperio. Se consigna también ahí el precio establecido para la transacción comercial (nummis CXV). En el cuerpo del texto se indica el objeto de la venta (bovem), el verbo compromisorio (emi), y distintas fórmulas relativas al acto jurídico (rite uti licet, ius civile abesto, etc.). El documento prosigue con la mención de los testigos, que en el terreno lingüístico constituyen un tipo de no alocutarios, los destinatarios indirectos (cf., inter al., García / Tordesillas 2001; Kerbrat-Orecchioni 1986), testigos directos del intercambio comunicativo –y en consecuencia presentes en el momento de ese intercambio- y previstos por el locutor. Finalmente se consignan la data y las suscripciones. Igual que el documento visigótico ilustrado en (1d), su estructura se organiza en torno a una serie de fórmulas que coinciden con las que caracterizan a los documentos de carácter epistolar (cf. infra). Esos documentos epistolares constituyen, sin duda, la forma más simple de comunicación escrita entre un yo emisor y un tú receptor, y su fin primordial es la transmisión de información entre los participantes en esa comunicación. En este sentido, la finalidad de la carta y la de los documentos de compraventa casi se solapan, y ello porque mediante estos últimos lo que se persigue es la transmisión de un bien entre individuos. De esta manera los elementos que componen la estructura básica de estos documentos, su superestructura (cf. Van Dijk 1987), son los siguientes: a) La fijación del emisor / otorgante / locutor; b) La fijación del receptor / destinatario / alocutario; c) La indicación de la acción específica que se realiza (compraventa, donación, etc.) mediante un verbo compromisorio; d) La fijación del objeto que se transmite o transfiere; e) La fijación de otros componentes contextuales: del medio con que se compra o del precio, de los no alocutarios o destinatarios indirectos, del sujeto empírico, de las circunstancias temporales y espaciales (data cronológica y tópica), etc.; f) Las fórmulas que hacen referencia a principios jurídicos (consentimiento, sanción, multas...), expresadas mediante oraciones de sentido condicional, lexías complejas... Formulado en el nivel gramatical y semántico, este esquema se corresponde con el de dos verbos transitivos de posesión: comprar y vender: ‹adquirir / ceder algo a cambio de dinero›, respectivamente (cf. c). También desde el punto de vista semántico se trata de tipos de ‹dar›, de actos de donación fijados socialmente, que requieren un agente y un destinatario marcados con el rasgo [+humano], rasgo que igualmente deben tener sus sujetos y complementos indirectos (cf. a-b). El objeto semántico, el complemento directo sintáctico, suele indicar preferentemente ‹cosas›, y cosas susceptibles de ser compradas o vendidas en una sociedad y en un momento histórico determinados (cf. d). Ambos verbos indican una actividad, y teniendo en cuenta el tipo de actividad que implican es frecuente encontrarlos con sintagmas preposicionales que indican el medio con que se compra, o el precio de lo comprado (cf. e). Otra característica que comparten ambos verbos, como tipos que son de ‹dar›, es el matiz de consentimiento que conllevan (cf. f) (cf. Cano 1987: 115 y 128-130). Desde esta misma perspectiva, ambos verbos podrían englobarse en otro grupo más amplio, el de los verbos de ‹movimiento›, aunque en este caso ese movimiento afecta a un concepto que en principio no es físico, la ‹propiedad›. A partir de este supuesto, y si consideramos el significado del verbo ‹vender›, tendremos que el movimiento se contempla desde su punto de partida, desde el origen: pues el acto de la venta implica un movimiento de la cosa poseída desde el poseedor en el momento de la enunciación hacia su futuro tenedor. No es extraño, pues, que en las cartas de compraventa dominen los
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verbos compromisorios que indican tal acto de venta (cf. Almeida 2003: 372-376; 2004: 19; Moral 2006: 366) y que, como hemos visto con anterioridad, la perspectiva temporal en que se manifiesta tal acto esté expresada en relación de simultaneidad con el momento de la enunciación y, en consecuencia, esos verbos se enuncian en presente de indicativo. Con el verbo vender el movimiento se expresa haciendo hincapié en la dirección: del poseedor al futuro tenedor. Más arriba decíamos que la organización del documento ilustrado en (1d) coincidía con la de los documentos de carácter epistolar (cf. Laffón 1989: 141-142). En efecto, las fórmulas que estructuran ambos tipos documentales pueden ser encuadradas en las tres partes en que habitualmente los diplomatistas dividen con carácter general los documentos: protocolo, texto o cuerpo y escatocolo. Sin embargo, una estructuración del documento tan amplia creemos que no permite discernir nítidamente el conjunto de palabras ordenadas que constituyen un todo, esto es, las fórmulas y las cláusulas de que se compone el documento, que le otorgan su forma y que le confieren su significado, su contenido. Esas fórmulas y cláusulas constituyen lexías complejas: construcciones de significado fijo sin variación en sus formantes funcionales –o con variación sinonímica– que se repiten sistemáticamente en determinadas partes de un tipo textual a lo largo de un espacio de tiempo más o menos amplio (cf., inter al., Almeida 2003; 2004; Díez de Revenga 1985-1986; 1994; 1999; Laffón 1989: 141; Metzeltin 1982: 149-150; Ramírez 2004; Roudil 1978). Esas lexías complejas son una expresión peculiar del discurso repetido (cf. Coseriu 1991: 113-114) y, como técnicas lingüísticas que son, repercuten necesariamente en la técnica diplomática y en la técnica jurídica, en la forma y en el contenido del texto. Combinando, pues, las segmentaciones que de los documentos nos ofrecen la diplomática, la historia del derecho notarial (cf., inter al., Bono 1979; 1990; García-Gallo 1979; Laffón 1989; Núñez 1986; Ostos / Pardo 1989; 2003; 2005; Ostos 2005) y la lingüística, ofrecemos en (3) una organización más detallada del ejemplo ilustrado en (1d):2 (3) a. Protocolo: 1. [Invocación. Mención invocativa de la divinidad. Podía ser verbal o simbólica]: simbólica: + h. 2. [Dirección] [Sujeto/s a los que se dirige el documento. Fijación de los datos de identidad, oficio, filiación, cargo, etc. del sujeto destinatario o receptor del documento]. Desde el punto de vista lingüístico el/los alocutario(s): Domno et sourino meo Desiderio. 3. [Intitulación] [Sujeto/s otorgante/s. Fijación de los datos de identidad, oficio, filiación o cargo, etc. del sujeto o de los sujetos otorgantes o emisores del documento]. Desde el punto de vista lingüístico el/los locutor(es): Gregorios uinditor. 4. [Salutación]: Falta
b. Texto o cuerpo: 1. [Narración (Exposición)] [Lexía de la libertad de otorgamiento]: Quoniam hos inter nobis placuit acque conuenit. 2. [Disposición. Es la parte fundamental del documento pues en ella se encuentra la manifestación de voluntad del otorgante acerca del negocio reflejado en el texto] 2.1. [Verba dispositiva]: Expresión lingüística del o de los verbos compromisorio(s): ut ego tibi uindere et uindo. 2.1. [Reseña del objeto de la transacción]. Lingüísticamente el objeto sintáctico y/o semántico: portione [de] ter[ra ipsa terra in possessione regias. 3. [Fijación del precio]: noto pretio. 3.1. [Mención de la cantidad. Mención del acuerdo entre las partes. Expresión formularia relativa a que el pago
La organización que ofrece Díez de Revenga (1999) se atiene a las partes que la diplomática aplica a las cartas y las hace corresponder con cada uno de los elementos enumerados por Laffón (1989).
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se ha hecho efectivo]: qot inter nob[is] bone pacis conue[nit] / id est, auri solido nome[ro] et relicuas qua parte... pro cos tu imtor dedisti... 4. [Transferencia del dominio o de la propiedad]: Falta. 5. [Conclusión] [Sanción]: Falta
c. Escatocolo: 1. [Datación]: Falta. 2. [Suscripciones]: Falta. 3. [Signos de validación]: Falta.
El tipo documental que surge en la Romania feudal (ss. X-XII) tras la disolución del imperio carolingio –la scriptura romanica– tiene en España una fuerte impronta visigótica hasta el siglo XII, especialmente en la propia factura del documento (Bono 1979: 139 ss.). Como hemos visto que ocurría en los documentos visigóticos (cf. 1d), la redacción se realiza siempre en forma subjetiva, pero, como puede comprobarse en (4), el esquema documental básico sigue en líneas generales el de la época visigoda (cf. 3): (4) a. Protocolo: 1. [Invocación]: Lexía general: (Christus) In Dei nomine (doc. 11, 1062, Pal; doc. 41, 1196, Hue...). 2. [Adprecación]: Lexía de buen augurio: Amen (doc. XVIII, 1092, Cov). 3. [Intitulación] [Sujeto/s otorgante/s / Locutor/es lingüístico/s]: Lexía general: Ego X3...: Si se trata de una otorgación conjunta suele figurar la lexía general: una cum N4, que expresa que el acto se realiza en ‹solidaridad con›, ‹juntamente con›: Ego, Eilo, filia Nunno Gundisaluiz, una cum uiro meo, Martino Citiz (doc. 11, 1062, Pal); (cf. doc. 41, 1196, Hue). Otras variantes combinatorias: una pariter cum N: cf. doc. XVIII, 1092, Cov. Puede figurar además la expresión del consentimiento: cum uoluntate et consensu et absolutione marito meo Luppus Garsiez et Luppus Sancii, filio meo (doc. 41, 1196, Hue).
b. Texto o cuerpo: 1. [Narración (Exposición)] [Lexía de la libertad de otorgamiento]: Lexía general: Placuit mihi atque convenit, nullo cogentis imperio nec suadentis articulo sed propria mihi accessit voluntas... En la documentación que manejamos puede quedar expresada como: Placuit nobis atque conuenit, nullius cogentis inperio nec suadentis articulo sed propria nobis euenit uoluntas (doc. 11, 1062, Pal). Placuit mici, nec per vim nec per metum, set spontanea volumtatem mea (doc. XVI, 1032, Cov); placuit nobis atque convenit, per expontaneas nostras voluntates, promptos animos et mentes consideraetas (sic) (doc. XVIII, 1092, Cov). En la documentación del siglo XII, la lexía se ha simplificado mucho y puede aparecer tan solo: ex nostras bonas uoluntates (doc. 41, 1196, Hue). 2. [Disposición] 2.1. [Verba dispositiva / Verbos compromisorios]: Lexía general: ut uindo, que puede expresarse como: fuit et vendivi (doc. XVI, 1032, Cov); et vendibi (doc. XVII, 1037, Cov); ut uenderemus (doc. 11, 1062, Pal); et sic vendimus (doc. XVIII, 1092, Cov); uendemos et roboramus (doc. 41, 1196, Hue). 2.2. [Dirección] [Sujeto/s otorgado/s / Sujeto/s alocutorio/s]: a vobis domina mea Urraca (doc. XVI, 1032, Cov); tibi, domino Bernardo (doc. 11, 1062, Pal); tibi Pasqual Fernandiz et Eila
Fernandiz (doc. XVIII, 1092, Cov); uobis, Marie Guterriz, abbatissa Sancte Marie Regalis, et omni conuentu eiusdem ecclesie (doc. 41, 1196, Hue). 2.3. [Reseña del objeto de la transacción / Objeto sintáctico y/o semántico]: nostram ereditatem quam habuimus de auis Donde X es el nombre propio del otorgante/locutor. Donde N es el nombre propio de la persona que se solidariza en la venta y la relación de parentesco que lo vincula con el otorgante/locutor.
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et parentibus nostris in uilla que uocitant Paratella de Suso, id est, V solares et media diuisa in quantum habemus ibi, cum suis adiacentiis uel prestationibus, montes, fontes, pratis, pascuis, paludibus, cesu, regressuque suo (doc. 11, 1062, Pal); illo nostro molendino quam habemus in Berbiesca, in barrio de Palacio; vnde sunt allatanei illa ferrein de Palacio et Sancta Cecilia, et ex alia parte, illo porto de Palacio (doc. 41, 1196, Hue); [Resumen final donde se declara que el bien se transfiere en su totalidad]: ab omni integritate (doc. 11, 1062, Pal); 3. [Fijación del precio]: Lexía general: Et accepi(mus) precio ego X (de) tibi/ vobis N: Et accepimus de uobis in pretio (doc. 11, 1062, Pal). 3.1. [Mención de la cantidad]: II uaccas cum suis filiis et una equa et XC solidos argenti, sub uno ualente LX solidos (doc. 11, 1062, Pal); per CXL morabetinos (doc. 41, 1196, Hue). 3.2. [Declaración de haber recibido el precio en su totalidad y la satisfacción del vendedor por ello]: et de ipso pretio aput uos non remansit deuitum pro dare (doc. 11, 1062, Pal); et sumus de illi paccati (doc. 41, 1196, Hue). 3.3. [Transferencia del dominio o de la propiedad]: Lexía general: Ita ut de hodie die et tempore de meo iure abrasum et vestro iure et dominio sit traditum atque concessum, habeatis vos et omnis posteritas vestra perenniter [frecuentemente también: et quicquid ex inde facere volueris liberam in Dei nomine habeas potestatem]: Ita tamen ut de hodie die uel tempore de iuri nostro sit abrasa et in uestro dominio confirmata, habeatis, uendatis, faciatis de ipsa hereditate quicquid uobis placuerit, uos et filii uestri et gens uestra post uos (doc. 17, 1183, Tria). 4. [Conclusión] [Sanción]: Lexía general: En el Incipit suele figurar [Si quis tamen] quod fieri non credo, contra hunc meum factum ad inrumpendum venerit, pariat vobis ipsum [el fundo vendido] duplatum vel triplatum perpetim habiturum: ego domina Guntroda et filiis aut neptis aut aliquis quamlibet venerit, qui isto nostro mercato facto disrumpere voluerit, pariet ipsa villa duplata a domina Urraca cum suis terminibus, sicut in hanc carta resonat, et cauto ad pars ducem qui terram obtinuerit decem auri libras exsolbat; vendictio que facta fuerit per scriptura plenum abeat robore (doc. XVI, 1032, Cov). Admite otras variantes: [Incipit] [Et si aliquis homo] contra hunc factum nostrum uenerit ad disrumpen dum uel scripturam istam infringere conaberit [...] (doc. 11, 1062, Pal); [Si quis ex genere nostro uel de alio genere] hoc scriptum uiolare uoluerit, iram Dei omnipotentis habeat [...] (doc. 41, 1196, Hue).
c. Escatocolo: [Data] [Incipit]: Lexía general: Facta scriptura...: Facta cartula uenditionis (doc. 11, 1062, Pal); Facta carta (doc. 41, 1196, Hue). [Circunstancias temporales y espaciales] [D. cronológica]: XII kalendas nouembris, era millesima centesima (doc. 11, 1062, Pal); mense febroario, sub era Ma CCa XXXa IIIIa (doc. 41, 1196, Hue) [Precisión de la data cronológica mediante la mención de los reyes que reinan] regnante rex Fernando in Legione et in Kastella (doc. 11, 1062, Pal); regnante rege Aldefonso cum uxore sua, regina Alienor, et filio eius, infans Ferdinandus, in Burgos [...](doc. 41, 1196, Hue). [D. Tópica]: Falta. [Suscripciones] [Formalismos para la validación del documento, relación de confirmantes y testigos, suscripción del notario, sello...] Ego, Eilo, una cum uiro meo, hanc cartulam, quam fieri uoluimos et legendum agnouimus, manibus nostris roborabimus. (Cruces) (doc. 11, 1062, Pal). [Relación de confirmantes y de testigos / Sujeto/s no alocutario/s o destinatarios indirectos]: Aluitus, legionense sedis episcopus, conf.; Scemenus, burgense sedis episcopus, conf.; [...] Citi, testis; Rodrico, testis; Didaco, testis. (doc. 11, 1062, Pal); Huius rei testes sunt: Petrus Michaeliz; Martinus Petri de Riocandio [...](doc. 41, 1196, Hue). [Indicación del notario, scriptor o escribano] [Sujeto empírico]: Romanus notuit (Rúbrica) (doc. 11, 1062, Pal); Iohannes de Riolazedo scripsit (doc. 41, 1196, Hue).
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Durante la primera mitad del siglo XIII se pone fin en Castilla a la scriptura romanica, a la carta altomedieval, y el documento soporta una transformación en su constitución (Bono 1990: 53), de tal manera que progresivamente se van eliminando o simplificando algunas de las lexías complejas que caracterizaban a los documentos anteriores, así ocurre, por ejemplo, con la lexía compleja relativa a la libertad de otorgamiento. En la documentación que manejamos el encabezamiento Placuit mihi / nobis atque convenit no traspasa el siglo XII, incluso en ese siglo tan solo lo documentamos ya en una donación (placuit mihi adque convenit; doc. III, 1124, Mo). La combinación que solía continuar a ese encabezamiento, expresada en múltiples variantes especialmente en lo que se refiere a la secuencia nulli cogenti imperio, solo la documentamos en un texto de compraventa del año 1213: nullius cogentis articulo neque suadentis imperio (doc. 114, Hue). Como decíamos, en nuestro corpus se constatan diversas variantes, desde las más fieles a las originales, como la que acabamos de ejemplificar (cf., además, supra (4b1)), hasta otras en que se evidencia cómo la lexía original va degenerando (cf. Menéndez Pidal 1950: 242 y nota 2), y esa degeneración revela que el escribano no era capaz de comprender los modelos con que trabajaba (nullius quogentis imperio nec suadentis articulo, doc. III, 974, Cov; nullius cogentis imperio nec suadentis ingenio, doc. XX, 1103, Cov; nullo quoque gentis inperio nec suadentis articulo, doc. III, 1124, Mo). Pero al mismo tiempo esas alteraciones muestran que, aunque el escriba no era capaz de comprender sus modelos, su actitud ante los textos no era la de vulgarizar –como asume Wright (1989: 20)–, sino la de ser tan conservador como fuera posible, ya que intentaba hasta tal punto ser fiel a esos modelos y a la elegancia estilística, que producía incoherencias o incluso textos faltos de sentido (Pensado 1991: 201). La fórmula de la libertad de otorgamiento podía ir complementada con una secuencia que señalaba la espontaneidad de la venta. Generalmente se expresaba con elementos que indicaban que el otorgante era libre de transferir el bien pues obraba de motu proprio y no se encontraba enajenado, así junto a la clásica sana mente et proprio deliberationis arbitrio, que se documenta ya en el siglo X (Donaciones: a. 902, 915, 917, 926, 929, Becerro gótico de Cardeña, Corde) y que no traspasa la mitad de la siguiente centuria (donación del año 1044, Corde), puede ocurrir grato / libenti / claro animo et spontanea (bona, etc.) voluntate, que expresa claramente la espontaneidad del acto y la buena disposición para efectuarlo (cf. supra, (4b1), doc. XVIII, 1092, Cov; per expontaneas nostras volumptates, promptos animos et mentes consideratas, doc. XIX, 1101, Cov; grato animo et prona volumtate, doc. XII, 979, Cov; libenti animo et spontanea uoluntate, doc. 50, 1119, Hue). Sin embargo, la alteración de alguno de los elementos de esas combinaciones, como ocurre en un documento de 1153 en que se sustituye el adjetivo claro por caro (sed caro animo et bono consili, doc. 46, Pal), ha sido considerada una deturpación (cf., inter al., Pensado 1991: 201; Pérez 2009: 34). En nuestra opinión, el cambio de claro en caro, registrado en diversos documentos, tal vez haya de ser interpretado como una influencia del latín eclesiástico o bíblico, donde caro llegó a ser una palabra polisémica, como consecuencia de la influencia del hebreo o del griego (cf. García de la Fuente 1981; López 2003: 122). Quedarían así contrapuestas dos formas caro y animo, que representan la esencia de la naturaleza humana: la carne, el cuerpo (caro), de un lado, y el espíritu (animo), de otro. Esta interpretación se muestra consistente en tanto que el cambio de claro en caro se documenta en textos de diversa procedencia geográfica y a lo
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largo de un espacio dilatado de tiempo (cf., por ejemplo, docs. 140 y 144, a. 978 y 980, Le; docs. 128, 130, 139, 145, 158, a. 1024, 1027, 1030, 1034, Ote). La necesidad de establecer con claridad el perfecto estado de las funciones anímicas del otorgante y la integridad de su intelecto lleva en ocasiones a incluir también la combinación nec per vim nec per metu, que queda ejemplificada en nuestro corpus por secuencias muy similares (nec per vim nec per metum, doc. XVI, 1032, Cov). Con semejante objetivo esa combinación llegó a manifestarse como nec per vinum nem per metum, que ha sido considerada una corrupción por parte del escribano que no entendería la fórmula original (Pensado 1991: 201). Sin embargo, tal vez esos ejemplos acusan el influjo bíblico, pues no son escasos los pasajes donde el consumo de vino se asocia a la necedad y al desenfreno (cf., por ejemplo, Ef. 5, 15-20), y entonces habría que interpretarlas como meras variantes, tal y como parecen ilustrar los siguientes ejemplos: nec perturbatu sensu neque per ebrietas uini (doc. 46, 1153, Pal); non per metu neque turbato sensu (doc. 55, 1200, Hue). Otras secuencias se van generalizando especialmente desde el siglo XII, como ocurre con la notificación, es precisamente en esa fecha cuando la publicidad del acto jurídico le confiere fuerza al documento (García-Gallo 1980: 170). Con la irrupción en el texto de la notificación se ponen de manifiesto en el terreno lingüístico los destinatarios encubiertos, los receptores indirectos del documento pero previstos por el locutor. Igual que los destinatarios indirectos son no alocutarios o no destinatarios, pero a diferencia de estos no se encuentran presentes a la hora de la producción del texto, aunque condicionan la forma y el contenido de la comunicación. La lexía compleja más frecuente en la documentación está constituida por Notum sit omnibus (hominibus) tam presentis quam futuris, que puede encontrarse en distintos tipos documentales desde el siglo XI hasta el XIII (doc. 73, 1237, Ju; doc. 187, 1239, Pal). Las combinaciones en castellano de nuestros documentos son, en la mayoría de los casos, traducciones literales de la latina donde los participios de presente y de futuro son sustituidos por oraciones de relativo (Cosa cognoscida sea qui agora son he a los qui adelante seran..., doc. 137, 1214, Pal; Cognosçuda cosa sea a los omes qui son et que son poruenir..., doc. 447, 1228, O; Connocida cosa sea tan bien a los que son, como a los que serán..., doc. XXVIII, 1230, Val; Connocida cosa sea a todos quantos esta carta uieren..., doc. 186, 1239, Pal). A pesar de estos cambios la composición diplomática de los documentos de esta época conserva las clásicas partes, y la del documento de compraventa castellano queda ya en estas fechas formulada como se muestra seguidamente: (5) a. Protocolo [Invocación] In nomine Domini nostri Ihesu Christi, [Adprecación] amen. [Notificación / No alocutarios] Notum sit omnibus hominibus tam presentibus quam futuris quod [Intitulación: generalmente ya con la esposa / Locutor/es] ego, Ferdinandus Garsie, filius Garsias Cortesia, et uxore mea, donna Ignes, [Lexía de la libertad de otorgamiento] ex nostras bonas uoluntates
b. Texto o cuerpo: [Verbos compromisorios] uendemos et robramos [Dirección] [Alocutorios] uobis, donna Sancia Garsiez, abbatissa Sancte Marie Regales burgensis, et omni conuentui uestro, ad opus monasterium, [Reseña del objeto de la transacción] [Objeto sintáctico y/o semántico] de quantam hereditatem habuit domnus Garsias Cortesia et uxore sue, donna Maria, in illam uillam que uocatur El Enbith e en Espinosa [...] scilicet, terras, casas, solares populatos et non populatos, cum ortos et defesa et prados et pastos et
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arbores et ualles, cum fontes et montes, cum intradas et exidas et cum omnibus pertinenciis suis ab omni integritate, [Fijación del precio] et, insuper, accipimus a uobis in precium et roborationem CCCCtos morabetinos bonos alfonsis derectureros; [Satisfacción] et de esto precio et roboratione sumus paccati. [Sanción] [Cláusula de imprecación o maldición] Si quis, uero, istam uendidam uel istam roborationem infringere uoluerit, iram Dei omnipotentis habeat et Beate Marie semper Uirginis et omnium Sanctorum, [Cláusula de multa fiscal] et in cauto regis terre milia morabetinos persoluat, [Cláusula de multa convencional] et uobis, donna Sancia Garsie, abbatissa, et omni conuentui uestro ad opus monasterium Beate Marie ista hereditate dupplez uel meliorez in simili tale loco.
c. Escatocolo: [Data] [Incipit] Facta carta [Circunstancias temporales y espaciales] [Data cronológica] mense aprilis, era Ma CC, XLa Va, [Cláusula de regnante rege] regnante rex Allefonsus et uxore eius, regina Elienor, et cum filius eius, infans Ferdinandus, in Burgis et in Toleto et in Castella et in omni regno suo. [Relación de testigos y confirmantes / No alocutarios] Huius rei sunt testes qui uiderunt et audierunt: domno Allefonso, rex; infans Ferdinandus, filius eius; infans Anrich, filius eius; infans Ferdinandus legionensis; infans Allefonsus legionensis; Lop Didaci; Anrich Melendez [...]. [Fijación del fiador] Ego, domnus Rodericus Garsie, fiador de sanamiento de istam hereditatem. [Suscripción del escribano] [Sujeto empírico] Martinus Petri scripsit. (doc. 91, 1207, Hue).
Una comparación entre la organización textual que revelan los ejemplos ilustrados en (3-5) permite concluir que el contenido documental permanece prácticamente fijo e invariable desde la Alta Media hasta mediados del siglo XIII, fecha en que ese contenido se modificará gracias a la labor jurídica de Alfonso X, que reglamentará la forma del documento (Pascual 1981: 110-111). Como decíamos, el contenido del documento permanece a lo largo del tiempo y parece estar escrito sobre un formulario -en el sentido actual del término-, de modo que en él tan solo habría que rellenar los espacios en blanco, tal y como proponemos en (6), tomando como modelo (5): (6) a. Protocolo [Invocación] In nomine Domini nostri Ihesu Christi, [Adprecación] amen. [Notificación] [No alocutorios] Notum sit omnibus hominibus tam presentibus quam futuris quod [Intitulación: generalmente ya con la esposa] [Locutor/es] ego [...] et uxore mea, [...] [Lexía de la libertad de otorgamiento] ex nostras bonas uoluntates
b. Texto o cuerpo: [Verbos dispositivos / compromisorios] [...] [Dirección / Alocutario/s] uobis [...] [Reseña del objeto de la transacción / Objeto semántico y/o sintáctico] [...] [Fijación del precio] et, insuper, accipimus a uobis in precium et roborationem [...]; [Satisfacción] et de esto precio et roboratione sumus paccati. [Sanción] [Clásula de imprecación o maldición] Si quis, uero, istam uendidam uel istam roborationem infringere uolue rit, iram Dei omnipotentis habeat et Beate Marie semper Uirginis et omnium Sanctorum, [Cláusula de multa fiscal] et in cauto regis terre milia morabetinos persoluat, [Cláusula de multa convencional] et uobis, [...] dupplez uel meliorez in simili tale loco.
c. Escatocolo: [Data] [Incipit] Facta carta [Circunstancias espaciales y temporales] [Data cronológica] [...] [Cláusula de regnante rege] [...] [Relación de testigos y confirmantes / No alocutarios] [...] [Fijación del fiador] Ego, [...] fiador de sanamiento de istam heredita tem. [Suscripción del escribano / Sujeto empírico] [...].
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Señala acertadamente Fernández (2008: 240), refiriéndose a los textos de compraventa del siglo XII, que «lamentablemente no hay elementos de unión entre las distintas partes de los documentos». Efectivamente, y no figuran de manera explícita en el texto sino de forma implícita, pues una serie de lexías complejas apoyadas jurídica y diplomáticamente en la tradición, y lingüísticamente en la lengua latina permite organizar desde esos mismos tres puntos de vista los documentos. Esas lexías cumplen una función demarcativa esencial, pues sirven para delimitar las partes en que se estructura cada escrito y, al mismo tiempo, sirven para cohesionarlo. Desde nuestro punto de vista desempeñan, además, otra función fundamental: permitir identificar las partes de que se compone el texto facilitando su recepción e interpretación. El contenido documental constituye también la invariante del documento y se expresa mediante esas lexías complejas fijadas por el uso, que son las que garantizan la validez del documento. La variante del documento está constituida por aquellos elementos de la realidad extralingüística cambiantes en cada una de las transacciones que se realizan y formulados lingüísticamente teniendo en cuenta unos patrones heredados de la tradición –en sentido vertical o diacrónico–, pero que el autor del documento –el sujeto empírico- ha de actualizar –en sentido horizontal o sincrónico– para construir su propio mensaje. Esa variante, pues, conjuga la sincronía y la diacronía, de tal manera que a los modelos heredados de escritura en lengua latina se añaden los primeros intentos de expresión en lengua romance. Precisamente lo más llamativo de la configuración lingüística del discurso de los documentos de fines del siglo XII y de la primera mitad del XIII tal vez sea el mantenimiento de ciertas formas latinas, aun cuando en esos documentos se va observando un abandono progresivo del latín, que irá quedando reservado para los textos más solemnes (Menéndez Pidal 1919: 12). Sin embargo, y aunque en esas fechas pueden encontrarse ya textos escritos casi en su totalidad en lengua romance, todavía hay muchas lexías latinas que se prefieren a las romances. Esas lexías constituyen los moldes tradicionales en los que los escribanos se apoyan para redactar sus documentos. No cabe duda de que en esos textos donde se mezclan latín y romance se encuentran dos lenguas, dos niveles y dos registros lingüísticos cara a cara: una de esas lenguas atesora una multisecular tradición escrita y por el mismo hecho de ser escrita posee un grado de formalidad más o menos acusado. Es, además, la lengua que ha servido como vehículo codificador de un lenguaje especializado, el jurídico-administrativo –en la más amplia extensión del término–. La otra de esas lenguas, el romance, carece de moldes para su expresión escrita y, debido a esa ausencia, también le faltan modelos para su expresión escrita en el registro formal. Además carece de una serie de recursos propios, imprescindibles para elaborar textos especializados. Son esos buenos motivos para que los escribanos hayan de recurrir una y otra vez a las lexías complejas documentadas en la lengua latina. Pero además el recurso a la tradición obedece a una tendencia a la uniformación y a la universalidad de los actos escriturados, así se garantiza la comprensión del documento en cualquier lugar en que hubiera de ser requerido como prueba y –lo que no es menos importante– se garantiza su aceptación, pues la falta de algunas de esas lexías podría provocar la inexactitud u omisión de ciertos requisitos y, en consecuencia, su rechazo. No menos importantes debieron ser también las cuestiones retóricas y estilísticas, pues, repetidas hasta la saciedad, se convierten en recursos protocolarios, en formalismos retóricos a los que se recurre como apoyo para redactar correctamente los documentos (Lorenzo 1999: 210). Sin duda también hubieron de servir como fórmulas mnemotécnicas (cf. Zimmerman 2003: 206 ss.; passim), pues, aunque parece evidente que los escribanos dispusieron de formularios (como el visigótico, el andecavense, etc.) no puede menospreciarse la idea de que escribieran también de memoria.
La organización textual en los documentos notariales de la primera mitad del siglo XIII
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Como ya observaba Coseriu (1991: 113-114), las lenguas son técnicas históricas del discurso o del hablar. Cualquier lengua se compone de un conjunto de unidades léxicas y gramaticales, y de las reglas para su modificación y combinación en la oración; pero, además, una lengua acumula y transmite todo un caudal de elementos significativos que constituyen trozos de discurso ya hecho que se pueden emplear de nuevo. Estas unidades del discurso pueden ser adaptadas a la técnica del hablar del momento en que se construye el texto o bien pueden contener elementos incomprensibles desde el punto de vista de esa técnica en ese momento. Están construidas entonces según reglas que ya no tienen vigencia y, en ese sentido, son resto de estados de lengua ya superados, una supervivencia de la diacronía en la sincronía. Semejante planteamiento nos remite a esas lexías que se documentan en los textos producidos en una etapa que va desde los orígenes de las lenguas romances hasta la primera mitad del siglo XIII, en el caso del español. Se trata de un momento en que en la lengua escrita –y en la lengua escrita de la jurisprudencia–, que nace con un afán notable de pervivencia y busca prioritariamente su continuidad en la posterioridad, la comunicación se lleva a cabo verticalmente, en sentido diacrónico, y para el control de cada una de las realizaciones discursivas ha de tenerse en cuenta su adecuación a una norma, recibida también diacrónicamente, pero establecida desde el actuante hacia atrás (cf. Díaz 1981: 74). En el caso de los textos que dimanan del universo discursivo de la jurisprudencia ese sentido diacrónico es quizá más acusado todavía pues el autor del texto, su sujeto empírico, recibe, utiliza y ordena una serie de materiales anteriores, unos tipos textuales, estructurados según una tradición y organizados lingüísticamente conforme a unos modelos (cf. Castillo / López 2010), que ha de conservar para garantizar su validez jurídica, pero que ha de completar y renovar en cada una de sus actualizaciones discursivas para así construir su mensaje.
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Adela García Valle (Universitat de València)
Oralidad y escritura a finales del s. XIII: algunos grupos consonánticos en la documentación notarial castellana y de Sahagún
La necesidad de actualizar los estudios fonético-fonológicos en la ‹Historia de la Lengua Española›1, unida a la atender a un periodo cronológico prácticamente desatendido, el de Sancho IV2, nos lleva al intento de reconstruir un aspecto concreto de la pronunciación de la lengua castellana en la etapa medieval. Pretendemos analizar las soluciones fonéticas reflejadas en los rasgos ortográficos de algunos grupos consonánticos, a través del estudio de unas cuantas voces que presentaremos a continuación. Vamos a atender, pues, a la relación entre grafías y fonemas en la documentación notarial de finales del siglo XIII, en concreto de 1286 a 1299. Para llevar a cabo este estudio nos hemos basado en una selección de documentación notarial sustentada en la triple correlación entre paleografía, grafía y fonética. De los ciento ocho escritos jurídicos analizados, se han extraído, en primer lugar, cincuenta y un diplomas del Corpus de Documentos Españoles Anteriores a 1700 (a partir de ahora CODEA). Se trata de un conjunto de documentos cancillerescos, municipales, eclesiásticos y particulares de variada tipología (privilegios, cartas plomadas, mandados, cartas privadas, ordenanzas, etc.), redactados entre 1286 y 1299 en Burgos, Guadalajara, Segovia, Zamora, Toledo, Valladolid y en La Rioja, por la necesidad de contrastar los resultados obtenidos de la documentación castellana con la de otras scriptae peninsulares. En segundo lugar, se ha recurrido también a la Colección diplomática del Monasterio de Sahagún (a partir de ahora Sahagún), dado que recoge varios documentos redactados en Castilla, principalmente privilegios u órdenes reales, que presentan una relativa uniformidad con los que se han analizado del CODEA. Más concretamente, de los sesenta y un documentos estudiados, veinte se redactaron en el área castellana (Burgos, Valladolid, Palencia, Toro –Zamora–…) y por ordenamiento real, bien de Sancho IV, bien de Fernando IV o de su tío y tutor el infante don Enrique, excepto tres documentos, cuyos autores jurídicos son miembros de la Iglesia, uno escrito en Toledo en 1291, otro en Valladolid en 1294, y el tercero en Valencia en 1294, como resolución del anterior. En todos los casos, los notarios se adscriben a la corte del rey de Castilla. Interesa, pues, contrastarlos y comparar los resultados castellanos con los procedentes de Sahagún para comprobar si, como dicen algunos autores, en estos últimos se aprecian usos ortográficos leoneses y castellanos.3 Para Sánchez-Prieto (2005: 425), la determinación de la Esta comunicación se inscribe en el Proyecto de Investigación «Historia de la pronunciación de la lengua castellana: de la Edad Media a nuestros días». Ref.: FFI2009-09639 (subpr. FILO) 20092011. Directora: M. Teresa Echenique. Departamento Filología Española. Universitat de València. 2 Sánchez-Prieto (2005: 425) advierte de la necesidad de examinar lo escrito, a través de documentos y códices, «en un periodo prácticamente desatendido, el de Sancho IV». 3 «Parece que en los documentos de Sahagún se superponen usos típicamente leoneses a otros propios de una tradición de escritura más cercana a la de Palencia», y así frente a rasgos leoneses 1
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variedad leonesa frente a la castellana podría examinarse más matizadamente, quizá por la proximidad entre ambas, bajo el prisma de las diferentes tradiciones de escritura, una la del este de León (Sahagún) o ‹leonés oriental›, siguiendo a Menéndez Pidal, y la otra la de Palencia, o ‹castellano occidental›. Sin duda alguna, los datos obtenidos a partir de la relación existente en estos años entre el área occidental castellana y la oriental leonesa serán de sumo interés. Las palabras seleccionadas para llevar a cabo el estudio fonológico de algunos grupos consonánticos muestran una presencia constante en los escritos y son las siguientes. ESCRIPTO vs. ESCRITO En el CODEA aparece siempre con el grupo consonántico mantenido y con la vocal protética e: le mandaron los Reyes poner en escripto (1287, Toro); Rogue alos omnes buenos que aqui de Yuso seran escriptos (1290, Atienza); poner en escripto; poner por escripto (1298, Valladolid).
En Sahagún encontramos algunas vacilaciones, siempre con la e- inicial, excepto en algún caso (scripto, de 1287), y sobre todo con el mantenimiento del grupo -pt-, menos en un par de ocasiones en que se representa la reducción del grupo y curiosamente en documentos escritos en Burgos, en 1289 y 1293: testimonios de yuso escriptos; en esta carta ye scripto; son escriptos; por este escripto (1286, 1287, 1288); poner en escripto (2) (1288. Burgos); paramientos que aquí son escritos (1289, Burgos); testimonios de yuso escriptos; que son / somos escriptos en las cartas; escripta en pergamino (1289); de yusso escriptos; iusso escriptas; escripta e signada; escripto… (1291-1292); de yuso escritos (1293. Burgos); por un escripto seellado (1294. Palencia); escripta en papel (1294), carta escripta; dar en escripto; escripto (1295); escripto(s) (1295. Valladolid).
Como participio o como sustantivo, tal vez por tratarse de una forma propia de las fórmulas jurídicas, esta palabra se presenta casi siempre con el grupo consonántico mantenido, y con el refuerzo de la vocal protética e-, que indica claramente su pronunciación. Los dos ejemplos de reducción de grupo son indicios de la oralidad, esto es, aunque lo escribieran, no debían pronunciarlo al leer el documento en voz alta. Y ello, siguiendo a Terrado para quien las alteraciones en la norma ortográfica pueden ser interpretadas como indicios de cambios en la pronunciación, ya que en su opinión «una vez conocida la norma ortográfica de determinado tipo de documentación, serán las transgresiones de la normalidad las que revelen cambios en la pronunciación». Así pues, teniendo en cuenta, con respecto a la palabra que nos ocupa, que lo que domina en los textos es escripto, esta sería la forma representativa de la norma gráfica, mientras que los dos ejemplos de transgresión –escrito– serían indicativos de la pronunciación de esta palabra. Además, sigue diciendo este autor que «cuando menor sea la frecuencia de un fenómeno tanto mayor será su capacidad informativa» (Terrado 1998: 285). No obstante, en nuestra opinión, siempre que no se trate de un único caso, dado que podría atender a otro tipo de explicaciones como veremos en algunas de las palabras que siguen.
principalmente ‹ortográficos›, la lengua de uso coincidía con las soluciones castellanas (SánchezPrieto 2008: 430; Pascual / Santiago 2003).
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SEPTIEMBRE vs. SETIEMBRE En el CODEA se presenta siempre con el grupo -pt- reducido, incluso en la fórmula de fechación en latín que se encuentra en un documento escrito en romance. En cuanto a la diptongación de la Ě tónica es constante en los ejemplos, excepto en el de apariencia latina: fue fecha tres dias de setiembre (1293, Segovia); setiembre; Rege exprimente xx die Setenbris era M CC Lx septiman anno Regnj tercio deçimo (1286, 1296, 1297, Valladolid).
En Sahagún domina también la escritura de esta palabra sin grupo consonántico. Únicamente aparece un caso que lo mantiene y se encuentra en un documento redactado en Burgos, en 1293, en el que se recogen asimismo otras palabras con los grupos consonánticos mantenidos como escripto(s), signo, auctoridat…, posiblemente por intención latinizante o cultista del escriba. Alterna, por otro lado, la diptongación de la Ĕ breve tónica latina (setiembre) con la solución sin diptongación (setenbre). setenbre (1287); setiembre (1289); setembre; setembrio (1291); quince dias de septiembre (1293. Burgos); setiembre (1293); ffiesta de sancta Maria de ssetenbre (1297).
Predominan, pues, los ejemplos en los que esta palabra se presenta con la reducción del grupo consonántico en la escritura; tan solo un documento datado en Burgos mantiene dicho grupo y consideramos que un único caso no es suficiente para concluir que esta palabra se pronunciaba con el grupo mantenido. La presencia de la forma setenbris en una fórmula en latín es clave para fijar la pronunciación de esta palabra tanto en el área castellana como en la franja oriental leonesa, es decir, con la reducción del grupo. En cuanto a la variante fónica setembrio, Corominas explica que en latín tardío se formaron algunos adjetivos terminados en -brius, junto a september, october, etc. Las lenguas romances vacilaron entre ambas posibilidades y sobre todo se dieron estas formas en leonés antiguo (Corominas / Pascual 1991, V: 245). REGNO vs. REINO (sustantivo y verbo) En el CODEA dominan los casos en los que esta palabra, utilizada como verbo o como sustantivo, se presenta escrita con el grupo consonántico. Ahora bien, destacan los ejemplos en los que la velar implosiva ha vocalizado en las formas verbales (reynasse, reyno, reyne…) y en el sustantivo (Reyno de murçia, Reyno de Gallizia, Reyno de Leon). Todos los ejemplos con vocalización son de 1298. los otros regnasen depues dellos; Et yo sobredicho Rey don Alfonso Regnant en uno con la Reyna…; el Rey sobredicho Regno (1287, Toro); Ante que Reynasse & depues que Reyno… depues que Reyne… depues que Reyno (1298, Burgos); Regnant; El Rey regno; regnasen; Rey ssobredicho (r)regno (4); Regnassen depues dellos; Rey don Sancho Regnante en uno; Rey sobredicho Regno (2); Rey don Fernando Regnant en uno (1289, 1293, 1295, 1296, 1298, Valladolid). Regno de Castiella; Regno de Murcia; Regno de Gallizia; Regno de Leon (1287, Toro); Regnos de Castiella e de Leon (5) (1291, Toledo); Regnos de Castilla e de Leon (1291, Toledo); mios Regnos; Regno de Murcia, Regno de Gallizia; Regno de Castiella; Regno de Leon; los Regnos de Castiella e de Leon; regno(s); ERA M CC Lx septiman anno Regnj tercio deçimo (1289, 1293, 1294, 1295, 1297, Valladolid); los mios Regnos; Regno de Leon, Reyno de murçia; Reyno de Gallizia; Reyno de Leon (1298, Valladolid).
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En Sahagún, esta palabra se escribe también en el grupo consonántico mantenido, excepto en un caso de 1299 que muestra la vocalización de la velar (reyno de Leon), alternando en el mismo documento con la forma sin vocalización (regno de Leon): los mios regnos (1286. Valladolid); regnassen, regnant en uno, regno de Murcia, regno de Gallizia, regno de Castiella, regno de Leon, rey sobredicho regno; regnassen, regnante en uno, regno de Murcia, regno de Gallizia, regno de Leon, rey sobredicho regno; nuestros regnos (2), regnant en uno (1288, 1289. Burgos); mi regno; regnante en Castilla (1290, 1295. Valladolid); regno(s); Spiritu Sancto… que uiue e regna por siempre; regnant, regno (1296, 1299. Cartas reales); regno de Dios (1290-1298, 1298); reyno de Leon / regno de Leon (1299).
Vistos todos los ejemplos, puede apreciarse que domina tanto en los escritos castellanos como en los leoneses la palabra con el grupo consonántico mantenido, bien como sustantivo, bien como verbo. Curiosamente, es a finales de siglo cuando tanto en Castilla como en Sahagún se vocaliza la velar oclusiva, en Castilla en 1298 y en Sahagún en 1299. Estos ejemplos que transgreden la norma escrita nos llevan a considerar que tal vez es a partir de finales del XIII cuando esta voz empieza a pronunciarse prácticamente sin vacilaciones con la vocalización en i de la g implosiva del grupo -gn-. Los casos de apócope extrema que aparecen en algunos de los ejemplos señalados (Regnant) demuestran que esta no se excluyó en tiempos de Alfonso X, sino que empezó a decaer más tarde, a principios del siglo XIV, tal como señaló Harris-Northall (1991). Puede verse en esto como la documentación notarial refleja fielmente lo ocurrido en la lengua en cuanto a pronunciación se refiere. SIGNO vs. SINO En el CODEA esta palabra y sus derivados se presentan siempre, sin excepciones, con el grupo consonántico -gn- mantenido. pus en ella mio Signo (1289, Benavente); este mjo Signo (1290, Atienza); signada del signo deste escribano; signado del signo… (1291, Burgos); ffiz este mj signo (1287, 1293, Segovia); un estrumento signado con ssigno (1291, Toledo); mjo signo (1286, Logroño); ffiz en ella mjo signo (1290, Monast. de Vega); carta ssignada (1296, Valladolid).
En el corpus de Sahagún domina igualmente la forma con el grupo consonántico. Ahora bien, llama la atención la presencia de la variante fónica sino, y su derivado sinada, con reducción de dicho grupo. Es posible que esta pronunciación se diera en esta scripta, y tal vez en otras, aunque no hayamos podido constatarla en Castilla. signo (1286, 1287, 1288); vi una perssoneria ssignada con el ssigno de… / mio signo (1288); procuraçion ssignada con el ssigno de… / e fiz en ela mio signo; una perssoneria ssignada con el ssigno de…; presentaçiones ssignadas con los ssignos de… / sso ssigno / e mio signo atal; que son signadas con los signos; e assignado plazo perentorio (1289); (este) mio signo; signase; escripta e signada con so signo; signara cartas; ssigno; las singne por verdat (1289-1299); signo (1295. Valladolid); mio ssino tal (1291); una carta sinada del sino de… / este mio signo (1288).
La frecuencia de uso de esta palabra en la documentación notarial la convierte en un tecnicismo jurídico-diplomático. Posiblemente, su constante aparición en este tipo de escritos es la razón de
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que haya llegado a la lengua estándar manteniendo el grupo consonántico, y ello a pesar de los ejemplos que dejan traslucir una pronunciación con reducción del grupo, aunque únicamente en la scripta leonesa, no en la castellana, y alternando en el mismo documento con la variante sin reducción, dado que junto al sustantivo sino y al adjetivo sinada también se encuentra signo. Conviene advertir una doble posibilidad de uso puesto que los dos casos con el grupo consonántico reducido se encuentran en el cuerpo del escrito y el sustantivo sin reducción de grupo en una fórmula jurídica. Por ello nos atrevemos a considerar que debió darse en la pronunciación una alternancia de variantes fónicas, al menos en Sahagún, y que acabó triunfando la forma que mantenía el grupo consonántico por tratarse de una voz propia del ámbito jurídico y con una gran frecuencia de uso. De ahí trascendió a la lengua estándar. En cuanto al ejemplo: las singne por verdat, podríamos pensar que estamos ante una grafía múltiple representando una palatalización nasal -ngn- /η/. Ahora bien, la ausencia de otros ejemplos nos hace plantearnos una explicación diferente. Hay que tener en cuenta que los textos pueden presentar errores de ortografía (Penny 1998: 214; Torreblanca 1985-86; Pensado 1998) que no revelan ningún hecho fonológico. Tal vez se trate, por lo tanto, de un error ortográfico, aunque no podemos descartar contundentemente una posible variante fónica palatalizada de esta palabra. Vamos a analizar a continuación la evolución del grupo consonántico latino -ct- en diferentes palabras, unas propias del ámbito jurídico (electo), otras del ámbito eclesiástico (sancto, rector…) y otras de la lengua común (octubre, fructo…). En primer lugar, conviene señalar que, como demuestran los ejemplos del corpus, este grupo latino entre vocales, palatalizado ya desde la época de orígenes, se presenta en la escritura con el dígrafo ch sin vacilaciones en ejemplos muy variados como mucho, derecho, ocho, conducho, pecho, pechar…, así como en los participios dicho, sobredicho…, en multitud de ocasiones, con sus variantes de género y número, ya que aparecen ciento setenta y siete casos en el CODEA. Algunos son los siguientes: nuestros derechos (1293, Toro); los pechos; atendemos mucho bien e mucha merçet… mucha uida e mucha ssalut por muchos annos (1294, 1296, Valladolid); den yantar sinon amj en conducho… (1291, Toledo); ocho dias de julio; ssobredicho Rey don Sancho; pena sobredicha; coto sobredicho (1286, Burgos); estas casas dichas; marauedis dichos; ferrant blasco el dicho; assi como dicho es; peche los treynta marauedis (1287, 1298, Segovia). Muy frecuente en fórmulas: donaçion deuandicha; clerigo deuandicho… (1290, Monast. de Vega).
Llama la atención el siguiente caso: Sea maldicho e confundido (1288, San Millán).
En Sahagún, se utiliza asimismo el dígrafo -ch- que representa la palatalización en posición intervocálica sin vacilaciones, en las mismas palabras que en los documentos castellanos, a las que añadimos derecha, derechura, ochaenta, ochaua, leche, entredicho, noche, malfechores, ochoçientos, etc. En cuanto al dígrafo ch que representa la palatalización en la lengua oral, conviene señalar que ha debido producirse un cambio importante respecto al siglo anterior si se tienen en cuenta las indicaciones de Ariza (2008: 151) cuando señala que en León, en el XII para representar la palatal /ĉ/ se utiliza la grafía x (Sanxo), o grafías complejas como cxi (Sancxia). Veamos algunos ejemplos del corpus:
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todos los pechos; pecharmeye la pena (1286, Valladolid); ffanega derecha (1287); sin entredicho ninguno (1288); conducho; ochaenta; derechura, ochaua parte… (1289); derechos e pertenençias; ochoçientos marauedis; ocho dias (1290); malfechores, noche, despechar (1294).
Asimismo, en Sahagún, con respecto a los participios dicho, sobredicho, etc., no se aprecian diferencias con respecto a lo señalado en el área castellana. Es constante su frecuencia de aparición y la palatalización del grupo latino representada por el dígrafo -ch-: heredamientos sobredichos; tierras sobredichas; según sobredicho es; de suso dicho (1286); dicho, deuandicho (1287, etc.); dichos, sobredichos; entredicho (1291, Toledo).
Tan solo llaman la atención dos casos, el primero en un documento de 1291 en el que aparece en quince ocasiones sobredicho(s) y únicamente en una dicto, tal vez por tratarse de una palabra que presenta un significado propiamente jurídico; y el segundo es una fórmula en la que se halla la voz maldito, con una reducción del grupo consonántico que será la solución que triunfe en este participio, a diferencia de la riojana maldicho en la que el dígrafo -ch- quizá aparezca por analogía con el participio dicho y sus derivados, muy numerosos en los textos, y, por tanto, no habría que considerar que represente una variante fónica de esta palabra con una pronunciación palatal. oydos los dictos de los testimonios (1291). Sea maldito e descomungado (1290 y 1297).
En el caso de fecho, con sus variantes de género y número, bien como sustantivo, bien como participio o adj. sustantivado, se escribe en el CODEA casi sin vacilaciones con el dígrafo ch que representa la palatalización. Únicamente en dos de los cincuenta y un casos se presenta con el grupo -ct-, en fórmulas de datación, aunque el texto esté en romance: en todos nuestros fechos (1287, Toro); fue ffecho & otorgado en Atiença (1290, Atienza); ffecha en esta guisa; fecha en Burgos (1286, 1289, Burgos); sabian del ffecho (1286, Logroño); ffacta carta apud valleltinj (1290, Toledo); ffacta carta apud las fuentes… (1297, Valladolid).
Sahagún también muestra la solución gráfica de la palatalización de 1286 a 1299: Ffechas las cartas; ffue ffecha; ffecha en esta manera (1286, 1287); nuestros fechos; fecho en esta guisa; Ffecho en Burgos (1288, Burgos); fue fecha en Toledo (1291, Toledo)…
No se presenta ningún caso que mantenga el grupo consonántico en la escritura, a diferencia del área castellana, en la que aparecía algún ejemplo, aunque escasamente. Penny (1998: 214) considera que ya desde orígenes la presencia de ct en facta es logográfica, esto es, se pronunciaba palatal /ĉ/ puesto que el escriba disponía de grafías aprendidas, mientras que para escribir un nombre extranjero recurría al análisis fonológico. OCTUBRE vs. OCHUBRE En el CODEA esta palabra se escribe siempre con ch representando la palatalización: Et esto fue ffecho & otorgado en Atiença domingo Viij dias de ochubre (1290, Atienza).
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Sahagún coincide con Castilla en presentar esta palabra palatalizada, excepto una vez: ocho dias de ochubre; Ffecha la carta XXX dias de ochubre; ochubre (1290, 1992, 1297); diez de ochubre (1296, Valladolid); dias de ochubre; XVII dias de octubre (1296, 1299. C. reales).
Destacan en este corpus los documentos con data tópica castellana y con la solución palatalizada que parece reforzar la idea de la pronunciación palatal de esta palabra a finales del siglo XIII, al menos con anterioridad a 1299, año en que ya se documenta el grupo -ct-. FRUTO vs. FRUCHO En el CODEA esta palabra se presenta con la reducción del grupo consonántico: Maria ffrutos (apellido) (1287, Segovia); todos los ffrutos (1293, Segovia).
En Sahagún domina, en cambio, la palatalización de dicho grupo en el caso de esta palabra, incluso al aparecer en expresiones formularias. Solo destaca un caso con vocalización de la velar agrupada; esta variante fónica es propia del área leonesa: arboles que lieuen ffrucho e que no lieuen frucho; arboles que lieuen ffrucho e que no lieuen ffrucho; ffruchos; el frucho; ffruyto (2); el frucho que Dios…; ffruchos; diez fruchos cogidos de pan e de uino (1290, 1291, 1293, 1298).
A pesar de los escasos ejemplos recogidos en la documentación castellana, la diferencia es evidente entre los escritos de Castilla y los de Sahagún. En Castilla se opta por la reducción del grupo consonántico, tal como demuestran los dos ejemplos entre los que media una distancia de seis años, mientras que en Sahagún se recurre a la palatalización, la solución más frecuente, o a la vocalización de la velar implosiva. SANCTO vs. SANTO En el CODEA aparecen algunos casos con el grupo -ct- mantenido (spiritu sancto) pero principalmente ejemplos con reducción (Sant Pedro). Además, la pérdida de la vocal final es frecuente ante un nombre masculino singular, hasta se da en un ejemplo que mantiene el grupo consonántico (sanct viceynte). E incluso empiezan a destacar los casos no solo con apócope vocálica sino también con pérdida de la dental final (ssan marcos): En el nombre de dios padre & fijo & spiritu sancto; sancta Maria (1287, Toro); Sancta maria de Naiara (1286, Burgos); sancta Eglesia (1291, Toledo); Sanct viceynte; Sant viceynte; Sant Johan (1287, Segovia); sant mjllan; San mjllan; Sancta maria; sancta eglesia (1286, Logroño); Sant Pedro; ssantos evangelios; prometemos a dios e a santa maria; Sancta maria (1290, Monast. de Vega); ssant Bart(h)olome; ssant munnoz; ssanto tome; ffastal berrocal de Sancti yuannez; En el nombre del padre e del hijo e del spiritu sancto, sancta maria, todos los santos, spiritu sancto… (1296, 1298, Valladolid); santos Auangelios (1289, Benavente); monesterio de ssanta maria (1290, Atienza); de Sant esteuano (1292, Burgos); de ssant millan (1294, Burgos); ssant viçente; sant viçent; (1293, 1298, Segovia); Ssanta maria de Nagera (1298, La Rioja); En el nombre de dios padre & fijo & spiritu santo; santa Maria; Monasterio de ssan marcos (3); Santa Maria (3); Sant Bartolomé; ssant munnoz (1289, 1293, 1296, 1298, Valladolid).
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En Sahagún son más frecuentes los ejemplos que se presentan con reducción del grupo, pero no se descartan los que lo mantienen en la escritura, sobre todo en las fórmulas notariales. Asimismo, es más habitual aquí la presencia de san, frente a sant. El caso de apócope ante nombre femenino (Sant Elena) es extraño; tal vez se deba a la analogía con el primer término de la correlación en la que aparece (sant + masculino… sant + femenino): que va de Sant Miguel a Sant Elena (1286); Sant; San / sancta Maria; eglesia de Sancta Maria (de 1286 a 1298); Sant / de Sancta Maria a Sancta Maria (1287); Sancta Marina (1292); Santos Evangelios (1294); S(s)anta egllesia, San Pelayo (1295); spiritu sancto, sancta Maria, los sanctos / Sant Fagunt (1288, 1289. Burgos); San (1291. Toledo); Sancta Maria (1295. Valladolid); Spiritu Sancto, sanctos, sancta Maria; Spiritu Sancto, sancta Maria / Sancta Eglesia, Sancta Yglesia (1296, 1299. Cartas reales de Fernando IV).
Sin duda alguna, en el caso de sancto, estamos ante un arcaísmo gráfico, no fonético, que alterna en la escritura con la solución que refleja la pronunciación de esta palabra con la reducción del grupo. La variante gráfica que presenta el grupo consonántico mantenido es curiosamente mucho más frecuente cuando acompaña a un nombre en femenino (sancta Maria, sancta Eglesia…), principalmente en la scripta castellana. También es frecuente esta solución en las fórmulas jurídicas de Invocatio4 y se observa en algunos escritos, junto a otras palabras que mantienen los grupos consonánticos: septiembre, electo, Sancta Eglesia, octubre…, posiblemente debido a la intención cultista o latinizante del escriba. Sánchez-Prieto (2005: 443-444) observa que, con respecto a la dental final, en los documentos del XIII predomina la –t (abbat), en concreto, «la secuencia –nt es casi absoluta en sant […]. Con todo, muestras directas de la reducción encontramos ya en algunas tradiciones de escritura del s. XIII (san por sant)». SANCTIAGO vs. SANTIAGO En el CODEA aparecen ejemplos como los siguientes: Maestre dela caualleria de Sanctiago (1287, Toro); maestre de caualleria de Santiago; en tierra de Santiago; iglesia de Santiago; dela orden de Sanctiago; arçobispo de Santiago; pertiguero de Santiago (1289, 1295, 1298, Valladolid).
En el corpus de Sahagún encontramos casos como estos: Martin de Sanctiago (2) (1287); Santiago (1292); Maestre de la Caualleria de Sanctiago, en tierra de Sanctiago; eglesia de Santiago, Maestre de la Caualleria de Sanctiago, en tierra de Sanctiago (1288. Burgos); maestre de la Orden de la Caualleria de Sanctiago, pertiguero de Sanctiago; arcobispo de Sanctiago; dean de Sanctiago… (1296, 1299. Cartas reales).
Se observa en ambas áreas una preferencia por la palabra con el grupo -ct- mantenido en la escritura. Es otro caso, pues, de arcaísmo gráfico, posiblemente influido por la En los documentos notariales las fórmulas, como expresiones lexicalizadas, tienen una presencia constante con el objetivo de otorgar al documento validez jurídica, ya se presenten en latín o en romance. Asimismo, pueden mostrar no solo variantes gráficas, sino también variaciones, que se aprecian en la utilización de sinónimos, en la adición de diversos elementos, etc. (García Valle 2004).
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palabra sancto, que presenta esta solución con relativa frecuencia tal vez por encontrarse en fórmulas jurídicas de Invocatio. Aún así, se vislumbra ya la intención de reducir gráficamente el grupo al menos desde 1288 en Castilla y desde 1292 en Sahagún. ELECTO En el CODEA destacan algunos ejemplos como: Don fferrant perez, electo de Seuilla; Johan electo de Osma (1289, 1298, Valladolid).
En el corpus de Sahagún se encuentran casos como estos: nos don Garcia, por la gracia de Dios eleyto de Sant Ffagunt; a uos dos Garcia, por la gracia de Dios eleyto de Sant Ffagunt (1286); en commo le feziera escribano el eleyto don Rodrigo (41 veces) (1294); eleyto de Seuilla (1295, Valladolid); electo de Seuilla (1288, Burgos).
Se aprecia una diferencia notable entre ambas scriptae. Mientras en el área leonesa se prefiere la forma eleyto, con vocalización de la velar oclusiva, en Castilla se opta por la solución que mantiene el grupo consonántico: electo, puede que por tratarse de un tecnicismo jurídico. Esta última solución será la que trascienda desde la lengua notarial. RECTOR Esta palabra se documenta solo en Sahagún. No obstante, aparece también en los escritos de esta colección datados en Burgos: rrector de la iglesia de…; rector de Sancta Marina; rrector(es)… (1289, 1292, 1294, 1295…); rector (1293. Burgos); rebtor de Sant Pedro (1297); rreytor de Sancto Tiso (1298).
La solución que mantiene el grupo consonántico en posición intervocálica es, sin duda, la que triunfa dado que se trata de una voz propia del ámbito eclesiástico y frecuente en la documentación notarial. La alternancia con la solución que vocaliza la velar implosiva se da al menos en la scripta leonesa. Ahora bien, el resultado rebtor indica la intención de reflejar por escrito la pronunciación de la velar, aunque, por la posición que ocupa, el escriba la reconozca como sonora y la represente gráficamente con b. Como ha podido comprobarse en muchos de los ejemplos presentados, la duplicación de grafemas consonánticos en posición inicial, que Sánchez-Prieto (2005: 445) encuentra a partir del códice de la Gran Conquista de Ultramar (de h. 1295), ya se da con frecuencia en el corpus (ssobredicho, rregno, ssigno, ssignada, ffecho, ffacta, rrector, ffrutos, ssanta…). Esta característica se adelanta, pues, al menos una década atendiendo a los textos jurídicos. Morreale (1978: 196) explica como una marca de estilo el incremento de signos superfluos como la reduplicación de la ff- o de la rr- en posición inicial. A la luz de los datos lingüísticos ofrecidos por el corpus, surge, en primer lugar, la necesidad de saber si puede hablarse a finales del s. XIII de la existencia de una norma ortográfica. Pues bien, es innegable, como afirma Echenique (2008: 75-81), que «después de Alfonso X (1252-1284) el castellano tenía un sistema regularizado, una sintaxis válida para todas las necesidades de la lengua y un léxico habilitado en todos los niveles».
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En segundo lugar, con respecto a las variaciones gráficas que se presentan en los textos, hay que plantearse si se trata únicamente de vacilaciones ortográficas o, por el contrario, son lingüísticamente significativas. Coincidimos con Sánchez-Prieto (2005: 425) en que muchas de las divergencias no responden a diversidad fonética, como demuestra el corpus visto: scripto / escripto / escrito; sancto / santo; Sanctiago / Santiago; rector / rebtor… Además, cabría añadir que son numerosos los casos en los que la variabilidad gráfica parece responder a un recurso estilístico. Llamas (2009: 254) insiste en que la variación gráfica puede deberse a una motivación estética en los textos medievales. Pues bien, este rasgo de estilo parece que se confirma en el corpus si atendemos a las numerosas variantes gráficas de una misma palabra (setenbre / ssetenbre / setembre...; signo / ssigno; sancto / santo; scripto / escripto; rector / rrector / rebtor; fecha / ffecha / facta / ffacta; sant / san / sanct…). Como señaló Morreale (1978: 253), la ‹variatio› es una característica del estilo de escritura en la Edad Media, sobre todo en el XIII y en el plano fónico y gráfico. Pascual (1996-97: 100) también admite que en los textos medievales hispánicos se buscara conscientemente la variación gráfica; y Cabrera (1998: 19) encuentra casos de variaciones gráficas con un claro valor estilístico, que no deben ser consideradas como vacilaciones, dudas o formas anárquicas. Sánchez-Prieto (1998; 2005: 426) observa que el deseo de variación no era percibido como un defecto en la Edad Media. Por otro lado, ya hemos ejemplificado más arriba que algunos textos pueden presentar errores de ortografía que consecuentemente no revelen ningún hecho fonológico, podría ser el caso de singne en lugar de signe, sin descartar que pudiera representar una pronunciación palatal, pero resulta extraño por lo aislada que se presenta y por la abundancia de casos con el grupo consonántico mantenido. Además, la tradición discursiva jurídico-notarial está muy consolidada a finales del XIII, de ahí que los usos lingüísticos de los documentos hayan de valorarse en el contexto de la tradición en la que se inscriben y en la que se van incorporando cambios, como elementos nuevos, que solo afectan a la norma. A las tradiciones discursivas, como condicionantes del escrito, se unen las de escritura (monásticas, concejiles, catedralicias…) que señala SánchezPrieto, según las cuales algunas palabras, propias de la documentación notarial en general, como escripto o regno, o de las fórmulas jurídicas en particular, como signo, sancto o facta, tienden a mantener el grupo consonántico en la escritura. Siguiendo los planteamientos de Kabatek (2001), para quien los cambios lingüísticos de los textos escritos han de entenderse producidos por una elaboración consciente, podríamos llegar a considerar que la lengua escrita enmascare la lengua oral en documentos notariales e incluso la desvirtúe, al presentar una composición y expresión condicionadas por una tipología discursiva a cuyas normas ha de ajustarse el texto en todos los niveles lingüísticos. No vamos a negar esta realidad en algún caso; ahora bien, en el nivel fonético-fonológico, las tradiciones discursivas no tienen tanto peso como en otros niveles lingüísticos; y, como bien advierte González Ollé (2008: 37-38), en el intento de descubrir la lengua efectiva del notario la realidad se manifiesta preferentemente en «las infracciones de la pauta básica empleada en la redacción principal». Ejemplos del corpus serían los de sino, sinada, escrito, reino, fruto, fruito, frucho, san, eleito, rebtor, reytor... Pues bien, teniendo en cuenta todos los condicionantes señalados a propósito de la lengua escrita en relación con la lengua oral, podemos afirmar que el corpus de estudio ha demostrado que los escritos jurídicos son una fuente fiable de reconocimiento de la pronunciación a través del análisis gráfico. Hemos señalado algunos ejemplos fielmente indicativos de la pronunciación
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de la época de estudio, con o sin los grupos consonánticos mantenidos (setiembre, escrito, signo, fruto…), por lo que descartando algunos casos ya señalados, las variaciones gráficas han resultado lingüísticamente muy significativas en este análisis. Álvarez (1993: 23-42), comprueba que en la documentación notarial el escriba no se limitaba a redactar por su cuenta solo las partes libres, introduciendo muchos elementos procedentes de la lengua oral, sino que en las fijas incluía también innovaciones procedentes de la oralidad. En tercer lugar, se observa en la documentación analizada la «decantación progresiva de soluciones» de la que habla Sánchez-Prieto (2005: 444-445), y a la que contribuyen a partir de la segunda mitad del siglo XIII los notarios públicos «que imponen una serie de usos más próximos a los de la cancillería castellana» (como ejemplos tenemos los de signo frente a sino, rector frente a reytor, etc.), pero sin que esto quiera decir que no pervivan rasgos diferenciales en algunos monasterios y, por supuesto, en el antiguo reino de León, donde coexisten el patrón gráfico-fonético predominantemente ‹castellano› junto a tradiciones de antigua raigambre leonesa.
Utilizando el corpus analizado, mientras en Castilla parece que se ha impuesto ya electo, en Sahagún predomina la variante fónica eleito, por ejemplo; lo mismo que en el caso de fruto en Castilla, frente a frucho o fruito en Sahagún. No obstante, no hay grandes diferencias entre las dos documentaciones revisadas, la castellana y la de Sahagún en estos años, por lo que, a la luz de nuestros datos podríamos adelantar la fecha que señala Morala (1998: 174) de la generalización del castellano ‹alfonsí› en el área leonesa, es decir, que esta se produce ya a finales del XIII. Así pues, en la lengua jurídica se aprecia como la consolidación gráfica del romance evidencia los procesos de fijación de los grafemas y de selección de las variantes fónicas coexistentes. En los documentos del corpus se mantiene aún la correspondencia entre grafías y fonemas característica del XIII. Sánchez-Prieto (2005: 445-446) aprecia una diferencia evidente entre el s. XIII y el s. XIV, ya que en este último se quiebra el foneticismo que había caracterizado a la escritura del siglo anterior. En cuarto lugar, se percibe también en el corpus el mantenimiento de una tradición que viene de la época alfonsí. Se trata de la unidad que dentro de la cancillería de Sancho IV presentan los privilegios. Es posible que recurrieran a la utilización de una plantilla como se hacía en la cancillería alfonsí, tal como apunta Sánchez-Prieto (2005: 445). Los privilegios y las cartas plomadas eran documentos más solemnes que los mandatos, que se escribían para transmitir órdenes a los oficiales del reino, de ahí que se dispusiera de plantillas para los primeros.
Bibliografía Álvarez Maurín, M. Pilar (1993): El registro lingüístico especial de los documentos notariales medievales. In: Estudios Humanísticos. Filología 15, 23-42. Ariza Viguera, Manuel (2008): Grafías y fonemas en el siglo XII. In: Díez Calleja, Beatriz (ed.): El primitivo romance hispánico. Instituto Castellano y Leonés de la Lengua, 145-162.
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Martin-D. Gleßgen / Claire Vachon (†)
L’étude philologique et scriptologique du Nouveau Corpus d’Amsterdam
1. Description philologique du Nouveau Corpus d’Amsterdam (NCA) Le Nouveau Corpus d’Amsterdam repose sur le Corpus d’Amsterdam établi jadis sous la direction d’Antonij Dees et de Piet Van Reenen. Le balisage grammatical initial a été élargi et enrichi d’informations lexicologiques par les soins d’Achim Stein et de Pierre Kunstmann; nous avons, quant à nous, entrepris une description philologique des ca 300 manuscrits et 150 œuvres en question qui rendent compte de la diversité des genres non documentaires de l’ancienne langue française (poésie et prose littéraires, textes religieux, littérature morale, historiographie). Nous avons opéré à cette fin une révision bibliographique systématique qui poursuivait les trois objectifs suivants: (i) compléter les –nombreuses– informations manquantes dans l’ancienne bibliographie (textes ou manuscrits non identifiés, éditions critiques ou diplomatiques); (ii) vérifier et compléter la datation et la localisation des manuscrits du Corpus; (iii) introduire la datation et la localisation des œuvres transmises par les manuscrits en question, élément auparavant absent. Nous nous sommes basés dans un premier temps sur le Complément bibliographique du DEAF, puis, si nécessaire, sur les éditions elles-mêmes. Dans cette optique, l’une d’entre nous a mené à bien de façon systématique les opérations suivantes: L’identification univoque des manuscrits transcrits dans le Corpus et des œuvres correspondantes. L’indication des codes DEAF des textes et éditions (en créant, si nécessaire, de nouveaux codes, transmis à l’équipe du DEAF). L’introduction d’un champ «EditionNCA» réunissant les champs préexistants «édition», «titre» et «manuscrit», tout en les complétant; ce champ permet un aperçu rapide sur les éléments bibliographiques essentiels. L’indication du nombre de feuillets couverts par le texte transcrit et des numéros de feuillets qui lui correspondent dans le manuscrit. La vérification du passage transcrit pour établir si le texte intégral a été saisi ou si le NCA comporte uniquement un extrait (avec, alors, l’indication du passage en question). La vérification et l’indication des lieux et dates des compositions et des manuscrits, avec des champs complémentaires précisant la source des informations (DEAF ou une édition donnée).
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Cette opération, longue et fastidieuse, a demandé une extrême attention dans le détail. Elle fut commencée par l’un d’entre nous dès 2004, aidé par plusieurs collaborateurs; les premiers résultats ont permis une première synthèse en 2007 (Gouvert / Gleßgen 2007); depuis 2008, C. Vachon a repris nouvellement et complété toutes les informations disponibles, ce qui a permis la synthèse actuelle qui dépasse considérablement la version de 2007.1 Nous sommes très reconnaissants à notre ami Gilles Roques de nous avoir apporté une importante série de compléments, grâce à sa connaissance unique des textes anciens. Au final, notre révision a non seulement fortement enrichi la bibliographie initiale mais elle a également permis de corriger une série importante d’erreurs dans la bibliographie de Dees (cotes de manuscrits, dates d’éditions, passages concernés, etc.), voire dans la composition même du corpus (doublets, présence de copies tardives). Voici quelques cas de figure, en dehors des corrections portant sur des erreurs de saisie ou d’inattention dans l’indication du passage ou les cotes des manuscrits:2 Mauvaise identification: – mir (CoincyI10K) correspond au Miracle de Théophile de Gautier de Coinci, et non pas aux Miracles de Notre Dame de Soissons du même auteur. Manuscrit erroné: – marga (WaceMargaF) provient du ms. A, et non du ms. M; – sully2 (SermMaurPB) est issu, comme l’indique le DEAF, du ms. Poitiers 97 (271), et non du ms. Poitiers, Bibl. pub. 124; – thebefrag (ThebesR_D) correspond au ms. Angers BM 22 (26), et non au ms. Angers BM 2. Erreurs d’édition d’origine: – l’année de parution correspondant à enf (EvEnfB) est 1976, et non 1980; – le volume de la revue dont provient kathe (SCathJong1F) est R 58, et non R 63. Fichier présentant un texte fautif: – le mot de la rime manque systématiquement dans jongl (PassJonglGP); – le texte d’amou (BestAmOctT) est présenté dans l’ordre alphabétique des vers. Textes à supprimer: – fierens (CartTournaiF*) est un recueil de chartes du 15e siècle et n’a pas sa place dans un corpus de textes non documentaires; – perb est inclus dans percevalb (PercLo_B); – chret1 et chret2 contiennent chacun la transcription partielle des deux mêmes œuvres, transmises chaque fois dans un même manuscrit (ms. Paris, BN fr. 1450 pour chret1 et ms. Paris, BN fr. 794 pour chret2); ce qui est grave, c’est que chacune des quatre transcriptions en question est contenue dans d’autres items du Corpus (chret1 est inclus dans yvf (YvainL_F) et perr (PercLo_R); chret2 est contenu dans yvh (YvainL_H) et pera (PercLo_A)). Prenons comme seul exemple les changements concernant la date du manuscrits, en faisant abstraction des changements purement formels ou ‹automatiques›, comme le remplacement de «1310pm10» par «1313pm13» ou de «1300ca» par «1290pm10» (d’après les règles instaurées par Achim Stein). Depuis 2007, 45 indications concernant la date ont pu être améliorées et précisées; dans 13 cas, le changement ne porte que sur quelques années mais dans 28 cas, il s’agit de corrections majeures: par ex., la date de ThebesC_D (= Dees thA) passe de 1400ca à 1200pm10, celle de AthisH (= athi) de 1235ca à 1350pm50; par ailleurs, une nouvelle date a été ajoutée (fierens: 1489) et trois informations relatives aux dates ont été supprimées car elles n’ont pas été validées (gar: 1750pm50). 2 Erreur d’un chiffre dans des cotes de manuscrits: fab4f et mous; erreur de passage: alia et abe. 1
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2. Perspectives pour l’étude scriptologique Ces corrections permettent dorénavant une utilisation plus sûre du corpus, tel qu’il est disponible sur le serveur de l’université de Stuttgart.3 Par ailleurs, notre révision philologique a ajouté un nombre important d’informations à la description initiale des textes. À titre d’exemple, il est maintenant possible de prendre en considération, conjointement, les paramètres diasystématiques qui caractérisent les manuscrits et ceux qui sont propres aux textes originaux sur lesquels ils reposent. Cela ajoute une nouvelle dimension interprétative qui a un impact variable selon le domaine de la langue concerné: – dans les domaines syntaxique et même lexical, les choix diasystématiques des manuscrits suivent fortement le modèle des versions antérieures, ce qui crée le décalage spatiotemporel caractéristique des textes médiévaux tels que nous les connaissons. Cette observation ne met pas en cause la forte variance textuelle due à l’action des copistes et adaptateurs: mais il s’agit là d’interventions motivées essentiellement par des questions de contenu et dans une moindre mesure par un souci d’adaptation linguistique; – en graphématique et, partiellement, dans les marques morphologiques, les paramètres diasystématiques de l’espace et du prestige social, de même que les changements dus au temps, transforment plus fortement les données de l’original et peuvent mener à une physionomie beaucoup plus proche du dernier scribe que de celle de l’auteur. Dans un premier temps, il nous a semblé particulièrement intéressant de poursuivre, sur la nouvelle base philologique que nous avions constituée, les analyses scriptologiques d’A. Dees et de P. Van Reenen. Une telle réflexion porte alors sur les éléments de graphématique et de morphologie qui montrent la plus forte intervention des copistes; ces domaines permettent en même temps de tirer le plus grand nombre de conclusions linguistiques sur les caractéristiques des manuscrits individuels. Etant donné la lourdeur de toute analyse scriptologique de détail, nous étions obligés de restreindre le domaine d’observation à l’intérieur des 300 textes du corpus. Nous avons retenu les textes provenant de l’Est et du Sud-Est du territoire d’oïl (Champagne, Lorraine, Franche-Comté, Bourgogne); cela nous permet notamment de comparer les paramètres scriptologiques des manuscrits littéraires avec ceux des chartes originales, contemporaines, paramètres que nous étudions dans le projet des Plus anciens documents linguistiques de la France (Gleßgen 2009, Gleßgen / Kihaï / Videsott 2010).
Cf. l’adresse indiquée dans la bibliographie sous NCA; le site est accessible gratuitement après inscription à cette même adresse.
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3. Etude scriptologique des manuscrits orientaux 3.1. Segmentation géolinguistique du corpus La restriction du domaine d’observation aux seules quatre régions de l’Est mentionnées suppose tout d’abord l’identification des textes qui se placent dans ce cadre géographique. Cette première opération s’est avérée assez compliquée et nous avons dû commencer notre étude scriptologique par une étape préliminaire relativement lourde; cette première phase sera toutefois pleinement mise à profit pour l’évaluation linguistique ultérieure des manuscrits retenus. Nous avons commencé par réunir tous les textes qui ont été attribués à l’une des quatre régions de l’Est soit par Dees soit par la tradition philologique, telle qu’elle est répertoriée dans le DEAF ou telle qu’elle s’exprime dans les éditions en question. Cela a fourni un premier groupe de 99 textes (après suppression des deux textes mentionnés, chret2 et perb, cf. supra 1.) que nous avons étudiés de plus près d’un point de vue scriptologique. Après avoir cerné les paramètres linguistiques les plus pertinents et avoir dégagé les premières conclusions, nous avons étendu nos interrogations à l’intégralité des textes restants, au nombre de 193 (après suppression des deux autres textes mentionnés, chret1 et fierens). Cet élargissement s’est avéré indispensable pour pouvoir établir la valeur scriptologique des paramètres retenus sur le territoire d’oïl. Comme nous l’avons dit, le choix des quatre régions retenues a été dicté non pas en premier lieu par des arguments géolinguistiques mais par l’état de nos études sur les chartes françaises originales du XIIIe siècle.4 Notre finalité a été toutefois celle d’établir ensuite une segmentation externe et interne, cohérente d’un point de vue géolinguistique et donc basée avant tout sur des critères linguistiques. Dans la segmentation externe, notre étude nous a amené à exclure les zones qui se trouvent dans la périphérie occidentale de notre territoire, proche de l’Île-deFrance, puisque les textes n’y présentent pas les principaux paramètres linguistiques que nous avons dégagés comme définitoires de la région géolinguistique de l’Est. 3.2. Les paramètres linguistiques définitoires de l’Est L’identification des paramètres graphématiques et morphologiques pertinents a été une opération exigente en termes de temps et de réflexion. Dans un premier temps, nous nous sommes basés sur les paramètres déjà retenus pour nos chartes (cf. Gleßgen 2008, Tinner 2009); malgré l’utilité de ce choix, la nature des manuscrits du NCA, intégralement transmis par copie, induit des types de variation différents de ceux des chartes originales. Certains paramètres sont particulièrement porteurs pour les chartes en raison de leurs choix lexicaux, comme les variations lettres ~ lattres et estable ~ estau(b)le, retraçables dans presque chaque document; mais dans les textes du NCA, ces variables paraissent bien entendu de manière moins systématique. Par ailleurs, nous Les départements, pour lesquels nous disposons actuellement de l’édition électronique, accessible par internet (cf. Glessgen 2009) sont les suivants, du Nord-Ouest au Sud-Est: la Marne, la Haute-Marne, la Meuse, la Meurthe-et-Moselle, la Haute-Saône, la Saône-et-Loire, la Nièvre et le Doubs. Tous ces documents ont été balisés avec les paramètres scriptologiques retenus par nous (cf. Glessgen 2008).
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n’avons pas encore pu faire appel à l’apport très précieux de l’analyse codicologique et paléographique des documents, puisque celle-ci suppose d’avoir réuni au préalable la reproduction photographique et la description détaillée de tous les manuscrits du corpus. Nous avons donc opéré un grand nombre de tests pour pouvoir établir la pertinence des différents paramètres, en nous basant chaque fois sur le nombre des occurrences concernées et sur les pourcentages respectifs des différentes variantes. Les paramètres pertinents doivent répondre à plusieurs exigences (cf. Gleßgen 2008): – ils doivent être relativement fréquents dans l’ensemble du corpus et dans un nombre important de textes individuels; – étant donné la dimension du corpus, l’identification et le balisage des paramètres doivent demander un temps défini et ne pas impliquer des vérifications étymologiques trop lourdes; – la distribution des variables doit répondre à une logique géolinguistique et les variations des pourcentages relevés doivent être significatives.
Voici un bref descriptif de la procédure de base pour le relevé d’une variable (par exemple -aubl-) à l’aide du formulaire de recherche mis en ligne par Achim Stein sur le serveur de l’Université de Stuttgart (cf. NCA): – sous Search words, inscrire « .*aubl.* » comme word or regular expression (.* correspond à une séquence quelconque de signes) et activer statistics on; – pour simplifier l’affichage des résultats, mettre deaf dans «or only some attributes» sous Line annotation; – lancer enfin la recherche en cliquant sur Start (en haut à gauche).
Le téléchargement, sur le site du NCA, du logiciel TigerSearch permet d’enregistrer un sous-ensemble de textes à étudier, ce qui a été nécessaire pour nous; le logiciel permet par ailleurs de compter automatiquement le nombre d’occurrences par texte et d’exporter les résultats en format Excel, ce qui n’est pas possible avec le formulaire de base. Dans nos sondages, nous avons constamment comparé les renseignements déductibles des différents paramètres afin d’établir lesquels étaient particulièrement porteurs et lesquels n’apportaient aucune information complémentaire par rapport à d’autres paramètres. Cela nous a permis de constituer des hiérarchies relatives que nous ne pourrons pas présenter intégralement en ce lieu mais qui sont parfois surprenantes (cf. les exemples infra). A l’issue d’une importante série de tests, nous avons retenu vingt paramètres pertinents. Parmi eux, six paraissent avec une fréquence relativement élevée dans le corpus global et sont par conséquent potentiellement à haute fréquence dans les textes individuels (la forme purement graphématique k- vs qu-, les variables grapho-phonétiques or ~ our, nr ~ ndr et abl ~ au(b)l ainsi que la marque morphologique le ~ lo(u)). Par ailleurs, la hiérarchisation des phénomènes a permis de distinguer des paramètres régionalement fortement marqués, comme lo(u); ce sont des paramètres très révélateurs pour une ou plusieurs des quatre régions; leur présence peut également être interprétée en termes diastratiques puisqu’il s’agit de formes d’un moindre prestige socioculturel. D’autres paramètres comme le maintien de nr (genre pour gendre) sont certes caractéristiques par leur fréquence pour l’une de ces quatre régions mais ne
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sont pas exclusifs. Enfin, trois des paramètres retenus sont des marques faiblement régionales et correspondent soit à des états chronologiques donnés, comme or (contre our), soit à des marques à valeur diastratique (k- et w-). Nous avons par conséquent regroupé les vingt paramètres dans six catégories distinctes selon leur valeur de marquage et leur fréquence: (i) Paramètres marqués d’un point de vue régional (et diastratique) (a) Paramètres à haute fréquence dans le corpus: = art.m.sg.rég. lo ~ lou vs le = aul(e) ~ aubl(e) (avec vélarisation de -b- devant -l) vs abl(e) = dipht. de /’a/ (lat. -atu, -ata, -are): p.p. et inf. en ei ~ eir (avec dipht. en /ej/) vs e ~ er = 6e pers. en -unt vs -ont (fut. ou prés. de estre, avoir, faire, aller et leurs composés) (b) Paramètres à faible fréquence dans le corpus: = aul vs al (< -ale) = -a(u)l vs -el (< -ellu) = 3e pers.prés. avoir: ai(t) ~ at vs a = pron.pers. tonique mi vs moi ~ moy = 3e pers.parf. estre: fu(s)t ~ fui(s)(t) vs fu = démonstratif neutre (< ecce + hǒc): ceu vs ce = variantes de chose: -ou- ~ -oi- vs -o- / -z- ~ -ss- ~ -c- vs -s(ii) Paramètres moyennement marqués d’un point de vue régional (a) Paramètre à haute fréquence dans le corpus: = -nr- vs -ndr- (< lat. n’r, prehendere, qq noms propres) (b) Paramètres à faible fréquence dans le corpus: = var. graph. -aige vs -age (suff. < lat. -aticu et rad.: saige, naige, etc.) = -oil vs -eil (subst. conseil, soleil, orteil et sommeil uniquement) = sein(c)t vs sain(c)t et dérivés (lat. /’a/ devant nasale) = noz vs nos ~ nous = signeur vs seigneur et dérivés (iii) Paramètres peu marqués d’un point de vue régional (a) Paramètres à haute fréquence dans le corpus: = diff. résultats de /’ō/ lat.: or (seignor, lor) ~ jor ~ cort ~ nos vs our etc. = ke, ki vs que, qui (b) Paramètre à faible fréquence dans le corpus: = présence de -w-, d’origine germanique ou non (fréquence absolue uniquement) Les paramètres sous (i) sont évidemment les plus décisifs pour l’inclusion ou l’exclusion d’un texte donné dans le cadre géolinguistique de l’Est; mais la cooccurrence d’autres paramètres peut apporter des éléments complémentaires et elle permet, surtout, de mieux décrire par la suite la physionomie des différents textes. Notre document de synthèse contient un tableau-excel de tous paramètres par texte avec le nombre d’occurrences absolues et les pourcentages. Les degrés de gris dans les colonnes
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de pourcentages indiquent des tranches de fréquence différentes, toutes supérieures à 25% (blanc: 0-24%, gris clair 25-49%, gris moyen: 50-74%, gris foncé: 75-100%); cf. comme exemple un segment de ce tableau:
Sur cette base, nous avons établi une synthèse hiérarchisée des paramètres, regroupés en 18 unités:
La lecture de ce dernier tableau demande un peu d’accoutumance; prenons deux exemples: – la ligne 18 (OR), colonne B (AU(B)L) donne le chiffre 13,86%; ce chiffre indique que 13,86 pourcents des textes qui ont «or» connaissent également les variables «aul» ou «aubl»; la présence du paramètre «or» dans un texte ne suppose donc qu’avec une très faible probabilité la présence du paramètre «au(b)l»; – la colonne Q (OR) présente le chiffre 100% pour toutes les lignes; cela veut dire que 100% des textes qui ont un des 17 autres paramètres ont également «or»; le paramètre «or» est donc impliqué par la présence de chacun des autres paramètres (= un texte qui connaît «au(b)l» connaît toujours aussi «or» mais l’inverse n’est pas vrai).
Des variables comme «or» ou «nr» (80 à 90% d’inclusion par les autres variables) sont donc endémiques dans les textes orientaux (= elles sont dominants voire exclusifs dans tous les textes orientaux), sans nécessairement avoir une valeur diasystématique très marquée (= elles paraissent également dans des textes non-orientaux).
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Le relevé intégral des occurrences et des pourcentages des différentes variables pour les vingt paramètres nous a permis d’obtenir le résultat envisagé: sur cette base, il est possible d’établir une opposition univoque entre les textes à inclure dans les régions de l’Est et les manuscrits exclus; nous avons donc pu opérer un tri sûr pour l’intégralité des 99 textes qui nous intéressent de plus près. Nous avons également pu confirmer, sur cette base, l’exclusion pour près des trois-quarts des 193 textes retenus comme extérieurs à notre région par Dees et la tradition philologique; le dernier quart en revanche présente des profils linguistiques similaires aux textes que nous avons inclus dans notre corpus et devront donc être soumis à un réexamen en ce sens. Nous présenterons par la suite les premiers résultats de cette distinction pour les 99 textes à l’étude. 3.3. Les textes exclus Parmi les 99 textes retenus comme potentiellement orientaux, nous avons gardé, après notre analyse, 45 textes, correspondant presque à la moitié de cet ensemble. Parmi les 54 textes exclus de la région géolinguistique de l’Est, se décèlent deux catégories, très différentes: (i) Des textes rattachés à tort à l’Est, soit par une erreur de la tradition (ce qui est le cas plus rare), soit par une erreur de Dees (cas plus fréquent), soit encore par une erreur des deux: = Dees place joinv (JoinvC) en région parisienne, le DEAFBibl le décrit de composition champenoise (d’après l’éditeur Corbett «un francien teinté de traces champenoises» [37], ce qui correspond sans doute mieux à ce texte destiné à la famille royale) et de manuscrit du NordEst. Or, le marquage de l’Est est inexistant: l’on ne relève que 20% de -nr-, présent en faible pourcentage sur la plus grande partie du domaine d’oïl, et huit occurrences de fut, qui peut caractériser également d’autres régions que l’Est. En revanche, les 99% de formes en -eur (leur, seigneur) font pencher vers une variété centrale bien plus qu’orientale. – La localisation de Dees est donc juste, celle de la tradition erronnée. = Dees place aileb (ElesB_B) en Nièvre / Allier, la tradition donne la composition comme picarde et le manuscrit, dans DEAFBibl comme anglonormand avec des traits bourguignons, chez l’éditeur comme «indeterminate Northern French dialect with a few Anglo-Norman features» (Busby, 4). Ce texte inclut seulement deux de nos paramètres: 100% de or et associés, ce qui n’est pas particulièrement significatif, et 50% de -unt, ce qui confirme ici la main anglonormande (le paramètre a des valeurs différentes selon les régions), toutefois faiblement présente. – L’erreur est autant de Dees que du DEAF et elle provient éventuellement de la difficulté à gérer deux systèmes coprésents (pic. et agn.). = calen (CalendreS) est placé par Dees en Haute-Marne, et est désigné par la tradition comme champenois de composition et de manuscrit. Or, ce constat est infirmé par nos paramètres: 2% de lo seulement, une fois aige et quatre fois consoil, ce qui ne suffit pas à justifier pas une telle unanimité. – La localisation de Dees est erronée, celle de la tradition est juste d’un point de vue purement géographique mais non pas d’un point de vue géolinguistique, comme nous le verrons immédiatement après dans la catégorie (ii) à laquelle ce manuscrit doit être rattaché. Nous reviendrons par ailleurs plus loin sur le cas de ce manuscrit (cf. infra 3.4.).
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(ii) La deuxième catégorie est composée de textes issus de zones périphériques par rapport à l’Est et/ou à placer géographiquement entre la scripta de l’Île-de-France (ou ‹francienne› pour utiliser ce terme avec toute la prudence nécessaire) et les zones orientales; selon la distribution, nous avons pu retenir parmi ces textes deux ensembles géolinguistiques principaux correspondant à la périphérie occidentale de l’Yonne et de la Champagne: = fetrom (FetRomF1) [Dees: Yonne; – Tradition: comp. frc., ms. bourg.] comporte de très rares paramètres de l’Est, ni les plus significatifs, ni en grand nombre (1 occ. de mi et de fut, 2 occ. de seint). On ne relève ni lo, ni aubl, ni unt, pourtant caractéristique de la Bourgogne. On se trouve face à une scripta de type ‹francienne› qui tend vers l’Yonne. = fab4e (AubereeN_transE*) [Dees: Nièvre, Allier; – Tradition: comp. pic., ms. ‹francien›, traits lorr.] contient très peu de paramètres, tous peu marqués: 37% de -nr-, 100% de jor, 2 occ. de choze, 1 occ. de fut, de consoil et de w. Ce texte se situe entre une scripta de type ‹francienne› et le champenois.
Nous ne pouvons pas présenter, dans ce cadre, tous les résultats pour ces deux groupes ni expliquer plus en détail les raisons de notre choix. Mais nous reviendrons plus loin sur notre catégorisation des paramètres géolinguistiques et nous souhaiterions souligner l’intérêt du deuxième groupe retenu pour la segmentation géolinguistique. En effet, ce groupe montre que la catégorisation géolinguistique traditionnelle qui suit, autant chez Dees que dans la tradition philologique, une répartition selon des régions historiques ou selon les départements actuels, n’est pas pleinement probante pour les régions scriptologiques médiévales. Un texte peut donc provenir de la région administrative ou historique champenoise mais ne pas s’inscrire dans la physionomie linguistique que nous avons pu identifier comme ‹champenoise›. Il serait facile d’interpréter ce constat comme une preuve de l’influence de l’Île-de-France sur les régions avoisinantes au XIIIe siècle; mais il nous semble plus cohérent de supposer un modèle dans lequel les zones autour de Paris formaient une unité scriptologique relative avec ce noyau urbain représentant une métropole avec déjà 200 000 habitants vers 1300 et avec une concentration extrême de grands lieux d’écriture. Les processus de neutralisation scriptologique étaient alors plus développés dans cette zone ‹francienne› élargie qu’ailleurs étant donné l’intensité des processus de koïnéisation. Il est certain que la différence entre notre vision et le modèle traditionnel d’un centre directeur parisien peut sembler faible mais elle nous semble importante d’un point de vue épistémologique. Nous n’avons pas pu approfondir en ce lieu cette question, qui pourra être reprise sur la base des études de Paul Videsott sur les chartes de la chancellerie de Paris (cf. Videsott 2010, 2012). Notre vision est toutefois déjà confortée par les résultats de Dumitru Kihaï dans son analyse des chartes champenoises (cf. Kihaï 2012).5 Même si nos résultats sont encore partiels, ils montrent dès à présent la nécessité d’une redéfinition des régions scriptologiques médiévales; celles-ci doivent être détachées des segmentations géo-historiques ou administratives et partiellement même de la réalité Il faut, bien évidemment, supposer des zones de transition entre une zone scriptologique et une autre, d’autant plus que la conscience des scribes jouait un rôle bien plus important dans le choix des variables régionales à l’écrit que celle des dialectophones illettrés dont le parler reste toujours proche de la variété natale. Nous verrons par ailleurs que la dimension diastratique des variantes géolinguistiques est pleinement exploitée par les scribes, ce qui introduit une dimension complémentaire dans l’interprétation.
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géolinguistique des dialectes modernes voire, peut-être, prémodernes. Les choix des scribes s’inscrivent dans une volonté de marquage conscient et suivent clairement une logique organisée selon des épicentres et des périphéries de l’écrit. Ces choix opérés par les acteurs médiévaux doivent encore être identifiés par la Science actuelle. 3.4. Caractéristiques des textes inclus Nous souhaiterions réunir par la suite quelques premiers éléments d’analyse concernant les textes inclus. La petite cinquantaine de textes retenus au total comme pleinement orientaux d’un point de vue linguistique se caractérise par la présence nette d’au moins un paramètre marqué d’un point de vue régional ainsi que de plusieurs paramètres cooccurrents. Il nous est apparu d’emblée que la présence des différents paramètres est bien plus variable que dans le cas des chartes. Cela s’explique par les différentes étapes de copies mais également par la volonté suprarégionale plus marquée des textes nondocumentaires. Nous avons donc distingué la présence des paramètres dans un texte donné selon leur fréquence (haute ou faible), en retenant, toujours après de nombreux tests, cinq tranches de pourcentage ainsi qu’une catégorie de non quantifiée: 90 – 100%: exclusif 60 – 89%: dominant 30 – 59%: moyen 11 – 29%: minoritaire 1 – 10%: minime non quantifié (voire quantification peu significative)
À l’aide de notre catégorisation relativement complexe –vingt paramètres en six catégories, organisés pour chaque texte d’après cinq tranches de pourcentage–, nous avons pu établir une description assez précise de chaque texte. Notre tableau de synthèse répertorie tous les paramètres linguistiques d’après leurs tranches de pourcentages pour les différents textes orientaux. Le gras indique qu’un paramètre dépasse les 25 occurrences dans un texte. Les textes en gris clair correspondent aux textes exclus, les textes en gris foncé à ceux retenus comme orientaux. Le lien entre les marques régionales et les textes en gris foncé est immédiatement perceptible. Voici le tableau pour les 15 premiers textes:
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Comme nous l’avons déjà indiqué, ce qui nous intéresse, c’est l’apparence du manuscrit tel qu’il se présente au lecteur médiéval ou moderne, sa physionomie générale et, par là, le message diasystématique qu’il veut transmettre; notre but n’est pas d’identifier l’origine individuelle du dernier scribe ni encore les éléments linguistiques qui transparaissent des choix de l’auteur initial ou d’autres scribes intermédiaires. Il est évident qu’il s’agit ici de productions linguistiquement composites; mais nous avons voulu identifier les éléments dominants, correspondant autant à l’histoire du texte qu’à la conscience linguistique du scribe concret du manuscrit. Les résultats de notre étude permettent non seulement dans de nombreux cas de préciser l’origine du manuscrit par rapport aux indications de Dees ou de la tradition philologique; mais ils introduisent également une nouvelle catégorie interprétative par le degré du marquage diatopique qui se fait l’écho d’une tradition textuelle définie et qui contient en même temps une dimension diastratique voire diaphasique. Le marquage diatopique est naturellement plus présent dans le cas où l’original provient de la même région que la copie, cas de figure favorisé par Dees; mais le genre textuel et la volonté d’une dérégionalisation de prestige jouent, eux-aussi, un rôle important. Prenons comme exemple deux textes ayant une tradition textuelle semblable mais avec des choix scriptologiques divergents: Les sermons de Saint Bernard de Clairvaux (éd. Foerster 1886) ont été composés en Lorraine et le manuscrit est également considéré comme lorrain. Il s’agit en effet d’un manuscrit très fortement marqué d’un point de vue régional qui comporte plusieurs paramètres marqués de haute fréquence (lo, aul, ei / eir, unt) et une forte présence de paramètres de faible fréquence (at, mi, fut, al, ceu). Voici l’aperçu des formes pertinentes: hard (SBernAn1F) (i-a) Paramètres régionalement marqués à haute fréquence: exclusifs: lo 99%, -aul- (vs -abl-) 100% / dominants: -ei 84% ~ -eir 60%, -unt 65% (i-b) Paramètres régionalement marqués à faible fréquence: exclusifs: at 100%, mi 100%, fut 100%, -al (vs -el) 100% (1 occ.) / dominants: ceu 90% (ii) Paramètres moyennement marqués d’un point de vue régional -nr- 71% / 6 occ. de -aige, 8 occ. de consoil, 13 occ. de signeur (iii) Paramètres peu marqués d’un point de vue régional -or et associés 100%, ke 94% En revanche, le Tournoi de Chauvency de Jacques Bretel (éd. Delbouille 1932), dont la composition et le manuscrit se placent également en Lorraine montre une physionomie plus étonnante: le marquage oriental ressort dans des fréquences relatives faibles ou minimes (0,5% lou, 8% ei), et seulement les paramètres moyennement ou peu marqués d’un point de vue régional (nr, or) sont fortement présents dans ce manuscrit: chauvency (BretTournD) (i-a) Paramètres régionalement marqués à haute fréquence: minoritaire: mi 25% / minimes: lou 0,5%, -ei 8%, -unt 2% (i-b) Paramètres régionalement marqués à faible fréquence:
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minimes: ai 1%, fut 5%, ceu 1% (ii) Paramètres moyennement marqués d’un point de vue régional moyen: -nr- 44% / non quantifiés: 23 occ. de -aige, 24 occ. de signeur et 4 occ. de consoil (iii) Paramètres peu marqués d’un point de vue régional exclusif: -or 97% / moyen: jor 59% / non quantifié: 45 occ. de w Des décalages dans le marquage régional peuvent même faire surface dans la comparaison entre deux parties d’une même oeuvre –d’origine champenoise– et provenant d’un même manuscrit (de Lorraine): c’est le cas des deux parties de la Genèse d’Evrat contenues dans le ms. Paris BN fr. 12456; elles sont en effet toutes les deux clairement marquées mais se distinguent dans le résultat de /’a/ en syllabe libre (ei dans la première partie e dans la seconde) ainsi que dans la présence de w (presque absent de la première et très fréquent dans la seconde); voici l’aperçu détaillé des variables: evratC2 (EvratGen) (i-a) Paramètres régionalement marqués à haute fréquence: moyens: lo 43%, -eir 54%, -unt 38% / minime: -ei 4% (i-b) Paramètres régionalement marqués à faible fréquence: minimes: at 3%, fut 6% (ii) Paramètres moyennement marqués d’un point de vue régional moyens: -nr- 59%, ke 58% (iii) Paramètres peu marqués d’un point de vue régional exclusifs: -or et associés 95% et plus / non quantifié: 1 occ. de w evrat1 (EvratGen) (i-a) Paramètres régionalement marqués à haute fréquence: moyens: lo 56%, -unt 52% (i-b) Paramètres régionalement marqués à faible fréquence: minimes: at 2%, fut 2% (ii) Paramètres moyennement marqués d’un point de vue régional moyen: ke 56% / minoritaire: -nr- 27% (iii) Paramètres peu marqués d’un point de vue régional exclusifs: or et associés 100% / non quantifié: 116 occ. de w L’interprétation des différentes formes de variation dans le marquage régional demandera un retour à chacun des manuscrits et chacune des œuvres en particulier. Comme nous l’a fait remarquer Gilles Roques lors de la discussion à Valence, il faut prendre en considération le cas des scribes bien connus comme celui de Guiot, responsable pour la version de CalendreS que nous avons exclue des textes de l’Est (supra 3.3. n° 1); d’un point de vue physionomique, Guiot ne semble donc pas suivre une scripta champenoise mais celle de l’Ile-de-France, ce qui mérite toute attention. Par ailleurs, il faut prendre en considération la chronologie: toujours parmi les exclus, le manuscrit de la Vie de saint Louis de Joinville date d’environ 1335 et se place donc dans la partie la plus tardive de notre corpus; il s’agira alors de vérifier si ou en quelle mesure la scripta de l’Île-de-France connaît réellement une plus forte présence au XIVe siècle qu’au début du XIIIe.
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Nous avons déjà pu constater que, dans le domaine des genres textuels, les textes religieux de notre corpus connaissent un marquage géolinguistique plus fort que les textes profanes. Cela est partiellement dû à leur mode de transmission, souvent plus local, mais l’on peut y voir également un effet lié à leur diffusion et à leur statut dans la Société.
4. Perspectives À l’heure d’aujourd’hui, nous avons décrit de la sorte en détail les 99 textes retenus comme potentiellement orientaux, en précisant dans de nombreux cas leur origine au-delà des indications actuellement disponibles. Comme premier résultat de cette description ressort notamment la forte variation dans le degré du marquage géolinguistique entre différents manuscrits provenant d’une même région. Cet élément n’a jamais été suffisamment pris en considération par la scriptologie ni encore par les descriptions linguistiques individuelles des manuscrits. Notre étude n’est pas terminée; nous devons encore établir de plus près les équivalences et décalages entre les manuscrits non-documentaires et les chartes des mêmes régions. Nous devons également mener à bien la différenciation interne des 45 manuscrits réellement orientaux sur la base des constats établis jusqu’ici et préciser la physionomie des textes rattachable à la scripta de l’Île-de-France. Par ailleurs, nos résultats nous mèneront à reprendre chaque cas de figure en détail pour permettre une interprétation individuelle des textes à l’étude. Mais nous avons pu identifier d’ores et déjà l’importance des dimensions diastratique et diaphasique dans le marquage régiolectal des manuscrits non-documentaires au Moyen-Âge.
Eléments bibliographiques DEAFbibl = Möhren, Frankwalt (2007): Dictionnaire étymologique de l’Ancien Français – Complément bibliographique. Tübingen: Niemeyer. Dees, Anthonij (1987): Atlas des formes linguistiques des textes littéraires de l’ancien français. Tübingen: Niemeyer. Gleßgen, Martin-D. (2008): Les lieux d’écriture dans les chartes lorraines du XIIIe siècle. In: RLiR 72, 413-540. –– (2009): Les plus anciens documents linguistiques de la France. Édition électronique, Collection fondée par Jacques Monfrin, poursuivie par M.-D.G., en collaboration avec Françoise Vielliard et Olivier Guyotjeannin, en partenariat avec Paul Videsott. –– / Gouvert, Xavier (2007): La base textuelle du Nouveau corpus d’Amsterdam: ancrage diasystématique et évaluation philologique. In: Kunstmann / Stein, 51-84. –– / Kihaï, Dumitru / Videsott, Paul (2010) [2011]: L’élaboration philologique et linguistique des «Plus anciens documents linguistiques de la France, Édition électronique». Trois études. In: Bibliothèque de l’École des Chartes 168, 5-94. Kihaï, Dumitru (sous presse): Le scribe bilingue dans les productions documentaires oïliques: étude d’un cas concret. In: Actes del XXVI Congrés de Lingüística i Filologia Romàniques. València 2010. Walter de
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Maria Filomena Gonçalves / Ana Paula Banza (Universidade de Évora / CIDEHUS)
Da antiga à nova Filologia: o Projecto MEP-BPEDig
1. O Projecto MEP-BPEDig Centrado numa das mais antigas bibliotecas públicas portuguesas, o projecto Memória (Meta)linguística do Português na Biblioteca Pública de Évora: Para uma Biblioteca Digital (MEP-BPEDig.) procura representar o desejável equilíbrio, em termos metodológicos, entre a antiga tradição filológica e a inovação tecnológica, cujas potencialidades permitirão, pela primeira vez, tornar acessíveis e manuseáveis pelos investigadores e público em geral, em qualquer parte do mundo, um número significativo de textos, manuscritos e impressos, até agora desconhecidos ou inacessíveis. Na senda do resgate e da valorização do património textual da Biblioteca Pública de Évora, iniciado por especialistas em outras áreas1, um grupo de investigadores pertencentes a dois centros de investigação da Universidade de Évora –o CIDEHUS (Centro Interdisciplinar de História. Culturas e Sociedades) e o CITI (Centro de Investigação em Tecnologias de Informação)– decidiu tomar a seu cargo esta tarefa. O grupo é constituído por Maria Filomena Gonçalves (coordenadora), Ana Paula Banza, Cláudia Teixeira e Armando Martins, investigadores das áreas da Filologia, História da Língua e Línguas e Literaturas Clássicas, e por Luís Arriaga, Paulo Quaresma e Irene Pimentel, investigadores nos domínios da Informática e Linguística Computacional. O projecto conta ainda com a assessoria dos Professores Arnaldo do Espírito Santo e Ivo Castro, ambos da Universidade de Lisboa, e Michael J. Ferreira, da Universidade de Washington. É sabido que boa parte da memória da língua portuguesa se encontra por estabelecer, sendo ainda reduzido o número de corpora (não literários e literários) representativos de várias épocas disponíveis em suportes facilmente acessíveis aos investigadores; muito embora se tenham registado significativos avanços na última década. Merecem destaque, entre outros, os seguintes projectos: Fontes da Linguística Portuguesa «Memória – Língua» (http://purl.pt/401/1/ lingua.html); Corpus Histórico do Português Tycho Brahe (http://www.ime.usp.br/~tycho/ corpus); Corpus do Português (http://www.corpusdoportugues.org); Corpus Informatizado do Português Medieval (http://cipm.fcsh.unl.pt); Corpus Lexicográfico do Português (http:// clp.dlc.ua.pt), Projecto CARDS – Cartas desconhecidas (htp://salvisa.net/cards/índex.php). O projecto MEP-BPEDig, na linha destes já existentes, procurará colocar os mais recentes desenvolvimentos das áreas da Linguística de Corpus e da Linguística Computacional ao Entre os resultados de investigações recentes sobre os fundos antigos da BPE, avultam Lisboa (2002, 2005) e Espírito Santo (2006).
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serviço de uma nova Filologia que, assente no rigor da antiga, proporcionará uma nova, mais moderna e mais funcional forma de acesso às importantíssimas fontes para a História da Língua Portuguesa existentes na Biblioteca Pública de Évora, disponibilizando edições digitais com tratamento automático e busca de dados em textos dos períodos clássico e moderno da história do Português. Com efeito, o MEP-BPEDig. permitirá não só armazenar e ler os fac-similes dos originais e suas edições digitais mas também analisar os textos de forma automática. Para tal, e antes de mais, o projecto assumirá como primeira tarefa a inventariação e catalogação –em catálogo convencional (parcial)2 e digital (geral)3– das obras impressas e manuscritas com interesse (meta)linguístico. A partir daí, proceder-se-á, então, às tarefas de disponibilização e tratamento filológico dos textos, nomeadamente através da criação de uma biblioteca digital com várias facilidades de consulta e de pesquisa. Mais do que a simples disponibilização on-line, sob a forma de um corpus, serão disponibilizadas edições electrónicas que funcionem, em simultâneo, como edições e como corpora, permitindo, por um lado, a comparação da imagem do manuscrito com a sua transcrição diplomática e, por outro, efectuar pesquisas nos textos, com vista ao seu estudo linguístico e filológico. Assim, este projecto de biblioteca e edição digital da memória metalinguística do Português exige um percurso realizado em várias fases: a primeira delas, como antes se disse, é a inventariação sistemática dos textos em suporte digital e a criação de um portal do projecto; a segunda fase consiste na organização temática e cronológica das obras inventariadas, quer para o catálogo convencional, quer para o catálogo geral da base de dados; a terceira fase é a publicação do catálogo on-line e a criação de um repositório digital que aloje as versões electrónicas dos textos seleccionados, bem como a aplicação de ferramentas de processamento da linguagem natural, criadas ou adaptadas para este projecto, e, ainda, as digitalizações dos originais; finalmente, a quarta fase consistirá na edição digital dos textos seleccionados, em função dos critérios estabelecidos, com todas as funcionalidades de consulta previstas (frequências, análise de frases e expressões, etc.) e a publicação do catálogo convencional que, assim, será o primeiro catálogo temático da Biblioteca Pública de Évora.
2. Para quê uma BPE Digital? Ninguém ignora a riqueza dos acervos da Biblioteca Pública de Évora (BPE), em especial no que tange a edições quinhentistas e seiscentistas, cujo espólio é um dos mais ricos a nível europeu, mas cujas condições de inventariação e disponibilização aos leitores dificultam extremamente a sua utilização.
Por catálogo convencional entende-se um catálogo impresso contendo uma selecção de imagens de obras relevantes do catálogo geral, a ser colocado em linha no portal do projecto, a descrição física e conteudística dessas obras e, ainda, um estudo introdutório. 3 No catálogo electrónico figurarão todas as obras recenseadas. Para lá das obras em língua portuguesa, este catálogo incluirá também obras bilingues (português e outra língua europeia; português e uma língua extra-europeia) e obras em língua latina. 2
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A BPE foi fundada em 1805 por D. Frei Manuel do Cenáculo Villas Boas (1724-1814), Bispo de Évora e relevante erudito da Ilustração portuguesa, cuja acção enquanto «construtor de bibliotecas» (Vaz 2006: 5), bibliófilo e coleccionador de obras artísticas e de peças arqueológicas contribuiu também para a fundação da Biblioteca Nacional de Portugal e da Biblioteca da Academia das Ciências de Lisboa. Estima-se que, à data da sua morte, o bispo de Évora tivesse coleccionado cerca de 100.000 livros, ainda hoje integrados nos antigos fundos da BPE. Após várias vicissitudes, em 1838, com a nomeação de Joaquim Heliodoro da Cunha Rivara (1809-1879), que foi o primeiro bibliotecário civil da BPE, a instituição eborense conheceria uma nova fase. Bacharel em Medicina e Professor de Filosofia no Liceu de Évora, Cunha Rivara exerceu, entre 1838 e 1855, uma acção notável de inventariação, catalogação, investigação e divulgação do valioso espólio arquivístico e bibliográfico da BPE, bem como do património monumental da cidade alentejana, a ele se devendo a organização e publicação do Catálogo dos Manuscritos da Biblioteca Pública Eborense, que é referência obrigatória por ser o único disponível até hoje. No entanto, dos quatro volumes que constituem o Catálogo, apenas o primeiro (1850), relativo às Cousas da América e África, foi inteiramente preparado por Cunha Rivara, sendo os restantes três (1868-1871) organizados pelo bibliófilo Joaquim António de Sousa Teles de Matos, baseado embora em anotações de Rivara. A este se ficou a dever, por outro lado, o início da integração dos impressos (cerca de 5000 volumes oriundos das Livrarias dos conventos extintos) na Biblioteca, existindo notícias de que muitos outros, por falta de estantes, terão ficado dispersos por várias instituições e livrarias (cf. Vaz 2006: 79). Entre as preciosidades existentes nos acervos da BPE (cf. Ruas 2005), contam-se 664 incunábulos (cf. Cid 1988) e 6.445 livros impressos do século XVI (cf. Monte 1968; Anselmo 1997, 2002; Curto 2003), para além de vários núcleos de manuscritos e de 20.000 títulos de publicações periódicas.4 Urge, pois, tornar acessíveis aos investigadores estes acervos riquíssimos; e a transformação da BPE numa biblioteca digital é o caminho a seguir, ainda que, necessariamente, de forma faseada, sendo o projecto MEP-BPEDig. pensado como uma contribuição para esta tarefa, centrada nos textos com interesse (meta)linguístico.
3. Um exemplo De entre os acervos da BPE, merecem destaque obras de inestimável valor para a chamada memória linguística, algumas das quais foram arroladas no tomo II do Catalogo de Manuscriptos da Biblioteca Eborense, no qual Rivara reuniu os papéis relativos à Literatura, nela compreendendo alguns de conteúdo metalinguístico, sobretudo gramáticas, ortografias, vocabulários, discursos, memórias, etc., em língua portuguesa, em latim ou em outras línguas. Pelas relações com a Universidade de Évora, é de realçar o «espólio herdado da produção universitária dos séculos XVI-XVIII, rica em livros impressos, em obras manuscritas, em lições de todas as matérias, [...] em apontamentos tomados pelos alunos, em ensaios científicos, em criações literárias, em registos históricos, em planos de obras e em relatórios de despesas» (Espírito Santo 2006: 7).
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Entre esses materiais destaca-se o manuscrito autógrafo das Reflexões sobre a Lingua Portuguesa5, de Francisco José Freire (1719-1773), mais conhecido pelo pseudónimo arcádico de Cândido Lusitano. Este manuscrito setecentista é, de facto, um dos melhores exemplos do riquíssimo património de fontes textuais da BPE, bem como da relevância da conservação, disponibilização, estudo e divulgação desse património, que integra a nossa herança textual. A obra de Freire, centrada sobre o uso literário da língua e fortemente marcada pela estética neoclássica da Arcádia Lusitana, merece particular interesse pelas variadíssimas considerações de natureza filológico-linguística que nela se encontram e que lhe asseguram lugar de relevo entre a numerosa produção metalinguística deste período. Ao longo das três partes que a constituem, num total de 29 «Reflexões» (Freire 1842), encontra-se informação importantíssima para o estudo da Língua Portuguesa do séc. XVIII por comparação com a dos séculos XVI e XVII. No entanto, e apesar do seu inegável interesse, a obra conheceu apenas uma edição, da autoria de Cunha Rivara6, saída a lume em 1842, a qual se encontra hoje, como em geral todas as edições oitocentistas, além de esgotada, desactualizada, porquanto os seus pressupostos não são actualmente aceitáveis à luz dos princípios teóricos e metodológicos da crítica textual, uma vez que, não só altera substancialmente o texto do Autor, como não dá a conhecer ao leitor o teor e o alcance das intervenções editoriais, por não apresentar critérios de transcrição expressos, o que torna a edição inutilizável para estudos linguísticos. É sabido que, nas edições oitocentistas, era comum a transcrição ficar a cargo de qualquer obscuro funcionário de biblioteca, não identificado, cabendo ao editor não mais do que a revisão da transcrição e a redacção do prefácio e notas. Não espanta, por isso, que, apesar da erudição dos editores, como é o caso, a análise destas edições revele banalizações e outros erros de transcrição, bem como uma enorme inconsistência ao nível dos critérios utilizados; além da modernização e uniformização indiscriminada de grafias, que, regra geral, oculta importantes factos linguísticos. Temos, pois, nesta obra de Freire, um bom exemplo de uma obra de inegável interesse (meta)linguístico cuja edição é inutilizável, pelas razões expostas, para estudos de natureza linguística, além de se encontrar, há muito, esgotada e acessível apenas em bibliotecas. O manuscrito, esse, encontra-se na BPE, também ele praticamente inacessível, podendo apenas ser consultado in loco, com todos os condicionantes que isso acarreta. O exemplo das Reflexões, porém, é apenas um entre muitos outros que poderíamos apresentar e de que citamos apenas, a título de exemplo, manuscritos como o do Rhetorico, de Baptista de Castro (S/D) ou impressos de obras como o Florilégio, de Bento Pereira (1655) ou a Porta de Línguas, de Amaro Roboredo (1623).
Datado de 1768. A obra conheceria, em 1863, uma segunda edição, que saiu, tal como a primeira, com a chancela da Sociedade Propagadora de Conhecimentos Úteis, nada acrescentando à anterior.
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4. Conclusão Pautado pela necessidade de disponibilizar fontes que contribuam para o conhecimento da língua portuguesa e da sua historiografia entre os séculos XVI e XIX, o projecto que aqui apresentámos confronta-se, além dos desafios de sempre, com os modernos problemas da manipulação do texto, vale dizer, com os desafios da edição digital e de uma crítica textual agora assistida por tecnologias capazes de ler e converter o texto antigo. Perante a novidade e a complexidade intrínsecas a esta nova manipulação do texto; e apesar das dificuldades que sempre acarretam o uso de novas tecnologias e o necessário trabalho interdisciplinar com áreas muito distintas daquelas em que tradicionalmente nos movemos, é nossa convicção que, mantendo o princípio basilar do respeito pelo texto (cf. Spina 1977; Spaggiari 2004; Cambraia 2005; Castro 2007), será possível percorrer o árduo, mas actualmente incontornável, caminho que leva da antiga à nova Filologia e que passa, sem dúvida, pela conversão das antigas bibliotecas em bibliotecas digitais, que colocam à distância de um clique os mais preciosos documentos, manuscritos e impressos, das bibliotecas de todo o mundo.
5. Referências Bibliográficas Anselmo, Artur (1997): Estudos de história do livro. Lisboa: Guimarães Editores. –– (2002): Livros e mentalidades. Porto: Guimarães Editores. Banza, Ana Paula (2008): Representação perante o Tribunal do Santo Ofício, de Padre António Vieira. (2 voll.). Edição crítica. Lisboa: Imprensa Nacional-Casa da Moeda. –– (2009): Reflexão metalinguística no séc. XVIII: o caso das Reflexões sobre a Língua Portuguesa, de Francisco José Freire. In: Kemmler, Rolf / Schäfer-Prieß, Barbara / Schöntag, Roger (edd.) (2010): Portugiesische Sprachgeschichte und Sprachwissenschaftsgeschichte. Tübingen: Calepinus Verlag, 1-14. Cambraia, César Nardelli (2005): Introdução à Crítica Textual. São Paulo: Martins Fontes. Cardoso, Simão (ed.) (1994): Historiografia gramatical (1500-1920). Língua Portuguesa – Autores Portugueses. Porto: Faculdade de Letras do Porto. Castro, Ivo (2007): Lampadário de palavras. In: Edição de Texto. II Congresso Virtual do Departamento de Literaturas Românicas / Textual editing. Second Virtual Congress of the Romance Literature Department. Lisboa: Faculdade de Letras da Universidade de Lisboa. –– / Prista, Luís (2001): Fontes da Linguística Portuguesa «Memória – Língua». Lisboa: Biblioteca Nacional de Portugal. Cid, Isabel (1988): Incunábulos da Biblioteca Pública e Arquivo Distrital de Évora. Évora. Critique Textuelle Portugaise (1986): Actes du Colloque (Paris, 20-24 Octobre 1981). Paris: Fondation Calouste Gulbenkian / Centre Culturel Portugais. Curto, Diogo Ramada (ed.) (2003): Bibliografia de história do livro em Portugal, Séculos XV a XIX. Lisboa: Biblioteca Nacional de Portugal. DECL (2009): Digital Editions for Corpus Linguistics. http://www.helsinki.fi/varieng/domains/DECL. html (2010 11 15) Espírito Santo, Arnaldo do et al. (2006): Librorum Monimenta. Imagens da cultura eborense (séculos XVI -XVIII) – Catálogo da Exposição Bibliográfica (29 de Julho – 30 de Setembro de 2005). Évora: Biblioteca Pública de Évora.
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Maria Filomena Gonçalves / Ana Paula Banza
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Elisa Guadagnini (Istituto Opera del Vocabolario Italiano – CNR)
Per una nuova edizione della Rettorica di Brunetto Latini
1. Introduzione La Rettorica di Brunetto Latini si legge nell’edizione critica curata da Francesco Maggini nel 1915 e ristampata, con minime differenze ed una prefazione di Cesare Segre, nel 1968.1 L’unica edizione completa precedente era l’editio princeps, stampata a Roma nel 1546 a cura di Francesco Serfranceschi, che dichiara di essersi servito di un codice in suo possesso;2 gli editori ottocenteschi preferirono poi pubblicare soltanto il volgarizzamento del De Inventione, trascurando il commento brunettiano. Fu questo il caso di Nannucci (1837: 250-267), che diede il testo basandosi sulla stampa cinquecentesca ma segnalando in nota, per alcuni punti, le varianti reperite da testimoni manoscritti citati congiuntamente come «i codici magliabechiani». Ripresero il testo pubblicato da Nannucci Zambrini / Lanzoni (1850)3, che furono compresi fra i citati della quinta impressione del Vocabolario della Crusca. Dello Russo (1851) riprodusse i passi di traduzione ciceroniana della cinquecentina, ritoccandoli arbitrariamente sulla base del confronto con il latino.4 Monaci (1912: 240-245), infine, pubblicò un’edizione della prima parte del volgarizzamento ciceroniano (capp. 1-43) fornitagli da Pio Rajna. Fu Maggini a curare, dopo la pubblicazione di una monografia sull’opera (Maggini 1912), la prima edizione critica integrale della Rettorica, uscita come si è detto nel 1915. Essa fu riprodotta, limitatamente al volgarizzamento e con qualche ritocco, da Segre (1953: 359-380) e, parzialmente ma insieme con il commento, da Segre / Marti (1959: 133-170). Anche Monaci (1955) riprese il testo Maggini, presentando come nell’edizione precedente i soli passi di traduzione ciceroniana. Maggini (1915); Maggini (1968), a cui si fa riferimento per tutte le citazioni della Rettorica (salvo diversa indicazione). 2 Serfranceschi (1546), indicato infra anche come S: per una descrizione cfr. EDIT16. Nella ‹Prefazione›, dedicata a Antonio da Barberino, Serfranceschi annota: «cercando a questi giorni fra’ miei libri d’alchune scritture, mi venne per sorte alle mani la Retorica di ser Brunetto Latini [...] mi disposi (come che molto corretta non la trovassi, e sendo fuor della patria d’altra non potessi haver copia) che quel, ch’era indegnamente stato insino a qui privato e nascosto, fussi da qui innanzi publico e scoperto». 3 Cfr. Zambrini / Lanzoni (1850: 291): «Noi diamo pertanto il detto opuscolo scrupolosamente come fu da lui [scil. Nannucci] pubblicato al vol. 3 del suo Manuale...». 4 Cfr. Dello Russo (1851: 4): «Ed affinché questa prima edizione napoletana potesse avere la precedenza alla già pubblicata [scil. Serfranceschi (1546)], ho avuto cura di porla a riscontro col testo latino e portare l’ortografia all’uso moderno, e procedendo in siffatta guisa, ho emendato alcune desinenze di vari tempi dei verbi, le quali erano guaste, ed ho rettificato altresì il punteggiamento...». 1
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Come Maggini dichiarava esplicitamente, e come Segre ha nuovamente sottolineato nella prefazione, l’edizione critica della Rettorica conferma, argomentandola, la sistemazione stemmatica e la scelta del manoscritto base già enunciate da Rajna nel 1912:5 Dal cod. Magliab. II.IV.124 [M], della metà forse del sec. XIV, correggendone gli errori e supplendone le lacune col confronto di un gruppo indipendente di codici della stessa famiglia (Magliab. II.IV.73 [m], sec. XIV ex., d’onde probabilmente Magliab. II.II.91 [m1] e II.VIII.32 [m2], sec. XIV), e di codici spettanti a una famiglia diversa (Magliab. II.IV.127 [M1], sec. XIV ex., e Laur. XLIII.19 [L], sec. XV).
A proposito delle argomentazioni addotte da Maggini a giustificazione dello stemma, Segre notava l’uso di riunire sotto il nome di «lezione speciale» casi di errore congiuntivo e casi di diversi tipi di innovazione, finanche la variante adiafora: il suo giudizio complessivo dell’edizione, tuttavia, rimaneva assai positivo.6 Rispetto allo stato degli studi rappresentato dall’edizione Maggini, la recensio dei testimoni della Rettorica non ha subìto aggiornamenti significativi: ai sette testimoni censiti allora –i sei manoscritti succitati e l’editio princeps [S]– si è aggiunto il solo frammento contenuto nel ms Laurenziano Rediano 23 [R], segnalato da Rostagno (1916). Tre segnalazioni successive di nuovi testimoni della Rettorica, tutte dovute a Julia Bolton Holloway, derivano da una non corretta identificazione del testo.7 Sebbene non siano noti nuovi testimoni dell’opera e sebbene la sistemazione stemmatica proposta da Rajna e confermata da Maggini sia senz’altro corretta, pare opportuna una nuova edizione della Rettorica. L’edizione esistente, infatti, appare oggi inficiata da una caratteristica passata per lo più inosservata –non è notata né dai recensori contemporanei né da Segre–, con l’eccezione di Heinimann (1968: 98): Maggini dichiara di registrare sistematicamente soltanto le lezioni non accolte a testo di tre manoscritti (M, m, M1), limitandosi per gli altri testimoni ad annotazioni sporadiche distribuite fra l’apparato critico e l’introduzione. La selettività dell’apparato critico finisce così per occultare il dato significativo che una serie di lezioni che parrebbero esclusive di M1 sono condivise anche da L e S, sono cioè proprie di uno dei due rami della tradizione, talvolta in situazioni di opposizione fra lezioni entrambe sostenibili ed in cui non è immediatamente riconoscibile la direzione dell’innovazione. La ‹Comunicazione› di Rajna è posta a mo’ di introduzione in Monaci (1912: 240). Ho inserito fra parentesi quadre le sigle dei manoscritti adottate da Maggini e che saranno adoperate da qui in poi. 6 Maggini (1968: viii). 7 Bolton Holloway (1986: 32-33) segnala, in aggiunta ai codici fiorentini noti, due manoscritti: il ms Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale II II 48 e il ms Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Chigiano L VII 249. Leonardi (2007: 180-181) ha identificato il testo del manoscritto chigiano con la così detta Piccola dottrina, volgarizzamento della parte del secondo libro del Tresor che costituisce «una traduzione pressoché letterale della Doctrina de arte loquendi et tacendi di Albertano da Brescia». Il manoscritto fiorentino invece contiene un volgarizzamento toscano del Tresor; ho verificato personalmente l’assenza della Rettorica. Bolton (1993: 516-517) propone un nuovo censimento dei testimoni della Rettorica: ai due manoscritti già citati aggiunge il ms München, Bayerische Staatsbibiothek 1038 (già Cod. it. 148). Anche in questo caso, però, la notizia si rivela inattendibile: il testo è un frammento di un trattatello anonimo di argomento retorico, di coloritura linguistica settentrionale, attualmente inedito, su cui mi riservo di tornare in un futuro lavoro. 5
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Ho notato altrove il fatto che nel ramo M1SL le cinque parti della retorica e due delle parti dell’epistola compaiono con il nome adattato (invenzione, elocuzione, disposizione, [memoria], pronunziazione; salutazione, petizione), di contro alla conservazione del termine latino nell’altro ramo (inventio, elocutio, dispositio, [memoria], pronuntiatio; salutatio, petitio), così come ho accennato al fatto che questa famiglia di testimoni presenta un numero maggiore di schemi ad albero (cfr. Guadagnini / Vaccaro i.c.s.). La rilevanza di questi dati testuali non solo mi aveva indotto a ripensare una serie di lezioni puntuali, ma mi aveva portato a ricostruire un quadro della tradizione in cui due famiglie di testimoni si fronteggiano in modo da rendere complessa l’individuazione del ramo più conservativo, e dunque la scelta stessa del manoscritto base. Di più, con riferimento ad alcuni degli aspetti in cui si registra l’opposizione fra i rami dello stemma, parrebbero opporsi addirittura due diverse redazioni del testo: lungo uno dei due rami potrebbe cioè situarsi un intervento editoriale consapevole, che è prematuro ora domandarsi se sia d’autore o no, che ha agito sul testo rivedendolo e modificandolo con coerenza riguardo ad alcuni aspetti sostanziali.
2. Note stemmatiche Mi limiterò in questa sede a confermare i rapporti stemmatici dichiarati da Rajna (1912) e confermati da Maggini: conto di fornirne una dimostrazione nella mia edizione della Rettorica, in preparazione per l’Edizione Nazionale degli Antichi Volgarizzamenti. Assumendo dunque l’esistenza di due rami di tradizione, uno costituito da Mm e l’altro da M1S L8, mi soffermerò brevemente sulla posizione del frammento R, che –come si è detto– era ignoto al momento dell’edizione critica. Rostagno (1916: 86-88) provò a dare qualche indicazione ecdotica, collazionando su R alcuni dei loci critici identificati da Maggini: egli pervenne tuttavia a risultati confusi, riscontrando una posizione oscillante del nuovo testimone dovuta al fatto che in tutti i passi presi in esame R presenta la lezione corretta. R deve a mio parere essere ricondotto alla famiglia Mm; dovrebbe bastare in questa sede notare la condivisione di un errore: • cap. 4, pag. 17: nessuno avea connosciuti certi figliuoli... figluoli (lat. liberos)] filosofi MmR.
e di una lacuna: • cap. 1, pag. 6: uno che di tutti i detti de’ filosofi... che de tutti i detti de’ filosophi] che è di tucti de phylosofi M; che di tutti li filosafi R9. Maggini (1968: xxxviii-xliii) discute la posizione stemmatica di S, concludendo: «Porremo dunque S accanto a M1, ma come rappresentante uno stadio più alterato di quella tradizione, e terremo sempre presente che abbiamo che fare con una stampa, cioè con un testo infido per l’opera personale e arbitraria dell’editore». Collazionando la stampa si riscontrano in effetti la condivisione di errori significativi con M1L, e con M1 contro a L, e una serie di interventi verosimilmente effettuati ope ingenii dal Serfranceschi: anche per questi aspetti rimando alla mia edizione in preparazione. 9 Il manoscritto m manca della prima parte del commento al primo argomento di Tullio. 8
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Mm presentano errori non condivisi da R, fra cui: • cap. 2, pag. 12: Poi li savi parladori astutaro le battaglie... parladori] parlando Mm.
2.1. È postulabile un archetipo? Già Maggini (1968: xliii-xliv), aveva individuato «parecchi errori manifesti comuni alle due tradizioni» che, secondo le sue parole, impediscono di far risalire i capostipiti delle due famiglie «direttamente all’autografo»: fra i passi da lui individuati, direi che sono sicuramente probanti la lacuna del cap. 36: • cap. 36, pag. 94: Et dall’ altra parte Aiaces era uno cavaliere franco e prode all’ arme, di gran guisa, ma non era pieno di grande senno e sanza molto [...] francamente avea portate l’ armi in quella guerra... M1 lascia mezza riga bianca, segnalando la lacuna.
e gli errori reiterati dei capp. 9 e 92: • cap. 9, pagg. 30-34: per la qual cosa cadde eloquenzia in tanto odio et invidia che gli uomini d’ altissimo ingegno [...] fuggiendo la discordiosa e tumultuosa vita si ritrassero ad alcuno altro queto studio. [...] Et perciò li buoni d’ altissimo ingegno si ritrassero di quelle cose ad altri queti studii per scampare della tumultuosa vita in sicuro porto. [...] Et in ciò che dice «queti studi» intendo l’ altre scienze di filosofia [...] et appellali «queti studii» ché non trattano di parlare in comune, e perciò che ssi stavano partiti dal romore delle genti. queto] questo (espunto) M1, questo L Mm, posato S. queti] questi Mm, certi M1LS. queti] questi M1SL Mm. queti] questi M1SL Mm. • cap. 92, pag. 184: Dalla persona dell’uditori s’ acquista benivolenza [...] dicendo quanto sia di coloro onesta credenza e quanto sia attesa la sentenza e l’ autoritade loro. quanto ... quanto] quando ... quando Mm M1SL.
Nel primo caso, l’errore reiterato questo per queto, si noterà che l’antigrafo di M1SL ha tentato l’emendamento là dove il testo lo consentiva: un’espunzione nel primo caso (non recepita però da L), la sostituzione con certo nel secondo passo. Serfranceschi, per la sua stampa, pare aver verificato il testo latino per l’integrazione di posato nella traduzione ciceroniana. 2.2. Un’ipotesi di stemma Alla luce delle considerazioni precedenti, integrerei la ricostruzione di Rajna e Maggini proponendo lo stemma seguente:
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3. La restituzione di iuridiciale Nel riconsiderare la testimonianza dei manoscritti latori della Rettorica, diversi elementi inducono a ripensare la fiducia di Maggini nella bontà del dettato di Mm. Uno di questi elementi è a mio parere costituito dal lemma iuridiciale ‹giuridiciale›, che risulta del tutto assente nel testo tràdito da Mm mentre compare, con qualche incoerenza, nel ramo M1SL. Maggini scarta la lezione, un tecnicismo per altro assai scarsamente attestato e comunque mai nel Medioevo, senza commentarla, dopo averla registrata come d’abitudine per il solo M1.10 Nel testo ciceroniano l’aggettivo iuridicialis definisce assieme a negotialis le due fattispecie di constitutio generalis: posto che la constitutio è la questione da cui nasce la causa, essa è generalis quando verte sulla natura e la qualità della questione (De Inventione I, 10). Questo tipo particolare di constitutio può essere a sua volta iuridicialis, quando si pone il problema di ciò che è giusto e bene o di cosa sia degno di ricompensa o di punizione, o negotialis, quando si stabilisce ciò che è conforme al diritto secondo gli usi delle comunità civili e secondo equità (De Inventione I, 14). La constitutio iuridicialis è a sua volta suddivisa in absoluta (che ha in sé la questione del giusto e dell’ingiusto) e adsumptiva (che fonda la difesa su elementi esterni), e l’adsumptiva comprende quattro parti: la concessio (richiesta di perdono), la remotio criminis (quando si respinge la responsabilità del crimine), la relatio criminis (quando si afferma il diritto di aver agito come si è agito) e la conparatio (quando il crimine è stato commesso per realizzare qualcosa di giusto) (De Inventione I, 15). La Sia Nannucci (1837) che Dello Russo (1851), sulla scia dell’editio princeps, accolgono a testo la lezione giuridiciale (a partire dal cap. 48, per cui vd. infra). Dal Nannucci, mediante il recupero in Zambrini / Lanzoni (1850), il lemma viene attestato nel GDLI s.v. giuridiciale, dove l’occorrenza della Rettorica è seguita da quella ne La retorica di Bartolomeo Cavalcanti, del 1569; il Cavalcanti fornisce anche l’unica attestazione citata nel GDLI s.v. iuridiciale. Il lemma non è presente nel Corpus OVI dell’italiano antico.
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progressiva articolazione dell’argomento implica il ricorrere del lemma iuridicialis per tre volte, nei paragrafi 14 e 15 del primo libro del De Inventione. Il lemma compare però una prima volta nel dodicesimo paragrafo, all’interno di una digressione in cui viene contestata la quadripartizione della constitutio generalis operata da Ermagora: questi avrebbe suddiviso la materia in una pars deliberativa, una demonstrativa, una –appunto– iuridicialis ed una negotialis, e Cicerone dedica un’articolata argomentazione a dimostrare l’erroneità della presenza di ‹deliberativo› e ‹dimostrativo› (De Inventione I, 12-14). Egli infatti, come notano diversi commentatori, probabilmente sulla scia della sua fonte greca sovrappone al sistema ermagoreo quello di matrice aristotelica, già esposto in precedenza, che tripartisce il genus oratorio in demonstrativum, deliberativum e iudiciale (De Inventione I, 7): Cicerone dimostra dunque l’impossibilità che ‹dimostrativo› e ‹deliberativo› possano essere contemporaneamente generi della causa e parti della constitutio di una causa, ribadendo che essi sono tipi di genus (De Inventione I, 14).11 A questo punto, escluse due delle quattro fattispecie ermagoree, l’autore enuncia la sua articolazione di constitutio generalis, che prevede –come si è detto– le due sole tipologie di iuridicialis e negotialis. La complessità del passo e il facile scivolamento da iuridicialis a iudicialis, soprattutto tenendo conto del fatto che iudicialis tende a comparire come terzo membro dopo deliberativus e demonstrativus, hanno provocato nei testimoni latini l’oscillazione fra le due lezioni, registrate negli apparati critici (cfr. p.e. Achard 1994: 67, 69). Di per sé è dunque impossibile stabilire se nell’antigrafo latino tradotto da Brunetto fosse o non fosse presente la lezione iuridicialis e in quali punti, a prescindere dal fatto che egli avrebbe comunque facilmente potuto intendere il solo lemma ‹iudiciale›, indipendentemente da ciò che c’era oggettivamente vergato sul manoscritto latino da lui tradotto. Ciò detto, si osserva che il ramo Mm conosce soltanto il lemma iudiciale, mentre nel ramo M1SL il lemma iuridiciale ricorre più volte. In M1S il lemma compare nel cap. 48 e ricorre per diciotto e diciannove volte rispettivamente: in S il lemma ricorre coerentemente a partire dal passo di traduzione ciceroniana che enuncia la bipartizione della ‹costituzione generale›, in M1 invece compare la prima volta nello schema ad albero che illustra quel passo: Tulio dice la sua sententia: quali sono le parti de la constituzione del genere. Questa constitutione del genere pare a noi che abbia due parti: iudiciale e negotiale. Constitutione generale: Juridiciale - Negotiale. [M1, c. 22r] iudiciale M1L] iuridiciale S. iuridiciale M1S] iudiciale L.
Nel manoscritto L il lemma compare nella rubrica del cap. 49 e ricorre quattordici volte, con un’ulteriore oscillazione nel cap. 50, ove si legge: E intra la giudiciale e la neghotiale àe cotale diferentia: che lla giuridiciale tratta sopra le chose passate... [L, c. 62r]
Va notato inoltre che sia in M1S che in L il lemma iudiciale compare al posto di un ‹corretto› (da un punto di vista puramente semantico) iuridiciale nel passo del cap. 43 in cui si enuncia la quadripartizione ermagorea: Cfr. a questo proposito, fra gli altri, Calboli (1969: 218-221, n. 24) e Achard (1994: 37-38, n. 35).
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Tulio riprende Ermagoras de la controversia del genere. A questo genere Ermagoras sottopuose quattro parti, ciò sono deliberativo, dimostrativo, giudiciale e negotiale. [M1, c. 20r]
ribadita nel commento dello Sponitore: In questa parte dice Tulio che Ermagoras dicea che la controversia del genere avea quattro parti sotto sé, ciò sono dimostrativo, deliberativo, iudiciale e negotiale... [M1, c. 21v]
Questa circostanza, fra l’altro, crea un’incoerenza con il commento dello sponitore al cap. 48, dove si legge: Poi che Tulio àe ripresa l’opinione d’Ermagoras de le quattro parti, sì dice la sua sententia e dice che sono pur due parti, cioè quell’altre due che dicea Ermagoras: iuridiciale e negotiale; e immantenente detta la sua sententia, la quale vince quella d’Ermagoras e d’ogn’altro, sì dice e dimostra che è iuridiciale e che è negotiale, in questo modo. [M1, c. 22r]
Apparentemente iuridiciale è lectio difficilior, per cui si sarebbe portati a credere che la sua conservazione, ancorché parziale, nel ramo M1SL riproduca la lezione originale. Il dettato di Mm, che presenta come si è detto il solo lemma iudiciale ed è stato preferito da Maggini, non costituisce di per sé necessariamente una banalizzazione operata in sede di copia: tuttavia, se si suppone che sia quella di M1SL la lezione innovativa, si dovrebbe postulare il ricorso, a monte, ad una fonte latina, per il reperimento e la correzione dell’errore di traduzione. Parrebbe meno oneroso ipotizzare che la lezione iudiciale di Mm costituisca una banalizzazione reiterata della lezione corretta, iuridiciale, attestata da M1SL. Visto l’accordo di tutti i testimoni, sarei portata a considerare originale anche il iudiciale erroneo che ricorre nella quadripartizione ermagorea: potrebbe trattarsi naturalmente di un errore comune a tutti i codici per banalizzazioni poligenetiche o per errore d’archetipo, ma non pare impossibile che Brunetto, che conosceva senz’altro il termine iudiciale ma forse (se mai) ripropose iuridiciale per puro trascinamento dal latino, abbia frainteso il termine in un primo tempo, ed abbia poi seguito passivamente il dettato latino, senza rilevare la sua svista precedente –sempre che, come si accennava, il suo antigrafo latino presentasse le lezioni corrette in tutti i punti e non oscillasse anch’esso impropriamente fra iudicialis e iuridicialis. Propenderei dunque per considerare d’autore (attivo o passivo) l’errore iudiciale del cap. 43 e la lezione corretta, iuridiciale, a partire dal cap. 48. Segnalo che una verifica esterna della conoscenza brunettiana del termine è impossibile, poiché l’intero argomento della constitutio generalis e delle sue partizioni manca nel Tresor.
4. La scomparsa di managio? Nel quarto argomento di Tullio, per descrivere lo stato bestiale in cui vivevano gli uomini prima che il primo retore li convincesse ad adottare uno stile di vita civile, si dice fra l’altro che in quel tempo selvaggio «neuno huomo avea veduto legiptimo maritaggio (lat. nuptiae legiptimae)» [M1, c. 4r]. La lezione maritaggio è presente in M1SL R, mentre Mm scrivono
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managio: è questa seconda lezione ad essere promossa a testo da Maggini, che la registra anche nel glossario.12 Posta la validità dello stemma qui proposto, parrebbe da eleggere la lezione maritaggio, ben attestata nel toscano antico – come mostra la relativa voce TLIO.13 Il potenziale gallicismo managio, tuttavia, è lezione in sé piuttosto attraente. Grazie alla promozione a testo nell’edizione della Rettorica, questo lemma guadagna un posto nel GDLI s.v. managio, come gallicismo dal «fr. ant. manage» con unica attestazione in Brunetto Latini, separato dalla voce menaggio, altra forma del medesimo gallicismo, la cui prima attestazione sarebbe però cinquecentesca, in Lodovico Guicciardini. Il DEI s.v. ménage annota la sola forma menaggio, datandola al XVI secolo in virtù dell’attestazione del Guicciardini citata anche nel GDLI: il lemma, di cui si segnala un parallelo nella forma anticofrancese maisnage, datata al XII secolo, è ricondotto al lat. *ma(n) sionaticum. Il DELI 2 s.v. ménage annota anch’esso la forma menaggio (di cui conferma la datazione cinquecentesca), considerandola un adattamento della voce francese, datata «1150 ca»: sulla scia del FEW, non citato esplicitamente, il DELI 2 precisa che il lemma non va ricondotto al latino medievale mansionaticum, «un derivato di mansionem ‹casa, dimora›, tipica espressione della terminologia tributaria carolingia (‹diritto di alloggio›)», ma sarebbe un «deverbale dell’antico manier ‹restare, rimanere› (dal lat. manēre)». Il lemma con -a- protonica compare anche nel TLIO s.v. managgio, con documentazione esaustiva a partire dal Corpus OVI dell’Italiano antico: insieme a quella della Rettorica è presente soltanto un’altra occorrenza, reperita nel coevo Fiore:14 Ad alcun altro che ffa lavoraggio, / Ma ben sua vita trar non ne poria, / Sì gli consente Idio ben truandia / Per quel che gli fallisce al su’ managgio.
Il passo, che illustra uno dei casi in cui è moralmente lecito mendicare, traduce il Roman de la rose, vv. 11465-11470, Langlois (1921: 202): Ou s’il a son labeur gaaigne, / Mais il ne peut de sa gaaigne / Soufisaument vivre seur terre, / Bien se peut lors metre a pain querre, / E d’uis en uis par tout tracier / Pour le remenant pourchacier...
Contini (1984: 230, n. al v. 4) commenta il lemma managgio esprimendo una certa perplessità: «Quanto a managgio, non si trova migliore soluzione di quella di P. [scil. la precedente edizione di Parodi], ma maisnage (come del resto laborage) pare estraneo al linguaggio di R. [scil. il Roman de la Rose]».15 Si noterà tuttavia che il Fiore presenta una serie di termini in -aggio, spesso in rima, privi di un diretto equivalente analogamente Maggini (1968: 205) s.v. managio: «(lat. nuptiae) matrimonio». Segnalo che, per un errore di registrazione in apparato, Maggini (1968: 17) attribuisce la lezione maritaggio a M anziché a M1. 13 Cfr. TLIO s.v. maritaggio (Larson, ultima consultazione: 07/12/2010). 14 Cfr. TLIO s.v. managgio (Cella, ultima consultazione: 06/12/2010). 15 Nel prosieguo della nota Contini (1984: 230, n. al v. 4) mette in relazione il passo con un sonetto precedente, il 49, in cui la stringa sumanagio era da sciogliere su’ [o]manag[g]io: «E guarda al Die d’Amor su’ [o]manag[g]io, / Ché tutto vince lungia soferenza»: cfr. Contini (1984: 100); TLIO s.v. omanaggio (Sestito, ultima consultazione: 07/12/2010). 12
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suffissato nella Rose, dovuti probabilmente alla volontà di conferire una veste ‹gallicizzante› al testo: si considerino fra gli altri i lemmi omanaggio, logaggio, o volpaggio.16 La redattrice della voce managgio, Roberta Cella, pone l’occorrenza del Fiore ad esemplificare la prima accezione, prossima al primo significato del lemma francese, definita come ‹insieme dei beni necessari alla vita domestica e dei modi della loro gestione›: si noterà che la seconda parte della definizione, non ricavabile dal contesto, dà conto di un senso traslato che serve più che altro ad introdurre la seconda accezione, testimoniata da Brunetto, che varrebbe –ancora secondo la definizione del TLIO– ‹coabitazione di tipo matrimoniale tra uomo e donna›. Noto che l’accezione prettamente materiale è presente nel Corpus OVI dell’Italiano antico anche in una Lettera pistoiese del 133117, che retrodata in modo consistente la prima attestazione finora nota della forma menaggio: Elli à dicto a me et a Gianotto più volte, che voi n’avete portato tucto lo menagio di qua entro, et Gianotto l’à ditto a me. Io òe rissposto all’uno et all’altro che voi n’avete portato lo vostro; quello che voi avavate comperato di vostri denari, et che voi no’ avavate neiente tocchato di quello della chasa. Tucte queste chose vi scrivo, al fine che voi ne siate informato.
Il gallicismo da ménage è dunque presente nel toscano antico, in ambienti prossimi alla Francia: per la forma con -e- protonica abbiamo un’attestazione sicura in una lettera di un mercante pistoiese che commercia oltralpe; l’attestazione della forma con -a- protonica si trova invece, con qualche incertezza, nel Fiore. In entrambi i casi, il lemma compare in accezione ‹insieme del mobilio e degli utensili necessari alla vita domestica, suppellettili›. Se si dà fiducia alla consistenza della lezione di Mm, minoritaria all’interno della tradizione, potremmo imputare a Brunetto una prima, antichissima, attestazione di managio nel senso di ‹relazione more uxorio fra due persone›, che appare altrimenti presente in italiano soltanto in epoca contemporanea, associata al prestito non integrato ménage. La lezione maritaggio costituirebbe quindi una sorta di traduzione indigena, toscana, scaturita poligeneticamente per banalizzazione della lectio difficilior managio. Se consideriamo invece il managio un’innovazione, dovremmo giustificarlo come una sostituzione involontaria da parte di chi ha eseguito l’antecedente di Mm, che dunque disponeva di un lessico per dir così ‹francesizzante› –sempre che, naturalmente, la forma managio avesse un senso per lo scrivente e non sia da imputare invece ad un guasto di trascrizione, a partire da maritaggio. Allo stato attuale del mio studio della Rettorica, propenderei a considerare il ramo M1SL come quello più prossimo all’originale brunettiano: in questo caso, posta inoltre la convergenza con la testimonianza di R, sarei orientata a mettere a testo maritaggio, scartando la lezione managio. Essa continua, dal mio punto di vista, ad affiancare l’occorrenza del Fiore nella documentazione di un esito con -a- protonica dal francese antico maisnage / mesnage, che pur con un margine di dubbio parrebbe attestato nel solo fiorentino tardoduecentesco: per Il lemma omanaggio è commentato da Contini (1984: 101, n. al v. 9), logaggio da Contini (1984: 451, n. al v. 8); volpaggio compare nel sonetto 101, Contini (1984: 204). 17 Chiappelli (1924: 254). Come segnalato nella bibliografia del TLIO, a cura di Pär Larson, «la datazione ‹1331› deriva da una vecchia scelta del’Ufficio Filologico di considerare la lettera («Fatta a Borgies 26 di genaio 330», p. 256) datata secondo lo stile dell’Incarnazione» (ultima consultazione: 07/12/2010). 16
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Elisa Guadagnini
quanto sia attraente l’idea di attribuire questo raro gallicismo a Brunetto in persona, credo che i dati testuali inducano ad ascriverlo piuttosto a un suo copista, che con lui condivide probabilmente –vista la diffusione strettamente locale della Rettorica– l’origine fiorentina.
Bibliografia Achard, Guy (ed.) (1994): Cicéron, De l’invention. Paris: Les Belles Lettres. Bolton Holloway, Julia (1986): Brunetto Latini: an analytic bibliography. London: Grant & Cutler. –– (1993): Twice-Told Tales. Brunetto Latino and Dante Alighieri. New York: Peter Lang. Calboli, Gualtiero (ed.) (1969): Cornifici Rhetorica ad C. Herennium. Bologna: Pàtron. Chiappelli, Luigi (1924): Una lettera mercantile del 1330 e la crisi del commercio italiano nella prima metà del Trecento. In: ASI 1, 229-56. Contini, Gianfranco (ed.) (1984): Il Fiore e il Detto d’Amore attribuibili a Dante Alighieri. Milano: Mondadori. Corpus OVI dell’italiano antico: corpus costituito e utilizzato dall’Opera del Vocabolario Italiano per la redazione del TLIO, consultabile all’indirizzo: http://gattoweb.ovi.cnr.it. DEI: Battisti, Carlo / Alessio, Giovanni (edd.), Dizionario etimologico italiano. 5 voll. Firenze: Sansoni, 1950-1957. DELI 2: Cortelazzo, Manlio / Zolli, Paolo (edd.), Il nuovo etimologico. DELI Dizionario Etimologico della Lingua Italiana. Seconda edizione. Bologna: Zanichelli, 1999. Dello Russo, Michele (ed.) (1851): Volgarizzamento della Rettorica dell’Invenzione di M. Tullio Cicerone recata in volgar fiorentino da Brunetto Latini. Napoli (il nome dell’editore manca). FEW: Wartburg, Walther von (ed.), Französisches Etymologisches Wörterbuch. 25 voll. 1928-2002. GDLI: Battaglia, Salvatore (ed.), Grande Dizionario della Lingua Italiana. Torino: Utet, 1961-2002. Guadagnini, Elisa / Vaccaro, Giulio (i.c.s.): «Selonc ce que Tulles dit en son livre». Il lessico retorico volgare nei volgarizzamenti ciceroniani. In: Atti del VII Convegno triennale della Società Italiana di Filologia Romanza. Culture, livelli di cultura e ambienti nel Medioevo occidentale (Bologna, 5-8 ottobre 2009). Heinimann, Siegfried (1968): Zum Wortschatz von Brunetto Latinis Tresor. In: VR 27, 96-105. Langlois, Ernest (ed.) (1921): Le Roman de la Rose par Guillaume de Lorris et Jean de Meun publié d’après les manuscrits. Tomo 3. Paris: Champion. Leonardi, Lino (2007): Un nuovo testimone del «Fiore di rettorica» di Bono Giamboni. In: Studi in onore di Pier Vincenzo Mengaldo per i suoi settant’anni. Vol. 1. Firenze: Sismel / Edizioni del Galluzzo, 175-194. Maggini, Francesco (1912): La ‹Rettorica› italiana di Brunetto Latini. Firenze: Galletti e Cocci. –– (ed.) (1915): La Rettorica di Brunetto Latini. Firenze: Galletti e Cocci. –– (ed.) (1968): Brunetto Latini. La Rettorica. Prefazione di Cesare Segre. Firenze: Le Monnier. Monaci, Ernesto (ed.) (1912): Crestomazia italiana dei primi secoli. Città di Castello: Lapi. –– (ed.) (1955): Crestomazia italiana dei primi secoli, con prospetto grammaticale e glossario. Nuova edizione riveduta e aumentata per cura di Felice Arese. Roma / Napoli / Città di Castello: Società Editrice Dante Alighieri. Nannucci, Vincenzio (ed.) (1837): Manuale della letteratura del primo secolo della lingua italiana, vol. II. Firenze: Magheri. Rostagno, Enrico (1916): rec. a Maggini (1912; 1915). In: Bullettino della Società dantesca italiana 23: 72-90.
Per una nuova edizione della Rettorica di Brunetto Latini
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Segre, Cesare (ed.) (1953): Volgarizzamenti del Due e Trecento. Torino: Utet. –– / Marti, Mario (edd.) (1959): Prosa del Duecento. Milano / Napoli: Ricciardi. Serfranceschi, Francesco (ed.) (1546): Retorica di ser Brunetto Latini in volgar fiorentino, Stampata in Roma in Campo di Fiore per M. Valerio Dorico & Luigi fratelli bresciani. TLIO: Tesoro della Lingua Italiana delle Origini, dir. Pietro Beltrami, consultabile all’indirizzo: http:// tlio.ovi.cnr.it/TLIO/. Zambrini, Francesco / Lanzoni, Filippo (edd.) (1850): Frammento del libro «de Inventione» volgarizzato da Brunetto Latini. In: Opuscoli di Cicerone volgarizzati nel buon secolo della lingua Toscana. Imola: Galeati.
Josep Guia (Universitat de València)
Traduccions i versions prosificades de l’Espill, obra catalana en vers del segle XV. Una anàlisi fraseològica
1. Introducció En aquest treball, partim de la còpia manuscrita conservada (de finals del segle XV) i de les edicions de l’Espill (1531, 1561, 1735, 1865, 1905, 1928, 1929-50, 1978, 1981...) i considerem les traduccions castellanes, en vers (Matheu i Sanç, segle XVII) i en prosa (Miquel i Planas, 1936-42), les versions catalanes prosificades (Tiñena, 1988; Capmany, 1992; Carré, 2006) i la traducció francesa en prosa (Costa-Reus, 2008). Presentem una proposta de tipificació dels diferents procediments de traducció fraseològica i analitzem diversos casos de trasllació d’UFs de l’obra original a les versions esmentades.
2. La traducció d’unitats fràsiques (UFs) L’acció de traduir un text d’una llengua original (LO) a una llengua meta (LM) exigeix un bon nivell de competència fraseològica, ja que les UFs de LO són un repte per a la traducció, és a dir, per a la recerca de les unitats equivalents en LM, tenint sempre en compte la funció discursiva en el cotext on es troben inserides. Això és també aplicable a les prosificacions d’un text en vers dintre de la mateixa llengua. Partint de la gradació de correspondències fràsiques que comenta Gloria Corpas (2003: 281-283) i tenint en compte modificacions introduïdes posteriorment (Conca / Guia 2006), hem elaborat la següent proposta de classificació dels procediments de traducció d’UFs: Classificació dels procediments de traducció d’UFs en textos literaris I
Equivalència total
Quan la UF de LM presenta, en relació amb la UF prèvia de LO, el mateix significat discursiu (intrínsec i en context) i les mateixes imatge metafòrica, tipificació i connotació estilística.
II
Equivalència parcial
Quan la UF de LM manté el mateix significat discursiu que la UF de LO, però modifica la imatge metafòrica, el tipus o la connotació estilística.
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Josep Guia
Classificació dels procediments de traducció d’UFs en textos literaris III
Error (canvi de significat)
Quan se substitueix la UF de LO per una expressió en LM, codificada o no, que no manté el significat discursiu.
IV
Calc
Quan se substitueix la UF de LO per la seva traducció literal, amb independència del fet que en LM existeixi equivalent o no.
V
Modificació creativa
Quan se substitueix la UF de LO per una expressió que en conserva el significat, configurada segons els recursos formals de les UFs.
VI
Paràfrasi
Quan se substitueix la UF de LO per una frase lliure en LM que manté el mateix significat discursiu.
VII
Omissió
Quan la UF de LO no se substitueix per res en LM.
VIII
Compensació
Quan el traductor afegeix una UF en LM, relacionada amb el text LO però sense que hi hagi una UF en LO.
Com a criteri general per a la traducció setcentista de l’Espill, cal tenir en compte que TM és també un text amb versos tetrasíl·labs, rimats de dos en dos, la qual cosa és un fort condicionant per a la trasllació d’UFs. Quant a les prosificacions (al castellà, al català o al francès), cal tenir present la intenció dels autors de fer versions comprensives del text de l‘Espill, en llenguatge actual, més que no pas prosificacions literàries.
3. Exemples En cadascun dels casos que exposem, anirà en primer lloc el fragment corresponent de l’Espill, encarat amb la primera traducció de Mateu i Sanç i seguit de la resta de traduccions i prosificacions. A continuació, en farem el comentari. 3.1. A mon parer Aquesta locució adverbial, de significat transparent, apareix dues vegades a l’Espill. La primera recurrència figura a la primera part del prefaci de l’obra, quan el protagonista confessa la intenció didàctica que el guia en contar la seva vida: L’obra millor, de més amor e ben voler, a mon parer, és doctrinar (vs. 89-93)
La obra maior, de más amor y bien querer, a mi entender, es enseñar (Mateu i Sanç)
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Traduccions i versions prosificades de l’Espill
La mejor, de más amor y buen deseo es, a mi parecer, adoctrinar (Miquel i Planas)
La de més amor, la millor, és, segons que em sembla, adoctrinar (Tiñena)
La millor de totes, la de més amor i ben voler, és, al meu parer, la d’adoctrinar (Capmany)
Al meu parer (...) la millor, la que mostra més amor i voler més bé als altres, és adoctrinar (Carré)
La meilleure, de plus grand amour et bienveillance, est, à mon avis, de catéchiser (Costa-Reus)
Les traduccions són del tipus I, car sempre hi ha una locució adverbial equivalent: a mi entender, a mi parecer, à mon avis. Quant a les prosificacions catalanes –tret de Tiñena, que substitueix la locució per una paràfrasi amb significat equivalent: ‹segons que em sembla› (tipus VI, doncs)–, en conserven l’encunyació. La segona recurrència apareix a la fi de l’obra, en un fragment on el protagonista es refereix als sermons de determinats predicadors: De tal preïcar, a mon parer, és tal plaer o escoltar com lo comptar d’altri florins (vs. 16286-91)
Tal predicar es, a mi ver, solo placer al escuchar, como contar de otro doblones (Mateu i Sanç)
El placer de escuchar tal predicación es, a mi juicio, parecido al de oir contar florines ajenos (Miquel i Planas)
Escoltar aquestes predicacions és, al meu entendre, tan plaent com sentir comptar els florins d’un altre (Tiñena)
Segons el meu parer, el plaer d’escoltar aquestes prèdiques és com comptar els florins d’altri (Capmany)
D’un predicar tal, al meu parer, se n’obté tant plaer en escoltar com en comptar els florins d’una altra persona (Carré)
Devant de tels prêches, à mon avis, le plaisir d’écouter est le même que si c’était des florins que l’on comptait chez quelqu’un d’autre (Costa-Reus)
Com en el cas anterior, les prosificacions catalanes conserven la locució (amb variants) i les traduccions en posen una d’equivalent: a mi ver, a mi juicio, à mon avis (tipus I). 3.2. Anar de pic en sola La locució verbal anar de pic en sola, ‹anar per mal camí, portar mala conducta› (DCVB, pic), figura inclosa al fragment on es descriu el comportament dels homes (capellans inclosos) atrets per les dones:
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Josep Guia
Dels curiosos religiosos e capellans –dic dels profans, dels qui son dan cerquen e van de pic en sola, e de sa escola, del vot exprés ni de l’entés no els plau membrar– (vs. 312-19)
De los curiosos que, religiosos, locos e insanos, bueltos profanos, que aqueste afán buscando van, no sin cautela, y en esta escuela del voto expreso con tal exceso van olvidados (Mateu i Sanç)
Que buscan su propio daño y dan una vez en el clavo y otra en la herradura (Miquel i Planas) Que busquen el seu dany i la seva perdició (Tiñena) Que van de dalt a baix i cerquen el seu dany (Capmany) Que cerquen el seu dany, que van de pic en sola (Carré) Qui cherchent leur malheur et vont de mal en pis (Costa-Reus)
Les dues traduccions castellanes són errònies (tipus III), ja que la locució ha estat substituïda, respectivament, per l’expressió adverbial ‹no sin cautela› (Mateu i Sanç) i per la UF ‹dan una vez en el clavo y otra en la herradura› (Miquel i Planas), les quals tenen uns altres significats. Probablement, la locució equivalent castellana és ir de picos pardos. La traducció francesa podem considerar-la del tipus II, ja que substitueix la locució original de LO per una altra de LM parcialment equivalent. Quant a les prosificacions catalanes, en Tiñena hi ha omissió, en Capmany, equivalència parcial (si considerem la locució anar de dalt a baix com a parcialment equivalent a la locució original) i en Carré, equivalència total. Peirats (2002, Índex paremiològic) relaciona erròniament l’Espill, en aquest passatge, amb la locució picar soleta, ‹escapar-se, anar-se’n de pressa d’un lloc› (DCVB, sola). 3.3. Bé sap de la maça qui n’ha estat ferit La intertextualització d’aquest proverbi és directa (sense connector introductori ni fórmula d’inserció fràsica) i inicial d’una seqüència, a manera de presentació i resum: Bé sap de maça qui n’és ferit! Lo meu sperit n’ha portat pena sobre la squena mals huitanta anys... (vs. 382-87)
Pues por amarlas tiene sabido el que es herido deste veneno. Yo, a bien que peno ochenta años... (Mateu i Sanç)
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Traduccions i versions prosificades de l’Espill
¡Harto sabe del mazo quien recibió el porrazo! Mi espíritu ha debido soportar esa pena durante ochenta tristes años... (Miquel i Planas) Bé sap el mal que fa la maça, aquell qui massa l’ha sofert! El meu esperit ha portat el turment d’aquesta experiència sobre l’esquena uns mals vuitanta anys (Tiñena)
Prou sap del cop de maça qui n’ha estat ferit. El meu esperit n’ha portat el dolor sobre l’esquena. Vuitanta anys de mals... (Capmany)
Bé sap de la maça qui n’ha estat ferit! Durant vuitanta anys, el meu esperit n’ha portat sobre l’esquena els mals... (Carré) Qui en a bavé, sait ce qu’en vaut l’aune! Mon esprit, hélas! En a eu de la peine, lourde pour un dos de quatre-vingts ans (Costa-Reus)
El proverbi original és obviat en la traducció de Mateu i Sanç, on apareix susbtituït per una paràfrasi textual (on maça passa a ser veneno), que vol mantenir el mateix significat discursiu (tipus VI, doncs). En les traduccions de Miquel i Planas i de Costa-Reus, hi ha equivalència paremiològica (tipus I), en tant que apareixen sengles proverbis equivalents: ¡Harto sabe del mazo quien recibió el porrazo!, Qui en a bavé, sait ce qu’en vaut l’aune! Quant a les prosificacions catalanes, Tiñena i Capmany fan trasllacions del tipus VI, amb paràfrasis lliures i explicatives, mentre que Carré manté el proverbi i l’escriu en la seva forma canònica (tipus I). 3.4. Donar-se brasa La locució verbal donar-se brasa, ‹afanyar-se, donar-se pressa› (DCVB, brasa), apareix en el passatge on la mare del narrador el foragita de casa: Com m’abexà tantost de casa, que em donàs brasa, ben adreçat: un peu calçat altre descalç... (vs. 862-67)
Mas me arrojó luego de casa, con mano escasa bien aliñado, de un pie calçado, descalzo el otro... (Mateu i Sanç)
Al aviarme de casa a marchas dobladas, para que me diese aire, bien equipado, esto és: calzado un pie y descalzo el otro... (Miquel i Planas)
Em despatxà de casa, amb un peu calçat i l’altre descalç... (Tiñena)
Em va fer fora de casa tan de pressa com si li hagués demanat brasa per al fogó. Així guarnit, un peu calçat i l’altre descalç... (Capmany)
Em va expulsar de seguida de casa. Perquè m’afanyés a marxar, em va equipar bé: amb un peu calçat, l’altre descalç... (Carré)
Lorsqu’elle me chassa sitôt de la maison, pour que j’allasse en quête de toit, bien accoutré, un pied chaussé et l’autre déchaussé... (Costa-Reus)
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Josep Guia
La traducció de Mateu i Sanç és del tipus VII perquè omet la locució i no la substitueix per cap altra d’equivalent ni per cap frase del mateix significat, sinó que hi introdueix una altra expressió per necessitat de la rima. En canvi, la traducció de Miquel i Planas és del tipus I, ja que la locució catalana donar-se brasa es trasllada a l’equivalent castellana darse aire. Pel que fa a les prosificacions catalanes, hi ha de tot: Tiñena en fa una trasllació del tipus VII, és a dir, no la trasllada, l’omet; Capmany, una del tipus III (error), ja que confon el significat de la locució; Carré, una del tipus VI (paràfrasi), en usar-hi una frase lliure que manté el mateix significat discursiu. Finalment, la traducció francesa de Costa-Reus és una barreja dels tipus VII (omissió) i VIII (compensació), ja que omet un equivalent de la locució originària i, alhora, n’introdueix una altra de significat coherent amb el text: aller en quête de toit. 3.5. Eixir de la roca La locució verbal eixir de la roca, ‹ésser de baixa extracció› (Miquel i Panas), apareix en la resposta irada que les parentes de la primera muller del protagonista li fan a aquest quan pretén celebrar unes bodes modestes: Totes rebien e cridant dien: «Ix de la roca, que ab tan poca honor se facen?» (vs. 2219-23)
Todas rabiavan y boceavan: «¿Es de las peñas, que assí desdeñas?» (Mateu i Sanç)
Muy contrariadas y rabiando, incrépanme diciendo: «¿Es que viene del terruño, para que su boda se haga con tan poco honor?» (Miquel i Planas)
Em van dir, per reblar el clau: «Que ho voleu fer mesquinament i d’amagat?» (Tiñena)
Totes rabiüdes es van posar a cridar dient: «Ja pots sortir de darrere la roca! Com pots admetre que es facin amb tan pocs honors?» (Capmany)
Totes rabien i em diuen, cridant: «És que ha nascut a sota d’una roca, que amb tan poc d’honor s’han de fer les bodes?» (Carré)
Enragent toutes et disent en criant: «Vient-il, celui-là, du fin fond d’une grotte pour qu’il veuille faire cette noce avec si peu d’honneurs?» (Costa-Reus)
Les dues traduccions castellanes són del tipus VI, ja que, certament, ser de las peñas i venir del terruño són expressions que mantenen el mateix significat discursiu que la locució en el text originari. Quant a les prosificacions catalanes, Tiñena ho resol mitjançant una paràfrasi (tipus VI) i una compensació, «per reblar el clau» (tipus VIII); Capmany hi dóna una solució errada (tipus III), canviant el destinatari i el significat de l’expressió, i Carré introdueix una variant de la locució original (tipus I). La prosificació francesa de Costa-Reus, que hi segueix la versió de Capmany, és errada (tipus III).
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3.6. Fer botes La locució verbal fer bótes ‹inflar els llavis en el moviment precursor del plor› (DCVB, bóta), apareix inserida en el fragment: En missa entrava com ja preïcaven; si no es llevaven per ella totes, s’hi feia bótes (vs. 2560-64)
Si en missa entrava, ya predicavan: si no se alçavan por ella todas, no havía bodas (Mateu i Sanç)
Entraba en misa cuando ya predicaban; y si no se levantaban todas a su paso, se metía a puntapiés con ellas (Miquel i Planas)
Anava després a missa i hi entrava quan ja predicaven, i, si no s’aixecaven totes a saludar-la, feia molt d’escàndol (Tiñena)
Entrava a missa quan ja predicaven, i si per culpa d’ella no s’aixecaven totes les dones, els feia mala cara (Capmany)
Entrava en missa quan ja predicaven, i si per ella no s’aixecaven totes, feia el bot (Carré)
Elle entrait à la messe quand on était déjà au prêche; et si toutes ne se levaient pas pour la laisser passer, elle se mettait à leur donner des coups de savate (Costa-Reus)
La traducció de Mateu i Sanç és clarament del tipus III (error) ja que, probablement per desconeixement de la locució original i per exigències de la rima, altera el significat del vers. També la traducció de Miquel i Planas és del tipus III, per errada d’interpretació del mot bótes, que el relaciona amb donar puntades de peu. Costa-Reus repeteix la mateixa errada. Quant a les prosificacions, Tiñena i Capmany mantenen només aproximadament el significat, amb expressions lliures (tipus VI), mentre que Carré hi manté la locució, en la seva forma canònica (tipus I). 3.7. Beure en carabassa Quan mossèn Company fa l’elogi de la vídua per casar-la amb el protagonista, s’adreça a aquest i usa la locució verbal beure en carabassa: És cosa bona; voleu-la veure? No en podeu beure en carabassa! Aquesta abraça hui los majors (vs. 4274-79)
¿Queréis la ver? No hay que bever en calabaza: su sangre abraza oy los mejores (Mateu i Sanç)
Es cosa buena: ¿queréisla conocer? ¡Ni conservada en calabaza podríais beberla así! Ésta abarca hoy a los principales (Miquel i Planas)
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Us asseguro que és cosa bona. ¿La voleu veure? És de bona família i es tracta amb gent important (Tiñena)
És una bona cosa. ¿La voleu veure? De vi tan bo, no en podríeu beure en carabassa. Aquesta dona avui es fa amb la gent important (Capmany)
És cosa bona! ¿La voleu veure? No en podeu beure en carabassa, d’un vi tan bo! Aquesta dona avui es fa amb els més grans (Carré)
C’est une bonne chose, voulez-vous la voir? Vous ne pouvez boire de meilleur vin dans une calebasse! Cette femme est aujourd’hui en relation avec les plus grands (Costa-Reus)
La locució beure en carabassa es troba també formant part del proverbi valencià, anotat per Estanislau Alberola (1928), El que beu en carabassa, no veu si beu poc o massa, i té una variant, beure en botijó, que hem registrat oralment a Beneixama, a dins el proverbi: Casar-se en el carrer és beure en got, casar-se en el poble és beure en pitxer i casar-se fora és beure en botijó. Així doncs, significa ‹anar a cegues, no tenir un coneixement complet del que es fa›. La traducció de Mateu i Sanç, que devia conèixer la locució valenciana però que potser no en coneixia cap d’equivalent en castellà, és literal (tipus IV), a no ser que també funcionés beber en calabaza com a locució en el castellà del segle XVII. Totes les altres traduccions i prosificacions, tret de l’omissió que en fa Tiñena (tipus VII), són errades (tipus III), en no conèixer la locució i assignar-li un significat equivocat, seguint en això Sebastià Farnés. Aquest va recollir no poder beure en carabassa (PCC, C 1080), sense més informació que la de l’Espill, i li va donar un significat incorrecte: ‹es diu d’una cosa excel·lent perquè en carabassa sols se beu el vi dolent›, sense adonar-se’n que tenia anotat en una altra fitxa el proverbi del refranyer d’Alberola, on queda clar el seu significat. 3.8. Cenyir-se sobre viu Als versos que descriuen com la vídua, segona esposa del protagonista, es fingeix prenyada, hi ha la locució cenyir-se sobre viu, ‹estar prenyada, portar un fetus al ventre›: Menjar carbons fingís mastega, algeps rosega e beu llexiu, e sobre viu dix que es cenyia; així empenyia lo temps avant, a part davant les mans plegades tenint alçades, gros infingint e afigint als pits cotons (vs. 4752-65)
Come carbones, Beve lexía; Que ya sentía cosa en si viva me dize esquiva; el tiempo andando, braços cruzando, vientre creciendo, trapos poniendo con algodones, ya los peçones muestra alterados, casi morados, por más señal (Mateu i Sanç)
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Traduccions i versions prosificades de l’Espill
Bebe lejía; dice que lleva cíngulo sobre la piel viva. Y, con todo esto, el tiempo iba avanzando... (Miquel i Planas)
Bevia lleixiu; es posà un coixí a la panxa i cotó fluix a les mamelles... (Tiñena)
Bevia lleixiu i ens volia fer creure que se cenyia fort sobre la carn. Així anava empenyent el temps... (Capmany)
Beu lleixiu, i vol fer creure que duu el cinturó damunt la pell. Així anava empenyent el temps endavant... (Carré)
De boire de la lessive et dit qu’elle se ceignait, à même la peau. Ainsi faisait-elle passer son temps... (Costa-Reus)
Aquesta locució també figura al Tirant, quan la Vídua Reposada vol fer creure a Tirant que Carmesina ha jagut amb el negre Lauseta i n’està prenyada: E l’altre dia se cenyia sobre viu. E què us diré d’esta ventura? Ja la sua boca forçada prenia poques viandes, lo dormir no li era plasent, e la nit li paria un any (cap. 268)
La traducció de Mateu i Sanç podem tipificar-la com a modificació creativa (tipus V), ja que hi ha substituït la locució inicial per l’expressió, possiblement codificada en castellà, sentir en si cosa viva. Amb l’excepció de Tiñena, que l’omet (tipus VII), totes les altres traduccions i prosificacions són errades (tipus III). Tampoc Peirats (2002) no hi ha entès el sentit i n’ha fet una transcripció equivocada, en fusionar sobre i viu, fent-ne una exclamació («E sobreviu!») i deixar solt i sense sentit el vers «dix que es cenyia»: «...e beu llexiu. / E sobreviu! / Dix que es cenyia. / Axí empenyia / lo temps avant...». 3.9. Sermonar al sord i cantar missa El fragment que segueix conté les locucions verbals sermonar al sord i cantar missa, al bell mig d’un enfilall de construccions metafòriques de significació semblant, ‹perdre el temps, fer coses inútils›, en clau misògina: Qui les doctrina pert diciplina, en va té scola, llava rajola, repasta tests, ab l’hom de fets qui dorm raona, al sord sermona e missa canta, la serp encanta, castiga saura e l’estany daura (vs. 7957-68)
Quien las doctrina, la disciplina necio malogra: nada se logra si se desvela; en vano escuela pone, rastrillo lana o ladrillo, tiestos amasa, derriba casa, con el ruido; a honbre dormido negocio explica;
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sordos predica, misa les canta; sierpes encanta; castiga zorra; lo escrito borra; dora el estaño (Mateu i Sanç) Sermonea y canta missa para sordos (Miquel i Planas) Sermonejar el sord i cantar misa (Tiñena) Sermoneja i canta missa al sord (Capmany) Predica al sord i li canta missa (Carré) Prêche et dit une messe chantée pour le sourd (Costa-Reus)
Les locucions susdites són independents, amb el significat anotat adés. No han estat ben enteses pels transcriptors, ja que aquests fusionen la segona locució amb la primera, sense adonar-se’n que cantar missa és una locució per ella mateixa, amb independència que el públic sigui sord o no. La interpretació incorrecta ja ve de la primera traducció de Matheu i Sanç, que hi va posar: «sordos predica / misa les canta». Potser volia evitar el punt d’agnosticisme que conté el significat idiomàtic de cantar missa, o potser en castellà no funcionava aquesta locució. 3.10. Obert com el pa de Lleida Aquesta codificació, obert com el pa de Lleida, és la forma canònica que podem donar a la unitat estilística configurada com a sintagma adjectival comparatiu que figura al fragment on Salomó insta el protagonista a seguir Jesucrist, que hi és presentat mitjançant diverses metàfores referents al pa: Fon pel costat ubert, buidat, com aquell pa que en Lleida es fa (vs. 13009-12)
Fué por un lado el pan cortado bien, como el pan que en Leyda dan (Mateu i Sanç)
Fué abierto por el costado y ahuecado como aquel pan que se hace con levadura (Miquel i Planas)
Va ser obert pel costat i buidat com aquell pa que es fa amb llevat (Capmany)
Va ser obert i buidat pel costat, com aquell pa que es fa amb llevat (Carré)
Il fut fendu sur le côté et vidé comme le fameuse pain que l’on fait avec du levain (Costa-Reus)
Traduccions i versions prosificades de l’Espill
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La traducció de Mateu i Sanç resol adequadament la trasllació de la unitat estilística (tipus IV, doncs), però Miquel i Planas, a partir d’una lectura equivocada de l’original («amb lleuda» en lloc de «en Lleida»), hi fa una traducció errònia, la qual és seguida per totes les altres prosificacions, tret de Tiñena, que omet aquest fragment, i de Costa-Reus, que informa, en nota, de les dues interpretacions possibles. Tot fa pensar que el pa medieval de Lleida devia tenir anomenada, ja que ha estat objecte, recentment, d’una certa reactualització, amb la creació del Centre Tecnològic del Pa de Lleida. Així, a la pàgina web del Gremi de Forners de Lleida podem llegir que aquest «seguint els paràmetres d’elaboració de l’edat mitjana, ha creat el Pa Medieval. Els dos tipus de farina utilitzats, el blat i l’espelta integral, donen un sabor diferent, característic, que juntament amb el tall en creu ens recorda els orígens de la ciutat». Per aixó, pensem que la lliçó correcta és obert com el pa de Lleida.
4. Conclusions L’anàlisi de tots els casos de correspondències fràsiques entre el text original i les seves traduccions i prosificacions, que no puc aportar ara perquè excedeix, amb molt, els límits d’aquesta comunicació, pot determinar, amb precisió, el grau de competència fraseològica de cadascun dels autors que han versionat l’Espill. A partir només dels exemples presentats, podem concloure que tots els autors fan trasllacións errònies (del tipus III), sovint dependents les unes de les altres, les quals errades posen en evidència un escàs coneixement de les UFs, tant per no detectar-les en LO com per, una vegada detectades, no conèixer-ne l’equivalència en LM. Per a una correcta traducció, doncs, es força convenient comptar amb diccionaris fraseològics solvents, tant monolingües com contrastius, elaborats amb una perspectiva diacrònica i documental, amb exemples pragmàtics d’ús, que permeten il·lustrar i conèixer adequadament les correspondències o equivalències fraseològiques que puguin donar-se entre llengües diferents, però també entre diverses èpoques d’una mateixa llengua. En aquest darrer sentit, és digne d’ésser anotat que cap de les prosificacions catalanes modernes de l’Espill no ha actualitzat unitats fràsiques o estilístiques medievals com procés de pensa, roba jusana, humanal llinatge, donar-se brasa, girar carta... per les equivalents, en la llengua d’avui, judici d’intencions, roba interior, espècie humana, donar-se pressa, girar full... En resum, doncs, l’extraordinària riquesa fràsica de l’Espill no es reflecteix com caldria en les seves versions traduïdes i/o prosificades.
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Josep Guia
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Alexander Ibarz Blatchford (Sheffield, UK)
La última fase de la koiné occitano-catalana: los provenzalismos en Ausiàs March1
Pagès, Bohigas y Archer están de acuerdo en que 112 de los 129 textos del corpus marquiano nos han sido transmitidos por mss. del siglo XV: AFG1HLMNO. De estos manuscritos hay que distinguir los cancioneros antológicos: ms. A (cancionero de Paris), L, M, H (cancionero de Zaragoza), y también G1 (que fue extraído, según Pagès, de un cancionero más amplio para formar parte de una colección de obras exclusivamente marquianas). Por una vía de transmisión diferente a la cancioneril, quedan del siglo XV dos manuscritos dedicados únicamente a nuestro poeta: F (encuadernados junto con el Laberinto de Juan de Mena) y el manuscrito N. Los editores han justificado la selección de F como base (aunque Archer se muestra menos favorable hacia ese manuscrito que Pagès, y más favorable hacia el manuscrito N (1997: 34). Bohigas también reconoce que «A i F estan de vegades en desacord, però literàriament són d’un valor equivalent» [Bohigas 2000: 71]). La tradición del siglo XV es fragmentaria y de ningún modo se remonta al autor. Los editores la valoran porque suele ser más fiable que la tradición posterior. En el siglo XVI, los cambios de copista causados por falta de comprensión de la lengua del poeta pasan por una serie de lectiones faciliores a, en el peor de los casos, la substitución de versos enteros. Veamos un ejemplo que tiene que ver con el uso de provenzalismos, en la canción de March que contiene más provenzalismos que cualquier otra. Me refiero al poema 7 ‹Si com rictat no porta bens ab si›. Si comparamos la versión que se encuentra en el manuscrito B, el menos fidedigno de los manuscritos del s. XVI, con un texto basado en FK, es posible ver las consecuencias que puede tener la incomprensión extrema de un copista. De lo que pudiera haber escrito el poeta, quedan 6 de 8 rimas intactas, y 3 de 8 versos, cómo se puede comprobar: B 10 v.
Base FK (ed. Pagès)
17 Per ben amar, ab anciosa cura, 18 per dret d’amor hom deu esser be volgut. 19 Provat es ia que amor es crescut 20 [per altr’amor demostrant sa factura] 21 aço fon ver mentr’amor fon amic 22. stretament de vera conexença 23 [mas, en est cas, entr’ells ha malvolença, 24 que d’amistat no pens que sia pratich.
Per ben amar, ab angoxosa [K] cura, en temps passat eren ladonchs volguts. Ovidi·l prous dix qu’amor es crescuts per altr’amor demostrant sa factura. Verdader fon son dit e sos presichs, tant quant Amor fon prop de Conexença; mas, en est cas, entr’ells ha malvolença tal que no creu null temps sien amichs.
Agradezco la contribución de la sección del congreso organizado por M. Roques para ayudarme a clarificar mis ideas. En particular, debo a Simone Ventura sus benévolas correcciones hechas sobre el manuscrito. Sus comentarios, dudas y propuestas han sido muy útiles aunque es muy probable que mis soluciones no alcancen a satisfacer su nivel de erudición y de formación filológica.
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La versión de base F con alguna variante de K, sin embargo, no representa la tradición cancioneril. Si se consultan los manuscritos ALM y H a través del aparato crítico de Pagès y de Archer se encuentra ‹sos dits› en el v. 21 en lugar de ‹son dit›, variante encontrada en F. El grupo DEG2 (seguido por las ediciones antiguas) escribe ‹Verdader fo en sos dits e presichs›. Esta sería una interpretación del texto según el grupo cancioneril ALM y en otro grupo del stemma H: Per ben amar, ab engoxossa cura, / en temps passat eram ladonchs vulguts. / Ovidi·ll prous dix qu’emor es crescuts / Per altr’amor demostrant sa factura / Verdader fonch sos dits e sos presichs, / tant quant Amor fon prop de conexensa; / mas, en est cas, entr’ells ha malvolensa / tal que no creu null temps sien amichs.
La ejemplaridad de la edición de Pagès viene avalada por Bohigas, quien en ese instante, reproduce el texto de Pagès tal cual. La lectura alternativa que ofrece el grupo ALM (derivado de X2) y H (derivado de X1) es una versión correctamente provenzal. La variante ‹sos dits e sos presichs› presenta dos nombres acompañados de dos posesivos singulares en caso sujeto como corresponde al verbo copulativo. Ante esta variante, antes de rechazarla, debió preguntarse el editor moderno: ¿se trata de un escribano provenzalizante? En el caso del ms. H, el cancionero de Zaragoza, que contiene poesías occitanocatalanas además de algunas piezas de trovadores clásicos, Pagès identificó dubitativamente al copista como Juan Benet, avanzando la hipótesis de que fuera castellano, sin explicar, sin embargo, cómo había llegado a esta conclusión. Sea cual fuere la procedencia del copista el problema que representa la lectura de H es que se encuentra en otra rama del stemma (1X1), junto con F y G1, mientras que los otros manuscritos cancioneriles se encuentran en 1X2. No es posible que hubiera contaminación de A en H (o viceversa). Si A y H comparten una lectura como ‹sos dits›, antes de rechazarla como mala, tenemos que considerar la posibilidad de que provenga de una parte anterior en el stemma. Evidentemente, no se resuelve el problema con facilidad, porque en el grupo que deriva de 1X1, F y H se contradicen. En el grupo ALMN, que deriva de 1X2, N contradice a A, y, además, coincide con F (en la lectura eren, en lugar de erem). Bohigas ha explicado el escaso interés que tiene el testimonio de la tradición cancioneril ya que el manuscrito I «procedeix d’un text gairebé igual a A, i L i M… contenen molt poques obres» (Bohigas 2000: 71). Archer resume el problema principal del siguiente modo: Tampoc no és el cas que F tingui més formes arcaiques que altres manuscrits: A ofereix alguns casos notables de provençalismes (X, 21, er, XXIV, 5 Eres, per exemple) que corresponen, en altres testimonis, a formes catalanes. Però A és també un manuscrit que conté moltes lliçons singulars que ocupen versos sencers, i d’aquest fet sorgeix el dubte de si, en copiar March al costat d’altres poetes més provençalitzants –entre ells Jordi de Sant Jordi, Jaume i Pere March– no es van introduir formes provençals. Això podria produir-se per una mala lectura (en X, 21, ell, en la forma el, podria confondre’s amb la forma er de textos provençalitzants) o d’una manera més conscient (Apendix, 34).
Archer no nos da más detalles sobre sus razones paleográficas para pensar que una r pueda confundirse con una l en la caligrafía de estos copistas. También sería prudente preguntarse ¿por qué un copista con afán de provenzalizar un texto cambiaría sólo un pronombre sujeto masculino ell o el, o incluso el indefinido tot, cuando las tres formas son perfectamente aceptables en
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occitano? Por supuesto, no existe respuesta posible a este tipo de pregunta. No obstante, un deseo editorial de eliminar de antemano los provenzalismos debido a una preconcepción cualquiera sobre la lengua del poeta, no nos ayudaría en absoluto a clarificar este tipo de duda. Pasaré ahora a considerar los tipos de provenzalismo que han sobrevivido en la tradición manuscrita más autorizada. En primer lugar, voy a reiterar una cautelosa observación de Casanova (1999: 145): Es pot afirmar que la major part dels mots catalans usats per March tenen el mateix ètim que els mots occitans, per la qual cosa és difícil esbrinar, excepte en els lexemes amb marques formals diferents, què hi ha d’occità i què de català en el nostre poeta.
La lista de unas sesenta palabras registradas por Casanova demuestra muy bien lo citado. Como ha observado L. Cabré en su estudio de la lengua de Pere March: És difícil avaluar la distribució lèxica, atesa la proximitat entre les dues llengües [sc. occitano y catalán] i el fet que el DCVB, el repertori més complet, sol acceptar poc críticament qualsevol variant que hagi estat usada històricament pels autors catalans, sense distingir, en aquest sentit, l’occitanització de copista o la hibridació literària (Cabré 1993: 108-109).
Repetimos, con Cabré, la advertencia también válida para Ausiàs de que: Convé recordar... que els resultats [del análisis de la lengua] reflecteixen en bona part la llengua dels copistes i que, mancats encara d’estudis monogràfics per a cada còdex, es fa difícil en tot cas avaluar el grau d’aprovençalament del català (Cabré 1993: 99).
Procederé, por lo tanto, aceptando con Cabré y otros que la hibridación literaria, es decir, el uso de una koiné, y los procesos de koineización implícitos difícilmente pueden ser adecuadamente explicados a causa del estado actual de los estudios codicológicos2, tal como demuestran los problemas encontrados en el poema 7. Por lo tanto, mi propia lista de provenzalismos no podrá ser exhaustiva, ni tampoco podrá establecer con seguridad cuáles pertenecen a la lengua del poeta y cuáles a alteraciones introducidas más abajo en el stemma. Avanzo mis hipótesis provisionales siguiendo dos tipos de criterios organizativos poco fiables. Primero, me referiré brevemente a aquellas palabras que corresponden stricto sensu al registro lírico, por su contenido semántico. Luego, haré alguna observación sobre las formas morfológicas que son provenzales lato sensu, es decir, fácilmente reconocibles como pertenecientes a la koiné de finales del siglo XIV, principios del siglo XV: o dicho de otro modo, ya perceptibles en la lengua hablada (tanto en la Corona de Aragón como en los territorios del languedociano central) como arcaísmos. Con la excepción de una forma catalana como ‹assaig›, que incluyo porque se puede considerar un provenzalismo semántico en 5 de las 7 veces que se usa, las formas arma, bran, carch, ponya, presich, rictat y senblan no presentan ninguna confusión al identificarse como provenzalismos relacionados con el registro lírico. En algunos casos, la relación no es tan evidente, como en el caso de esper / desesper, pero de todos modos se puede decir que son formas más galorromanas que iberorromanas y por esto ejercen una función dentro del registro lírico de la koiné provenzal: Falta un estudio global de estos procesos referidos al catalán medieval; véase Blasco (1995); en cuanto al castellano el trabajo de Tuten (2003) es muy orientador.
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1) arma (9, 36), frec. 116; 2) assaig (prov. semántico) (9, 28)3; 3) bran (9, 15); 4) carch (9:21); 5) esper / desesper (8: 31); (40, 4); 6) ponya ( /ei/ > /e/ hubiera terminado. Según Fernández (1986: 191) se encuentra la forma glazi testimoniada en provenzal sólo en el siglo XIV, resultado de la asibilación en africada alveolar sonora /dz/ que se desafrica en fricativa alveolar sonora /z/ sólo a finales del siglo XIII. Alguien podría considerar la posibilidad de que la palabra no sea autóctona y de que se conociera en catalán literario poco antes de que la usase Llull. Por mi parte, prefiero ver en la evolución de la palabra una convergencia entre los diasistemas catalanes y occitanos durante el período de hibridación que creó la koiné desde la época de Raimon Vidal (c. 1200). March se distingue de sus contemporáneos en no representar la -C- intervocálica, en plaser que sólo aparece como error del copista, en el ms. L (1, 28). Este hecho es curioso, si se considera que se encuentra plaser aún en la prosa en fechas posteriores (p.e. en Tirant lo Blanc). La decisión de March de escribir la forma que hace tiempo era parte de la pronunciación habitual, debía conferir a sus versos un sabor de modernidad. Se supone entonces que los arcaísmos que persisten deben tener alguna función literaria especial que los hace imprescindibles. Poquísimos nombres concretos que señalan con metonimia estados emocionales se encuentran en formas no usuales para el lugar y la época, pero se encuentran los siguientes: pits (43, 10) (arc. o prov.) indeclinable, gorja (86, 233) (>gŭrge) y fayçons (102, 149). Habrá razones poéticas y estilísticas para su conservación, incluyendo la fuerza fónica de la palabra, Para las citas de March, he usado la concordancia de Di Girolamo (Bohigas), citando poema y verso; 17:16: car tot assaig se causa d’esperar; 18:23: Càstic no·m cal puys de assaig no ·m tempten; 34: 10: si bé l‘assaig he yo sperimentat; 59: 8: e tem l‘assaig ab la mort egualment. 4 Lectio facilior: riquesa (K) (síncope de riquetat, com segurtat). 5 ‹A mo talen volh mal, tan la dezire› (PC 70, 35, 25). 6 Cf. que ab hull cast denegue mon talent (15: 32); car no·m esforç per mostrar mon talent (19: 16); No cessarà lo meu egual talent (33: 17). 7 ‹Ab marrimenz angoissos et ab plor› (PC, 330, 1a, 1). Derivado postverbal de marrir (‹estar triste›), usado por Llull en Blaquerna, 42, 5, pero evidentemente un galicismo, ya que deriva del franco marrjan. Todas las citas de trovadores provienen del COM1 de Ricketts (2000). Las demás citas provienen del DCVB. 8 Usada para expresar el grito del lesionado al extraer la espada tras ser herido? 3
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la asociación registral, y posibles resonancias irónicas que puede evocar el poeta con su uso. Incluyo también la forma paor. Sólo aparece 14 veces (con dos grafías, con o sin h) frente a los 63 usos de la forma por, que reflejaría la pronunciación usual. Si incluyo esta voz arcaica es porque no se trata de una mera variante gráfica, ya que en todas las ocasiones en que aparece se pronuncian las dos sílabas. Alguien podrá ver en esto una necesidad métrica, aunque es importante constatar que en este caso, como mínimo, no se trata de una mera variante gráfica. También se podría considerar la hipótesis de que cierta variación formal sea necesaria para hacer caber la lengua dentro de la koiné, que depende de una cierta hibridación para poder funcionar a nivel literario. El afán de deleitarse en algunas palabras fáciles de entender, pero al mismo tiempo con más o menos variación sinonímica, diatópica o diastrática, debida a su procedencia literaria, se transparenta en los pocos provenzalismos que March escoge entre las muchas voces que usa para describir su entorno natural. Probablemente a su lectura de Peire Vidal se debe su aprecio de la forma ‹taur› (29,1) (DCVB = latinismo, pero la forma es corriente en prov. a.).9 Podemos añadir, siempre siguiendo la lista de Casanova, ganta y el galicismo flum (42, 4) (< flūmen), usado por autores que March leía, como Peire Cardenal.10 La vuelta a una metáfora sobre el poder energético del amor (‹Anar posc ses vestidura, / nutz en ma chamiza /, car fin’amors m’asegura / de la freja biza› [PC 70, 44, 13-16]) puede explicar en parte el uso marquiano de glaça (68, 3). Finalmente, como ha señalado Casanova, exill (r. perill) (59, 40) tiene que ser un provenzalismo grafiado a la catalana. Me pregunto si la presencia de la palatal lateral sonora /λ/ es una forma cruzada con el prov. eissilh , ya que la pronunciación usual parece ser con lateral velar /ł/ (graf. exil); aparte del diccionario de rimas de Jaume March, Ausiàs pudo inspirarse en versos de Arnau d’Erill, en los que se encuentra la misma rima perill / exill (Riquer 1961-2: vv. 150-152). El grupo de nombres comunes que ofrece más interés desde el punto de vista de la oblicua relación que mantiene el poeta con la tradición, son las designaciones sociales estilizadas, que se han convertido en nombres relacionales que conectan el ‹yo› lírico a todo un cosmos lírico-social. Las siguientes palabras, como aymia, couart, pillart o drut, tienen en común representar relaciones sociales, relacionados todos con la perspectiva del que trova. Todos ellos se presentan con una forma estilística, o registralmente, marcada pertenecientes por ende a la koiné. Aunque sean pocos, tienen una fuerza especial para escenificar el mundo social que March evoca. He contado un total de 11 formas de este tipo: 1) aymia (primera aparición: 2, 14; usado 7 veces); 2) couart (30, 2) ms. A: cohart; ms. E: coart; 3) pillart (4:55) (= sirviente); 4) drut (7, 4); 5) fenyt no reg. por el DLPAM. (1. sil. = fenher) (104, 261) (= fench, Levy) = ‹presuntuouso›; 6) mals parlés (5, 17) (< Prov. parlier; cf. fr. parleur);11 7) puncell (< Prov. piusel, pulsel, punsel, ‹virgen›) (17, 45: ‹Enaxí · n pren al hom Se encuentra ‹taur› en Peire Vidal: ‹Pus ubert ai mon thesaur› (PC 364, 38), canción copiada en el manuscrito de Miquel de la Tor. March tuvo copia del manuscrito (Careri 1991 : 354). 10 Es voz común al fr. y al prov. a. 2 (cf. 102, 137), que se encuentra en otra lectura preferida de March, Peire Cardenal: ‹e·l bateget en l’aigua, et flum, can fo propchatz› (P.C. 335, 64, v. 10). Ya que también se encuentra en catalán antiguo, es una cuestión abierta si se puede o no considerar un provenzalismo. 11 Riquer (1954, l. 17); y March (55:35); (75:67); (5:17).
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d’amor puncell›); 8) tastart (30,39) (Prov. testart; B: testart); 9) vaylet (68: 1); 10) re(s)clus (35, 35) (< *reclusu < recludĕre);12 11) volpell13 (usado como el prov. volpilh) (78, 43).
Con la excepción de aymia, cuya diftongación recuerda su formación en dialectos limítrofes con el francés, y drut, palabra técnica del sistema cortés clásico, la adopción de estas palabras por March significa una adopción por March, aunque limitada, de palabras literarias sobre equivalentes más comunes. Mals parlés, se puede considerar un catalanismo (quizá meramente gráfico); pero lo incluyo porque es decididamente una palabra perteneciente a la última fase de la koiné para substituir el término clásico ‹lausengier›. En todo caso, sería artificial imponer una clara diferenciación del léxico cortés en catalán y del léxico homónimo occitano. Como es sabido, raramente aparece en March un elemento morfológico diferencial occitano, aunque este sea sobrepuesto a una evolución fonética claramente catalana. En la casi totalidad de los casos se trata de un caso nominativo o recto formado sobre un nombre, adjetivo, participio o voz pasiva (que se declinaban como los adjetivos de la primera clase [Fernández 1986: 270]). En este grupo he contado 18 casos rectos, incluyendo dos formas posiblemente tratadas como indeclinables en posición oblicua (desherets i oblits). Caso sujeto o recto (CS): 1) acostats (14, 19) (r) (sing.); 2) anul·lats (r.) (46, 26) (sing.); 3) crescuts (7,19) (r) (sing.); 4) farts (43, 4) (CS, r) (sing.); 5) ignoscents (10, 43) (r) (sing.); 6) inichs (7: 28) (r. antichs en 65:39 y 106:235 [r.] con enemichs) (sing. en las tres ocasiones); 7) vitals letovaris (92, 54) > electuarium (CS)14 (sing.); 8) lleus (48, 20) (adj.) (CS) grafia ll suele representar /l/ (dental liquida lateral); cf. 108, 30 (sing.); 9) perduts (106, 175) (sing.); 10) prenints (22, 35) (CS) (sing.) (penre, con cambio de /e/ a /i/); 11) prous (7, 19) (sing.); 12) publicats (r) (5, 23) (sing.); 13) sobrats (r.) (46, 27); cf. sobrats (10, 4) (r.) (sing.); 14) sojorns (sing.) (11, 7) ( r); 15) tarts (43,1), adj. sing. r.;15 16) venguts (106, 280) (r.) (sing.); 17) desherets (indeclinable) (53, 17); 18) oblits (22, 3) (r.);16 19) munt (?) (31, 26) (CS plural?).17
Cf. ‹car resclos s’es en mig loch d’una landa› (PC 461 075a: 1-4) (p.p. de var. resclosir = resclaus, p. p. < *clausu, con la variante res- del prefijo re-); ‹m’a mes amors aman reclus› (PC 223,4, vv. 8-10); ‹anz viurai com lo reclus› (PC 421, 2 : 12-19). 13 ‹Midons c’a cor trop volpilh› (PC 389, 26, v.48) modernización del vocabulario; forma recomendada por el Diccionari de Rims es volpill (Griera). ‹Ez als volpels ab vergonya·ls manassa›, Jordi de Sant Jordi (Fratta V : 32) ; Lat. v. vulpeculu, dim. de vulpes (‹zorra, raposa›), uso figurado significando ‹cobarde›. 14 «Los sustantivos masculinos de la II clase pasan con frecuencia a la Clase I, tomando una -s morfemática en caso sujeto singular» (Fernández 1986: 254). 15 Lección dudosa, ya que faltan l. 1-8 del ms. Base (F), sigo la lección de P., que no es seguida por Bohigas, ya que como señala Archer (Apèndix, 173), estas lecciones «no estan documentades». 16 Si se trata de un singular, se trata de un error según el sistema clásico bicasual. Esta extraña construcción ‹metre en oblits› reaparece en la rima en 93: 52. Cabe la posibilidad de que se trate de un plural, pero desconozco la construcción. Oblitz es una de las palabras en -itz registradas por el diccionario de rimas de Jaume March. 17 El ms. E corrige el error en munts, y para salvar la rima, añade una -s a junt para crear un CS singular junts. 12
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La frecuencia de la declinación sigmática en la rima, por la relativa estabilidad de esta posición, hace que podamos aseverar con bastante seguridad que en la mayoría de los casos no debe hablarse de intervención del copista, sino de la lengua del autor. No se trata, por lo tanto, de una reacción a la koiné usada por poetas como Pere March, que también usaban formas catalanas, sino más bien de un proceso gradual de alejamiento del uso del occitano como base de la koiné (por muy catalanizado que fuera el occitano). Decir que Ausiàs March sólo usa el provenzalismo morfológico para la rima es una simplificación que si bien es válida en muchos casos, no siempre es cierta. Es significativo que March perciba como provenzalismo sólo el uso de la declinación sigmática en singular y en caso recto, argumento que apoya el argumento de que ‹munt› sea intervención del copista. Sólo he podido encontrar un caso régimen (41, 24), es decir, de un substantivo marcado como objeto directo, diferenciable de la forma usual catalana: occasios (r), cuya terminación con -n- inestable, es universalmente reconocida por los editores como provenzalismo resultante de las necesidades de la rima. Es más difícil determinar si las terminaciones sincopadas -ritat > -rtat: (120, 31: particulartat y 89, 48: segurtat (como rictat, arriba) deben algo a la influencia provenzal. Posiblemente, el aspecto más rico del léxico marquiano sean los verbos. Aquí la fuerza expresiva demuestra su gran capacidad para recoger formas diversas de distintos territorios de la Corona, además de la de oír y reproducir las formas locales. De fuente literaria, o por lo menos usadas con intención de evocar el contexto cortés, son formas septentrionales, provenzales y galorrománicas como: aydar (83, 3), desnaturar (114, 68), dexendre (= forma catalana del prov. deissendre) (30, 15); domdar (86, 178), endurar [prov. no por la forma sino por la carga semántica] (4, 56), enardir, gaymentar (‹lamentar›) (15, 35), lassar (‹cansar›, 86, 337), lonyar-se: ‹se lonya› (r. vergonya) (112, 134); perir (33, 23); sallir (prov. salhir) (17, 12), sofertar (17, 42), trompar (en el sentido de ‹equivocarse› (41, 20). También se encuentran algunas pocas formas arcaicas de la segunda persona plural del presente de indicativo en -ts, en la mayoría de las cuales parece entreverse la intervención del copista del ms. E, pero no en todas: pensats (E) (35, 20), sentats (r.) (109, 40); licenciats (2 p. pl) (61, 28); hoïts, hoïts (E); amats (r.) (19, 1); vehets (E) (19, 3) merits (23, 43) (E); mostrats (E) (19, 20); cuydets (E) (4, 17); pensats (E) (35, 20); sentats (r.) (109, 40); veurets, volrets (A) (17, endreça). Más significativas son las formas impersonales no conocidas en catalán o muy infrecuentes, pero asociadas ante todo con la koiné trovadoresca: eleix-me (14, 9) (elir, cf. Prov. elir, eslir). Es comparable con la forma pren-me (‹pendre›) usada como intransitiva e impersonal acompañada de la partícula adverbial ne ( vleke (la forma fletxa ya lo es (cf. prov. flècha); 2) naucher (104, 38) (nauxer). Grafías arcaizantes: 1) mateys; 2) mateys (pl.) (102, 210); 3) mateys (pl.) (90, 36); 4) mateys (73, 12); 5) mateys (dins si) (100, 26); 6) mateiys (B 104, 61); 7) aurella (102, 124); 8) ergull (74, 37); 9) (Prov. ergolh) (< germ. urgoli).
Si se eliminan de esta consideración las voces mencionadas más arriba, quedan sólo algunas cuestiones marginales. La variante gráfica de abteza del manuscrito G1 (Prov. apteza, var. G1: 32: 33), representa una grafía -z- en lugar de -s-; otra ocurrencia del mismo tipo se encuentra con vezell (100, 29) (>vascĕllum) (‹vaso, recipiente›) (mss. ADEG(H): vexell; cf. prov. vaisel). Menos seguras como grafías provenzalizantes son: duas naturas (104, 66), dada la confusión (no usual en Valencia) entre las aa y las ee en posición átona. Finalmente, vale la pena apuntar el caso curioso de tam (104, 269), que bien pudiera ser provenzalismo, pero parece más probable que sea una grafía fonética, quizá debida a la labialización de la /n/ por asimilación de la /b/ de la palabra que sigue: ‹tam bo› y por lo tanto no es provenzal.
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Entre los estilemas sintácticos que se toman directamente de los trovadores clásicos, se encuentra un conocido sabor a Arnaut Daniel con ‹ferm voler› (6, 14; 90:32) y ‹voler ferm› (102: 85; 71: 66); menos seguras son unidades como ‹be·m maravell› (11, 25; 90, 41), ya que debían formar parte de la lengua hablada; sin embargo, su uso como clichés fraseológicos o sintagmáticos nos induce a pensar que su empleo está marcado en el contexto lírico, y que el registro es de procedencia provenzal.18 También se podrían considerar estas frases como fosilizaciones. Un caso evidente sería ulls clucs (38: 37); unidad que ha quedado viva en la lengua hablada de hoy, pero que a la vez se usa en provenzal (Levy) y por lo tanto se podría tratar de una fosilización de la locución en ambas lenguas. Este trabajo no pretende argumentar que la lengua de March sea una lengua rebuscada, ni deliberadamente literaria. Todo lo contrario, la escasez de ejemplos que hemos encontrado sugiere más bien la conclusión opuesta, y nos permite afirmar que, en cuanto al uso de provenzalismos, March es sin duda alguna un modernizador. Sin embargo, existe una via media, que, como hipótesis, merece la pena investigar, y es la posibilidad de que March, como artesano de la palabra, no quisiera abandonar por completo la riqueza léxica de sus predecesores. El modo de mantener el necesario sabor de la lengua curial, sin perder la comprensión de una nueva generación de oyentes cada vez más alejada del mundo trovadoresco antiguo, es el de preservar colocaciones antiguas, feudales o trovadorescas, poco importa, allí cuando su forma es casi homónima a las formas provenzales, o de muy fácil comprensión por un público no muy letrado. Dentro de esta categoría caben: ferm bram (64:4); juntes mans (75:4); trista ’ncontrada (108, 72); delitós languiment (39, 28);19 prim voler (40,16);20 ris o plor (doblete antonimico) (54, 38).21 Estos ejemplos, muy banales, pueden considerarse pertinentes sólo en la medida que representan formas accesibles: March, considerado por muchos un autor difícil, curiosamente insiste en usar estilemas de fácil sabor provenzal. Lo hace, en mi opinión, porque no es consciente de romper con la lengua literaria vigente. En el poema 10, ‹Lonch temps Amor per enemich lo sent› (v. 17), la expresión adverbial ‹lonch temps› usada sin preposición, podría bien considerarse un occitanismo, o un arcaísmo, ya que deriva del hecho de no ser siempre «preceptivo el empleo de preposición acompañando al caso oblicuo» (Fernández 1986: 249). En el resto de los casos, March usa la preposición ‹de, per, en›, o hace que la expresión se integre dentro de un sintagma verbal dependiendo de haber o ser, dentro o no de una subordinada. Comparable es el uso de null temps (7:24): ‹tal que no creu null temps sien amichs›, cuando normalmente le precede la preposición per i alguna vez ‹en›. A veces usa las dos a la vez como refuerzo coloquial: ‹lo contraffer en per null temps no fon› (47: 12); ‹e tal voler en per null temps se canssa› (45: 52). Si, como podría ser, se tratara de un error de lengua, y no remonta al autor, la tradición manuscrita es deficiente en estos lugares. Los siguientes casos dudosos probablemente no pertenezcan a la clase de palabras que podrían ser préstamos: malauyrat (13, 14) (prov. malaürat); percebesch (44: 16)22 (cf. recebre Cf. Gilabert de Próixita: ‹Be·m maravelh com no·s volen ardir› (Riquer 1954, l. 17). /λangiment/ cf. prov. languimen (‹per languimen e per tristor› [PC 319.8,47]) < languere, cat. llanguiment. 20 Cf. ‹cui encobit al prim vezer› (PC 29,18, 5). 21 Cf. ‹q’ieu non vuoill son ris ni son plor› (PC 392, 23, v. 27); el doblete como antonimia verbal ‹rizén plor› (Fratta XV: 19). 22 Forma esperada de percebre, percep, así que indica un infinitivo en -ir (con analogía con verbos que 18 19
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v. rebre [91, 16]; rana = coix (91, 60); marsit (91: 60) (marcir > marcere); anar d’escolt (38: 31). Aunque aceptáramos, con Meyer-Lubke, el esencial galorromanismo del catalán, por lo menos desde el siglo VIII hasta el siglo XV, estas dudas, que en algunos casos tienen que ver con un estado ulterior de la evolución compartida como es el caso rebre, o tocan el campo de la dialectología (en el caso de rana), lejos de esclarecer la relación histórica entre las variantes del occitano y del catalán, sugieren, al contrario, la necesidad de una indagación más sistemática. Los apuntes que he ofrecido aquí no son más que una introducción a un tema amplio y complejo. March pasó por un largo aprendizaje escribiendo su obra juvenil en provenzal, y estos ejercicios se han perdido. Sin embargo, la tradición manuscrita cancioneril conserva rasgos de esta época. La presencia escasa de provenzalismos en la obra de March no tiene que interpretarse como un rechazo de la tradición anterior, sino más bien como una continuación más o menos inconsciente. March es el último representante de la tradición que considera el lemosí de Raimon Vidal y sus sucesores la lengua de la expresión poética. Decir que March rompió conscientemente con este esquema es seguramente una simplificación no justificada muy claramente por la realidad. Por las razones antepuestas, no es fácil llegar a conclusiones definitivas. Tengo que limitarme provisionalmente a una simple opinión basada en un estudio inicial, ya que no tengo suficientes datos para llegar a conclusiones irrefutables. El ejemplo dado al principio de la versión del manuscrito A del poema 7, demuestra que la poesía de March encaja en una colección de obras consistoriales o corteses. En efecto, las razones para la gradual victoria de variantes marcadas como catalanas sobre las marcadas como provenzalizantes acabó, precisamente con March, con la casi completa autonomía del catalán literario como lengua poética (aunque sospecho que esta conclusión puede ser por lo menos en parte anacrónica); no obstante, creo lícito reafirmar que por poco o mucho que cambiara la lengua poética marquiana en relación a sus modelos, por su fácil comprensión al norte de los pirineos, y también por sus vínculos históricos, continuaba formando parte principal de la vieja koiné;23 este sentimiento estético de pertenencia a un área lingüístico cultural que podemos afirmar que incluye la Corona de Aragón de hablas catalanas como parte de un diasistema occitano más amplio. Nunca se extinguió el papel del provenzal literario en March. Para confirmar esta hipótesis, hacen falta estudios detallados de las scriptae de códices individuales, trabajo que quizá ayudará a dar más luz a las deficiencias de la tradición manuscrita. Como ha explicado J. Turró, el cambio de dinastía fue un factor decisivo en la pérdida de la koiné (Turró 2000).24 Una observación extralingüística no puede explicar por sí sola los fenómenos internos del lenguaje, pero sí podemos esperar que ayude en el futuro a clarificar ciertos aspectos sociolingüísticos que hasta hoy siguen sin explicación. Como, por ejemplo, la consciencia que puede tener un autor de la necesidad (o no) de hibridizar lingüísticamente y los efectos que este proceso tiene para el desarrollo o la fosilización (pero también la cohesión) de una lengua literaria determinada. De todos modos, lo que es sorprendente es que la poesía trovadoresca en tienen conjugaciones fuertes y incoativas), percibir; el uso reflexivo de este verbo para significar ‹avisarse› podría indicar que se trata de un prov. (Levy), como indicó Pagès (1925). 23 Charles Camproux: «La langue de Ramon Llull et même celle d’Auzias March, qui renie cependant l’estil dels Trobadors, sont plus proches de l’occitan classique que du catalan moderne officiellement rénové à Barcelone» (1971: 16). 24 Consideraciones útiles en Cabré / Turró (2001). Sobre la circulación de manuscritos, véase Cabré / Martí / Navàs (2009).
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Cataluña haya sobrevivido durante dos siglos tras su desaparición al norte de los Pirineos. Si March es considerado como el último gran poeta de esta tradición –en lugar del primer poeta de una nueva tradición, posición que encuentro anacrónica–, al darle más valor a la aportación de March a la lengua de los trovadores contribuimos a la vez a salvar del menosprecio lingüístico a otros poetas menores o grandes como Andreu Febrer, Gilabert de Próixita, Jordi de Sant Jordi que cultivaron el idioma poético catalanoprovenzal que aparentemente está tan mal visto por algunos puristas modernos que lo consideran una lengua artificial. Cabe preguntarnos si no fue más que un intento de mantener la unidad de una lengua literaria, una que como observó Milá y Fontanals (1889: 50-51), hubiera sido también la lengua de un pueblo, si factores extralingüísticos no hubieran intervenido. Este trabajo no ha ofrecido una lista completa de los provenzalismos, como quizá pudiera insinuar el título. El objetivo ha sido estimular la discusión entre aquéllos que conocen mejor este tema y dar sólo un testimonio más de la necesidad de promocionar los estudios codicológicos y lingüísticos en este campo con el fin de poder analizar la cuestión en el futuro de modo más sistemático. Finalmente, faltaba una palabra entre las mencionadas. Una palabra que, como mostró Pagès y ha estudiado en detalle Germà Colón, proviene por evolución fonética natural del nombre de un casto santo provenzal en cuya memoria bautizó Pere March a su único heredero que sobreviviría al azaroso y peligroso siglo XV: Auziàs (104, 88), evolución natural del prov. Alzeas (< Eleazar).
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Alicja Kacprzak (Université de Łódź)
De la variation diasystémique et de ses fonctions dans la nosologie du XVIIIe siècle
Cet article s’inscrit dans un courant relativement nouveau des études diachroniques en terminologie(s) spécialisée(s). En effet, traditionnellement, depuis Eugen Wüster et l’École de Vienne, la recherche dans le domaine des langues spécialisées avait pour objet essentiel l’efficacité et l’utilité actuelles des termes. En même temps, elle se désintéressait amplement des états précédents des appellations scientifiques ou techniques. Pascaline Dury et Aurélie Picton (2009: 32) rappellent que ce point de vue s’inscrit essentiellement dans la VGTT (Vienna Général Theory of Terminology formulée par Wüster en 1931), n’envisageant aucune approche diachronique de la terminologie et qu’elle trouve par ailleurs sa continuation dans la TGT (Théorie générale de la terminologie) d’INFOTERM, qui, tout comme la première, n’adopte qu’une perspective purement synchronique. Dury et Picton insistent sur le fait qu’une autre raison encore n’a pas été favorable pour la recherche diachronique en terminologie, à savoir la difficulté de constitution de corpus valable. Cette dernière raison semble cependant relative, car l’accessibilité des sources terminologiques reste intimement liée aux domaines étudiés, parmi lesquels certains offrent plus de possibilités que d’autres. C’est le cas notamment de la médicine qui, de part son statut tout à fait exceptionnel d’une activité séculaire a toujours appartenu tant à des professionnels (médecins) qu’à des non-professionnels (patients), et dont les écrits, (non seulement des compendiums médicaux, des dictionnaires, des manuels, mais aussi des mémoires et autres) constituent un champ d’analyse inépuisable. L’un des rares auteurs évoquant l’évolution de la terminologie médicale depuis le Moyen Âge jusqu’au XXe siècle, Joseph Ghazi (1985), constate que celle-là a connu un essort tout particulier au Siècle des Lumières. En effet, cette époque aussi propice à la découverte scientifique a favorisé d’une manière évidente aussi la description et la systématisation des données, grâce entre autres à Buffon qui avait lancé dès 1749 dans son Histoire naturelle, générale et particulière, avec la description du Cabinet du Roy l’idée de constituer des nomenclatures comprises comme des ensembles finis d’objets nommés sans ambiguïté et rangés dans un système hiérarchique. L’écho de son appel se fait entendre avec le travail de François Boissier de Sauvages de Lacroix, médecin et botaniste français, qui entreprend de son côté la tâche de systématiser les maladies, malgré les typologies déjà existantes. Inspiré de l’oeuvre de Carl von Linné, il publie en 17721, les résultats de son travail dans la Nosologie méthodique de distribution des maladies en classes, en genres et en espèces suivant l’esprit de Sydenham et la méthode des botanistes. Boissier de Sauvages y propose une typologie de 2400 maladies, «à partir des signes qui viennent des symptômes», La Nosologie de Boissier de Sauvages a été traduite en français après la publication de la première version en latin en 1763.
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en leur attribuant une hiérarchie particulière à partir des phénomènes les plus généraux vers les phénomènes les plus spécifiques. Le groupement de pathologies en Classes, Ordres, Genres et Espèces ne serait pas possible sans leur description adéquate et leur qualification juste. Cet immense ouvrage, qui est aussi celui d’«aménagement terminologique» de l’époque, donne lieu plus d’une fois à des considérations liées à la variation diasystémique du vocabulaire médical. Sur les pages de dix tomes de la Nosologie, dans sa présentation des maladies, Boissier a en effet très souvent recours à une énumération de termes se rapportant au même phénomène pathologique. Cette prolifération de synonymes terminologiques dans la nosologie est d’ailleurs condamnée par Boissier de Sauvages lui-même qui souligne dans l’Introduction: «Un seul nom suffit pour exprimer une idée, par conséquent il est inutile de donner plusieurs noms à la même chose» (1772, I: 148). L’affirmation du savant qui constitue sans doute une preuve de sa sensibilité ‹variationniste› est ainsi niée par sa pratique du nomenclateur. Cela permet de supposer un rôle spécial de la synonymie dans l’œuvre de Boissier en particulier et dans le vocabulaire médical de l’époque en général. Quelle est donc la fonction de ce foisonnement synonymique dans la terminologie médicale du XVIIIe siècle? Pour répondre à cette question, notre analyse qui prend en considération essentiellement la Nosologie de Boissier de Sauvages utilisera aussi comme référence d’autres dictionnaires et ouvrages de l’époque, notamment le Nouveau dictionnaire François de Pierre Richelet publié en 1680, le Dictionnaire historique et critique de Pierre Bayle, paru en 1715, L’art de bien parler françois écrit et publié en 1760 par Nicolas de la Touche, ainsi que le Dictionnaire des sciences médicales de Charles-Louis-Fleury Panckoucke de 1820, puis aussi les Souvenirs de la fin du XVIII siècle et du commencement du XIX, ou, Mémoires de R.D.G. de René Desgenettes du 1836. Pour un regard comparatif, le recours a été fait aussi à l’ouvrage d’Ambroise Paré, Dix livres de la chirurgie: avec le magasin des instruments nécessaires à icelle, paru en 1564. Parmi différentes définitions du terme ‹variation›, nous adoptons celle du TLFI qui le présente comme «propriété d’un système linguistique de présenter des différences d’une part entre des états successifs (variation historique) et d’autre part des emplois dus à la localisations géographique, des emplois sociaux, institutionnels ou situationnels». Cette définition, formulée sans doute pour se rapporter au système linguistique d’une seule langue ethnique, doit être dans le cas de la présente étude précisée. En effet, le système de la terminologie médicale utilisée en France du XVIIIe siècle en général et présentée par Boissier dans sa Nosologie contient aussi bien des termes français ou seulement francisés que des termes grecs, latins ou gréco-latins, ainsi que des termes venant d’autres langues ou dialectes. En voici l’exemple de deux entrées, Lassitudo et Rheumatismus acutus: Lassitudo, Lassitude; en grec, Copos; en Anglois, Weariness; en Italien, Strachezza; en Espagnol, Cansancio. Rheumatismus acutus; Rhumatism chaud. Rheumatismus de Sydenham (…) appellé par quelques-uns atrhritis vaga; goutte vague.2
Comme on le constate, chaque entrée est constituée par un terme gréco-latin, suivi en général des équivalents, souvent avec l’indication précisant les valeurs particulières Pour chacune des citations l’orthographe est conforme à celle des textes originaux.
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concernant leur origine ou leur usage. Selon ce point de vue, dans la nosologie, deux cas généraux de variation peuvent être distingués: celui de variation interlinguale et celui de variation intralinguale. Dans le premier, les termes énumérés comme équivalents à côté de terme savant gréco-latin sont soit des termes français, soit francisés, soit encore des termes venant d’autres langues modernes, soit des termes venant d’autres langues et dialectes du territoire français. La situation la plus typique dans l’œuvre de Boissier est celle où l’auteur fait précèder le terme français de son antécédent savant. Un bon exemple en est constitué par la définition qu’il propose de la Classe III, en plaçant d’abord le terme utilisé par les anciens, puis, celui utilisé en France de XVIIIe siècle: Ces maladies sont appelées Phlegmasies par Gallien et Hipocrates, et par les Français les Maladies inflammatoires, Fièvres inflammatoires (1772, II: 5).
La distinction entre les termes donnés par les anciens et les termes français est plus qu’interlinguale, car il semble qu’elle s’accompagne parfois d’un sentiment de l’imperfection du français, langue vulgaire, comme dans l’exemple provenant du tome I et concernant la distinction faite entre les termes phyma et tumeurs: Les Phyma, auxquels on donne vulgairement le nom de tumeurs, sont des protubérances notables (1772, I:491).
Souvent, Boissier signale d’abord les noms savants et les fait accompagner ensuite de leurs équivalents francisés, qu’il ressent peut-être comme moins ‹vulgaires›. Tel est le cas des termes se rapportant aux maux de tête et leurs espèces dans le tome VI: «Cephalalgia febrilis. Céphalalgie fébrile» (1772, VI: 158), puis «Cephalalgia pulsatilis. Céphalalgie pulsative» (1772, VI: 160), plus loin «Cephalalgia intermittens. Céphalagie intermittente» (1772, VI: 161).
Parfois cependant, la forme savante s’accompagne d’une traduction littérale, voire d’un calque, comme dans le cas de: Cephalalgia gravidarum. Maux de tête des femmes enceintes (1772, VI : 162).
Il faut souligner que les équivalences relevant du latin médical, ou directement du grec, qui fourmillent dans le texte de Boissier, ne sont systématiques que dans le cas des Genres, et qu’elles sont très fréquentes en ce qui concerne les Espèces. Par contre, les noms de Classes, dans la majorité français ou francisés (Vices, Fièvres, Essoufflements, Débilités, Douleurs, Folies, Spasmes, Flux Phlégmasies, Cachexies) ne sont pas accompagnés de leurs équivalents classiques. Pour les noms d’Ordres, l’usage de Boissier est variable. Dans certains cas, ils ne sont appelés que par des noms français, par exemple la Classe de Fièvres comporte des Ordres suivants: Continues, Rémittentes et Intermittentes. Les noms d’Ordres sont parfois francisés, comme dans la Classe de Vices qui comporte entre autres l’Ordre d’Ectopies. Un autre type d’équivalence interlinguale se base sur l’emploi des termes appartenant à d’autres langues modernes, surtout l’anglais, l’espagnol, l’allemand, mais aussi le suédois, le polonais, etc. Ainsi par exemple le nom du genre Trichoma est accompagné d’une
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longue liste de termes appartenant à différentes langues modernes, tels Koltun, Koltek en polonais, Coledon & Gods en anglais, et Wicgiel-zopff en allemand (1772, X: 324). Dans la présentation de l’Ordre IV de la Classe VI (Douleurs) figurant dans le texte comme «Catarrhus. Caterre. Catarrhe», Boissier précise entre autres: «appelé par les Italiens Infreddatura; par les Espagnols, Romadizo» (1772, VI: 105). D’habitude d’ailleurs, le nom français de la pathologie s’accompagne à la fois de son équivalent en langue classique et de celui en langue(s) moderne(s), comme dans le cas de l’entrée concernant une sorte de colique. Boissier écrit, en énumérant à côté du nom latin, plusieurs dénominations françaises et une anglaise, en en donnant une explication supplémentaire: Rachialgia mettalica; Coliques des Peintres, de plomb, des Potiers, des Barbouilleurs, etc. (…). Mil-reech en Anglois, c’est-à-dire, vapeur qui s’élève des moulins (1772, VI: 429)
La catégorie d’équivalences interlinguales comporte aussi celles qui relèvent d’autres langues et dialectes du territoire français. Sans doute les origines de Boissier de Sauvages né à Montpellier favorisaient l’apparition dans son œuvre de nombreux termes languedociens. C’est notamment en décrivant un certain type de symptôme qu’il caractérise comme «une chaleur & rougeur passagere du visage, du cou, etc. qui ne dure gueres qu’un quart d’heure, & qui se termine quelquefois par une sueur copieuse», et en lui attribuant les noms latins de Ardor volaticus, vulgo oestus volaticus, puis l’appellation française de flammes du visage passageres, qu’il ajoute «appellées (...) Flamboises par les Languedociens» (1772, VI: 147). Un autre exemple en est constitué par l’entrée Anthrax tarantatus dans le tome I de la Nosologie, que Boissier fait accompagner par la périphrase «appelé malvat par les Languedociens» (1772, I: 527). Parfois, le languedocien est désigné par une paraphrase pittoresque, «langage du pays», pour le faire distinguer du français, comme dans le cas de l’entrée de Stupor à gelu, expliquée comme suit: Stupor à gelu; en langage du pays, Crepi; en François, l’Onglée. C’est cette espece qui affecte les extrémités des doigts des mains des pieds, lorsqu’il fait extrêmement froid (1772, VI: 129).
Dans le cas du phénomène pathologique portant le nom d’origine grecque pyrosis, Boissier propose comme nom standard l’appellation languedocienne de crémason, en ajoutant ensuite la dénomination utilisées par les Lyonnais, gorgosset. Il cherche aussi une explication de la dénomination occitane («parce que l’estomac est en feu») et évoque aussi l’étymologie du nom grec («de pyr, feu»). Pyrosis. Crémason. C’est une maladie dont le principal symptôme est une chaleur excessive dans le ventricule et l’œsophage sans aucune fièvre aiguë. (…), Les Lyonnais [l’appellent] gorgosset, Les Languedociens crémason, parce que l’estomac est en feu. Les Grecs pyrosis, de pyr, feu. (1772, VI: 266)
Il semble d’ailleurs que le nom languedocien ne se soit jamais enraciné dans la terminologie médicale française, car déjà cinquante ans plus tard, en 1820, Charles-LouisFleury Panckoucke note dans son Dictionnaire des sciences médicales: les Allemands désignent la sensation de chaleur à l’estomac sous les noms de sod, sood, de soot, sodt brennen, magen soodt; ce qui équivaut aux mots chaleur, ardeur de l’estomac. Il est à
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présumer que l’on aura confondu ces expressions avec l’arabe soda, qui ne convient nullement à l’affection dont il est ici question. Les Italiens la nomment incondito; les Languedociens, cremason; les Lyonnais, gorgosset; mais toutes ces dénominations ont fait place à celle de pyrosis (1820: 45)
Une anecdote intéressante qui montre la méconnaissance du terme en question en français médical de l’époque est évoquée dans les mémoires de René Desgenettes publiés en 1836 sous le titre de Souvenirs de la fin du XVIII siècle et du commencement du XIX, ou, Mémoires de R.D.G: Quand nous fûmes à Bagnols, petite ville qu’il ne faut pas confondre avec le village de BagnollesBains, mon compagnon de voyage me dit qu’il éprouvait un violent assaut de fer chaud, ou, comme l’on dit en patois languedocien, de Cremason... Et voilà que moi, docteur en médecine, je ne savais pas ce qu’il fallait entendre par le fer chaud et lou Cremason... Soupçonnant que je pouvais cependant, sous des noms moins vulgaires, connaître cette maladie, je priai M. Aragon d’avoir la bonté de me dire ce qu’il éprouvait. Cette maladie, me dit-il, monsieur, à laquelle je suis sujet surtout en voyage, et à laquelle j’oppose avec succès des absorbants, tels que la magnésie, me fait éprouver, et je ressens dans ce moment, une sensation brûlante qui de la région ou creux de l’estomac se propage et se porte jusqu’à la gorge, où elle me fait éprouver l’impression d’un fer brûlant. Nous y voilà, monsieur, dis-je à mon tour, je connais fort bien votre maladie que nous appelons, nous autres médecins, pjrosis.(1836: 66)
Pour ce qui est de la variation que nous qualifierons d’intralinguale, elle englobe à son tour trois cas, à savoir ceux de l’équivalence chronologique, sociale et institutionnelle. La première, chronologique, englobe des situations où un terme reçoit une qualification le désignant comme vieilli. Un cas intéressant en est constitué par une paire de termes caterre et catarre (avec la graphie variable). On en retrouve un exemple dans un dictionnaire de l’époque, L’art de bien parler françois: qui comprend tout ce qui regarde la grammaire, et les façons de parler douteuses, publié en 1760 à Amsterdam et à Leipzig, où dans le volume 2, les noms de Caterre et Catarre sont évoqués, avec cette remarque: Caterre,Catarre. Catarre a entièrement vieilli. Ménage. L’Académie dit sur ce mot, que quelquesuns écrivent & prononcent caterre. Il paroît qu’elle préfére caterre. Cependant je croi le premier beaucoup meilleur (1760: 93).
La confirmation de ce point de vue se trouve dans le Nouveau dictionnaire françois de Pierre Richelet, publié en 1694: Caterre, catarre, s.m, catarre commence à vieillir. C’est une fluxion des humeurs de la tête sur quelques parties du corps (1694: 187)
De même, le Dictionnaire historique et critique de Pierre Bayle dans l’entrée présentant la
vie de Jacques Reihing (professeur de théologie à Tübingen) rapporte:
Il devient hydrophique la sixième année de la conversion et fut suffoqué d’un caterre quelque temps après (1715: 406).
Boissier de Sauvages ne commente pas cette distinction quant à lui, même s’il évoque les deux formes. L’Ordre IV de la Classe VI dans la Nosologie est constitué par un ensemble de
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pathologies auquel il attribue un nom savant commun, Catarrhus. Il y ajoute des variantes françaises Caterre et Catarrhe, puis aussi, Fluxion, Défluxion et Distillation, mais sans se prononcer sur la chronologie de leur apparition dans le vocabulaire médical. Et d’une manière générale, le savant évite ce type de distinctions dans son livre, pourtant connues dans d’autres nomenclatures et taxinomies où l’on connaît la notion de synonyme plus ancien (‹senior synonym› en anglais) et de synonyme plus récent (‹junior synonym› en anglais). D’ailleurs d’autres dictionnaires médicaux de l’époque y ont souvent recours, comme le fait notamment le Dictionnaire de Hélian, publié un an auparavant: Anémie: maladie qu’on peut regarder comme épuisement des vaisseaux sanguins et dont on n’a presque aucune mention, syn. chlorose, anc. pâles couleurs (1771: 4)
Par contre, les équivalences sociales semblent tenir plus à coeur de Boissier de Sauvages qui à côté des termes qu’il considère comme officiels cite parfois d’autres qu’il définit comme populaires. Tel est le cas de Carcinome et Cancer, deux appellations ressenties probablement comme officielles, l’une étant savante grecque et l’autre française d’origine latine. Boissier les complète par la troisième, appartenant au ‹bas peuple›, car selon la croyance populaire «ce mal s’aigrit comme le charbon, lorsqu’on le nomme par son nom, et de là vient qu’on ne le nomme point, ou qu’on le nomme simplement le Méchant» (1772, IX: 528). Il est à noter que dans certains articles de son livre, le syntagme ‹vulgairement appelée› semble avoir le même statut que ‹populaire›, ce que l’on voit par exemple dans le passage se rapportant au rhumatisme dans le tome VI, où le nom savant est suivie du nom français et ensuite d’une appellation dite ‹vulgaire›: Rheumatismus fugax, courbature, vulgairement appelée douleurs rhumatiques. Rheumatismus vulgaris, rhumatisme simple chronique, appelé vulgairement douleurs rhumatismales. (1772, VI: 106 -108)
Cependant, la différenciation diastratique n’est pas toujours clairement annoncée, ni nommée dans son oeuvre. Prenons comme exemple le genre de gonorrhée qui est divisé par Boissier en plusieurs espèces, parmi lesquelles il note celle de «gonorrhoea syphilitica ou chaude pisse ou gonorrhée virulente» qui «est celle qu’on contracte par un commerce impur» (1772, VIII: 431). Notons que parmi les trois dénominations citées, l’une, gonorrhoea syphilitica, a une forme gréco-latine, l’autre, gonorrhée virulente, présente la forme francisée, la troisième, chaude pisse, est sans doute une appellation populaire. On connaît l’existence de cette variante déjà dans l’ouvrage de Charles de Barbeyrac, Traitez nouveaux de médecine, publié en 1684, dans lequel l’un des chapitres est intitulé De la gonorée virulente ou de la chaude-pisse, mais aussi chez Ambroise Paré, qui écrit en 1564 dans le paragraphe traîtant Des chaudes-pisses et carnositez engendres au meat urinal: Aucuns ont iusques icy pensé que la Chaude-pisse eust quelque chose de commun avec la Gonorrhee des anciens: mais elles sont fort differentes l’une de l’autre(…). Car la gonorrhee est un flux de semence involuntaire, decoulant de toutes les parties de corps aux parties genitalles (…). Au contraire, la Chaude-pisse, ou ardeur d’urine, est une sanie qui sort par la verge (…) avec douleur. (1564: 132)
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Cependant les équivalence les plus courantes dans l’oeuvre de Boissier sont celles qui concernent les emplois que l’on pourrait qualifier comme ‹institutionnels›, en ce sens qu’ils relèvent de différents auteurs, voire ‹écoles›. Il est en effet systématique que les articles comportent à côté d’une entrée savante toute une énumération de termes équivalents, utilisés par différents savants médecins depuis l’Antiquité jusqu’au XVIIIe siècle. C’est à tort que l’on parlerait dans ce cas de la variation chronologique; en effet, les dénominations en cause ont sans doute eu un fonctionnement quasi simultané pendant des siècles et ont été utilisées selon la préférence ponctuelle portée pour tel au autre «école». Ainsi, dans l’article consacré à Ophtalmia, Boissier indique: Ophtalmia; Lippitudo, Celsi; Pituita, Horatii; Ophtalmoponia, Heisteri; Oculorum inflammatio, Dolor oculorum, Sennerti; en François, Ophtalmie, mal aux yeux.
En évoquant d’abord le nom classique de la maladie, Ophtalmia, et le nom francisé (qu’il donne pour ‹françois›), Ophtalmie, Bossier cite en plus les noms utilisés par Celsus (Ier siècle avant J.-C. / Ier après J.-C), Sennertus (XVIIe siècle) et Heisterius (Lorenz Heister, XVIIe/ XVIIIe siècles). Ce type de description qui est très fréquente dans le livre de Boissier résulte avant tout du fait que des auteurs différents, dans la tentative de systématiser des phénomènes pathologiques ont créé des noms de leur invention pour désigner le même objet, sans avoir la connaissance des travaux d’autres auteurs à ce même sujet. Les références aux auteurs sont d’ailleurs variées selon le phénomène présenté. L’entrée Cephalalgia en comporte d’autres, celles de Jean de Gorris, de Giorgio Baglivi, d’Hippocrate, de Hoffman et de Sennert: Cephalalgia, Mal à la tête; Carebaria, Gorraei, definit. Med. Gravedo capitis, du même; Capiplenium, Baglivi: Ecplexis, Hippocrate: Etourdissement; Douleur céphalique, de Fréd. Hoffman; Douleur de tête, de Sennert.
Quelles sont les raisons de cette prolifération des équivalences dans l’oeuvre de Boissier et au XVIIIe siècle en général? Sans doute, traduisent-ils d’abord une grande encore instabilité terminologique de l’époque. Celle-ci est tout d’abord due aux statut toujours spécial des termes gréco-latins, inévitables dans les sciences médicales, et puis aussi à celui des termes français, considérés comme moins scientifiques, en un mot, vulgaires. Une autre cause de cette polynomie dans la terminologie médicale de l’époque résulte d’une volonté d’aménagement terminologique de la part de Boissier de Sauvages. Toute une liste de prescriptions, relatives à différentes valeurs de termes (formelles, stylistiques, sémantiques), est contenue dans la préface de son œuvre. Notamment, selon l’auteur, les noms simples sont préférables aux complexes, comme hérotomanie à amour extravaguant. Il appelle aussi à éviter ‹des mots courants› (ainsi le terme fureur utérine doit-il être remplacé par celui de nymphomanie, et faim de boeuf par boulimie). ‹Des de mots barbares, ni grecs ni latins› sont aussi proscrits, ainsi le terme nostalgie semble-t-il meilleur que heimweh. Du point de vue de sens, sont à éviter aussi des noms ‹qui répugnent à la vérité›, comme celui de frayeur nocturne qui devrait être remplacé par panophobie (car cette angoisse maladive peut avoir lieu à n’importe quelle heure), ou comme celui de Morbus Virgineus qui n’atteint pas que les jeunes filles et de ce fait on lui préférerait le nom autrement évocateur, chlorose. L’abondance des équivalences citées par Boissier remplit certainement quelques fonctions importantes, parmi lesquelles évoquons surtout ses valeurs informative, didactique et
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expressive. La première, informative, consiste sans doute à utiliser simultanément plusieurs termes se rapportant au même phénomène, selon l’usager et son origine, ses compétences, son niveau. La deuxième, didactique, s’explique par le fait de faciliter la transmission du savoir médical par le recours à un éventail d’appellations évoluant à travers des âges. La troisième, expressive, s’exprime dans le choix entre les formes plus ou moins évocatrices, selon les besoins. Il ne faut pas oublier non plus que cette polynomie médicale dans l’œuvre de Bossier, mais aussi dans d’autres ouvrages médicaux de l’époque, devait sans doute servir de marque d’autorité pour leurs auteurs.
Bibliographie Bayle, Pierre (1715): Dictionnaire historique et critique. Volume 2. Genève: Fabri et Barrillot. Barbeyrac, Charles de (1684): Traités nouveaux de medecine, contenans les maladies de la poitrine, les maladies de femmes, & quelques autres maladies particuliers selon les nouvelles opinions. Lyon: Jean Certe. Boissier de Sauvages de Lacroix, François (1772): Nosologie méthodique de distribution des maladies en classes, en genres et en espèces suivant l’esprit de Sydenham et la méthode des botanistes. Lyon: Jean-Marie Bruyset, Imprimeur-Libraire. Cabré, Maria Teresa (1998): La terminologie. Théorie, méthode et applications. Ottawa: Les Presses de l’Université d’Ottawa. De la Touche, Nicolas (1760): L’art de bien parler françois: qui comprend tout ce qui regarde la grammaire, et les façons de parler douteuses, vol. 2, Amsterdam / Lepizig: Arkstee & Merkus. Desgenettes, René (1836): Souvenirs de la fin du XVIII siècle et du commencement du XIX, ou, Mémoires de R.D.G. Paris: Firmin Didot Frères. Dury, Pascaline / Picton, Aurélie (2009): Terminologie et diachronie: vers une réconciliation théorique et méthodologique? In: Revue française de linguistique appliquée 14, 2, 31-41. Ghazi, Joseph (1985): Vocabulaire du discours médical. Paris: Didier Erudition, Collection Linguistique. Hélian (1771): Dictionnaire du diagnostic, ou l’art de connoître les maladies, et de les distinguer exactement les unes des autres. Paris: Vincent. Kacprzak, Alicja (2008): Une nomenclature du XVIIIe siècle: les mots de la médecine dans l’oeuvre de François Boissier de Sauvages. In: Bogacki, Krzysztof / Cholewa, Joanna / Rozumko Agata (edd.): Methods of lexical analysis: theoretical assumptions and practical applications, Białystok: Wydawnictwo Uniwersytetu w Białymstoku. –– (2000): Terminologie médicale française et polonaise - analyse formelle et sémantique. Łódź: Wydawnictwo Uniwersytetu Łódzkiego. Panckoucke, Charles-Louis-Fleury (1820): Dictionnaire des sciences médicales. Paris: C. L. F. Panckoucke. Paré, Ambroise (1564): Dix livres de la chirurgie: avec le magasin des instruments nécessaires à icelle. Paris: Jean Le Royer. Richelet, Pierre (1694): Nouveau dictionnaire françois: contenant généralement tous les mots anciens et modernes. Cologne: Chez Jean-François Gaillard.
Dumitru Kihaï (Université de Zurich / Université de Strasbourg / ATILF)
Le scribe bilingue dans les productions documentaires oïliques: étude d’un cas concret
1. Introduction Le 13e siècle connaît une irruption de la langue vernaculaire dans les écrits documentaires oïliques: actes juridico-administratifs, lettres officielles ou documents comptables. Très timidement, dès le début du siècle, l’usage des chartes vernaculaires s’installe dans les grands et petits scriptoria et arrive même à atteindre, vers le milieu du siècle, la chancellerie royale. Le passage du latin au français soulève la question de savoir si un praticien de l’écrit, laïque ou religieux, était capable de rédiger un document de la même manière dans les deux codes ou si le travail était fait par deux personnes distinctes appartenant à un même atelier et qui auraient été spécialisées chacune dans son domaine linguistique. Il est bien connu que le travail ornemental des manuscrits de luxe, par exemple, n’incombait pas obligatoirement au scribe qui rédigeait le texte proprement dit; une telle professionnalisation et répartition des tâches aurait pu s’appliquer également au changement de langue. Or, au cours de la constitution du corpus de la Marne, regroupant 230 chartes vernaculaires1, nous avons pu identifier dans les fonds de l’abbaye Notre-Dame de La Charmoye une série de chartes latines et françaises qui connaissaient un marquage paléographique particulier permettant leur rattachement à un même scribe ou groupe de scribes du scriptorium de cette abbaye cistercienne. Nous sommes donc en face, au moins dans ce cas précis, d’une rédaction en deux langues par un même acteur. L’analyse de cette série définie de dixneuf chartes datées de 1266 à 1282 permet d’étudier de près le phénomène des rédactions par des scribes bilingues. Nous souhaiterions par la suite présenter les résultats de nos études sur la nature des deux séries, française et latine, notamment sur les interactions instaurée entre les deux codes, et sur les variations matérielle, paléographique et, pour la série française, linguistique.
Cf. article BEC et .
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2. Méthode Nous nous proposons d’étudier d’abord la structure diplomatique de chaque charte, pour dégager le rôle des différents protagonistes et le degré d’implication de l’abbaye de La Charmoye. Dans un deuxième temps, nous présenterons les éléments d’ordre paléographique qui nous ont permis de regrouper ces 19 chartes. Enfin, nous analyserons le degré de marquage scriptologique régional dans les sept documents français. Le processus qui nous a permis d’attribuer les 19 chartes en question à un scribe ou à un groupe de scribes défini suit en effet plusieurs étapes. L’ensemble à l’étude s’est dégagé de la comparaison de plusieurs centaines de chartes latines et françaises contenues dans les liasses d’archives de La Charmoye et des autres abbayes de la région. Dans cette opération, la segmentation diplomatique a été appuyée par la comparaison paléographique et validée par l’analyse linguistique, du moins, pour les chartes françaises.
3. Analyse des 19 chartes 3.1. Analyse diplomatique 3.1.1. Les chartes médiévales connaissent une variabilité notable, aussi bien dans leurs éléments diplomatiques que dans leur aspect matériel. Cette variabilité dépend de l’époque de production mais aussi de facteurs d’ordre sociopolitique. L’armature interne d’un acte juridico-administratif est relativement stable au 13e siècle et comporte essentiellement les trois parties centrales du protocole, de l’exposition et de l’eschatocole, chacune subdivisée en sous-catégories. Derrière ces éléments constitutifs se placent deux catégories implicites: d’abord le bénéficiaire de l’acte, c’est-à-dire le protagoniste auquel la rédaction de la charte profitait le plus, ensuite le rédacteur qui correspond au ‹lieu d’écriture› qui a matériellement produit le document: une chancellerie, un scriptorium, un scribe attitré à un seigneur ou un scribe libre. Les deux catégories du bénéficiaire et du rédacteur sont fondamentales mais elles ne sont jamais explicitées dans un document, contrairement à l’auteur, qui est toujours nommé sans être nécessairement identique ni avec le bénéficiaire ni avec le rédacteur. Dans les 19 chartes regroupées, nous comptabilisons en effet non moins de 14 auteurs différents, ecclésiastiques autant que laïques: l’officialité de la cour de Châlons[-enChampagne], dignitaires champenois, administrateurs du comte de Champagne, abbés de Vertus, Epernay et Orbez. En revanche, aucune de ces chartes ne fait intervenir l’abbé de la Charmoye ou son couvent en qualité d’auteur. L’unique élément qui unit donc les 19 documents d’un point de vue diplomatique, c’est que La Charmoie apparaît pratiquement toujours comme seule bénéficiaire.
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3.2. Analyse paléographique Dans l’analyse paléographique des chartes il faut distinguer les éléments non scripturaux (support, format, mode de scellement), et ceux qui relèvent directement de l’écriture (mise en page, type d’écriture, ponctuation, modes d’abréviation). Les deux paramètres sont modulables: dans une même chancellerie, différentes écritures peuvent être employées, alors même que la mise en page et le mode de scellement restent stables; en revanche, deux chartes écrites par une même main mais ayant une portée communicative distincte peuvent présenter le même type et la même morphologie d’écriture, tout en se distinguant par le mode de scellement et le format. 3.2.1. Eléments non scripturaux Nous avons développé à travers les dernières années une catégorisation des parchemins qui forment le support exclusif des chartes d’après leur largeur. L’analyse de nos 19 chartes fait cadrer 18 d’entre elles dans la catégorie des chartes ‹ordinaires›, ne dépassant pas les 220 mm. Une seule charte est à insérer dans le groupe d’actes ‹particuliers› affichant 315 mm et ayant comme auteur l’officialité de la cour de Châlons. Quant au mode de scellement, 17 de nos chartes ont été scellées sur double queue en parchemin. Le sceau préservé dans quatre chartes, semble être de couleur vierge ou brune dans deux cas et verte dans les deux autres; dans trois autres actes, l’on trouve des reflets d’empreintes, également en cire vierge qui avait une valeur juridique moindre que la couleur verte, assimilée à la perpétuité. 3.2.2. Eléments scripturaux Dans la mise en page des actes, nous pouvons relever l’absence presque systématique de réglure. Cela a pour effet une tendance des lignes à descendre vers la droite, ce qui ressort particulièrement dans la charte la plus large. Par ailleurs, les espaces interlinéaires ne sont pas homogènes. Toutes les chartes, sans exception, commencent et finissent par un point placé devant la lettrine et après le dernier mot de la charte, suivi alors par des traits jusqu’à la fin de la ligne. Les lettrines ne sont que rarement travaillées, comme par exemple pour les chartes commençant par «A touz ces», où «a» est une simple minuscule, sauf pour la charte 17 qui comporte une capitale. Dans le ductus des lettres, le scribe responsable pour 18 de nos 19 chartes connaît plusieurs particularités: – la présence des panses dans le tracé de l’«i» majuscule et du «p» normal; – le dernier jambage des lettres «h» et parfois «m» descend sous la ligne pour être ensuite rappelé rapidement en haut vers la droite; – les lettres «h», «b» et rarement «l» et «s» sont munies de dards plus ou moins saillants. Une brève comparaison du premier document, de 1266, et de l’avant dernier acte, de 1273, fait enfin ressortir une réelle évolution de l’écriture à travers la décennie. La dernière charte, de 1282, partage avec l’ensemble de 18 documents des traits calligraphiques semblables mais non pas identiques.
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3.3. Analyse linguistique L’analyse scriptologique repose sur les variables que Martin-D. Gleßgen a réuni dans son étude sur «Les lieux d’écriture dans les chartes lorraines» (Gleßgen 2008). Ces paramètres font ressortir des variations régionales caractéristiques des scriptae françaises orientales. Nous avons appliqué ces variables régionales, entretemps élargies, sur les sept chartes françaises de notre corpus. Dans la plupart des cas, le résultat est négatif: c’est-à-dire, les chartes ne montrent aucune déviance par rapport aux formes du français central: (1)
Afr. /ˈɔ:/ > /ˈo:/ (chose ~ chouse)
Présence exclusive de chose (14 occ.); une occurrence pour aumone (ch. 18) et prevoz (ch. 16) vs amoune et prevouz. Les chartes présentent exclusivement le type chose en comparaison avec le corpus lorrain qui enregistre des données régionales (38 fois chouse, chouze, 5 occ. chouce et 10 occ. choise, cf. Gleßgen 2008). (2)
Afr. /ˈe/ devant /tr/ > /ˈa/ ()
Forme exclusive: lettre(s) (20 occ.). (3)
Vocalisation d’afr. /b/ devant /l/ après syncope de la voyelle posttonique dans les proparoxytons (-able vs -auble, -au(v)le)
Présence exclusive de -able (4 occ.: estable, perdurable, avenabler et establiz). (4) // svarabhaktique dans des groupes de muta cum liquida (futur et au conditionnel des IIIe et IVe conjugaisons (avra > avera) et (metra >metera))
Uniquement des formes sans /ɘ/ svarabhaktique: devront, aura et metroit. (5)
Grammème: art. le vs lo(u)
Présence exclusive de le (43 occ.). (6)
Grammème: pron. dém. ceus
Il faut signaler ces dans les trois premières chartes: 3, 6, 10 («à tous ceux qui...»), ceaus dans la charte 14, 16, 18, ceux dans la charte 15. (7)
Paramètre graphématique: /k/ devant /e i/ (que, qui vs ke, ki).
Les chartes analysées ne comportent pas de k. (8)
Diphtongaison de /ˈa/ en syllabe ouverte > /e/
Le mini corpus offre exclusivement des formes non diphtonguées: abbé (et non abbei), gré, pré, otroié, assené, etc. (9)
Lat. /ˈa/ devant nasale
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Forme unique sain (jamais seint). (10) Lat. /'ĕ/ devant palatale ou sibilante > /e/ (dans: seis, seisante)
Présence exclusive de la forme dis et non pas deis et de la forme parmi et non pas parmei; à signaler toutefois la forme deimes, passé simple de la 1re pers. pl. du verbe dire. (11) comme signe d’allongement vocalique
Formes sans allongement vocalique: apres, requete, cete. (12) Variation vocalique lexicale: preiere et var.
Aucune occurrence. (13) Phénomènes phonétiques ponctuels: hiatus
A signaler uniquement la forme iave (eau). (14) Grammèmes: dém. neutre ce
Exclusivement ce, jamais ceu. (15) Pronoms pers.: moi
Moi 9 occ.; mi apparaît deux fois mais avec la valeur d’un possessif: «mi ammi» et «mi hoir». (16) Morphologie verbale: 3e pers. prés. avoir
Uniquement a. (17) Morphologie verbale: terminaison de la 3e pers. pl. -ont vs -unt 35 occ. -ont vs. 11 -unt (mais exclusivement dans le verbe sunt).
Dans d’autres cas, nous relevons toutefois quelques marquages régionaux qui partagent tous la caractéristique de connaître une large diffusion dans l’espace et d’être par conséquent peu saillants. Cela vaut notamment pour le traitement de /’ō/ (ou de formes assimilables) qui est maintenu sous la forme graphique traditionnelle , alors que le français central est passé clairement à voire à : (18) Lat. /ˈō/ en sylabe ouverte > /o → ow ~ ø/
Exclusivement seignor (22 occ.); à signaler par ailleurs les formes plusours, desour, terreour face à teneure. (19) Déterminants personnels: nous
Exclusivement nos. (20) Pronoms pers.: lor
262
Dumitru Kihaï
Exclusivement lor (20 occ.); aucune occurrence en lour ou leur. Une variation très faible mais caractéristique des documents orientaux apparaît dans le déterminant personnel je avec ainsi que dans le participe diz: (21) Déterminants personnels: je
Légère variation: je 8 occ. vs ge 1 occ. (22) Morphologie verbale: part. passé dire
Variation: dit 58 occ. et diz 26 occ. D’autres variances en revanche représentent des marques régionales plus saillantes; c’est le cas de trois paramètres suivants: le w germanique, la 3e pers. du verbe estre et la fermeture de o en ou dans plusours, terreour (cf. supra): (23) Consonantisme: w- d’origine germanique
Les chartes n’enregistrent pas de w d’origine germanique: garantie, garde, gardera pour des noms communs et Guillaume, Guerriz, Guion, Guillot, Guiart, Guiz pour des noms propres. Il faut signaler en revanche trois occurrences avec w non étymologique: Woandancort (Valdonis curtem), Wermons (probablement de Vermont), woisit (vouloir) et wit (octo). (24) Morphologie verbale: 3e pers. prés. estre
Variation importante: fu 18 occ. vs fut 7 occ. Grâce à ces 24 paramètres, il est possible de caractériser assez précisément la scripta de ce micro-corpus: il s’agit d’une physionomie faiblement régionalisée mais en même temps nettement reconnaissable comme champenoise. L’élément le plus remarquable est la cohérence des traits à travers les sept chartes qui s’inscrivent précisément dans une même logique et qui transmettent, dans ce sens, un même message diasystématique.
4. Résultats et conclusion Le survol des 19 chartes montre le nombre des facteurs à prendre en compte pour mener à terme une analyse fiable permettant d’identifier ou de confirmer un rédacteur potentiel. Comme cela appartient à la logique variationniste, l’analyse doit effectuer en permanence des aller-retours entre les paramètres diplomatiques, paléographiques et linguistiques. Les chartes françaises garantissent en cela une plus grande sécurité de jugement que les chartes latines puisqu’elles ajoutent les éléments linguistiques comme paramètres d’identification du lieu d’écriture.
Le scribe bilingue dans les productions documentaires oïliques: étude d’un cas concret
263
Une fois identifié de manière sûre un sous-ensemble de documents, grâce aux actes en français, l’on dispose d’un ancrage stable pour identifier également des documents latins provenant du même scriptorium. Nous ne pouvons pas présenter ici la comparaison plus détaillée entre les documents français et latins que nous avons entreprise dans le cadre de notre thèse; mais le résultat est net: sur le plan paléographique, nous avons pu constater que l’ensemble des chartes diffère très peu dans leur ensemble; par ailleurs, le scribe en question utilise précisément la même armature des parties diplomatiques et poursuit les mêmes modèles textuels en latin et en français. Cela montre que, dans le contexte historique dans lequel nous nous trouvons, les scribes savaient manier avec aisance les deux codes: si le choix de langue avait des implications de contenu, lié aux protagonistes des documents, il n’avait aucune conséquence paléographique ou structurelle. Le constat peut sembler banal mais il ne l’est pas. La médiévistique dispose encore aujourd’hui de trop peu de données pour évaluer en détail les relations précises qui existent entre les textes en latin et en français. La plupart des auteurs qui mentionnent la question considèrent que l’encodage des chartes en latin diffère de l’encodage des chartes en français. Nous avons pu montrer, sur la base de notre corpus choisi, que ce n’est pas le cas. Nous avons pu montrer par ailleurs, dans un sondage portant sur 600 documents des abbayes de La Charmoie et de Cheminon que la gestion de la largeur des chartes est également la même pour les actes latins et vernaculaires dans la Champagne du 13e siècle. Dans d’autres contextes et à d’autres moments, les résultats peuvent être autres. Mais pour notre contexte, nous ne pouvons que constater une extrême homogénéité des deux univers linguistiques qui sont en même temps frères et adversaires.
5. Annexe Cette annexe contient les chartes qui forment le micro-corpus d’étude. Y figurent notamment le numéro, la cote d’archive, la date, un bref contenu et la largeur. Dans la rubrique «Cote» les numéros entre parenthèses carrés renvoient aux numéros des chartes dans le corpus de la Marne. La dernière charte en français n’y figure pas car elle est postérieure à 1272. n°
Cote
Date
1
16H 4/16 latin
16/05/1266
2
16H 41/26 latin
06/07/1266
Contenu Donation par Eustache de Conflans, connétable de Champagne de sa part dans le bois, dit Bois Pignon, près de la forêt de Brugny et celle de Montmort Notification par l’Officialité de la cour de Châlons de la donation faite par Hugues, seigneur de Plivot, et par Pontia, sa femme, d’un près sis à Montmort dans la terre des Orfèvres, qu’ils tenaient en franc-alleu par échange avec Guillaume de Montmort dont ils sont les proches héritiers, au moins par Pontia: en même temps ils reconnaissent la donation que ledit Guillaume a faite à l’abbaye de trois setiers de froment à prendre sur les terrages de Lucy.
mm. 220
315
264
Dumitru Kihaï
n°
Cote
Date
Contenu
mm.
3
16H 35/10 français [166]
27/01/1267
Notification par Jean, abbé d’Epernay, de la donation faite par Gilles, bourgeois d’Epernay de deux sols tournois à prendre chaque année sur son pré contigu au pré Dommange et d’une quarte de vin.
190
4
16H 35/11 latin
03/02/1267
Notification par Jean, recteur de l’église de Basile de la donation faite par plusieurs particuliers en faveur de La Charmoye de tout ce qu’ils possédaient sur le pré Dommange
185
5
16H 34/7 latin
03/04/1267
Notification d’une transaction entre l’abbaye et les écuyers Gaucher, Guillaume et Etienne qui contredisaient à celle-ci droits et usages sur le hameau des Chaufours, dépendant de la paroisse de Montfélix.
200
6
16H 30/3 français [172]
1267
Sentence arbitrale rendue sur la demande du roi de Navarre par Hugues de Conflans, maréchal de Champagne, entre Perret de Loisy, écuyer, et l’abbé de La Charmoye touchant un étang de l’abbaye qui se déversait sur le pré dudit Perret.
165
7
16H 48/45 latin
02/04/1268
Donation par l’abbaye de Saint-Sauveur de Vertus à celle de La Charmoye de dix sols de cens annuel qu’elle percevrait sur la maison de feu Morelli à Vertus, à condition que La Charmoye lui en paye les arrérages.
145
8
16H 48/46 latin
02/04/1268
Notification par le prévôt de Vertus de l’acquisition de la maison de Morelli pour 20 livres tournois par La Charmoye.
165
9
16H 48/47 latin
02/04/1268
Notification par l’abbé de Saint-Sauveur de Vertus et maître Jacob, doyen de l’église Saint-Jean de Vertus de l’acquisition de la maison de Morelli pour 20 livres tournois par La Charmoye.
165
10
16H 4/18 français [180]
mai 1268
Notification de la vente en faveur de La Charmoye par Guiot Talenart, d’Epernay, écuyer, de 55 arpents de bois sis entre le pré Noblant, le bois de Perrot de Montmort, écuyer, et l’étang de l’abbaye, contre 109 livres provenois.
170
11
16H 48/48 latin
29/05/1268
Notification par l’abbé de Saint-Sauveur de Vertus et maître Jacob, doyen de l’église Saint-Jean de Vertus de la vente par Michel, clerc du comte de Gand, à La Charmyoe de l’emplacement de deux masures, moyennant 60 sols de Provins.
170
Le scribe bilingue dans les productions documentaires oïliques: étude d’un cas concret
265
n°
Cote
Date
Contenu
mm.
12
16H 47/10 latin
février 1269
Notification par l’abbé de Saint-Sauveur de Vertus et maître Jacob, doyen de l’église Saint-Jean de Vertus de la confirmation et amortissement par Jean de Chaltrait, chevalier, des donations, acquisitions et échanges faits par l’abbaye pour les terres de Soulières pouvant dépendre de son fief: il en retient le droit de terrage suivant les coutumes du lieu.
190
13
16H 55/1 latin
mars 1269
Notification par l’abbé de Saint-Sauveur de Vertus et maître Jacob, doyen de l’église Saint-Jean de Vertus de la vente faite à l’abbaye par Geoffroy de Villeneuve, écuyer, du cens annuel qu’il possédait sur une maison près de Vertus et sur les terres et vignes à Villeneuve, moyennant 60 sols tournois.
14
16H 12/3 français [208]
mai 1270
Jeanne, dame de Congy, jadis la femme d’Eustache de Conflans, connétable de Champagne, reconnaît la grâce que lui a été faite par les religieux de La Charmoye du droit de chasse dans le bois du Fay.
180
15
16H 32/5 français [215]
août 1270
Transaction entre Guy, chevalier, seigneur de Moslin, et La Charmoye, au sujet des amandes dont il frappait lesdits religieux et d’une vigne qu’il leur contredisait à Vaudancourt.
145
16
16H 52/83 français [216]
août 1270
Règlement de litige notifié par Th. de Bergières, clerc du roi de Navarre, et Pierre, prévôt de Vertus, entre l’abbaye de La Charmoye et Emeline, femme du feu Jean Jobace, au sujet
170
17
16H 39/6 latin
07/02/1272
Notification par Guillaume, prieur de Notre-Dame de Montmort, de l’ordre de Cluny, de la vente faite à l’abbaye de La Charmoye par Hugues de Lucy, chevalier, d’un pré sis près de la tuilerie de Lucy, au lieu dit Le Breuil.
180
18
16H 48/57 français
mai 1273
Notification par le bailli de Vitry de la donation par Renaud de Vertus de sa maison et ses dépendances sises à l’entrée de la Place de Vertus.
160
19
16H 7/11 latin
22/06/1282
Requête par Hugues, abbé de Saint-Sauveur de Vertus, à Remy, évêque de Châlons, sollicitant le sceau épiscopal avec celui de Barthélemy, archidiacre de Vertus, pour sanctionner la transaction passée devant ce dernier avec l’abbaye de La Charmoye.
205
266
Dumitru Kihaï
Éléments bibliographiques Beerli, Marius (2010): Die Schreibkanzlei von Thiébaut II., Comte de Bar und das Projekt des Kartulars. Verwaltungsstrategien in einer Kanzlei des 13. Jahrhunderts, Lizentiatsarbeit der Phil. Fak. der Universität Zürich. Dees, Anthonij (1980): Atlas des formes et des constructions des chartes françaises du 13e siècle, Tübingen. Gleßgen, Martin-D. (2007): Bases de données textuelles et lexicographie historique: l’exemple des Plus anciens documents linguistiques de la France. In: ACILPR XXIV 1, 373-380. ― (2008): Les ‹lieux d’écriture› dans les chartes lorraines du XIIIe siècle. In: RLiR 72, 413-540. ― (2009): Les plus anciens documents linguistiques de la France. Édition électronique. Collection fondée par Jacques Monfrin, poursuivie par M.-D. G., en collaboration avec Françoise Vielliard et Olivier Guyotjeannin, en partenariat avec Paul Videsott. Gleßgen, Martin-D. / Kihaï, Dumitru / Videsott, Paul (2010) [2011]: L’élaboration philologique et linguistique des Plus anciens documents linguistiques de la France, Édition électronique. In: Bibliothèque de l’École des Chartes (sous presse). Gossen, Carl Theodor (1967): Französische Skriptastudien, Untersuchungen zu den nordfranzösischen Urkundensprachen des Mittelalters. Vienne, Sitzungsberichte der Österreichischen Akademie der Wissenschaften (Phil.-Hist. Klasse, 253). Kihaï, Dumitru (en prép.): Écriture et pouvoir au 13e siècle en Champagne. Thèse de Doctorat sous la direction de M.-D. Gleßgen (Université de Zurich) et de Jean-Christophe Pellat (Université de Strasbourg).
Dorothea Kullmann (University of Toronto)
Le pseudo-français des épopées occitanes1
La plupart des textes épiques occitans contiennent, on le sait, des éléments lexicaux et morphologiques français, ou du moins francisants ou pseudo-français, c’est-à-dire imitant d’une façon ou d’une autre la langue d’oïl ou étant influencés par celle-ci. En voici quelques exemples: Or li aportan uns garnimens prezetz E pausan lo sus un pali rodet; Pueys li demandon: «Sira, on voles alier? - Yeu am Rollan vuelh tot sol chivalchier, Non vuelh mays par sapcha ni companhier, Mas mi tot sol que dech am luy alier, Deman al vespre me veyres repayrier, Si Dieu me garda per la soa bontet» E els respondon tuch ensemps de bon gret: «Lo rey de gloria vos fassa retorner E vos garisca de mort e d’encombrier.» Sobre un tapit blanc s’es Olivier adobetz: Bona es l’obra e foron ben compretz (Roland à Saragosse 83-95) Non ha melhor en la crestiandet, Mas cel Rollan dizon que fon som pier: Jus el sepulcre foron amduy trobietz, Karle maÿne los en fes aportier, Pueys los donet a Rollan es Olivier, Non o poc far a melhos cavalliers. Lassa en son chief .I. vert elme d’acier, D’aur es lo selcle e·l nasal d’arjent clier, Ans que Olivier ren hi volgues donier, De totas armas hi fes grans colps donier, Non fes Dieus armas que lo puescan brisier, Espieu ni lansa ni espeya d’assier. (Roland à Saragosse 107-117) A la fontayna el vi Rollan estier; Cant el lo vi non ho mes en tarzier Mas de la lansa li va .I. gran colp dier, Cette contribution s’insère dans un projet de recherche plus étendu sur l’épopée en langue d’oc. Les relevés de formes linguistiques auxquels il sera fait référence se fondent pour l’essentiel sur la Concordance de l’occitan médiéval (COM2) de Peter Ricketts. – Je remercie ma collègue Corinne Denoyelle d’avoir bien voulu relire le manuscrit français de ces pages.
1
268
Dorothea Kullmann
Lo fer trenchet e·l bon alberc doblier. Rollan si leva e vi l’en retornier, Cobra sa lansa que vi jazer el priet (Roland à Saragosse 1100-1105)
On trouve là, dans un texte par ailleurs clairement rédigé en occitan, non seulement des formes françaises plus ou moins correctes: chivalchier, repayrier, retorner, chief, brisier, mais aussi des formes à diphtongue française erronée: alier au lieu de aler ou anar, pier au lieu de per ou par (forme pourtant présente, elle aussi, dans le texte), trobietz au lieu de trové ou trobat, clier au lieu de cler ou clar, donier au lieu de doner ou dar, et même dier, infinitif formé à partir de l’occitan dar avec la désinence française -ier. Dans d’autres cas, la palatale manque, bien que la voyelle tonique elle-même soit française: prezetz, au lieu de prisiés ou prezatz. Les voyelles toniques françaises (qu’elles soient correctes ou non) peuvent être combinées avec une consonne ou une voyelle finale atone plus méridionales; outre les participes passés comme prezetz, on a bontet, cristiandet, gret et priet (avec t final, depuis longtemps désuet en français) au lieu de bonté ou bontat, crestienté ou cristiandat, gré ou grat, pré ou prat, ainsi que espeya au lieu de espee ou espada/espaza. La forme sira (au lieu de sire ou senher) pourrait être due à une articulation du e atone perçue comme différente de celle de l’occitan. D’autres mots qui apparaissent sous une forme plus ou moins francisée ne s’emploient normalement pas dans ce sens-là en français: ainsi compretz ne se comprend réellement que par référence à l’occitan compratz. La fréquence et la diversité de ces éléments francisants varient beaucoup d’un texte à l’autre; tous les cas ne sont pas aussi extrêmes que les exemples que nous venons de citer. La plupart du temps, les éléments non-occitans se concentrent à la rime et, dans une moindre mesure, à la césure, donc à des endroits exposés où l’oreille les capte facilement. Ils confèrent ainsi un aspect particulier et caractéristique à ces textes épiques, aspect qui ne se retrouve ni dans la poésie lyrique des troubadours ni dans la littérature narrative ou didactique occitane.2 Cet étrange phénomène a été commenté à maintes reprises, le plus souvent sur des textes individuels. Au XIXe siècle, dans le cadre du débat sur l’authenticité et la précellence de la production épique en langues d’oc ou d’oïl, on a vu là le plus souvent des traces d’une transposition maladroite du français en occitan (Meyer 1861: 32, sur Fierabras; Gaston Paris 1910, sur Daurel et Beton), ou du moins d’une influence française (Meyer 1880: xlix, sur Daurel et Beton). Pour Girart de Roussillon, Robert Lafont (1995, 1997) a formulé l’hypothèse inverse: la version en langue mixte que présente le manuscrit d’Oxford (O) de ce poème, version que la plupart des chercheurs considèrent comme proche de la langue de l’original, serait en réalité le résultat d’une tentative de francisation d’un original occitan. Aujourd’hui, la plupart des chercheurs ont plutôt tendance à interpréter ces irrégularités comme une imitation voulue du français. Néanmoins, les explications divergent toujours: soit on suppose que les poètes, en mélangeant les langues, ont cru pouvoir atteindre un plus vaste public (explication avancée, bien que très prudemment, par Pfister 1970: 176); soit on leur prête une intention parodique vis-à-vis des Français du Nord. Ainsi Simon Gaunt (2002) parle d’un discours de colonisés, qui adopterait des formes de la langue du colonisateur pour mieux ridiculiser celui-ci. On en trouve pourtant quelques occurrences, beaucoup moins fréquentes, dans des textes hagiographiques et paraliturgiques, et ce dès une époque très ancienne (Sponsus, Vie de saint Léger) - une convergence que nous n’avons pas encore pu explorer en détail.
2
Le pseudo-français des épopées occitanes
269
À notre sens, la question que soulève ce phénomène comporte plusieurs aspects différents qu’il convient de distinguer: y a-t-il une langue épique occitane particulière, autrement dit, y a-t-il un ou plusieurs traits linguistiques caractéristiques qu’on associe systématiquement avec ce genre ou qu’on s’attend à y trouver? ou s’agit-il de choix individuels de différents auteurs ou copistes, indépendants l’un de l’autre? S’il y a une telle notion d’une «langue épique» occitane, dans quelle mesure cette notion est-elle liée à la langue d’oïl? Est-elle limitée à une aire géographique ou à une époque définissables? Et finalement, quelle est la fonction de ces traits linguistiques; s’agit-il forcément de parodie, comme le suggère Gaunt? On ne s’attendra pas à obtenir une réponse claire et définitive à ces questions. La base matérielle est mince: onze textes, dont sept nous sont parvenus dans un état plus ou moins fragmentaire ou abrégé, et un autre, la Chanson de la croisade albigeoise, n’a jamais été terminé. La plupart de ces chansons sont conservées dans des manuscrits uniques, souvent tardifs; seul Girart de Roussillon subsiste en plusieurs copies, dont une seule d’ailleurs est complète. Il est vrai que nos questions ne visent pas seulement les poètes ou rédacteurs originaux et que les choix des copistes peuvent être tout aussi révélateurs en ce qui concerne l’existence d’une notion de langue épique. Toujours est-il que l’absence presque totale de versions parallèles nous prive d’un instrument précieux pour déterminer l’origine et la date de certains phénomènes linguistiques. À cela s’ajoutent d’autres problèmes. La datation de certains textes est controversée; celle de certains manuscrits reste bien approximative. Bien qu’en général, les épopées occitanes tendent vers la rime, il ne faut pas perdre de vue que des textes épiques peuvent toujours être assonancés ou rimés, avec toutes les variantes intermédiaires imaginables (assonance tendant vers la rime, rimes avec quelques assonances, rimes impures etc.), ce qui réduit la portée de l’étude des rimes, moyen traditionnel pour remonter à la langue de l’original d’un texte littéraire. Il peut arriver que, dans une laisse, les rimes ne s’appuient que sur une seule désinence grammaticale, facilement échangeable en bloc; et dans des laisses à longueur variable, rédigées dans le style caractéristique de l’épopée, largement paratactique, s’articulant le plus souvent en fonction des vers et évitant les enjambements, rien n’empêche un copiste d’omettre ou de remplacer un vers dont la rime ne s’harmoniserait pas avec celle qu’il aurait choisie. D’autres incertitudes résultent de l’emploi de formules figées et de la tendance à l’archaïsme et à l’imitation de modèles, très prononcée dans l’épopée. Tout cela fait que l’attribution de tel ou tel choix linguistique au scribe ou au poète n’est pas toujours évidente. Finalement, il convient d’insister sur un autre phénomène, jadis décrit par Paul Meyer (1880: xxxvi, xl) au sujet de Daurel et Beton, mais trop souvent oublié: dans les épopées occitanes, on se heurte souvent à des constats linguistiques contradictoires, une laisse qui se comporte d’une façon par rapport à un trait linguistique, et une autre qui se comporte de façon inverse. Cela prouve, certes, qu’on a affaire à des choix voulus, intentionnels –et ce sont ces choix qui nous intéressent–, mais complique encore l’établissement du profil linguistique du poète en question. Girart de Roussillon, dont on a pourtant des copies différentes, en est un bon exemple. Ce texte a dû être rédigé dans une langue intermédiaire ou mixte, basée sur un parler nord-occitan proche de la région frontalière entre les deux langues, avec force emprunts à la langue des troubadours et au latin et non sans éléments factices, inventés par le poète. À un moment donné, il a dû en exister une rédaction poitevine, ou proche du poitevin, ou en tout cas appartenant à la partie ouest de la frontière entre la langue d’oc et la langue d’oïl. W. M. Hackett (1970) identifie cette rédaction avec l’archétype, alors que Pfister (1970: 176) la situe plus bas dans le stemma.
270
Dorothea Kullmann
Il y a effectivement, dans le manuscrit O, des formes poitevines appuyées par les rimes, qui doivent remonter à l’archétype, des laisses rimant en -ei, -iu, -eu ou -au, par exemple. Cependant, on trouve également les formes correspondantes occitanes -at, -il,-el et -al et même la forme française centrale -é (au lieu de -ei ou -at), et l’appartenance de ces formes à l’archétype semble tout aussi bien assurée. Beaucoup d’autres éléments apparaissent sous des formes alternatives (tener / tenir, sofrer / sufrir, pres / pris, fache / faite, différentes formes du parfait etc.). Comme le poète accouple fréquemment des laisses aux rimes proches l’une de l’autre, dans un jeu sonore sans doute délibéré, il lui arrive d’en créer une paire aux désinences en partie interchangeables, comme ces deux laisses rimant respectivement en -ez et en -az, qui commencent comme suit: CLXXXIII Girarz ot de barons qu’il fu blasmez, E entent de son oncle qu’il ac irez. Vient denant lui estar li cons en pez [...] CLXXXIV Girarz part de consel, li cons, iraz. As venguz les messages toz d’autre laz. «Don, manderez a Carle co que vos plaz [...]» (Girart de Roussillon 3060-3062, 3079-3081)
La variation des formes du participe passé (blasmez / iraz) est sans aucun doute originale, la structure stéréotypée de ces laisses d’une scène de conseil ainsi que la présence de mots qu’on ne saurait transformer dans l’autre forme, comme pez ou plaz, le démontrent. Toujours est-il que de tels cas sont rares. Ailleurs, le poète fait par exemple suivre une laisse en -il (l. XX) par une laisse en -iu (l. XXI) qui ne contient pas une seule forme dont la désinence serait transposable en -il. Même dans l’exemple que nous venons de citer, la majorité des rimes dans les deux laisses est constituée par des formes grammaticales différentes, non interchangeables. Tout en jouant sur la sonorité des rimes et en se permettant de choisir entre différentes formes dialectales, comme le font les troubadours, le poète du Girart semble généralement faire un effort pour éviter la juxtaposition immédiate de formes strictement alternatives. Dès lors, il nous semble évident qu’il ne puise pas simplement dans un réservoir élargi de formes provenant de scriptae ou de parlers divers, en fonction des besoins du mètre et de la rime, mais qu’il reste très conscient de l’appartenance de ces formes à des dialectes différents, qui, normalement, devraient s’exclure mutuellement. Devant la maîtrise linguistique dont fait preuve ce poète, rien ne permet de décider quel était, dans cet ensemble, son propre dialecte, d’autant plus que les quelques traits constants de sa langue ne posent pas moins de problèmes. La non distinction entre -e- et -ie- < a tonique libre, trait ca ractéristique par excellence des dialectes occidentaux du français et donc aussi du poitevin et qui caractérise tout le manuscrit O du Girart, n’appartient certainement pas à l’archétype, qui, tout au contraire, a dû distinguer avec soin ces formes.3 En revanche, un autre trait occidental est présent partout dans le text, le participe passé féminin en -ade, -ude, semble bien remonter à l’archétype.4 Voir plus loin. Le manuscrit O lui-même étant sans doute d’origine italienne, c’est donc à un stade intermédiaire que doit se situer la rédaction poitevine. 4 Voir plus loin. Nous ignorons, pour l’instant, l’extension exacte de l’aire de ces formes, qui pourtant ne semblent pas être attestées dans la vallée du Rhône. En l’état actuel de nos recherches, nous ne 3
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Là encore, on arrive donc à des résultats qui paraissent contradictoires. Toutes ces réserves formulées, il nous semble qu’on peut tout de même réunir quelques éléments d’une réponse aux questions concernant la langue épique occitane que nous avons formulées plus haut, quelques résultats partiels, qui seront toujours hypothétiques, mais qui auront peut-être déjà un certain degré de probabilité. D’abord, quels éléments peut-on considérer comme francisants, dans un texte occitan? Entre deux langues proches, aux variations dialectales importantes, dont la distinction s’estompe forcément dans la région frontalière, région d’où proviennent sans doute un ou deux de nos textes, la réponse n’est pas évidente. Cependant nous savons par d’autres sources, aussi bien littéraires que théoriques ou administratives, qu’on percevait les deux langues comme étant deux langues distinctes à l’époque qui nous intéresse, entre le milieu du XIIe et la fin du XIVe siècle.5 A priori, la notion d’un élément francisant devrait donc être viable. Dans cette contribution, nous nous limiterons à trois points différents: 1. la distinction ou non distinction des voyelles nasales an et en, 2. le mélange des différents résultats de a en syllabe ouverte et tonique (a, e, ie), et 3. les résultats des participes passés féminins en -ata et de formes correspondantes. Chacun de ces points sera l’occasion de quelques réflexions plus générales. La confusion des voyelles nasales an et en a traditionnellement été considérée comme typiquement française. Linda Paterson (2004: 293-295; cf. aussi Sweetenham / Paterson 2003: 27) la relève encore comme le seul élément francisant récurrent dans la Canso d’Antioca occitane, élément qu’elle explique comme résidu d’un processus de traduction à partir d’un modèle français. Gérard Gouiran (1991) a attiré l’attention sur l’emploi de an au lieu de en dans des documents officiels de la ville d’Aix-en-Provence autour de 1400, concluant qu’il faut peut-être considérer cette évolution phonétique comme normale en occitan. À notre sens, le phénomène possède tout de même un certain intérêt, et il vaudrait sans doute la peine d’en examiner en détail la distribution géographique, diachronique et diastratique. Même s’il était attesté dans tout le domaine occitan dès le XIIe siècle (ce qui ne semble pas être le cas), il resterait le fait que les poètes lyriques semblent l’éviter, sauf pour certains mots qui existent pour ainsi dire sous deux formes. Il semble donc probable qu’il y ait eu pour le moins une différence de registre, les poètes épiques recourant un peu plus facilement que ne le faisaient les troubadours à une rime peut-être conforme à la langue courante, mais considérée comme impure dans la langue littéraire des cours. Le dépouillement des occurrences de ce phénomène dans les textes épiques semble d’abord appuyer l’idée d’une évolution diachronique. Ainsi le poète de Girart de Roussillon utilise bien, à la rime, quelques rares doublets comme talent et talant, attestés aussi dans la nous voyons pas en mesure de décider si ces formes occidentales remontent à l’original de la chanson –que, pour des raisons de contenu, nous localiserions volontiers plus à l’est, dans le Lyonnais au sens large, p.ex. dans le Viennois comme le propose Pfister (1970). Ces formes pourraient être dues au fait que l’archétype de nos manuscrits est peut-être distinct de l’original et représente un état intermédiaire entre celui-ci et la rédaction poitevine. Elles pourraient également être dues à un choix individuel du poète, dont on vient de voir la créativité et la maîtrise linguistique, couvrant plusieurs dialectes de la langue d’oïl en sus de la langue d’oc. 5 Il suffit de mentionner les poèmes plurilingues de Raimbaut de Vaqueiras ou de Cerverí de Girona, les efforts francisants de certains troubadours comme Gaucelm Faidit à la cour de Geoffroi de Bretagne, l’appellation de «lingua occitana» qu’on rencontre dans les comptes d’Alphonse de Poitiers, les catégories linguistiques établies par Dante ou l’existence de traductions.
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poésie lyrique, mais il distingue par ailleurs rigoureusement entre les deux voyelles nasales, comme le montrent par exemple les deux laisses CCLII-CCLIII, rimant respectivement en -ant et -ent (vv. 3978-3991). L’attitude du poète d’Aigar et Maurin, à en juger d’après le fragment que nous possédons, est exactement la même: à part le doublet talant / talent (vv. 472, 1010, 1313), an et en sont soigneusement distingués. Dans les deux textes, on trouve en outre la forme francisante de l’adjectif ou participe présent vaillant ou valhan (au lieu de valen), forme qui ne fait pas partie des doublets en usage chez les troubadours (Girart de Roussillon 8672, 9685, Aigar et Maurin 930). Cette forme ne se rencontre jamais à la rime, mais uniquement à l’intérieur du vers, si bien que son authenticité pourrait paraître douteuse. Toutefois, il nous semble assez probable qu’elle remonte à l’original, puisqu’elle n’apparaît que dans des expressions formulaires figées, basées sans aucun doute sur des formules françaises.6 Le constat est différent pour les textes qu’on peut dater du début ou de la première moitié du XIIIe siècle. Daurel et Beton, par exemple, contient des laisses pures en -en et des laisses mixtes. Les choses se présentent sensiblement de même pour la première partie de la Chanson de la croisade albigeoise et Fierabras. Si l’auteur anonyme de la deuxième partie de la Chanson de la croisade albigeoise se montre plus soucieux d’éviter les éléments francisants et revient en quelque sorte en arrière, limitant les licences concernant les nasales en et an à un nombre restreint de mots pour lesquelles ces licences sont attestées aussi dans la poésie lyrique7, il se permet tout de même du moins une fois, à la rime, la forme valhans au lieu de valens: «En Guilhelm Amaneus, tozetz ben comensans, / En Amalvis e N’Ucs de La Mota·l valhans» (l. 185, vv. 74-75). Son imitateur Guilhem Anelier, qui écrit en terre ibérique, reproduit exactement les mêmes licences. Ronsasvals suit en principe la pratique des textes de la première moitié du XIIIe siècle, se distinguant simplement par le nombre réduit de laisses pures en -en (2) et le nombre élevé des licences. En revanche, les longues laisses en -an du Roland à Saragosse (où l’on ne trouve plus du tout de laisses en -en) contiennent tant de formes qui, en occitan, devraient se terminer en en qu’on est en droit de se demander quelle voyelle prévaut, et ce d’autant plus que dans une de ces laisses, dans un passage où les formes reconduisibles à -en sont particulièrement nombreuses, on trouve aussi la forme de la première personne du pluriel du futur penrem (v. 897). Le texte de la partie épique du Roman d’Arles est trop corrompu pour qu’on puisse reconstituer les laisses de façon sûre; néanmoins parmi les séquences de quelques vers qui paraissent liéss par des assonances (et dans lesquelles nous verrions volontiers des laisses abrégées), il y en a beaucoup qui mélangent aussi bien les formes reconduisibles à -an et -en que les deux graphies. En ce qui concerne la distinction an/en, le nombre et la fréquence des licences vont donc généralement en augmentant. Le remplacement des formes, comme Paul Meyer l’avait déjà remarqué, se fait presque toujours en sens unique (on utilise des mots qui en occitan devraient se terminer en en pour intégrer les laisses en an), les laisses en en restant en général pures. Là où les formes fautives en an se multiplient, les laisses en en, en principes plus faciles à composer en occitan, se font rares, deviennent plus courtes ou se perdent complètement. Il pourrait donc bien s’agir d’un processus évolutif: introduite dans les textes épiques occitans dès le XIIe siècle, à L’insertion d’une telle formule par un copiste ne saurait cependant être exclue de manière absolue. Sur le rôle des formules épiques dans ces deux épopées occitanes, voir Naudeau (1997). 7 Surtout talent / talent et sent / sant –la forme sent est également attestée dans les chartes et les cartulaires de la région et pourrait être influencée par le parler local; cf. Martin-Chabot (1960). 6
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travers l’imitation de formules épiques françaises, cette licence poétique devient, à partir du début du XIIIe siècle, un expédient acceptable sous la contrainte rimique, pour se banaliser par la suite et finir par effacer, ou presque, les formes occitanes normales, du moins dans certains textes écrits ou remaniés au XIVe siècle. Toutefois, il ne faut pas perdre de vue qu’au groupement chronologique que nous avons esquissé correspond un groupement géographique: Girart de Roussillon et Aigar et Maurin ont dû être composés près de la frontière linguistique avec la langue d’oïl. Les textes que nous avons daté de la première moitié du XIIIe siècle proviennent tous de l’Ouest occitan, voire du Nord de l’Espagne. Les textes plus tardifs –la version remaniée de Roland à Saragosse et de Ronsasvals qui nous est parvenue et le Roman d’Arles– ont été écrits, ou du moins remaniés, en Provence. La contre-épreuve sur le manuscrit de Daurel et Beton (daté également du XIVe siècle, mais provenant du Toulousain au sens large) pourrait bien suggérer une différence régionale, puisqu’on y trouve toujours de nombreuses laisses pures en -en, mais cette contre-épreuve n’est pas vraiment concluante: en ce qui concerne les voyelles nasales, ce manuscrit semble tout simplement rester proche de l’original; il ne permet en tout cas pas de reconstituer deux états linguistiques différents (les laisses impures en an ne se laissent pas reconduire à des laisses plus correctes8). Il nous est donc impossible de dire avec certitude si les différences dans le traitement de an et en que nous avons constatées reflètent un véritable changement dans la conception de la langue épique ou une évolution phonétique réelle, ou si elles se basent éventuellement sur une différence régionale dans la prononciation de l’occitan ou bien sur une combinaison de ces facteurs. Signalons toutefois le fait que certains mots se font accepter plus facilement que d’autres, ce qui pourrait être un indice en faveur d’une licence poétique liée au genre épique. Le plus important est sans doute vaillant / valhan, qui apparaît même dans les quelques textes épiques occitans qui ne se permettent pas d’autres licences de ce type (Girart de Roussillon, Aigar et Maurin, la seconde partie de la Chanson de la croisade albigeoise et la Guerra de Navarra de Guilhem Anelier). Dans les textes restants, des mots comme recrezant, arjant ou gent, tous récurrents aussi dans les formules épiques françaises, apparaissent avec une fréquence élevée dans les laisses en -an. Le mélange des voyelles toniques libres a, ie et e est sans doute le phénomène francisant le plus frappant et le plus connu de l’épopée occitane. Nous nous contenterons ici de quelques remarques. Tout d’abord, il convient de mentionner que Girart de Roussillon ne contient pas un seul des infinitifs «pseudo-français» dont la présence est si frappante dans les exemples que nous avons cités en ouverture. Le manuscrit O de la chanson connaît des laisses en -ar occitan et des laisses en -er et ne semble pas appliquer la loi de Bartsch. Cependant, contrairement à ce qu’on en a dit (Hackett 1970), l’archétype des manuscrits parvenus jusqu’à nous a dû distinguer soigneusement entre les désinences -er et -ier, selon les règles du français central. Nous n’avons trouvé aucune laisse qui réunirait des mots reconduisibles aux deux formes; et il y a même une paire de laisses (DXXXIII-DXXXIV) qui juxtapose les deux désinences. Il est intéressant de voir qu’Aigar et Maurin, généralement très proche sur le plan linguistique de Girart de Roussillon, fait rimer librement des mots en -er dont les désinences sont reconduisibles à -er et -ier. Une origine occidentale (et donc proche du poitevin) semble vraisemblable pour ce texte dont le contenu se rattache à l’Angleterre. Toujours est-il que ce «poitevinisme» pourrait aussi venir du fait que le poète imitait Girart de Roussillon, dont il On peut même se demander si elles ne reposent pas sur un choix stylistique voulu, puisqu’elles se réfèrent toutes à des épisodes d’interaction entre Français du Nord ou avec les Français du Nord.
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connaissait peut-être une version poitevine, proche de celle de notre manuscrit O. Tout comme Girart de Roussillon, Aigar et Maurin contient également des laisses occitanes en -ar, où l’on remarque d’ailleurs un infinitif «pseudo-occitan»: finar (v. 323). En revanche, il n’y a pas un seul infinitif «pseudo-français» écrit avec un -ier erroné, pas plus que dans Girart de Roussillon. Les formes pseudo-françaises ne font donc leur apparition dans l’épopée qu’au XIIIe siècle. On en trouve quelques exemples dans le manuscrit P de Girart (une occurrence de clier au v. 3258, sans doute due à une erreur du copiste, ainsi que plusieurs mots –gabier, alier, amier, preclier– dans une des quatre laisses qui constituent l’épilogue propre à ce manuscrit, aux vv. 8977-8980). Daurel et Beton contient plusieurs laisses pures en -ar et deux laisses pures en -ier ainsi que des laisses mixtes. La graphie dans celles-ci est le plus souvent -ier et comprend donc des -ier fautifs. Quelques graphies en -ier dans des laisses qui normalement utilisent la graphie -ar et dont toutes les rimes sont reconduisibles à -ar pourraient bien avoir été ajoutées par le scribe. Les choses se présentent sensiblement de même dans la première partie de la Chanson de la croisade albigeoise et Fierabras. Ces textes qui contiennent des laisses pures en -ar présentent aussi, bien qu’en quantité variable, des formes écrites -ier, reconduisibles à -er et -ier, qu’ils font rimer librement. Il n’y a que la deuxième partie de la Chanson de la croisade (et la Guerra de Navarra qui l’imite) qui évite toutes ces formes non-occitanes, correctes ou non, en les remplaçant systématiquement par des substantifs en -ier / -iers. Cependant, l’accumulation de tels substantifs à la fin de certaines laisses ne laisse pas de paraître parfois un peu forcée, si bien qu’on est en droit de se demander si l’auteur, tout en s’efforçant d’écrire un occitan correct, ne voulait pas imiter le style francisant des chutes des vers dans d’autres épopées occitanes. Il convient de noter que jusqu’ici, les seules formes «pseudo-françaises» sont des infinitifs de verbes de la première classe et quelques adjectifs et substantifs ayant la même désinence (p.ex. clier au lieu de clar ou cler). La première partie de la Chanson de la croisade albigeoise emploie bien aussi des participes passés francisants en -et et -iet (pour les verbes de la première conjugaison qui devraient être en -at en occitan); cependant, en ce qui concerne la présence ou l’absence de la palatale, ceux-ci correspondent toujours à une forme correcte en français. Ce n’est que dans Ronsasvals et Roland à Saragosse qu’apparaissent des formes fautives en -iét (des participes passés ou des substantifs devant en principe se terminer soit en -é, soit en -at: amiet au lieu de amé ou amat, priet au lieu de pré ou prat). Il est difficile d’expliquer cet élargissement de la diphtongaison erronée par une évolution phonétique ou une différence entre parlers régionaux; il semble bien plus probable qu’il s’agisse d’un effet de banalisation d’une mode littéraire. À part les infinitifs, les morphèmes ne sont que rarement traités dans ce contexte, les éditeurs des épopées occitanes se contentant le plus souvent d’examiner le développement de sons isolés. Or on a vu que les poètes épiques occitans sont parfaitement capables de faire des choix linguistiques individuels et conscients. De tels choix peuvent certes se faire en fonction des dialectes ou des scriptae connues au poète ou au scribe en question, mais ils peuvent également porter sur l’aspect d’un morphème entier ou sur un type de désinence, indépendamment d’un dialecte particulier existant ou d’une évolution phonétique réelle. Un des morphèmes les plus révélateurs nous paraît être le résultat de la désinence lat. -ata.9 Si Girart de Roussillon, du moins dans la version du ms. O, donne l’impression d’être écrit 9
Nous laissons de côté, dans ce survol, toutes les formes se rattachant à la famille du lat. gratus, étant donné que celles-ci (p.ex. gré, grei à côté de grat, agrea, agreia à côté de agrada) sont déjà admises dans la lyrique troubadouresque et se retrouvent par conséquent partout dans l’épopée.
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dans une langue intermédiaire, à moitié française, cela est dû, pour une bonne partie, au fait que le a postonique devient régulièrement e. Pour les formes faibles du participe passé féminin, on a dans ce manuscrit, de façon relativement constante, les formes -ade, -ude et -ie (parfois -ide). Le manuscrit P présuppose les mêmes formes, qui semblent donc bien appartenir à l’archétype de la tradition manuscrite. Or les formes avec -d- se terminant en -e (qui rappellent la francisation moderne de mots occitans) sont répandues dans les chartes et cartulaires du nord-ouest occitan.10 Elles ne sont donc pas nécessairement dues à une intention francisante. Aigar et Maurin, qui reproduit les mêmes terminaisons, contient cependant une laisse aberrante, rimant, non pas en -ie ou -ide, mais en -ite: Ins en las aies de la forest d’Armite Sont descendut en l’essart d’un ermite, Ki lor dis messe sagrete e benedite. Non i ac un s’aumosne n’i aufizte; Lai penitencent e parant sa carite; Taus s’es confes qui pert le jor la vite; Al rei non nuis, pos sa terre en aquite. (1214-1220)
Il s’agit clairement de désinences influencées par le latin. Ici non plus, ce ne sont donc pas forcément les formes francisantes qui sont recherchées en premier lieu. Il est vrai que cette laisse rimée latinisante pourrait bien reposer sur de simples assonances françaises, que le poète se serait efforcé de transformer, coûte que coûte, en des rimes.11 Le manuscrit P de Girart de Roussillon, qui occitanise le texte, remplace plus ou moins systématiquement le e final atone par un a méridional. Dans les cas où l’occitan standard a également -e, le rédacteur réagit de façon variable, soit qu’il accepte l’irrégularité des rimes, soit qu’il donne tout de même une finale a au mot en question. Pour le participe passé féminin, on y trouve donc les formes -ada, -uda, -ia et -ida. Vu le procédé systématique, qui est l’inverse de ce que nous faisons aujourd’hui pour les mots occitans en français, il semble peu utile de chercher une base dialectale réellement parlée à ces formes. Dans la première partie de la Chanson de la croisade albigeoise, telle qu’elle se présente à nous dans le manuscrit unique, la désinence du participe féminin de la première conjugaison est en général -ea ou -eia (une laisse isolée en -ada, dans la partie initiale du poème, pourrait appartenir au remaniement qu’a dû effectuer l’auteur de la seconde partie). Il y a aussi des laisses en -ua et -ia. Là encore, il ne nous semble pas y avoir de base dialectale possible, étant donné que nous connaissons le lieu d’origine du poème (Bruniquel ou Montauban, en tout cas quelque part dans le Toulousain) et celui de l’auteur lui-même (Tudèle en Navarre), et dans les deux régions, on s’attendrait à -ada. Comment alors expliquer ces formes? À comparer le procédé simpliste appliqué par le scribe du manuscrit P du Girart pour occitaniser son texte, il semble probable qu’il s’agisse ici d’une occitanisation analogue, effectuée simplement à partir de formes françaises. Se pose alors la question de savoir si ces formes remontent à l’auteur, qui aurait voulu donner un air de chanson de geste française à son texte, tout en le rendant plus acceptable pour une oreille méridionale par un a final, ou si, au contraire, l’auteur a carrément utilisé des formes Voir plus haut. Cette laisse constitue ainsi un argument supplémentaire en faveur d’un original anglonormand, dont l’existence nous semble assez probable, vu le sujet de la chanson. Cf. Keller (1994).
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françaises, qui auraient été occitanisées par un rédacteur subséquent. Les désinences -ea et -eia riment bien avec des subjonctifs comme sea, seia, vea, veia, mais cela n’exclut pas des formes originales se terminant en -ee ou -eie. Or il y a une laisse dans le poème de Guilhem (l. 18) dont les rimes (-ana: -ena) ne s’expliquent que par l’emploi de formes françaises (-aine: -eine). C’est pourquoi nous penchons pour la seconde hypothèse, selon laquelle les formes à demi françaises proviendraient elles aussi d’une occitanisation secondaire. Celle-ci pourrait remonter à l’auteur de la seconde partie (qui, dans son propre texte, évite toute forme qui ne soit pas entièrement occitane et que nous soupçonnons d’avoir introduit la laisse rimant en -ada dans la partie initiale du texte de Guilhem, mais qui n’a peut-être pas voulu réécrire tout le texte de son prédécesseur et s’est donc rabattu sur ce procédé plus simple), mais elle pourrait également être due à un copiste plus tardif, le manuscrit datant sans doute de la seconde moitié du XIIIe siècle. Dans les textes restants, les formes en -ea ou -eia n’apparaissent qu’à côté des formes en -ada. Fierabras contient deux occurrences de -eia, qui, vu les mots avec lesquels ils riment, semblent fondées sur des assonances françaises (vv. 127, 128: valeya: espeya: sela: bela: ramela: noela). Dans Daurel et Beton, il y en a cinq (et plus précisément: 1x causea, 2x speia, 2x espeia), toutes clairement liées à la reprise de formules épiques françaises (cf. Naudeau 1997). Jusqu’ici, la terminaison -ea / -eia apparaît donc essentiellement comme une occitanisation incomplète d’un élément qui existait auparavant sous forme française (un modèle français traduit, des formules épiques françaises adaptées ou, si notre hypothèse sur le texte de Guilhem de Tudela est correcte, un texte à rimes françaises). Ce n’est que dans Ronsasvals que ces formes paraissent banalisées au point d’être utilisées aussi indépendamment d’un modèle français concret. Roland à Saragosse, dont la version existante contient également bon nombre de formes en -eia, semble tout de même s’aligner sur des textes plus anciens, puisqu’il n’admet cette désinence que pour un lexique très restreint, provenant de formules épiques ou ayant en tout cas une connotation épique (on y rencontre: 1x desbarateya, 5x espeya, 4x mayneyas). Toujours est-il qu’au plus tard vers la fin du XIIIe siècle et au XIVe, ces formes en -ea / -eia semblent être considérées comme une licence typique, et acceptée, du genre épique. On en trouve même un exemple dans la seconde partie de la Chanson de la croisade albigeoise (l.165, v. 32: espeias, irrégularité que nous mettrions volontiers sur le compte du copiste). La fréquence, parmi ces occurrences plus ou moins isolées, de termes comme espeia ou maineia, à connotation fortement épique, semble appuyer cette interprétation. Les résultats de cette enquête peuvent paraître maigres. De surcroît, en ce qui concerne la datation des textes, ils viennent appuyer des hypothèses antérieures et ne sont donc pas particulièrement surprenants. D’après les critères examinés ici, on peut distinguer les groupes suivants. D’abord les textes les plus anciens, Girart de Roussillon et Aigar et Maurin, qui semblent avoir été proches de la frontière linguistique dans leur langue de base, qui utilisent certes des éléments francisants, mais parmi d’autres, de provenance troubadouresque et latine, et ne manifestent pas d’intérêt particulier à privilégier le rapport avec la langue d’oïl. Une orientation plus nette et exclusive sur le français s’observe dans la première partie de la Chanson de la croisade albigeoise, Daurel et Beton, et Fierabras. Seule la Chanson de la croisade est réellement datable, et nous ne savons pas si tous les traits que nous y avons relevés remontent vraiment au poète. Il y a cependant une forte présomption en faveur d’une datation des autres textes de la même époque, grosso modo du début ou de la première moitié du XIIIe siècle. Le manuscrit P de Girart de Roussillon se rattache à ce groupe par son emploi des formes en -ier. Tous ces textes-là emploient des éléments linguis
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tiques clairement perçus comme francisants. Toujours est-il qu’on ne saurait relier cette tendance à une orientation idéologique spécifique commune, puisqu’elle paraît en premier lieu fondée sur l’emploi et l’adaptation de textes ou d’éléments textuels français et qu’on l’observe aussi bien dans Fierabras, politiquement plutôt neutre, mais traduit du français, que dans la première partie de la Chanson de la croisade, pro-française, et dans Daurel et Beton, parodique et critique vis-àvis de la France du Nord et qui seul réserve peut-être –et nous insistons sur le caractère provisoire de cette observation– une partie des éléments francisants (les licences du type an / en) à des épisodes se référant aux Français du Nord. Cependant, il s’agit toujours de licences, d’expédients destinés en premier lieu à faciliter la versification. Ce n’est que dans les versions remaniées de Ronsasvals et de Roland à Saragosse que l’emploi des formes francisantes et pseudo-françaises se généralise. A priori, il est impossible de dire s’il s’agit là d’une évolution phonétique, d’une différence dialectale, d’une conception modifiée du genre épique, d’une préférence personnelle du scribe unique des deux textes ou d’un hasard. Cependant, la partie épique du Roman d’Arles semble se rapprocher de cet emploi banalisé, du moins pour ce qui est des licences du type an / en et a / ie. La convergence avec l’apparition sporadique des formes en -eia dans d’autres manuscrits de la fin du XIIIe et du XIVe siècle ainsi que l’emploi parfois illogique, non rimant, des formes en -ier dans le manuscrit de Daurel et Beton démontrent qu’à cette époque, certaines formes francisantes étaient considérées comme normales dans l’épopée. Les textes écrits en terre ibérique forment, comme on peut s’y attendre, un groupe à part. Ils admettent la licence de l’a nasal pour e nasal, mais rarement. Si la Guerra de Navarra mélange les graphies -er et -ier, cela ne concerne que les substantifs; l’infinitif pseudofrançais en est absent, de même que le participe féminin francisant. Le constat est pareil pour la Canso d’Antioca. Il n’est pas exclu qu’on puisse rattacher l’original de Roland à Saragosse à ce groupe, du moins en ce qui concerne le participe, étant donné que les occurrences de la désinence -eia qu’il contient se situent toutes à l’intérieur du vers, où l’on trouve aussi la désinence normale -ada. D’autres phénomènes, dont nous n’avons pu traiter ici, unissent les textes d’origine ibérique, parmi lesquels une prédilection prononcée pour les rimes masculines, oxytones, que partage également Roland à Saragosse. Pour revenir aux questions que nous avons formulées au début, on notera d’abord la concomitance au moins partielle des phénomènes étudiés. Si les premières licences du type -an s’observent dès le XIIe siècle, les infinitifs pseudo-français et les participes francisants en -ea / -eia font tous les deux leur apparition pendant la première moitié du XIIIe siècle. Les trois phénomènes semblent par ailleurs subir un élargissement progressif comparable: aux doublets -en / -an et -ada / -ea,-eia admis dans la lyrique des troubadours, s’ajoutent d’abord quelques mots à forte connotation épique; les traductions ou adaptations peuvent, certes, favoriser un emploi plus systématique de formes francisantes dans certains textes, mais ce n’est que dans un second temps que l’emploi de ces formes se généralise et devient banal. La diphtongaison pseudo-française reste d’abord strictement limitée aux formes en -ier et ne s’étendra aux formes en -iet que dans les remaniements provençaux de la fin du XIVe siècle. Ce sont surtout cet effet de banalisation progressive, difficilement explicable par des facteurs purement linguistiques, ainsi que le rôle prépondérant que jouent le lexique et le langage formulaire épiques dans cette évolution, qui permettent de parler, à partir du XIIIe siècle, d’une langue particulière, propre au genre épique occitan, langue qui est caractérisée par un
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nombre variable de licences de type francisant.
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Bohdana Librova (Université de Nice – Sophia Antipolis, UMR 6039)
Le fonctionnement de l’adverbe or dans les sermons médiévaux en langues d’oïl et d’oc
1. Introduction La présente recherche s’intéresse à deux résultats romans du latin hora, l’adverbe or(e) en langue d’oïl et l’adverbe ara, son correspondant en langue d’oc. Nous nous proposons de présenter une typologie fonctionnelle des deux morphèmes, telle qu’elle se dégage d’un corpus de sermons, tout en mettant en évidence les articulations sémantiques qui unissent les différents types fonctionnels entre eux.1 Strument polysémique et polyfonctionnel, or intervient volontiers dans la structuration du discours et dans l’expression de nuances énonciatives.2 Son sémantisme déictique le destine au contexte oral, qu’il soit fictif (dans des ouvrages mimant l’oralité) ou effectif (dans des œuvres directement inspirées de l’oralité, comme la plupart des sermons).3 Ainsi, les textes empreints d’oralité s’avèrent-t-ils un terrain d’élection pour décrire le fonctionnement du morphème dans la langue médiévale. Notre corpus est constitué de sermons en langues d’oïl et d’oc datés du 12e siècle jusqu’au début du 16e siècle.4 Nous nous en servirons, dans un premier temps, pour établir une typologie d’emplois. Une comparaison avec des emplois littéraires permettra de valider ou de nuancer des témoignages des sermons. Cette double considération nous fournira ensuite l’occasion de repenser les paramètres sémantico-fonctionnels de or, tels que la notion canonique «d’opérateur de rupture», qui le caractérise selon M.-L. Ollier (1995), et de proposer une modélisation de son sens, dans l’esprit de la psychomécanique guillaumienne. La théorie guillaumienne, postulant la continuité des signifiés, se prête bien en effet à résoudre la difficulté à laquelle se sont heurtées les recherches antérieures, celle de trancher en faveur de l’une des trois valeurs fondamentales à propos de chaque occurrence. Afin de simplifier le propos métalinguistique, nous nous autorisons à regrouper les deux morphèmes ainsi que leurs variantes phonétiques sous le lemme or, chaque fois que leurs propriétés seront convergentes. 2 Plusieurs études ont déjà été consacrées à ces aspects du morphème, en particulier à ses fonctionnalités textuelles (notamment Ollier 1990, 1995, 2000; Perret 2006; Nølke 2006; Torterat 2004). 3 Ses affinités avec l’oralité ont été particulièrement soulignées par Perret (2006) et Guillot (2009). 4 Voir la bibliographie, B. 1
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2. Les trois types fonctionnels et leur ordination Notre typologie fonctionnelle est fondée, dans le principe, sur celle élaborée par M.-L. Ollier (Ollier: 2000, 389-390 et 402-403), qui distingue trois types fonctionnels de or: 1) adverbe déictique temporel, 2) adverbe d’énoncé (dans la mesure où il porte sur un segment d’énoncé) et 3) adverbe d’énonciation (dans la mesure où il porte sur l’acte d’énonciation). Ces trois types sont sous-tendus par un sémantisme commun, que l’on peut définir comme «deixis» ou «aptitude à actualiser un contenu», que celui-ci relève du domaine extralinguistique (temporel), textuel ou bien énonciatif. Afin de souligner la sous-jacence du signifié déictique5, nous proposons de modifier la terminologie de M.-L. Ollier en substituant à «adverbe d’énoncé» le terme de «déictique discursif» et à «adverbe d’énonciation» le terme de «pragmatème».6 C’est le domaine temporel qui permet la réalisation la plus nette du mécanisme déictique, l’actualisation étant à la base un concept temporel: le or temporel actualise les évènements en les rendant contemporains du moment d’énonciation (l’étymologie même reflète la prototypicalité de ce sens, car or vient de l’ablatif hac hora, «à cette heure-ci», tandis que l’occitan ara remonterait à ea hora (FEW: 477a). Dans la terminologie guillaumienne, le sens temporel peut donc être considéré comme plénier, celui où le sème / actualisation / apparaît avec le plus de relief, puisqu’il relève de l’extralinguistique.7 Les deux autres fonctions présentent des états de signifié plus ou moins subduits par rapport au signifié plénier. En effet, du moment qu’il quitte le domaine temporel, le sémantisme de or fait l’objet d’une subduction (donc, d’une réduction de densité sémique), qu’elle se réalise sous forme de grammaticalisation, donnant ainsi lieu au déictique discursif8, ou bien sous forme de pragmaticalisation, engendrant ainsi le pragmatème.9 Au départ des deux tensions, le principe reste encore très proche de la configuration propre au signifié plénier, avec une prédominance du sens temporel. Plus le signifié actualisateur s’engage dans la voie de l’abstraction, et plus il s’éloigne de la deixis temporelle. Cependant, le sens temporel reste généralement présent en marge du signifié nouveau, cohabitation qui ne laisse d’intriguer traducteurs et linguistes soucieux d’établir un classement univoque. Ces préliminaires faits, nous procéderons au classement des occurrences selon les trois types fonctionnels (A. Déictique temporel, B. Déictique discursif, C. Pragmatème), en suivant la progression du mouvement subductif.
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Pour cette transfiguration du signifié déictique, voir Nølke (2006: 397). En entendant par ce dernier l’actualisation de diverses perceptions de l’énonciateur. Il correspond au point A du graphique représenté dans la partie récapitulative de notre texte. Cf ibid. les saisies B. Cf. ibid. les saisies C.
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3. La typologie des emplois A. Déictique temporel Le sens plénier, purement temporel, peut être glosé par «maintenant». Ce sémantisme s’infléchit volontiers par métonymie pour fournir des concepts approchants tels que «à l’instant», «aussitôt» etc. (1) Quar quanqu’a esté fait sor terre des l’ore que Deus fist home jusqu’a ceste ore d’ore. (Sully, 189) (2) Ara es lo terminis que nos majorment devem nostras carns amermar (Chabaneau, 126)
Le morphème entre également dans des locutions temporelles telles que or(e) – or(e), «tantôt – tantôt»: (3) Or esta, ore fuit sicum la roe, ore torne sus, ore torne jus. Or est li hom en halz, ore est en bas. Or est haliegres, ore est malades. Ore est riches, ore est povres. (ms BN fr. 13316, 29v)10
On trouve dans le sens temporel aussi bien la forme longue ore(s) que la forme brève or, et, contrairement à ce qu’on a stipulé (Ollier: 2000, 389-390), ce signifié peut se réaliser tant en position postverbale qu’en tête d’énoncé, même si ce dernier cas est peu fréquent et tend à véhiculer une nuance d’insistance, comme en (5), où or traduit le latin ecce nunc: (4) ...aiez leece in Domino, qui par la mort vos a franchiz, qui estiez sers le diable. Ore estes filii Dei. (ms. Bf fr. 13316, 29v)11 (5) Ecce nunc tempus accep[tabi]le, ecce etc. Or est li tens accept[able], or sunt li jor de salut: (sermons wallons, 27)
Passé le stade de la saisie plénière, or s’engage dans la voie de la subduction, qui peut emprunter deux directions, celle de la grammaticalisation et celle de la pragmaticalisation. Nous allons d’abord considérer la grammaticalisation, qui livre des signifiés à portée textuelle: l’actualisation prend ici progressivement la forme d’une focalisation discursive. B. Déictique discursif Or peut focaliser le discours dans sa forme ou dans son contenu (bien que les deux démarches ne soient pas totalement dissociables, on peut généralement constater la prédominance d’une fonction sur l’autre). Or peut ainsi focaliser un segment textuel: Le même passage édité par S. Gregory (1990: 231, 207-211) à partir du ms. New York, Morgan 338 offre quelques variantes portant sur or: «Ore esta, ore fuit si cum la roe. Or turne sus, or turne jus. Or est li um en halt, or est haliegres, ore est riches; lues turne en bas, lues est enfers...». 11 Le même passage porte or dans le ms. New York, Morgan 338, selon l’édition Gregory (1990: 341, 348-350): «... mais aiez les in Domino Jhesu Filio Dei, ki par sa mort vos ad franchiz. Qui estiez serf de deable or estes filii Dei». 10
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B.1. Focalisation d’un segment textuel Les sermons étant des textes fortement subdivisés, en même temps qu’ils sont désignées à l’attention de l’énonciataire, il arrive fréquemment que leurs composantes textuelles soient encadrées de or, que ce soit à titre introductif ou bien à titre conclusif (de façon typique, l’exhortation, dans la majorité des sermons, commence par la séquence «Or prions»). Ce rôle structurant apparaît bien dans les exemples 6 et 7, où le morphème cumule les deux fonctions, en fermant une séquence précédente et en ouvrant une nouvelle unité énonciative: (6) Ore vos avons dit del asentement. Ore vous dirons quele espeuse il ne violt pas et quele il demande. (Ars 2085) (7) Or avem dita l’estoria, or vos direm lo sen e que significa. (Subalpini, VIII, 92)
Le sens temporel demeure certes dominant (la traduction par «maintenant» est possible), mais la haute fréquence d’utilisation de or avec cette fonction textuelle prouve que sa grammaticalisation est entamée. B.2. Focalisation d’un contenu discursif B.2.1. Focalisation d’un évènement narré (8) Uns hom… descendi de Jerusalem in Jerico, e caï en la voie as larons; e il le despoillierent, e navrerent, e s’en alerent, e le laisierent demi mort. Ore avint c’uns prestres passa par cele voie, e si le vit, e trespassa, e ne dist mot. (Sully, 153) (9) Or aven que lo reis anè en una batailla… (Subalpini, II, 48) (10) Aprés ço fu mors li rices hom, e portés fu e mis en infer; e ore refu mors li lazres, si vinrent li angele, si prisent l’am de lui, si l’enporterent en repos… (Sully, 136)
Dans ce cas, or pointe un moment clé de l’histoire biblique (10) ou bien d’exempla (8, 9). L’importance diégétique des procès est soulignée par l’emploi de verbes de survenance (notamment avenir) ou de verbes d’évènement importants (en 10). Le sens est souvent celui d’immédiateté ou d’une brusque survenance, d’où la traduction privilégiée par «voici (que)» , par exemple en (10): «Et voici que le lépreux mourut à son tour».12 Or peut enfin désigner à l’attention de l’auditoire des notions importantes pour le message du prédicateur, telles que des citations d’autorités (11-12) ou bien l’explicitation du sens allégorique (13-14): B.2.2. Focalisation d’un contenu notionnel (11) Or nos dist apres li ew[an]gelistes que Nostre S[ire] ne r[espon]di mie la bone feme al promier huchement. (sermons wallons, 33) (12) Ara zo dix N S J Crist als seus disciples: Nos entrarem en la ciutad de Jherusalem e serà acabad tot zo qe de mi an escrit les prophetes. (Organyà, 204) Une comparaison avec d’autres langues peut se montrer éclairante, car on constate que le déictique tchèque tu «ici» fonctionne de la même manière: A tu se stalo, že… «Et voici qu’il arriva que…».
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(13) Or quest escalil significa los saint martyr (Subalpini, V, 58) (14) Or aquest serve qui intrè e no pot trover la pera, zo fo la veilla lei que Deus donè per Moysen so feel. (Subalpini, X, 39)
Si le morphème conservait une partie du signifié temporel en focalisant un évènement (B2.1), ici le sens temporel doit être écarté: cela tient au caratère sémantico-aspectuel du noyau verbal: en effet, les verbes en emploi atemporel tels que significar en (13) ou dire en (11-12), sont incompatibles avec le sens temporel de or, à moins qu’on n’emploie une glose du type «Et maintenant, il faut noter que…», ce qui revient à introduire une composante pragmatique dans le sémantisme du morphème, ce qui confirme la progression de la subduction. Un stade de grammaticalisation plus avancé est illustré par les exemples répertoriés sous B 2.3. Dans ce cas, or ne focalise plus un concept clé, mais un de nombreux prédicats permettant la diversification d’un hyperthème: en (15) et en (16), par exemple, il est question de propriétés allégoriques de deux vaches, qui renvoient à des vérités d’ordre religieux: la thématique des vaches constitue l’hyperthème, à l’intérieur duquel différentes propriétés sont assignées à ces animaux, certaines de ces propriétés étant marquées par or: Cependant, comme il ne s’agit que de propriétés parmi d’autres et que or y est, d’autre part, très répétitif, on peut considérer que cette fonction relève de la progression informationnelle (marquage du rhème verbal) et non d’une focalisation d’un contenu notionnel important, comme c’était le cas jusqu’ici. Par conséquent, l’adverbe se grammaticalise encore davantage. B.2.3. Marquage de la progression informationnelle (15) Aqueste doe vaque signifiquen li boin evesque e li boin prever, li quail an veels, id est bona opera et fidem catholicam. Or aquisti van dreitement per la via de Deu e no tornent ne a destre ni a senestre per neguna adversità ne par prosperità que lor aveigna (Subalpini, XVI, 31). (16) Que significa Bethsamis? Bethsamis significa lumen. Or aquisti van Bethsamis, zo est a la lus eternal, per aquesta lumenera carnal. Or aqueste vaque mugean. Car de lor ovre lor recorda, mas n se retrahen, mas ades van de virtute in virtutem… (Subalpini, XVI, 37, 40) (17) Doe chose sun qui sostenen la vita e lo sen de l’ome, zo est intellectus et memoria. Or aqueste doe governen l’arma, et reguntur et gubernantur ab anima. En qual guisa ? L’arma si est vita del corp, e si a doe chose en si, zo est entendement e recordament; Or l’arma fai mover e viver lo corp. (Subalpini, II, 22 et 26) (18) Or aven qu’el enfermò grefment, tant que el se morea. Si veea los diavols en visa de cavaler davan si, e eren ner cumma carbun e atendeien l’arma si tost cum ele eiseria del corp per porter l’en. Or si n’avea tal paor que ne los poea pur esgarder. (Subalpini, I, 92) (19) E si lo fous venea de cel e el ardea, adun saveien que Deus avea receù lor sacrifici, e si lo fos no venea, saveient que Deus no n’avea cura. Or Caim si era lare e bosare, e si ofria a Deu del plus croi lavor qu’el avea, e Deus no n’avea cura …. (Subalpini, I, 38) (20) Trei esperit fei Deus. L’un si est invisibel e racional e no morrà ia, zo est l’angel. L’autre si est hom… Lo terz si est la bestia…, Or l’om si est antre l’angel e la bestia, zo est antre la via e la mort; car l’angel non morrà ia, e la bestia est mortal. Or lo mal engel per sa folia si perdè la vita perpetual, e si esdeven mort eternal…(Subalpini, IV, 64, 67)
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Bien que cet effet de sens ne soit incontestable que dans les Sermoni Subalpini, recueil rédigé dans un dialecte franco-piémontais (Danesi 1976: 99-101), ce type d’emplois incite à nuancer la définition de or en tant qu’«opérateur de rupture», formulée par M.-L. Ollier. En effet, selon cette linguiste, or signalerait une rupture thématique et narrative. Or, si cette fonction se vérifie en règle générale, ce n’est pas le cas dans les énoncés précités, qui ne présentent ni rupture thématique, le thème étant repris à l’énoncé précédent, ni rupture narrative, puisqu’il ne s’agit pas d’instaurer une nouvelle entité énonciative ou de mettre en avant un trait particulièrement saillant, mais bien de souligner un contenu verbal ayant la même importance que d’autres au sein d’un mouvement énonciatif.13 On notera en outre une présence d’indices lexicaux de l’affaiblissement du rôle actualisateur de or: le démonstratif de proximité aquest, qui montre bien que le sujet de la proposition en or thématise un terme repris au cotexte précédent (ex. 15-17), et l’adverbe si, lui aussi marqueur d’enchaînement thématique et de cohésion discursive:14 la présence de ce thématiseur en tête de prédicat confirme le statut thématique du sujet et la restriction de la portée de or au prédicat verbal (ex. 18-20). B.2.4 Fonction conjonctive: marquage d’une articulation logique faible La grammaticalisation de or atteint son stade ultime avec les emplois du type conjonctif, où le signifié actualisateur s’affaiblit au point de fournir la marque d’articulation logique. Ces emplois ne semblent pas encore totalement grammaticalisés en français médiéval. En (21), or introduit la mineure d’un syllogisme: (21) Experience nous enseigne que quant aucuns malades veult de sa maladie avoir remede et briefve garison, il quiert ung jour d’election pour medecine rechevoir. Et s’il est ainsi de le maladie corporele, par plus forte raison, il doit ainsi estre de le maladie esperituelle. Or est il verité notoire que nous sommes malades esperituelement de le maladie de pechiet. (Ailly, 271)
L’évolution à venir confirmera cette progression de la grammaticalisation, qui aura abouti à l’époque classique (Badiou-Monferran 2003).
C. Pragmatème Après avoir suivi le fil de la grammaticalisation, il reste à explorer le second processus subductif affectant or – la pragmaticalisation.15 Devenu pragmatème, or se charge d’inscrire On ne peut pas non plus soupçonner le morphème de constituer une cheville rythmique –chose qui arrive parfois en langue d’oïl– puisque or est suivi du sujet et qu’il n’y a par conséquent aucun besoin de saturer la première zone de la proposition à l’aide d’un adverbe tonique. 14 Selon Marchello-Nizia (1985: 52 et passim), si instaure en préconstruit l’énoncé qui le précède afin de justifier l’énonciation de ce qui suit. 15 Au sujet de ce processus, voir Dostie (2004: 27-33, 47-48 et passim). 13
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dans l’actualité les perceptions de l’énonciateur, en tant qu’elles motivent son dire. Là encore, il faut distinguer différents degrés de pragmaticalisation, depuis les acceptions fortement tributaires du sens temporel et restant susceptibles d’une lecture temporelle (les types C.1 et C.2) jusqu’aux emplois pleinement pragmaticalisés, qui, sauf remotivation, évacuent de leur signifié la composante temporelle (les types C.3 et C.4). C.1. Or traduit l’état émotionnel d’un énonciateur Or peut actualiser l’état émotionnel d’un énonciateur fictif ou effectif, dans un discours direct ou indirect libre. La nuance pragmatique est la plus sensible en DD, comme dans cette lamentation de l’épouse abandonnée dans la Vie de Saint Alexis: (22) «Ore sui jo vedve…, Ja mais ledece n’avrai...» (Vie de Saint Alexis, ed. Perugi, v. 491)
On peut certes admettre une lecture temporelle de ce passage, au sens de «Maintenant, me voici veuve», mais une nuance pragmatique y est également sensible: l’expression du regret. Les sermons ne nous ont fourni que des emplois en DIL: en (23), il s’agit de mimer le monologue interne du diable marchand d’âmes au moment où il perçoit les pertes spectaculaires qu’il a encourues. (23) Ore est venus li diables a mal pertruis, ore a il paor, ore a il angoisce, ore crient il perdre ses mers, si fera il, se Deu plaist! Car or l’asaurront li buen robeor Nostre Segnor, ce sont li provoire qui sont establi par les eglises par cest mestier, si li tolront son vair e son gris, ses rices mers, ce sont les anmes … (Sully, 112)16
Ce type d’emploi a été étudié par J. Rychner dans le Roman de Renart, où il inscrirait à la narration la subjectivité du protagoniste en même temps qu’il inviterait l’auditeur à partager les émotions de Renart.17 En dépit d’une présence probable d’effets de DIL, il faut admettre qu’une lecture purement temporelle reste, là aussi, possible : nous situons donc ce type d’exemples tout près de la saisie plénière.18 C.2. Or traduit une intention de l’énonciateur à l’égard de l’énonciataire On peut en dire autant du type C.2, encore plus délicat à cerner. Il comporte une nuance perlocutoire, visant à modifier le comportement du destinataire. Cependant, la présence de cette nuance est sujette à conjectures, car son identification s’appuie sur l’argument La seconde version de ce texte présente une forme brève du morphème: «or a il pour». «Avec or…, il [= l’auteur] s’attache à Renart et y attache son public, il participe à une action qu’il revit, tout en la mettant sous les yeux des auditeurs.» … «…grâce à l’adverbe or suivi du présent ou du passé composé, le conteur attire et fait vivre Renart dans le présent de ses auditeurs…il le met, littéralement, en présence de son public…» (Rychner 1971: 315). 18 Voir le graphique dans la partie récapitulative de notre texte. 16 17
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relativement faible d’une redondance informationnelle entre le sens temporel de or et l’actualité du moment d’énonciation: il semble en effet inutile de préciser que je dis telle chose maintenant, alors qu’il est évident que je parle en ce moment même. Ce type d’emploi se rencontre exclusivement en discours direct. En (24), les vierges sages se refusent à donner de l’huile de lampe aux vierges folles: (24) Lores respondirent les sages as foles, si disent: ‹Se devient› firent eles ‹ne soffiroit mie a nos e a vos; alés ore a cels qui le vendent, sin acatés a vostre ues›. (BN fr 13316, 23v)
L’énoncé «Alés ore a cels qui le vendent» ne saurait être traduit par «allez maintenant chez ceux qui en vendent», une telle formulation étant redondante: or semble ici véhiculer un sens exhortatif, traduisible par «allez donc…». On notera que la forme longue et la position postverbale de or ne lui ôtent pas sa force perlocutoire, bien qu’elles accentuent sa composante temporelle, le rapprochant ainsi de la saisie plénière. En (25), l’énonciateur en appelle à l’approbation de l’énonciataire. A l’instar de l’ancien français enne ou du latin nonne, or vise à orienter la réponse dans un mouvement de dialogisme interlocutif: «Notre Seigneur n’a-t-il donc pas dit...?» (25) Bele douce gent, or ne dist pas N. S.: Pieres, beneois soies tu, ains li dist: Pieres, tu es beneois…? (Amiens, 577)
Les deux derniers types d’emplois (C.3 et C.4) présentent un or fortement pragmaticalisé. C.3. Marquage de la modalité injonctive Son incidence récurrente aux verbes à la forme injonctive permet d’affirmer que or était pleinement pragmaticalisé en tant que renforçateur de la modalité injonctive: on peut le traduire par «donc» (au risque de produire une redondance, car sa collocation à donques est fréquente dans les sermons, comme dans l’exemple 28): C.3.1. Or est incident au GV (26) Ore oiés que ces coses senefient. (Sully, 135) (27) Or gart chascuns chrestian, qui vol eser ami de Deu, que el dun ben desma senz felonia. (Subalpini, I, 127) (28) Or nous gardons donques de ces trois vices et generalement de tous aultres... (Ailly, 341) (29) Or ne vos meravellai mia per zo que fui nera; car lo soleil me nerzi... (Subalpini, XII, 19)
Certains exemples restent certes susceptibles d’une lecture temporelle dans le contexte de l’actualité énonciative qu’est celui du sermon –ainsi en (26)– mais, pour la plupart, une lecture purement injonctive s’impose: c’est particulièrement vrai en (29), où l’Eglise s’adresse à ses fidèles avec une insistance manifeste: «Ne vous étonnez pas de ce que je fus noire». Un sens d’actualisation temporelle (*«Ne vous étonnez pas maintenant»), ne se justifierait aucunement. La pragmaticalisation est donc considérablement avancée.19 Lorsque or introduit un infinitif jussif, son incidence est matérialisée à l’aide de l’enclise del: Or
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C.3.2. Or est mis hors phrase Dans le prolongement de ce sémantisme injonctif, le degré ultime de pragmaticalisation est atteint dans les exemples (30-38). Le degré de subduction avancé est ici corrélé au changement de statut grammatical: or est mis hors phrase avec une fonction vaguement exhortative (on pourrait le traduire selon les contextes par «eh bien», «allez», ou bien par «holà»): (30) Ore, buenes gens, ore est li tans de bien faire (Sully, 110) (31) Ore, bones gens, or gardés a vos meismes, savoir mon que vos faites de son avoir e de la valor que Deus vos a donee. (Sully, 192) (32) Ore, bele douce gent, vous connoissiés vos voisins et savés mex la u il mainent que ge ne sai (Amiens, 559) (33) Or, seignor, no siam menzonger (Subalpini VI, 111) (34) Et qui perd Deu e la sua … anima, tot a perdud. Ara, sennor, qui tot aiso a perdud, com si pod alegrar en est segle? Aixi com fa la tortre en terra secca si deu pausar… (Tortosa, 380) (35) Lo laire de la destra part que fo salvs signifia cels que cofesso lor pecat, li altre20 signifia cels que se despero de Deu, si co fez Judas. Era, baro, per amor de aquella croz on Deus fo traballat, devem baissar aquesta croz... (Chabaneau, 129) (36) «E nos verament, dissero li disciple, lo vim, e que nos aparec e la via; e dis nos e nos demostret dels seus essemples,. e nos conog[u]em lo be, quant nos frais lo pa e lo nos benedis a la taula.» Era, seinor, vejaz de caritat quant gran[z] merces e quan gran[z] vertuz es… (Chabaneau, 131)21 (37) Et en autre loc dicit quia «sicut aqua extinguit ignem, ita helemosina extinguit peccatum [...]». «Et era vos, seinor, si devet levar en pes, e clamem tuit merce a Nostre S. Jhesu Christ…» (Chabaneau, 132) (37a) Or vois disant a moi meïsmes: «Ore Tristanz, que feras tu? Tes cuers si est en Cornoaille, et tes cors si est en la Petite Bretaigne ...» (Tristan en prose, III, 14, éd. Curtis, CLM) (37b) Ore, ou est la dame de cyens? (Manière de Langage, éd. Kristol, 4.1.,72)
La subduction avancée est corrélée à la diminution de l’autonomie syntaxique dans les locutions exhortatives du type or ça:22 (38) Or sa, dissolvite ceste drogue, gallice: desployez ceste drogue. (Menot, 31)
Le sens temporel est évacué de la plupart des occurrences, comme en témoigne l’exemple 30, où un deuxième ore se charge précisément de cette valeur temporelle. Son altérité par rapport au or renforçateur de l’injonction verbale est montrée par l’exemple 31, où le ore mis hors phrase est suivi d’un or injonctif incident au verbe. Ce type d’emploi hors phrase est del chevalchier. Ce trait de figement pourrait être interprété comme la marque syntaxique d’une subduction accrue, le défaut de la matière sémantique étant compensé par l’augmentation de la dépendance syntaxique. 20 L’altre (éd. Chabaneau) a été corrigé en li altre selon l’édition P. Meyer (1877: 1, 45, 75-78). 21 Le même texte se trouve dans Appel (1895: No 116, 36-39) avec quelques variantes, qui n’ont cependant aucune influence sur l’interprétation du morphème era. 22 Au sujet de cette locution, voir E. Oppermann (2000: 55-56 et 72-73), qui la qualifie de «modalisateur incitatif».
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très fréquent dans le contexte exhortatif du sermon, alors qu’il est relativement peu présent dans la langue littéraire.23 Il est cependant bien attesté dans un autre genre puisant à la langue orale, les manuels de français pour étrangers (37b). L’emploi hors phrase semble être lié à une réalisation pleine du morphème, puisqu’il n’apparaît dans les textes que sous la forme ore, exception faite des Sermoni Subalpini, qui présentent toutefois de fortes spécificités linguistiques, étant écrits en franco-piémontais. En outre, une spécialisation formelle semble s’être opérée dans le microsystème des sermons provençaux du ms. BN lat 3548B, où ce type figure exclusivement sous la forme era, alors que les autres fonctions sont assumées par la forme ara.24 Un degré de pragmaticalisation avancé est enfin représenté également par le or renforçateur de l’interrogation: C.4. Renforcement de la modalité interrogative (39) Or que significa la meretrix qui mis lo drap vermeil a la fenestra…? (Subalpini, X, 284) (40) Or que devem entendre per aquesta parola? (Subalpini, XII, 8)
Avant de conclure, récapitulons les principaux acquis de cette recherche pour notre connaissance du sémantisme du morphème, en nous appuyant sur un tenseur d’inspiration guillaumienne:
A
B1 C1
B2.1 C2
B2.2.
B2.3 C3.1, C4
B2.4 C3.2
Ce tenseur matérialise le profil sémantique de or, et, à peu de chose près, également celui de ara, en rendant compte simultanément de la progression du processus de grammaticalisation (les saisies B) et de celui de pragmaticalisation (les saisies C). Dans la partie gauche, nous constatons, à un certain degré, la persistance du signifié temporel. A l’extrémité de la tension subductive (donc à l’extrémité droite), le sens temporel est estompé. Il peut cependant réapparaître grâce à l’actualité énonciative du contexte homilétique. C’est ce que l’on constate dans l’exemple (41), où des or injonctifs s’empreignent d’une nuance temporelle grâce à la temporalité exprimée par les occurrences proches (la première, la quatrième et la cinquième occurrences):
On le trouve cependant par exemple dans le Tristan en prose (ex. 37a). Cette distribution ne se vérifie toutefois pas systématiquement dans les textes littéraires consultés (COM 1, 2).
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(41) Deus nos a attenduz en nostre enfance e en nostre juvente. Ore sumes venu a nostre age. Or del resusciter, or del lever de le mort de nos pechiez! Ore est nos tierc jors. Qui ore ne relevera, honte aura de lui e de ses semblans. (BN fr 13316, 22v)25
Là encore, le tenseur guillaumien est apte à figurer ces allées et venues entre sens plus ou moins subduits, grâce au principe de l’intégrité énoncé ainsi par G. Guillaume: «[... ] un rapport structural institué entre deux termes, A et B, ne satisfait à la condition d’entier que s’il est parcouru successivement dans les deux sens : de A en B et, en réplique, de B en A. En figure: A1 →B1 B2→ A2» (Guillaume 2003: 92). En effet, ce principe postule, à nos yeux, la possibilité pour un morphème fortement subduit, et même lexicalisé, de renouer à tout moment avec son signifié plénier, grâce à l’action du contexte.
4. Conclusion Nous avons tenté d’opérer une distinction entre trois valeurs fonctionnelles différentes du morphème or, tout en mettant en évidence la continuité du signifié temporel et des deux mouvements subductifs. Toutefois, nous n’avons pas exploré la relation entre ces derniers. Il s’avère en effet que non seulement le signifié temporel persiste en marge de nombreux emplois textuels et pragmatiques, mais aussi que la fonction pragmatique peut être associée à la fonction textuelle. A partir de là, la question se pose de savoir quel est le lien précis entre la grammaticalisation et la pragmaticalisation au sein du morphème. La grammaticalisation peut-elle se concevoir indépendemment de la pragmaticalisation? En effet, la deuxième semblerait à un certain degré conditionner la première, car or, morphème déictique, porte dans son sémantisme les conditions de sa propre énonciation et, à ce titre, intègre l’instance de l’énonciateur. Par conséquent, du moment qu’il abandonne le signifié purement temporel, or ne saurait jamais être totalement détaché du domaine pragmatique. Cette conjecture serait renforcée par la récurrence de marques de coordonnées énonciatives et d’embrayeurs dans les propositions en or. Toutefois, dans la majorité des emplois à dominante textuelle, la présence d’une nuance pragmatique est difficile à discerner, et se refuse à une modélisation en termes d’outils théoriques ici employés. Cette piste mériterait donc d’être approfondie prochainement sous d’autres angles théoriques.26
Le même passage offre des variantes dans le manuscrit édité par Gregory selon le ms. Morgan 338 (1990: 314, 184-189): «Deus nos ad attenduz en nostre enfance, en nostre juvente. Or summes venuz a nostre ëage, or del leveir, or del resusciter de la mort de nos pechiez, or est nos tiers jors. Ki ore ne releverat, um dirat de lui et de ses semblanz: Computruerunt iumenta in stercore suo». 26 Je tiens à remercier ici Gilles Roques pour ses nombreuses suggestions et remarques concernant l’identification des textes manuscrits et la fiabilité des éditions. 25
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Bohdana Librova
Bibliographie A. Ouvrages théoriques Badiou-Monferran, Claire (2003): Quelques aspects de la concurrence des graphies ore, ores et or au début du XVIIe siècle: distribution sémiologique et recomposition du système des connecteurs. In: FM 71/2, 211-241. Danesi, Marcel (1976): La lingua dei Sermoni Subalpini. Torino: Centro Studi Piemontesi. Dostie, Gaétane (2004): Pragmaticalisation et marqueurs discursifs: analyse sémantique et traitement lexicographique. Bruxelles: De Boeck-Duculot. Guillaume, Gustave (2003): Prolégomènes à la linguistique structurale 1. Québec: PU de l’Université Laval. Guillot, Céline (2009): Ecrit médiéval et traces d’oralité: l’exemple de l’adverbe or(e). In: Havu, Eva et al. (edd.): La langue en contexte. Actes du colloque Représentation du sens linguistique IV (Helsinki, 28-30 mai 2008). Helsinki: Société Néophilologique, 267-281. Marchello-Nizia, Christiane (1985): Dire le vrai: l’adverbe si en français médiéval. Essai de linguistique historique. Genève: Droz. Nølke, Henning (2006): Petite étude diachronique de or. De la déixis temporelle à la déixis textuelle. In: Nølke, Henning / Baron, Irène / Korzen, Hanne / Korzen, Iørn / Müller, Henrik H. (edd): Grammatica, Festschrift in honour of Michael Herslund. Bern: Peter Lang, 393-404. Ollier, Marie-Louise (1989, 1990): La séquence or si en ancien français, une stratégie de persuasion. In: R 110 et 111, 289-330 et 1-36. — (1995): Or, opérateur de rupture? In: LINX 32, 13-31. — (2000): De l’ancien français or au français moderne maintenant. In: Ollier, Marie-Louise: La forme du sens. Textes narratifs des XIIe et XIIIe siècles. Etudes littéraires et linguistiques. Orléans: Paradigme (Medievalia, 33), 405-432. Oppermann, Evelyne (2000): Les Emplois injonctifs du futur en français médiéval. Genève: Droz. Perret, Michèle (2006): Ancien français: quelques spécificités d’une énonciation in praesentia. In: LFr 149, 16-30. Longère, Jean (1997): La prédication d’après les statuts synodaux du Midi au XIIIe siècle. Les prédicateurs et leur public. In : La prédication en Pays d’Oc (XIIe - début XVe s.). Toulouse: Privat (Cahiers de Fanjeaux, 32), 251-274. Rychner, Jean (1971): Renart et ses conteurs ou le ‹style de la sympathie›. In: TraLiLi 9, 309-322. Torterat, Frédéric (2004): Si et or comme cohéreurs (para)textuels en ancien et en moyen français. In: Jacquart, Danielle / James-Raoul, Danièle / Soutet, Olivier (edd.): Par les Mots et les textes..., Mélanges de langue et d’histoire des sciences médiévales offerts à Claude Thomasset. Paris: PU Paris-Sorbonne, 757-773. Zink, Michel (1982): La Prédication en langue romane avant 1300. Paris: Honoré Champion.
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Sergio Lubello (Università di Salerno)
Il testo in movimento: il De arte coquinaria di Maestro Martino e le riscritture del libro d’autore
1. Quando la cucina diventa un’arte Il ricettario di Maestro Martino da Como, il De arte coquinaria, interrompe a metà Quattrocento una tradizione di ricettari anonimi in volgare:1 si tratta finalmente del primo libro d’autore che segna il passaggio dalla raccolta adespota all’opera originale, destinata probabilmente non solo alla consultazione saltuaria, ma anche alla lettura consapevole. Un bel volume di Bruno Laurioux (2006), dedicato al trattato latino dell’umanista cremonese Bartolomeno Sacchi detto Il Platina, il De honesta voluptate et valetudine (1470 ca.)2, riserva un paragrafo importante a Maestro Martino, Quand la cuisine devient un art, in cui è ricordato il ritratto del cuoco ideale tratteggiato da Platina nella sua opera:3 Novicomensi nostra aetate coquorum principi, et a quo obsoniorum conficiendorum rationem accepi, sit omnino, si fieri potest, persimilis.
E altrove, nel Libro VI, al capitolo intitolato Cibaria alba: Quem coquum, dii immortales, Martino meo Comensi conferes, a quo haec scribo magna ex parte sunt habita.
Se ne potrebbe dedurre che Martino, al quale Platina esprime gratitudine, sia stato un semplice dimostratore della propria tecnica; in realtà, a rivelarne i meriti, è proprio l’originalità Compilati probabilmente già nel XIII sec., anche se in realtà il codice più antico è solo del quarto decennio del Trecento: per un inquadramento sulle tradizioni antiche di ricettari di cucina in area italiana, cfr. Laurioux (1996), Lubello (2006), Frosini (2009), Lubello (2009), Lubello (i.c.s.); sui ricettari latini, probabilmente derivanti da un modello in volgare, cfr. Mulon (1968) e ora Martellotti (2005) (cfr. in generale il repertorio contenuto in appendice in Lambert 1992: 317-362); utili anche, per il quadro di influssi tra le tradizioni dell’Europa medievale, le indicazioni fornite da Hieatt / Jones (1986). 2 Platina, di origine cremonese (di Piadena), precettore dei figli di Ludovico Gonzaga, si trasferì a Roma, agli inizi del 1462, come segretario del giovane cardinale Francesco Gonzaga ed entrò nell’Accademia romana di Pomponio Leto. Nei tre anni immediatamente successivi all’arrivo a Roma risale la gestazione del suo trattato. 3 Laurioux (2006: 503-529); le citazioni di Platina che seguono sono tratte da Laurioux (2006) e si trovano rispettivamente alle pagine 503n e 504n. 1
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della sua opera, il De arte coquinaria, trattato esemplare, organizzato e strutturato secondo un disegno preciso e notevolmente diverso rispetto alla trattatistica precedente, opera matura e sapiente, dalla partizione precisa della materia e dall’accurata indicazione dei particolari, ben lontana dall’improvvisazione4, che rivela nel complesso un carattere di netta rottura con la tradizione precedente.
2. La scrittura del testo: vicende biografiche e fasi redazionali L’origine di Martino è stata impropriamente localizzata a Como per via della testimonianza –a lungo isolata– di Platina, che lo definisce comense verosimilmente per rendere più comprensibile e identificabile ai suoi lettori l’origine del cuoco nativo di Torre della valle del Blenio, oggi in Canton Ticino. Del resto le notizie che si avevano di Martino fino al convegno celebrativo del 1989 erano poche e frammentarie5, derivanti per lo più dalle rubriche e intitolazioni dei codici, mentre solo recenti disseppellimenti d’archivio hanno consentito di ricostruirne la biografia in modo più attendibile e circostanziato. Fu Joseph Vehling già negli anni ’30 a ‹scoprire› Martino e a identificare in lui l’autore di un ricettario conservato alla Library of Congress di Washington.6 Questo manoscritto, che erroneamente il Vehling aveva creduto originale e quindi datato al 1450 ca., è più tardo, della fine del XV sec., ed è stato alla base dell’edizione fornita da Emilio Faccioli7, l’unica disponibile fino a quella curata, trent’anni dopo, da Claudio Benporat.8 L’intitolazione recita: Libro de arte coquinaria composto per lo egregio maestro Martino coquo olim del Reverendissimo Monsignor Camorlengo et Patriarcha de Aquileia.
Il patriarca di Aquileia è stato già da tempo identificato nel ricco e potente prelato Ludovico Scarampi Mezzarota, ovvero Ludovico Trevisan (1401-1465), che al servizio di Eugenio IV fu nominato nel dicembre 1439 patriarca di Aquileia e promosso nel 1440 a camerlengo, più noto alla storia come cardinal Lucullo per la «splendidezza dei lauti conviti e delle suppellettili più di quanto fosse conveniente al suo ufficio».9 W non è l’unico testimone e neppure il più antico, né il migliore, come emerge dal confronto con un altro manoscritto conservato alla Biblioteca Vaticana, descritto sin dal Maestro Martino è citato anche nel più recente Beccaria (2009), ad indicem. Il convegno internazionale di studi, dal titolo Maestro Martino di Como e la cultura gastronomica del Rinascimento, si è tenuto a Como, dall’1 al 3 giugno 1989. 6 Washington, Library of Congress, Rare Books 153, d’ora in poi W. Per le ricerche di Vehling dedicate in quegli anni a Martino e a Platina, si veda Vehling (1941). 7 Faccioli (1966: 115-204), e ripresa nell’edizione accresciuta e rivista di Faccioli (1987: 127-218); l’edizione curata da Faccioli, che mutua dal Vehling la datazione al 1450 ca., è stata quella utilizzata nei repertori lessicografici dell’italiano. 8 Benporat (1996), che ha ragionevolmente optato –data la situazione complessa del testo, come si dirà di seguito– per un’edizione bedieriana dei singoli mss. 9 Così nel ’500 lo definiva Raffaele Maffei da Volterra citato in Benporat (1996: 18). 4 5
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1921, ma sconosciuto a Faccioli (1966).10 All’incirca contemporaneo di W, V possiede tutte le rubriche che enunciano i titoli delle ricette11 e include inoltre una tavola assente in W. Di un terzo ms., rimasto sempre nelle mani di privati, non si ha più traccia: esso appartenne fino al 1883 ad Ambroise Firmin-Didot (di cui porta l’ex libris), passò poi alla collezione del bibliofilo Jérôme Pichon, ricomparendo a Londra, in una vendita all’asta da Christie’s, nel novembre 1974 quando finì nelle mani del libraio milanese Alberto Chiesa: è questo l’ultimo tassello noto della storia del ms. ricostruita dalle lunghe e pazienti ricerche di Bruno Laurioux.12 Dalle poche indicazioni che si hanno e che sono per lo più quelle risultanti dal catalogo dei Printed Books di Christie’s del 1974 (che riproduce anche la prima carta), risulta che il codice, a differenza di W e di V, è in preziosa pergamena, riccamente decorato e scritto in una elegante umanistica corsiva che un’attenta perizia paleografica ha identificato in quella dell’illustre Bartolomeo di Sanvito;13 sul primo foglio, inoltre, risulta incompleto un cartiglio destinato allo stemma nobiliare dell’illustre destinatario. Martino qui non si qualifica, come in W, coquo olim del cardinale di Aquileia, ma coquo ancora in servizio: Libro de arte coquinaria edito per lo egregio e peritissimo maestro Martino coquo del Rev.mo S. Cardinale de Aquileia.
Tutto fa pensare insomma che si tratti di un esemplare di presentazione, probabilmente la copia che Martino aveva destinato allo stesso patriarca di Aquileia, la cui morte, nel 1465, rese inutile l’indicazione dello stemma; ciò consente di datare il ms. quindi al 1464-1465. Torniamo a Platina. Egli ultimò il De honesta voluptate, molto prima del 1475 (data della prima edizione non anonima a Venezia), almeno nel 1468, ma aveva già composto il nucleo essenziale, secondo Mary Ella Milham (1992: 81), nell’estate del 1464, mentre risiedeva nella villa di Tuscolo dell’antico protettore, il cardinale Francesco Gonzaga, che peraltro ospitava spesso nella stessa villa il suo amico Trevisan, di cui Martino era capocuoco; è a Tuscolo che probabilmente Platina conobbe Martino, anche se non si può escludere che la conoscenza tra i due fosse avvenuta in un’altra occasione conviviale: l’anno prima, per esempio, nell’estate 1463, Trevisan aveva ospitato ad Albano il cardinale Gonzaga insieme a Platina. Poco importa dove Platina e Martino si conobbero, mentre è certo che Platina possedeva un ms. di ricette di Martino –che forse all’epoca della stesura del trattato si configurava come una semplice collezione privata di ricette da capocuoco– e che fu Platina a chiedere di trascrivere il libro di cucina di Martino allo scrivano Sanvito, amico e anche membro dell’Accademia romana di Pomponio Leto, in un esemplare di presentazione per il cardinale Trevisan (Et coquatur 1996: 126-7). Non è perciò inverosimile ipotizzare che a metà del 1470 Platina assorbisse nella sua opera un primo gruppo di ricette di Martino, incorporandole e trasformandole in Città del Vaticano, Biblioteca Vaticana, Urb.lat. 1203, d’ora in poi V (appartenuto peraltro tra il 1543 e il 1592 alla collezione dei duchi di Urbino). La pagina col titolo è andata perduta già nel ’500 e una mano cinquecentesca ha apposto il titolo di Epulario. 11 Il che, secondo Laurioux (1996: 42) avrebbe evitato al Faccioli di fare molte congetture azzardate sulle intitolazioni delle ricette. 12 Laurioux (1996: 43n) afferma che il libraio Alberto Chiesa lo aveva da poco informato di non esserne più in possesso. 13 Secondo l’accurata perizia paleografica di Laurioux (1996 : 43n), la scrittura appare simile a quella del Sanvito nel Giovenale della Laurenziana, nel Cicerone di Londra e in quello dell’Eton College. 10
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un trattato di dietetica, di storia e cultura alimentare, il De honesta voluptate et valetudine; si potrebbe addirittura fare una congettura più azzardata e pensare con Laurioux, che per primo ha avanzato con prudenza questa ipotesi, a una composizione a quattro mani, di cui il Libro de arte coquinaria e il De honesta voluptate sono i due versanti, uno tecnico e volgare, l’altro dotto e letterario. Certamente il ritrovamento del ms. perduto, collocabile con molta probabilità dopo la morte del patriarca di Aquileia, consentirebbe di verificare se i ricettari tramandati da W e V rappresentanto una seconda versione del Libro de arte coquinaria.14 Infine, un altro codice, della fine del XV sec., è stato reperito di recente presso la Biblioteca Comunale di Riva del Garda, ma è stato erroneamente considerato dal primo editore, Aldo Bertoluzza (1993), il primo testo storico della cucina trentina per il solo fatto che il ms. è stato trovato casualmente a Riva del Garda.15 Il rinvenimento di questo codice ha cambiato la prospettiva della ricostruzione non solo del testo, ma anche della biografia di Martino. Nell’incipit si leggono informazioni importanti, sul nome, sul luogo di nascita e su un nuovo protettore: Libro de cosina composto et ordinato p(er) lo egregio homo mag(ist)ro martino di rossi dela valle de bregna m(edio)lan(en)sis diocessis, descenduto de la villa de turre, nato dela casa de s(an)cto martino vidualis, coquo del Ill.re s.re Jo. Iacobo Trivultio, Expertissimo in questa arte et como legaray prudentissimo.
Il copista non ha dubbi: si tratta delle ricette di Martino de Rubeis (de Rossi), originario della valle del Blenio, posta sotto l’autorità della diocesi milanese, sceso dalla località di Torre, nato nella ‹casa› di Santo Martino Viduale, espertissimo in quest’arte e cuoco del celebre uomo d’armi Gian Giacomo Trivulzio. Che Martino sia l’autore dei diversi ricettari è opinione ormai condivisa; peraltro, a margine della copia del De honesta voluptate stampata da Lorenzo dell’Aquila e Sibillino Umbro a Venezia nel 147516, prima edizione datata del trattato, una mano coeva, alle carte 10v e 54r nel punto in cui è ricordato Martino da Como, ha abraso il testo a stampa e segnato a margine Martino Rubro Comensi. Il patronimico de rubeis o de rossi trova conferma in un ricettario stampato a Venezia nel 1516, Opera nova chiamata Epulario, la cui paternità viene ascritta nel frontespizio a un non meglio precisato Giovanne de Rosselli, con assonanza non casuale dei nomi, tanto più che si tratta di un ricettario derivato da Martino, identico nella sostanza benché organizzato in un diverso ordinamento (Benporat 1996: 20). Il ms. ci è giunto corredato dell’indice fino al pastello volativo, consta di 287 ricette (239 delle quali sono già quelle note del De arte coquinaria17), ma risulta incompleto per la L’ordine dei capitoli dalle poche notizie che si hanno, sembrerebbe simile a quello di W e di V, ma la formulazione dei titoli delle ricette risulta leggermente diversa e fa pensare che con molta probabilità V e W siano il risultato di un rimaneggiamento. 15 Riva del Garda, Biblioteca Civica, d’ora in poi R. Restano ancora oscure le modalità di acquisizione da parte del Comune di Riva del Garda del ricettario, in quanto il ms. non reca indicazioni o note di possesso che consentano di ricostruire una possibile provenienza: cfr. Et coquatur (1996: 293). 16 Ora presso la B.I.G., Biblioteca Internazionale di Gastronomia di Sorengo. 17 Spadaro di Passanitello (1994) ha compiuto una analitica comparazione sinottica dei ‹ricettari› di Martino. 14
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mancanza di alcuni fogli, che sono stati ritrovati di recente e pubblicati da Claudio Benporat (1998): essi contengono il menu, datato 150118, per il banchetto di nozze di Niccolò Trivulzio, figlio del condottiero Gian Giacomo protettore di Martino; il giovane sposo, nato nel 1479, è qualificato come conte di Mesocco, località vicina alle valli del Blenio di cui Martino era originario e dove sarebbe forse ritornato in vecchiaia, se non si vuole escludere che sia stato ancora Martino ad aver preparato il menu. Inoltre, colpisce il fatto che interi gruppi di ricette presenti in R non compaiano negli altri due codici, si perdono tutte le ricette definite «alla genovese», come il gruppo numerato 99-117 e più avanti da 160 a 162 e da 167 a 173; a R mancano 13 preparazioni di pesce così come varie ricette –all’incirca una trentina– che si leggono negli altri ricettari, omissione che è evidentemente frutto di deliberate scelte operate dal copista, così come l’aggiunta di un numero leggermente superiore di avvertenze (del resto ancora non è possibile stabilire il testo iniziale, se cioè Martino partisse dal Libro de arte coquinaria come si presentava nel 1465 al momento in cui l’offriva al suo protettore o dal rimaneggiamento da cui derivano W e V). I mss. di Washington e della Vaticana risultano meglio strutturati e ordinati secondo uno schema più logico come se fossero il risultato di una sapiente opera di revisione anche lessicale, attenta a selezionare e scegliere le ricette prescelte e a scartare quelle inopportune. Si trattava probabilmente di adattare alla sensibilità della Roma papale o ai progetti dell’Accademia pomponiana un testo concepito per altri fini: per es. il capitolo dedicato ai pastelli di grasso nel quale compaiono erroneamente, nel ms. di Riva, anche i pastelli secchi con pesce integro e i pastelli di pomo codogno, ricette che vengono spostate negli altri mss. al capitolo appropriato perché preparazioni di magro. È come se l’opera fosse stata sottoposta a un attento controllo e rielaborata alla ricerca di una maggiore omogeneità e coerenza. Per completare il quadro, va ascritto alla tradizione indiretta del De re coquinaria un altro ricettario che costituisce la tessera mancante per ricostruire la storia del testo di Martino: si tratta di un ms. conservato a New York19, di fine XV - inizi XVI sec., noto come Cuoco napoletano per via di alcuni elementi dialettali nel lessico, vergato in area campana in scrittura umanistica della Napoli aragonese, databile più precisamente all’inizio dell’ultimo decennio del secolo (1490-1510) sulla base di alcuni riferimenti conviviali (ci sono due menu datati 1477 e 1492, il primo per le nozze tra Girolamo Riario, nipote di Sisto IV, e Caterina Sforza, il secondo per il banchetto offerto dal cardinale Ascanio Sforza a Ferrandino, principe di Capua). Il ricettario non presenta una partizione rigorosa della materia, come invece accade in W e V, e presenta inoltre alcuni elementi che permettono di collocarlo in un ambiente preciso, a partire dal lessico in cui si ravvisano vari ispanismi e dialettalismi. Esso contiene molte ricette, alcune delle quali «alla catalana», in comune con il De arte coquinaria. Il testo si è rivelato un discendente infedele del libro di Martino, ma presenta somiglianze impressionanti col Libro de cosina (per es. la presenza di alcune ricette come la salsa papale e la torta papale che sono da ricondurre alla mano di Martino): il modello del Cuoco Napoletano sembrerebbe una versione intermedia tra il Libro de arte coquinaria e il Libro de cosina. Rimettendo finalmente in ordine i dati e ricapitolando, Martino, originario di Torre, faceva parte di quella schiera di abitanti della Valle ticinese di Blenio, che scesi dalle inospitali vallate Cfr. Laurioux 2006 (2006: 507) sulla base delle indicazioni (e della scoperta) fornite da Benporat (1998). 19 New York, Pierpont Morgan Library, Buehler 19. 18
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poste a nord di Como, cercavano lavoro nella ricca Milano e venne impiegato con mansioni di cuoco alla corte di Milano.20 È al servizio del duca Francesco Sforza dal 1457 fino al 1461 o 1462, quando passa a lavorare per il patriarca di Aquileia, Ludovico Trevisan, e conosce Platina, che all’inizio del 1462 ha lasciato Firenze per Roma. La loro amicizia si consolida nel gruppo intorno a Pomponio Leto, che fonda nel 1465, l’Accademia Pomponiana. Gli anni della biografia romana di Martino che ancora restavano nebulosi sono stati ricostruiti di recente, grazie ai molti documenti rintracciati da Bruno Laurioux21 che accertano che Martino fu dal 1464 al 1484 cuciniere segreto dei papi Paolo II e poi Sisto IV. L’obiezione principale alla ricostruzione doviziosa di particolari e documenti è costituita dalla mancanza di una qualche traccia di questa attività ventennale nei ricettari, non facendo l’autore né omaggio né dedica esplicita, come invece fa a Trevisan in W o a Trivulzio in R, tant’è che è stato anche ipotizzato, da Claudia Märtl, che forse proprio il manoscritto perduto fosse l’esemplare di dedica a Paolo II.22 Dopo il lungo periodo romano, Martino fu assunto nelle cucine del gran condottiero Gian Giacomo Trivulzio, probabilmente negli anni 1480-87, e fu allora che egli rimise mano ancora una volta alla sua opera, risistemandola, nella fisionomia documentata da R: il codice sembra collocarsi, per la sua scrittura, nell’Italia settentrionale e del resto l’estrema precisione nell’indicazione delle origini non avrebbe avuto molto senso al di fuori di quella regione; la scrittura è libresca ed è assente ogni decorazione, il che rende plausibile il fatto che ci troviamo davanti a un manoscritto di lavoro, forse vicini al testo al quale Martino voleva arrivare dopo il lavoro di alcuni decenni. Anche il titolo, Libro de cosina è diverso; non è da escludere d’altra parte che la forma latineggiante Libro de arte coquinaria si debba a Platina. Un’arguta intuizione di Laurioux rileva un particolare segnalato dagli autori della Gastronomie au Moyen-âge (Redon / Sabban / Serventi 1994: 254), stupiti per l’assenza dello zucchero nel bianco mangiare al modo catalano nel testo pubblicato da Faccioli, quindi in W, mentre in V si trova uno spazio bianco dopo la parola libra, come se il copista non avesse potuto leggere una parola del suo modello o si fosse accorto dell’assenza di qualcosa: la sequenza libra meza de zucharo compare in R, prova indiscutibile che esso è stato fissato a partire da un modello precedente a W e V (Laurioux 1996: 49). Il nucleo originario di ricette, raccolta disorganica e privata nelle mani di Martino, viene pensato per essere ‹inserito› nel De honesta voluptate di Platina e ripulito per un ricettario di presentazione (da cui discendono W e V, che hanno un ordinamento simile); nel tempo quel nucleo iniziale continua ad esistere, via via arricchendosi di materiale e variando nell’ordinamento fino ad essere ripreso successivamente, nel periodo in cui Martino fu cuciniere segreto, quindi ampliato e integrato di nuove ricette durante il periodo di servizio per Trivulzio, fino a diventare il Libro de cosina. Le attestazioni di Rubeum de Blegnio e magistro Martino nei documenti della corte sforzesca vanno dal 1458 fino al 1467 (peraltro il patronimico de Rubeis è comune nella Milano tre-quattrocentesca). Secondo Benporat (1996: 21) Martino, partito dal paese di Torre, avrebbe perfezionato il suo magistero in un ambiente legato alla cultura alimentare catalana, molto probabilmente a Napoli, data la presenza di una serie di ricette ignote alle tradizioni precedenti e che compaiono in tutte le redazioni del ricettario. 21 La documentazione è allegata nell’appendice B (Laurioux 2006: 569-571). 22 Per le ricerche e le ipotesi di Claudia Märtl, cfr. Laurioux (2006: 510-11). 20
Il testo in movimento: il De arte coquinaria di Maestro Martino e le riscritture del libro d’autore
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3. La fortuna dell’opera L’opera di Martino, il De arte coquinaria, risulta in definitiva un testo dalla storia complessa, in cui redazioni e interventi successivi attribuibili all’autore creano non un capolavoro congelato una volta per tutte, ma un’opera continuamente modificata, migliorata, riattualizzata dal suo autore, anche dopo la sua morte (Laurioux 1996: 53). Alle esigenze della cultura umanistica romana e della curia papale, il De arte coquinaria si adegua agli schemi del trattato, operando una selezione della materia, che viene esposta in volgare, in una lingua matura che si stava affermando nella trattatistica di cucina, oltre che di dietetica e di salute, sicuramente di gran lunga più efficace di quel latino che nel ’400 utilizza ancora Giovanni Bockenheym, cuoco di papa Martino V, in un registro di 74 ricette di cucina (cfr. Bonardi 1995); significativo risulta, quindi, anche per i risvolti linguistici, il passaggio del titolo dal latino al volgare, Libro de cosina. Platina indica Martino come cuoco perfetto, e il Libro de arte coquinaria diviene, come afferma Laurioux (2006: 504), una vera icona, il portabandiera di un nazionalismo gastronomico. Soprattutto nella versione finale del Libro de cosina, la raccolta si manifesta come un caleidoscopio delle diverse cucine praticate allora in Italia e di molte tradizioni allogene, almeno nelle diciture, francese, catalana, alemanna, ecc. arricchendosi di nuove varietà di pasta e di preparazioni (maccheroni e ravioli); non a caso fino a Messi Sbugo fu il testo più copiato, rimaneggiato, ampliato, saccheggiato per vari decenni. Come ha osservato Giovanna Frosini (2009: 81), la cultura umanistica e rinascimentale trasforma la pratica di cucina in un’arte raffinata, chiamata a elaborare un complesso e articolato cerimoniale per la vita di corte, di cui il banchetto signorile costituisce la più stupefacente e ostentata realizzazione. Con Martino la trattatistica di cucina si avvicina al trattato d’arte del pieno Rinascimento, i Banchetti di Messi Sbugo, non ha più nulla dell’appunto domestico o dell’annotazione avventizia e disorganica e ha ormai trovato piena cittadinanza tra le scritture in volgare.
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Marco Maggiore (Università di Roma «La Sapienza»)
Varianti diasistematiche in una scripta meridionale antica: sui verbi del commento al Teseida di provenienza salentina (II metà del XV secolo)
1. Premesse Il ms. It. 581 della Bibliothèque Nationale di Parigi1, oggetto della tesi di dottorato di chi scrive, è l’unico testimone attualmente noto di un ampio commento volgare al Teseida di Boccaccio, trasmesso con il titolo di Scripto sopra Theseu Re (c. 1r.a.1). Le prime indagini sul testo hanno consentito di stabilire l’indipendenza di questo commento dalla restante tradizione esegetica medievale incentrata sul poema boccacciano, rivelando al contempo come non si tratti dell’originale, bensí di una copia trascritta in Salento tra il 1463 e il 1487 per conto del nobile locale Angilberto del Balzo, conte di Ugento e duca di Nardò, alla cui biblioteca il volume apparteneva in origine (vd. Coluccia 2005: 161-62). Esercitano un notevole influsso sulla facies linguistica del commento anche le fonti utilizzate dall’anonimo esegeta, delle quali si trovano trascritti e accorpati nel testo stralci anche notevolmente ampi: tra queste è stato possibile individuare anche alcuni volgarizzamenti di origine toscana.2 In assenza di qualsivoglia riferimento interno circa l’autore e la committenza dello Scripto, obiettivo tra i piú stimolanti è chiarire la natura dell’individuo in esame: copia esemplata in Salento di un testo d’altra provenienza (toscano?) di cui però non sia rimasta altra traccia, o compilazione effettuata direttamente nel Meridione e pervenutaci nella copia superstite? La lingua dello Scripto, complessivamente considerata (tenendo cioè presenti e distinte le tessere allotrie derivate da fonti toscane e immesse nel continuum testuale), non si discosta dalla tipologia delle scriptae volgari prodotte nel xv secolo in Salento come nel resto del Mezzogiorno: sullo sfondo di un tessuto linguistico ibrido, improntato a modelli sopraregionali e all’imitazione della lingua letteraria, con la costante mediazione della tradizione scrittoria latina, emergono tratti riconducibili genericamente ai volgari meridionali e talvolta specificamente a quelli salentini, che punteggiano il testo in modo non sistematico ma chiaramente riconoscibile. Occorre però rilevare da subito come su ogni valutazione linguistica pesi ineludibilmente lo status non originale del testo, in considerazione del fatto che l’operazione di copia potrebbe aver modificato, anche in maniera non superficiale, la veste linguistica del testo che noi oggi leggiamo. L’esemplare, siglato Pr1 da Branca (1958: 68), è descritto da Agostinelli (1986: 49-50). Si rinvia per ragioni di spazio a Maggiore (in stampa).
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Partendo dal presupposto che ogni scripta antica, ovunque si generi, «è frutto della intersezione di correnti linguistiche diverse» (cf. Coluccia in stampa) e muovendo dal modello di interferenza sistematica descritto da Vàrvaro (1984: 70-73), la presente comunicazione prende in esame le voci verbali dei modi finiti in una sezione di testo superiore alla metà dell’insieme (le cc. 1r-70r, corrispondenti a poco meno del 57% del testo complessivo) per sviluppare alcune considerazioni intorno alla variazione diatopica nella lingua dello Scripto. Le voci verbali presentano una notevole quantità di varianti, di volta in volta riconducibili ai sistemi linguistici compresenti: l’analisi dunque non riguarderà tanto i rapporti sull’asse sintagmatico tra il verbo e le altre parti del discorso, né tantomeno il suo funzionamento nell’economia della frase, ma piuttosto, sul piano paradigmatico, la struttura fono-morfologica delle singole voci verbali, considerate in quanto campione linguisticamente rappresentativo. Per regioni di mera opportunità chiameremo A il tipo linguistico sentito come dominante, cioè il modello toscano-letterario diffuso per via essenzialmente libresca, e B il tipo locale che, associato a fattori recessivi in sede sociologica, ben di rado è attingibile in forme pure, risultando piú spesso contemperato nell’adesione a tradizioni sopraregionali, comuni all’intero territorio meridionale. Quanto al latino, il cui influsso sulla scripta tende a produrre effetti di portata non secondaria sulle realizzazioni linguistiche, talvolta anche favorendo l’assunzione dell’esito locale a scapito di quello toscano, sarà richiamato sotto la sigla C. Prima di addentrarsi nell’analisi di aspetti specifici, l’esame di alcuni esempi sarà utile ad illustrare difficoltà metodologiche di carattere generale. Per la 1a persona del presente indicativo di ‹andare› si riscontrano le varianti vado 39v.a.39, 41 ~ vao 40r.b.25 ~ vau 13r.a.4: quest’ultimo è l’esito salentino vàu (Rohlfs § 544), contrapposto al toscano vado, mentre vao è interpretabile come risultanza intermedia, con ritocco sul vocalismo finale nella direzione di A (la forma è comunque presente in altri dialetti centro-meridionali, e pertanto genericamente ascrivibile a B: Ledgeway 2009: 378; Rohlfs § 544). Analogamente, se nella 2a del presente indicativo di ‹potere› si danno le varianti poi 25r.a.37, 29r.b.48, 29v.a.8 (t. 22) ~ puoti 17v.b.3, 18v.b.22, 29r.b.54 (t. 4) ~ puoy 15r.b.32, 15v.a.14, 16r.b.14 (t. 4) ~ poy 59r.a.7, 64r.a.50 ~ pueti 16v.b.49, 23v.b.19, si può essere portati ad ascrivere al sistema B pueti, caratterizzato nel vocalismo tonico dalla dittongazione ue < ŏ genuinamente salentina (Rohlfs § 123), mentre all’estremo opposto di un ideale gradiente di adesione alla norma A si collocherebbe puoy (ma anche puoti è dell’italiano antico: Rohlfs § 547); le forme non dittongate occuperebbero posizioni intermedie, testimonianze di gradi diversi dell’interferenza tra i sistemi. Tale modus operandi è però inadeguato a descrivere situazioni piú complesse. Si consideri il quadro offerto dalla 6a del passato remoto di essere, la cui ‹casella› è occupata da ben diciotto varianti: fuoruno 2r.b.15, 4r.b.42, 7r.a.30 (t. 37) ~ fuoro 3v.b.13, 13r.b.25, 34-35 (22) ~ foro 7v.b.1, 11r.a.50, 11v.b.6 (21) ~ foru 24v.a.31, 28r.b.22, 34r.a.37 (11) ~ foruno 4r.b.12, 32v.b.30, 35v.a.5 (9) ~ fuoru 43r.b.53, 51r.a.18, 54v.b.48 ~ fer 53r.b.31, 56r.b.54, 56v.a.6 ~ forono 4r.b.22, 5r.b.42 ~ furono 4r.b.29, 10v.a.44 ~ furuno 34r.a.10, 47v.a.45 ~ fuor 51r.a.19, 55r.a.32 ~ fuorono 1v.b.40 ~ furo 6v.a.44 ~ fora 20r.a.46 ~ for 42r.a.22 ~ fur 49v.b.52 ~ forne 64r.b.41 ~ furon 66 v.a.23.3 Le forme fuoro e foro, rispettivamente seconda e terza per diffusione, hanno ampia diffusione nei testi napoletani antichi: cf. Ledgeway (2009: 60). Contribuisce a un simile stato di polimorfia
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Uno stato di cosí marcata polimorfia non consente interpretazioni semplicistiche. Laddove la sovrapposizione e l’intersezione di correnti linguistiche alternative si rivelino talmente complesse da determinare un’esecuzione «inadeguatamente decodificabile se ci si riporta ad uno solo dei due sistemi» (Vàrvaro 1976: 963), gli sforzi dello studioso dovranno improntarsi, piú che all’elaborazione di rigide tassonomie volte a giustificare le singole varianti, al piú prudente tentativo di cogliere, ove possibile, quelle tensioni e quei conflitti sotterranei tra sistemi che, traducendosi nel livello piú esteriore della realizzazione linguistica, danno vita al fenomeno della variazione. Le forme poc’anzi richiamate forniscono almeno una prima idea della coesistenza e interferenza tra correnti linguistiche di cui si è detto. Nella necessità di rinviare ad altre occasioni una panoramica esaustiva delle 3.326 voci verbali (distribuite su complessive 12.938 occorrenze), ci soffermeremo su un particolare settore del paradigma, costituito dalle voci di 2a e 5a di tutti i modi e tempi verbali: se la 2a sembra caratterizzarsi per una moderata disponibilità all’accoglimento di tratti riconducibili a B (spesso rilevabile con difficoltà, a causa della possibile comune pertinenza ad A e B di alcuni esiti), tale disponibilità nella 5a tende ad assumere i contorni della scelta prevalente, talora addirittura esclusiva.
2. Le voci verbali di 2a e 5a persona Partiamo dall’indicativo presente. Nella 2a persona la convergenza di entrambi i sistemi nella desinenza -i per i verbi di tutte le coniugazioni regolari riduce notevolmente l’incidenza della variazione. Si è del resto osservato come l’instaurazione di un modello di interferenza sistematica sia «nettamente favorita ogni volta che i sistemi in contatto siano geneticamente connessi e quindi presentino un buon numero di identità o almeno di somiglianze fra loro; queste infatti riducono il margine di alternanza, fornendo un terreno comune» (Vàrvaro 1984: 70). Non sorprende pertanto che in questa prima zona di sovrapposizione intersistemica si registrino per lo piú varianti meramente grafiche, anche in voci dell’ausiliare o di verbi irregolari come ày 7r.b.46, 13r.a.25, 15r.a.50 (t. 23) ~ ài 52v.b.26, 60r.a.18, dai 30r.a.36, 35v.b.15, 30 ~ day 56v.a.40, sai 6v.a.11 ~ say 20v.b.18, stai 52v.b.25, 39 ~ stay 10r.b.41 (cf. salent. ái, dái, sai, stai VDS s.vv. aíre1, dare, sapire, stare). Ma molto spesso si manifestano reali discrepanze tra i due sistemi in contatto, e la polimorfia dimostra una notevole disponibilità all’accoglienza di forme meridionali: è schiacciante, in ‹essere›, la preminenza di si 7v.a.2, 10r.b.48, 11r.a.13 (t. 16), voce meridionale (Ledgeway 2009: 381; Rohlfs § 540), sulla variante sè 46r.b.24, 67v.a.27; al notevole caso, già menzionato, di poi ~ poy ~ puoy ~ puoti ~ pueti si possono aggiungere le varianti fai 35v.a.31, b.21, 41r.a.33 (5) ~ fay 10r.b.41, 35v.b.18, 36r.b.33 (4) ~ fae 7r.a.21 ~ faci 48v.b.29 (fare) e vuoli 27v.b.16, 35v.b.17~ voli 46r.b.37 ~ voi 36r.b.33 (volere). In ordine al vocalismo tonico rappresentano altrettante infiltrazioni dialettali gli esiti i < ĭ, u < ŭ: cridi 48v.b.54 ~ credi 21r.b.12, 33r.a.46, 45v.a.41 (t. 4), divi 12v.b.15, 24v.b.46, 25r.a.1, anche l’alternanza nel perfetto di essere dei temi /fu-/, /fo-/, /fuo-/, caratteristica già dell’it.a., come mostrano Maschi / Vanelli (2010: 1481).
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vidi 32r.a.52, 43r.a.48, 63v.a.32 (4) ~ vedi 16v.a.38, 21r.b.31, 25v.a.29 (5); ademuri 40v.a.2, demuri 48v.b.8 ~ dimori 27v.b.10. Questi sviluppi vocalici determinano la ricorrenza nel testo di compatte serie metafonetiche, entro le quali il vocalismo tonico oppone tali forme alle voci di 1a e di 3a dei medesimi verbi (cf. Avolio 1995: 37; Ledgeway 2009: 58-60, e per l’area salentina settentrionale vd. Grimaldi 2003: 17): 1a cregio / 2a cridi / 3a crede; 1a deio / 2a divi / 3a deve; 1a vegio / 2a vidi / 3a vede; 1a pocço / 2a pueti / 3a pote; 2a demuri / 3a dimora.4 Restando al presente indicativo, ancora piú permeabile agli influssi di B si rivela la 5a persona. Qui le uscite regolari sono -ati per la I coniugazione e -iti (con la variante -ite) per le restanti coniugazioni: ademandati 25v.a.34-35, comandati 13r.a.12, dati 12v.b.27, dimorati 1v.a.34, 2r.a.19, inganati 46v.a.9-10, lasciati 46r.a.11, ricordati 46r.a.17, 67v.a.13; arditi 44v.b.65, aviti 20v.b.43, 27r.b.46, 46r.a.9 (t. 4) ~ haviti 12r.b.23, 17r.b.37, dovite 1v.a.26 ~ deviti 13r.a.31, giti 26v.b.32, sentiti 22v.a.39, soccurriti 45r.a.28, sofferiti 20v.b.45. Poche le eccezioni: escono in -ate solo apparecchiate 46r.b.35-36 e dimorate 1v.a.21, in -ete solamente devete 67v.a.10. Rispetto ad ‹avere›, ‹essere› presenta maggior varietà e apertura: all’uscita -iti di siti 13r.a.42, 46r.a.17 ~ sity 64v.a.10 (cf. salent. siti VDS s.v. èssere) si contrappone siete 7v.b.23 con la variante compromissoria sieti 6v.b.31, 22v.b.22, 46r.a.6. La meridionalità delle forme di 5a in -ite / -iti dei verbi delle ultime tre coniugazioni, qui come nei modi e tempi verbali analizzati di séguito, è doppiamente garantita dalla convergenza delle desinenze salentine a vocalismo ‹siciliano› con gli esiti metafonetici per effetto delle desinenze -mus e -tis di 4a e 5a «in molte parlate della Campania [...] e della Basilicata», con inclusione del napoletano (Avolio 1995: 62). Da ultimo faiti 46r.b.34 da fare, cui si collega l’imperativo di 5a fayte 6v.b.31-32, trova rispondenze nelle antiche varietà toscane occidentali5, ma qui può essere interpretato come una retroformazione ottenuta aggiungendo una desinenza -ti alla voce di 2a fai. L’imperfetto registra pochissime forme di 2a e nessuna ricorrenza per la 5a. Spiccano nella 2a l’innalzamento vocalico in volivi 40v.b.30 e la dittongazione nella voce di essere yerj 30r.b.35 (cf. salent. ièri VDS s.v. èssere), entrambe funzionali ad opposizioni metafonetiche: 1a vole(v)a / 2a volivi / 3a vole(v)a, 2a yeri / 3a era. Nelle poche voci che restano è rispettata la distinzione tra le desinenze -avi, -evi, -ivi: habitavi 30r.b.25, delectavi 48v.a.50-1, natavi 40v.b.32 (il tipo lessicale natare / natà ‹nuotare› ha larga diffusione meridionale: cf. Avolio 1995: 57 e VDS s.v. natare), pensavi 30r.b.30; potevi 31v.a.46, solevi 9v.b.48 ~ solevj 10r.b.47; givi 39v.a.45, 40r.b.28. Alla 2a del passato remoto è condivisa dalla lingua e dai dialetti la desinenza -asti della I coniugazione : abandonasti 30r.b.23-4, acquistasti 27r.b.22, ammurasti 25r.b.17, comportasti 30r.b.34, donasti 48v.b.4, guidasti 41r.a.30, mandasti 40v.a.39, portasti 27r.b.22, scampasti 5r.b.31. Salvo che in fecisti 6v.a.43, 25r.b.43 e fecistite 30r.b.24, sostenisti 7r.b.49, la distinzione tra -esti per la II e la III e -isti per la IV coniugazione è generalmente rispettata: conducesti 41r.a.30, facesti 40v.a.11, 24, recevesti 7r.b.45, venciesti 6v.a.10; Passando al consonantismo, è meridionale l’esito palatale del gruppo ssj in abasci 35v.b.16, 31 ‹tu abbassi› ~ abassi 36r.b.31. Vale infine la pena di segnalare la voce nechi 65r.a.25 ‹neghi›, che esibisce l’assordimento dell’occlusiva (in questo caso velare) intervocalica, tendenza attualmente assai estesa nei dialetti salentini: vd. Fanciullo (1976: 71 sgg.). 5 Ad es. nel lucchese «2a plur. faite, anche imperat., costante, probabilmente da *fagitis, *fagite» secondo Castellani (2000: 333). 4
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dormisti 40v.b.29, partisti 40v.b.10, tradisti 30r.a.41. Per contro l’estensione dell’uscita di IV alla I coniugazione in laxisti 40v.b.9 rientra in una casistica tutt’altro che esigua: cf. ad es. nella 4a persona del presente laximo 19v.b.2, ritornimo 17v.b.1 etc. Notevole il dittongo metafonetico di fuosti 5r.b.41, evitato in fosti 7r.b.47: nell’area del Salento ove vige la metafonesi di ŏ > ue (Nardò inclusa: cf. Mancarella 1998: 91), la forma locale è fuèsti (Rohlfs § 583). La dittongazione metafonetica in uo non deve necessariamente essere interpretata come uno stigma di napoletanità: il ritocco di ue in uo, esteriormente analogo al dittongo spontaneo del toscano, può infatti essere dovuto a uno sforzo di avvicinamento ad A: in questo senso vanno valutate, ad esempio, le iperestensioni del dittongo spontaneo nelle voci di 3a del presente indicativo puone 9v.a.23 e dispuone 12v.a.34. La 5a è caratterizzata dalla confluenza di -ētis e -itis e dalla «antica encliticizzazione al verbo del pronome vos > -ve (scritto anche -vo)» che nel napoletano come in molti dialetti meridionali «serve [...] a contraddistinguere in maniera inequivoca la 2pl.» secondo Ledgeway (2009: 59): fostivo 5r.b.32-33 ‹foste›, debistivi 4r.a.35-36 ‹doveste›, tennistivo 5r.b.32 ‹teneste› (dove si nota anche la geminazione della consonante tematica), uccidistivo 4r.a.34 ‹uccideste›. Costituisce eccezione solo parziale promectesti 46v.a.6, forma priva di innalzamento della vocale tonica e di pronome enclitico, epperò indistinguibile per il vocalismo finale da una voce di 2a. La nota impopolarità del futuro a Sud (Rohlfs § 589)6 non impedisce la presenza nel testo di forme riconducibili a B. Nella 2a dell’indicativo futuro l’unica voce di un certo interesse è le forma «piena», priva di aferesi, esserray 46r.b.37 ‹tu sarai› (cf. 3a esserà 67v.b.4 e il condizionale di 3a essería 5v.b.16, 65v.b.48), che presenta la realizzazione lunga della vibrante nell’uscita del tema, tratto caratteristico del futuro napoletano (Ledgeway 2009: 423-24). Non particolarmente degne di nota, se non per blande caratteristiche antitoscane (assenza di sincope, mancato passaggio ar > er in sillaba protonica), le restanti voci di 2a: acquistaray 13r.a.33, averay 10r.b.44 ~ averai 57v.b.24, bagniarai 45v.b.41, lamentarayte 45v.b.44-45, saperai 29v.a.30 ~ saperaylo 21r.b.36, usarai 61v.a.55 etc., ma porteray 21r.a.30-31, troverai 26r.a.13, vorray 13r.a.32-33, 39, 46r.b.38 (8) ~ vorrai 29v.a.27, 41r.a.18, 42r.a.33 (4), ecc. Perfino in un tempo d’impiego marcatamente non indigeno come il futuro, la 5a ha regolarmente l’uscita meridionale -iti: deriti 46r.a.13 ‹darete›, feriti 13r.a.40, 43, 46r.a.13 ‹farete› (entrambe con iperestensione di ar > er in protonia), porriti 22v.b.47; domandariti 25v.a.36; conchederiti 2v.b.37; oderiti 31v.a.3, 11, 41r.b.4 (4) ‹udrete›, con la variante -ite in andarite 40r.b.10 (-ite è dell’antico napoletano: Ledgeway 2009: 424, Rohlfs § 589)7. Passando al congiuntivo presente, nella 2a sono meridionali agij 13r.a.36 (rispetto al quale prevalgono le forme ‹toscane› abi 42r.b.32, 52v.b.26, 67r.a.47 e abbi 56v.a.18) e sacchi Si omette di rendere conto in maniera sistematica di due tratti anti-fiorentini ben rappresentati nelle voci del futuro, cosí come in quelle del condizionale: il mancato passaggio ar > er in protonia nei verbi della I coniugazione e la renitenza alla sincope (entrambi esemplificabili nel futuro di 3a andarà 65r.b.1-2). 7 Un quadro analogo si dispiega nell’altra persona del futuro che nell’antico napoletano risulta interessata da uscite metafonizzanti, la 4a (Ledgeway 2009: 424), ove non a caso dominano le uscite in -imo: serimo 64v.b.15, anderimo 38r.a.10, dirimo 2r.a.27, 2r.b.19, 2v.b.26, (t. 43) ~ derimo 2v.b.33, 7v.b.12, 9v.b.30 (24), ecc. 6
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56v.a.19 per gli sviluppi di bj e pj; inoltre puocçi 40v.a.38, in opposizione metafonetica con le voci di 1a e di 3a: pocça ~ puocçi ~ pocça, è da riportare al nap. puozze (sic, ma piú probabilmente puozzə) e al salent. puezzi (Rohlfs § 559); è un notevole meridionalismo lessicale la forma (che tu) stuti 12r.a.49 ‹che tu spenga› ( nz (Rohlfs § 267). Fanno eccezione le uscite -e di agiugneli 43r.a.49, pàsciete 45r.b.30, 31, tolle 39v.b.42 forse per influsso di C. Da ultimo la 5a, che non muta il quadro di preferenza per B sin qui delineato. Si segnala il notevole esito aiati 4r.a.33 ‹abbiate›, da riportare al presente indicativo 1a aio 12v.b.50 ‹ho› e al congiuntivo 3a aia 52r.b.27 (~ agia 16v.b.34, 28v.b.30). Non si esclude che questo sviluppo semiconsonantico di bj sia influenzato «dall’esito pugliese che, com’è noto, è ajə» (Avolio 1995: 89), ma simili esiti in testi salentini antichi sono stati legittimamente interpretati come risultato di abitudini grafiche a diffusione panregnicola: cf. Sgrilli (1983: 94).9 Per il resto prevalgono largamente le desinenze, da considerare meridionali, -ati e -iti: accostati 38v.b.3, andati 44v.b.45, cacciatime 62r.a.6, cercati 44v.b.64, chiamati 32r.a.17, chiamatime 62v.b.5, dati 44v.b.45, domandati 25v.a.37, lasciati 60v.b.54, llevativj 45r.a.4 ~ livativi 49r.a.13, lligative 44v.b.46, motatime 62r.a.6-7, negatime 62r.a.7, perdonatimi 45r.b.12, perseverati 12r.b.22, relegrative 65r.a.33, remandatime 30v.b.51, tornati 6v.b.31, Non è escluso che l’abituale oscillazione tra queste rese grafiche in testi napoletani antichi sia «da intendere come effettivo indizio di un’antica pronuncia oscillante tra [-j-] e [-dʤ-]» secondo Ledgeway (2009: 382).
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7v.b.24; tenditi 43r.a.27, vinciti 46r.a.20, 22, volgiti 46r.b.39; partítivi 45r.a.4, uditi 1v.a.26, con -ite in porgite 1v.a.25. Fanno eccezione le uscite -ate di lassate 61v.a.14, state 50r.a.20, superate 12r.b.23; per fayte 6v.b.31-32 ‹fate (voi)› vale quanto detto circa il presente faiti, mentre sarà da imputare a trascrizione impropria l’allomorfo facti 7v.b.24.
3. Conclusioni Da quanto sin qui detto risulta evidente come la variazione, pur essendo un dato strutturale apprezzabile nell’intero paradigma, non manifesti dappertutto un comportamento omogeneo e uniforme: essa si mostra ridotta nelle «zone di sovrapposizione» tra i due sistemi, mentre tende a divenire piú intensa nelle zone di maggiore instabilità paradigmatica (ad esempio nella 6a e nelle coniugazioni irregolari, come ben mostra il caso di ‹furono›); inoltre sono rilevabili settori del paradigma piú propensi di altri ad accogliere l’esito locale, come è il caso delle voci di 2a e soprattutto di 5a. In un sistema di interferenza sistematizzata, infatti, secondo Vàrvaro (1984: 73), «non accade che nelle porzioni caratterizzate i tratti specifici dell’uno o dell’altro sistema si presentino in sequenze statisticamente casuali». In altre parole il modello linguistico A, dotato di maggior prestigio, non si distribuisce uniformemente nell’intera morfologia verbale. L’elevata incidenza nelle voci di 2a e di 5a degli esiti condizionati dalla metafonia e delle forme con -vos enclitico (fostivo, debistivi, tennistivo, uccidistivo; avessivi; foréssivi)10, pur potendosi spiegare come effetto di alterazioni introdotte sistematicamente dallo scriba, potrebbe essere anche attribuita a originaria mancanza di competenza di questa zona del sistema A da parte dell’anonimo autore del commento. L’intrinseca proiezione verso l’oralità delle forme di 2a e di 5a ne fa un settore particolarmente delicato: non meraviglia dunque che esse, nello scrivente non nativo di A, rappresentino quasi una breccia per l’introduzione di elementi esterni. Nella caoticità solo apparente e nella complessa stratificazione delle correnti linguistiche coinvolte nella scripta è possibile intravvedere alcune linee di tendenza: accanto a zone di maggiore adesione Il dato trova rispondenza in altri antichi testi salentini. Nelle sei lettere mercantili salentine della fine del XIV secolo èdite da Stussi è analogamente notevole «l’impiego del pronome enclitico di seconda pl. con funzione desinenziale all’imperfetto dell’indicativo (erivi 3.15r) e del congiuntivo (sapissivy 5.5), al condizionale (faryssivy 5.6) e al passato remoto (mandasstivi 3.13r-17r)» Stussi (1965 [1982]: 172). In un’altra preziosa testimonianza dell’antico volgare salentino qual è la grammatica latino-volgare di Nicola de Aymo il fenomeno ricorre in proporzioni addirittura massicce: si vedano gli imperfetti erivi 9vb 4, 11ra 16, 28, avivivi 7vb 25, amavivi 7vb 7, i perfetti fustivi 9va 22, 11ra 21, amavistivi 7v.b.15, gli imperfetti congiuntivi fussivi 10ra 8-9, 21, 10rb 19 (t. 8), avissivi 8rb 8-9, 8va 25-6, amassivi 8ra 26, i condizionali serissivi 10rb 20 ~ esserissivi 10va 15, 11vb 11, averissivi 8va 20, amarissivi 8va 5-6; cf. Greco (2008: 51-55). Per il Sidrac si possono annoverare l’imperfetto indicativo di 5a devivovo 24v.34 (con «assimilazione della vocale postonica alla finale, conforme all’attuale desinenza brindisina ‹-iuvu›, ‹-ivuvu›», Sgrilli 1983: 147) e i condizionali pilharissivo 35r.13, vorrissivo 10v.40, ma il tratto è piú spesso evitato a vantaggio di forme indistinguibili da quelle di 2a come l’indicativo imperfetto devivi 24v.29, gli imperfetti congiuntivi abissi 35r.12, comandasse 27r.32, donasse 22v.5, potesce 27r.34, i condizionali averissi 35r.13, cacharisse 27r.35, vorrissi 10v.39; vd. Sgrilli (1983: 132-159).
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ai modelli letterari, in via di avanzamento, si situano settori del paradigma piú refrattari all’accoglimento dell’innovazione, ancora tenacemente legati a tradizioni recessive, destinate di lí a poco alla completa emarginazione. Ragioni di tempo impediscono di offrire ulteriori elementi, utili a completare il quadro: si può però osservare che la lingua dello Scripto, cosí come oggi ci si offre, si connota per uno sforzo di allontanamento da B e di approssimazione ad A, sforzo non sempre coronato da risultati pienamente soddisfacenti; tale situazione generale non è in contrasto con l’ipotesi di una genesi già meridionale del testo originario, a monte delle successive operazioni di copia. Comunque siano andate le cose, l’episodio, collocato in una minuscola corte salentina del secondo Quattrocento, si inserisce nella piú generale storia della ricezione e della propagazione nell’estremo Mezzogiorno della lingua veicolata dai grandi testi letterari del ’300; la testimonianza, costretta a un oblio secolare dalle vicende che seguirono la traumatica fine del conte Angilberto (coinvolto nella congiura dei baroni e fatto giustiziare da Ferrante d’Aragona), oggi riemerge all’attenzione degli studiosi e forse presenta qualche motivo di interesse.
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Mancarella, Giovan Battista (1998): Salento. Monografia regionale della «Carta dei dialetti italiani». Lecce: Edizioni Del Grifo. Maschi, Roberta / Vanelli, Laura (2010): Morfologia verbale. In: Salvi, Giampaolo / Renzi, Lorenzo (edd.): Grammatica dell’italiano antico (2 voll.). Vol. 2, Bologna: Il Mulino, 1431-91 Rohlfs = Rohlfs, Gerhard (1966-1969): Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Torino: Einaudi, 3 voll. [citato per paragrafo]. Sgrilli, Paola (ed.) (1983): Il «Libro di Sidrac» salentino. Pisa: Pacini. Stussi, Alfredo (1965 [1982]): Antichi testi salentini in volgare. In: SFI 23, 191-224. Attualmente in: Id. (1982): Studi e documenti di storia della lingua e dei dialetti italiani. Bologna: Il Mulino, 155-81, da cui si cita. Vàrvaro, Alberto (1976): Diasistemi e storia delle lingue di cultura. In: ACILPR XIII 1, 955-65. –– (1984): La parola nel tempo. Lingua, società e storia. Bologna: Il Mulino. VDS = Rohlfs, Gerhard (1956-1961 [20073]): Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto) (3 voll.). München: Verlag der Bayerischen Akademie der Wissenschaften [Galatina: Congedo].
Simone Marcenaro (Universidade de Santiago de Compostela)
Per uno studio della polisemia nei trovatori occitani. Questioni preliminari
0. Premessa L’intento di questa comunicazione è porre le basi metodologiche di uno studio sulla polisemia nella lirica dei trovatori occitani. Le coordinate entro le quali si dovrà impostare la ricerca testuale necessitano una serie di criteri organizzativi e una delimitazione spaziotemporale bastevole ad individuare con precisione l’oggetto di studio. Per questo motivo, procederemo per brevi punti di carattere specifico, ai quali seguiranno una serie di considerazioni più generali.
1. Il corpus La demarcazione di un perimetro cronologico e geografico risulta abbastanza agevole; se però appare chiaro che uno studio sui trobadors debba considerare il periodo che va grosso modo dall’ultimo decennio dell’XI secolo alla metà del XIV, molto meno scontata risulta la delimitazione del territorio qualora sia necessario –e lo sarà, come vedremo fra poco – dirigersi verso le tradizioni liriche galego-portoghese, francese e italiana. L’arco temporale di riferimento sarà comunque quello tradizionalmente delimitato a monte dall’opera di Guglielmo IX, e a valle dagli ultimi epigoni trobadorici operanti negli ultimi anni del XIV secolo.
2. L’oggetto d’indagine Il concetto di polisemia, si sa, implica numerose sfumature e difformità nella sua definizione. I fenomeni che dovranno essere presi in esame sono essenzialmente metafora, anfibolia (o ambiguitas, raggruppabile nella più generale figura dell’equivocatio), metonimia, paronomasia, eufemismo, allusione, sineddoche, perifrasi. L’impiego dei tropi summenzionati, va da sé, acquisisce significato in un sistema che definiamo semiorimico,
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nel quale il dato formale –distribuzione delle rime, connessioni fra le unità strofiche, figure della sintassi, ecc.– si combina a quello semantico in un rapporto di stretta interdipendenza. Crediamo che l’utilità di un’analisi condotta sulla polisemia debba dirigersi non tanto ad una semplice operazione inventariale, che pure costituirà una parte del progetto, ma che soprattutto serva a comprendere quanto e come gli autori di poesia lirica si servissero dell’alieniloquium nel preciso contesto estetico e culturale sotteso all’ethos trobadorico. Potrà insomma aiutare a comprendere in che misura la polisemia incide nell’estetica dei poeti provenzali, in riferimento tanto ai temi e motivi in cui emerge con maggior frequenza, sia alla distribuzione delle varie strategie polisemantiche nell’insieme dei generi in cui si suddivide il sistema lirico trobadorico. Delineare una storia della polisemia nel pensiero filosofico e retorico dalla classicità al tardo Medioevo è impresa non facile e certamente non sintetizzabile in poche righe; andranno però puntualizzate alcune questioni importanti per rischiarare l’oggetto della nostra analisi. Un concetto primario da tenere sempre presente quando si parla di polisemia fu impostato già dalla Logica di Aristotele, che propone la distinzione tra ente univoco ed ente equivoco, ulteriormente specificata da Boezio mediante i concetti di «ente univoco» ed «ente equivoco». Restando sul piano puramente filosofico, è abbastanza comprensibile quanto tali concetti si potessero prestare ad una certa difficoltà d’interpretazione –come di fatto avvenne tra i commentatori aristotelici del XIII secolo– in virtù della non chiara distinzione tra il piano ontologico (gli enti equivoci) e quello propriamente linguistico. L’avvento della Logica nova e della filosofia tomistica, inoltre, marcherà il rapporto equivoco con segno negativo, concependo la polisemia come veicolo di ambiguità tesa ad occultare la verità; basti ricordare il concetto di Fallacia elaborato nella scuola parigina di Adamo Parvipontano (XIII sec.), o nel reciso giudizio di Tommaso: «Si nomina dicuntur de Deo et creaturis omnino aequivoce, nihil per illa nomina de Deo intelligimus: cum significationes illorum nominum notae sint nobis solum secundum quod de creaturis dicuntur» (Summa contra gentiles, I, 33, 6). Il panorama muta quando si approda alla specifica riflessione retorica. Nei trattati di epoca classica le tipologie di fenomeni accomunati dal «rapporto equivoco», e quindi connotate dalla polisemia, erano segnalate come potenziali pericoli di caduta nell’obscuritas, a meno che non s’impiegassero alcuni remedia atti a riportare il discorso alla perspicuitas; la questione si complicherà in seguito con l’ingresso, già in epoca medievale, della distinzione tra ornatus facilis e difficilis, una polarità in cui la polisemia trova spazio, com’è facile intuire, nel secondo dei suoi membri. L’evoluzione del pensiero retorico spoglia insomma il rapporto equivoco da ogni tipo di valutazione qualitativa e lo considera in merito alla funzione che quest’ultimo può assumere nel discorso; e per comprendere meglio che tipo di fenomeni polisemici interessano di più alla nostra analisi, ritorneremo per un attimo ad Aristotele. Lo stagirita cercò infatti di delineare una sorta di teoria del «comico» nel secondo libro della Retorica, nel quale si sofferma sull’effetto provocato da ciò che egli chiama ‹sorpresa ingannevole› (prosexapatan), ottenibile tramite determinati impieghi dell’omonimia lessicale. Il riso suscitato dagli equivoci che l’omonimia può generare per fini umoristici è causato dalla consapevolezza, da parte del pubblico, dello scarto che si crea fra significato primario e significato traslato dei termini impiegati: si viene perciò a creare un rapporto che potremmo definire orizzontale, nel quale i significanti coinvolti nell’equivocatio non sono sottoposti ad alcun tipo di gerarchizzazione dei significati. Questo punto è importante anche per
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comprendere la differenza fra l’ambiguità e la voluta cripticità dei passi scritturali: Origene, ad esempio, enuncerà questo concetto nel De Principiis, operando una chiara distinzione tra la parabola, ciò che rappresenta il rapporto verticale proprio dell’allegoresi biblica e che agirà come ineludibile riferimento culturale, ad esempio, nella poesia di Marcabru, e la obscura dictio, che presuppone invece una sostanziale equipollenza dei livelli semantici, istituendo cioè una relazione non più verticale, di progressiva sostituzione semantica, bensì orizzontale, nella quale il secondo grado ermeneutico non annulla il sensus litteralis. È quest’ultima la categoria che meglio si presta alla lirica dei trovatori che con più insistenza ricorrono alla polisemia. Il legame fra lo «stile comico» e il livello figurativo del lessico verrà posto in risalto, del resto, in modo esemplare da Cicerone, in quella parte del De oratore che suole chiamarsi De ridiculis.1 In quest’ultima si considerano infatti le categorie di ambiguità (sostanzialmente corrispondente all’equivocatio), paronomasia (annominatio), etimologia (cioè l’interpretatio nominis), ironia (dissimulatio), allusione, iperbole e via dicendo, avvertendo però di evitare la scurrilis dictacitas. In altri illustri esempi di epoca classica (Institutio oratoria, Rhetorica ad Herennium) si analizzano gli stessi fenomeni citati da Cicerone, insistendo soprattutto sui casi in cui l’ordo confusa delle parole determina un’incertezza interpretativa (ambiguità nell’accordo soggetto-verbo, ecc.). In definitiva, già dall’epoca classica, all’interno della più generale riflessione filosofica sul rapporto fra un ente e la sua definizione, il pensiero retorico rende manifeste le potenzialità che la polisemia poteva rivestire nel campo della letteratura «comica», atta a suscitare il riso nell’auditorio. Per questo motivo, in questa prima fase d’impostazione del progetto sarà conveniente lasciare a margine i fenomeni che mostrano scarsa produttività nel sistema testuale; seguendo questo principio, il campo d’azione si concentra notevolmente nel settore della poesia che per ora definiremo generalmente «a-cortese», estranea agli argomenti di casistica amorosa che informano la canso trobadorica. È infatti in questo settore che i trovatori dimostrano maggior propensione per i procedimenti di occultamento o opacità del referente, seguendo un processo che si rivela costante nell’uso linguistico di tutte le letterature di tutte le epoche: la densità semantica, dall’obscuritas al doppio senso, è strettamente vincolata alla rappresentazione dell’oggetto in questione, che nella letteratura a dominante satirica, o giocosa, o burlesca, sovente si dirige verso campi semantici in cui sono compresi molti dei tabù comunemente riconosciuti in culture anche diversissime fra loro, e ovviamente non solo su un piano puramente letterario –il corpo, la morte, il sesso– ma anche nuclei più strettamente connessi al particolare momento storico e culturale, come il dileggio del potere, l’invettiva, o la semplice presa in giro di sapore ludico e burlesco. Un vincolo che, d’altra parte, aveva già compreso Aristotele nel III libro della Retorica, nel quale metteva in luce il legame tra l’invettiva e l’impiego di ambiguità o doppio senso (Rhet., III, 18, 1419b). Il nostro raggio d’azione privilegerà quindi in prima istanza gli usi ambivalenti di formazioni lessicali (dal semplice lessema al sintagma), da considerarsi sia sotto il punto di vista paradigmatico (l’uso ambiguo di uno o più termini in un dato testo trobadorico), sia da quello sintagmatico (equivocità diffusa generata dalla commistione di nuclei eufemici e disfemici). Nel primo approccio ad uno studio di tal genere nel dominio lirico galego In concreto, la parte del secondo libro compresa tra le ll. 261 e 290; cfr. Monaco (1974).
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portoghese, avevamo definito queste due variabili rispettivamente come equivocatio in verbis singulis e equivocatio in verbis coniunctis, criterio organizzativo che va ovviamente misurato sulla varietà delle soluzioni riscontrabili nell’ambito della poesia lirica (Marcenaro 2010: 110). Restringendo ulteriormente la visuale, in un primo momento non si prenderanno in esame i casi in cui la polisemia comporta un’oscillazione di significato interna al medesimo campo semantico; vari studi sul lessico trobadorico, fra cui ricorderemo qui soltanto quelli di Glynnis Cropp (1975) e Mieke de Winter-Hosman (1994), hanno dimostrato quanto il linguaggio della fin’amor nei trovatori dell’epoca «classica» sia contraddistinto da una certa fluidità, che cagiona la duttilità semantica di termini anche centrali nel repertorio lessicale dei trovatori, come cor, joven, joi e via dicendo.2 Si tratta di un aspetto certo non secondario, ma che non riveste la medesima importanza nell’analisi che ci si propone rispetto ai fenomeni compresi nel campo della poesia «a-cortese».
3. I generi della poesia trobadorica I motivi sinteticamente esposti innanzi suggeriscono che il filone più fecondo di una ricerca di tal fatta sia quello della poesia satirica, o burlesca o giocosa, che come s’è visto preferiamo in questa sede chiamare «a-cortese», da intendersi cioè come tutto ciò che non riguarda strettamente la dinamica amorosa veicolata dalla canso. Le ragioni di questa scelta si spiegano essenzialmente sul piano della funzionalità; l’ambivalenza semantica diviene infatti sovente uno strumento della satira o della parodia, e per questo motivo in alcuni casi si erge a vera e propria dominante stilistica del testo. L’impiego della polisemia a fini satirici coinvolge una serie di parametri fondamentali che, da un lato, aiutano a capire meglio il processo di produzione e performance trobadorica, mentre, dall’altro, possono aprire nuovi orizzonti sullo studio dei trovatori secondo l’indagine dei livelli di cultura sottostanti al milieu cortese. In altre parole, un nucleo fondamentale dell’analisi sarà costituito dalla collocazione degli usi ambigui in un determinato registro linguistico, denotato in relazione alle convergenze osservabili in altre tradizioni e in altre epoche per forme letterarie assai variegate: una simile analisi ricopre non poca importanza qualora si esaminino i casi di polisemia burlesca compresa nel dominio semantico dell’ «osceno» o del «basso-corporeo», che si serve con elevata frequenza di una commistione tra componenti semanticamente ambigue ed altre prive di equivocità. Il potenziale polisemico delle strategie trobadoriche non si limita però certo al pur notevole ramo del vituperium o del ludus poetico; in questo senso, una prima analisi effettuata a livello cronologico evidenzia una notevole densità di tematiche metaletterarie connesse all’impiego di costrutti metaforici, del doppio senso, che in un poeta come Marcabru evocano con chiarezza il paradigma scritturale. La poesia moralistica del guascone, che si serve massicciamente di una commistione di metafore a sfondo erotico con altre di tipo millenaristico (si pensi al Oltre ai già citati studi di Cropp e de Winter-Hosman ricordiamo qui alcuni contributi relativi all’ambiguità del lessico trobadorico, centrati soprattutto sui campi semantici afferenti alla canso: Jensen (1974), Duggan (1977), Paden (1979), Shapiro (1984).
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vers del lavador), unite ad un linguaggio che attinge con generosità ai registri più bassi e propriamente a-cortesi (cfr. Gaunt 1993), doveva essere immediatamente identificata dal suo pubblico come continuo riferimento ad un senso superiore, che sorpassava cioè il dato semantico fornito dall’interpretazione letterale, la cui oscurità era considerata elemento necessario alla funzione ammaestratrice della sua poetica (e non è un caso che Marcabru utilizzasse il termine paraul’oscura per definire tale attitudine). Un simile atteggiamento, spogliato però dalle tensioni religiose mostrate da Marcabru, si riscontra sia in episodi «minori» rappresentati da autori precedenti la generazione degli anni ’70, sia in poeti di grande caratura come, ad esempio, Peire d’Alvernhe, sulla cui disputa con Bernart Marti in merito al significato della polarità fra motz o dichs entriers e fragz la critica si è soffermata in più occasioni (Del Monte 1955: 111-13; Mölk 1968: 104-05; Fratta 1996: XXII-XXVIII). Alcuni fra questi episodi secondari come i due sirventesi di Marcoat, conducono invece il tema entro una corrente già inaugurata da Guglielmo IX, che assoggetta la polisemia e dell’equivoco a fini essenzialmente ludici e burleschi. Quest’ultima tendenza rappresenta però un «ramo secco» dell’ispirazione trobadorica, che si realizzerà nella sua massima espressione nel canzoniere di Guillem de Berguedà, ma che nelle esperienze poetiche a seguire rimarrà confinato a pochi episodi di vituperium personale, per poi riaffiorare con più insistenza nella fase terminale dell’esperienza lirica occitana, spesso sotto forma di coblas esparsas che non rinunciano alla parodia del codice cortese. Al contrario, l’autocoscienza del ruolo essenziale giocato dalla polisemia nel saber trobadorico si rifonderà nella celebre «disputa degli stili» del trobar, nella quale le polarità del trobar clus (coi suoi omologhi ric, prim o car) e del trobar leu trasporrà tale consapevolezza in un ambito differente, in cui l’opacizzazione del referente si spoglierà completamente da ogni ambizione moralistica à la Marcabru, e neppure si ritroverà nel settore della poesia satirica (ad eccezione del famoso «ciclo del corn» che coinvolse Arnaut Daniel, Raimon de Durfort e Truc Malec). I livelli entro cui l’alieniloquium si articola nel campo della lirica trobadorica possono essere pertanto così delineati, in ordine crescente di funzionalità: a. Canso e generi affini di argomento amoroso cortese (compresi quelli dialogici). b. Lirica di argomento storico-politico. c. Lirica moralistica (segnatamente, la produzione di Marcabru, che si distingue nettamente dal posteriore sviluppo visibile in autori come Guilhem Figueira o Peire Cardenal). d. Sirventese di vituperium personale. e. Testi a dominante satirico-burlesca (con predominio di tematiche erotico-oscene). f. Sirventesi, tenzoni e coblas giocose, talvolta con tratti parodici. Questa schematizzazione non intende certo esaurire la vivacità dell’ispirazione trobadorica nel campo della polisemia, e va invece considerata come punto di partenza per orientare con più precisione gli sforzi di una ricerca che, per molti aspetti, pone le basi di una linea innovativa nel panorama della provenzalistica. Se però appare chiaro che uno studio sui trobadors debba considerare il periodo che va grosso modo dall’ultimo decennio dell’XI secolo alla metà del XIV, molto meno scontata risulta la delimitazione del territorio qualora sia necessario dirigersi verso le tradizioni liriche galego-portoghese, francese e italiana. Le coeve tradizioni liriche costituiranno uno sfondo costante su cui misurare, spesso secondo
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una prospettiva post rem, gli eventuali parametri di convergenza, continuità o vitalità di nuclei lessicali sottoposti a polisemia nel contesto dei vari generi lirici; allo stesso tempo, non potrà non essere presa in considerazione la letteratura mediolatina e classica, essenziale per valutare i succitati parametri su un percorso cronologico più ampio, e assi utile per individuare eventuali «fonti» di determinati costrutti polisemici.
4. La ricezione La variabile ricettiva risulta determinante nella codificazione di un linguaggio fondato sulla polisemia: quanto più il pubblico delle performances trobadoriche condividerà il peculiare contesto comunicativo sotteso a un dato testo a-cortese, tanto più le sue eventuali strategie equivoche raggiungeranno l’obiettivo. In questo senso, più che riferirsi all’abusato concetto gadameriano di Horizontverschmelzung, non sarà invece inutile servirsi di alcuni concetti presi in prestito dalla sociolinguistica, fra i quali riteniamo determinante la cosiddetta «rete sociale», ovvero la struttura degli individui che condivide il medesimo orizzonte sociale e spazio-temporale, e che si configura come un vero e proprio «insieme con cui un ego di riferimento intrattiene rapporti comunicativi» (Berruto 1995: 101). Va da sé che gli elementi costituenti la rete sono caratterizzati da elementi ben diversi da quelli normalmente presi in esame dalle ricerche sociolinguistiche; la natura dell’atto enunciativo, il testo letterario, determina infatti una significativa differenza fra il concetto di «comunità di parlanti» e l’immagine dei fruitori di una performance trobadorica. Utilizzando però tale parametro in funzione puramente descrittiva, emergono determinati elementi passibili di applicazione nel caso trobadorico. In primo luogo, il succitato ego di riferimento si adatta bene all’elevata autocoscienza del trovatore di far parte di una «classe» ben precisa, definibile sia attraverso caratteri congiuntivi, riassumibili nella comune adesione al codice etico ed estetico della fin’amor, e disgiuntivi, fra i quali spiccano le conventiones ad excludendum di individui percepiti come esterni, quando non propriamente dannosi, non solo alla fittizia dinamica cortese descritti nella canso (lausengiers, gilos...), ma soprattutto allo stesso gruppo sociale trobadorico (opzione definitivamente ratificata nella Supplicatio che Guiraut Riquier rivolge nel 1274-75 ad Alfonso X di Castiglia in merito alle gerarchie trobadoriche e al rapporto con la «professione» giullaresca; cfr. Bertolucci 1966). La variabile dello spazio, ovverosia la determinata collocazione degli elementi che formano la rete, è un problema molto più difficile da decifrare nella cultura trobadorica occitana che non, poniamo, in quella galego-portoghese. In quest’ultima, com’è noto, le corti reali di Castiglia (Fernando III e Alfonso X) e Portogallo (Afonso III e Don Denis) costituirono grandi centri di produzione e aggregazione trobadorica, e i prodotti testuali sembrano riflettere l’immagine di un vero e proprio circolo di sodali, che condividevano le medesime coordinate comunicative bastevoli alla comprensione di nuclei testuali spesso veicolanti ambiguità, doppi sensi, eufemismi. È in questa chiave che va compresa la codificazione dell’equivocatio come procedimento retorico posto alla base del genere definito cantigas de escarnio nel breve e incompleto trattato di arte poetica che apre il
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codice Colocci-Brancuti (B);3 e non è un caso che sia proprio il dominio lirico galegoportoghese a registrare non solo il più alto tasso d’incidenza di testi a-cortesi –valutato in relazione alla produzione totale di cantigas profane–, ma anche un considerevole esempio di creazione ciclica di poesie accomunate dalla derisione equivoca di un personaggio preciso, quasi sempre pensabili all’interno del medesimo circolo cortese in cui questi cicli vengono creati ed eseguiti, e sovente orientate verso l’allusione oscena. Il dominio occitano riflette invece una coesione assai minore, perfettamente comprensibile nell’ottica del suo sviluppo storico-geografico, che, come si sa, si dispone su uno spazio e un tempo più dilatati e variabili rispetto all’esperienza galego-portoghese (ma anche francese e italiana). I trobadores peninsulari non lasciano tracce visibili di una vera circolazione dei testi, il che non esclude, beninteso, la più che probabile mobilità fra i due poli cortesi poc’anzi menzionati; l’assenza di congedo opportunamente rilevata da Valeria Bertolucci (1998), così come la mancanza di indicazioni deittiche o allocutive rivolte al possibile esecutore dei testi (cioè il giullare) sembrano però confermare in pieno tale impressione. La dispersione che presiede alla produzione e circolazione dei testi occitani è inoltre intimamente legata alla natura del testo stesso, giacché nel caso del sirventese politico –genere poco frequentato al di là dei Pirenei– la mobilità dell’oggetto testuale costituisce la sua stessa ratio; non a caso, Martín de Riquer (1973) comparò certi casi di lirica politica con la «pamphlettistica», sotto l’egida di un’urgenza di propaganda che non si dà in altri domini con la stessa frequenza e capillarità. La rete sociale trobadorica, quindi, non si dovrà misurare secondo la variabile spaziale, bensì sarà articolata secondo il parametro dell’appartenenza culturale, del «mestiere trobadorico». Al di là dell’effettiva operatività della teoria Kohleriana, che personalmente continuo a ritenere la più valida, sono le stesse poesie trobadoriche a testimoniare con più chiarezza l’autocoscienza della propria posizione nello scacchiere culturale dei secoli XIIXIV. E i vari «manifesti» di poetica leggibili in molti episodi marcabruniani, o nella disputa fra Peire d’Alvernhe e Bernart Marti, ma anche negli episodi solo apparentemente «minori» testimoniati dai giullari di provenienza guascone Alegret e Marcoat, sono utili a corroborare l’immagine di coesione culturale che si cerca di delineare. La capacità di fare poesia fra i trovatori passava anche dalla consapevolezza nell’uso della polisemia; l’autocoscienza di saper metre tres moz ab divers sens (Alegret), o di articolare i significati del poema tali che de ginhos sens | soi si manens | que molt sui greus ad escarnir (Marcabru, Gaunt-HarveyPaterson 2000: xvi, vv. 13-15) fa parte del più generale processo di autodeterminazione del trovatore, ed è questo l’humus che preparerà il terreno alle grandi dispute fra trobar clus e trobar leu nella cosiddetta generazione «aurea».
L’edizione è fornita in Tavani (1999).
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5. Sincronia / diacronia L’aspetto riguardante la profondità cronologica dell’analisi solleva molti problemi e fornisce poche risposte sicure. Un modo conveniente per impostare la questione, ovviamente in funzione di questo preliminare abbozzo metodologico, può essere l’introduzione dei concetti di «campitura larga» e «campitura breve». La distanza fra le due si misura sull’ampiezza del panorama cronologico (ma anche spaziale) entro il quale muovere i primi passi dell’indagine; alla campitura larga si riferiranno le possibili origini latine di alcuni nuclei lessicali interpretabili in direzione equivoca, mentre quella breve descriverà le analisi condotte sul piano orizzontale delle relazioni con tradizioni liriche coeve. Il primo approccio effettuato in questa direzione rivela alcuni esempi di continuità con il mondo classico, misurabili soprattutto sul preponderante utilizzo della polisemia a fini osceni e ludici, ma in maggior parte evidenzia una notevole capacità d’innovazione del dominio romanzo. Ancora più sorprendenti sono i primi risultati di un’analisi sulla «campitura breve»: se è vero che si osservano diverse convergenze fra la lirica a-cortese occitana, galego-portoghese e italiana (molto meno in quella francese, del resto poco produttiva su questo versante), assai più nebulose sono le connessioni effettuabili con gli altri generi coevi che più si servono della polisemia. Il pensiero, com’è ovvio, va ai fabliau, che presentano davvero poche omologie nelle strategie lessicali impiegate. Il motivo, a prima vista, è semplice e quasi scontato: la sintassi di un genere narrativo non può essere equiparata a quella del genere lirico. Ma l’equazione non appare così precisa se si considera il celeberrimo esempio di Guglielmo IX, il trovatore più antico fin ora conosciuto, che in Farei un vers, pos mi sonelh mette in scena una situazione ben collaudata nella tipologia della narratio brevis, che trova i suoi referenti nel patrimonio folklorico di ascendenza celtica (Benozzo 2008: 190-92), e verrà in seguito ripreso nella novella boccacciana di Ser Masetto da Lamporecchio. Non mancano inoltre, nell’intero corpus trobadorico, gli episodi di brani satirici a dominante narrativa, che pur inglobata nel peculiare sistema semiorimico del genere lirico mostra una certa difformità nell’organizzazione del discorso rispetto alle cansos ossessivamente incentrate sul rapporto amoroso fra il trovatore e Midons. Ancora una volta, l’esperienza più tarda della lirica galego-portoghese è un buon esempio di questa tendenza; l’estetica dei trobadores mostra infatti una notevole distinzione fra l’estremizzazione del registro disforico veicolato dalla cantiga de amor, omologa della canso provenzale, e i molti esempi di cantigas de escarnio che articolano il proprio tema in una struttura essenzialmente narrativa. Non è insomma la sola natura intrinseca del genere lirico a determinare tale discrasia. I motivi non si limitano alla pur accertata alterità della lirica trobadorica rispetto agli altri generi non lirici, bensì vanno anche compresi nell’ottica della «rete sociale» su cui abbiamo voluto insistere. I nuclei a-cortesi che più si servono della polisemia, sovente coincidenti con il campo dell’osceno, sembrano sviluppare un specificità propria che si connette alle dinamiche brevemente esposte nel punto 4; anche se di registro basso e limitate al puro divertissement cortese, le formazioni metaforiche, allusive, equivoche e via dicendo nella lirica dei trobadors sono indice di abilità tecnica, che nel caso del tutto particolare di Marcabru si lega ad una superiore funzionalità ammaestratrice e moralizzante. Non altrimenti si dovranno leggere le
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affermazioni del suo celebre gap, che costituisce anzitutto una difesa dei propri strumenti espressivi necessari alla propria poetica. La polisemia nella poesia a-cortese, in definitiva, è pensabile nel determinato sistema estetico della lirica trobadorica; sebbene si serva di macrostrutture comuni ad altri generi di simile ispirazione, le peculiarità strutturali in cui è immersa determinano la sua specificità e, in molti casi, capacità di rinnovare un repertorio lessicale contrassegnato da un certo grado di staticità e ripetitività.
7. Considerazioni finali Il corpus testuale relativo a questa prima fase del nostro studio, definito con l’etichetta di «testi a-cortesi», ha dimensioni piuttosto limitate (allo stato attuale delle ricerche, non raggiunge il centinaio di composizioni) e necessita quindi ovviamente di essere integrato al più ampio (e problematico) settore che nel punto 2 di questa comunicazione si è volutamente lasciato in secondo piano. Si tratta dei fenomeni di vischiosità semantica di termini appartenenti in larga parte al repertorio lessicale della canso che ricopre aree comprese nei generi di argomento amoroso, e che necessitano di un’attenzione ermeneutica non inferiore a quella applicata ai testi a-cortesi. I fenomeni coinvolti, tuttavia, entrano nel concetto di polisemia in forma variabile e spesso laterale: i fenomeni di slittamento o contiguità semantica sottesi alle sfumature di significato, ad esempio, del sostantivo joven, non possono ovviamente essere accostati alla serie lessicale afferente al campo dell’osceno o del basso-corporeo; per questo motivo sarà necessario operare una differenziazione qualitativa che dovrà riflettersi nell’organizzazione del lavoro. In ogni caso, riteniamo di non poca utilità esserci soffermati sul piano della lirica a-cortese per varie ragioni. La prima, e forse la più impellente, è dettata dallo scarso interesse che la critica ha dedicato a questo ramo della lirica trobadorica occitana. Facendo eccezione di alcuni lavoro di carattere generale, alcuni dei quali focalizzati su un determinato tipo di sirventese, come ad esempio quello politico-morale (Thiolier-Méjean 1978, Aurell 1989, Miruna 1988), oppure incentrati su analisi di tipo lessicale, ma limitate soltanto ad alcuni fenomeni (è il caso di Thiolier-Méjean 1994), la bibliografia sul sirventese soffre ancora molti vuoti da colmare. Anzitutto, non sarebbe inutile riprendere in mano il problema delle origini; nessuno potrà infatti negare quanto l’attenzione sia sempre stata rivolta al genere della canso, che veicola una novità ideologica certo dirompente e cruciale nella cultura europea medievale, ma che però esclude gli altri fenomeni della poesia occitana pur coevi alla nascita della canzone d’amore. La massiccia presenza di temi a-cortesi nella lirica dei trovatori più antichi a noi giunti è esempio eclatante di quanto la funzionalità essenzialmente ludica, satirica, giocosa, burlesca, insomma recisamente «altra» da quella relativa alla fin’amor (con la quale instaura relazioni di complementarietà più che di antagonismo) fosse un’opzione di cui i trobadors erano perfettamente consci già dai primordi della tradizione provenzale. E forse, ci si conceda una rapidissima digressione, si potrà riaprire una questione troppo spesso passata in giudicato, per la quale i precocissimi nuclei satirici di Guglielmo IX andrebbero ricondotti alla parodia di un codice che si suppone già formato, negli ultimi decenni dell’XI secolo, ricorrendo alla pura supposizione della celeberrima Escola N’Eblo (Di Girolamo 1989: 56-58). Ritengo che tale impostazione vada
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riconsiderata e rivalutata, alla luce dei dati concreti posseduti e non di una costruzione teoretica che –sarebbe il primo caso nella storia della letteratura– prevederebbe una parodia quando l’oggetto parodiato era ancora ben al di qua dall’essere fissato e canonizzato. In un panorama critico così avaro di lavori dedicati alla poesia a-cortese, lo studio della polisemia, da condursi anzitutto attraverso i dati raccolti nella catalogazione di cui si sono forniti i punti salenti, risulterà centrale nel tentativo di delineare con più precisione l’ispirazione poetica dei trobadors che va oltre il genere della canso. Le possibili omologie con tradizioni coeve o di poco posteriori –galego-portoghese e italiana in buona parte– ma anche con generi differenti, considerati sull’arco cronologico che va dalla classicità ai secoli di sviluppo della lirica trobadorica, rischiarano anzitutto il background culturale del trovatore. Un individuo che condivide quell’insieme di valori e regole comportamentali rispondente al nome di fin’amor, ma che, allo stesso tempo, non cessa di essere un uomo del proprio tempo, immerso in una cultura strutturata secondo una grande mobilità di livelli culturali (cfr. Pasero 1999), osservabile con più chiarezza in altri generi letterari coevi.4 Se è vero che l’ethos cortese presuppone una certa frattura con le tradizioni letterarie precedenti, fatte salve le ovvie convergenze di rango macrostrutturale con temi già classici (ovidiani e oraziani su tutti), è forse il settore che da tale ethos si allontana a mostrarci gli episodi di maggior continuità. Una continuità assicurata dalla sopravvivenza di elementi polisemantici in funzione burlesca contrassegnati da un incessante passaggio fra i livelli culturali, dalla formalizzazione letteraria al livello del parlato, dalla selezionata e raffinata élite cortese all’odierno gergo di gruppi sociali di bassa estrazione culturale. Viceversa, la notevole capacità di innovazione visibile in questo stesso settore dimostra quanto la polisemia non sia solo patrimonio di un’attitudine ludica che perdura nei secoli e nelle civiltà, ma possa anche costituire un banco di prova per misurare l’abilità compositiva di un trovatore. È poi ancora più stimolante immaginare quanto uno studio di tal genere, che va ben al di là del semplice repertorio di forme lessicali inventariabili, possa integrarsi nel più ampio campo della lessicografia e della letteratura romanza in toto. Luciano Rossi, nelle sue importanti riflessioni sulle categorie di letteratura «comica», «burlesca» o «giocosa» (questione terminologica già di per sé controversa), lamentava l’assenza di strumenti di ricerca dedicati alla letteratura di registro e argomento mediano, che comprende pressoché tutti i generi del sistema letterario romanzo, dall’epica al romanzo, dalla narratio brevis alla lirica (Rossi Il tema della mobilità fra gli strati socio-culturali dell’epoca medievale è complesso e alquanto rischioso da affrontare nell’ottica di un fenomeno letterario, quello trobadorico, generalmente descrivibile come «chiuso verso il basso», cioè poco permeabile all’infiltrazione di elementi pertinenti alla cultura di fasce inferiori nella gerarchia dei livelli di cultura. Va però ricordato il concetto di «vulgarisation culturel» di G. Duby (1973), che presuppone l’esistenza di una comunicazione «a doppio senso» fra i due macro-raggruppamenti di «cultura alta» e «cultura bassa»; la poesia trobadorica, a nostro avviso, partecipa di tale movimento proprio al livello di impieghi lessicali polisemici, che denotano l’implicita tendenza alla «censura», o comunque il ricorso a meccanismi di occultamento referenziale, propri dello strato che convenzionalmente si definisce «inferiore». I residui lessicali visibili nei testi a-cortesi rappresentano insomma l’unico documento –letterario, e quindi altamente formalizzato– di tale situazione culturale, da studiarsi evitando l’aprioristica chiusura a tutto ciò che non sia compreso nel livello «alto» nell’analisi del testo trobadorico, tendenza che sembra ormai inveterata nella lauta maggioranza dei provenzalisti, italiani ed europei.
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2001). Ciò che pare primario fra le necessità evocate dallo studioso romano è in primo luogo una ricerca sistematica su temi e motivi di questo settore della letteratura medievale; la forma del motiv-index pare la più appropriata, e a questo primo momento catalogico non potranno non seguire studi monografici dedicati ai vari elementi là registrati. Lo studio lessicografico, in ottica sincronica e diacronica, potrebbe dimostrare, ad esempio, la vitalità di alcuni settori della lingua ad essere sottoposti a processi di polisemia e, viceversa le fratture osservabili nel passaggio tra differenti sistemi culturali. Già nella latinità classica esisteva infatti un grado di interdizione linguistica che portava all’impiego di un linguaggio criptolalico per indicare molti elementi afferenti al registro «basso». Nell’impossibilità di ipotizzare un’eventuale direzionalità di tali fenomeni, dalla letteratura al linguaggio parlato e viceversa, resta comunque documentata e ampiamente studiata la loro produzione nel linguaggio letterario: si tratta di tradizioni che si misurano anche sul lungo periodo, vista la molteplicità di espressioni metaforiche, metonimiche o eufemistiche documentate in latino che si ritrovano tali e quali nel dominio romanzo e oltre. Si può dire insomma che a livello diacronico e diatopico cambiano le parole, ma non cambiano i concetti: scorrendo i principali repertori del lessico erotico latino non si può non notare una forte convergenza nei campi semantici utilizzati nella produzione di alieniloquium, spesso a sfondo osceno. In questo senso, l’avvento della cultura cristiana non rappresenta un punto di rottura così forte; nella letteratura medievale romanza alcuni costrutti metaforici perdono certamente mordente perché ormai non più riferibili alla realtà contemporanea, e vengono dunque sostituiti da altri di più immediata relazione col proprio tempo (si pensi soltanto alla deformazione parodica del linguaggio feudale). Mutamenti che però non sembrano agire in profondità, lasciando piuttosto spazio alla prosecuzione di nuclei semantici attivi ancora nel linguaggio odierno, sovente attraverso un processo di degradazione, dal livello del linguaggio letterario a quello del linguaggio comune di registro colloquiale. Ed è forse il caso di iniziare a comprendere anche la poesia dei trovatori in questo campo di ricerca.
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Antonio Montinaro (Università del Salento)
La tradizione romanza del De medicina equorum di Giordano Ruffo. Varianti strutturali e testuali1
1. Introduzione2 Il De medicina equorum o Hippiatria di Giordano Ruffo è un trattato di mascalcia, ossia, secondo l’accezione antica, un’‹opera dedicata all’allevamento e alla cura dei cavalli›. Lo studio della tradizione di questo trattato da parte dello scrivente prende le mosse nel 2005, in concomitanza con l’avvio dei lavori preparatori all’edizione del ms. Vaticano Latino 10001 della Biblioteca Apostolica Vaticana, che si è rivelato essere uno dei numerosi volgarizzamenti tratti dal De medicina equorum.3 In questa sede si fornirà un’anticipazione dei risultati conseguiti nel córso di questi anni, prima della loro prossima pubblicazione integrale (cf. Montinaro in preparazione).4 Nel seguente intervento si forniranno informazioni su Giordano Ruffo (2) e sul De medicina equorum (3): nello specifico si focalizzerà l’attenzione su alcuni aspetti peculiari del trattato (3.1.), sulla sua tradizione manoscritta romanza (3.2.) e su alcune varianti strutturali e testuali (3.3.) che permettono di operare prime indicative distinzioni tra i numerosissimi codici che tramandano l’opera.
Questo lavoro si inserisce all’interno del PRIN 2007 su «Studio, Archivio e Lessico dei Volgarizzamenti Italiani (SALVIt)», che coinvolge le Università del Salento (coordinatore nazionale Rosario Coluccia), di Catania (responsabile Margherita Spampinato), di Napoli “L’Orientale” (responsabile Rita Librandi), di Pisa «Scuola Normale Superiore» (responsabile Claudio Ciociola), di Salerno (responsabile Sergio Lubello). 2 Ringrazio il mio maestro, prof. Rosario Coluccia, per aver letto interamente il contributo, fornendomi utili osservazioni. Ogni mancanza è da addebitarsi all’allievo. 3 Per questo codice, finito di vergare a Tunisi nel 1479 dal napoletano Cola de Jennaro, cf. Montinaro (2009a; 2009b; 2010). 4 Dati complementari a quelli discussi nel presente contributo saranno leggibili in Montinaro (in stampa). 1
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2. Giordano Ruffo5 Le notizie biografiche su Giordano Ruffo sono scarse e spesso contraddittorie, anche a causa dell’omonimia con altri personaggi dello stesso casato. Tralasciando per ragioni di spazio l’analisi delle svariate proposte avanzate dagli studiosi riguardanti le date di nascita e di morte, lo status sociale, le relazioni di parentela, gli incarichi politici e militari e l’attività scrittoria, qui si darà conto in modo molto succinto solo delle informazioni maggiormente attendibili, rinviando per un quadro dettagliato agli studi citati a n. 5. Giordano Ruffo nacque in Calabria intorno al 1200, sebbene non vi sia certezza sull’esatto luogo di nascita. Fu probabilmente fratello di Folco Ruffo (o Folco di Calavra), uno dei rimatori della Scuola Poetica Siciliana. Giordano e Folco erano verosimilmente nipoti di Pietro Ruffo, il più influente della famiglia Ruffo in età sveva, il quale ricoprì numerose cariche di prestigio per conto di Federico II. Pietro, assieme a Folco, arrivò a sottoscrivere il testamento dell’imperatore tre giorni prima della sua morte, dopo la quale Giordano Ruffo, essendosi schierato contro Manfredi a favore di Corrado, venne catturato e segregato in prigione, dove morì probabilmente dopo il febbraio del 1256.
3. Il De medicina equorum 3.1. Il trattato Il trattato denominato De medicina equorum o Hippiatria fu portato quasi sicuramente a compimento in latino fra il 1250, anno della morte di Federico II, e il 1256, probabile anno della morte del suo autore. Per la datazione e la lingua usata per la stesura dell’opera esistono delle opinioni discordanti, così come già visto per alcuni dati biografici (anche in questo caso si rinvia agli studi citati a n. 5). Il De medicina equorum è presentato nel prologo articolato in sei sezioni e risulta essere insieme un trattato di ippologia (sezioni I-IV e una sezione articolata in 2 capitoli che segue le sezioni V-VI, denominata Regulae cognitionum omnium equorum6, la quale sembrerebbe non essere contemplata nel prologo [cf. Molin 1818: 2]) e di ippiatria (sezioni V-VI): «primo de creatione et nativitate equi; secundo de captione et domatione ipsius; tertio de custodia et doctrina; quarto de cognitione pulcritudinis corporis, membrorum et factionum illius; quinto de infirmitatibus ejusdem tam naturalibus quam accidentalibus; sexto de medicinis ac remediis contra infirmitates praedictas valentibus» (id.: 2 1-8). Nell’organizzazione concreta della materia si mantiene sostanzialmente la suddivisione enunciata nel prologo, anche se si registrano alcune variazioni. La più significativa è che le sezioni V e VI sembrano essere unificate (cf. sotto). La sezione V, introdotta unitariamente nel prologo, nel testo è Alcune informazioni fornite in questo paragrafo e nei sottoparagrafi 3.1. e 3.2. sono riprese da Montinaro (2009a; 2009b), cui si rimanda per approfondimenti. 6 Questa sezione consiste in un breve trattato di fisiognomica applicata al cavallo. 5
La tradizione romanza del De medicina equorum di Giordano Ruffo. Varianti strutturali e testuali
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suddivisa in due sottosezioni: De aegritudinibus naturalibus venientibus (Molin 1818: 19 1-2) e De accidentalibus infirmitatibus et laesionibus equorum (id.: 20 16-17); la prima sottosezione a sua volta si articola in due parti: la prima parte, non suddivisa in capitoli, precede la seconda sottosezione, mentre la seconda parte De infirmitatibus naturalibus [id.: 108 1]), suddivisa in 5 capitoli, è vergata dopo di essa. L’unificazione delle sezioni V e VI nel trattato è provata da due elementi: (a) le medicine e i rimedi contro le infermità sono sempre descritte immediatamente dopo la presentazione della malattia (alla cui trattazione dovrebbe essere riservata solo la sezione V) e inoltre (b) manca una rubrica specifica per la sezione VI.7 Nella parte finale del trattato si registra inoltre una sezione suddivisa in 2 capitoli –la già menzionata Regulae cognitionum omnium equorum– che sembrerebbe non rientrare in nessuna di queste due sezioni (cf. sotto anche 3.3.). 3.2. La tradizione romanza La tradizione del De medicina equorum è frastagliata e ricostruibile con difficoltà a causa di tre motivi principali: (a) l’alto numero di testimoni, (b) l’assenza dell’edizione critica del testo latino e (c) lo scarsissimo numero di edizioni moderne, sia delle redazioni romanze sia delle redazioni non romanze. Verifichiamo concisamente ognuno di essi. (a) Il De medicina equorum, che segna la nascita della trattatistica veterinaria medievale, ebbe una straordinaria diffusione, testimoniata da una cospicua tradizione manoscritta e a stampa. Il risultato di un censimento condotto in Montinaro (in preparazione) ha permesso di individuare e descrivere ben 168 testimoni, di cui 155 manoscritti e 13 a stampa.8 Il maggior numero di codici tramanda l’opera tradotta in varietà linguistiche romanze: si registrano soprattutto manoscritti vergati in italoromanzo (88), ma anche in gallego (1), in catalano (2), in occitano (1), in francese (7) e manoscritti bilingui (2 [1 latino-francese e 1 latino e italoromanzo]); gli altri codici sono in latino (47), tedesco (6) ed ebraico (1) (complessivamente si registrano testimoni in 8 varietà linguistiche differenti). I testimoni a stampa, su cui non ci si soffermerà nella comunicazione, sono tutti in italoromanzo. (b) La tradizione manoscritta del De medicina equorum, sebbene eccezionalmente ricca di testimoni, è tuttavia poco studiata. Manca una vera e propria edizione critica del trattato (vi sono delle edizioni di alcuni suoi volgarizzamenti, ma per questo aspetto cf. sotto), per cui necessariamente si fa riferimento ancóra oggi a Molin (1818), usato anche da noi per l’analisi del testo latino; su questo lavoro è eloquente il lapidario giudizio di Gaulin (1994: 424, n. 1): «poco accessibile, non del tutto affidabile e realizzata sulla base di un solo manoscritto (Venezia, Bibl. Marciana, Lat. VII, 24 [= 3677], ff. 55-71), questa edizione meriterebbe di essere rifatta».9 Questa rubrica è presente nel ms. Français 25341 (già Gaignières 82) della Bibliothèque Nationale de France, che è il manoscritto base della versione francese del trattato edita da Prévot 1991 (cf. sotto 3.3.a.2.). 8 Questo risultato aggiorna quello fornito in Montinaro (2009a: 29), dove sono segnalati e descritti 167 testimoni. 9 Il testo di Molin (1818) è riprodotto, fornendo la traduzione a fronte in italiano e approntando un glossario selettivo privo della indicazione delle fonti e della bibliografia usate, in Causati Vanni (2000), la quale introduce alcune modifiche non dichiarate e non motivate. Successivamente a Molin (1818), è apparsa l’edizione, non a stampa, Roth (1928), «anch’essa filologicamente inattendibile e 7
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(c) All’assenza della edizione del testo latino si va a sommare l’esiguo numero di edizioni moderne, solo 11 e peraltro non sempre affidabili; di esse 4 sono a stampa, mentre le altre 7 sono costituite da tesi e dissertazioni.10 3.3. Sondaggi sulla struttura e sul testo I dati forniti dimostrano che si conosce ancóra troppo poco della tradizione del De medicina equorum. Lo studio presto leggibile in Montinaro (in preparazione), nascendo proprio da questa consapevolezza, tenta di apportare un contributo alla conoscenza della tradizione del trattato di Giordano Ruffo, soprattutto in riferimento all’àmbito romanzo. Per raggiungere lo scopo prefissato, dopo aver fornito indicazioni sui manoscritti (romanzi e non romanzi) che tramandano l’opera e sulle poche edizioni moderne esistenti, si è ritenuto opportuno procedere alla collazione di un campione di testimoni, cercando di trarre informazioni utili alla identificazione dell’originaria fisionomia –strutturale e testuale– dell’opera. La scelta di effettuare una selezione dei testimoni è dovuta alla necessità di far fronte ad alcune difficoltà oggettive, in primo luogo (come già ricordato) l’assenza dell’edizione critica del testo latino e lo scarso numero di edizioni; a queste carenze degli studi si unisce, come elemento di ulteriore complicazione della ricerca, un altissimo numero di manoscritti e stampe che tramandano la mascalcia. Per ovviare, per quanto possibile, a queste difficoltà si è deciso di collazionare sistematicamente il trattato edito nell’edizione di riferimento del testo latino (Molin 1818) con gli unici testimoni romanzi editi, vergati rispettivamente in italoromanzo (De Gregorio 1905 e Olrog 1995, cui si è aggiunto Montinaro 2009a), in gallego (Pensado / Pérez 2004) e in francese (Prévot 1991), nonché con alcuni codici inediti, che tramandano la mascalcia in catalano (Montserrat, Biblioteca de Montserrat, 789 e Paris, Bibliothèque Nationale de France, esp. 212). La collazione, come già detto, verte sia sulla componente strutturale sia su quella testuale.11 Si fornisce di séguito l’elenco dei codici collazionati divisi in Manoscritti collazionati sistematicamente e Altri manoscritti inediti collazionati. Oltre al luogo di conservazione, si indicano: la varietà linguistica (solo dei codici italoromanzi), la datazione e la localizzazione del trattato all’interno del manoscritto (fra parentesi tonde); dopo il segno di uguale (=) si indica l’abbreviazione del codice e [fra parentesi quadre] l’edizione di riferimento (da cui si desumono la datazione e la varietà linguistica dell’opera). Manoscritti collazionati sistematicamente [totale 6] Trattato di Giordano Ruffo in latino [totale 1]: [1] Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, inoltre incompleta, perché mancante dei primi sette capitoli» (Trolli 1990: 17, n. 1); si tratta di una traduzione in tedesco priva del testo latino (cf. anche sotto). 10 Edizioni a stampa (tutte relative a traduzioni del testo latino): 1 testo in gallego (Pensado / Pérez 2004), 1 testo in francese (Prévot 1991) e 2 testi in italoromanzo (De Gregorio 1905 e Olrog 1995). Tesi e dissertazioni: 1 testo in occitano (Arquint 2007), 1 testo in francese (Klein 1969), 4 testi in italoromanzo (Di Costa 2000-2001 [si tratta di una edizione parziale], Hiepe 1990, La Rosa 19992000 e Montinaro 2009a) e 1 testo in tedesco (Roth 1928, già citato). 11 L’esclusione delle altre edizioni segnalate precedentemente a 3.2. è motivata da ragioni differenti, per le quali si rimanda per motivi di spazio a Montinaro (in preparazione).
La tradizione romanza del De medicina equorum di Giordano Ruffo. Varianti strutturali e testuali
327
Latini, Classe VII, 24 (= 3677), sec. XIII (ff° 54-71) = Ve [Ed. di riferimento Molin (1818)] Trattati di Giordano Ruffo in italoromanzo [totale 3]: [1] Berlin (Germania), Kupferstichkabinett, 78 C 15, pis., sec. XIII fine (ff° 1-48) = B [Ed. di riferimento Olrog (1995)]; [2] Roma, Collezione privata, codice Trabia, siciliano, 1368 (ff° 8-41) = R [Ed. di riferimento De Gregorio (1905)]; [3] Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vaticani Latini, 10001, napol., 1479 = V [Ed. di riferimento Montinaro (2009a)] Trattato di Giordano Ruffo in gallego [totale 1]: [1] Già posseduto da D. Manuel Valcárcel Reboredo, attualmente si ignora la sua ubicazione, 1420 (il trattato si legge a partire da f°17 e occupa 26 ff°) = G [Ed. di riferimento Pensado / Pérez (2004)] Trattato di Giordano Ruffo in francese [totale 1]: [1] Paris, Bibliothèque Nationale de France, Français 25341 (già Gaignières 82), 1300 ca. (ff° 1-30) = Pa [Ed. di riferimento Prévot (1991)] Altri manoscritti inediti collazionati [totale 2] Trattati di Giordano Ruffo in catalano [totale 2]: [1] Montserrat (Spagna), Biblioteca de Montserrat, 789, 1389 (ffº 1r.-40r.) = M; [2] Paris (Francia), Bibliothèque Nationale de France, Espagnols, 212 (già 7249), sec. XIV (ff° 93v.-109v.) = PE
Di séguito si presenteranno sinteticamente solo i dati più significati ricavati dalla collazione, evidenziando le varianti strutturali e testuali che assumono di volta in volta valore separativo o congiuntivo. Si anticipa che i risultati di questa analisi suggeriscono di collocare tutti i manoscritti collazionati in differenti gruppi o famiglie della tradizione. 3.3.a. Varianti strutturali Il De medicina equorum, come già visto sopra (3.1.), si articola secondo una struttura ben definita. I numerosi codici che tramandano l’opera (sicuramente i testimoni collazionati) conservano nella sostanza questa struttura, sebbene sia possibile rilevare alcune significative varianti che rappresentano dei punti fermi attraverso i quali avviare la ricostruzione della tradizione testuale. In Montinaro (in preparazione) le variazioni strutturali sono analizzate in base al luogo del trattato cui si riferiscono: prologo (3.3.a.1.), sezioni del trattato (3.3.a.2.) e capitoli del trattato (3.3.a.3.), inclusi quelli elencati nel rubricario. In questa sede ci soffermeremo sul prologo (3.3.a.1.) e sulle sezioni del trattato (3.3.a.2.).12 3.3.a.1. Prologo Il prologo [0] rappresenta una sezione piuttosto stabile dell’opera. In Ve, dopo aver dichiarato il cavallo l’animale più nobile [0.1.], definito il destinatario dell’opera (gli uomini d’arme) [0.2.] e il suo dedicatario (l’imperatore Federico II) [0.3.], si preannuncia la struttura del trattato [0.4.]. B, V, G e Pa mantengono questa struttura, con piccole variazioni: in particolare in B, G e Pa, benché nominato, non è esplicitata la dedica a Federico II [0.3.]. In R questa sequenza è alterata, poiché, dopo una sezione di 7 ff° in cui a brevi didascalie si accompagnano 80 figure Per agevolare la comprensione della trattazione, a ogni elemento caratterizzante la struttura dell’opera si attribuirà una combinazione alfanumerica [posta tra parentesi quadre], generata utilizzando i seguenti criteri: il primo segno numerico indica sistematicamente la sezione cui l’elemento si riferisce (sezione che precede il prologo: 00; prologo: 0; sezione I: 1; sezione II: 2; sezione III: 3; sezione IV: 4; sezioni V-VI: 5-6; sezione non citata nel prologo: 7), mentre i successivi segni alfanumerici contraddistinguono le articolazioni interne alle sezioni e la successione delle variazioni strutturali in riferimento ai codici collazionati.
12
328
Antonio Montinaro
di varie forme di morsi, il prologo è preceduto dall’anticipazione della struttura del trattato (che negli altri codici chiude il prologo) [00.0.4.], seguìta dal rubricario relativo alle infermità discusse nella sezione V-VI (che negli altri codici è vergato all’inizio di questa sezione) [00.5-6.3.], per poi riportare nel prologo vero e proprio l’affermazione sulla nobiltà del cavallo [0.1.] e dichiarare il destinatario dell’opera [0.2.], senza fare riferimento a Federico II. Sebbene sia evidente che in R il prologo diverga in più punti dalla struttura maggiormente diffusa, la vera discriminante tra i diversi testimoni sembra essere la posizione del rubricario relativo alle infermità trattate nella sezione V-VI. Da una parte andranno perciò collocati i testimoni che come Ve, B, V, G e Pa recano il rubricario all’interno della sezione V-VI, dall’altra i codici che come R e Paris BNF esp. 212 (cf. 93v.-94r.)13 tramandano il rubricario immediatamente prima del prologo. Si precisa che del prologo di V, a causa della sua acefalia, si conosce solo il lacerto terminale, relativo all’introduzione degli argomenti esaminati nelle sei sezioni che, stando proprio al prologo, comporrebbero la mascalcia14 (si tramandano solamente i riferimenti alle sezioni IV e V-VI) [0.4.]; è invece certo che in questo codice il rubricario delle infermità si trovi nella sezione V-VI. Cf. la tabella riassuntiva sottostante.15 Sezione che precede il prologo [00]
Prologo [0] Ms.
Dichiarazione di nobiltà del cavallo [0.1.]
Destinatario dell’opera [0.2.]
Dedicatario / riferimento a Federico II [0.3.]
Struttura del trattato [0.4.]
Ve B R
+ + +
+ + +
+ + -
+ + -
V
- [ms. acefalo]
- [ms. acefalo]
- [ms. acefalo]
G Pa
+ +
+ +
+ +
+ [parzialmente: ms. acefalo] +
+
Struttura del trattato [00.0.4.]
+
Rubricario infermità [00.5-6.3.]
-
+
-
3.3.a.2. Sezioni del trattato Altri elementi utili alla ricostruzione della tradizione testuale dell’opera e della sua originaria fisionomia derivano dall’articolazione delle sezioni del trattato, già parzialmente anticipata a 3.1. in riferimento alla struttura del testo latino. Nel prologo di Ve l’opera si presenta articolata in sei sezioni: «primo de creatione et nativitate equi; secundo de captione et domatione ipsius; tertio de custodia et doctrina; quarto de cognitione pulcritudinis corporis, membrorum et factionum illius; quinto de infirmitatibus ejusdem tam naturalibus quam accidentalibus; sexto de medicinis ac remediis contra infirmitates praedictas valentibus» (Molin 1818: 2 1-8); nell’organizzazione della materia l’autore mantiene sostanzialmente la suddivisione enunciata nel prologo, sebbene si registrino delle variazioni relative alle sezioni In questo codice tuttavia, a differenza di R, l’elenco degli argomenti esaminati nel trattato si rintraccia nella parte terminale del prologo (esattamente come negli altri testimoni collazionati). 14 Si rammenti tuttavia quanto già affermato a 3.1. sulla struttura del trattato di Ruffo; per questo aspetto cf. anche 3.3.a.2. 15 Si avvisa una volta per tutte che il segno + indica la presenza di un elemento, il segno - la sua assenza e che le sottolineature semplice e doppia indicano le parti strutturali e testuali simili, mentre la sottolineatura ondulata indica le parti divergenti. 13
La tradizione romanza del De medicina equorum di Giordano Ruffo. Varianti strutturali e testuali
329
V-VI [5-6] e a una sezione non citata nel prologo [7]. [5-6]. [5-6.1.] Le sezioni V e VI sono accorpate (le medicine e i rimedi contro le infermità sono elencati sistematicamente dopo la presentazione della malattia; inoltre manca una rubrica specifica per la sesta sezione [5-6.1.a.1.]). [5-6.2.] La sezione V, introdotta unitariamente nel prologo (quinto de infirmitatibus ejusdem tam naturalibus quam accidentalibus [Molin 1818: 2 5-6]), nel testo è suddivisa in due sottosezioni: De aegritudinibus naturalibus venientibus (id.: 19 1-2) e De accidentalibus infirmitatibus et laesionibus equorum (id.: 20 16-17) [5-6.2.a.]; la prima sottosezione a sua volta si articola in due parti: la prima, priva di ulteriori denominazioni e non suddivisa in capitoli, è svolta prima della seconda sottosezione, mentre la seconda (denominata De infirmitatibus naturalibus [id.: 108 1]), suddivisa in 5 capitoli, è vergata dopo di essa [5-6.2.b.]. [7]. Nella parte finale del trattato, dopo le sezioni V-VI, trova posto la più volte menzionata Regulae cognitionum omnium equorum, una sezione articolata in due capitoli che non è citata nel prologo e non sembrerebbe rientrare in nessuna delle sezioni precedenti (cf. Molin 1818: 113 1-2). Utilizzando queste variazioni strutturali rispetto a quanto enunciato nel prologo come elementi discriminanti dei vari filoni della tradizione, dalla collazione dei codici si ricavano i seguenti dati. [5-6]. [5-6.1.] Tutti i manoscritti collazionati, B, R, V, G e Pa, accorpano le sezioni V-VI. Tuttavia è possibile distinguere tra codici che non presentano nello svolgimento del trattato – a differenza di quanto avviene nel prologo – la rubrica che annuncia la VI sezione (B, R, V e G) [5-6.1.a.1.] e codici che la presentano (Pa) [5-6.1.a.2.]. [5-6.2.] Riguardo a questo punto le differenze sono più articolate. Tutti i codici collazionati suddividono la sezione V-VI in due sottosezioni [5-6.2.a.], sebbene si registrino delle divergenze: in B la sezione è introdotta da una rubrica relativa solamente alle infermità accidentali16 [56.2.a.1.], in G non si registra nel trattato una rubrica specifica per la I sottosezione ma si rintraccia dapprima una rubrica comune per le sottosezioni I e II17, seguìta da una rubrica specifica per la II sottosezione18 [5-6.2.a.2.], mentre in Pa si rintraccia nel trattato esclusivamente una rubrica che fa riferimento alla I sottosezione19 della sezione V-VI20 e non alla II sottosezione, pur presente [5-6.2.a.3.]. La differenza più marcata tuttavia è relativa alla suddivisione in due parti della I sottosezione delle sezioni V-VI, registrata solo dai testimoni italoromanzi B e V, sebbene V si riveli più simile a Ve rispetto a B [5-6.2.b.1.]: infatti proprio come Ve la prima parte di V, priva di ulteriori denominazioni e non suddivisa in capitoli, è svolta prima della seconda sottosezione, mentre la seconda (denominata Qujsti serano li remedij contra li naturali infirmjtate [V, 66v. 18]), suddivisa in 5 capitoli, è vergata dopo di essa [5-6.2.b.1.a.]; in B invece manca la rubrica della I parte della I sottosezione, essendoci solo una rubrica che fa riferimento alle accidentali
18 19 20 16 17
De accidentali lesioni de cavalli (7r. 298). Das enfirmitades naturaas et non naturaes que veen ao cavalo (5v. 279). Capitolo das enfirmidades et danaduras que veen ao cavalo acidentamente de fóra (6r. 304-305). V. Ci commence la quinte partie: des enfermetez qui avienent par defauste de natura (5r. 151). Si rammenti, come già segnalato a n. 7, che Pa tramanda anche una rubrica specifica per la VI sezione (cf. anche sotto).
330
Antonio Montinaro
lesioni de cavalli (B, 7r. 298)21, sebbene la rubrica specifica della II sottosezione si legga nella carta successiva (B, 7v. 323: Del’acidentale lesione) e i capitoli della II parte della I sottosezione sono 4, cui si aggiunge un Prolago (assente sia in Ve sia in V) [5-6.2.b.1.a.b.]. R, G e Pa, a differenza di Ve, B e V, non tramandano la suddivisione in due parti della I sottosezione delle sezioni V-VI (G introduce una particolare suddivisione tra «enfirmidades et [...] remedios das coixas et das pernas do cavalo per todo o corpo» e «danamentos das uñas» [23r. 1306-1307], mentre Pa accorpa più capitoli [3] relativi alla I sottosezione prima del rubricario relativo alla seconda sottosezione) [5-6.2.b.2.]. [7]. La presenza o meno della sezione tramandata da Ve con il titolo Regulae cognitionum omnium equorum [7.1.] e la sua posizione all’interno del trattato [7.2.] permette, come per il punto precedente [5-6.2.], di operare due ripartizioni. La prima consente di isolare i manoscritti che tramandano la sezione, Ve, B, V e Pa [7.1.a.], dai codici che non la tramandano, R e G [7.1.b.]. La seconda, relativa alla posizione di questa sezione, distingue Pa [7.2.b.] da tutti gli altri codici che la tramandano (Ve, B e V) [7.2.a.]: infatti solo nel manoscritto francese essa costituisce la IV sezione del trattato. I dati forniti possono essere schematizzati attraverso la tabella seguente. Sezione non citata nel prologo [7]
Sezioni V-VI [5-6]
Ms.
Accorpamento nel trattato delle sezioni V e VI [5-6.1.]
Ve B R V G Pa
+ + + + + +
Presenza nel trattato della rubrica della VI sezione [5-6.1.a]
– – – – – +
Suddivisione nel trattato della sezione V [56.2.a.] in due sottosezioni
+ + + + + +
Suddivisione nel trattato della I sottosezione delle sezioni V-VI in due parti [5-6.2.b.]
+ + – + – –
Posizione [7.2.] Presenza [7.1.]
+ + – + – +
Finale
Altra
[7.2.a.] [7.2.b.]
+ + – + – –
– – – – – +
A questo punto, facendo riferimento anche al sottoparagrafo 3.3.a.1., è possibile isolare con precisione 4 elementi –relativi al rubricario [00.5-6.3. e 5-6.3.], alla sezione V-VI [5-6] e alla sezione non citata nel prologo [7]– che assumono valore discriminante ai fini della ricostruzione della tradizione testuale del trattato. – Posizione del rubricario: prima del prologo (R [00.5-6.3.]) e nella sezione V-VI (Ve, B, V, G e Pa [5-6.3.]). – Presenza nello svolgimento del trattato della rubrica che annuncia la VI sezione (Pa) [5-6.1.a.2.] e sua assenza (B, R, V e G) [5-6.1.a.1.]. – Presenza della suddivisione della sezione V in due sottosezioni (B, R, V, G e Pa) [56.2.a.] e successiva presenza della suddivisione in due parti della I sottosezione delle sezioni V-VI (Ve, B e V) [5-6.2.b.1.] e sua assenza (B, R e Pa) [5-6.2.b.2.]. – Presenza della sezione non citata nel prologo (Ve, B, V e Pa) [7.1.a.] e sua assenza (R e G) [7.1.b.] e posizione [7.2.] di questa sezione all’interno del trattato (posizione finale: Ve, V e B [7.2.a.]; sezione IV: Pa [7.2.b.]). Cf. la tabella sottostante. Questa rubrica marca l’inizio della sezione V-VI.
21
331
La tradizione romanza del De medicina equorum di Giordano Ruffo. Varianti strutturali e testuali Rubricario [00.56.3. e 5-6.3.]
Sezione non citata nel prologo [7]
Sezioni V-VI [5-6]
Ms.
Prima del prologo [00.56.3.]
Nella sezione V-VI [5-6.3.]
Presenza nel trattato della rubrica della VI sezione [5-6.1.a.]
Suddivisione nel trattato della sezione V-VI in due sottosezioni [5-6.2.a.]
Ve B R V G Pa
– – + – – –
+ + – + + +
– – – – – +
+ + + + + +
Suddivisione nel trattato della I sottosezione delle sezioni V-VI in due parti [5-6.2.b.]
+ + – + – –
Posizione [7.2.] Presenza [7.1.]
+ + – + – +
Finale [7.2.a.]
Altra [7.2.b.]
+ + – + – –
– – – – – +
3.3.b. Varianti testuali Indizi utili alla ricostruzione della tradizione del De medicina equorum si ricavano non solo, come verificato a 3.3.a., dalla collazione della struttura del trattato, ma anche dalla collazione del testo, la quale ha permesso di individuare varianti ascrivibili a quattro tipi fondamentali: (3.3.b.1.) assenza di interi passi testuali, (3.3.b.2.) presenza di riferimenti apotropaici, (3.3.b.3.) presenza di riferimenti a persone (3.3.b.3a.) o cose (3.3.b.3b.) note (personalizzazione del testo) e (3.3.b.4.) variazione di lemmi (3.3.b.4a.) o di cifre (3.3.b.4b.).22 Come già fatto per le varianti strutturali, si forniranno solo alcuni esempi, traendoli nello specifico dai tipi 3.3.b.1. e 3.3.b.3a. 3.3.b.1. Assenza di interi passi Alcuni manoscritti collazionati talvolta non riportano interi passi testuali tramandati invece dagli altri codici. Si veda questo caso riguardante alcune indicazioni sulla ferratura del cavallo riportate nel I capitolo della III sezione e leggibili in Ve, in B, in R e in G e assenti invece in V e in Pa (dove manca tutta la parte iniziale del capitolo). III sezione Ve [Molin 1818, 9 8-11]
B, 3v. 126-128
Et nota quod quanto equus ferratur junior, tanto ejus ungulae molliores et debiliores fiunt, quoniam usus eundi a juventute sine ferris nutrit naturaliter ungulas equi duras et magnas
Et sappi che quando piò si ferra lo cavallo giovano, tanto piò le suoi unghie diventano debile e molle, che lo suo andare isferrato in dela sua gioventudine ingennera le suoi unghie dure & grande
R, 11v. 19-22
V, 5v.
G, 3r. 134-135
Pa, 3r.
E sachi ki quantu plui Manca Nota que, quanto o Manca si ferra lu cauallu potro for máis novo iuuini tantu plui li et máis cedo fe[r] soi unghi diuentanu rado, tanto avera debili e molli . ki lu as uñas moles et usu di andari sferatu máis fracas, porque genera da la sua o uso d’andar sen iuuintuti li soi unghi fer[r]aduras cria as duri e grandi uñas máis duras
È significativo che nella redazione latina non si rintraccino né riferimenti apotropaici (3.3.b.2.) né riferimenti a persone (3.3.b.3a.) o cose (3.3.b.3b.) note, che verosimilmente saranno da considerare aggiunte posteriori lontane dallo spirito «scientifico» che informa il De medicina equorum di Ruffo.
22
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Antonio Montinaro
3.3.b.3. Presenza di riferimenti a persone o cose note (personalizzazione del testo) Nel caso preso in esame nella tabella sottostante, ci si riferisce all’inserzione di un esplicito riferimento da parte dello scrivente di V, Cola de Jennaro, a persone e ad avvenimenti a lui noti con il fine di comprovare l’efficacia di una tecnica relativa all’addestramento del cavallo (si sta illustrando come fare accettare il freno al cavallo). III sezione Ve [Molin 1818, 10 25-11 1] De melle, vel aliquo dulci primo in morsu dixi poni, quoniam gustatam dulcedinem aliquoties libentius iterato recipit, postquam vero frenum sine difficultate recepit B, 4r. 153-155 Et di mele usia d’altro licore dolce dissi di ponere in delle morse del freno, inperciò che assagiando lo mele l’altra volta se lo lassa mectere piò volontieri. R, 12r. 2-3 E di lu meli oi di laltru licuri diui mictiri in lu morsu di lu frenu. In pirzo ki assaiandu lu meli laltra fiata vi lassa mictiri plui uulinteri lu frenu V, 6v. 17-7r 20 Yo aio dicto jn primo de mele o d’altra cosa dulce que se dive mectere a lo freno, lo quale faray stare trj jorno a lo sole et depoy li trj iornj lo micti a lo cavallo et falo stare con li retene lente trj altri iornj [..]. Quista doctrina provao messere Jncastone ad uno suo cursserj [...]. Ancora lo ditta doctrina fice un altro homo d’arme chiamato Peruchia ad uno suo cavallo [...]. Primeramente quando lo cavallo averà gustato la dulcecza del dintro di lo freno, più volenteri si lo lassa mectire un’altra fiata, depoy que illo si lo lassarà mectere lo freno semcza defunclitate alcuna G, 3v. 158-159 et devenllo untar para o receber outra vez mellor. Et pois que o potro receber o freo sen afan Pa, 3v. 72-73 Et, si comme j’ai dit, le fraig doit estre dous et legiers et faibles, pour ce que, quant le fraig fet mains moleste au cheval et a la bouche dou cheval, tant le prendra il plus voulantiers des en avant, et plus legeremant, et pour la douçour qu’il aura santue, siques il le retendra plus voulantiers une autre foiz.
4. Conclusioni Dai dati esposti si possono trarre alcune considerazioni: (1) il De medicina equorum di Giordano Ruffo ha goduto di una ampia diffusione romanza, documentata da una tradizione manoscritta particolarmente ricca; (2) la ricostruzione dei rapporti tra i diversi testimoni è ostacolata dalla mancanza dell’edizione del testo latino e dalla scarsità di edizioni dei volgarizzamenti; (3) all’interno di un siffatto quadro, il censimento dei testimoni (allestito dallo scrivente) e l’analisi delle varianti strutturali e testuali sono operazioni obbligatorie per
La tradizione romanza del De medicina equorum di Giordano Ruffo. Varianti strutturali e testuali
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iniziare a far luce sulla tradizione di un’opera che, sia nella redazione latina originaria sia nelle versioni romanze, si sta dimostrando interessante da più punti di vista: storico-culturale, lessicale e linguistico.23 Venendo all’analisi qui condotta, si possono fare le due seguenti osservazioni. (1.) Sembra esistere una sorta di differenza qualitativa tra le varianti strutturali e quelle testuali. Le prime denotano infatti una minore variabilità, che si spiega con la difficoltà di intervento da parte del copista o del traduttore sulla struttura del trattato (inevitabilmente più rigida e cristallizzata) rispetto al testo, dove confluiscono in modo più agevole integrazioni o aggiunte, a volte derivate anche dall’esperienza personale (come appurato sopra a 3.3.b.3.). Una volontaria modifica strutturale comporterebbe di fatto un maggiore controllo della materia; ma una simile capacità non sempre si ravvisa nei codici collazionati, come dimostra la mancata identità, non solo nella successione, tra i capitoli elencati nel rubricario e quelli effettivamente trattati. Tale caratteristica coinvolge numerosi testimoni, non soltanto quelli collazionati.24 (2.) L’analisi delle varianti, per produrre risultati affidabili e risolutivi, necessita di edizioni che evidenzino con accorgimenti editoriali adeguati la struttura del trattato, che a nostro avviso appare l’àmbito di indagine più proficuo per ricostruire le varie famiglie della tradizione manoscritta. Senza trascrizioni accurate la variabilità strutturale e testuale infatti potrebbe non essere còlta nelle sue varie articolazioni. Per concludere, pare opportuno l’auspicio che la ormai prossima diffusione dei dati integrali del censimento e delle schede descrittive dei testimoni possa sollecitare l’approntamento di ulteriori edizioni della mascalcia, oltre a quella di Cola de Jennaro di cui direttamente ci interessiamo. Solo con buone edizioni, dotate di adeguati commenti storici, testuali e linguistici, si potrà ricostruire nelle sue diverse articolazioni la tradizione del De medicina equorum e trarne informazioni utili per un significativo episodio testuale della cultura romanza nel Medioevo.25
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Antonio Montinaro
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Ricardo Pichel Gotérrez (Universidade de Santiago de Compostela)
Notas sobre braquigrafía galega medieval. Sinais abreviativos especializados1
1. Introdución. O enfoque dos estudos braquigráficos actuais A braquigrafía (do gr. βραχυς ‹breve, curto›) é unha disciplina que dentro das ciencias e técnicas historiográficas aborda o estudo das abreviaturas. No entanto, o dito estudo non se debe limitar a un enfoque puramente descritivo (característico da paleografía de lectura), senón que se debe acometer desde unha perspectiva crítica (paleografía de análise) que profunde na conformación, evolución e interpretación dos diferentes sistemas braquigráficos. Como tentaremos ilustrar nas páxinas seguintes, as aplicacións deste enfoque crítico van máis alá do campo paleográfico2 e entran de cheo nos ámbitos escriptolingüístico e ecdótico. Por outra banda, cómpre atender aos diferentes parámetros (cronolóxico, xeográfico, escriptolóxico, lingüístico) que condicionan a (des)codificación de cada unha das unidades abreviativas. A exigüidade no ámbito peninsular3 de estudos no campo abreviativo vinculados ás particularidades culturais ou escriptolingüísticas de cada territorio xa foi apuntada en diversas ocasións nas últimas décadas (Méndez 1997: 57, Sánchez Prieto 2001: 159-60). Cinguíndonos ao ámbito galego4, o estudo da braquigrafía resulta aínda insuficiente, xa que non é abranguente de toda a época medieval, non discrimina a casuística idiomática (scripta latina, híbrida latino-romance, autónoma romance, romance galaico-leonesa, etc.), non aborda de xeito ordenado e sistemático todos os braquigrafemas existentes nin tampouco atende aos diferentes paradigmas abreviados resultantes. Esta investigación enmárcase nos proxectos Xelmírez. Corpus Lingüístico da Galicia Medieval e Transcrición paleográfica de obras medievais, desenvolvidos no Instituto da Lingua Galega. 2 Para o latín véxase, entre outros, Bischoff (2003: 150-68) e Stiennon (1973: 124-9); para o latín e romances peninsulares Millares (1983, I: 111-26), Floriano (1946: 104-29) e Santos (1994, I: 1736,183-7, 196-8 e 210-39, para as letras carolina e gótica). 3 Destacan os seguintes traballos: Ostolaza (1990), Burón (1994), Torrens (1995; 2002: 93-101), Sánchez-Prieto Borja 1996 (91-5, 106-9), Piñol (1998), Cuenca (2000), Sánchez Prieto (2001), Méndez (1997), Pellen (2005), Gancedo (2006). 4 Podemos citar aquí algunha das achegas máis recentes: Lorenzo (2004), Maure (2006: 37-41), Monteagudo (2008: 449-55), Boullón / Monteagudo (2009: 83-7), Pichel (2009: 33-7); neste último traballo inclúese unha relación orientativa dos diversos traballos referidos a esta cuestión nos distintos romances peninsulares e, particularmente, no galego. 1
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Ricardo Pichel Gotérrez
2. Tipoloxía abreviativa. Obxectivos da investigación e corpus As abreviaturas consitúen en gran medida un sistema de representación global da secuencia gráfica que implica unha lectura logográfica da sílaba ou da palabra. Tradicionalmente a mesta silveira abreviativa foi catalogada segundo un criterio de corte paleográfico que discrimina os braquigrafemas segundo a morfoloxía gráfica e o procedemento abreviativo empregado.5 Outros autores avogan por unha categorización fono-morfolóxica da secuencia gráfica obxecto de acurtamento.6 Nós consideramos máis oportuno partir dunha clasificación de índole grafemática7 que organiza o corpus braquigráfico segundo tres parámetros: a diversificación ou amplitude abreviativa (polivalente ou monovalente), o número dos constituíntes da secuencia abreviada e a disposición destes na cadea gráfica. No primeiro caso, en realidade habería que falar de graos de polivalencia, xa que, por regra xeral, todo elemento abreviativo é susceptíbel de representar máis dun valor.8 O segundo parámetro permite distinguir abreviacións monografemáticas (ex. «muller») e poligrafemáticas (ex. «confirmar»). Por último, o terceiro parámetro posibilita a diferenza entre abreviaturas cuxos constituíntes acurtados aparecen contiguos na cadea gráfica (abrev. continua; ex. «preguntar») ou non (abrev. descontinua; ex. «aqueles»). En todos estes casos podemos atoparnos con tres tipos de unidades abreviativas: o signo xeral de abreviación (a lineta superior)9, a sobreposición literal (letras sobrepostas, principalmente as vogais) e os sinais especializados. O obxecto de estudo na presente contribución é a identificación e análise dos diferentes usos e valores abreviativos dos sinais especializados no galego medieval. Interésanos, ademais, reflexionar sobre a súa descodificación por parte do editor de textos medievais, xa que en moitos casos a interpretación resulta conflitiva e está condicionada a diferentes factores (extra)lingüísticos. O corpus empregado para o recoñecemento desta tipoloxía abreviativa é a Historia Troiana, un manuscrito castelán da 2ª metade do séc. XIV (ca. 1365-1369) cuxas A aplicación real desta clasificación resulta ás veces algo caótica. Distínguense mecanismos de: redución por apócope ou suspensión, por síncope ou contracción, abreviación «mixta» (que combina a apócope e a síncope), siglación, sobreposición literal, grafismos, signos especiais, etc. 6 Deste xeito, distinguen entre abreviación fonográfica ou fonograma (a redución afecta a un elemento da sílaba; ex. «herdade»), abreviación silábica ou silabograma (a redución afecta a un paradigma silábico determinado; ex. «preçado») e abreviación lexemática ou lexicograma (a redución afecta á palabra enteira; ex. «xpi»). Vid. p. ex. Pellen (2005) ou Torrens (2002). 7 Tal clasificación vén xustificada pola propia motivación do uso dunha abreviatura. Consideramos que a elección dun determinado procedemento braquigráfico non vén motivada nin pola morfoloxía gráfica do elemento abreviativo nin polas unidades fono-morfolóxicas da secuencia abreviada (fonema, sílaba, palabra), senón pola existencia de grupos de letras (e sons) máis frecuentes susceptíbeis de seren abreviados. Así, por exemplo, no presente estudo analizamos paradigmas abreviados tan habituais como ‹vogal + R›, ‹ditongo + R›, ‹R + vogal›, etc. 8 Esta circunstancia verifícase non só na evolución dos sistemas de abreviación medievais (cfr. p. ex. a multiplicidade de valores do sobreposto nas tipoloxías gráficas (pre)cortesás), senón tamén no seo dun marco textual específico e, por tanto, de autoría e cronoloxía invariábeis. 9 Noutros traballos aproximámonos aos diferentes usos do titulus (til) ou trazo xeral no galego medieval, especialmente no seu uso fonográfico como marca de nasalidade vocálica (vid. Pichel [2009] e 2010b) e no seu carácter anfibolóxico nos compendios abreviativos (vid. id. 2010a). 5
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Notas sobre braquigrafía galega medieval. Sinais abreviativos especializados.
lagoas textuais, provocadas por unha importante deterioración e mutilación do seu soporte, foron restituídas en galego no último terzo do mesmo século (ca. 1369-1371).10 Esta sección galega abrangue 80 folios (en pergameo, a 2 columnas) intercaladas entre as planas castelás superviventes do ms. orixinal, e foi escrita nunha gótica «bastarda posada de cuerpo y cálamo medios en tinta marrón. Bastante abreviada» (González Pascual 2000: 247).11
3. Sinais abreviativos especializados A Historia Troiana posúe un notábel polimorfismo abreviativo representado por 7 símbolos especiais: o bucle supralinear levoxiro (º), o trazo quebrado superior (7), os trazos infralinear (_) e mediolinear (/), o lazo ou bucle inferior (o) e os símbolos (ω) e (9) ou (9).12
bucle supralinear (º) (caualeiros, apreçeberon)
trazo quebrado (7) (preçauan)
trazo infralinear (_) (perdiam)
trazo mediolinear (/) (vertude)
bucle infralinear (o) (prouado)
símbolo (ω) (purpura/porpora)
símbolo (9) (moytos)
símbolo (9) (consello)
En todos os casos as secuencias obxecto de acurtamento son poligrafemáticas (compostas por 2 letras, salvo ‹eir› e ‹cun/con›) e os seus constituíntes aparecen contiguos na cadea gráfica.13 Canto aos símbolos abreviativos, desde o punto de vista paleográfico, ademais da morfoloxía gráfica e da posición na caixa de escritura (superior, inferior ou medial), cómpre ter en conta a súa vinculación Existe unha edición deste texto, moi deficiente, debida a Parker (1975); con todo, os numerosos erros de transcrición foron detectados e enmendados por Lorenzo (1982). Na actualidade preparamos unha nova edición do texto (transcrición paleográfica e presentación crítica), como parte da investigación comprendida na nosa tese de doutoramento (cfr. Pichel 2010a). 11 Pola limitación de espazo cinguirémonos á escritura do texto base (incluída a rubricación de seccións e de miniaturas) e reservaremos para outro estudo os apuntamentos marxinais (principalmente, reclamos e anotacións preliminares de rúbricas), escritas nunha gótica máis cursiva e na que cabería salientar diversos usos documentais (braqui)gráficos. 12 Debido á limitación de espazo non nos é posíbel ofrecer aquí a análise destes dous últimos sinais abreviativos (9) (valor ‹os / us›) ou (9) (valor ‹con / cun›). Polo mesmo motivo, reservamos igualmente para outra ocasión o estudo pormenorizado da rendibilidade lemática dos sinais especializados rexistrados no noso corpus. 13 Cfr., por exemplo, os denominados compendios abreviativos (exs. «fcas», «Plz»), onde é moi habitual a abreviación descontinua (‹factas›, ‹Pelaez›). 10
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Ricardo Pichel Gotérrez
coa base gráfica na que se apoia (xeralmente unha letra): nuns casos a asociación é indefectíbel, polo que o símbolo queda fixado á dita base (p. ex. a lineta infralinear ou o bucle inferior +
); noutros o sinal pode ser empregado indistintamente como expoñente de distintas unidades gráficas (exs. «dizer», «mercadores», «toverdes»). Canto ao procedemento braquigráfico, todas estas unidades empregan a contracción ou síncope abreviativa. O símbolo máis frecuente en número de ocorrencias é o trazo infralinear (882 casos), seguido do bucle supralinear (849) e, a moita distancia, o símbolo (188), o lazo inferior (105), o trazo mediolinear (58), o signo (34) e o trazo quebrado superior (30). No entanto, desde o punto de vista da realidade fonográfica representada, o sinal máis polivalente é o bucle supralinear levoxiro (º), xa que abrevia catro secuencias gráficas distintas (‹ar›, ‹er›, ‹eir› e ‹re›). 3.1. Paradigma abreviado ‹vogal + R› (valores ‹ar›, ‹er›, ‹ir›, ‹or› e ‹ur›) Este valor é asumido por cinco símbolos abreviativos especializados diferentes14, tal e como describimos deseguido. O máis frecuente en número de ocorrencias (881) é a lineta infralinear, asociada sempre ao
, que abrevia ‹er› e ‹ar› de xeito inequívoco nun conxunto de 462 formas:15 Valor : áspera 1, asperança 1, enperador/-triz 3, empero 20, espertar (espertou 1), perder 10 (perde/-mos/-n 3, perda/perga/-s 24, perdí/-eu/-stes/-ron 32, perdera/-n 8, perdese/-mos 3, perdía/-n 9, perdido/-udo/a/s 26), perdiçón 1, perdidoso 1, perdoar (perdoe 1, perdoade 1, perd[o]ou 1, perdoase/-n 2, perdoaría 1), perdón 1, perecer 1, perigrar 1, pernas 2, pero 103, Perses 4, Persia 3, persianos 2, Persicon 1, persona/s 4, pertẽecer (pertẽesce/-n 6, pertẽescia 3, pertẽescese/-n 2), pértega 1, vésperas 1. Valor : aparesceu 1, apartar (apartou/-aron 5, apartavan 1, apartado 1), comparar 1, departir (departo/-e 2, departían 1, departido/a/s 3), desamparar (desanparavan 1, desanparara/-n 2, desanparada/os 2), paramento 1, parar ‹cavilar› (para 1, parava 2), parte/s 92, partir 15 (parta 1, partí/-stes/-eu/-ío/-iron 25, partía/-n 5, partira/-n 4, partise/-n 3, partido/a/s 9).
A estas formas hai que sumar outro grupo significativo de casos nos que a interpretación da lineta infralinear é dubidosa entre ‹er›, ‹ar›, ‹or› e mesmo ‹re›, debido a factores de tipo (extra)lingüístico. Por unha banda, atopámonos con formas como «ap_tar» na que se verifica a metátese da líquida vibrante (apertar/apretar), advertida tamén no uso doutros procedementos abreviativos (vid. infra §3.2). Noutros vocábulos, a alternancia vocálica
Non temos en conta os casos nos que o trazo xeral de abreviación (a lineta superior) ten tamén este mesmo valor (‹er› en «terra» 6, e ‹or› en «gloria» 1). 15 Na listaxe de exemplos empregamos as seguintes convencións: regularizamos a grafía (con respecto á transcrición paleográfica previa do texto), incorporamos acentuación moderna, marcamos en cursiva a secuencia abreviada e os lemas; as cifras indican o número de ocorrencias, entre parénteses indicamos as formas rexistradas para cada lema e os vocábulos derivados, a barra oblicua distingue os morfemas verbais (número e persoa) e nominais (xénero e número), entre ‹ › indicamos ocasionalmente algún significado e incluímos as formas latinas precedidas de ‹lat.›. 14
Notas sobre braquigrafía galega medieval. Sinais abreviativos especializados.
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característica da posición pretónica (ex. «p_iso»: paraiso ou peraiso16) condiciona a descodificación do sinal abreviativo.17 A razóns extralingüísticas (especialmente de índole escriptolóxica) débense casos tan significativos como o das preposicións per e para, con 171 e 238 ocorrencias abreviadas, respectivamente, no noso texto. Desde a primeira documentación romance a meirande parte das ocorrencias destas dúas preposicións aparecen abreviadas mediante o trazo infralinear; en cambio, como formas plenas, é moito máis frecuente atopalas como por18 e para (e non como per e pera, ou mesmo pora19). Tradicionalmente considérase como abreviatura inequívoca de per; no entanto, desde o noso punto de vista, o editor debe desenvolver a forma acurtada atendendo non só ao valor asignado ao símbolo como formante silábico (284 ocorrencias; vid. supra), senón tamén ás formas por extenso da preposición presentes no texto.20 Así, no noso ms. rexistramos 1.457 ocorrencias plenas de por fronte ás 7 de per;21 no caso de para só atopamos 2 exemplos de pera fronte aos 132 de para. É lícito preguntarnos por que expandir «per» se o 99% dos casos se emprega a forma plena por e para. Por contra, débese recoñecer que é un procedemento braquigráfico en gran medida condicionado pola rutina escrituraria de raíz latina que se propagou rapidamente na escritura romance desenvolvendo un comportamento polivalente:22 ‹ar›, ‹er›, ‹or› e mesmo ‹ur› (pur na documentación máis arcaica). Por outro lado, desde o punto de vista paleográfico, cómpre sinalar que a prep. por aparece acurtada tamén con outros dous procedementos abreviativos cuxo valor máis frecuente é ‹or› e non ‹er›: o símbolo (ω), que abrevia normalmente ‹or / ur› (9 ocorrencias de «pω»), e o voado (1 «pr»). En definitiva, os mecanismos abreviativos tradicionais poden chegar a frear en gran medida a aparición de solucións gráficas espontáneas, e mesmo talvez impiden a aparición ou consolidación de novos sistemas e / ou paradigmas abreviativos.23
É forma minoritaria no medievo segundo o TMILG, no que se rexistra 5 ocorrencias (sécs. XIVXV) fronte ás 167 de paraíso. Con todo, neste, como noutros moitos casos, a consulta crítica de paradigmas abreviativos nos corpora electrónicos vese sempre condicionada á elección, moitas veces arbitraria, do editor. 17 Outros casos semellantes pertencen ao ámbito onomástico: Esperteo / Esparteo, Pertenos / Partenos, etc. 18 Lorenzo (1995: 676) advirte que por e per alternan durante toda a Idade Media (así tamén Ferreiro 1999: 365); Maure (2006: 37) considera que o uso de per «vai desaparecendo conforme adianta o século XV e vai quedando substituída pola forma plena por coa que alterna desde os primeiros documentos». Con todo, esta é unha cuestión, ao noso xuízo, difícil de certificar, xa que a maior parte das ocorrencias de per son abreviadas. 19 Esta última (pora) é unha solución característica dos textos casteláns do séc. XIII. 20 Este é o criterio seguido, con certas reservas, por Boullón / Monteagudo (2009: 84-5); cfr. Lorenzo 1988 e 2004. 21 Non se rexistran casos de asimilación entre a preposición e o artigo, tipo pel(l)o ou pol(l)lo (cfr. perlo e porlo). 22 Cfr. Millares (1983, I: 195-6). 23 Como por exemplo, no caso que nos ocupa, o signo asociado a
para abreviar por (cfr. Pichel 2007: 70-1). O mesmo acontece en compendios abreviativos como «dco» (dito), «fco» (feito), «plz / plgz» (pelaez, paez), «tlg» (talega, teega, teiga), que ben poderían estar representados, por exemplo, como «dto», «fto», «pz» ou «tg». 16
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O seguinte sinal abreviativo máis frecuente é o bucle supralinear levoxiro que, neste caso, se reparte entre os valores ‹er› (150 ocorrencias) e, en menor medida, ‹ar› (11). Ao contrario do que acontecía coa lineta infralinear, a base abreviativa asociada a (º) é bastante heteroxénea e predominan os grafemas sen hastil24, especialmente: (en 9 lemas), (8), (8), e (6); en menor medida: (3), (2), (2), (1), (1),
(1). O emprego de (º) co valor ‹er› é amplamente maioritario na última sílaba da palabra (111 casos) e especialmente produtivo na abreviación dos infinitivos: acorrer 1, aver 6, cometer 1, contradizer 2, correr 3, desfazer 3, dizer 25, fazer 48, Jupiter 3, me(ne)ster 3, mover 2, plazer / prazer 9, trager 1, ver 1, viver 3.
En posición inicial de palabra (29 casos) é moi rendíbel con base : cerca 1, certo 1, merce(d)e 13, mercadores 1, Mercurio 1, merecemento 1, Merssa 1, perdamos 1, terceiro/a 6, terminos 1, verbo 1.
En posición medial de palabra (10 casos) aparece sobre todo asociado aos morfemas (modo-temporal e vogal temática) do antepretérito e futuro do subxuntivo: acaescera 1, amercearedes 1, estevermos / -des 2, fezera 2, ouvera 1, prometera 2, touerdes 1.
Igual que acontece coa lineta mediolinear (vid. infra), atopamos algún caso de (º) no que a interpretación é dubidosa entre ‹er› e ‹ir›, debido á vacilación vocálica característica da posición pretónica; é o caso de «mºmiones» (‹mirmidóns›, mermiones ou mirmiones). Por último, o valor ‹ar› é pouco propenso a ser acurtado, fóra do habitual emprego de . Co bucle supralinear só o rexistramos en posición medial de palabra e volve ser característico en correspondencia cos morfemas do antepretérito de subxuntivo: achara 1, camara 5, contara 1, maravillavan 1, matara 1, rogara 1, tornara 1.
O terceiro símbolo abreviativo en frecuencia (55 ocorrencias) é o trazo mediolinear (/), un trazo oblicuo (recto ou ondulado) descendente de dereita a esquerda, que cruza o hastil do e, en menor medida, o corpo do alto. Asóciase exclusivamente a certas letras con hastil como o alto e o (esta última posúe o seu trazo esquerdo prolongado cara á esquerda) e case sempre aparece en posición inicial de palabra.25 Non temos exemplos no noso texto da lineta mediolinear asociada ao redondo (co trazo dereito prolongado horizontalmente), moi frecuente nos textos latinos co valor de ‹um / unt›26 (asociado ao morfema nominal de caso ou ao de número e persoa verbal; exs. «manum», «fuerunt»), aínda que tamén o podemos atopar en textos romances, co valor habitual de ‹on› (referido ao morfema verbal de número e persoa; ex. «vir/» ‹viron›). Velaí os casos rexistrados: De feito a maior parte das consoantes non empregadas con esta abrevitura (inter)silábica son todas altas (, , , , alto), exceptuando o e o de dobre curva. 25 O cal é lóxico, tendo en conta o espazo necesario á esquerda da letra cando recibe o símbolo abreviativo. Só en dous casos aparece en posición medial (enverdecer e avergonçado). 26 Tradicionalmente fálase do símbolo especial rum, cando realmente habería que falar do emprego da lineta mediolinear asociada ao redondo. 24
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+ (/): serpentes 1, serviço 3, servir 2 (servío 1, servían 2, servindo 1). + (/): verdade 12, verdadeiro/a/s 7, verde 3 (enverdecer 1), vergel 1, vergonça/vergunça 7 (avergonçado 1, vergonçosa 1), vermello/a 5, versos 1, vertidos 1.
O alto consitúe sempre a base de (/), mentres que o comparte o valor ‹er›, como xa vimos, co bucle supralinear, aínda que en moita menor medida (17 casos de fronte a 45 de ). Por outra banda, a alografía da consoante labiodental ( ou ) condiciona a elección do símbolo abreviativo, debido á súa propia morfoloxía gráfica (letra baixa ou alta): (/) é exclusivo de , mentres que (º) é propio de .27 Igual ca nos casos anteriores, existen varias ocorrencias con valor anfibolóxico de interpretación dubidosa. Trátase da forma «v/tude(s)» (5 casos) que podemos expandila como virtude ou, coa solución patrimonial, vertude. En principio, tendo en conta o exclusivo valor de ‹er› de (/) presente no noso texto, decantariámonos pola segunda opción; no entanto, atopamos 6 ocorrencias co procedemento abreviativo da sobreposición literal: «vitude/s» (5) e «vituosas» (1). Ante esta circunstancia (moi frecuente nos textos medievais) é lícito dubidar acerca de cal opción escoller, xa que o sobreposto, en principio, abrevia , ben en posición explosiva () ben implosiva (); en calquera caso, o é un elemento alfabético ineludíbel no desenvolvemento da abreviatura. Formulamos, por tanto, a seguinte cuestión: debemos expandir «v/tude» segundo a pauta abreviativa de «virtude» (isto é, «virtude»)? Cremos que non é estritamente necesario, xa que, como vimos antes para , os mecanismos de abreviación en moitos casos revelan conservadorismo braquigráfico deitado nos textos de xeito mecánico; e isto é bastante frecuente na sobreposición literal, xa que en moitos casos o expoñente, aínda sendo alfabético, non ten por que corresponder inequivocamente ao fonema representado (neste caso, podería equivaler tanto a /i/ como a /e/).28 Por último, cómpre indicar que a única atestación plena no texto co mesmo lexema que aquí tratamos é vertuoso, polo que o razoábel é expandir como ‹ver› tanto en vertude como en vertuosas. Este último é, ao meu xuízo, o factor determinante para estabelecer un desenvolvemento abreviativo axeitado; declarámolo ao final deste razoamento para salientar que moitas veces a interpretación editorial no ámbito abreviativo non debe basearse na proba documental, en aparencia, máis evidente (como pode ser, neste caso, a presenza de 6 ocorrencias con = «vir»), senón na máis sensata á vista da información (braqui)gráfica presente no texto: (a) valor exclusivo ‹er› do trazo mediolinear e (b) única ocorrencia plena con raíz «vert-».29 Nun único caso (º) ten como base (ouvera), nas restantes ocorrencias está exclusivamente vinculado a . 28 Isto mesmo pode acontecer con outras letras voadas, xa que, en moitos casos, poden encubrir o transfondo fonético real, debido a unha mecánica abreviativa conservadora cuxos límites ás veces resultan incertos. Pensemos, por exemplo, en en casos como «cinqaenta» (/tsinkwaenta?/ - / tsinkwεnta/), «qando» (/kwando/ - /kando/; cfr. Lorenzo 2004: 451), «qanto» (/kwanto/ - /kanto/), «qasa» (/kasa/), «qatro» (/kwatro/ - /katro/); ou en en formas como «arqo» (/arko/), «cinqo» (/ tsinko/; cfr. «cinq» con lineta), «qosa» (/kosa/), etc. 29 Por outra banda, a existencia nun mesmo texto de dous procedementos braquigráficos empregados para acurtar un mesmo vocábulo (como vertude / virtude), con independencia da súa polivalencia abreviativa (‹er› / ‹ir›), pode estar motivada por dúas circunstancias: por un lado, a existencia, en primeiro ou segundo grao, de varias mans (responsábeis do texto base); polo outro, o apego 27
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O trazo superior quebrado (7) ten moi pouca representatividade co valor ‹er› no noso texto, ao contrario ca no caso de ‹re› (vid. infra §3.3). Nas dúas únicas ocorrencias rexistradas («podería», «sabería») o símbolo abreviativo correspóndese con parte do morfema modotemporal do condicional e mais coa vogal temática. Por outro lado, malia termos moi poucos exemplos, as dúas consoantes base ( e ) son grafemas con hastil e, polo tanto, en ningún caso se asocian ao bucle supralinear para abreviar ‹er› (cfr. supra §3.2, n. 19). Por último, o símbolo (ω) rexistrámolo en 31 ocorrencias nas que asume o valor de ‹ur›. Neste caso, observamos como o símbolo se sitúa en posición medial de palabra (excepto no lat. detur) e a base é sempre o grafema : caentura/s 2, costura 1, detur 1, feituras 1730, natural 1, sepultura 5, ventura 3 (aventurado 1).
O valor de ‹or› só o rexistramos na prep. por ( 3) da que xa falamos anteriormente (§3.1). Por último, a palabra «pωpura» ofrece dúbidas de interpretación (púrpura ou pórpora);31 neste caso o editor debe decantarse pola primeira opción, xa que no texto só se rexistra a forma plena púrpura/s (6 ocorrencias).32 3.2. Paradigma abreviativo ‹ditongo + R› (valor ‹eir›) A secuencia ‹eir›, cuxa abreviación é moi frecuente (439 ocorrencias), é asumido exclusivamente polo bucle supralinear (º). A súa base, heteroxénea, sempre se sitúa na sílaba tónica do vocábulo: afumeiros 1, agoireiro 2, arteiro 1, balesteiros 2, barreiras 8, cantadeiras 1, carneiro 22, carpenteiros 1, carreira/s 11, caualeiro/s 153, compañeiro/s 7, deanteira 1, dereitureiro 3, diñeiro 3, escudeiro 1, guerreiros 1, ligeiro/s 3, mandadeiro/s 12, maneira/s 110, marineiro/s 5, moesteiro 1, porteiros 4, postroimeiro 14, primeiro/a/s 53, ribeira 5, senlleiro 1, tardiñeiro 1, terceiro/a 6, verdadeiro/a 6.
3.3. Paradigma abreviativo ‹R + vogal palatal› (valor ‹re›) O valor ‹re› é asumido case sistematicamente (238 ocorrencias) polo bucle supralinear (º) e, nuns poucos casos (22), polo trazo superior quebrado. En ambos os dous casos o número de consoantes base é moi reducido:
(233 casos), (25) e, ocasionalmente, (12).
inconsciente ao modelo escriturario do antígrafo. Isto último, ademais, motiva a encontro ineludíbel de diferentes solucións fonográficas características do diasistema lingüístico medieval. 30 Desta forma cómpre indicar que 5 ocorrencias (todas en rúbricas) se presentan baixo a forma . 31 Dos 20 resultados que ofrece o TMILG, 2 teñen o resultado e aparecen na Crónica Troiana galega (a. 1373). 32 Distinto sería o caso se tivésemos que expandir a mesma abreviatura na forma «pωidade», xa que no texto se rexistran 4 ocorrencias de puridade/s fronte aos 5 casos de poridade/s (no TMILG puridade 64 vs. poridade 56).
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: apregoar 1, aprender (aprendeu/-o 2, aprendía 1, aprendera 1, aprendesen 1), (a)preçar 2 ((a)preça/-e/-des 3, (a)preçaua/-n 2), preciado/a/s 29, preciosas 10, preço/precio 16, prender 2 (prenden 1, prendeu 4, prendera 2, prendesen 1), preñada/s 4, apresar (apresaron 1, apresava 1, apresado 1), (a)pressa/preso/a/s 34, comprir (cómpre 2), prestar (prestou 5, prestava 1), prestes 1, Preteramisos 1, pretos 1 ‹escuro›, sempre 57. : entre/ontre 8, maestre 1, mentre 1, tregoas 1, Tregus 1, trezentos 1. : preçada/os 2, preçaua/-n 2, preço/precio 2, preso/a 4. : gregos 12.33
Ademais dos exemplos de e sinalados na listaxe anterior, existen uns poucos casos máis nos que a interpretación do bucle supralinear é dubidosa (‹re› ou ‹er›); son os seguintes: : (a)pºceber 1 (apºcebe/-mos/-ede 3, apºceberon 2, apºcebian 1, pºcebese 1, apºcebido/a/s 13), pºcebemento 1, pºgontar/pºguntar 1 (pºgunta/-edes 2, pºguntou/-aron 1, pºguntavan 1, pºguntado 1), pºto 1 ‹próximo›. : entºgar 1 (éntrego 1 ‹entregado›).
Na maior parte dos casos mencionados posuímos exemplos por extenso no noso texto, polo que a elección dun ou doutro valor abreviativo estará en maior ou menor medida autorizada. No caso de «apºceber» rexistramos 5 ocorrencias co valor ‹re› (apreceber/-ron/ían/-esen/-idos) fronte a un único exemplo de ‹er› (aperceberon). A expansión de , por tanto, debe reflectir a forma maioritaria (‹re›); pero, ademais, se nos fixamos no único caso de ‹er› comprobamos que a súa motivación talvez estea condicionada: a forma aperceberon forma parte do incipit do fol. 20r que, á súa vez, reproduce o reclamo da páxina enfrontada (19v), escrito por outra man, onde se escribe «ap_ceberon». Observamos, por tanto, dous procedementos abreviativos (trazo infralinear e bucle superior) empregados por distintos amanuenses (un dos apuntadores de notas marxinais e o copista desa sección do texto base) que corresponden a dous valores diferentes. Un dos copistas do texto escribe «aprec-» e cando o abrevia emprega o bucle superior co valor de ‹re›, e outro amanuense, un dos que inclúe os diferentes apuntamentos marxinais, escribe probabelmente «aperc-» e abréviao mediante o trazo infralinear. A confusión xorde cando o primeiro copista debe trasladar ao texto base unha secuencia con que desenvolve, segundo o uso habitual, como , malia empregar en todos os casos a raíz «(a)pre-».34 No caso de «pºgontar» as 12 ocorrencias plenas reflicten o valor ‹re› (preguntar/pregontar);35 o mesmo acontece nas formas «entºgar, entºgo», para as que non se atopan exemplos con ‹er› (entergar/éntergo), senón unicamente con ‹re› (8 entregar).36 No caso de «pºto» non se atestan ocorrencias por extenso no texto.37 Cómpre indicar que 7 ocorrencias do total se sitúan en rúbricas. No TMILG rexístranse 56 casos de «(a)perc-» e 45 de «(a)prec-». 35 No TMILG non se rexistra ningunha atestación de «perg-» dun total de 965 ocorrencias (cfr. Sánchez-Prieto Borja 1996: 108). 36 No TMILG rexístranse 1020 casos de «entreg-» fronte a 58 ocorrencias de «enterg-». 37 No TMILG rexístranse 71 casos de preto fronte a 4 ocorrencias de perto (todas elas co significado ‹próximo›). 33 34
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3.4. Paradigma abreviativo ‹R + vogal velar› (valor ‹ro›) A secuencia abreviada ‹ro› está representada en exclusiva polo bucle ou lazo infralinear (º) e vai asociado indefectibelmente ao
(igual que acontecía co trazo infralinear): prazer (prouvo/prougo 10, prouvera 1, prouvese 2, prouver 1), lat. pro 1, proberveo/-io/s 3, proeza 2, profetizar (profetizeu 1), prol 2, promessa 2, prometer 1 (prometo/-e/-es/-n/-ades 10, prometí/-eu/ste/-ron 10, lat. promesisti 1, prometía 1, prometera 5, prometese 1, prometerían 1, prometido 4), lat. promissionis 1, promissón, Protenor 2, Proteo 2, Protesalao/Protesalón 9, provaçón 1 ‹poboamento›, provar 1 ‹poboar› (provou 1, provado/a 3), provar 2 ‹demostrar› (provarían 1, provado/a 2), provas 1, prove 1 ‹pobre› (provemento 1, proveza 1), proveito 2, provincia/s 10, provinços 1.
Nalgún destes casos (provaçón, provar ‹poboar›, prove, provemento, proveza) o símbolo (º) participa da representación dunha secuencia xurdida por metátese anticipatoria de consoante líquida vibrante, fenómeno tamén presente en formas plenas (provaçón 1, prove 1, proveza 1, provou 1).38
4. Cabo Ao longo destas páxinas presentamos unha breve análise dos sinais especializados de abreviación presentes nun corpus textual galego de finais do séc. XIV (a sección galega da Historia Troiana). Desde un enfoque crítico e partindo dunha clasificación tipolóxica de índole grafemática, quixemos aproximarnos ás particularidades escriptolingüísticas destas unidades braquigráficas, caracterizadas pola súa notábel polivalencia abreviativa. Consideramos esencial este labor crítico non só para a historia da escrita (neste caso a escrita galega medieval), senón tamén como contributo aos estudos de carácter ecdótico. A identificación e análise dos diversos paradigmas (ou secuencias gráficas) abreviados, así como a vinculación destes coas distintas unidades abreviativas, permiten acceder a unha interpretación e descodificación máis razoada por parte do editor de textos medievais.
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Miguel Ángel Pousada Cruz (Universidade de Santiago de Compostela)
«Ũa pergunta vos quero fazer». Fórmulas metaliterarias para introducir os debates galego-portugueses1
Na lírica profana galego-portuguesa, o diálogo ocupa un lugar moi relevante na configuración dos seus textos. Tal é a importancia de quen fala, que a propia Arte de Trovar do Cancioneiro da Biblioteca Nacional de Lisboa (B) define os xéneros amorosos –cantiga de amor e cantiga de amigo– en función de quen fala (primeiro), o trobador ou a amiga. Podemos atopar, deste xeito, no corpus trobadoresco profano diálogo entre personaxes dentro dunha mesma cantiga, diálogo entre os xéneros amorosos2 e diálogo entre dous autores dentro dun mesmo texto. Este último conxunto de textos é o obxecto de estudo e análise desta contribución. O presente traballo de investigación constitúe unha aproximación á análise dos mecanismos e das fórmulas empregadas polos trobadores e xograres nos xéneros dialogados (tenson e partimen) da lírica profana galego-portuguesa, co obxectivo de introducir e incentivar o debate literario co trobador ou xograr contrincante. Parece, tal e como afirma Mercedes Brea (2007-2008: 268), que La estructura dialogada tiene probablemente sus precedentes más próximos en la tradición occitana, tanto en las diversas modalidades que puede adquirir el debate entre dos o más trovadores (tenso, partimen, tornejamen, cobla) como, sobre todo, en aquellas albas en las que el gaita conversa con la dama o con su amante, en las pastorelas, en los diálogos ficticios con un ave (Peire d’Alvernha con un ruiseñor, Marcabru con un estornino...) y en otros textos y modalidades; sólo por citar a un trovador tan relacionado con los primeros textos líricos datables en gallego-portugués como es Raimbaut de Vaqueiras, se puede recordar lo que los italianos denominan su contrasto con una genovesa (que está situado también en los ‹orígenes› de la lírica italiana).3 Este traballo foi realizado polo autor co apoio dunha bolsa que se engloba no marco do Programa Nacional de Formación de Profesorado Universitario –financiado polo Ministerio de EducaciónSecretaría de Estado de Universidades e Investigación–, como colaboración científica para os proxectos de investigación El sirventés literario en la lírica románica medieval (FFI2008-05481) –financiado polo Ministerio de Ciencia e Innovación e dirixido pola Dra. Mercedes Brea– e Os xéneros dialogados na lírica galego-portuguesa (PGIDIT INCITE09 204 068 PR) –financiado pola Xunta de Galicia e dirixido pola Dra. Esther Corral Díaz–, que están levando a cabo as e os investigadores da Área de Filoloxía Románica da USC. 2 Véxase, ao respecto, o traballo de Mercedes Brea (2007-2008). 3 Describimos, deseguido, a metodoloxía empregada para levar a cabo este traballo: a) análise do corpus de tensons e partimens galego-portugueses, a través da Base de datos da Lírica Profana GalegoPortuguesa (MedDB) do Centro Ramón Piñeiro para a Investigación en Humanidades, baixo a coordinación de M. Brea; b) extracción e análise das fórmulas metaliterarias para introducir o debate; e c) redacción das conclusións. No traballo, as cantigas galego-portuguesas veñen numeradas seguindo Lírica Profana Galego-Portuguesa, a través da MedDB, consultábel no web http://www.cirp.es. 1
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1. Os xéneros dialogados na lírica galego-portuguesa: aproximación ao corpus de traballo Entre as 16914 cantigas que se conservan para a literatura trobadoresca escrita no occidente peninsular, tan só 32 composicións5, escritas por un total de 34 autores6, pertencen ao que a crítica deu en chamar xéneros dialogados (Brea 1996: 31 e Corral 2010: 99-103) e que Giuseppe Tavani recolle dentro dos «géneros menores» xunto á «cantiga de seguir» (Tavani 2002: 263-279). Esta tipoloxía de composicións constitúe un pequeno corpus textual moi homoxéneo na forma e no contido, que se caracteriza por presentar un debate entre dous autores (Brea 1996: 31 e Corral 2010: 99-100) e que se corresponde co 1,892% do total das cantigas profanas que chegaron ás nosas mans. Estas composicións dialóxicas poden adscribirse a dúas modalidades que se diferencian, como veremos, na forma de introducir a disputa – a tenson e o partimen–: mentras na tenson o primeiro trobador expón un argumento que é rebatido polo seu contrincante na seguinte estrofa, no caso do partimen é o segundo Segundo datos obtidos da MedDB. Debemos salientar que o número de composicións clasificábeis baixo a etiqueta xéneros dialogados, ou simplemente tenson, non é idéntico para todos os críticos. Todos os traballos revisados (Tavani 2002: 268-270, D’Heur 1975:168, Silva 1993: 29, Vilariño 2000: 252-253, Ghanime 2002: 61, Corral 2010: 101-103, MedDB) aceptan que no corpus profano galego-portugués tan só existen dous exemplos de partimen (64:22 e 120:9). Respecto á tenson, Tavani (2002: 269-270), Silva (1993: 12) e Vilariño (2000: 252-253), contemplan a existencia de 29 tensons de escarnho e maldizer (2:18, 2:19, 21:1, 22:2, 30:35, 54:1, 63:70, 70:28, 70:33, 75:8, 75:9, 75:10, 79:47, 79;52, 81:1. 81:8, 85:11, 88:7, 88:13, 88:14, 94:20, 97:2, 101:5, 114:26, 126:5, 135:3, 152:7, 152:12 e 154:8) e 2 tensons de amor (9:14 e 125:49); Ghanime (2002: 16) considera tamén que hai 31 composicións para esta modalidade sen facer a distinción temática dos anteriores autores; D’Heur (1975: 168) xunta ambas as dúas modalidades baixo a etiqueta tensons e recolle 32 composicións en total (os 2 partimens mencionados e todos os textos de Tavani a excepción da cantiga 129:49). Nós, que seguimos os criterios da MedDB, consideramos dentro de xéneros dialogados 32 textos, que se corresponden cos textos mencionados por Tavani a excepción da cantiga 2:19, xa que nada nela parece indicar que sexa un texto dialogado framentario. 6 Tendo presente quen toma a iniciativa á hora de comezar o debate (Silva 1993: 92-93 e Vilariño 2000: 253), nun primeiro grupo estarían 16 autores que sempre toman a iniciativa: Afons’ Eanes do Coton, Afonso Sanchez, Arnaldo (Arnaut Catalan?), Bernal de Bonaval, Estevan da Guarda, Garcia Perez, Johan Garcia de Guilhade, Johan Perez d’Aboim, Martin Moxa, Martin Soarez, Men Rodriguez Tenoiro, Pai Gomez Charinho, Pero Garcia d’Ambroa, Pero Velho de Taveirós, Vasco Gil e Vasco Perez Pardal; nun segundo grupo estarían os 9 autores que só responden á iniciativa do outro: Abril Perez, Alfonso X, Garcia Martinz, Josep, Pai Soarez de Taveirós, Pero Martinz, Picandon, Rodrigu’ Eanes Redondo e Vasco Martinz de Resende. Por último, un terceiro grupo recolle os 9 restantes autores que asumen os dous roles dialóxicos: Johan Airas, burgués de Santiago, Johan Baveca, Johan Soarez Coelho, Johan Vasquiz de Talaveira, Juião Bolseiro, Lourenço, jogral, Pedr’Amigo de Sevilha, Pero da Ponte e Pero Garcia Burgalês. Os nomes veñen citados pola forma recollida na MedDB. Non foi considerado neste reconto Roi Toso Canton (Rui Martiiz) –interlocutor de Johan Airas, burgués de Santiago en 63:70–, incluído no segundo grupo da clasificación de Silva (1993: 92-93) e Vilariño (2000: 253), xa que non se conserva ningunha intervención del, ao ser esta cantiga fragmentaria (e, neste caso, monostrófica). 4 5
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trobador quen escolle entre unha das dúas opcións que se van debatir e que son presentadas polo primeiro autor na primeira cobra da composición, que, en consecuencia, recolle a que o seu contrincante deixa libre (Corral 2010: 101-102). Non entraremos a analizar a distinción teórica entre ambas as dúas modalidades, xa que é unha cuestión que foi amplamente revisada pola crítica (Gonçalves 1993, Lorenzo 1993, Lanciani 1995, Billy 1999, Vilariño 2000, Ghanime 2002) e interpretaremos ambas as dúas modalidades baixo a etiqueta de xéneros dialogados galego-portugueses, que se caracterizan7, se temos presentes os 32 textos en conxunto e o que di a Arte de trovar en particular para as tensons (D’Heur 1975: 108-110, Tavani 1999: 43), por: a) ser cantigas dialogadas, b) entre dous autores, c) que debaten sobre dous puntos de vista opostos que xiran arredor dunha cuestión d) de temática satírico-xocosa, e) que posúen normalmente unha maior extensión, f) teñen un número de cobras par, g) son todas cantigas de meestría, h) estan estruturadas en cobras doblas, i) poden levar fiinda –cada autor ten que escribir a(s) súa(s)–, e l), segundo a preceptiva de B, poden ser de amor, amigo ou de escarnho e maldizer. Sobre este último punto, queremos salientar que a realidade que amosan os repositorios, no entanto, parece distinta: tan só catro composicións deste corpus tratan cuestións vencelladas co amor (os dous partimens –64:22 e 120:9– e as dúas xa mencionadas tensons «de amor» –9:14 e 125:49–), sendo o resto das composicións de carácter satírico; en palabras de Giuseppe Tavani (2002: 266-267): a Poética de B faz distinção entre tenções ‹d’amor ou d’amigo ou d’escarnho ou de maldizer›, segundo os três géneros principais e separando, desta vez, os textos satíricos dos claramente difamatórios […]. Se se excluírem, portanto, como parece óbvio, os textos com esta configuração [textos en que os amantes conversan por cobras enteiras sobre as súas relacións], a tradição galegoportuguesa não nos oferece senão tenções cómico-jocosas ou satíricas, com duas excepções, constituídas por composições deveras singulares, as únicas que, com algum fundamento mas também com não poucas reservas, se podem definir como tenções de amor.
Vexamos, rapidamente, unha posíbel clasificación temática8 destes 32 textos líricos: 1) Amor: 4 composicións (125:49 –tenson–, 135:3 –tenson–, 64:22 –partimen–, 120:9 –partimen–. 2) Escarnho: a) Esc. literario: 15 composicións (9:14, 22:2, 70:28, 70:33, 75:8, 75:9, 75:10, 79:47, 79:52, 85:11, 88:7, 88:13, 88:14, 97:2 e 126:5), b) Esc. persoal: 7 composicións (21:1, 30:35, 63:70, 101:5, 114:26, 152:7, 154:8), c) Esc. social: 4 composicións (2:18, 54:1, 81:8, 152:12) e d) Esc. político: 2 composicións (81:1, 94:20).9
Para ver un resumo das características, matizábeis todas elas, e coñecer en que medida estas se cumpren nas tensons galegas, véxase novamente o traballo de Ghanime (2002: 65-66), que tamén alberga unha análise pormenorizada das rúbricas dos apógrafos italianos vencelladas ás composicións destas modalidades dos xéneros dialogados (ibidem 64-65). 8 Seguimos a clasificación empregada na MedDB, baseada, á súa vez, nos textos de Tavani. Para outras clasificacións, vid. Silva (1993 : 128-156) ou Vilariño (2000 : 257-258). 9 A posición que ocupan estas cantigas dentro dos nosos manuscritos foi analizada pormenorizadamente por Silva (1993: 13-57) e, máis adiante, por Vilariño (2000: 254-256). 7
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2. A incitación ao debate literario galego-portugués Se analizamos o corpus galego-portugués que vimos de caracterizar, podemos observar toda unha serie de recursos, sobre todo léxicos, cos que os trobadores e xograres incitan o debate, animan á lide e rematan a discusión.10 En primeiro lugar, analizaremos detidamente o vocabulario e as formas léxicas empregadas polos autores para introducir a discusión, e incitar o contrincante ao debate; e, en segundo lugar, observaremos se existe algún léxico específico empregado polos propios autores neste subxénero literario galego-portugués. Como xéneros ligados á disputatio, atopámonos claramente ante verdadeiros diálogos buscados que presentan a seguinte estrutura argumental que pauta a configuración textual destas cantigas: INTRODUCIÓN RESPOSTA / CONTRAATAQUE PECHE A pesar de ter esta estrutura tan clara, debemos salientar que non sempre son empregadas fórmulas para introducir, contraatacar ou para fechar o debate. Hai textos en que simplemente o primeiro autor escolle unha «razón» e o segundo autor responde ao contrario, seguindo as regras da modalidade. Nese caso, cobran vital importancia outros recursos como o apóstrofe ao contrincante –en cada cobra– ou o emprego de preguntas sen estar introducidas polos esquemas típicos, entre os que podemos descatar: «veño aquí por te preguntar…», «quero / querería saber…», «dime…», etc. que deseguida analizamos. Son moi interesantes as consideracións de Giulia Lanciani (1995: 127), cando intenta clasificar as tensons galegas: Il tentativo di tracciare una tipologia della tenzone non può tuttavia basarsi unicamente su elementi verbali, o, meglio, nettamente formulistici. Infatti, se si prescinde dall’apostrofe onomastica che è di rigore in tutti i testi a dialogo – eventualmente sostituita, in quelle che per ora continuiamo a chiamare ‹tenzoni d’amore›, da sintagmi neutri del tipo ‹mia senhor› o ‹cavaleiro›, o nell’unica tenzone satirica che ne è priva, dal vocativo ‹Vós›, peraltro limitato alla prima strofa– nessun altro elemento formale consente di disegnare una mappa tipologica plausibile. Si dovrà quindi fare ricorso ad altri indicativi, di contenuto o tematici […].
Na súa análise dos xéneros dialogados, Vilariño Martínez clasifica as cantigas deste subxénero lírico en dous grandes grupos, en función de se o primeiro dos autores lanza unha pregunta directa ao seu contrincante ou se, polo contrario, a petición de loita vén expresada de modo indirecto. Tan só a cantiga 85:11 presenta a pregunta directa ao interlocutor (Vilariño 2000: 258). Nós, seguindo a vía aberta por Giulia Lanciani, distinguiremos dous grandes grupos de cantigas dentro dos xéneros dialogados: aquelas que veñen marcadas formalmente, Queremos deixar claro de antemán que non se pretendeu facer un estudo pragmático dos textos, senón atopar que expresións e que verbos específicos foron empregados polos autores deste tipo de composicións. Non descartamos, no entanto, unha ulterior análise pragmática dos textos.
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e aquelas outras que non o están e para as que precisamos facer fincapé no contido que expresan, como medio para poder definilas como modalidades pertencentes aos xéneros dialóxicos. No entanto, por razóns de espazo, non nos deteremos máis sobre esta cuestión; analizaremos, por tanto, neste apartado só as primeiras. Vexamos, logo, as marcas que presentan estas cantigas, as cales nos sinalan como se introduce ou incita á contenda literaria. Despois de analizar detalladamente as composicións que configuran o corpus, podemos observar que os autores empregan de modo continuado unha lista pechada de verbos para introducir ou iniciar o debate. Estas formas verbais son: dizer, saber, preguntar, fazer + OD. Vexamos os exemplos para cada caso: a) Verbo dizer: 2:18 - v. 3: E dized’ ora tant’, ai, trobador; 9:14 - v. 4: quero saber de vós que mi o digades, v. 5: dezedemio, ca ben vos estará; 63:70 - v. 4: dized’ agora vós un preit’ a mí; 70:28 - v. 5: E por tod’ esto ũa ren ti direi; 75:9 - v. 2: que vos non diga o que vej’ aqui; 79:47 - v. 2: e farei-ch’ entender por que o digo; 81:1 - v. 7: dizede mi-ora quant’-i entendedes; 120:9 - v. 7: dizede-mi se lh’ o dirá; 126:5 - v. 2: que me digades ora huna rem, v. 7: que me digades porqué lho dizedes; 152:7 - v. 3: dizede-mi quen é comendador, v. 7: Se o sabedes dizede verdade; 154:8 - v. 4: hunha cousa que vus ora direy, v. 3: que saberedes recado dizer, v. 7: Dizede: quen lhi deu end’ o poder?
Atopamos no corpus 16 exemplos que empregan este verbo para introducir o debate11. Se os analizamos con maior atención, podemos redistribuír as ocorrencias por tempos verbais: a) 9 imperativos: 2:18 (dized’), 9:14 (dezedemio), 63:70 (dized’), 81:1 (dizede) 120:9 (dizede-mi), 152:7 (dizede-mi, dizede) e 158:8 (dizede); b) 2 futuros de indicativo: 70:28 (direi) e 154:8 (direy); c) 4 presentes de subxuntivo [~ «imperativo atenuado»]: 9:14 (digades), 75:9 (diga) e 126:5 (digades, digades); d) 1 presente de indicativo: 79:47 (digo); e e) a expresión feita dizer recado: 154:8 (saberedes recado dizer). Como é obvio, o uso do imperativo é a mellor forma empregada por estes autores para introducir ou iniciar o debate co seu contrincante. No entanto, o futuro de indicativo tamén permite a Johan Garcia de Guilhade marcar formalmente a pregunta que quere lanzar a Lourenço jogral: que sabes facer mellor: tocar a cítara, cantar ou trobar? –Lourenço jograr, ás mui gran sabor de citolare; ar queres cantar; des i ar filhas-te log’ a trobar e tees-te ora ja por trobador. E por tod’ esto ũa ren ti direi: Deus mi confonda, se oj’ eu i sei destes mesteres qual fazes melhor (70:28, cobra I [a cursiva é nosa]).
Do mesmo xeito actúa Vasco Perez Pardal para incitar o debate con Pedr’ Amigo de Sevilha. Se ben, neste caso, o trobador emprega tamén a expresión feita saberedes recado dizer, é o imperativo dizede co que lanza, definitivamente, a pregunta ao contrincante. Nótese como consegue manter a intriga durante toda a cobra –que non revela até os tres últimos versos a pregunta– empregando Queremos deixar constancia de que foron excluídas da análise formas do verbo dizer que non están empregadas no texto para incitar á discusión. Actuaremos do mesmo xeito nos restantes exemplos.
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en conxunto outras marcas textuais: o apóstrofe inicial –que nos pon en alerta de que estamos ante unha composición que se dirixe a alguén–, o desexo do interlocutor por coñecer que sabe o seu contrincante sobre o tema –quero de vós saber / hunha cousa–, ou o feito mesmo de «vir a facerlle a pregunta»: Quen outorgou a María Balteira poderes para ir excomungando xente? –Pedr’ Amigo, quero de vós saber hunha cousa que vus ora direy, e venho-vus perguntar, porque sey que saberedes recado dizer, de Balteyra que vej’ aqui andar e vejo-lhi muytus escomungar. Dizede: quen lhi deu end’ o poder? (154:8, cobra I [a cursiva é nosa]).
Na cantiga 9:14, podemos observar como Afonso Sanchez emprega o presente de subxuntivo con valor imperativo, para incitar a Vasco Martiins de Resende ao debate. Como sucedía no anterior exemplo, neste caso tamén se concentran na cobra inicial máis dunha marca textual. Deste xeito, despois do apóstrofe inicial, o primeiro autor explica a traxectoria artística do seu contrincante –que deixa entrever, en parte, a temática que vai dominar a composición–; acto seguido, emprega o presente de indicativo do verbo querer para expresar claramente o seu desexo de coñecemento –quero saber de vós–; xunto a isto e no mismo verso, emprega o presente de subxuntivo con valor de orde e, no seguinte verso, a forma propiamente imperativa de dizer: expresa, por tanto, por triplicado en dous versos o seu desexo de saber para quen troba realmente o segundo autor, xa que a súa senhor xa hai tempo que morreu. Novamente a tensión mantense durante toda a cobra, que non revela até os últimos versos a pregunta coa que o primeiro trobador desexa atacar ao seu parceiro. –Vaasco Martiiz, pois vós trabalhades e trabalhastes de trobar d’amor do que agora, par Nostro Senhor, quero saber de vós que mi-o digades: dizedemio, ca ben vos estará: pois vos esta por que talhaste ja morreo, por Deus, ¿por quen trobades? (9:14, cobra I [a cursiva é nosa]).
Neste outro exemplo, cantiga 126:5, Pero Garcia d’ Ambroa exhorta a Johan Baveca a lle responder, empregando novamente a forma de presente de subxuntivo do verbo dizer, para introducir o tema do debate. Novamente atopamos máis dunha marca textual (apóstrofe, os presentes de subxuntivo do verso dizer e a expresión vir preguntar), e tamén novamente non se coñece o contido da pregunta até os versos finais da estrofa. –Johan Baveca, fe de que vós devedes que me digades ora huna rem que eu non sei e, ssegundo meu ssém tenh’eu de pram de vós o que ssabedes; e por aquesto vos vin perguntar: cantar d’amor de quen non sab’ amar que me digades porqué lho dizedes (126:5, cobra I [a cursiva é nosa]).
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b) Verbo saber: 9:14 - v. 4: quero saber de vós que mi o digades; 64:22 - v.1: Pedr’ Amigo, quer’ ora ũa ren, v. 2: saber de vós, se o saber poder; 88:14 - v. 1: Rodrigu’ Ianes, queria saber; 120:9 - v. 1: Don Garcia Martijz, saber, v. 2: queria de vos hũa ren; 152:7 - v. 7: Se o sabedes dizede verdade; 154:8 - v. 1: Pedr’ Amigo, quero de vós saber
Atopamos 7 casos no corpus. Fronte aos exemplos anteriores, a introdución do debate co verbo saber vén case sempre cinguida ao emprego desta forma verbal co verbo volitivo querer; deste modo, exprésase con maior énfase o desexo de coñecemento do autor inicial, algo que garante a resposta do seu contrincante. O corpus rexistra 5 exemplos de querer + saber: a) 3 presentes de indicativo: 9:14 (quero saber), 64:22 (quer’ ora ũa ren / saber), 154:8 (quero de vós saber); e b) 2 pretéritos imperfectos de indicativo: 88:14 (queria saber), 120:9 (saber / queria de vos hũa ren). Tamén aparecen no corpus dous exemplos de saber en oración condicional: 152:7 (se o sabedes…), en presente de indicativo, e 64:22 (se o saber poder), acompañado do verbo poder, en futuro de subxuntivo. Podemos afirmar que esta é a marca textual presente nestas modalidades de textos que mellor expresa o sentimento de volición do autor que abre o debate. Non resulta estraño, por tanto, que os autores galego-portugueses usaran como clixés as formas verbais querer/ poder + saber para expresar dun modo máis diáfano o mencionado sentimento –o desexo de coñecemento–. No partimen 64:22, Johan Baveca exhorta a Pedr’ Amigo de Sevilla a que escolla entre as dúas opcións que propón. Emprega, xunto ao apóstrofe inicial, a forma querer + saber en presente de indicativo, coa que non só expresa o desexo de coñecer que opina o seu contrincante sobre este asusto, senón tamén insta ao interlocutor a lle responder. Neste caso, esta intención vén ampliada polo emprego da forma poder + saber en futuro de subxuntivo en oración condicional. Nótese novamente o uso da pregunta no último verso da cobra. –Pedr’ Amigo, quer’ ora ũa ren saber de vós, se o saber poder: do rafeç’ ome que vai ben querer mui boa dona, de que nunca ben atende ja, e o bõo, que quer outrossi ben mui rafece molher, pero que lh’ esta queira fazer ben, ¿qual destes ambos é de peor sén? (64:22, cobra I [a cursiva é nosa]).
Se analizamos o outro partimen, a cantiga 120:9, podemos observar un Pero da Ponte que incita a Garcia Martijz a participar na contenda literaria. Neste caso, o autor deixa en mans do contrincante a escolla dunha das salidas ao bivium que trae a colación: quen ama en silencio para non molestar á súa senhor ten que darse a coñecer ou que outra cousa ten que facer? Podemos observar o emprego de querer + saber en pretérito imperfecto de indicativo con valor de condicional. Outra vez atopamos o emprego de máis marcas textuais (apóstrofe, imperativo, etc.).
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–Don Garcia Martijz, saber queria de vos hũa ren: de quen dona quer mui gran ben e lhi ren non ousa dizer con medo que lhi pesará, –e nono posso mays sofrer–, dizede-mi se lh’ o dirá, ou que mandades hy fazer (120:9, cobra I [a cursiva é nosa]).
Na cantiga 152:7, Vasco Gil exhorta a Pero Martiiz a que lle responda a verdade do que lle solicita, no caso de saber sobre ela, empregando como molde expresivo unha oración condicional no último verso da estrofa. Nótese novamente o uso de distintas marcas textuais a un mesmo tempo. –Pero Martiiz, ora, por caridade, vós que vos teedes por sabedor, dizede-mi quen é comendador eno espital, ora, da escassidade, ou na fraqueza, ou quen no forniz, ou quen en quanto mal se faz e diz. Se o sabedes dizede verdade (152:7, cobra I [a cursiva é nosa]).
c) Verbo preguntar: A terceira forma verbal empregada é preguntar; só atopamos catro exemplos no corpus. Agás para a cantiga 81:1, no resto das ocorrencias aparece acompañada polo verbo vir, que marca deíctamente o espazo da contenda entre ambos os dous trobadores. 30:35 - v. 1: Vós, Don Josep, venho eu preguntar; 81:1 - v. 3: eno que vus ora preguntarei; 126:5 - v. 5: e por aquesto vos vin preguntar; 152:12 - v. 2: desto vos venho aqui perguntar
Deste xeito, o corpus recolle a forma verbal vir + preguntar en presente –30:35 (venho eu preguntar) e 152:12 (vos venho aqui preguntar)– e en pretérito perfecto de indicativo –126:5 (vos vin preguntar)–. Sen vir, aparece só en futuro –81:1 (vus ora preguntarei)–. Na cantiga 81:1, Johan Vasquiz de Talaveira incita a Pedr’ Amigo de Sevilha a facer unha tenson sobre a candidatura de Alfonso X ao título de Rex Romanorum. Outra vez podemos observar o emprego de varias marcas textuais. Nótese o uso da expresión no recado que mi tornaredes que augura a continuación do debate e a resposta do interlocutor. Ay Pedr’ Amigo, vós que vos tẽedes por trobador, agora o verei eno que vus ora preguntarei e no recado que mi tornaredes. Nos que avemos mui bon rei por senhor se no’-lo alhur fazeren emperador, dizede mi-ora quant’-i entendedes (81:1, cobra I [a cursiva é nosa]).
Na tenson 152:12, Vasco Gil incita ao debate ao rei Alfonso X sobre cuestións derivadas da vestimenta do momento –neste caso, sobre o manto–.
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–Rei Don Alfonso, se Deus vos pardon, desto vos venho aqui preguntar; sequer ora punhade de mi dar tal recado, que seja con razon: Quen dá seu manto, que lho guard’ alguen, e lho non dá tal qual o deu, poren, que manda end’ o Livro de Leon? (152:12, cobra I [a cursiva é nosa]).
d) Verbo fazer + OD: O verbo fazer aparece empregado no corpus para introducir o debate literario en catro ocasións, sempre acompañado por un obxecto directo relacionado co debate ou coa interrogación (ora verbo –fazer entender–, ora substantivo –fazer ũa (en)tençon, fazer entenções, fazer ũa pregunta–. 79:47 - v. 2: e farei-ch’ entender por que o digo, v. 5: e tu dizes que entenções faes; 101,5 - v.1: Juïao, quero contigo fazer, v.2: se tu quiseres, ũa entençom, v. 6: mui mao; e creo que assi faz, v. 7: boa entençom quen’ a quer fazer; 54:1 - v. 1: Ũa pregunt’ ar quer’ a el Rei fazer; 114:26 - v. 1: Ũa pregunta vos quero fazer, v. 2: senhor, que mi devedes afazer
Deste xeito, na cantiga 79:47 aparece recollido en futuro de indicativo xunto ao verbo entender. Isto permite a Johan Soarez Coelho explicar ao seu contrincante (Lourenço, jogral) a máxima coa que comeza a cantiga que serve como apertura ao debate: –Quen ama Deus, Lourenç’, ama verdade, e farei-ch’ entender por que o digo: ome que entençon furt’ a seu amigo semelha ramo de deslealdade; e tu dizes que entenções faes, que, pois non riman e son desiguaes, sei m’ eu que x’ as faz Joan de Guilhade (79:47, cobra I [a cursiva é nosa]).
Nas outras cinco ocorrencias aparece acompañado de ũa entençon (1 caso), boa entençom (1 caso), entenções (1 caso) e de ũa pregunta (2 casos). Debe salientarse que, nestas ocasións, aparecen acompañadas pola forma verbal querer. Na cantiga 54:1, Garcia Perez reta ao rei Alfonso X a un debate literario sobre a vestimenta da época –neste caso, as plumas–. Contrariamente ao resto dos exemplos vistos até agora, neste caso, só aparece a marca no verso de incipit, polo que os restantes versos recollen as gabanzas ao monarca e outros cortesáns e o feito que xenera o debate: o rei leva unha pluma vella sobre un bo pano. Ũa pregunt’ ar quer’ a el Rei fazer que se sol ben e aposto vistir: por que foi el pena veira trager velh’ an bon pan’; e queremos riir eu e Gonçalo Martiiz, que é ome muit’ aposto, per bõa fe, e ar quere-lo-emos en cousir (54:1, cobra I [a cursiva é nosa]).
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Na cantiga 114:26, Pai Gomez Charinho incita ao debate novamente ao rei Alfonso X. Nótese como, desta vez, xunto á marca textual inicial (Ũa pregunta vos quero fazer) podemos apreciar o apóstrofe senhor e o emprego do verbo afazer, co significado de ‹satisfacer por meio de respostas› (ddgm, s.v. «afazer»), que nos sitúan como lectores nun horizonte de espectativas, co que sabemos que nos atopamos ante un texto pertencente ao xénero dialóxico que espera a resposta do contrincante, neste caso o rei Alfonso X. Ũa pregunta vos quero fazer senhor, que mi devedes afazer: por que veeste jantares comer que ome nunca de vosso logar comeu? Esto que pode seer ca vej’ ende os erdeiros queixar? (114:26, cobra I [a cursiva é nosa]).
3. A modo de conclusión Se comparamos as 32 composicións galego-portuguesas que podemos clasificar baixo a etiqueta de «xéneros dialogados» con aquelas outras provenzais, chama a atención principalmente o escaso número de textos que conservamos no Occidente peninsular para este subxénero trobadoresco. Os xéneros dialogados de alén dos Pirineos contemplan máis textos e posúen, ademais, máis modalidades compositivas (Riquer 1975: 65-70; Ricketts 2001; BEdT e TrobVers). Outro factor diferencial debe ser salientado: a situación nos cancioneiros. É moi importante, desde o punto de vista da tradición manuscrita e da crítica textual, o feito de non existiren nos cancioneiros galego-portugueses seccións específicas que contañan todos os textos deste xénero, tal e como sucede a miúdo nos cancioneiros occitanos (Gonçalves 1991). Por outro lado, se temos presente a listaxe de autores galegos, podemos concluír que salvo aqueles pertencentes aos períodos denominados por Oliveira (2001: 175-180) como «A implantação no Occidente peninsular (1220-1240)» –Abril Perez, Bernal de Bonaval, Pai Soarez de Taveirós e Pero Velho de Taveirós– e «O refúgio português (1300-1350)» –Afonso Sanchez, Estevan da Guarda, D. Josep e Vasco Martinz de Resende–, os restantes autores, que pertencen ao período coñecido como «A expansão para Castela»– Afons’ Eanes de Coton, Alfonso X, Arnaldo (Arnaut Catalan?), Garcia Martinz, Garcia Perez, Johan Airas, burgués de Santiago, Johan Baveca, Johan Garcia de Guilhade, Johan Perez d’ Aboim, Johan Soarez Coelho, Johan Vasquiz de Talaveira, Juiao Bolseiro, Lourenço, jogral, Martin Moxa, Martin Soarez, Men Rodriguez Tenoiro Pai Gomez Charinho, Pedr’ Amigo de Sevilha, Pero da Ponte, Pero Garcia d’ Ambroa, Pero Garcia Burgalés, Pero Martinz, Picandon, Rodrigu’ Eanes Redondo, Vasco Gil e Vasco Perez Pardal–, foron hospedados na corte do rei Alfonso X. Esta pode ser, segundo Tavani (2002: 270-271), a razón pola que estas composicións presentan unha gran homoxeneidade temática. A presenza destes textos no corpus galego-portugués permite, asimesmo, certificar e situar no espazo e no tempo a individuos que, doutro xeito, coas lacónicas referencias vitais dalgún deles, non poderiamos xustificar (Tavani 2002: 264). Nótese tamén que o debate bilingüe
«Ũa pergunta vos quero fazer». Fórmulas metaliterarias para introducir os debates galego-portugueses
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entre Alfonso X e Arnaldo non fai máis que salientar a idea de que as literaturas románicas medievais non son compartimentos estancos, senón experiencias literarias permeábeis. Como vimos na análise do epígrafe segundo, a estrutura argumental (introdución–resposta / contraataque–peche) destas cantigas limita a liberdade dos interlocutores contrincantes á hora de configurar o texto. No entanto, esta restrición é, á súa vez, a que caracteriza as cantigas inseridas dentro destes subxéneros líricos. Non é de estrañar, por tanto, a presenza dos clixés que xa vimos, dos tempos verbais restrinxidos e de toda unha serie de marcas diferentes ás aquí expostas –apóstrofes, preguntas…–. Todos estes recursos, empregados, dentro da cantiga, máis ou menos nun mesmo espazo e tempo, fan que cada texto sexa único dentro desa homoxeneidade temática. Por razóns de espazo, non podemos introducir neste traballo a cata superficial que desexaríamos facer nos xéneros dialogados provenzais para contrastar a información. Serva, no entanto, este exemplo como proba de que tamén na lírica de alén dos Pirineos, para as modalidades textuais destes subxéneros líricos, se incitaba ao debate dunha maneira moi parecida á que presentan os textos creados no Occidente peninsular (BDT 97,7 ~ 364,32, cobra I – Peire Vidal || Blacatz [a cursiva é nosa]): Peire Vidal, pos far m’ave tenso, no·us sia greu, si·us deman per cabal per cal razo avetz sen tan venal en mains afars que no·us tornon a pro, et en trobar avetz saber e sen; e qui ja veils en aital loc aten et en joven n’es atressi passatz, meins a de be que sia ja no fos natz.
4. Referencias bibliográficas Base de datos da Lírica Profana Galego-Portuguesa (MedDB), v.2.3, Centro Ramón Piñeiro para a Investigación en Humanidades, http://www.cirp.es/ (2010 12 15). Bibliografia elettronica dei trovatori (BEdT), v.2.0, Università degli Studi di Roma - La Sapienza, http://w3.uniroma1.it/bedt/BEdT_03_20/inf_home_base_dati.aspx (2010 12 15). Billy, Dominique (1999): Pour une réhabilitation de la terminologie des troubadours: tenson, partimen et expressions synonymes. In: Pedroni, Matteo / Stäuble, Antonio (edd.): Il genere «tenzone» nelle letterature romanze delle Origini. Ravenna: Longo Editore, 237-313. Brea, Mercedes (coord.) (1996): Lírica profana galego-portuguesa. Corpus completo das cantigas medievais, con estudio biográfico, análise retórica e bibliografía específica (2 voll.). Santiago de Compostela: Centro de Investigacións Lingüísticas e Literarias Ramón Piñeiro / Xunta de Galicia. –– (2007-2008): El diálogo entre los dos géneros amorosos de la lírica gallego-portuguesa. In: Estudios Románicos 16-17, 267-283. Corral Díaz, Esther (2010): Guía para o estudo da lírica profana galego-portuguesa. Santiago de Compostela: Centro Ramón Piñeiro para a Investigación en Humanidades / Xunta de Galicia. D’Heur, Jean-Marie (1975): Recherches internes sur la lyrique amoureuse des troubadours galiciens- portugais (XIIe-XIVe siècles). Contribution à l’Ètude du Corpus des troubadours. S. l.
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Orientacions diferents en les traduccions medievals, a l’occità i al català, de la Vita sancti Honorati
1. Els textos en què ens ha arribat la vida medieval Aquesta hagiografia es va escriure d’entrada en llatí. Perdut el text llatí original, hi hagué debat al segle XIX sobre si el text primer era l’occità de Feraud o la versió llatina llavors coneguda –una edició impresa a París de principis del XVI–. Però, trobats dos manuscrits llatins –Stengel (1878) i Meyer (1879)–, aclariren definitivament aquest aspecte. 1.1. El text llatí La Vita sancti Honorati es va escriure entre finals del segle XII i 1300 (Munke 1911: 31; Bédier 1907: 1, 406); per lògica, el moment degué ser pròxim a la fi del segle XIII (Labrousse et al. 2005: 231). Del text llatí es conserven uns quants manuscrits medievals en base als quals Munke féu una edició crítica (Munke 1911) que serà la referència en aquest estudi. 1.2. El text occità Raymond Feraud féu del text llatí una versió en vers occità que acabà l’any 1300. El text de Feraud tingué èxit considerable i se’n conserven nou manuscrits. D’aquest text s’han fet des de 1871 tres edicions impreses: una primera de A.-L. Sardou (1871); una segona d’Ingegärd Suwe (1943) dels dos primers llibres; una tercera de Peter Ricketts (2007) arrodoneix el treball de Suwe. Aquesta darrera és la que faig servir en el meu treball. 1.3. El text català La traducció al català s’ha de situar cronològicament pocs anys després de la versió en occità. Els textos conservats són: el manuscrit 154 dels Fons Espanyols de la BN (França) que Morel-Fatio (1892) situa al segle XV i dos paleògrafs valencians, Xavier Serra i Francisco Gimeno, entre 1320 i 1340; dos exemplars de l’edició impresa a València en 1495; un
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exemplar de la segona edició impresa a València l’any 1513 i altre d’una tercera edició feta l’any 1590 a Perpinyà, ambdós a la Biblioteca de Catalunya; a més d’aquests quatre textos, s’ha de tenir en compte la versió reduïda inclosa en el Flos Sanctorum o Llegenda Àuria del manuscrit 174 de l’Arxiu Episcopal de Vic (Rebull 1970).
2. El text llatí. El qui, el com i el perquè La Vita sancti Honorati és un text llatí escrit a Lerins o per algú molt vinculat al monestir de Sant Honorat. Els responsables del monestir feren una versió, al gust de l’època, per a incentivar el pelegrinatge dels veïns de la Provença i territoris pròxims, en un moment de crisi de la religiositat monacal i de la seua influència social front a l’auge dels ordes mendicants (Labrousse et al. 2005: 231-235). 2.1. Quines pautes seguia o guiaven el treball de l’escriptor medieval de Vides de Sants? L’autor de la Vida de Sever de Ravenna (AASS, febrer, volum 1r: 79-91) deia que el treball de l’hagiògraf consistia en saber usar els dossiers hagiogràfics separant el vertader del fals, en fer servir fonts paral·leles per emplaçar el sant en un context d’història general, i en introduir, si calia, digressions geogràfiques per a descriure la pàtria vertadera o fantasiosa del sant (Dolbeau 1992: 49-53). En aquest context afirma Hucbald de Sant-Amand, un hagiògraf del segle X, que si el responsable d’escriure una vida no troba dades concretes, està obligat a establir una data arbitrària i a fabricar una història versemblant en base a altres vides de sants suposadament contemporànies; i, quan la matèria manca per defecte, no fa cap cosa contrària a la fe catòlica, si diu alguna cosa en lloança del sant. L’hagiògraf havia de ser competent en una tècnica essencial: la paràfrasi. La ‹veritat› és el més important, però és també important treballar els mots, dilatar-los en àmplies divagacions encantadores partint d’una quantitat mínima de fets o dades documentades (Dolbeau 1992: 62). L’estudiós dels textos hagiogràfics ha de ser conscient que la matèria de què es composen es reparteix entre fets específics i motius parenètics. Els fets específics són el resultat de l’activitat de l’historiador i les parènesis connecten més amb l’activitat del predicador. (Dolbeau 1992: 56). 2.2. La Vita sancti Honorati com a ‹versió medieval› hagiogràfica del fundador de Lerins L’hagiografia monàstica té uns trets específics: el sant és un monjo la vida del qual transcorre en un monestir determinat que serà considerat espai privilegiat i elegit per voluntat de Déu. El monjo acomplirà les virtuts monàstiques de forma heroica i Déu, en compensació, farà veure la seua potència miraculosa servint-se de l’acció del sant. El sant tindrà, antre altres, un gran domini de la naturalesa que es mostrarà en les seues relacions amb els animals i amb els fenòmens naturals (pluges, turmentes etc.).
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2.2.1. Les fonts bàsiques El redactar de la Vita comptava, amb la documentació del monestir i amb la tradició parenètica. Entre la documentació específica, els textos patrístics amb poca però substanciosa informació de la vida del sant; la biblioteca hagiogràfica produïda al monestir mateix referida als grans personatges històrics de la comunitat de Lerins; i la documentació del dia a dia del monestir (cartularis etc.). I entre els materials parenètics, els promptuaris bíblics, les Vitae Patrum, altres vides de sants, els exemplaris etc. Però tota aquesta ajuda de fets específics i de tradició parenètica no explicaria el text resultant. L’autor d’aquesta obra actuà amb una llibertat que supera aquest marc de joc seguint una tradició de textos llatins elaborats ex professo per a ser ‹versionats› en romanç. 2.2.2. La utilització hagiogràfica de motius o tòpics històrics La Vita sancti Honorati introdueix una sèrie de ‹motius històrics› similar a la que veiem aparéixer en Vides de Sants Rosselloneses, és a dir, en el Flos Sanctorum.1 Apareixen motius coincidents amb altres de la Crònica de Turpí referits a Carlemany; en són mostra, el somni d’Honorat en què sant Jaume li exigeix una actuació, un detall de la visita posterior a Toledo per alliberar Carlemany on es subratlla que Honorat parla l’àrab aprés de la seua mare; o la caiguda dels murs de Narbona assetjada per Carlemany. 2.2.3. Els motius literaris relacionats amb les llegendes èpiques A Honorat se’l relaciona amb Carlemany, amb un noble de la mateixa saga de nom ‹Uezianus› i amb l’arquebisbe Turpinus. Honorat allibera Carlemany de les presons del rei sarraí, Uezianus, l’heroi dels Aliscamps, es converteix en amic inseparable d’Honorat i Honorat rep els agraïments i les corresponents donacions de Carlemany per mig de Turpinus. L’antroponímia llatina de la Vita recorda personatges que apareixen en altres textos llatins, en cançons de gesta i en poesia trobadoresca. Aquestes referències descurades evidencien el propòsit de situar els relats en el context de l’imaginari literari (món cavalleresc de fidelitats i infidelitats, intrigues, enamoraments, guerres privades i justícia privada).
3. El text occità de Feraud i el text llatí Les relacions entre el text llatí i l’occità foren estudiades per Paul Meyer (1879), i per Munke, Schäfer i Krettek en els treballs que acompanyen l’edició crítica del text llatí (Munke 1911). Meyer sosté que tota la llibertat de Feraud en el seu treball fou intercalar alguns noms propis de l’epopeia carolíngia o alguna referència geogràfica per a mostrar la seua erudició i, en aquest camp, també alguna confusió (Hongria per Cumània). Adolf Krettek Els motius referits a la figura de Carlemany que apareixen a l’obra de Tubach (1969: 76-77) ajuden a entendre el que féu el redactor de la Vita sancti Honorati: senzillament recorregué als exemplaris i se n’aprofità.
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(1911) identifica els topònims d’ambdós textos i mostra que és significativament superior la quantitat de topònims del text occità però que en tots dos casos els topònims que fan referència a l’entorn de Lerins són identificables i no purament literaris. Recentment, Busby (1997) estudià les relacions entre ambdós textos afirmant que la distància entre la Vita i la Vida és més que el que pot representar un acoloriment superficial amb trets extrahagiogràfics i subratllant que el treball de Feraud no és el d’un simple traductor sinó que dóna com a resultat un text en què conflueixen l’èpica, la lírica i el romanç. 3.1. Les relacions entre el text llatí Vita sancti Honorati i el text occità de Feraud El text llatí i l’occità conformaven un projecte –un projecte genèric d’aquells d’anar fent? o un únic projecte distribuït en dues fases?– (Bédier, volum 1r, 1907: 406-416). Feraud arrodoneix el text llatí domesticant-lo. El seu és el producte final d’un procés que explota les potencialitats del text llatí i equilibra els propòsits religiosos (sant Honorat fa molts miracles, compensa saber-nos protegits pel monestir, feu-vos devots!) potenciant els motius literaris o estètics pensats per als destinataris de la Provença, homes i sobretot dones. 3.1.1. Una condició determinant: l’obra de Feraud és un text en vers L’obra de Feraud està formada per 9725 versos (Ricketts / Hershon 2007). És, per tant, el resultat de sotmetre el text llatí a un canvi de llengua i a condicions preestablertes de ritmes (accent i mètrica) i de rima. El que resulta: dos models d’escriptura que es regeixen per paràmetres retòrics diferenciats. 3.1.2. Escriu ben conscient de qui són els destinataris i les destinatàries del seu text Els destinataris finals del text, per lògica, han de ser cavallers, ciutadans i menestrals, i, molt especialment, les dones. I el treball de Feraud pretén convertir el text llatí en immediatament accessible a aquests nous destinataris. ‹Romanzar› és alguna cosa més que escriure en vers. Pressuposa uns destinataris que escolten i dels quals s’ha d’aconseguir l’atenció –que es senten interessats, encuriosits, commoguts, afalagats, agraïts i accepten com a propis els privilegis de Lerins–. S’esforça per incentivar l’atenció marcant els canvis d’escena amb apel·lacions al moment ‹ara› (192 Ara laysa le reys...; 201 Ara creys e meyllura...; 240 Ar moron Crestian...; 407 Ar fom alegres e jausentz...; 497 Ar ac mortal dolor...; 871 Ara s’e[n] van li sant...); o directament reclama l’atenció subratllant el gran valor de la seua història (v 3813) «Ar escoutats, senyors, las meravyllas grantz!» (Ricketts / Hershon 2007: 387). El mateix propòsit persegueix el pas de la forma d’expressió indirecta a la directa, o el recurs a les formes interrogatives, o l’anunci publicitari dels capítols que seguiran «el libre c’ausires, cant l’auray romanzat» (v 4125) (Ricketts / Hershon 2007: 405). Quan Feraud trobava en el llatí referències literàries fantasioses –i sabia molt bé quines eren– les ampliava, se n’aprofitava. Així afegeix personatges fantàstics o indrets reals però que funcionen com a reclams d’espais ja construïts literàriament (vv. 111, 126, 129, 130, 131, 132, 134, 153, 154, 177, 178, 188, 531, 587, 588, 589, 593, 976, 1125, 1126, 1127). Per a concretar-ho en un cas que pot ser considerat exemplar, front al text llatí «obsidebat eo
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tempore urbem Narbonensem persistens de uictoria obtinenda desperatu» (Munke 62: 4041), en què intervenen sant Magonci i Turpí, Feraud amplifica l’escenari èpic construint un decorat de gran campanya bèl·lica (vv. 2250-2261). El temps que Karlle Maynes assejava Narbona / on ac manz cavalliers, manta nobla persona, / manz reys e manz persantz, mantz comptes, manz barons / Estouz, le coms de Londres e le comptes Odons, / Guandalbueys, reys de Frisa, Arestanz de Bretayna, / e Raynautz de Bellanda, Naamantz d’Alamayna / am motz combatedos valentz c’avian am ley, / cant s’ajostan las ostz, viras menar desrey. / L’emperayres asseja la ciptat cascun dia; / guanrren y a estat, penrre non la podia. / Li payan son dedintz que si defendon fort; / si·ls prenon Crestian, paor an de la mort. (Ricketts / Hershon 2007: 289-291.
Feraud, cosa que no fa el text llatí, treballa la coherència entre les parts fent memòria de motius apareguts prèviament; és a dir, s’esforça així per mantenir la versemblança. Treballa la identificació dels oients explotant el potencial sentimental i afectiu del text llatí. Una forma repetida és el monòleg on un protagonista verbalitza la seua angoixa, el seu temor, la seua ràbia o expressant agraïment. D’aquests monòlegs, en trobem molts (vv. 15441560; 1977-1985; 2034-2063; 2021-2028; 2197-2213). Embelleix els escenaris dels relats amb referències que puguen interessar els seus destinataris, fent servir els recursos retòrics habituals per subratllar un escenari plaent o un succés tràgic. En posaré un cas; quan el llatí diu: Cum igitur placuit Conditori hunc purum puerum aduocare, induxit eum cum suis sodalibus progredi ad uenandum. Qui cum siluam feris comodam perlustrassent, uenatores ceruumcum canibus insultantes fugientem rabide subsequuntur, quem Andronichus uelocius sequebatur. Fatigatis attamen socijs a discursu ceruum Andronichus sequitur animose. Cumque ceruus fugiendo uelociter se diuerteret per semitam latebrosam, eum Andronichus estimans inter asperam congeriem carceratum, ex equo descendens protinus euaginato gladio ceruum per semitam sequebatur. Cumque paululum per semitam processisset, prospexit eminus in ipsius horrende uastitatis solitudine quamdam criptam, a qua proueniebant ei obuiam tres uiri candidi sicut lana. (Munke 42: 23-32)
Feraud ho decora per a produir admiració introduint-hi concrecions com la de l’origen i el preu del cavall de l’heroi: De may que·l temps es clars e gays / e l’ausellet refrayn son lays / e las valz blanquejan de flors / et a nn’i de mantas colors, / Andronicx, fyl del rey d’Ongria, / cavalca am sa gran compaynia / e vay cazar en la foresta, / c’aysi o trobam en la gesta. / Mena valletz e mantz gu[a]rzons / e ganren lebriers e bracons. / Dinz una vall cost’un gran sueyll / sauta un cervs de dinz un brueyll. / Apres van li meyllor vassayll, / mays le cervs entra totz trassayll. / Li valz tentys da totas partz; / qui li gieta pilotz [qui] dartz; / cascus pena de la conquesta / e qui non pot annar si resta. / Mays Andronicx, le fyl del rey, / apres la bestia fay desrey; / vay s’en e laysa sa compayna, / car le fins cavaltz d’Alamayna / l’en porta a granz sautz et a llarcs, / que costet plus de .xxx. marcs. / Sons payres, Andriocs d’Ongria, / lo tolc a Budac de Turquia. / Batent s’en vay apres la caza / et al cerv dins son cor menaza; / que si·l pot penre ni tenir, / son espieu li fara sentir. / Lo servs s’en vay per miay la landa / per una mot estecha banda / tro que d’una balma fom pres. / Lo servs s’en vay et el apres. / Mays tant fom espessa li valtz / non pot plus annar le cavaltz; / per que deysent del arabi. / Pueys vi lay venir denant si / tres homes am mot fer vejayre, / -lur vestimenta no val gayre- / paupres e blos, repatinatz. (Ricketts / Hershon 2007: 165-167).
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3.1.3. Diferències entre el text llatí i l’occità quant al contingut i en l’ordenació dels relats Feraud afegí llargues introduccions, però no relats complets. Amb dues excepcions. Si ens situem en Munke 90,7, Feraud fa aparéixer, al llarg de 89 versos (vv. 4128 - 4217), un pròleg al seu tercer llibre (LXII) i una relació dels sants d’Abadia de Lerins (LXIII), pròleg i relació que no apareixen en cap dels textos llatins medievals conservats. El fet, però, que la relació dels sants de Lerins aparega també en el lloc corresponent en la traducció catalana (i la traducció catalana és sens dubte traducció d’un text llatí) duu a pensar que no és aportació atribuïble a Feraud. Altre cas distint és l’entrada CXX (vv. 8694-9763) de la qual explícitament informa, fent-se’n responsable, que no forma part del text llatí. (Ricketts / Hershon 2007: 657-661). Quant a l’ordre, si prenem com a referència de comparació l’ordre del text llatí en l’edició de Munke –que segueix també la traducció al català– Feraud el conservà fins Munke 62,34. A partir d’aquest punt apareixen una sèrie de canvis menors en relats contigus. Més endavant, Feraud salta de Munke 74,35 a Munke 86,10 i, a partir d’aquest punt, segueix el text llatí fins a Munke 90,7, moment en què afegí les dues entrades comentades en el paràgraf anterior (Ricketts / Hershon 2007: 407-411). Desconeixem les raons dels canvis de Feraud. Una explicació hipotètica: potser la seua referència era un manuscrit llatí desordenat. En qualsevol cas: el resultat evidencia que actuà amb llibertat en la seua selecció del que considerava unitats de relat. 3.1.4. Feraud té consciència d’autor i anota els esforços i les dificultats de l’encàrrec El text llatí no dóna notícia del seu autor. Feraud, però, s’expressa sovint al llarg de l’obra en primera persona i ens parla de si mateix. Fa servir el pòrtic a manera de noticia biobibliogràfica on ens informa de les obres que ha escrit abans d’aquesta de sant Honorat (vv. 1-10). Aquesta introducció explica la raó per la qual l’abat del monestir de Lerins ha pensat en ell per a romançar el text llatí (vv. 53-55): «Del onrat payre en Crist, / monsen Guancelm, l’abat / agut en ay mandat» (Ricketts / Hershon 2007: 149). S’excusa retòricament front a qui el puga reprendre pel registre de provençal que fa servir (v 86-92): «E si deguns m’asauta / mon romanz ni monts ditz, / car non los ay escritz / en lo dreg proenzal / non m’o tengan a mal, / car ma lenga non es / del dreg proenzales» (Ricketts / Hershon 2007: 151-153). Ja passada la meitat de l’obra, subratlla les dificultats del seu treball perquè, diu, el llatí no és sempre suficient (vv. 5514-5515) «car l’estoria es greus / e le latins es breus» i declara que allò que escriu no ho trau del seu propi saber sinó que ha rebut molta ajuda de qui ell sap (vv. 5528 5533): «E que ayso vers sia / sap li verges Maria, / qu’ieu non o ay tot fag / ni de mon saber trag: / agut ay gran ajuda / e say don m’es venguda». (Ricketts / Hershon 2007: 483-485). En la part final de l’obra, com a comiat, es mostra content una vegada més d’haver estat elegit per a fer-se càrrec com a trobador d’aquesta gesta (vv. 9670-9685). Al verays Dieus de majestat / et al baron sant Honorat / que m’a volgut far tant d’onor / elegut m’a per trobador / en la sieua glorioza jesta / per tal que miels sia manifesta / a las donnas et als barons, / prec de bon cor a gignollons / que lays venir a bona fi / totz cels que pregaran per mi / ni que pueys la traslataran / ad honor de Dieu e del san, / que ay la vida romansat / per mandament del bon abat / mocen Gauselm, que veramentz / a fag far la fin e·l comentz. (Ricketts / Hershon 2007: 709-711).
i ens fa saber detalls concrets de la seua vida –nom, residència, procedència, formació– i manifesta una vegada més el desig que ningú no malmeta el seu treball (vv. 9686-9699).
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Mas qui lo nom vol entervar / de cel qui la volc romansar / e·ls miracles compli, Dieu laut, / hom l’appella Raymon Feraut: / a Roca tenc sa mayzon, / priols en la val d’Estaron / e de l’Oliva pres d’aqui, / so sabien ben tut siey vezi. / Frayres fom humils et enclins / sant monestier de Llerins, / per que prec per l’omnipotent / que per enveja nulla jent / non mi corrompa mos bels ditz, / c’am tant gran trebayll ay escritz. (Ricketts / Hershon 2007: 711).
3.1.5. La ‹molta ajuda› rebuda per Feraud per a fer les seues ampliacions Situem-nos en el punt de partida. Feraud, per manament de l’abat de Lerins, havia de ‹romanzar› la Vita sancti Honorati. El text llatí era la seua referència bàsica. Però adequar el text als nous destinataris suposava pensar-lo de nou tenint-los en compte i fer-ho des de les condicions retòriques del romanç com a nou format. Feraud, com a membre de la comunitat monàstica lerinenca, compartia cultura religiosa amb l’autor del text llatí, havia residit a Lerins, coneixia la biblioteca del monestir i coneixia la manera com s’havia fet el text llatí. D’altra banda, vivia a la Provença i el territori, lògicament, no li era desconegut. En distints moments, fa referència a les fonts que ha fet servir i, en ferho així, ens està manifestant també les fonts del text llatí. (vv. 104-111): «...et ay agut / mantz libres en baylia; / Vitas patrum avia; / mant romanz atressi / ay tengut costa mi. / Et ay ligit la gesta / de la sancta conquesta / que fom en Ronzasvalz» (Ricketts / Hershon 2007: 153). Una font d’informació obligada és sempre la Bíblia a la qual recorre Feraud freqüentment en les ampliacions. Quan l’entrada XVI, els sants van camí de l’Argentiera, el text llatí diu «et eminus prospicientes uiderunt in summitate montis celsi, qui Argen dicitur, de celo lumen cadere ut stellam» (Munke, 52, 9-10); Feraud recorda el passatge evangèlic que considera de referència i fa aparéixer Melxor, Gaspar i Baltasar camí de Betlem.(v 1283-1293) (Ricketts / Hershon 2007: 229). En altre moment, on el text llatí escriu «prosternens se humiliter Honoratus Dominum precabatur ut a predictis cadaueribus insulam expiaret» (Munke, 61, 22-23), Feraud recorda profetes i reis de l’Antic Testamenti, mira tu per on, també la santa mamella de la gloriosa verge de què es nodrí Jesús, per acabar demanant el mateix que el text llatí. (vv. 2197-2213) (Ricketts / Hershon 2007: 287). Tot plegat: quan més sucre més dolç. Alguns miracles atribuïts pel text llatí a sant Honorat recorden, sense dir-ho, altres similars que apareixen en una Vida de sant Nicolau una mica anterior. Però Feraud a l’entrada LIV ens recorda el relat bíblic del mannà i també explicita la referència al miracle similar de sant Nicolau (vv. 3784-3793). Seyner, que tramesist Josep en lo repayre / de faraon, lo rey –que·l venderon siey frayre– / que acampet set antz lo blat en lla ssassina, / don a pueyssas pagut tota la jent mesquina / e am la carestia los a noyritz tan gen, / Seyner, que tramesist el temps de Moysen / e volguist demostrar miracle tan apert, / cant semeniest la manna al pobol el desert / e multipliquiest tant el temps sant Nicholau / per las sieuas preguieras lo froment de la nau... (Ricketts / Hershon 2007: 385)
És a dir, estava en el secret de les fonts literàries del text llatí. Els trajectes cap als llocs de pelegrinatge com Compostel·la, Jerusalem o Roma i, per a un benedictí, l’abadia de Montecassino, comptaven amb tradició oral i escrita que, amb útils informacions, facilitava els desplaçaments. Un exemple d’aquestos recursos és el llibre quart del Còdex Callixtinus o Pseudo Turpí. El Pseudo Turpí el tingué també ben present
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Feraud i l’utilitzà per a les seues ampliacions. Si en el text llatí, el viatge a Compostel·la no aporta detalls del camí, Feraud no deixà escapar l’ocasió d’aportar-ne alguns (v 13991404): «El camin si son mes li duy sant mantenent; / parton del hermitaje abe petit d’argent / e passan la Durenza e·l Rose d’Aviynon, / la ciptat de Tholosa e·l regne d’Aragon / tro intz en Conpostella que foron al autar / de mon seynor sant Jacme on volgron adorar» (Ricketts / Hershon 2007: 235). I en el viatge a l’abadia de Montecassino per a fer una còpia de la regla de sant Benet, Feraud es recrea en detalls de veïnatge monacal que fan pensar en aquestes guies. Front a un text llatí que diu eixutament: «...destinarunt Eligium, quem beatus Maurus a faucibus inferi reuocarat, qui cum sancto Maguncio, Uienensi antistite, uenerat ad insulam Lerinensem, et Aygulphum ad opidum Casinense, ut regulam beati Benedicti conscriberent, quam elegerant profiteri» (Munke 63, 1-5); la versió de Feraud no es para en brosses (vv. 2503-2529): Conseyll agron li sant que l’ordes sia estretz; / aver volon la regla que fetz sant Bezenetz. / Pero saber deves, cant santz Magonz venia / en l’iyslla de Lerins, aduys en conpaynia / sant Heloy que sant Maurs avia ja desliurat / de la gola d’enfern lonc temps avia passat. / Aquest fom elegutz et Aygolf atressi / annar querre la regla drech a Monti Cassi. / Ara s’en van li sant e per terra e per mar; / ciptatz e terra estrayna lur coven a ppassar, / Pisa, Luca e Roma e lo pont de Chipran. / Non volon sojornar tro son a San Girman. / Sus en Monte Cassin tenon lur dreita via; / mantenent son intrat en la sancta abadia. / Li frayre que la son lur fan mot gran honor / et an los receuputz am gauch et am baudor. / Mot los an saludatz da part sant Honorat / et de trastotz los frayres qu’en Lerins an layssat: / «Seynors, per servir Dieu nos em fach hermitan; / setanta e dos rendutz e motz preyres y a. / Nostra fraternitatz humilmenz vos requier / que nos dones la regla d’aquest sant monestier». / Li moyne di Cassin la regla an traslatat; / an la lur autrejada de bon cor e de grat. / Tornan s’en li cor[s] sant que an la regla quis. / Venon per lurs jornadas en l’islla de Llerys / e a sant Honorat la bayllan mantenent / que a trastotz los frayres la mostret a present. (Ricketts / Hershon 2007: 305-307)
Entre l’ajuda rebuda s’ha de subratllar la informació aportada per altres de viva veu o extreta de la pròpia experiència. Feraud compartia territori, que és paisatge, amb l’autor del text llatí. Aquesta proximitat la trobem en detalls mínims com la informació rebuda de persones del lloc (vv. 1894-1895): «Balma de Bertolmieu l’apellan li plusor / segon que m’an retrach las genz d’aquel repayre» (Ricketts / Hershon 2007: 267); o, en altre punt, (vv. 23112313) «a Comet es vengutz, un castell de Reges / qu’era adonx bons luecx e de jent abitatz / mas, segons c’ay ausit, ar es desamparatz» (Ricketts / Hershon 2007: 293). En altres relats es recrea en el paisatge perquè era el seu paisatge. D’un eixut text llatí «In decliuio montis Dine que Ripas ab incolis nuncupatur, quidam uir nomine Hugo cum transisset tempore yemale casu fortuito, a monte labitur grandis lapis opprimens trenseuntem» (Munke 105, XLIa.), Feraud dóna una versió decorada amb detalls que només podia saber qui vivia, com ell, a la vall del costat (vv. 7252-7264): Sobre lo Poget de Teniers, / on a gleysa le monestiers, / a una montayna mot gran / qu’es pres del poget Rostagn. / Li montayna s’apella Dina, / c’am roynas soven molina; / daves l’adreg e·l vinayres / peyras y rogan mot espes. / Per qu’esdevench, cant las neus son, / c’uns homs de Chaudol venc d’amon. / Hugo l’apellan siey vezi; / al Toet vay per lo camin, / e passava per Maysellinas... (Ricketts / Hershon 2007: 577-579)
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3.1.6. Feraud mostra posicionaments personals que van més enllà del que diu el llatí. Concretament es posiciona de manera condemnatòria i agressiva front al catarisme.2 De fet on el text llatí escriu: Qui, cum agnoscerent que eos contingerant per cismaticos euenisse, repente irruunt super eos et Seuum et patricium et custodem cum suis sequacibus et fautoribus heretice prauitatis a ciuitate et suis finibus eiecerunt. Qui confuse discedentes diriuarunt ad patriam Tholosanam, quam multis falsitatibus et erroribus macularunt. (Munke 72, 14-16)
Feraud subratlla (vv. 3512-3521): Ar playnon e sospiran li gran e li petit / E penton si mot fort, car avian consentit / De tolre al arcivesque son dreg ni sa honor. / E cridan mantenent: ‹As armas li leyllor!› / E cazan lo prebost Sevi e·l sagrestan / E tota l’eregia que uns non n’i reman, / Que s’en van a Tholosa vergoynos et irat. / Et an de l’heregia bautugat la ciptat, / Et ancara n’i a, qui fort lo lur sufria / de peccat e d’error, si fuecs non o delia. (Ricketts / Hershon 2007: 367).
3.1.7. Què elimina Feraud del text llatí i per quina raó? Munke 84, 27-85, 10, en una primera part, conta el pecat de la filla del noble d’Arle que mantingué relacions i concebé sense ser casada, i en una part segona, segueix contant les virtuts de gran puritat del fill d’aquella noble dona educat al monestir de Lerins des del mateix moment del seu naixement. Feraud reduí esta segona part del text llatí a la mínima expressió, sens dubte perquè es tractava d’una escena sorprenent de caràcter eròtic. Munke 86, 10 - 86, 35 conté el relat d’un diaca caigut en pecat de carnalitat a qui sant Honorat defensa en un debat amb aquells que l’acusaven. Feraud elimina tota la discussió i redueix el relat a uns pocs versos (vv. 3814-3819) (Ricketts / Hershon 2007: 387). Dos textos que s’aparten de l’original llatí i en què Feraud ha introduït a consciència la seua tisora en funció d’aconseguir un text políticament correcte. En altres ocasions es tracta de detalls menors però també significatius. Un exemple. Quan el text llatí escriu «ac si uellent alleuiare naturam» (Munke 50, 26) Feraud escriu «si con per autra sort / volguessen far deport» (vv. 1043-1044) (Ricketts / Hershon 2007: 211). 3.2. Valoració global del text de Feraud Fidel a la política del monestir, Feraud redactà, una nova versió en occità per a ser recitada, amb el propòsit d’interessar, en el pelegrinatge i la devoció a Lerins, els veïns de la Provença. Aprofita els elements fantasiosos de l’original llatí, que ell sabia bé identificar, ampliantlos amb noves referències literàries. Eliminà parts que considerà inconvenients en avaluar El catarisme com a fenomen d’incidència social té una vigència aproximada de 1167, moment del Concili càtar de Sant Fèlix de Caramany, fins a la segona meitat del segle XIII en què són eliminats físicament. Textos medievals –cànons de concilis i altres– relatius a l’heretgia càtara insisteixen en el paper decisiu de Tolosa com a difusora d’aquesta heretgia. Pere de Vaux-de-Cernay parla de Tolosa Dolosa. És a dir, Tolosa com a bressol d’heretgia és tot un tòpic.
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l’impacte potencial del text; afegí un nou relat complet que no formava part del text llatí. Però sobretot Feraud redactà un text per als veïns de la Provença que perseguia l’emoció de poder identificar-se amb el territori propi.
4. Característiques de la traducció al català No ens ha arribat el text primer de la traducció. El més arcaic dels que s’han conservat és el del manuscrit 154 dels Fons Espanyols de la BN (França). 4.1. Característiques del text català El text català del manuscrit de París és summament respectuós amb el text llatí i en fa una traducció morfològicament i sintàcticament correcta i ajustada, una traducció literal sense gloses. Respectuós amb el text llatí també pel que fa a l’ordre. Però no li preocupa si perd o confon part de la toponímia o de l’antroponímia –el lector percep també la indiferència o la descurança front a les referències literàries–. En aquest aspecte es pot dir que la traducció catalana dóna com a resultat un text ‹neutralitzat› o deslocalitzat, que no comparteix el que es podria considerar ‹projecte Lerins›. Propose uns quants dels exemples que en el punt previ han aparegut comparats amb l’occità. En el punt 3.1.4. he mencionat la part de text llatí traduïda en els versos 7252ss; el text català tradueix literalment: «En la exida del pug Dina en lo loch qui és apeyllat Ribes hac un hom qui havia nom Uch e dementre que passava per lo dit loch en temps d’ivern, per cas de ventura, una gran pedra caech sobre ell e matà’l». En la referència medieval tan habitual del ‹Tolosa dolosa› del punt 3.1.5. l’occità posa cullerada mentre la traducció al català és quasi literal: «Los quals departents-se de aquí tots confusos, anaren-se’n en la terra de Tolosa la qual de moltes falsetats e de moltes errors taccaren». En el punt 3.1.7. hem vist aparéixer en dues ocasions la tisora de Feraud per motius de conveniència i tampoc en aquest cas intervindrà el traductor català que assumirà el text llatí tal qual. En el text català trobem errors externs relacionats amb la dificultat material d’accedir a la lectura possiblement per deterioració del manuscrit o altres circumstàncies similars –confusió entre liuor i labor o entre peculium i speculum–. Però trobem altres errors atribuïbles al fet que no hi haja coneixements i experiència compartida entre l’autor del manuscrit llatí i el seu traductor català. Aquesta circumstància es fa evident en el cas dels topònims i dels antropònims; si es tracta d’una ciutat gran i coneguda (Àrlet, Avinyó, Marsella, Narbona, Pisa) potser s’evitarà l’error; però no si es tracta d’una població mitjana o d’un poblet -així Agazonis > Gasson; Agel > Angel; Bersiloni > Bresillo; Carnotum > Xarces; Chaudolo > Candelo; Foroiulium > Fruyos [18] [48] Ffruyos [86] - Ffortiuli [19] - Foruula [22] - Freyos [70] [86]; Enversunas > Recuytes; Marochiorum > Marchia; Stelel > Escalell; Ucessia > Ançèsia; Varum > Nar et sic de cetera. I el mateix passa en el cas dels antropònims, possiblement perquè el traductor els desconeixia com a referents literaris. Així Aicelena > Ancelina; Alphandus > Alfandis; Ancelma > Ancelina; Ansaldus > Rifaut; Asalasia > Lays; Cembelina > Sibilina; Lotharius > Locari.
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El traductor català compartia amb el text llatí bàsicament el vessant piadós i miraculós; però no l’ambient cultural i polític i no veia gran problema si perdia les referències territorials i si perdia les literàries perquè eren aspectes als quals no donava importància. 4.2. Característiques dels canvis introduïts en el text català al llarg de la tradició textual Dels textos en català el més antic i més fidel al llatí és el manuscrit de París. La Llegenda Àuria de Vic (Rebull 1976) que inclou també una Vida de sant Honorat ofereix un text descurat, incomplet i lingüísticament poc coherent perquè copiava un manuscrit arcaic però el barrejava amb de la seua llengua de finals del XV. Els tres textos impresos (València 1495, València 1513 i Perpinyà 1590) són bàsicament valencians. S’ha de subratllar que el primer imprés (València 1495) deixa veure de manera progressiva la intervenció del preparador amb canvis menors però a tots els nivells (gràfic, morfològic, sintàctic i de redacció) i fa més gran la distància respecte al text llatí (una mostra, el ‹Karles› del text de París ha passat a ser un estrany ‹Bearles›) i sarraïns i heretges, posats tots en el mateix sac, passen a ser ‹moros›. S’ha de subratllar també que l’editor de 1513 considerà probablement que els primers relats de 1495 eren insofribles i decidí canviarlos fent-ne una nova redacció. Del tercer, l’imprés a Perpinyà en 1590, malgrat que el seu autor afirma «me ha parecido de nuevo azelle imprimir haziéndole primero corregir, ver y senssurar mudando algunos vocablos muy antiguos y viejos» en realitat és tan igual al de València de 1513 (algun canvi en la grafia de les fricatives i poca cosa més) que sorprén l’afirmació.
5. Conclusions finals El text llatí Vita sancti Honorati i el text occità Vida de sant Honorat de Feraud comparteixen propòsits. L’autor del text llatí, inventant una història fantasiosa per a fer-la més atractiva, era perfectament conscient que volia vendre un producte: veniu al monestir, enterreu-vos en el monestir, feu donacions al monestir, respecteu el monestir perquè així trobareu solució als vostres problemes, vos sentireu protegits. El text llatí evidencia el propòsit que els pelegrins –que poden vindre de qualsevol banda, però són sobretot de la Provença i de la part pròxima d’Itàlia– s’hi senten identificats. El traductor a l’occità de la Vida de sant Honorat aprofundeix aquest propòsit. Feraud sabia que no feia una obra d’història sinó una crida a la pietat centrada en el pelegrinatge a Lerins. Coneixia les fonts que havia fet servir el text llatí (fonts eclesiàstiques genèriques, fonts referides al monestir mateix i fonts de literatura que diríem ‹secular›) i podia ampliar el text a voluntat. Sabia bé el criteri de confecció del text llatí, i es considerava amb llibertat per a manipular-lo. La traducció al català no comparteix aquest propòsit; tampoc no comparteix la literatura decorativa del text llatí i, pel seu desconeixement, hi introdueix quantitat d’errades. No comparteix el territori. El vessant polític territorial li és del tot estrany. La seua és, doncs, una traducció literal, sense més intervencions ideològiques que alguns afegits piadosos i els errors. Es tracta, doncs, de dues traduccions de distinta orientació.
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6. Bibliografia AASS Acta Sanctorum, quotquot toto orbe coluntur (febrer, volum 1r) Brusel·les - París Bédier, Joseph (1914): Les légendes épiques Recherches sur la formation des Chansons de Geste. Busby, K. (1997): Hagiography at the confluence of epic, lyric, and romance. An Old Occitan verse adaptation of the Latin life of Honoratus of Lerins: Raimon Feraut’s «La Vida de Sant Honorat«. In: ZrP 113 (1), 51-64. Dolbeau, François (1992): Les hagiographes au travail: collecte et traitement des documents écrits (IXe-XIe siècles). Heinzelmann, Marton: Jan Thorbecke Verlag Sigmaringen. Krettek, A. (1911): Die Ortsnamen der «Vida de sant Honorat» von Raimon Feraut und ihrer Lateinishen Quelle. Halle: Niemeyer Labrousse, Mireille / Magnani, Eliana / Codou, Yann / Le Gall, Jean-Marie / Bertrand, Régis / Gaudrat, Dom Vladimir (2005): Histoire de l’Abbaye de Lérins. Abbaye de Bellefontaine - Cahiers Cisterciens - Des lieux et des temps, 9. Meyer, Paul (1876): La Vida de sant Honorat. In: R 5, 237-251. — (1879) La vie latine de saint Honorat et Raimon Féraut. In: R 8 pp 481-508 Morel-Fatio (1892): Catalogue des manuscrits espagnols et des manuscrits portugais. Bibliothèque Nationale. París. Munke, Berhard (ed.) (1911): Die Vita Sancti Honorati, nach drei Handschriften heransgegeban. Halle: Niemeyer. Rebull, Nolasc (1976): Llegenda Àuria. Olot. Ricketts, Peter T. / Hershon, Ciril P. (2007): La Vida de Sant Honorat. Turnhout: Brepols. Sardou, A. (ed.) (1874): La vida de sant Honorat Légende en vers provençaux. Nise: Culture Provençale et Méridionale. Schäfer, W. (1911): Das Verhältnis Von Raimon Ferauts Gedicht «La vida de sant Honorat» zu der «Vita Sancti Honorati». Halle: Niemeyer. Stengel, E. (1878): Die wiederaufgefundene Quelle von Raimon Ferauts provenzalischen Gedicht auf den h. Honorat und der gedruckten lat. Vita s. Honorati. In: ZrP 2, 584-586. Suwe, Indegärd (1943): La vida de sant Honorat, poème provençal de Raimond Feraud. Upsala. Tubach, F. C. (1969): Index exemplorum. A handbook of Medieval Tales. Helsinski.
Paola Scarpini (University of Sheffield, Sheffield) / Erika Cancellu (Università la Sapienza, Roma)
Il potere delle parole nella Follia Tristano di Oxford: l’abito fa il matto? Tra cognitivismo e narrativa
Scrivere qualcosa di nuovo su Tristano ed Isotta può sembrare un’impresa ardua, data la messe di studi sull’argomento fiorita negli ultimi dieci anni.1 La Folie de Tristan del ms. di Oxford (d’ora in poi FO), tuttavia, è una delle fonti meno studiate ed è sembrato che non sia ancora mai stato affrontato in modo soddisfacente lo scarto creatosi tra il Tristano reale e quello fittizio a causa del suo travestimento. È proprio questo sdoppiamento, infatti, a determinare quei molteplici livelli di lettura della FO che ne costituiscono una delle caratteristiche più interessanti. Inoltre, grazie al travestimento, si instaura la dialettica tra Tristano, il pubblico intradiegetico e quello extradiegetico. Bonafin, occupandosi del trickster nei poemi di Renart e Tristano, analizza il valore della maschera di Tristano e di come essa «metta in discussione di fatto la credenza nella solidarietà tra res e signa, lo scambio tra vero e vero-simile» (Bonafin 2000: 187), ma non esamina le ragioni di tale scarto e così come lui, altri studiosi, benché si siano soffermati su questa interferenza che i segni esterni hanno sulle parole di Tristano, non hanno fornito finora un’analisi più dettagliata.2 La nostra analisi della FO3 si è mossa da una constatazione, già di Weinrich, che potrebbe sembrare ovvia: nei testi letterari i personaggi hanno una psicologia elementare, coerente con le aspettative dei lettori coevi della stessa opera.4 Ne consegue che comportamenti, parole e riflessioni dei protagonisti non devono risultare inaccettabili per il lettore, a meno che l’autore non desideri far scaturire particolari reazioni, come avviene, per esempio, nella letteratura surrealista o dadaista. Ci siamo prefisse di indagare i tratti che definiscono l’immagine mentale, ossia lo stereotipo, di ‹cavaliere› nel romanzo cortese ed inseguito nella FO per poi esaminare quanto Tristano se ne allontani.5 A titolo illustrativo, vedere per es.: Bouchard (2006); Carné (2010); Chocheyras (2004); Harf-Lancner / Mathey-Maille / Milland-Bove / Szkilnik (2009); Hunt / Bromiley (2006); Kay (2001); Kunstmann (2006); Maddox (2005); Punzi (2006); Richard (2007); Segre (2001); Walter (2006). 2 Si vedano per es, gli articoli di Yasmina Foehr-Jassens e di Dominique Demartini entrambi in HarfLancner et al. (2009). 3 P. Scarpini ha avuto l’idea di considerare lo scarto tra il Tristano reale e il travestimento, occupandosi dei problemi legati all’abbigliamento, la figura del cavaliere e l’analisi testuale della FO; E. Cancellu si è occupata della parte riguardante il paradigma cognitivo e il problema dei vari ICM. 4 Weinrich (1976: 186): «La letteratura si basa infatti sulla psicologia elementare della conoscenza dell’animo umano e ne intensifica gli elementi fino a farne dei motivi». 5 I testi presi in considerazione sono testi cavallereschi coevi alla mise par écrit del mito tristaniano (testi in versi) e cioè i testi cavallereschi composti da Chrétien de Troyes, i Lais di Marie de France, Partonopeu de Blois, Ipomédon e Prothéselaüs di Hue de Rotelande, Florimont d’Aimon de 1
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L’indagine del travestimento di Tristano si è svolta in un’ottica cognitiva. Si è consapevoli della querelle sulla fondazione teorica del cognitivismo, anche nella sua forma più ortodossa, e non si dimentica l’importanza del dato sperimentale per convalidarne gli assunti6, ma è sembrato, comunque, necessario scegliere come punto di partenza Lakoff (1987) Women, Fire and Dangerous things, data l’analisi del concetto di ‹stereotipo›, considerato un tipo di Idealized Cognitive Model (d’ora in poi ICM). Con ICM lo studioso indica le immagini mentali, sorte da dati esperienziali sensoriali e culturali, che rendono possibile la comprensione del mondo circostante. Gli esempi presentati da Lakoff per chiarire la sua formulazione sono, visto il suo campo di interesse, di ambito linguistico, ma egli suggerisce di estendere il concetto di ICM anche ad altri ambiti.7 Per motivi di spazio la trattazione sull’ICM qui offerta è sintetica: per completare il quadro, si rimanda a Lakoff (1987) ed alla bibliografia. Secondo il linguista8, ogni elemento di un modello cognitivo corrisponde ad una categoria concettuale e l’ICM è determinato da uno o più dei quattro principi seguenti, e cioè da una struttura proposizionale, come nel ‹frame› di Fillmore (1977, 1982, 1982a); da una struttura di schema-immagine, definizione mutuata dalla grammatica cognitiva di Langacker (1987);9 da una mappa metaforica, come quelle che egli stesso descrive con la collaborazione di Johnson (1980); oppure da una mappa metonomica, per cui cfr. Lakoff / Johnson (1980).10 Secondo Lakoff, la mente umana raccoglie i dati in categorie scalari; la nostra esperienza umana è strutturata pre-concettualmente al livello base (cfr. nota 10). Si pensi ad ‹uccello›, esempio classico usato per spiegare cosa siano un ICM, una categoria scalare e l’Effetto Prototipo: il modello mentale di ‹uccello› è una gestalt, è caratterizzato dal fatto di deporre le uova, volare, avere le piume, ecc. Esempi migliori, ossia secondo Rosch (1973, 1978), più prototipici, della categoria ‹uccello›, saranno il pettirosso e la rondine, mentre il pinguino sarà considerato un membro meno centrale e più distante dal prototipo.11 Inoltre, Lakoff presenta degli ICM, denominati ‹cluster models› (Lakoff 1987: 74-76, 197, 203 sgg.), determinati da più di un modello mentale, ognuno dei quali indagabile separatamente, ma concorrenti nel determinarlo. Un esempio di
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Varennes, ma si è voluto considerare anche della bibliografia sull’argomento come, per esempio, Le Goff (1987), oltre che Bernardo di Clairvaux Liber ad milites Templi de laude novae miliatiae, in cui viene criticato il cavaliere laico, ma viene espresso anche quali dovrebbero essere le caratteristiche del cavaliere perfetto, anche laico; cfr. Cardini (1989: 89 e sgg). Si rinvia almeno a Geeraerts / Cuyckens (2007); Taylor (2002); Croft / Cruse (2004). «I will be presenting three case studies. Since I am a linguist, they will all involve language, but to show that the method of analysis is not limited to a single subject matter, these studies will cover three different domains −concepts, word and grammatical constructions». Lakoff (1987 : 377). Non va dimenticato come anche Eco abbia scelto in Kant e l’Ornitorinco un approccio cognitivo, pur rielaborato rispetto a quello di Lakoff. Cfr: Lakoff (1987: 68, ma cfr. 113-144 per una sintesi, e 284 sgg). Cfr: Langaker (1991, 2008). Gli importanti studi di Lakoff e Johnson sulla metafora evidenziano la pervasività della metafora nella nostra vita: nel linguaggio si possono indagare molte mappe metaforiche come quella del tempo come ricchezza materiale o come denaro o «rabbia come calore» (381 sgg.). Cfr. Lakoff (1987: 44-45) e gli studi sperimentali di Barsalou (1983, 1984) sulle categorie create per delle situazioni specifiche di rilevante valore sociale, come, per es., ‹portare un regalo›.
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‹cluster models› è ‹madre›: in ‹madre› convergono, infatti, il modello genetico (madre come donatrice del patrimonio genetico), quello della nutrice, quello familiare (moglie del padre) e quello legale (colei che ha la tutela legale). Si noti, poi, lo stereotipo sociale che condiziona l’ICM di ‹madre›: quello della casalinga, come se solo la donna che si occupa esclusivamente della casa e dei figli sia una madre tout court. Si parla in questi casi di ‹stereotipo›, ossia di un ICM la cui peculiarità è di essere determinato metonimicamente: social stereotypes are cases of metonymy- where a subcategory has a socially recognized status as standing for the category as a whole, usually for the purpose of making quick judgments about people. (Lakoff 1987: 79)
È chiaro, dunque, che per ‹madre› esistono due modelli «a cluster of converging cognitive models» e «a stereotypic model, which is a metonymic model in which the housewife-mother subcategory stands for the category as whole and series the purpose of defining cultural expectation» (Lakoff 1987: 81). Lakoff (1987: 89-90), inoltre, osserva un dato quasi banale, ma significativo: per comprendere le categorie si usano esempi familiari, famosi e, in ogni caso, che siano salienti nella esperienza dell’individuo. Per questo si può affermare che l’ICM di madre sarà sempre condizionato dalla propria madre e dalla società in cui si vive; un collie sarà considerato affidabile a causa delle caratteristiche positive attribuite a questa razza nei mass media e il nostro ICM di ‹cane› sarà legata al nostro primo cane. Questo avviene non solo con esempi concreti, ma anche con esempi più astratti come ‹governo› o ‹menzogna›. La formazione dei modelli si basa su principi universali, propri della mente umana, ma i modelli sono in parte condizionati dalla società, come le considerazioni etiche. Infatti, Lakoff (1987: 70-71) scrive riguardo a ‹scapolo›:12 The theory of ICMs would account for such prototype effects of the category bachelor in the following way: an idealized cognitive model may fit one’s understanding of the world either perfectly, very well, pretty well, somewhat well, pretty badly, badly, or not at all. If the ICM in which bachelor is defined fits a situation perfectly and the person referred to by the term is unequivocally an unmarried adult male, then he qualifies as a member of the category bachelor. The person referred to deviates from prototypical bachelorhood if either the ICM fails to fit the world perfectly or the person referred to deviates from being an unmarried adult male.
La prototipicità, nel senso roschiano, o meno del membro considerato emerge da questo scarto: ogni ‹scapolo›, dunque, sarà più o meno riconoscibile come tale e sarà più o meno prototipico a seconda dell’ICM che ne abbiamo. Si tratta forse dell’esempio più usato per far capire cosa si intenda per stereotipo; cfr. Fillmore (1982a); Lakoff (1987: 85-86, 115, 117, 130, 138, 202). Per il problema dello stereotipo cfr. Lakoff (1987: 116 sgg) e Putnam (1975). Di questo esempio sono interessanti soprattutto i risvolti per l’Effetto Prototipo; cfr. Lakoff (1987: 58 sgg) e Rosch (1973, 1975, 1978). La definizione di ‹scapolo› come ‹non sposato› sembra calzante, ma, come nota Lakoff, il termine non è usato in relazione al pontefice o a Tarzan o ad un bambino. Il vocabolo, infatti, implica una cornice culturale (‹frame›) ed ideologica e veicola uno stereotipo ben preciso: lo scapolo è spesso visto dalla società come un uomo che rifiuta responsabilità, soprattutto sentimentali, e come un donnaiolo.
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Nell’indagare la FO, il travestimento di Tristano è stato trattato come un’immagine: in una cultura visiva come quella medievale, la descrizione dell’aspetto dei personaggi in un’opera letteraria acquista un’importanza maggiore di quanto non accadrebbe oggi. Come è noto, l’uso di rigide regole iconografiche è tipico dell’arte figurativa medievale, dove ogni personaggio viene raffigurato con attributi ben precisi, sempre riconoscibili agli occhi di chi guarda. Del resto, nel Medioevo gli stereotipi sociali erano molto forti e la simbologia ad essi associata era così nota che gli autori stessi non sentivano il bisogno di spiegare ogni volta le implicazioni semantiche o, spesso, didattiche di quanto illustrato.13 Le raffigurazioni sono l’immagine stessa degli stereotipi propri della cultura e della mentalità medievale (cfr: Baschet 2008: 3964). In tale prospettiva, anche l’abbigliamento diventa parte integrante del codice di simboli che rivelano la posizione sociale dell’individuo ed il suo stesso essere, come mostrano diversi testi del XII e XIII secolo dove l’abbigliamento segnala l’innocenza o la colpevolezza in casi di adulterio. Secondo diversi studiosi, l’analisi dello stile di abbigliamento è in rapporto d’analogia con quella dello stile archittettonico. Diversi studiosi hanno notato il parallelo tra archittettura e stili vestimentari nel loro rapporto di dipendenza con il pensiero a loro coevo; quindi il rapporto tra i vestiti ed il corpo può essere analizzato nello stesso modo in cui si studia il legame dell’architettura con la mentalità dell’epoca (Blanc 1989: 11). L’abbigliamento funziona così come un sistema semiotico e comunica messaggi indiretti tra l’autore (sia uno scrittore, uno scultore o un miniatore) e il pubblico. I vestiti sono, come evidenziano gli studi d’etnografia strutturale di Bogatyrev, e se ne distinguono due funzioni: sono oggetti, cioè hanno una funzione pratica (coprire, proteggere dal freddo, dal caldo...), oppure sono segni e hanno un significato. Tuttavia, come precisa Blanc, distinguere le due funzioni significa non che il vestito ne assuma solo una, ma che le ha sempre entrambe: les fonctions peuvent se définir comme des rôles (remplis par le costume ou ses éléments constitutifs) qui confèrent à des objets la valeur de signes, de la même façon que les fonctions du langage dans le discours confèrent à des sons la valeur de phonèmes. (Blanc 1989: 18)
Trattare Tristano e il suo travestimento come una figura iconografica vuol dire cercare il messaggio che questa immagine comunica al suo pubblico. Un’immagine, solitamente, rinvia a un referente e, anche se essa non fa che evocarlo, l’efficacia del messaggio risiede nell’effetto prodotto dalle immagini mentali indotte (percezione) oppure dalle rappresentazioni preesistenti evocate (proiezione) e riconfigurate dal messaggio (Baschet 2008: 60-61). Al referente dell’immagine deve, però, corrispondere un referente nell’esperienza di chi operi la trasposizione e di chi guardi l’immagine stessa; l’immagine allora «convoque des figures et configure des significations […], pour les engager dans des situations pratiques mettand en jeu relations interhumaines (d’identification communautaire, de différenciation et de hiérarchisation)» (Baschet 2008: 63). Apparenza, attributi e vestiti coincidono, dunque, a tratti tipici del modello mentale di un’epoca e di una cultura; questo è valido anche nel caso di Tristano, le cui caratteristiche sono quelle di un’immagine mentale. Dall’analisi testuale della FO emerge chiaramente come Tristano non sia un membro prototipico della categoria Pastoureau (2004: 11). Ciò non deve sorprendere: in una civiltà così poco alfabetizzata, le immagini e l’iconografia acquistano un’importanza centrale nel processo cognitivo, tanto che anche le arti figurative fanno riferimento a quei tratti che vengono riconosciuti come propri del ruolo sociale del personaggio raffigurato.
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cavaliere, dato che presenta delle caratteristiche che lo allontanano da questa categoria anche qualora non si travesta. Prima di tutto, va sottolineata la volontà di Tristano di travestirsi da matto, personaggio in antitesi con il cavaliere. Il folle, sia esso l’emarginato sociale o il giullare di corte, era considerato –socialmente parlando– un vilain, l’opposto dell’uomo cortese. Ménard nel suo fondamentale studio sull’iconografia letteraria del folle nel Medioevo, afferma, riguardo al rifiuto sociale di cui è vittima il malato di mente: «plus que tout autre, peut-être le fou est donc au XIIe et au XIIIe siècle un être ambigu. Il est l’image vivante de la stupidité et de la déraison» (Ménard 1977: 433-459). La follia aveva, dunque, una connotazione negativa, confermata dalla letteratura dell’epoca; si pensi anche solo, nel Tristano di Thomas, testo a cui, per altro, la FO è strettamente collegata, all’episodio di Kaherdin che, mal interpretando il riso della sorella, teme di essere preso per un folle. Il testo non solo associa i termini folie e vilannie ma, soprattutto, li contrappone a «bon e franc e amerus» qualità indiscusse del cavaliere cortese. La follia, quindi, era considerata motivo di penoso imbarazzo al tal punto che Kaherdin è «hontu» alla sola idea di essere preso per matto.14 Secondo noi, il fatto stesso che Tristano abbia scelto questo travestimento è significativo delle sue caratteristiche morali; del resto, Tristano, nella FO, è un esiliato, un parìa per la corte del re Marco e dei suoi sudditi. Grazie alla maschera Tristano non fa altro che accentuare il suo essere un emarginato, ed è proprio in virtù della sua emarginazione che Tristano non teme di varcare il confine tra il lecito e l’illecito (Blankeslee 1989: 63-64). Per evidenziare come nella FO emerga lo scarto tra cavaliere e folle, bisogna prima mostrare quali siano i tratti che qualificano un cavaliere nel XII secolo. Basandoci sui testi e l’iconografia del tempo, se ne ricava che il cavaliere presenta alcune caratteristiche, riconosciute come tipiche dalla società circostante: è armato cavaliere e porta sempre un arma con sé (lancia o spada);15 è fornito di cavallo; è di nobile nascita;16 la bellezza del suo animo rispecchia la bellezza esteriore;17 è un amante della caccia che pratica solo per il piacere personale e non per procurarsi cibo.18 Data la mentalità medievale, ‹cavaliere› corrisponde a un modello mentale, uno stereotipo, dalle caratteristiche immutabili. E’ ovvio che all’interno di questa categoria ci siano delle strutture addizionali ma questo non toglie che lo stereotipo di ‹cavaliere› sia definito con chiarezza e i suoi attributi ben noti ai lettori del XII secolo. «Caerdins la voit issi rire,/ Quid lui ait oï dire / Chose ou ele note folie / Ou mauvaisté ou vilannie, / Car il ert chevaler hontus / E bon e frans e amerus.» (Lacroix / Walter (1989): vv. 1322-27; sono i versi 229-34 del mss di Torino). I versi in italico non sono presenti nella versione originale. 15 Non ci curiamo qui delle eccezioni che si trovano nei testi coevi al Tristano e che sono eccezioni solo a livello diegetico (vedasi, per es, Erec all’inizio della storia in Erec et Enide). 16 Nella realtà, molti cavalieri non erano nobili ma la letteratura del XI e XII secolo esalta un’ideologia di classe quindi i cavalieri hanno delle nobili origini. 17 Esistono eccezioni, come Cariado, definito «cortese e di bell’aspetto» ma sgarbato nei modi e nelle parole (Tristan di Thomas, vv. 1017-22 ovvero vv.812-17 del ms. Sneyd 1). 18 Si pensi, per es, ai cavalieri presenti nei Lais di Marie de France: molti di essi cacciano ma la caccia non ha mai un fine pratico, solo ludico. Fa eccezione Tristano quando si ritrova nella foresta del Morrois, ma anche lì siamo in presenza di una situazione in cui Tristano ha dovuto spogliarsi del suo ‹essere› cavaliere per diventare solo cacciatore, al fine di trovare i mezzi di sussistenza per permettere sia a lui che ad Isotta di sopravvivere nella foresta (ed anche in questo caso entrambi erano degli esiliati, degli emarginati). 14
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Tristano nella FO, non va a cavallo ma a piedi, come un povero (FO, vv. 32-37):19 muta le proprie vesti con quelle misere di un pescatore (vv.189-194); la sua persona è poco curata (si tinge il viso con una pianta, vv. 215-16) e decide di tagliarsi i capelli a croce, taglio tipico dei matti (FO, vv. 205-11).20 Infine, benché Tristano affermi di essere un cacciatore, il re Marco ride delle sue parole (v. 533) visto che non presenta le caratteristiche che lo denotano come tale. Si noti, inoltre, che la sua entrata nella sala del re è descritta come un attacco militare: Tristano cerca di difendersi come farebbe un cavaliere, ma viene spinto davanti al re Marco «le pel al col» (v. 268), ossia con il bastone contro il collo, perdendo il suo status di potens e di cacciatore, per diventare pauper e preda. Riguardo all’aspetto, il testo ci dice che si tinge il viso con un’erba e lo scurisce. Senza approfondire per motivi di spazio, si ricorda la connotazione negativa del nero (Pastoureau 2008: 39-40; 47-54; 80-81), tanto che nei romanzi del Graal le maschere del terrore sono sempre nere e mostruose. Lo stesso taglio dei capelli si rivela carico di riferimenti simbolici: si tratta di una tonsura, compiuta, non causalmente, con delle forbici regalate da Isotta. Leggere in chiave simbolica un testo medievale è spesso necessario per comprenderne a pieno il senso: facendo riferimento a un dominio concettuale, in senso lakoffiano, usato nel Medioevo per indicare la consacrazione a Dio, ossia la rinuncia ai capelli, si può dire che il taglio a croce raffigura la consacrazione ad Isotta, dato che le forbici sono un suo dono. Non è un caso che il taglio di Tristan sia un taglio tipico anche dei chierici. Infine la voce: le uniche due menzioni che vengono fatte a proposito della voce di Tristano sono prima che arrivi alla corte del re Marco («Tristran sout ben muër sa voiz.», v. 212) e quando, finalmente, si rivela a Isotta («Sa voiz muat, parlat a dreit», v. 975). Bruckner, in Shaping Romance, si occupa solo del ruolo della voce di Tristano e dello scarto tra finzione narrativa e realtà, senza approfondire le altre connotazioni della figura di Tristano; indagando la funzione e il simbolismo della voce, nota che Tristano, falsandola, crea «a tension between signifiant and signifié that gives truth the appearance of lies» (Bruckner 1993: 13). Un mondo centrato sull’oralità dà molto peso al ruolo della voce: essa diventava il marchio dell’identità della persona stessa, e negare il suono della propria voce all’amante significa negare se stessi (Bruckner 1993: 13-14). Così si spiega perché Tristano, nel rivelarsi ad Isotta, le dica «cunuistre me frai e oïr» (v. 974), dove ‹conoscere e ascoltare› sono quasi nello stesso campo semantico. Il travestimento di Tristano, dunque, partecipa del sistema semiotico, tipicamente medievale, usato dall’autore per veicolare il proprio messaggio e rivela che il modello mentale che il pubblico ha di Tristano come cavaliere, così condizionato dalla società e legato a considerazioni etiche, non è l’unico a definirne la figura.21 Oltre alle caratteristiche del folle, Tristano presenta anche la maggioranza dei tratti tipici degli «Aler en Engleterre droit, / Nent a cheval, mais tut a pé, / K’el pais ne sait entercié / [...] / Mais de povre home k’a pé vait / N’en est tenu gueres de plait». Il corsivo non è presente nella versione originale. 20 «Tristran unes forces aveit / K’il meimes porter soleit; / De grant manere les amat; / Ysolt les forces lu donat. / Od les forces haut se tundi; / Ben senlle fol u esturdi; / En après se tundi en croiz; / Tristran sout bien muer sa voiz / Od une herbete teinst sun vis.» 21 Lakoff (1987: 49-50) spiega come le categorie dei bambini siano diverse rispetto a quelle degli adulti, ma i principi cognitivi che creano tali categorie sono, però, comuni alla specie umana. Per citare almeno due richiami alla cautela e la necessità di non applicare la nostra mentalità nell’analisi di modelli culturali differenti dal nostro cfr. Berrettoni (1990), Lloyd (2003) etc. 19
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emarginati nel Medioevo:22 è un esiliato che non appartiene più alla corte del re Marco; si presenta come un povero; si atteggia come uno stolto, tenendo propositi incoerenti; è simile a una belva, incute timore ed, infine, è malato o, per lo meno, si comporta da tale. La somiglianza di Tristano a una belva è rimarcata soprattutto nell’arrivo alla corte di Marco, poiché al suo arrivo la guardia del castello lo apostrofa come «fis Urgan le Velu» (vv. 243-246).23 Per il lettore, questa è una citazione, dal momento che Urgan fu sconfitto da Tristano, ma è anche vero che definire qualcuno «figlio di Urgan» ne implica l’aspetto mostruoso. Il discorso pronunciato da Tristano davanti al re lo paragona a una fiera, dato che si presenta come generato da una balena e tenuto a balia da una tigre (vv. 271-278).24 La balena rappresenta l’animale marino feroce per eccellenza nel Medioevo e coincide con il Leviatano biblico. La tigre è simbolo di forza e di energia, ma ha anche diverse connotazioni negative. Infatti, nel Medioevo, la tigre era associata alla crudeltà ed alla disumanità al punto da simboleggiare Satana stesso. Inoltre, è ben più rilevante notare che nella letteratura sacra e in quella profana, la tigre era simbolo di lussuria, di incontinenza sessuale e di passione travolgente (Rowland 1973: 149-51). Quanto la tigre simboleggia è un tutt’uno con l’essenza di Tristano: energia, forza vitale ma anche rabbia, passione e soprattutto una sessualità travolgente che è causa della sua stessa debolezza.25 Il descriverlo come figlio di una balena e allattato da una tigre indica la perdita di umanità di Tristan e la sua regressione ferina, tipica del malato o dello stolto. Cosa porta Tristano a una tale regressione? La FO lo dice subito: Tristano è malato d’amore per Isotta e per questo amore sfida anche la morte. Del resto l’inizio della FO (vv. 1-24) è centrato completamente sul campo sematico del dolore fisico/ malattia e della guarigione, insistendo sulla veridicità della malattia di Tristano. Per esempio, si veda la scelta lessicale dei vv. 5-6 dove guarir rima con murir e i vv. 13-16 dove Peine, dolur, penser, ahan sono contrapposti ancora al verbo guarir.26 Inoltre, alla malattia si aggiunge che, sebbene Tristano finga solo la sua follia («Feindre mei fol e faire folie» v. 181), egli perde la propria identità: il narratore stesso lo definisce come ‹li fols›, ‹le fol› finchè Brangania non avanza il dubbio che il matto sia Tristano, quasi sfilando la maschera e svelando l’identità di Tristano (vv. 575-76). Tristano diventa la sua maschera, caricando così le sue parole di ulteriore significato e, per il pubblico intradiegetico, è un bugiardo, al punto che Isotta lo afferma pubblicamente quando dice «N’est pas vair, einz est mensunge, / Mais vus recuntez vostre sunge.» (vv. 457-58). La verità di Tristano è percepita come una menzogna; è una défaillance radicale nel cuore stesso del linguaggio, un’opacità – creata dalla maschera– che toglie credibilità alle Queste caratteristiche sono tratte dall’opera di Nilda Guglielmi sugli emarginati nel Medioevo (2001). «Li porter li ad respundu: / ‹Entrez, fis Urgan le Velu! / Graz e velu estes assez, / Urgan en so ben resemblez›» 24 «Li fols respunt: ‹[..] / Ma mere fu une baleine, / en mer hantant cume sereine, / mes je ne sai u je nasqui. / Mult sai ben ki me nurri. / Une grant tigre m’alettat / En une roche u me truvat›» 25 Non è la prima volta che il personaggio di Tristano è associato a simboli di concupiscenza, basti pensare ai numerosi richiami al cinghiale (simbolo araldico sullo scudo di Tristano), animale considerato vizioso e lubrico (cfr: Rowland 1973: 37-43, soprattutto 38-39) o ai suoi travestimenti come lebbroso, altra categoria di emarginati accusati di essere dei deviati sessuali (cfr: Touati 1998: 101-109). 26 «Confort lu estot de guarir, / U, si ço nun, melz volt murir.» (FO, vv. 5-6); «Peine, dolur, penser, ahan, / Tut ensement cunfunt Tristran. / Il veit ke il ne puet guarir, / Senz cunfunt lui estot murir.» (FO, vv. 13-16). 22 23
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sue parole e le rende false. Le parole di Tristano acquistano obliquità semantica, in quanto menzognere e simbolo della follia d’amore, della regressione ferina e della perdita morale di status di cavaliere: un cavaliere, infatti, dovrebbe essere fedele al re e, per lealtà, non dovrebbe mai sedurne la compagna. Non va poi sottovalutato che l’autore dica che sia un poeta e un cantore (cfr. FO vv. 35362; 521-22, 773-776); è un ingannatore e creatore di tranelli e, in questo caso, è da notare come in un certo senso sia tenuto in sacco dalla rete che lui stesso ha creato. Questa doppia funzione di ingannatore e poeta fa sicuramente pensare a Weinrich ed alla sua Linguistica della menzogna, uno dei pochi esempi di studio sulla menzogna fatto da un linguista e non da un filosofo. In quest’opera si evidenzia il rapporto privilegiato del poeta con la menzogna, dato che il poeta, inventando, racconta frottole, anche se non inganna.27 Il poeta, infatti, inventa. Dato che quasi sempre l’inganno è scoperto, non induce nessuno in errore, ma, sicuramente, il poeta non racconta fatti realmente accaduti e, se lo fa, nel suo pubblico, c’è sempre il dubbio riguardo la veridicità di quanto dice. Il poeta sostituisce, ed è qui che nasce il sospetto, la realtà quotidiana con una diversa, altra, attraverso il ricorso alla parola, e questo è esattamente quanto fa Tristano: egli plasma una realtà alternativa, in cui lui non è un cavaliere, ma un folle. Secondo Weinrich, si può parlare di menzogna qualora si dia intenzionalmente una conoscenza falsa, come fa Tristano, anche se il suo espediente non inganna il lettore; le parole mentono solo se esprimono concetti ideologici, le frasi se sottintendono una frase (vera) non espressa. La parola è neutra, è la volontà del parlante a far sì che neghi o devi dai fatti: in un certo senso, con la menzogna si rompe la corrispondenza tra fatti e linguaggio e tra segno e significato. Tristano, per usare una metafora, sostituisce un significante, ma non il significato: egli è una menzogna vivente. Egli, infatti, mette in crisi quanto sancito sia dalla società sia, nascondendo la propria identità, e ciò è ben peggiore, dalla natura e da Dio, che a ognuno ha dato un proprio ruolo fisso;28 Tristano, invece, rompe la convenzione sociale che gli assegna un ruolo nella società. Egli nega quello che è: dalla negazione della verità nasce la menzogna.29 Secondo Lakoff, una menzogna prototipica consta di tre membri, cioè il fatto di dire che A è B; l’intenzione di ingannare ed infine il tornaconto di chi mente.30 Inoltre, come ricorda Johnson (1994: 95), il concetto di bugia non è neutro rispetto ai valori etici; al contrario, la sua rilevanza morale sarebbe frutto di un atto normativo, attraverso cui il soggetto stabilisce, volta per volta, la presenza dell’elemento moralmente qualificante (in senso negativo) della bugia, ovvero di poter ferire altri con essa.
Nel caso di Tristano si noti che il primo punto (‹il fatto di dire che A è B›) non sussiste realmente: Tristano mischia dapprima verità e fantasia di fronte al re Marco e alla sua corte Cfr.Weinrich (1976: 159 sgg, soprattutto 189 sgg.) Non è un caso che il paragrafo in questione sia intitolato Assai mentono i cantori. 28 Secondo la mentalità medievale, la visione del cielo così come espressa dallo Pseudo-Dionigi del cielo era fondamento di quella sulla terra che doveva, per questo, essere immutabile, cfr. R. Roques (1983). 29 Cfr. Weinrich (1976: 159 sgg.) e la sua posizione secondo la quale una frase falsa nega una vera lasciata inespressa. 30 Lakoff (1987: 71-74). La sua è versione semplificata di Sweetser (1987). 27
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ma, poi, dice esclusivamente la verità non appena solo con Isotta. Tuttavia ella non riesce a vedere oltre la maschera; la regina, infatti, crede solo a ciò che vede (FO, vv. 709-12).31 Come ricorda Lakoff (1987: 127), vedere implica categorizzare, quindi un evento o una cosa dipendono anche da come essi vengono percepiti. Quindi, se tutti sono stati tratti in inganno dal travestimento iconografico e vocale di Tristano, cosa permette a Brangania di affermare «Je pens pur droit / j’iço Tristran meïmes soit» (vv. 575-76)? Brangania non era con il re Marco e Isotta all’arrivo di Tristano; la regina la ritrova più tardi nella propria camera e Brangania ascolta il racconto di Isotta. In base a ciò che sente, deduce che quell’uomo è Tristano. Brangania, difatti, è l’unica che, fino a quel momento, non ha né visto né udito Tristano e, di conseguenza, l’unica a rilevare la veridicità del racconto di Tristano. Come dice Lakoff (1987: 128-130), il nostro giudizio dipende molto da cosa noi conosciamo e sappiamo riguardo a ciò che stiamo guardando. In effetti, ciò che vediamo può non essere ciò che è in realtà. Quindi nel caso di Isotta, non si può dire che abbia torto, perché ignora chi si celi dietro la maschera e affida alla sola percezione visiva il proprio giudizio. Del resto, è lei stessa a dire: «Les ensegnes crei». Ensegnes indica proprio un segno visivo, concreto e tangibile; e il verbo crei è importante quanto ensegnes perché presuppone una credenza basata su una percezione, una atto di fede verso qualcosa che si considera vero. Si ritorna all’idea, espressa anche da Lakoff32, che la percezione della realtà di Isotta si basa non solo su ciò che vede e sente, ma che i dati raccolti dai suoi sensi sono in parte sottomessi alla sua mentalità. Isotta dice di credere ai segni, che pure tratta con sospetto. Quando vede l’anello di Tristano al dito del folle e il cane Husdent fargli le feste, Isotta nega ancora l’evidenza. Infatti, Tristano, fino a quel momento, ha usato altri segni per i suoi contraddittori messaggi: Isotta, dunque, non vuole credere che il suo amato sia quell’orribile folle. Il fatto che Tristano manipoli les ensegnes e neghi la propria identità e il proprio status sociale gli permettono di rinunciare temporaneamente ai tratti semantici dell’ICM del cavaliere e fare ciò che un cavaliere non farebbe mai alla donna amata: mentirle e manipolarla. Tristano è ritornato a Tintagel solo per un’ulteriore prova d’amore, ma ne approfitta anche per proclamare la sua relazione con Isotta davanti al re, che così è ridicolizzato. L’autore si serve dello stacco tra pubblico intradiegetico e extradiegetico per far funzionare «l’elemento moralmente qualificante» di cui parla Johnson: le parole di Tristano fanno ridere il pubblico intradiegetico perché le ritiene false, e fanno ridere quello extradiegetico perché sa che esse sono vere.
«Isolt respunt: «Frere, ne sai / e vus esguard, si m’esmai, / kar je n’aperceif mie de vus / ke seiez Tristran l’Amerus». Il corsivo non è presente nella versione originale. 32 Non è un caso che lo stesso Lakoff (1980, 1986) sia un sostenitore della ‹embodiment theory›, secondo cui, attraverso processi metaforici, applichiamo la nostra conoscenza esperienziale a concetti astratti, rendendoli così comprensibili. Non è l’unica teoria della mente a rendere centrale il dato visivo come base della nostra comprensione della realtà, anche in teorie che considerano distinto il linguaggio e il dato esperienziale, questi due cooperano nel creare la nostra Weltashauung cfr. almeno la ‹dual code theory› di Paivio (1985) e Richardson (1999), che da molta importanza alla rappresentazione mentale di oggetti legati a nomi, capacità, detta imaginery o imageability, già discussa anche da Aristotele (De Anima, III.3 428a), ed è stata, nella nostra cultura occidentale, orientata verso la discussione di quella che viene definita ‹visual imaginery›, legata alla vista, per quanto questa capacità sia legata anche ad altri sensi.
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Nei precedenti paragrafi, si è messa in evidenza la forza dello scarto tra i livelli testuali e come solo una lettura attenta al simbolismo ed ai segnali esteriori, come quella che si farebbe per un’opera d’arte figurativa, possa restituirne la polifonia. Tristano è detto dall’autore ‹folle d’amore› e, non casualmente, quando sceglie un travestimento, decide di mascherarsi da matto. È da questo che nasce la mancata agnizione del pubblico intradiegetico, compresa Isotta, nonostante egli, sotto la maschera, dichiari pubblicamente la sua identità. Egli ha cambiato iconografia, ha mutato i simboli che lo raffigurano come Tristano, non corrisponde più all’immagine mentale che il pubblico intradiegetico ha di lui. È da questo che nasce sia l’inganno sia il divenire vittima del proprio inganno, dato che un membro che non condivide nessun tratto con una certa categoria non ne fa parte. Egli rinuncia a un’iconologia che corrisponde alla realtà, per acquisirne una nuova, al di fuori della società. Tristano, però, è un emarginato, un bandito, quindi, al di là della corte e al di fuori della società, extra solum secondo l’etimologia di Isidoro di Siviglia, come alieni alla corte sono il folle o il mostro o il viandante.33 Tristano è anche poeta e cantore, altra categoria che nel Medioevo non era necessariamente integrata nella società e che spesso era bersaglio dei personaggi moralmente più intransigenti, data la sua già analizzata contiguità con la menzogna e l’invenzione.34 E, infatti, l’autore della FO descrive gli artifizi usati da Tristano per raggiungere i propri fini (FO vv. 783-794). Si può dire, quindi, che Tristano e i suoi espedienti siano il negativo del poeta e delle sue invenzioni. Attraverso il travestimento, le parole ed il comportamento, Tristano svilisce il proprio io: si qualifica come figlio di animali, di mostri e non come un uomo; dismette gli attributi che lo qualificano come potens per presentarsi come pauper; muta persino la propria voce, il modo in cui esprime la propria identità. Si può dire che rinuncia volutamente al proprio potere, facendo cadere la distinzione le classi sociali. Tristano mette in crisi (nel senso etimologico del termine) l’ideologia del potere e i suoi simboli esteriori, attraverso il ricorso all’inganno. Anche per questo, in un poema così imbevuto di intellettualismo, non è un caso che il suo sia proprio il travestimento del folle, ossia di colui che è fuori delle classi sociali e della società stessa. Rinunciando ad essere un cavaliere, egli rinuncia all’ideologia del potere sottesa alla sua realtà culturale nel momento stesso in cui ne depone gli attributi, i simboli esteriori e ne mette in crisi (nel senso etimologico del termine) l’esistenza stessa. Tristano è pazzo sia per finta, in quanto travestito da pazzo, sia nella realtà, per il suo amore per Isotta; retrocede da uomo a fiera a causa dei suoi sentimenti, in quanto prova un amore così smisurato da essere malattia e da spingerlo a rinunciare deliberatamente al proprio status pur di vederla. Egli è nobile ed ignobile al tempo stesso. Si spera di aver evidenziato la complessità della FO, di questo testo che solleva diverse problematiche e che tocca aspetti filosofici, linguistici, letterari, filologici, iconologici ed anche umani, nella sua narrazione di sentimenti umani e dell’eterna quête di Tristano.
Ladrer (1967: 235 sgg), Germanek (1987: 391-421) e Le Goff (1987). Geremek (1987: 412), in cui si parla soprattutto degli attori e dei cantori.
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e
Cristina Scarpino (Università del Salento - Italia)
Fonti prossime e remote del Ricettario calabrese di Luca Geracitano di Stilo (1477)1
1. Codice e testo in letteratura La comunicazione analizza la condizione testuale del Ricettario trascritto da Luca Geracitano di Stilo, un testo in prosa di argomento medicinale che, per dimensioni e caratteristiche linguistiche, può essere considerato il più ampio documento finora noto del volgare calabrese. Allo stato dell’arte il Ricettario risulta tramandato unicamente dal ms. XII E 20 della Biblioteca Nazionale di Napoli, mutilo e oggi composto da 185 delle 193 carte originarie: sono infatti cadute, per accidenti vari, le cc. 47, 48, 160, 176, 189, 190, 191 e 192. Il nostro testo occupa le attuali carte da 1r a 188v ed è vergato da una sola mano in una tipica semicorsiva, ibrida fra umanistica corsiva e cancelleresca; la scrittura delle rubriche e della sottoscrizione è una gotica elementare e incerta. Nelle ultime tre facce (cc. 188v; 193rv) una mano più tarda ha inserito altre ricette di contenuto vario.2 La data presente nella sottoscrizione (3 aprile 1477) è da considerarsi data di stesura e di assemblaggio del codice, che viene redatto, in pieno periodo aragonese, nella Locride calabrese e da qui probabilmente trasferito nella biblioteca regia. Successivamente smembrato, subisce un restauro che gli impone la veste esteriore attuale. A parte questi pochi elementi, la storia del ms. è ignota, così come ignoto è il suo copista. La prima segnalazione del codice si deve a Miola (1878: 245-246), ripreso da Migliorini / Folena (1953: 109-110), entrambi variamente utilizzati in studi successivi. L’importanza del Ricettario è stata ribadita in più occasioni da Distilo (1975: 4; 1985a: 181n; 1985b: 129; 1993: 315) e Coluccia (1993: 80; 2002: 76; 2009: 172n), in relazione ai tratti fonetici e alle tradizioni scrittorie; per riscontri testuali con il Thesaurus pauperum in Nella stesura finale di questo lavoro ho tenuto conto dei suggerimenti emersi dalla discussione, per cui ringrazio il prof. J. Trumper e i dott. A. De Angelis ed E. Guadagnini; alcune delle problematiche esposte nella presentazione orale sono state pertanto sintetizzate in nota e sviluppate in un studio parallelo (cfr. Scarpino 2011). 2 La perizia paleografica si deve alla cortesia del prof. A. Petrucci, che ringrazio. Per una descrizione più dettagliata del ms. napoletano rinvio alla mia scheda filologica redatta per la banca dati CASVI / SALVIt consultabile al sito . 1
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volgare siciliano il testo viene impiegato da Rapisarda (2001) e, in un rapido excursus di opere dedicate all’igiene e alla medicina in area mediterranea, da Musco (2003). Come strumento di attestazione e datazione lessicografica rientra tra le fonti del LEI, del DI, dei glossari brancatiani di Aprile (2001) e Barbato (2001) e delle note di commento ai Ragionamenti di Del Tufo editi da Casale / Colotti (2007).
2. Stratigrafia linguistica Se consideriamo le stratificazioni linguistiche presenti nel Ricettario possiamo constatare che i codici maggiormente impiegati sono due, non corrispondenti tuttavia a due sezioni distinte del testo: blocchi interamente in volgare si alternano a blocchi in latino e sono spesso intervallati da segmenti in cui la mescolanza tra le due lingue è tale che non è possibile stabilire confini netti, come è evidente in (1): (1)
[208] Recipe oley de costo, oley laurinj, oley gamomille, martiaton ana dramme 1 et ½, pipis, sticadon, arabici, garofolorum ana ½, cere quantum sufficit, et fiat unguentum de lo quale se ungieno li rini et la nuca de maitino et de sero et fricatur fortiter, ma, avante chi ssi onga, primo lava lo membro de lo paciente la matina et la sira co octima aqua de vite, et postea poni supra membrum pacientibus panum unum de lana bene calidum, poste ungie cum dicto unguento, teneatur supra infirmy bene calidum (c. 29v 6-16).3
Situazioni di questo tipo potrebbero in parte dipendere dalle caratteristiche strutturali del volgare della medicina, strettamente ancorato al latino nella sintassi oltre che nel lessico: la costruzione analitica tipica del volgare non soddisfa infatti l’intento essenzialmente pratico dei ricettari.4 Nel testo si rinvengono inoltre inserzioni in ebraico post-biblico5 e scrizioni di stampo latineggiante che riportano espressioni magico-religiose difficilmente interpretabili. Le prime ricorrono negli scongiuri contro il morso di serpente (brani 2 e 3, di cui il primo è una versione ridotta del secondo e si configura anche come esempio di interdipendenza testuale) e contro gli ossiuri (brani 4 e 5): Per limiti di spazio, qui e negli altri casi in cui ricorrono trascrizioni dal ms., non segnalo gli scioglimenti delle abbreviazioni e i cambi di rigo o di carta. Appongo secondo l’uso moderno maiuscole, minuscole, apostrofi, accenti e segni di punteggiatura; preciso inoltre che la numerazione delle ricette è da considerarsi ancora provvisoria. 4 Siamo in un periodo in cui il volgare è ancora ritenuto inadeguato a trasmettere i contenuti scientifici con la stessa precisione tecnica ed espositiva del latino (cfr. Agrimi / Crisciani 1993: 119). 5 L’informazione è conseguente all’analisi del dott. M. Ryzhik, che fornisce queste possibili traduzioni / trascrizioni: Sabahoct Ely Manuel [Savaot Eli Immanuel] ‹Dio di eserciti, Dio mio, Dio con noi›; Carob caron [qarov qaron] ‹t’avvicina [e] risplendi la luce›; Abram Abram Abram brotote sororim broto tontinu [Avraham Avraham Avraham barux poter serurim (o forse asurim con lo stesso significato) barux atta ado-nenu] ‹Avraham, Avraham, Avraham, benedetto chi dissolve i legati (o i «cattivati»), benedetto tu Signore nostro›; Eloe eloe la melj anatam tuteside teme ijsta telipes [Eloim Eloim melex a-[gn]olam atta tosi na rimmot mi-me-išta] ‹Dio, Dio re del mondo, tu fa’ uscire i vermi dall’intestino di donna›; Giopabent [dyo ba beten] ‹inchiostro sul ventre›. 3
Fonti prossime e remote del Ricettario calabrese di Luca Geracitano di Stilo (1477)
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(2)
Ad morso de serpente - [70] Dicatur ter Paternoster con tre Avemarie, tribj vicibus a quo dicendo ter jsta verba Carop caron redibus insanus sabaot ely manuel (c. 10r 1-4).
(3)
Ad morsu de serpenti - [233] dicatur ter Paternoster et tre Avemarie, tre volte supra tre gucti de aqua, decendo ter ista verba · carob caron redibi insanus sabahoct ely manuel · et da bire et sanus erit (c. 33v 16-20).
(4)
Ad vermes parvulorum - [315] Fac Abram Abram Abram brotote sororim broto tontinu et volesi scrivire in uno bassello di crita et lava la scrictura co aqua oy con vinu et fallo bivere allo paciente et sarrà sanu (c. 49r 1-5).
(5)
[316] Ad idem, scrive in fronte ad chi à li vermj quisti paroli Cristus vita Cristus vasiles etamus Et in pectore fac ista Litrosine rine ririe lacrosine Et in ventre ista I Eloe eloe la melj anatam tutestide ermj teme ijsta telipes I Et a la pianta di la manu I. I. I in virgulum Cristos et in plantis pedum I in virgulis Cristus dominus multipricate sunt vermes in ventre Scribe in ventre pacienti Giopabent vermes et mortuj sunt (c. 49r 6-15).
Le seconde coinvolgono essenzialmente le denominazioni dei pianeti in relazione alle caratteristiche astrali delle piante: (6)
[1287] Hec sunt nomina Veneris, videlicet: salco slifon lortoy ardeslifatoy verlliczey darmj rey filacoy (c. 150r 6-7).
(7)
[1321] Hec sunt nomina Saturnj, videlicet: astiali ardamac renu fonacij perlla madrinac ostendi frenac archesmoromac folo doromac (156v 6-8).
In percentuale la facies linguistica del nostro testo risulta così composta:
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Come viene confermato anche dal grafico, il latino non si limita a semplici frasi inserite in contesto romanzo, ma costituisce oltre un quinto del Ricettario. Si tratta di un latino ben lungi dallo standard, tipico della produzione altomedievale di testi di medicina.6 Un po’ più complessa è la caratterizzazione linguistica del volgare che, in base ad un primissimo referto linguistico, oltre all’occorrenza di elementi localizzanti di più aree del meridione continentale7 e a fenomeni di variazione strutturale8, presenta una ben riconoscibile componente toscana e alcune specificità settentrionali;9 tale compresenza di tratti geolinguisticamente eterogenei10 potrebbe spiegarsi anche con la differente veste linguistica dell’antigrafo (o degli antigrafi). Questo aspetto dell’indagine fornisce, indirettamente, informazioni sul livello culturale del copista e sull’ambiente in cui si è generato e ha circolato il nostro testo: il latino lascia intendere che il destinatario non sia composto solo dai pauperes; le formule rituali della religione ebraica e cristiana testimoniano invece la dimensione popolare dell’opera e sono un’ulteriore prova del crogiuolo di etnie e culture che caratterizza la Calabria del periodo. Nonostante la notevole commistione, è possibile individuare nel testo una scansione nell’uso dei codici linguistici, che può essere così organizzata: Rubrica
Lingua
Rubrica
Lingua
Rubrica
Lingua
Rubrica
Lingua
1-4 5-7 9-12 13 14-15 16-17
volgare latino volgare misto volgare latino
64-65 66 67-68 69 70 71
volgare misto volgare misto latino misto
138 139-141 142 143-144 145-155 156-157
volgare latino volgare misto latino volgare
200-215 216 217-228 229 230-241 242
volgare misto volgare misto latino volgare
Ciò si deduce in maniera evidente dai tratti che si discostano dalla grafia latina; ad esempio alcuni casi di h- pleonastica: hireos (c. 25r 3), hodore (c. 52v 9), honne (c. 71r 17) ecc.; la resa dell’affricata dentale sorda [ts] con , risalente già al mediolatino e diffusissima nei testi volgari meridionali (cfr. Coluccia 2002: 40 e Coluccia 2011): absincium (c. 22v 10), confecionis (c. 14r 11), consumacionem (c. 23r 5), tercium (c. 13r 16) ecc.; la resa del grafema x con : ossamellis (c. 182v 8), sassifragia (c. 6r 14), massillis (c. 12v 18) ecc. 7 Come esempio indico l’oscillazione nell’uso del dimostrativo: le forme quillo, -i, -a, -e coesistono con gli esiti chillo, -a, -e (con riduzione della labiovelare); significativa la co-occorrenza di quisti e chisse nello stesso segmento: «tolj quisti fiurj et dande la matina omne dì et la sera ad mangiarj alla donna et ingrevetarrà da poy chi pigla chisse fiurj usando con lo marito» (c. 42r 18-21). 8 Segnalo solo alcuni casi di dittongazione, distinguendo quelli in cui il dittongo è dovuto a metafonesi da quelli in cui la dittongazione in sillaba libera potrebbe anche indicare una vicinanza al toscano (accanto ad ogni forma riporto il numero delle occorrenze senza indicazione topografica): dittongazione metafonetica: fierrj (2) ~ ferrj (2), puliegio (1) ~ pulegio (3), puorri (1) ~ porri/j (22), vassiello (2) ~ vassello (1), viechio (1) ~ vechio (7); dittongazione in sillaba libera: cuoci (2) ~ coci (4), fuoco (20) ~ foco (30), fuorj (1) ~ fori (10), vuolj (1) ~ volj (17). 9 Mi riferisco in particolare a forme quali gran (3 occorrenze), idromel e indromel (2), occimel (1), tal (1), che potrebbero non essere standard terminologici, bensì effettivi casi di apocope. 10 L’espressione è impiegata da Coluccia (1994: 382) con riferimento alla situazione linguistica del Libru de lu dialagu de Sanctu Gregoriu, volgarizzamento siciliano dei Dialoghi di Gregorio Magno; sulla penetrazione di una lingua sovraregionale in Calabria si vedano le analoghe osservazioni di Librandi (1992: 757-759). 6
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Rubrica
Lingua
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Lingua
Rubrica
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Lingua
19-25 26 27-32 33 34 35 36-43 44 45-47 48 49 50 51 52-58 59-63
volgare misto volgare latino volgare latino volgare misto volgare latino volgare latino misto volgare latino
72-74 75 76 77 78 79-82 83-85 86-88 89-90 91-99 100-109 110-115 116-120 121-132 133-137
volgare latino volgare latino misto latino volgare latino volgare latino volgare latino volgare latino misto
158 159-162 163-164 165-174 175 176 177 178-180 181-184 185 186-193 194-195 196 197 198-199
latino volgare misto latino misto latino volgare latino volgare latino volgare latino volgare latino misto
243-245 246-253 254 255 256 257-264 265-389 390 391-394 395 396-409 410 411
latino volgare latino misto volgare latino volgare latino volgare latino volgare latino volgare
Per comodità e limite dello spazio a disposizione, ho scelto come parametri di misura le rubriche (in tutto 411); pur impostando la numerazione su ricette e precetti (oltre 1600), l’andamento complessivo non sarebbe cambiato. Dalla tabella emerge che la distribuzione degli intervalli numerici non ha andamento costante: a partire grosso modo dalla rubrica 200 il passaggio dall’uno all’altro codice avviene dopo un intervallo più ampio caratterizzato, dal punto di vista organico, dall’accorpamento di più prescrizioni sotto un’unica rubrica.11 Anche lo svolgimento testuale cambia, facendosi più discorsivo e compatto, al punto che è possibile isolare almeno quattro trattazioni indipendenti: 1. un ricettario di unguenti e acque balsamiche con la descrizione delle proprietà attive della pianta principale impiegata nella preparazione del rimedio (231-275); 2. un ricettario di ginecologia e farmacologia delle donne (285-290) seguito da ricette di argomento vario (291352); 3. un trattato sulle virtù di alcune piante (353-389); 4. un trattato sulle caratteristiche astrali delle piante nominate in caldeo (390). La trattazione dell’ultimo blocco, incompleta perché in questo punto il ms. è mutilo di una carta, è la più lunga del ricettario (cc. 150r-159v) e, a differenza di quanto avviene nei blocchi precedenti, è interamente in latino. Sebbene l’alternanza dei codici sia una costante del testo, la scelta di non volgarizzare un brano dal contenuto esoterico potrebbe non esser casuale, ma giustificarsi con il destinatario, che, in questo caso specifico, farebbe pensare addirittura ad un gruppo di iniziati. Tornando al rapporto latino~volgare, abbiamo accennato a episodi di interdipendenza, che raggiunge il massimo grado nei casi di traduzione. Ecco alcune corrispondenze testuali: La rubrica 346 è seguita da ben 43 indicazioni terapeutiche (cc.113v 12-116v 1), mentre nel blocco precedente il rapporto rubrica-rimedio è essenzialmente 1:1 e in un sol caso (ricetta 63) si arriva ad un rapporto 1:14. Dal mero punto di vista quantitativo, ciò spiega come mai la prima parte del Ricettario, nonostante un numero maggiore di titoli rubricati, sia compressa nelle prime 40 carte (cc. 1r-41r), mentre la seconda proceda da c. 41v alla fine.
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(8) Ad currendum panum oculorum - [192] Recipe aqua distillacionis cillidonie et supcinte et ponatur in oculo et sanat (c. 26r 12-14).
Ad levare panu dall’ochio et farillo chiaro [278] Piglia suco de li rami oy vero de li fusti di la cillidonia et punila all’ochio et sarrà sanu (c. 41r 7-9).
(9) Ad incarnacio dencium et fortificat fa questa lavenda - [242] Recipe florum granatorum, fronde de lentisco, frondi nucij gume arabici dramme 2, cinamomj dramma 1, gallarum dramma 1, mastice dramme 3, corticum granatorum dulcium, rosarum rubearum in completarum cum stipitim ana dramma 1, et bulliantur onnia cum greco fino usque ad terciam partem, et lava tiby orem de mane et sero […] (cc. 35r 7-15).
Ad fari una lavenda per confortari et incarnari li denti - [361] Piglia fiurj di granato, maczoccole de rose non aperte, pulve di corallo, frundi di lintisco, frundi di mortilla et pulve di mastice et falj bollirj con vino grandi, overo guarnacia, et mictince pulvj di cannella fina, et fallo bolirj per terczo et bulluto tu te lava la bocca collo dicto vino tre volti lo dì, et confortaracti li denti multo et li gniyeli; et èy cosa sensa dubio et certa (c. 61v 3-12).
(10) Ad siendum virtutem erba momordice seu cayrella - [349] Prima virtus quod consolidat onnem plagam; secundum virtus est quod si quis absideret auriculam equit albi et nigry et possierit albat supra nigram et eo converso statim antequam refrigie stat mediante suco dicte erbe in ore sei consolida vel in brevj tempore consolida; la tercza virtus est quod si quis colligerit istam erbam in die sancti Johannis Bactista consolidat onnem menbrum seu nerbum; quarta virtus est quod si quis summerit de dicta erba cum bono vino giegiuno stomaco si ponetur ad torturam non sentire dolorem; quinta virtus est quod si aliquj deberet pes vel manum vel alius menbrum acistidis summeret cum vino sentiret minorem dolorem; sejsta virtus est si sucus poneretur denti leso mitigat dolorem; sectimam virtus quod si quis summeret cum vino de dicta erba augierentur sibi vires ad plelium et ad onnes; aliut opus faciendum octavum modum et virtus est si quis portare supra se de jpsa erba non potest violarj et molirj; nona virtus est si quis poneret de dicta erba supra dormentes faceret eos dormire usque mane (cc. 57r 16-57v 18).
Ad sapiri la virtù de ipsa cariella seu momordica - [358] La dicta cariella primo èy consolitativa de piage, secondo piglando delle pulve con vino non si sente tormento alcuno, non pena de corda, et cossì videndosi tagliarj alcuno membro et piglandosi la dicta pulve con vino, da giegiunio, fa cressierj li forcze, adorare onne fatiga, et chi avisse dolurj de denti pigla de la dicta erba, o de lo suco, et tengalj in bucca, ca leva la doglia et conforta lj gingilj; et portando la dicta erba adosso non porrà eserj affactorato non ammagato; et mictendo di la dicta erba sucta oy supra la capo dormiray lu dupio de lo usato (c. 60v 4-17).
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I brani riportati in (9) e (10) forniscono informazioni sulla prassi traduttoria, con particolare riguardo a: – modalità tecniche: in tutti i casi, ma maggiormente nell’ultimo, nel passaggio dal testo sorgente al testo d’arrivo è evidente una contrazione dei paragrafi, probabilmente dovuta al fatto che, trattandosi di un testo prescrittivo, l’autore tende a privilegiare uno stile sintetico12; – variazioni lessicali: giustificabili con il tentativo di sostituire con piante e prodotti locali, probabilmente già sperimentati, gli ingredienti che risultano sconosciuti o difficilmente reperibili perché tipici di altri climi e di altre regioni (vediamo nel primo testo frunde nucij ~ frundi di mortilla; gume arabici ~ pulve di corallo ecc.); – scelta dei traducenti: talvolta i termini volgari non equivalgono esattamente a quelli del testo di partenza, ma sono collegabili alle credenze popolari (è il caso di violari e moliri resi con affactorato e ammagato nella versione volgare). A differenza di quanto avviene per i brani dal contenuto esoterico, tali scelte sono ulteriori segnali dell’aspetto popolare dell’opera e della composizione variegata dei suoi referenti finali.
3. Situazione testuale e autorità soggiacenti Dal punto di vista contenutistico, le oltre 1600 ricette che compongono il Ricettario calabrese possono essere suddivise in almeno quattro gruppi, che rappresentano altrettanti aspetti della medicina medievale, e precisamente: I. la medicina propriamente detta, che si rifà direttamente ai testi degli autori salernitani
di taglio eminentemente pratico (come Trotula e gli antidotari);
II. la medicina magica, basata su tecniche alchemico-ermetiche tramandate dalla
letteratura medica tardo-ellenistica;
III. la medicina sacra, basata su elementi religiosi e residui di cultura popolare; IV. l’astro-medicina, basata sulla convinzione che l’efficacia dei farmaci è dipendente
dall’influenza astrale.
Appartengono al gruppo I i rimedi per malattie acute e croniche, malattie delle donne (collegate a ostetricia, ginecologia ed estetica), elementi della fisiopatologia umorale, accenni alla flebotomia ecc.; in tutte queste ricette la cura si fonda essenzialmente sulle virtù terapeutiche delle erbe, ma anche su quelle dei minerali e degli animali, e sul salasso. In (11) riporto due ricette di estetica tratte dal testo della Scuola Salernitana attribuito a Trotula, che presentano corrispondenze con alcune ricette del testo calabrese, da cui riprendo solo la num. 24: Tale spiegazione non è la sola possibile e l’esempio potrebbe al contrario essere un segnale di quanto sia difficile scrivere di medicina in volgare (cfr. la citazione di Bresc in Rapisarda 2001: xlvii e qui stesso la n. 4).
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(11) Trotula, De dentibus dealbandis [302] Dentes sic dealbantur. Accipe marmor album combustum et ossa dactilorum combusta, et nitrum album, tegulam rubeam, sal, pumicem. De omnibus istis fac pulverem in quo lana succida involuta in panno lineo subtili; dentes interius et exterius frica. [303] Idem dentes emundat et albissimos reddit. Mulier post prandium os lavet vino optimo. Deinde bene exsiccare debet et extergere cum panno albo novo. Ad ultimum masticet cottidie feniculum vel levisticum vel petroselinum, quod melius est masticare, quia bonum reddit odorem et bonas gengiva emundat et dentes facit albissimos (Green 2009: 310, 312)*
Ricettario, Ad fare pulvere per fare bianchi li denti et incarnate [24] Pigla petrj rosse de marj dramma 1 mastice, jncenso dramma ½, cannella fina dramma quarta, garofali dramma 1, petra tosta bianca, corallo bianco dramma 1, et fa in chesta manera tucte le supradicte cose: pisa beni et configilj con meli et fallo in forma de unguento, et como ày facto pigla uno drappo di grana et fricati li denti, et poy te lava la bucca con vino fino et poy te frica li denti con una follia di salvia oy de noce; et lo dicto unguento se vo’ mecterj la sira, et tenicelo tucta la nocte co uno drappo oy carta, et la matina te lava et freca collj dicte cose (c. 4v 1-12)
Appartengono al gruppo II le ricette che contengono richiami all’esoterismo, alle pratiche alchemiche o al potere evocativo di simboli e parole –brano (12)–; per questo motivo esse sono particolarmente difficili da distinguere dalle ricette del gruppo III, in cui è tuttavia esplicito il riferimento a nomi della religione cristiana o ebraica. Queste ultime sono caratterizzate da formule rituali e da scongiuri da eseguire, con o senza amuleti, quando il medico si trova di fronte a una malattia considerata incurabile: abbiamo visto in precedenza gli esempi da (2) a (5), ai quali possiamo aggiungere (13); (12) Ad faciendum et operanudm aquam cillidonie - [357] Recipe celindonia, quam volueris quantitatem, et mictila in una pignata ad putrefarj, prima sia ben pistata la erba colla radicie, et poy sia posta la dicta pingnata coperta sucta lutamj di cavallo calda per dì 15, et po’ cavala et mictila a distillarj in una bocza co lo elambicco et quactro elimenti de cava, ciaschiuno per sé; lo primo sarrà l’aqua, lo secundo sarrà l’airo, ad modo di oglio, lo terczo lu foco, chi sarrà uno licorj et sarrà multo russo; serva ciascuno per sé in una inpulla de vitro (cc. 59v 21-60r 10). (13) Ad sisa de testa - [061] Ad idem, fa dirj la missa onnj matina et sachi lu nomu de quillo previte chi lla dice, et dì lu Paternostro insemj allo previte, et po’ quando piglasse lo dicto male et tu di all’auricha diricta allo paciente, o tale: «Yo agio auduta la missa da lo tale», et nomina lo nomo de lo sacerdoto chi ày auduta la missa quilla matina, et dì lu paternostro all’auricha de lo dicto pacienti, et sarrà sano chi non lu tocherò più; deo dante (c. 8v 12-21).
Nel gruppo IV rientrano i precetti contenenti istruzioni per la raccolta delle piante medicamentose in base alle fasi lunari e alla posizione degli astri: (14) La virtute di la verbena - [1057] Anco fece Bonaventura et mastro Rinaldo de Villanova, chi lla verbena èy de li pianete de Venus, et chi volj esserj colta ad 23 et 30 de la luna, et quando la coglie fa menssionj de chella cosa per chi la voy operary (c. 128v 6-10).
Fonti prossime e remote del Ricettario calabrese di Luca Geracitano di Stilo (1477)
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Il nostro testo dunque, più che come un testimone più o meno diretto ed esclusivo del Thesaurus pauperum di Pietro Ispano13, sembra essere un derivato tardivo (e periferico) della Scuola Medica Salernitana, perché ne riproduce il sincretismo mediterraneo14 e perché si rifà direttamente ai suoi maestri. Fra gli auctores della Scuola, il primato spetta ad Arnaldo da Villanova, espressamente citato nella rubrica iniziale del codice e richiamato in almeno altri 10 luoghi, ma vi sono riferimenti anche a Mastro Nicolao (c. 17v) e altri autori; Maestro Bartolomeo non viene espressamente citato, ma alla sua opera riconducono alcuni confronti testuali: la ricetta 171 del Ricettario si configura proprio come rimaneggiamento di un brano della Pratica di Bartolomeo. Vediamo un estratto nell’esempio (15): (15) Maestro Bartolomeo, Pratica II, 259 De colica passione - Colica passio est in intestino colon sive in intestinis ejus vicinis a quo dicitur colica, quod est continuum longaon. Hujus passionis signa hec sunt: Punctio sub umbellico, tortiones, dolores, fastidium, vomitus, etiam in quibusdam. Hujus sunt diverse cause: repletio et inflatjo cum ventosi tate et viscoso fleumate aggregato, egestiones ibi existentes inviscate cum duritia, ex calore, ex siccitate, sicut ex stiticis cibis vel fructibus, ut mespile, vel caseo et consimilibus, vel es apostemate ibidem inato [...] (De Renzi IV: 393-394).
Ricettario, Ad collica passio – [171] Collica passio dicitur colon intestimo quod est grossum et sup in billico positum fit autem ista passio quandoque apostemate jpsius intestina et tunc connossitur per formam apostematis que visui apparet, quod que habet fierj ex umore freumatico collecta in illa intestina cum grossa untositate, vel ventositate quod connositur per algorem et ad gravacionem in profundo, ecciam per educionem freumaticarum et mucillaginum […] (cc. 22r 13-22).
Questa «vicinanza» alla Scuola di Salerno, o comunque all’ambiente campano, potrebbe essere segnalata anche da elementi per così dire extralinguistici; mi riferisco in particolare a un episodio riportato come exemplum dell’efficacia di una ricetta (tecnica non infrequente in questa tipologia testuale): (16) [765] Et nota che, nellj millj e quactrocentoquarantaduj fu unu a Ssorrento giovenj de Castello ad Mare; per caso cum uno curtellino se fe una ferita in l’ocho et crepaulj tucto l’ochio ad hora de tercza; ad ora de vespere fo prisa la dicta erba et pistata jnfra duj petrj vivj et infaxata all’ochio, la matina fo trovato sanu et fonchi trovato dove fo lu corpo de lo curtello ad modo de uno filo de spaco de carnimj, et postove per certi medice, da matina et da sera parichie gochiolj de canfora, in tre dy rieby l’ochio bellissimo como di primo, et yo più volti lo vidy et guardailo per maravigla, tanto era necto, et la dicta erba è bona sicca et verde in talj esperiencia (c. 101r 2-17).
Si veda a questo proposito la questione filologica posta in forma aperta e problematica da Rapisarda (2001: 154-155). 14 Come nel canone originario della Scuola, anche nella genesi e nella strutturazione del Ricettario vi è la fusione di culture diverse: latina, greca, ebraica e araba. 13
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Significativa, insieme alla denominazione localizzante, la data 1442, molto vicina a quella della composizione del nostro codice. Pietro Ispano, autorità indiscussa del coevo Thesaurus pauperum in volgare siciliano e autore esterno alla Scuola salernitana15, viene citato una sola volta nel Ricettario calabrese, precisamente nella rubrica 260 Aqua qui fit ex metalis per Petrum Ispanum composita. Al contrario di quanto avviene per l’Ispano, l’insegnamento di Arnaldo è percepibile in tutto il testo, e non è limitato ai richiami espliciti rintracciabili in alcune ricette. Esiste una presenza sommersa di questo autore e dei suoi insegnamenti che va ricercata nella dimensione esoterica di una buona parte dell’opera, nella citazione di filosofi-alchimisti collegati alla biografia di Arnaldo (Alberto Magno e Raimondo Lullo) e ai suoi studi (Aristotele e Galeno)16, o ancora nelle affermazioni che richiamano i precetti teorici del Villanova in relazione all’alchimia. Valgano per tutti i seguenti esempi: (17) [207] poco homenj si trovano chi ssapiano farj quista quenta essencia, et piglati l’aquavite chi ssia perfecta et bona, sensa frevina alcuna et in questa aqua ponite le dicte erbe et facite como è dicto di supra, et quista aqua use onne matina fine chi ssarrà guarito, per quista malatia non si pò cussì presto sanarj, et dali più de li medice è ttenuto mali incoralibile; fate che le dicte erbe siano reduce in pulve ben soctili (c. 29r 18-29v 3). (18) [1396] De quisto so’ provati per più soplennj filosophi, et non de starj in dubio chi sso verissimj, et èy cosa secretissima et non lla impararj ad medico, chi pagariano multo per sapirila sapendo la sua virtute (c. 169v 5-8).
I segmenti in corsivo possono essere considerati trasposizioni dell’epistemologia arnaldiana in relazione alla relativa autonomia della medicina dalla filosofia;17 ciò è evidente nella distinzione tra il medico propriamente detto e il filosofo-alchimista, ma anche nell’impiego degli elementi lessicali collegabili all’alchimia, cioè quenta essencia e aquavite. Questa dimensione manca nel Thesaurus siciliano, che si differenzia dal testo calabrese anche per l’impianto più stabile e compatto e per la veste linguistica (più omogenea e fortemente marcata in senso locale nel Thesaurus, più complessa e non priva da tratti sovralocali nel Ricettario). Sebbene la presenza di Arnaldo sia ben attestata, il Ricettario già al suo inizio si prospetta come un assortimento di estratti di autori diversi: la rubrica iniziale recita proprio Incomenczia uno recetario conposto per mastro Rinaldo de Villa Nova et de altri solenni medici (c. 1r 1-4). Nell’allestimento di quest’opera sembra infatti realizzarsi un’antologia costruita come proiezione della Scuola di Salerno, non si sa se dipendente da un disegno progettuale preciso, come lascerebbe intendere il poscritto di c. 188v del ms.: Finito libro 7. Allo stato attuale dell’analisi è difficile stabilire se il numero 7 si riferisca a sette specifiche porzioni del testo (la cui scansione interna non sembra però individuata dalla 6 iniziali filigranate che ho individuato nel ms.) oppure al settimo libro di un progetto enciclopedico più ampio, ipotesi non del tutto inverosimile, considerando che l’attività di trascrizione A differenza di Arnaldo da Villanova, citato a p. 337, Pietro non compare nel novero dei medici del collegio di Salerno pubblicato da De Renzi (III: 323-346). 16 Tutte queste autorità sono nominate nel Ricettario: Alberto Magno alle cc. 163v 12 e 167r 18; Raimondo Lullo a c. 29r 6-7; Aristotele alle cc. 135r 6 e 178v 15; Galeno a c. 166r 16. 17 Si veda l’argomentazione sviluppata a più riprese in Agrimi / Crisciani (1993). 15
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e traduzione è ben sviluppata in Calabria. Proprio con riferimento ai testi di medicina è interessante l’affermazione di Ficcadori (1996: xliv) a proposito dell’attività dei copisti calabresi, in particolare quella di Niccolò da Durazzo, ultimo vescovo greco di Crotone, operativo nel XIII secolo, che nel testamento riferisce di VIII libri phisicorum: Ficcadori considera misteriosi questi libri e si chiede se «non contenessero appunto scritti di phisici, ossia di medici»; se così fosse il 7 apposto dal nostro copista potrebbe riferirsi alla stessa raccolta. Ritengo tuttavia più probabile che, essendo Niccolò di Durazzo un traduttore dal greco, la «misteriosa» scritta si riferisca agli otto libri della Fisica di Aristotele, ma andranno effettuate delle verifiche in tal senso.
4. Considerazioni conclusive Situazioni testuali così complesse, rendono difficile risalire alla fonte diretta del Ricettario. Le possibili convergenze –contenutistiche o letterali– tra opere consimili (mi riferisco in particolar modo al Thesaurus Pauperum in volgare siciliano), per quanto indubbie, non sono forse sufficienti a garantire l’esistenza di un legame genetico diretto; ciò diviene ancor più complicato quando sono in gioco testi i cui antecedenti remoti sono caratterizzati da una diffusione sovraregionale e sovranazionale, che ne ha spesso smembrato l’assetto originario, ma che talvolta lo ha anche conservato. Consideriamo quest’ultimo caso: (19) E ite se lla pulcella in sua fanciulleçça s’ugnesse le pope chon sugho di cicuta, fieno sempre piciole e dure e ritte (Libro dei Drittafede, 1361, c. 6r 31-32).18 (20) Anco sy una citella virginj se ungie le menne spisse fiate de suco de cecuta, sempre l’averà erte et piccoli (Ricettario calabrese, 1477, c. 81r 16-18, num. 564). (21) Item una citella virgini, si ungirà spissi volti la mammilla di sucu di cicuta, li avirà sempre irti et pichirilli (Thesaurus pauperum siciliano, sec. XV, num. 155.5).
I tre brani riportano la stessa ricetta; il primo appartiene al libro dei Drittafede, zibaldone fiorentino datato 1361 e quindi precedente ai due testi meridionali. Tale convergenza potrebbe essere del tutto casuale o dovuta alla notorietà dell’efficacia del rimedio prescritto. Da un punto di vista intertestuale non va scartata l’ipotesi –già delineata in relazione alla stratigrafia linguistica– che, come accade per testi di varia natura (religiosi, filosofici, ma anche letterari), l’antigrafo alla base dei volgarizzamenti meridionali sia un testo già toscanizzato: solo un’analisi linguistica a tutto tondo, che esamini «in filigrana» la lingua del Ricettario, potrebbe farci capire se la componente di matrice toscana in esso presente sia un lascito della versione precedente o rappresenti invece un segno del volgersi verso il modello toscano avanzante da parte del redattore calabrese.
Cito dall’edizione Artale (2005: 185).
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Cristina Scarpino
Le ipotesi interpretative qui esposte, che poggiano in prevalenza su riscontri testuali, vanno intese come prospettive preliminari di una ricerca più ampia e sono pertanto suscettibili di modifiche, integrazioni e sviluppi, da effettuarsi partendo dall’analisi linguistica, che procederà parallelamente allo spoglio dei documenti d’archivio e al riesame delle fonti.
Riferimenti bibliografici Agrimi, Jole / Crisciani, Chiara (1993): Medicina e filosofia naturale nel Medioevo. In: Abbri, Ferdinando / Mazzolini, Renato G. (edd.): Storia delle Scienze 3. Natura e vita. Dall’antichità all’Illuminismo. Torino: Einaudi, 102-149. Aprile, Marcello (2001): Giovanni Brancati traduttore di Vegezio. Edizione e spoglio lessicale del ms. Vat. Ross. 531. Galatina (Le): Congedo. Artale, Elena (2005): Scritture inedite dal libro dei Drittafede. In: BOVI 10, 176-202. Barbato, Marcello (2001): Il Libro VIII del Plinio napoletano di Giovanni Brancati. Napoli: Liguori. Casale, Olga / Colotti, Maria Teresa (edd.) (2007): Gioan Battista Del Tufo, Ritratto o modello delle grandezze, delizie e meraviglie della nobilissima città di Napoli. Roma: Salerno. Coluccia, Rosario (1993): Gli esordi del volgare in Puglia tra integrazione e spinte centrifughe. In: Trovato, Paolo (ed.): Lingue e culture dell’Italia meridionale (1200-1600). Roma: Bonacci, 73-92. ― (1994): Il volgare nel Mezzogiorno. In: SLIE 3, 373-405. ― (2002): Scripta mane(n)t. Studi sulla grafia dell’italiano. Galatina (Le): Congedo. ― (2009): Migliorini e la storia linguistica del Mezzogiorno (con una postilla sulla antica poesia italiana in caratteri ebraici e in caratteri greci). In: SLI 35, 161-206. ― (2011): Voce Scripta. In: Raffaele Simone (ed.): Enciclopedia dell’Italiano diretta da Raffaele Simone. Roma: Istituto dell’Enciclopedia Italiana, II, 1287-1290. De Renzi, Salvatore (ed.) (1852-1859): Collectio Salernitana, ossia Documenti inediti e trattati di medicina appartenenti alla Scuola medica salernitana (5 voll.). Napoli: Sebezio. DI: Schweickard, Wolfgang (1997ss.): Deonomasticon Italicum. Dizionario storico dei derivati da nomi geografici e da nomi di persona. Tübingen. Distilo, Rocco (1975): Due testi poetici rossanesi del primo ’400. Modena: STEM Mucchi. ― (1985a): Tradizioni greco-romanze dell’Italia meridionale. In: CN 45, 171-200. ― (1985b): Per un’analisi della dinamica dialetto / lingua nel medioevo italiano meridionale. Il recupero documentario. In: ACISLI XVI, 125-146. ― (1993): Scripta greco-romanza tra Calabria e Sicilia. Uno scongiuro terapeutico. In: Trovato, Paolo (ed.): Lingue e culture dell’Italia meridionale (1200-1600). Roma: Bonacci, 309-325. Ficcadori, Gianfranco (1996): Umanesimo e grecità d’Occidente. In: Ficcadori, G. / Eleuteri, Paolo (edd.): I greci in Occidente. La tradizione filosofica, scientifica e letteraria dalle collezioni della Biblioteca Marciana. Venezia: Il Cardo, xvii-lxxv. Green, Monica (2009): Trotula. Un compendio medievale di medicina delle donne. Firenze: SISMEL / Edizioni del Galluzzo. LEI: Pfister, Max / Schweickard, Wolfgang (edd.) (1984ss.): Lessico etimologico italiano. Wiesbaden. Librandi, Rita (1992): La Calabria. In: Bruni, Francesco (ed.): L’italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali. Torino: UTET, 751-797. Migliorini, Bruno / Folena, Gianfranco (1953): Testi non toscani del Quattrocento. Modena: Società Tipografica Modenese.
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Lydia A. Stanovaïa (Université D’État Herzen, Saint-Pétérsbourg, Russie)
Étude verticale et horizontale de manuscrits de l’ancien français
Pour l’étude de la morphologie nominale de l’ancien français, nous avons utilisé, entre autres, deux méthodes que nous avons dénommées verticale et horizontale.
1. La méthode, ou l’étude horizontale La méthode, ou l’étude horizontale, est basée sur la comparaison des manuscrits qui présentent des variantes et des versions de la même œuvre littéraire ou administrative, mais qui sont exécutés par des copistes différents, à des époques et dans des régions différentes. L’étude horizontale de variantes manuscrites d’une œuvre littéraire, permet de distinguer et de systématiser d’après la chronologie, le dialecte et la scripta1, les formes variatives qui expriment la même signification grammaticale ou lexicale. La méthode horizontale est largement utilisée en textologie où on s’en sert pour étudier la variation textuelle d’une œuvre littéraire, et pour établir la parenté ou, au contraire, la divergence de variantes et de versions manuscrites conservées. Les stemmes, ou stemma, composés par suite de ces études, présentent, sous une forme schématique, les rapports établis par des chercheurs entre les variantes manuscrites conservées et non-conservées. Inspirée par des recherches textologiques, notamment par la distinction établie par plusieurs chercheurs entre ‹la langue de l’auteur› et ‹la langue du copiste›, nous nous sommes adressée à l’étude horizontale de variantes manuscrites pour établir, d’abord, et comparer, ensuite, les systèmes de la déclinaison nominale ‹de l’auteur› et ‹des copistes›. Étant donné que la destruction de la déclinaison nominale est décrite dans plusieurs ouvrages comme un processus progressif, allant d’un dialecte à l’autre, de l’ouest (l’anglonormand) à l’est (le picard et le lorrain), à partir du XIe (cf. Borodina 1965: 33; Dauzat 1956: 275; et al.), ou du XIIe siècle (cf. Brunot 1966: 336; Buridant 2000: 75; Chichmarev 1952: 41; et al.), la comparaison de formes nominales, employées dans un texte original reconstruit et dans ses variantes manuscrites conservées, aurait permis de suivre, dans le Par le terme scripta, ou tradition écrite régionale, introduit par L. Remacle (1948), nous entendons une variété régionale de l’écriture, par le terme dialecte - une variété régionale de la langue. Une scripta est un amalgame très complexe et compliqué du discours et de l’écriture. La corrélation entre un dialecte et une scripta est identique à celle qui existe entre le langage et l’écriture. Nous employons le terme scripta comme un féminin invariable (cf. Stanovaïa 2003).
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Lydia A. Stanovaïa
temps et dans l’espace, la supplantation graduelle de formes de CS (Cas Sujet) par celles de CR (Cas Régime), d’une construction syntaxique à l’autre, ou d’un groupe de noms à l’autre, et par conséquent, de préciser les détails et les particularités du changement en question. Pourtant, examinant des recherches textologiques, nous nous sommes rendue compte que les textes archétypiques, ou originaux, reconstruits par des philologues quelques siècles plus tard, sont plutôt hypothétiques que témoins de l’époque. Par conséquent, visant à obtenir des résultats fiables, nous avons refusé d’analyser les textes ‹reconstruits›, ainsi que distinguer l’usage linguistique antérieur, c’est-à-dire celui ‹de l’auteur›, vs les postérieurs, c’est-à-dire ceux ‹des copistes›, et de les confronter, afin de suivre les changements linguistiques en cours. Nous sommes persuadée que seuls les textes manuscrits conservés, exécutés par les sujets parlants et écrivants2 de l’époque, constituent l’unique matière d’étude objectivement donnée, ou, reproduisant les paroles de J. Bédier (1927: 251), grand textologue et philologue français, «seul le manuscrit représente quelque chose qui fût de la vie». Bien que nous ayons refusé d’analyser les textes ‹reconstruits›, ou de distinguer l’usage ‹de l’auteur› de ceux ‹des copistes›, nous avons trouvé dans les recherches textologiques beaucoup d’éléments très fructueux, parmi lesquels la méthode horizontale qui permet d’effectuer une étude détaillée et profonde de la variation linguistique. En comparant des textes manuscrits, ligne par ligne ou vers par vers, nous avons relevé des formes linguistiques variatives, employées dans des contextes identiques ou semblables, pour exprimer la même signification grammaticale. Étant donné que la date et le lieu de l’exécution de manuscrits sont déterminés plus ou moins précisément, nous avons systématisé les formes distinguées d’après la chronologie, le dialecte et la scripta, la fonction stylistique ou pragmatique, et nous avons largement utilisé ces données dans nos recherches. Par exemple, comparant des contextes identiques ou semblables, nous avons essayé, mais en vain, de saisir les facteurs favorisant l’emploi de formes casuelles dites ‹fautives›, c’està-dire, de formes du CR exprimant la signification du CS, ou, plus rarement, de formes du CS exprimant la signification du CR. Cette tâche a été conditionnée par les suppositions de chercheurs que les soi-disant ‹fautes contre la déclinaison›3 sont provoquées, par exemple, par la postposition du sujet, ou au contraire, par la préposition de l’attribut; ou par la ‹virtualité› du nom (Guiraud 1962), ou par l’‹irréalité› du sujet (Moignet 1966), etc. Pourtant, nous n’avons pas trouvé d’exemple où l’emploi de la forme du CR en fonction de sujet ou d’attribut, soit lié au changement de l’ordre de mots, ou à la présence ou l’absence de l’article, ou à un autre facteur proposé par des chercheurs. À partir de nos études horizontales d’une vingtaine de textes littéraires, nous avons conclu que l’emploi de formes du CR au lieu de celles du CS ne dépendait pas de facteurs sus-mentionnés. Cette conclusion a été pleinement confirmée par l’étude d’autres textes manuscrits. Par contre, il y a beaucoup d’exemples où les formes du CS en -s / sans -s varient dans les phrases identiques ou semblables. Par exemple, dans les manuscrits du XIIIe siècle du texte les Quatre âges de l’homme. Traité moral de Philippe de Navarre:
Nous avons introduit le terme homo scribens en tant que sujet écrivant qui fait le pendant du terme répandu homo loquens en tant que sujet parlant. 3 Voir la critique du terme ‹fautes contre la déclinaison› dans Buridant (2000: 75). 2
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1) dont mal et domage puest venir (P., B.N., f.fr. 15210, P., B.N., f.fr. 28260); dont max et domage pueent avenir (P., B.N., f.fr. 12581); dont max et damages pueent avenir (P., B.N., f.fr. 24431); dont maus et damages puent venir (Metz, 535). 2) de vilainne parole aviennent granz maus (P., B.N., f.fr. 15210, P., B.N., f.fr. 28260); de vilainne parole aviennent granz mal (Metz, 535). 3) ainz doit raisons estre dame et volantez dessouz ses piez (P., B.N., f.fr. 12581); ainz doit raisons estre dame et volantez dessouz ses piez (P., B.N., f.fr. 24431); ainz doit reison estre dame et voulente dessouz ses piez (P., B.N., f.fr. 15210); ainz doit raisons estre dame et volonte dessouz ses piez (P., B.N., f.fr. 28260); ainz doit raisons estre dame et volonteis dessouz ses piez (Metz, 535).
Dans les exemples cités, il y a les formes ‹mal›, sans -s au CS sg, et ‹granz maus›, en -s au CS pl, qu’on considère d’habitude comme ‹fautives›, à l’opposition de formes ‹correctes› ‹max, maus›, en -s au CS sg, et ‹grant mal›, sans -s au CS pl, et les formes variatives en -s / sans -s au CS sg: damages ~ domage, raisons ~ reison, volantez, volonteis ~ volonte. Nous avons nommé étymologiques les formes sans -s au CS sg (domage, raison, volante) et en -s au CS pl (domages, raisons, volantez) tenant compte de leur parenté étymologique avec des formes correspondantes du latin classique et vulgaire, à l’opposition de formes en -s au CS sg (damages, raisons, volantez) et sans -s au CS pl (damage, raison, volante), que nous avons dénommées analogiques, pour souligner leur caractère analogique, unifié selon le paradigme des masculins du type ‹chevalier›.4 Il faut remarquer que cette distinction de formes étymologiques vs analogiques est plutôt méthodologique, destinée à leur systématisation en synchronie, c’est-à-dire, en ancien français. L’emploi de formes étymologiques neutralise toute opposition casuelle: raison = CS, CR sg (< ratio, rationem); raisons = CS, CR pl (< rationes), par contre, l’emploi de formes analogiques reconstruit les oppositions casuelles: CS sg raisons (plus +s): CR sg raison, CS pl raison (moins -s): CR pl raisons. Pourtant, les formes étymologiques ne sont pas irrégulières, ou fautives, aussi bien que les formes analogiques ne sont pas régulières, ou correctes: ce sont des formes différentes, mais grammaticalement égales, car elles expriment correctement la même signification grammaticale. Cela signifie que ce sont des variantes étymologiques et analogiques de formes grammaticales du CS. Nous avons constaté une corrélation évidente entre la fréquence de variantes analogiques et étymologiques et la provenance régionale de manuscrits. Par conséquent, nous avons distingué deux types de normes scripturales que nous avons dénommées comme la norme analogique et la norme étymologique. Dans les scripta du type analogique, les copistes tâchaient d’unifier toutes les formes nominales d’après le modèle ‹chevalier›, c’est-à-dire, -s au CS sg et CR pl (chevaliers, peres, flors); -ø au CR sg et CS pl (chevalier, pere, flor); dans les scripta du type étymologique, les Il y a des discussions sur l’étymologie de formes en question. Par exemple, selon Brunot (1966: 180-181), le -s au CS sg des masculins en -e est toujours analogique, tandis que le -s des féminins en consonne peut être analogique, aussi bien qu’étymologique. Selon Schøsler / Van Reenen (1991), le -s au CS sg des féminins en consonne est toujours étymologique.
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copistes tâchaient d’employer les formes étymologiques du latin classique et vulgaire, c’està-dire, -s au CS sg et CR pl (chevaliers); -ø au CR sg et CS pl (chevalier), -ø au CS sg et CR sg (pere, flor); -ø / -s au CS pl (pere/s), -s au CS pl et CR pl (flors). Il est à remarquer que la variation touche seulement les formes du CS, par opposition de formes du CR qui sont d’une uniformité parfaite. Malgré le désir de copistes de suivre un modèle donné, la quantité de variantes analogiques vs étymologiques varie d’un manuscrit à l’autre au sein d’une scripta, et d’un groupe de substantifs et d’adjectifs à l’autre, surtout selon le nombre et le genre: tout manuscrit contient, en quantité variable selon la scripta, des formes analogiques et étymologiques. Par conséquent, nous avons rapporté au type analogique les scripta où la quantité de formes analogiques dépassent 50%, au type étymologique - les scripta où la quantité de formes analogiques ne dépassent pas 50% (cf. Stanovaïa 1994; 2007). Le type analogique est propre aux scripta picardes, wallonnes, bourguignonnes (sauf celles d’Avallon et d’Autun5), messine (une scripta lorraine), à celles de plusieurs régions de l’Ilede-France6 (surtout des scriptoria). Le type étymologique est propre aux scripta normandes, anglo-normandes, lorraines (sauf messines), bourguignonnes d’Avallon et d’Autun, à celles d’autres régions de l’Ile-de-France (surtout des chancelleries). Si on revient aux exemples cités, on pourra voir, d’une part, la différence entre les normes scripturales analogiques et étymologiques, et de l’autre, l’hésitation des copistes dans le choix de variantes analogiques ou étymologiques: P., B.N., f.fr. 15210: CS sg mal domage raison voulenté CS pl granz maus P., B.N., f.fr. 28260: CS sg mal domage raisons volonté CS pl granz maus P., B.N., f.fr. 12581: CS sg max domage raisons volantez P., B.N., f.fr. 24431: CS sg max damages raisons volantez Metz, 535: CS sg maus damages raisons volonteis CS pl granz mal
norme étymologique norme analogique
L’étude horizontale a démontré que les manuscrits d’un texte diffèrent normalement selon les normes scripturales. Par exemple, parmi les manuscrits étudiés du texte Les Enfances Vivien, composé à la fin du XIIe siècle en Ile-de-France, deux manuscrits (A et D) sont du type analogique, et trois (B, C et P en prose) du type étymologique. Le tableau ci-dessous indique les caractéristiques chronologiques et régionales du texte et des manuscrits, le type de la norme scripturale, le total de ‹fautes›, c’est-à-dire, le pourcentage de formes du CR exprimant la signification du CS, par rapport à toutes les formes employées dans les fonctions de sujet, d’attribut, etc; le minimum (min.) et le maximum (max.) de ‹fautes› selon les parties de discours différents.
A la base de chartes des XIIIe-XIVe ss. (Philipon 1910-1914). Nous employons les termes francien et l’Ile-de-France, malgré des critiques violentes, pour les raisons suivantes: 1) nous nous sommes basée sur les caractéristiques régionales et chronologiques de manuscrits, établies par leurs éditeurs, sans corriger la terminologie utilisée; 2) la quantité de dialectes et de scripta des régions centrales, aussi bien que leurs contours, restent toujours discutables. Nous nous sommes basée sur la classification de Ch.-Th. Gossen (1967) qui a distingué 7 scripta centrales: l’Ile-de-France, Compiègne, Valois, Senlis, Orléans, Soissons, Berry.
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Le texte des Enfances Vivien fin XIIe s. Ile-de-France norme total min.-max.
C: P., B.N., f.fr. 1449
D: L. Br.M., R 20D.XI
B: P., B.N., f.fr. 1448
P: P., B.N., f.fr. 796
autour de 1250 Ile-de-France en vers étymologique 50% 35-64%
A: Boulognesur-Mer, B.M. 192
début XIVe s.
16 avril 1295
1250-1300
XVe s.
Ile-de-France en vers analogique 25% 5-45%
Picardie en vers analogique 25% 5-45%
Lorraine en vers étymologique 30% 17-54%
Ile-de-France en prose étymologique 63% 40-85%
La variance de l’usage linguistique du texte des Enfances Vivien dans l’étude horizontale est évidente: les variantes manuscrites diffèrent considérablement par l’usage de formes nominales dites ‹casuelles›: dans les manuscrits C et P, la déclinaison nominale est fortement détériorée, tandis que dans les manuscrits A et D, elle est soigneusement régularisée selon le modèle ‹idéal› du type ‹chevalier›. Ce phénomène de variance de l’usage linguistique d’un texte littéraire, selon ses variantes manuscrites différentes, est bien connu en textologie. Les textologues l’expliquent par l’exécution même des manuscrits, car les copistes changeaient, parfois considérablement, le texte copié. Par ces changements, le texte du manuscrit exécuté s’éloignait de plus en plus de son protographe, sans parler de l’original (cf. Bruns 1980; Segre 1976; Zumthor 1987; et al.). Pourtant, il est impossible de considérer les variantes manuscrites comme des dégradations tardives d’un texte parfait à l’origine. J. Rychner (1960, I: 40) a souligné que «les variantes de copiste ne sont nullement des fautes de copie; elles n’engagent pas l’acte même de la copie visuelle, mais une opération [...] d’ordre intellectuel [...]». Notre étude horizontale le confirme pleinement. La variante poétique C du milieu du XIIIe siècle, bien que la plus ancienne et chronologiquement la plus proche de l’original,7 contient plus de ‹fautes› que les postérieures A, B, D de la fin du XIIIe-début du XIVe siècles. D’autre part, le min. de ‹fautes› distingue la variante picarde A et la variante francienne D. Il s’ensuit que la rareté, ou au contraire, la fréquence de ‹fautes› n’est pas conditionnée par l’époque de l’exécution du manuscrit, ni par sa proximité ou l’éloignement chronologique de la date supposée de la création d’un texte littéraire: l’usage de formes nominales dites ‹casuelles› est conditionnée, en premier lieu, par la provenance régionale de manuscrits et par le type, analogique ou étymologique, de la norme scripturale. Cette conclusion est conforme à celles d’autres études, y compris les nôtres (Stanovaïa 1984; 1994), qui prouvent que des variantes manuscrites antérieures présentent très souvent un état de la déclinaison plus détérioré que celui de manuscrits postérieurs, et que les manuscrits picards, messins et certains franciens se distinguent par le min. de ‹fautes›. Citons-en quelques exemples: 1) le miracle de Gautier de Coinci De Saint Bon evêque de Clermont est transcrit dans 28 manuscrits des XIIIe-XIVe siècles; la déclinaison la plus détériorée se constate dans le plus ancien (P., B.N., f.fr. 2163), exécuté en 1266 au scriptorium de l’abbaye de Moriguy près d’Etampes (Lozinski 1938: 52); 2) de six manuscrits des Miracles de Notre Dame Le décalage chronologique entre la date supposée de la création de la chanson épique les Enfances Vivien (fin du XIIe s.) et celle de l’exécution des manuscrits conservés qui nous présentent son texte (XIIIe-XVe ss.), est de 50 à 300 ans.
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de Soissons par Gautier de Coinci, le manuscrit picard du XIVe siècle (P., B.N., f.fr. 22928) est le moins ‹fautif›: sur 1800 vers, il n’y a que 5 ‹fautes›, tandis que dans les manuscrits franciens du XIIIe siècle il y en a jusqu’à 165 (Lindgrem 1963: 26-32); 3) de 9 variantes manuscrites de la Prise d’Orange, l’emploi le plus régulier des formes dites ‹casuelles› ne caractérise pas les variantes des plus anciens (mss P., B.N., f.fr. 774; P., B.N., f.fr. 1449), exécutés au milieu du XIIIe siècle, mais celles de deux manuscrits picards (mss Boulogne-sur-Mer 192; L., Br.M., R 20D.XI) exécutés à la fin du XIIIe et au début du XIVe siècles (Régnier 1966: 12-43). Il arrive que dans les manuscrits picards, l’emploi de formes dites ‹casuelles› devienne, avec le temps, encore plus régulier, par exemple, de deux variantes picardes de Huon de Bordeaux, le manuscrit antérieur (Tours 936), exécuté autour de 1250, contient sur 10552 vers, 40 ‹fautes›, dont 23 sont confirmées par la mesure et 10 sont dues à l’hypercorrection, c’est-à-dire, à l’emploi de formes du CS au lieu de celles du CR, tandis que le manuscrit postérieur (Turin LII, 14), exécuté en 1311, n’en contient que 9 (Ruelle 1960: 25-48). Cette ‹belle régularité› de l’usage scriptural picard est bien connue, elle a conditionné la conception dialectale de la chute de la déclinaison bi-casuelle allant de l’ouest à l’est. Tous les chercheurs soulignent l’attention extrême de copistes picards à rendre la déclinaison nominale particulièrement régulière. Par exemple, J.-L. Leclanche (1980: 26-28) a conclu que «les copistes des ateliers picards du XIIIe siècle ont systématiquement ‹régularisé› la syntaxe d’accord et l’emploi des formes de la déclinaison». Ch.-Th. Gossen (1971), parmi les faits témoignant du ‹conservatisme› et du ‹formalisme› de copistes picards, a cité l’emploi de formes du CS dans les manuscrits picards jusqu’à la fin du XVIe siècle. Il a caractérisé les manuscrits picards comme exemple «d’un mirage linguistique», où très rarement «la réalité linguistique triomphe sur le formalisme des scribes» (Gossen 1962: 289). Admettant que tout manuscrit caractérise, en premier lieu, la tradition écrite, ou scripta de l’époque et de la région où il a été exécuté, et que la norme constitue une caractéristique immanente de la langue, nous avons lié la variation observée de formes nominales à la différence de normes scripturales analogiques et étymologiques.8 Bien que nous n’ayons pas établi de corrélation entre l’époque de l’exécution de manuscrits et l’étape de la désintégration de la déclinaison synthétique nominale, l’étude horizontale d’autres phénomènes grammaticaux a démontré une évolution linguistique, plus ou moins évidente. Par exemple, étudiant la variation de formes étymologiques et analogiques des adjectifs au féminin, nous avons remarqué l’expansion lente, mais sûre, de formes en -e. Citons les exemples suivants fixés dans les variantes manuscrites (A: ms P., B.N., f.fr. 4780, fin du XIIIe s., est ~ lorrain, В: ms P., B.N., f.fr. 368, première moitié du XIVe s., est ~ lorrain; С: ms Londres 15E.VI, première moitié du XVe s., ouest) de la chanson épique Simon de Pouille, composée dans la deuxième moitié du XIIe siècle (Baroin 1978, 1: 89): C1552: par grande faulcete // A542, B2046: et por grant fausete C1412: Telle chose vous diray // AB: tel chose vos dirai C1465: onque telle ne fu // A450: onc teuz ne fu veue À partir de nos études, nous avons conclu que la déclinaison nominale synthétique comme système grammatical s’était désintégrée en Gaule vers les IXe-Xe siècles. Les scripta françaises, nées au sein et à la base des scripta latines, avaient gardé, de façon différente, les traces de la déclinaison latine ruinée. Il y avait deux normes dans sa représentation graphique: la norme analogique et la norme étymologique. Le changement de normes scripturales est observé dans les manuscrits français à partir du XIVe siècle (cf. Skrélina/Stanovaïa 2001; Stanovaïa 1984; 1994; 2007).
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Nous y voyons la variation que l’on peut nommer chronologique, témoignant de l’évolution de formes analogiques des adjectifs au féminin (grant → grande; tel, teuz → telle) depuis la fin du XIIIe siècle (A) et la première moitié du XIVe siècle (В) jusqu’à la première moitié du XVe siècle (С). L’étude horizontale fait voir que la variation de l’usage linguistique d’un texte selon ses manuscrits conservés est conditionnée, en grande partie, par les copistes qui ont rédigé des manuscrits analysés suivant les règles, ou normes de leurs scripta. Par conséquent, l’étude horizontale sert à découvrir, d’une part, les caractéristiques linguistiques des scripta d’époques et de régions différentes, et de l’autre, les particularités scripturales d’un phénomène ou d’un changement linguistique.
2. La méthode, ou l’étude verticale La méthode, ou l’étude verticale, est basée sur la comparaison des textes d’œuvres littéraires différentes, composées à des époques et dans des régions différentes, mais transcrites dans un même manuscrit. L’étude verticale d’un manuscrit exécuté, normalement, dans la même époque et dans la même région, permet de distinguer des formes spécifiques du dialecte et de la scripta de la région, où le manuscrit analysé a été exécuté. En même temps, elle permet de saisir les raisons qui ont stimulé des copistes en tant que sujets parlants et écrivants de l’époque, de choisir telle ou telle forme linguistique, et par conséquent, d’établir les normes scripturales, réglant ou conditionnant leur travail. Réunissant les résultats de plusieurs recherches textologiques, philologiques, dialectologiques et scriptologiques, y compris les nôtres, nous avons conclu que les normes scripturales se distinguaient, en particulier, par: 1) le type analogique ou étymologique de la représentation graphique de la déclinaison nominale bi-casuelle, 2) la quantité de formes régionales, 3) l’attitude de copistes envers le(s) protographe(s). Pour l’illustrer, reportons-nous aux résultats de l’étude verticale de deux textes littéraires des Enfances Vivien et de la Prise d’Orange, fixés dans les mêmes manuscrits. Le tableau ci-dessous indique: 1) le type de la norme scripturale, 2) le total de ‹fautes›; 3) le min. et le max. de ‹fautes› selon les parties de discours différents. Enfances Vivien total min.-max. Prise d’Orange total min.-max.
P., B.N., f.fr. 1449
L. Br.M., R 20D. XI Boulogne-sur-Mer 192 P., B.N., f.fr. 1448
étymologique 50% 35-64% étymologique 47% 16-60%
analogique 25% 5-45% analogique 20% 5-45%
analogique 25% 5-45% analogique 22% 5-45%
étymologique 30% 17-54% étymologique 32% 15-55%
A l’opposition de la variation d’un texte selon ses manuscrits en horizontal, la similitude de l’usage manuscrit en vertical est frappante. Elle témoigne, une fois de plus, du rôle prépondérant des copistes, qui, selon les règles, ou normes de leurs scripta, ont exécuté les manuscrits étudiés.
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Nous avons constaté que les différents textes étudiés en vertical, ont un usage linguistique semblable à celui du manuscrit tout entier. Le désir du copiste de suivre la norme analogique ou étymologique, ne dépend ni de la quantité de textes fixés, ni de leur diversité. Par exemple, le manuscrit picard du début du XIVe siècle (Siena H.X.36) contient environ 77 Lais et 24 Jeus partiis de trouvères français, c’est-à-dire, 101 textes différents, composés par des auteurs différents, d’origine régionale différente, au cours du XIIIe siècle. Tous les textes sont rédigés selon la norme analogique, propre aux scripta picardes, la quantité de ‹fautes› est au total 12%. Le manuscrit lorrain de la première moitié du XIVe siècle (Oxford, B. Bodleiana, Douce 308) contient environ 87 Lais et 22 sottes chansons de trouvères français, c’est-à-dire, 109 textes différents. Bien que le manuscrit soit exécuté par deux copistes, tous les textes sont rédigés selon la norme étymologique, propre aux scripta lorraines, la quantité de ‹fautes› est au total 25%. Le manuscrit P., B.N., f.fr. 25532, exécuté au scriptorium de l’abbaye de Saint-Médard-deSoissons dans la deuxième moitié-fin du XIIIe siècle, contient plusieurs Miracles de Gautier de Coinci (1177-1236), qui était clerc de l’abbaye, et une variante du poème La Court de Paradis. Tous les textes étudiés présentent la norme analogique, les emplois de formes du CR au lieu de celles du CS et vice versa, sont très rares - de 5% à 12% (C’est d’un moine qui vout retolir a une nonne une ymage de Nostre Dame que il li avoit aportee de Jherusalem 8%; Du clerc qui fame espousa et puis la lessa - 5%; D’un vilain qui fut sauvé pour ce qu’il ne faisoit uevre le samedi - 12%; Du cierge que Notre Dame de Rochemadour envoia seur la vïele au jougleur qui vïeloit et chantoit devant s’ymage - 10%; Miracles de Notre Dame de Soissons - 12%; La Court de Paradis - 5%). Il s’ensuit que la conclusion, faite à la suite de l’étude horizontale, est totalement confirmée par les résultats de l’étude verticale: la rareté, ou au contraire, la fréquence de ‹fautes› n’est conditionnée que par la provenance régionale du manuscrit analysé. Confrontant les données, d’une part, de l’étude verticale de textes littéraires différents, fixés dans le même manuscrit, et de l’autre, de l’étude de manuscrits différents, exécutés dans la même région, nous avons constaté que les pourcentages de ‹fautes› varient de 5% à 95% selon la scripta: a) du type analogique: picardes - 5-25%, wallonnes - 5-20%, bourguignonnes (sauf celles d’Avallon et d’Autun) - 5-25%, messines - 5-20%, celles de plusieurs régions de l’Ilede-France (surtout des scriptoria) - 5-25%; b) du type étymologique: normandes - 40-60%, anglo-normandes - 10-80%, lorraines (sauf messines) - 20-40%, bourguignonnes d’Avallon et d’Autun - 80%, celles d’autres régions de l’Ile-de-France (surtout des chancelleries) - 5095%. Il est à remarquer que le pourcentage de ‹fautes› n’augmente pas au cours des XIIeXIIIe siècles et constitue une caractéristique très importante de chaque scripta étudiée (cf. Skrélina / Stanovaïa 2001; Stanovaïa 1994; 2007). Au cours de nos études verticales, nous avons aperçu que certains manuscrits, choisis pour nos recherches, étaient localisés différemment par les chercheurs. Par exemple, le manuscrit L., Br.M., R 20D.XI qui contient deux textes analysés (les Enfances Vivien et la Prise d’Orange), est localisé: 1) en Ile-de-France, par C. Wahlund et H. von Feilitzen, éditeurs des Enfances Vivien, et par M. Tyssens (1967) qui a étudié la Geste de Guillaume d’Orange dans les manuscrits cycliques; 2) en Aisne, par L. Schøsler (1995) qui a étudié le Charroi de Nîmes; 3) en Picardie, par Cl. Régnier (1966: 39-40), éditeur de la Prise d’Orange, qui a pris en considération le «soin» du copiste à rendre la déclinaison nominale excessivement correcte.
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Étude verticale et horizontale de manuscrits de l’ancien français
Dans les cas semblables, une étude verticale de manuscrits, selon les trois caractéristiques sus-mentionnées, nous a aidée à préciser leur localisation. Pour l’illustrer, reportons-nous à l’exemple du manuscrit L., Br.M., R 20D.XI. Nous avons examiné les données, d’une part, de l’étude verticale de deux textes (les Enfances Vivien et la Prise d’Orange), fixés dans le manuscrit, et de l’autre, de l’étude d’autres manuscrits picards et franciens. À la suite de cette étude, nous avons localisé ce manuscrit en Ile-de-France pour les raisons suivantes. Les deux textes présentent la norme analogique aux caractéristiques très semblables. Le tableau ci-dessous indique: 1) le type de la norme scripturale, 2) le total de ‹fautes›; 3) le min. et le max. de ‹fautes› selon les parties de discours différents. Enfances Vivien Prise d’Orange Autres ms picards littéraires analysés
1) analogique analogique
Autres ms franciens littéraires analysés
2) 25% 20%
3) 5-45% 5-45%
analogique
5-25%
5-45%
analogique
5-25%
5-45%
étymologique
50-95%
15-100%
Il est évident que les caractéristiques de l’emploi de formes nominales dites ‹casuelles› permettent, en effet, de localiser le manuscrit en question tant en Picardie qu’en Ile-deFrance. Cela signifie que l’étude de l’emploi de formes nominales est insuffisante pour une localisation précise d’un manuscrit. Par conséquent, nous avons étudié la répartition de formes régionales et nous avons constaté que les deux textes se distinguaient des autres manuscrits picards analysés par l’absence de formes picardes. Au cours de nos études, nous avons aperçu que les scripta picardes se distinguaient par un caractère régional fort prononcé: la quantité maximale de certaines formes picardes peut atteindre 90% dans les chartes, 35% dans les manuscrits littéraires. Dans d’autres scripta, la quantité maximale de certaines formes régionales est moindre: scripta picardes wallonnes lorraines anglo-normandes bourguignonnes normandes
chartes 90% (li, le f sg) 78% (li, le f sg) 59% (lo, lou m sg rég.) 65% (es = a + les) 22% (démonstratifs en ch-, Dees 1980: 59)
manuscrits littéraires 35% (li, le f. sg.) 27% (li, le f. sg.) 45% (lo, lou m. sg. rég.) 68% (possessifs mun/m, tun/m, sun/m m. sg. rég.) 28% (es = a + les) 3% (démonstratifs en ch-; possessifs men - me, ten - te, sen - se m. sg. rég.)
Selon nos statistiques et celles d’A. Dees (1980; 1987), le max. de formes picardes caractérise l’emploi: article f. sg. li, le démonstratifs en chpossessifs f. sg. me, te, se
chartes 90% 65% 81%
Dees 1980 99% ‹Nord› (c.40) 76% ‹Somme› (c.27) 98% ‹Nord› (c.83)
mss litt. 35% 37% 21%
Dees (1987) 39% ‹Somme› (c.83) 49% ‹Somme› (c.4) 27% ‹Somme› (c.35)
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Dans le manuscrit en question, il n’y a pas une seule occurence: 1) de formes de l’article picard f. sg. li, le, bien que dans d’autres manuscrits littéraires analysés, leur nombre varie de 5% à 35%, selon Dees (1987: 81-83), de 27% à 39%; 2) de démonstratifs en ch-, bien que dans d’autres manuscrits littéraires analysés, leur nombre varie de 10% à 37%; 3) de possessifs f. sg. me, te, se, bien que dans d’autres manuscrits littéraires analysés leur nombre varie de 15% à 21%. Les résultats de la répartition de formes picardes dans les manuscrits sont réunis dans le tableau ci-dessous. article f. sg. li, le démonstratifs en ch-
posessifs f. sg. me, te, se
Enfances Vivien
0%
0%
0%
Prise d’Orange
0%
0%
0%
ms picards littéraires analysés
5-35%
10-37%
15-21%
ms franciens littéraires analysés
0%
0%
0%
Dees 1987: ‹Nord›, ‹Somme›
27-39%
49%
27%
Dees 1987: ‹Aisne›
2,7%
33%
1%
Dees 1987: ‹Région parisienne›
0%
0%
0%
Il est évident que le manuscrit en question diffère considérablement de manuscrits picards par l’absence totale de formes picardes. D’autre part, il est proche de manuscrits franciens analysés. Expliquant l’absence de formes régionales picardes, Cl. Régnier (1966: 39-40) a supposé que le copiste picard avait «voulu transposer son modèle dans la langue commune». Par conséquent, nous avons examiné les caractéristiques conclusives de variantes de la Prise d’Orange, formulées par le chercheur en question, et nous avons constaté que l’attitude des copistes envers leurs protographes était différente. Le manuscrit Boulogne-sur-Mer, B.M. 192, exécuté en 1295 et caractérisé par Régnier (1966: 78-81) comme «nettement picard», présente le texte de la Prise d’Orange «profondément modifié» pour un «publique plus raffiné que l’auditoire de fortune des jongleurs»: le copiste picard a modifié le récit «afin de l’adapter à des modèles littéraires nouveaux, à l’évolution de l’esthétique et du goût»; il a changé l’assonnance en rime, et il a modifié l’«organisation interne» du poème, afin de «construire un récit logique et cohérent qui motive les actes des personnages, il évite les moyens simplistes et le merveilleux», d’autant plus, le copiste a apporté «l’élément romanesque», différent par sa nature au genre de la chanson épique. Un autre copiste picard, qui a exécuté au début du XIVe siècle le manuscrit Р., B.N, f.fr. 2436924370, s’efforçait, «par préoccupation de purisme», d’éviter des picardismes, et de corriger toutes les fautes dans la déclinaison nominale (ibid: 38-40). Pourtant, le texte transcrit dans le manuscrit L., Br.M., R 20D.XI, ne présente que quelques modifications «formelles», corrigeant et rajeunissant le modèle (ibid: 77), c’està-dire, les modifications apportées par le copiste, ne sont pas aussi importantes que dans les cas précédents. L’attitude différente des copistes envers les protographes est évidente: les copistes «nettement» picards ont remanié, plus ou moins considérablement, les textes copiés, au contraire, le copiste du manuscrit L., Br.M., R 20D.XI a suivi, plus ou moins fidèlement, le protographe.
Étude verticale et horizontale de manuscrits de l’ancien français
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L’analyse d’autres recherches textologiques fait voir que la même attitude envers les protographes caractérise des copistes franciens. Par exemple, J.-L. Leclanche après l’étude de quatre variantes manuscrites du roman Floire et Blancheflor, a conclu que le copiste picard (ms P., B.N., f.fr. 375) a corrigé toutes les fautes contre la déclinaison, y compris celles de l’original. En même temps, J.-L. Leclanche a souligné la «vigilance» du copiste picard de «donner à son texte un coloris dialectal uniforme», caractéristique des «scriptoria du nord de la France à la fin du XIIIe siècle». Au contraire, le copiste francien (ms P., B.N., f.fr. 1447), «distrait», selon J.-L. Leclanche, a remanié le texte du roman seulement «pour en supprimer des ‹incorrections› ancrées à la rime»; il a modernisé la langue, mais «avec modération». Cette variante francienne est souvent caractérisée comme la plus proche de la leçon originale (Leclanche 1980: 7-42). Réunissant les remarques de chercheurs, nous avons supposé que les scripta picardes possédaient des normes rigoureuses, suivant lesquelles des copistes picards apportaient beaucoup de modifications dans les manuscrits exécutés, changeant, souvent considérablement, les formes et le texte tout entier. À la suite de ces modifications, tous les textes fixés dans un manuscrit, ont obtenu un caractère unifié picard qui facilite beaucoup la localisation de manuscrits. La création de l’usage unifié picard est dénommée souvent comme la picardisation. En même temps, des chercheurs ont caractérisé le travail de copistes picards de termes ‹conservatisme›, ‹purisme›, ‹formalisme›. Des copistes franciens, au contraire, suivaient mieux les protographes, par conséquent, des variantes franciennes sont souvent qualifiées comme les plus anciennes et les plus proches des archétypes. Les textes fixés dans un même manuscrit peuvent différer par des formes occasionnelles. Cela complique beaucoup la localisation de manuscrits franciens. Par conséquent, elle est souvent basée sur leurs traits paléographiques ou codicologiques, ainsi que sur leur provenance.
3. Conclusion L’étude horizontale a démontré que les manuscrits d’un texte différent normalement selon les normes scripturales, particulièrement, selon le type analogique ou étymologique de la représentation graphique de la déclinaison nominale. L’usage de formes graphiques dites ‹casuelles› n’est pas conditionné par l’époque de l’exécution du manuscrit, ni par sa proximité, ou l’éloignement chronologique de la date supposée de la création d’un texte; il est conditionné, en premier lieu, par le type analogique ou étymologique de la norme scripturale. L’étude verticale a démontré que les différents textes fixés dans un même manuscrit, ont un usage linguistique identique. Le désir du copiste de suivre la norme analogique ou étymologique ne dépend ni de la quantité de textes fixés, ni de leur diversité. La similitude de l’usage manuscrit en vertical témoigne du rôle prépondérant des copistes, qui, selon les règles, ou normes de leurs scripta, ont exécuté les manuscrits étudiés.
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Lydia A. Stanovaïa
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Étude verticale et horizontale de manuscrits de l’ancien français
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Nadine Steinfeld (ATILF-CNRS / Nancy-Université)
La traque des mots fantômes à travers les terres de La Curne et de Godefroy: un tableau de chasse chargé de trophées pittoresques extraits du Livre des deduis du roy Modus et de la royne Ratio
1. Introduction Le Livre des deduis du roy Modus et de la royne Ratio, composé entre 1354 et 1377, est l’œuvre d’un gentilhomme normand nommé Henri de Ferrières, chasseur passionné qui fait preuve d’une connaissance et d’une observation admirables des oiseaux de chasse. Ce Livre, écrit en prose entremêlée de vers, est un traité de chasse écrit en forme de dialogues entre le roi Modus –personnage allégorique au nom latin significatif («manière»)–, expert en matière de vénerie, et un disciple ou d’autres personnages qui lui posent des questions. Modus commence par décrire objectivement le comportement du gibier et expose les méthodes et manœuvres de chasse pratiquées en France. Des chapitres allégoriques sont intercalés, dans lesquels la reine Ratio («Raison») moralise à propos des habitudes des animaux. Le Livre des deduis contient un traité d’archerie, des chapitres où Modus enseigne l’art de chasser le cerf et le sanglier à la haie avec des rets et des filets, un traité de fauconnerie et «d’espreveterie» (ou «l’art de chasser à l’épervier») et enfin un traité de la chasse à l’aide de pièges et d’autres engins, chasse propre aux pauvres et aux indigents, mais réputée indigne des grands seigneurs qui jouissaient du privilège de chasser à courre. Le Livre des deduis du roy Modus et de la royne Ratio nous a été conservé par trentedeux manuscrits, selon Gunnar Tilander, qui a consacré à la chasse une série d’éditions dont l’ouvrage cité ci-devant. Le meilleur et le plus ancien manuscrit est Paris, BnF fr. 12399, exécuté en 1379, qui a été reproduit par le savant suédois dans son édition des Livres du roy Modus et de la royne Ratio publiée par la Société des anciens textes français en 1932 (ModusT1, Introduction, VII-XII; LXI). Ouvrage à succès dont l’influence a été considérable, le Livre des deduis a été imprimé, dès 1486, à Chambéry par Anthoine Neyret. Cette édition se rapproche du texte du manuscrit Cheltenham, Thirlestaine House, Collection Phillipps 3641 (T, XVe siècle). Le texte est très mauvais et présente de nombreuses fautes de lecture (mélectures). Toutes les éditions du XVIe siècle ne sont que des réimpressions de cette édition défectueuse, copiées les unes sur les autres. C’est en 1839 que paraît à Paris la nouvelle édition conforme aux manuscrits de la Bibliothèque royale établie par Elzéar Blaze Les sigles sont ceux en usage dans le DEAF (DEAFBiblEI).
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Nadine Steinfeld
(ModusB) Cette édition est défigurée par de très nombreuses erreurs et coquilles, comme le montrera notre étude (cf. ModusT, Introduction, LVI-LIX). La Curne de Sainte-Palaye avait élaboré au milieu du XVIIIe siècle un dictionnaire du vieux français dont l’impression s’était arrêtée au mot asseureté lors de la Révolution de 1792. Le savant académicien avait recueilli une masse colossale de matériaux pris dans les auteurs anciens. C’est près d’un siècle plus tard que Léopold Favre, érudit polygraphe et imprimeur à Niort, entreprit de publier en dix volumes, entre 1875 et 1882, les impressionnantes collections glossographiques rassemblées par La Curne et conservées à la Bibliothèque nationale ainsi qu’à la Bibliothèque de l’Arsenal. Le Dictionnaire historique de l’ancien langage françois ou Glossaire de la langue françoise depuis son origine jusqu’au siècle de Louis XIV fournit de nombreux exemples tirés du Livre des deduis du roy Modus et de la royne Ratio cités tantôt d’après le manuscrit Paris BnF fonds Moreau 1684, qui est une copie faite au XVIIIe siècle pour La Curne du manuscrit Paris, BnF fr. 1297 (anc. 7459 = C, XIVe siècle)2, tantôt d’après l’un des imprimés du XVIe siècle dû à Jehan Trepperel.3 Vers 1850, Frédéric Godefroy mettait en chantier son œuvre lexicographique.4 Il n’avait alors à sa disposition que les précieux documents de La Curne conservés dans le fonds Moreau à la Bibliothèque nationale. Mais, quelques décennies plus tard, il a connu la publication du dictionnaire de La Curne par Léopold Favre, laquelle s’est achevée alors qu’avait commencé à paraître son Dictionnaire de l’ancienne langue française et de tous ses dialectes du IXe au XVe siècle (Gdf), dont l’impression s’est échelonnée entre 18815 (tome 1) et 1902 (tome 10), les tomes 9 et 10 (GdfC) étant des publications posthumes, en 1897 et 1902. Il n’est donc pas étonnant que les dépouillements effectués par La Curne aient été la source des citations et des gloses de Godefroy (ap. Ste-Pal.), en particulier celle des exemples tirés du Livre des deduis du roy Modus et de la royne Ratio. Au moment de constituer son dictionnaire, Godefroy disposait aussi de l’édition de Blaze, parue en 1839, et il sera la victime de certaines erreurs commises par ce dernier lors de la transcription fondée principalement sur le manuscrit Paris, BnF fr. 614 (= I, XVe siècle). L’œuvre d’Henri de Ferrières se divise en deux livres, le Livre des deduis du roy Modus et de la royne Ratio et le Songe de pestilence. Les Livres du roy Modus et de la royne Ratio ont depuis fait l’objet d’une édition critique par Gunnar Tilander, laquelle contient entre autres un glossaire et des notes suffisamment abondantes pour éclairer les principales difficultés du texte et accéder à une lecture rigoureuse. La confrontation des attestations tirées de ce célèbre traité par Godefroy à travers les dépouillements de La Curne ou l’édition d’Elzéar Blaze, avec le texte fourni par l’édition de Gunnar Tilander, nous a permis de débusquer une quarantaine de «mirages lexicographiques», destinés à enrichir la Base des mots fantômes élaborée au sein de l’équipe Linguistique historique française et romane de l’ATILF à Nancy. Nous nous proposons de présenter ici un échantillonnage de six horribles fantômes qui ont hanté les nuits de ces deux infatigables travailleurs de la lexicographie française. Pour rassembler les nombreuses citations que Godefroy a tirées du Livre des deduis du roy 4 5 2 3
Omont (1891: 135-136 et 139-141); ModusT, Introduction, X; Bibliographie Godefroy: Modus. La Curne 10, 17b, Liste des principaux auteurs cités: Modus; ModusT, Introduction, LVI-LIX. R 10 (1881), 438; Duval (2003: 32-37) et Vielliard (2003: 63-67). Il s’agit de la date d’achèvement du premier volume, mais le «Godefroy» a été publié sous forme de fascicules de 80 pages dès 1879; cf. le compte rendu du premier fascicule par Émile Littré, dans Journal des savants, novembre 1879, pages 696-704.
La traque des mots fantômes à travers les terres de La Curne et de Godefroy
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Modus et de la royne Ratio, nous avons eu recours à la version électronique du Dictionnaire de l’ancienne langue française de Frédéric Godefroy, parue chez Champion Électronique en 2002. Nous avons cliqué sur «texte» et saisi dans la fenêtre de recherche les références qui nous intéressent, puisque, comme on le sait, Godefroy désigne souvent une même œuvre de plusieurs façons: modus, mod* et rat*, mod* et rac*, roi mod*, livre roi mod*, etc. Nous avons ainsi obtenu une extraction de 578 exemples dans Gdf et GdfC (sous toutes réserves, étant donné qu’un certain nombre de fautes ont été introduites dans la version numérisée; cf. Takeshi Matsumura: compte-rendu du CD-Rom de Gdf, RLiR 67, 2003, 265270). L’échantillonnage des mots discutés ci-dessous et rangés selon un pseudo classement onomasiologique montre qu’ils apparaissent, pour la plupart, dans le Godefroy en version papier, comme des hapax. Avant de scruter les lexèmes sélectionnés, il convient de préciser que nous avons tiré profit de la concordance du manuscrit et de l’imprimé cités par La Curne avec l’édition de Gunnar Tilander établie, pour un usage interne à l’ATILF, par notre collègue Jean-Loup Ringenbach ainsi que de la concordance entre les éditions Blaze et Tilander, qui se trouve dans le Complément bibliographique du DEAF (DEAFBibl 22*-24*).
2. De supposés ou insoupçonnés termes de chasse aux engins 2.1. chamue Gdf 2, 50a, à la suite de La Curne 3, 346a-b (chammue subst. fém. «partie d’un engin à prendre les oiseaux»), engrange une attestation isolée de chamue subst. fém. «piège à prendre les oiseaux», tirée de l’édition du XVIe siècle du Livre des deduis du Roy Modus et de la Royne Racio par Jehan Trepperel (selon la liste des principaux auteurs cités dans La Curne 10, 17a), qui n’est rien d’autre qu’une réimpression de la première édition fort défectueuse parue à Chambéry en 1486, par Anthoine Neyret: «Qui veult tendre ceste raiz aux pinsons passans, la saison est depuis la Saint Michel jusques a la Toussains, et doit estre tendue a ung meneril par la chamue qui y est courte et les pinssons s’y assient voulentiers» (Modus, f° 84, ap. Ste-Pal.). Nous avons retrouvé le passage en question dans l’édition de 1486, et plus précisément dans le chapitre consacré à la gielle, qui désigne un filet tendu pour prendre des oiseaux avec un rets saillant. On y lit, sans aucun doute possible, la forme chamue au feuillet M ij. Par contre, il s’avère que le texte en question a été sensiblement remanié et abrégé dans l’édition de 1560 parue sous le nom de Vincent Sertenas (f° 96). Dès 1889, Gaston Paris signalait, dans le compte rendu de BartschHorning (R 18, 140) que le mot chamue allégué par Bartsch dans le glossaire pour expliquer le verbe «encamuder ‹mettre dans un piège (chamue)›», relevé dans Eustace le Moine (vers 32), est en réalité un mot fantôme dû à une mélecture portant sur la confusion de jambages / . En effet, l’édition d’Elzéar Blaze, publiée en 1839, donne au passage correspondant: «Qui veult tendre ceste roys aux pinchons passans, la saison est depuis la Saint Michel, jusques a la Toussains, et doit estre tendue en ung avainerieux pour la chaume qui y est courte, et les pinchons se y assiéent volentiers» (ModusB, f° 127 r°, cf. ModusT 125, 75).
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On constate que le passage en question est cité par Godefroy d’après l’édition Blaze, cette fois-ci, sous l’entrée avainerieux subst. masc. «champ d’avoine» (Gdf 1, 505b), qu’il conviendrait sans doute de corriger avainerieul, voir ici meneril. On observe qu’Antoine Thomas, dans les Errata du deuxième volume (Gdf 8, 353b), préconisait, à juste titre, de supprimer l’article chamue, et que sa proposition de lecture chaume, à la suite d’une faute d’impression, a été malencontreusement altérée en chainne. Il conviendrait donc de supprimer l’article chamue subst. fém. «piège à prendre les oiseaux» dans Gdf 2, 50a et d’ajouter l’exemple de chaume relevé dans ModusT 125, 75 à GdfC 9, 62c, chaume subst. masc. et fém. «paille du blé; partie de la tige qui reste sur pied quand on coupe le blé, le seigle, etc.». Cf. TL, chaume subst. masc. et fém. «Strohhalm, Stoppel»; FEW 2, 54b, calămus. 2.2. meneril Gdf 5, 236c, à la suite de La Curne 7, 328b (meneril, subst. «manche, aujourd’hui ménille?»), accueille une attestation isolée de meneril «outil pour la chasse aux filets», qu’il indique comme étant citée par son devancier d’après un manuscrit du Livre des deduis du Roy Modus et de la Royne Racio. Supposait-il qu’il l’avait relevée dans le manuscrit Paris BnF fonds Moreau 1684? Godefroy donne: «Qui veult tendre ceste raiz aux pinssons paysans (au lieu de passans, La Curne) […] elle doit estre tendue a un meneril» (Modus et Racio, ms, f° 84 v°, ap. Ste-Pal.). Le même passage est cité sous la vedette chamue dans Gdf 2, 50a, mais la mention ms. ne figure pas dans les références du texte. Nous avons retrouvé le texte en question dans l’édition de 1486, et plus précisément dans le chapitre consacré à la gielle, qui désigne un filet tendu pour prendre des oiseaux avec un rets saillant (M ij). En nous aidant de la concordance du manuscrit BnF fonds Moreau 1684 et l’imprimé cités par La Curne avec l’édition Tilander, document d’atelier élaboré par Jean-Loup Ringenbach, nous nous sommes rendue à l’évidence que le passage concerné ne peut pas avoir été relevé dans le manuscrit mentionné ci-devant, mais provient de l’imprimé du XVIe siècle du Livre des deduis du Roy Modus et de la Royne Racio par Jehan Trepperel, qui est une réimpression de l’édition princeps parue à Chambéry en 1486. Par contre, il s’avère que le texte en question a été sensiblement remanié et abrégé dans l’édition de 1560 parue sous le nom de Vincent Sertenas (f° 96). Or, l’édition d’Elzéar Blaze porte au passage correspondant une meilleure leçon: «Qui veult tendre ceste roys aux pinchons passans, la saison est depuis la Saint Michel, jusques a la Toussains, et doit estre tendue en ung avainerieux pour la chaume qui y est courte, et les pinchons se y assiéent volentiers» (ModusB, f° 127 r° = ModusT 125, 74). On constate que le passage concerné est cité par Godefroy d’après l’édition Blaze, cette fois-ci, sous l’entrée avainerieux subst. masc. «champ d’avoine» (Gdf 1, 505b), qu’il conviendrait sans doute de corriger en avainerieul à en juger d’après la variante des manuscrits Ie qui s’opposent aux autres manuscrits, lesquels ont tous la désinence uniforme en -ril (ModusT 125, 74; Thomas 1903: 180, note 3). Ce procédé de dérivation à l’aide du suffixe double -arīlis (-arius + -īlis) formant sur le nom d’une céréale le nom d’un champ ensemencé de cette céréale est représenté par la série de chaumeril «champ de chaume», fromenteril «champ de froment», orgeril «champ d’orge», chaneveril «champ de chanvre», etc. (ThomasNEss: 173-175;
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Thomas 1908: 112-113). Nous faisons remarquer l’erreur sur pinssons paysans au lieu de pinssons passans «passant d’un endroit à l’autre» dans la citation de Gdf 5, 236c, meneril. Il conviendrait, d’une part, de biffer le fantôme meneril subst. masc. «outil pour la chasse aux filets» dans Gdf 5, 236c, et, d’autre part, de corriger l’entrée avainerieux, qui résulte d’une faute commise par l’éditeur du 19e siècle sur avainerieul «champ d’avoine», variante du manuscrit I reproduit par ModusB. À noter que l’Encyclopédie méthodique, Jurisprudence (1782: 584) et Gdf 1, 516b-c enregistrent sous aveneris subst. masc. «champ d’avoine» une attestation isolée de la forme aveneris, relevée dans le coutumier de Soesmes (aujourd’hui Souesmes, dans le Loir-etCher), qu’ils analysent comme un substantif singulier. Or, les coutumes locales de la terre et seigneurie de Soesmes nous apprennent que: «les chaumes, millerines, et aveneris, ne sont aucunement de garde; sinon tant que le fruit est dedans lesdites terres: car autrement en ladite terre de Soesmes l’on ne pourroit nourrir bestail, qui seroit la destruction de ladite terre et pays» (CoutGén 3, 1092, chapitre premier, Des Champarts et Terrages). On retrouve le même texte dans le coutumier de la Ferté-Joubault (CoutGén 2/1, 287), cité par La Curne, avenarie, qui indique comme variantes: avainerieux, subst. masc. et aveneris, subst. masc. plur. C’est ainsi que, dès 1903, Antoine Thomas signalait, dans son article «Le suffixe -aricius en français et en provençal» (180, note 3) qu’il s’agit en fait du pluriel de aveneril (< latin *avenarīle, dér. de avena) qu’on relève dans la plupart des manuscrits du Livre des deduis du roy Modus et de la royne Ratio (ModusT 125, 74; Thomas 1908: 112). Par conséquent, le lemme avainerieux, dû à une fausse reconstruction, serait à corriger en avainerieul et les matériaux proposés sous les entrées factices avainerieux subst. masc. «champ d’avoine» (Gdf 1, 505b) et aveneris subst. masc. «champ où l’on a semé et recueilli de l’avoine; terre qui n’est bonne qu’à produire des avoines» (Gdf 1, 516b-c) devraient figurer sous une seule et même vedette aveneril, avainerieul subst. masc. «champ d’avoine» (cf. TL, aveneril subst. masc. «Haferfeld»; FEW 25, 1211a, avēna). 2.3. betueil Gdf 1, 641c enregistre une attestation isolée de betueil, subst. masc. «cage pour prendre les faisans», relevée dans Le Livre du Roy Modus et de la Royne Racio, édité par Elzéar Blaze en 1839. L’exemple se lit comme suit: «La cage que aucuns appellent betueil est ainsi tendue» (Modus, f° 128 r°, Blaze). Il s’avère que cette édition, fondée principalement sur le manuscrit Paris, BnF fr. 614 (I, XVe siècle), est défigurée par de très nombreuses fautes et coquilles. La leçon betueil des mss IL (L = Paris, BnF fr. 19113, XVe siècle) est une erreur de scribe pour be[r]cueil, transcrite par Blaze et admise par Godefroy, comme l’indique Tilander dans le Glossaire de son édition, publiée en 1932 (ModusT, tome 2, page 273). En effet, au passage correspondant, dans le chapitre intitulé «Ci devise comment l’en prent les fesans», l’édition Tilander, basée sur le manuscrit Paris BnF fr. 12399 (A), porte le texte suivant: «La cage, que aucuns apelent becheul, est aussi tendu comme vous poués veoir en ceste pourtreture, laquelle cage doit estre quarree, et doit avoir chascun costé trois piés, a pié main, et trois doie, et est fait ainssi. Il a de l’un cornet a l’autre une verge qui se croise par dessus, et lez bastons, de quoi il est clos, liés a icelles de bonnes harcheles» (ModusT
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126, 36). Malgré les hésitations dont témoignent certains copistes (E behuel, IL betueil, B le chuel), le terme est appuyé par la plupart des manuscrits (OY bercheul, M bersoeul; avec chute du r: TX bechul, e beceul, ADFGKNUT becheul; avec métathèse du r: P brechoel). Un peu plus loin dans le même chapitre, on trouve une deuxième occurrence du mot sous la forme bercheul dans le manuscrit A (ModusT 126, 80; TX berchul, P brechoel, B bercueil, EKNOVYZe berceul, I berteul). Quant à La Curne 2, 444a, il propose la leçon becheul «sorte de cage», citée d’après le manuscrit Paris BnF fonds Moreau 1684 (f° 175 r°; cf. ModusT 126, 36). Il indique en outre les différentes variantes fournies ou signalées par la copie qu’il a dépouillée, à savoir bercheul (f° 176 r°; cf. ModusT 126, 80), becueil, behuel (cf. ModusT 126, 36, var. IL betueil, E behuel) ainsi que la leçon becul livrée par l’édition du XVIe siècle du Livre des deduis du Roy Modus et de la Royne Racio par Jehan Trepperel. Dans l’édition princeps de 1486, laquelle se rapproche du texte de T, on trouve la leçon becul (M iij = éd. 1560, f° 97; cf. ModusT 126, 36). Il n’y a pas d’autre occurrence du mot, le passage correspondant à ModusT 126, 80 ayant été remanié et écourté. Cette cage pour prendre les faisans expliquée dans les lignes ci-dessus et décrite minutieusement par Fortin 1688 (: 89 sqq.) est une cage en forme de coupole angulaire finissant en pointe (ModusT, tome 1, pages 373-374, Notes 126, 40-2). Il se trouve que la première édition de 1486 est ornée de plusieurs figures sur bois d’une facture naïve. La gravure du chapitre consacré à la capture des faisans (M iij) ainsi que la «pourtraiture» du manuscrit A (f° 101 v°) représentant le becul / becheul montrent une cage correspondant à la description donnée ci-devant. Il conviendrait de supprimer l’article betueil dans Gdf 1, 641c et d’ajouter la forme becheul et les variantes becueil, bercheul, bec(h)ul, brechoel (Modus T 126, 36) assorties de la glose «cage pour prendre les faisans» à Gdf 1, 624a, berçuel subst. masc. «berceau». Dans les Errata du premier volume (Gdf 8, 351b), Godefroy avait pressenti que le mot betueil admis dans son dictionnaire était dû à une faute de plume. Mais, il ne représente pas le mot berveil, comme l’avait supposé le lexicographe, qui suggérait de classer l’exemple de ModusB sous verveil «verveux, filet» (Gdf 8, 213c). La forme becheul avec la valeur «cage pour prendre les faisans» serait à ajouter au FEW 1, 338a, *bertiare II 5 ainsi qu’au TL 1, 924, berçuel «Wiege». 2.4. enfourcelé À la suite de La Curne 5, 370a (enfourcelé), Gdf 3, 153a (enforcelé) reprend l’attestation de enfourcelé, tirée du manuscrit Paris BnF fonds Moreau 1684. On peut y lire: «Enfourcelé et couvert de drap» (Modus et Racio, ms., f° 180 r°, ap. Ste-Pal.). Godefroy aménage la glose de La Curne «enveloppé», ce qui devient «recouvert, masqué», tout en ajoutant une deuxième définition «fig. enfoncé dans», documenté par un exemple relevé en 1593 dans le Propos tenu entre le Roy de France et le Cardinal. Au passage correspondant, l’édition Tilander porte le texte suivant: «Et ycelui (le chasseur de bécassines) ara deus petis bastonnés en ses deus mains, enfourrelés et couvers du drap meismez, et les deus bous de[s] deus bastons seront couvers de reuge drap environ plain pouz» (ModusT 131, 19; var. b en fourreleurs). Enfourcelé est une fausse leçon dans La Curne, admise par Gdf, pour enfourrelé «enveloppé comme dans un fourreau» (Gdf, enfourreler; TL, enforreler; DMF 2010; FEW 15/2, 157b-158a, *fodr). Nous faisons remarquer que sous la vedette enfourreler, Godefroy
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cite correctement le passage en cause, mais d’après l’édition Blaze, cette fois-ci. Quant à l’occurrence de enforcelez datée de 1593 et relevée par Godefroy dans le Propos tenu entre le Roy de France et le Cardinal, il s’agit en fait d’une mélecture commise sur ensorcelez «soumis à l’action d’un sortilège», à la suite de la confusion / , comme on peut le vérifier sur Gallica et aussi dans l’article enivrer (GdfC 9, 470a), où le passage est cité comme suit: «Que ceux qui brouilloyent pour la religion estoient ensorcelez et enyvrez de la Ligue» (1593, Propos tenu entre le roy de Fr. et le card., Rymer, XVI, 211). Il conviendrait de supprimer l’article enforcelé adj. «recouvert, masqué; fig. enfoncé dans» dans Gdf 3, 153a et d’ajouter l’attestation de enfourrelé relevé dans ModusT 131, 19, à Gdf 3, 157c, enfourreler, où il se trouve déjà, mais cité justement, cette fois-ci, d’après l’édition Blaze. Pour ce qui est de l’exemple de 1593 (Propos tenu entre le Roy de France et le Cardinal, Rymer, XVI, 211), il serait à reclasser sous la vedette ensorceler «soumettre à l’influence d’un sortilège; captiver par un charme inexplicable» dans GdfC 9, 479a. 2.5. forelle À la suite de La Curne 6, 263b (forelles subst. fém. plur.), Gdf 4, 74b recense une attestation isolée de forelle subst. fém. «fourreau», tirée de l’imprimé du XVIe siècle du Livre des deduis du Roy Modus et de la Royne Racio par Jehan Trepperel: «Icelluy aura deux petits bastons en ces mains, en forelles, et couvers du drap mesmes, et les deux bouts des deux batons seront couvers de rouge drap environ plain pousse» (Modus, f° 88a, ap. Ste-Pal.). La première édition de 1486, comme attendu, offre la leçon en forelles (M vj). Au passage correspondant, décrivant la manière de prendre les videcocs au lacs (a la foletoere), l’édition Tilander porte le texte suivant: «Et ycelui ara deus petis bastonnés en ses deus mains, enfourrelés et couvers du drap meismez, et les deus bous de[s] deus bastons seront couvers de reuge drap environ plain pouz» (ModusT 131, 19). La leçon erronée dans La Curne, admise par Godefroy, est le résultat d’une mélecture liée à un phénomène de déglutination du préfixe en- confondu avec la préposition. À noter que la même leçon fautive se trouve dans un passage de Belon 1555 qui n’est rien d’autre qu’un plagiat du texte de Modus: «Aussi tiendra deux petits bastons en ses mains en forelles, couvertes de drap de mesme couleur» (Livre V, page 274). On retrouve le même passage, cité d’après le manuscrit Paris BnF fonds Moreau 1684, sous la vedette enforcelé dans Gdf 3, 153a (voir ci-dessus 2.4. enfourcelé). Quant à enfourrelé «enveloppé comme dans un fourreau», dérivé de fourrel «fourreau» (FEW 15/2, 157b-158a, *fodr), il a été accueilli par Godefroy avec ce seul exemple, mais cité correctement, cette fois-ci, d’après l’édition Blaze (Gdf, enfourreler; TL, enforreler; DMF 2010). Il conviendrait de supprimer les articles forelle subst. fém. «fourreau» (Gdf 4, 74b) et enforcelé adj. «recouvert, masqué; fig. enfoncé dans» (Gdf 3, 153a). L’exemple d’enfourrelé «enveloppé comme dans un fourreau», tiré de ModusT 131, 19, serait à classer sous l’entrée enfourreler de Gdf 3, 157c, où il se trouve déjà, mais tiré, cette fois-ci, de l’édition Blaze. Cette pratique observée chez Godefroy, qui consiste à emprunter un même passage à plusieurs sources, en l’occurrence deux éditions médiocres, l’une du XVIe siècle et l’autre du XIXe siècle, auxquelles s’ajoute une copie réalisée au XVIIIe siècle d’un manuscrit du XIVe siècle, n’a rien de surprenant pour les utilisateurs chevronnés de son dictionnaire et de l’immense masse documentaire qu’il contient.
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2.6. fresve À la suite de La Curne 6, 320a, Gdf 4, 144b recueille une attestation unique de fresve subst. fém. «instrument pour tuer les loutres», tirée de l’imprimé du XVIe siècle du Livre des deduis du Roy Modus et de la Royne Racio par Jehan Trepperel. Il ne cite cependant qu’une des deux occurrences relevées dans Modus par son devancier: «Les loutreux, pour le guecter à toutes leurs fresves» (Modus, f° 31b, ap. Ste-Pal.). Il ne reprend pas la seconde qui se lit comme suit chez La Curne: «En quelque forteresse que chiens voisent trouver loutre, ilz se boutent en l’eaue, et dès qu’ilz oyent le cry des chiens, doivent aller au dessus, et au dessoubz du giste, et regarder au fond de l’eaue s’ils le verront passer, et s’il le voyt, il le doit ferir de la freuve, et mettre peine de le tuer» (ibid.). L’édition princeps de 1486 offre les leçons singulières fresve et freuve (D vi et D v). Au passage correspondant, l’édition Tilander porte le texte suivant: «Et toutes voies vont tous jours au dessus et au dessous les loutreurs pour le gaitier atout leur foenez [Y foue], et ont tous jours le ueil au fons de l’iaue, et quant l’un d’eulz le voit passer, si fiert de sa foene [Yb foue] et le lieve contremont, et les chiens l’abaient tout entour» (ModusT 53, 125, 127). Un peu plus haut dans ce chapitre intitulé «Ci divise comment l’en prent le loutre a forche de chiens», on trouve la deuxième citation donnée par La Curne. Elle se lit ainsi: «Mes tenés pour chertain que, en quelque foteresche que chiens voisent trouver loutre, il se boute en 1’iaue en l’eure que il ot le cri de chiens. Adonques doivent aler les loutreurs au dessus et au dessous du giste et regarder au fons de l’iaue se il [le] verront passer, et se [l’un] le voit, il doit ferir de sa foene [Y foue, b freine] et metre paine de [le] tuer» (ModusT 53, 111). Il ressort de ce passage que la loutre est harponnée au moyen d’une foene (Gdf 4, 44c; GdfC 9, 649a; TL 3, 1989-1990; FEW 3, 912b, fŭscĭna; DMF 2010, foisne), qui désigne un instrument de fer pour prendre le poisson de rivière (d’où par dérivation régressive la forme foue du ms. Y) expliqué et décrit dans les lignes suivantes: «Et doivent avoir chascun en sa main une foene [Y foue, b frene], qui doit estre enhantee en une lance comme la hante d’un glaive, et doit estre le fer de la façon si comme il est figuré chi après» (ModusT 53, 96). Par conséquent, dans l’imprimé de 1486, dont le texte est mauvais, en raison de la confusion fréquente des / , les lexèmes fresve / freuve sont à considérer comme des fautes de transcription pour, peut-être, fre(s)ne / freine «hampe de bois de frêne» (cf. Gdf, fresne «bois de lance de frêne»; TL, fraisne «Schaft, Lanze aus Eschenholz»; FEW 3, 772a, fraxĭnus) qui alternent dans le manuscrit b (Chantilly, Musée Condé 1559, 15e s.) avec foene et aussi avec foue, qu’il partage avec Y (Modène, Biblioteca Estense, 15e s.). Les leçons fre(s)ne / freine trouvent un appui dans le fait que la rigidité du bois de frêne le désigne tout particulièrement pour confectionner la monture des fers de lance et des armes d’hast (Gay, frêne). De plus, dans la figure du chapitre consacré à la chasse à la loutre du manuscrit A (exécuté en 1379), tout comme dans une des miniatures du manuscrit Paris BnF fr. 616 (daté de ca 1400), qui contient le Livre de chasse de Gaston Phébus, on observe que les «loutreurs» sont munis de «fourchies ferrees, qui foynes en l’art sont nonmees» (GaceBuigneB, 9097) et de perches de bois à pointe acérée, ce que confirme Gaston Phébus dans son Livre de chasse en faisant mention de «bastons fourchiés et ferrés devant, bien aguisiés» (GastPhébChasseT 59, 22). En revanche, la gravure sur bois de l’édition de 1486 représente des «loutreurs» employant des instruments évoquant des faux, à la suite peut-être de l’incompréhension de la forme foeue (D v, à corriger en foene; cf. ModusT 53, 96) par le graveur, un pur citadin qui semble tout ignorer de la chasse à la loutre, et qui l’a rendue
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par l’utilisation fantaisiste de faux. Par ailleurs, dans l’édition de 1560 revue et corrigée par Vincent Sertenas, lequel prétend dans sa dédicace Aux Princes, Seigneurs, & Gentilz-hommes de France «Et combien qu’aions changé aucunes phrases de parler, neantmoins avons voulu user des mesmes termes acoustumez de son temps: affin de les recongnoistre a leur vieille mode», on trouve le mot faux à la place du terme technique foene dans un contexte sensiblement modernisé: «Et doyvent avoir chacun en sa main une faux, qui doit estre emmanchée en une lance, comme le manche d’un glaive» (f° 38). Enfin, tout comme dans l’édition princeps, les leçons fautives freuve / fresve (f° 38 et f° 39) y côtoient l’aberrant forme (f° 39 ; éd. 1486, D vi), à corriger en foi(/e)n(n)e si l’on se fonde sur le texte de ModusT 53, 127: foene. Quant à l’édition de Blaze, qui offre un texte semé d’inexactitudes, elle donne invariablement fourche dans le texte concerné (ModusB, f°42 et f° 43 r°). Il conviendrait de supprimer l’article fresve subst. fém. dans Gdf 4, 144b et d’ajouter les deux exemples du substantif féminin fresne / freine relevés dans ModusT 53, 125, 127, variantes du manuscrit b, avec la valeur de «hampe de bois de frêne» à Gdf 4, 141c, fresne non seulement subst. masc., mais aussi fém. Quant aux attestations foene du manuscrit A, elles iraient enrichir l’article foine1 dans Gdf 4, 44c-45a, où se trouve déjà l’exemple correspondant à ModusT 53, 96, cité correctement à travers La Curne 6, 243a, foene, qui offre plusieurs occurrences du mot dont deux relevées dans la copie du 18e siècle du ms. Paris BnF fr. 1297, correspondant à ModusT 53, 96 et 111. La variante foue du manuscrit Y serait à classer sous une nouvelle entrée foue subst. fém. «instrument de fer pour prendre le poisson de rivière» dans Gdf 4, 109b (cf. TL; DMF 2010; FEW 3, 913a, fŭscĭna). Cependant, il n’est pas exclu que foue, qui alterne dans le manuscrit b avec foene et fre(i) ne, soit à rapprocher de fou(c) «hêtre» (Gdf 4, 107a-b, fou1; TL, fo; DMF 2010, fou2; FEW 3, 371a, fagus), dont le bois servait à la fabrication des lances, des poignées des épées (Gay, fau; fou; hêtre) ou encore, comme ici, des longues hampes munies d’un fer aigu utilisées dans la chasse à la loutre. Les traités cynégétiques des XIVe et XVe siècles, qui relatent la chasse à la loutre, précisent que sa viande n’est pas consommée par les hommes mais laissée aux chiens en guise de récompense (ModusT 53, 128-131; GastPhébChasseT 59, 38). La loutre étant une grande consommatrice de poissons, elle est classée parmi les animaux nuisibles par les gens du Moyen Âge (ModusT 53, 5-7; GaceBuigneB, 9134-9142; GastPhébChasseT 14, 7; DMF 2010, loutre). À l’instar du loup, la chasse de la loutre est non seulement autorisée, mais encore encouragée auprès des populations par l’octroi d’une récompense. Dans la première moitié du XIVe siècle, un service de chasseurs spécialisés «les loutreurs / les loutriers» (ModusT 53, 36), qui relèvent de la gruerie, c’est-à-dire de l’office en charge de la gestion des eaux et forêts, a été créé pour lutter contre les dommages causés par la loutre dans les campagnes. Le nombre de prises, la somme octroyée, l’identité des chasseurs, ainsi que le lieu et le moment de l’année de la capture, tous ces éléments sont consignés dans les comptes de la gruerie ou ceux des recettes des bailliages (Gdf 5, 42b, loutrier; DMF 2010, loutrier). En ce qui concerne la technique de chasse, elle consiste à harponner la loutre au moyen de perches de bois à pointe de fer et de fourches à plusieurs dents, mais la description qui en est faite laisse entendre que la traque de la loutre est surtout une affaire d’adresse et de rapidité de la part des hommes et des chiens loutriers. La capture de ce mustélidé n’est pas toujours facile, y compris pour des spécialistes!
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3. Conclusion De ce tour d’horizon, il ressort que les erreurs relevées dans Godefroy sont de plusieurs types: 1) Godefroy fait entrer dans son dictionnaire une forme fautive, empruntée à un manuscrit dont le degré de fiabilité est très faible (enfourcelé) ou à des éditions anciennes fort défectueuses, avantageusement remplacées depuis par une édition plus fiable (chamue; meneril; forelle; fresve; betueil). 2) Godefroy utilise plusieurs fois un même contexte, mais le cite d’après différentes sources, pour illustrer plusieurs mots qu’il contient. Il crée ainsi une entrée pour une forme fautive puisée dans une source où les fautes sont abondantes, alors que la forme transcrite justement, cette fois-ci, par une autre source, peut apparaître dans un article distinct (chamue, meneril, avainerieux; enfourcelé, forelle, enfourreler). 3) Godefroy admet deux formes existantes quasi identiques, dont l’une aurait mérité d’être corrigée, en donne une analyse erronée et établit, à tort, deux entrées (avainerieux, aveneris, voir meneril). En recueillant des leçons altérées tirées d’un manuscrit médiocre ou d’éditions anciennes non moins médiocres offrant Le Livre des deduis, le grand Godefroy enregistre dans son ouvrage monumental un certain nombre d’unica, qui s’avèrent être des mots fantômes. C’est dire que les exemples uniques doivent a priori entraîner la défiance et faire l’objet d’une attention toute particulière. Ainsi, les précautions qu’il convient de prendre face à une forme présentée comme un hapax ne peuvent qu’être renforcées par les exemples traités ci-dessus, qui répondent à deux objectifs: ils permettent d’éliminer des vocables manifestement erronés et d’ajouter des attestations recevables aux attestations existantes. Le manuscrit du fonds Moreau, les imprimés des XVe et XVIe siècles ainsi que l’édition de Blaze se signalent par le nombre élevé de leçons déformées par une lecture erronée (mélecture) qui les rendent exemplaires à plus d’un titre dans ce domaine, comme le petit relevé effectué sur les six lexèmes retenus ici permet d’en juger. L’on y trouve en effet (leçon altérée en premier lieu —> bonne leçon en second lieu): 1) des confusions de jambages (chamue —> chaume; meneril —> aveneril), 2) des confusions de v / n liées à la difficulté de distinguer v de n, ces lettres étant généralement similaires (fresve —> fresne), 3) des confusions de lettres dont cetaines sont proches dans la graphie: c / r (enfourcelé —> enfourrelé), c / t, s long / f (betueil —> becueil; enforcelez —> ensorcelez, voir enfourcelé); 4) un phénomène de déglutination du préfixe en- confondu avec la préposition (en forelle —> enfourrelé); 5) une lemmatisation artificielle, telle aveneris, analysé malencontreusement comme un substantif masculin singulier alors qu’il présente la forme du pluriel qui correspond à aveneril. Toutes ces remarques n’ont pas pour but de discréditer le Godefroy, pierre angulaire de la lexicographie française médiévale, mais simplement de le «dépoussiérer», en éradiquant les mots fantômes ensevelis sous l’immense masse documentaire contenue dans les huit mille pages de ses dix volumes. C’est l’objectif que nous nous sommes donné en centralisant de façon commodément accessible, dans la Base des mots fantômes hébergée par l’ATILF, les identifications des ghost words ou fantasmas lexicográficos, c’est-à-dire les pseudolexèmes disposant à tort d’un statut lexicographique («ces mots qui n’existent pas»), les sens fantômes et les lemmatisations erronées vehiculés par ce «merveilleux instrument de travail6» et parfois perpétués par la lexicographie ultérieure. A. Thomas, Revue Critique du 7 août 1882, cité dans Gdf 2, «Avertissement» [non pag.].
6
La traque des mots fantômes à travers les terres de La Curne et de Godefroy
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Bibliographie 1. Encyclopédie Encyclopédie méthodique, Jurisprudence, dédiée et présentée à monseigneur Hue de Miromesnil, garde des sceaux de France (1782–1791). Paris / Liège: Panckoucke / Plomteux. (plusieurs volumes consultables sur le site Gallica).
2. Textes Belon, Pierre (1555): L’histoire de la nature des oiseaux, avec leurs descriptions, et naïfs portraicts retirez du naturel, écrite en sept livres. Paris: Corrozet (consultable sur le site Medic@ (BIUMParis) http://www.bium.univ-paris5.fr/histmed/medica.htm). Fortin, François (1688): Les Ruses innocentes. Paris: C. de Sercy. Le Livre du Roy Modus et de la Royne Racio (1486). Chambéry: Anthoine Neyret (consultable sur le site Gallica). Le Livre du Roy Modus et de la Royne Racio (s. d.). Paris: Jehan Trepperel (cf. ModusT, LVIII). Le Roy Modus, des deduitz de la chace, venerie et fauconnerie (1560). Paris: Vincent Sertenas (consultable sur le site Google Livres). Foedera, conventiones, literae, et cujuscunque generis acta publica: inter reges Angliae, et alios quosvis imperatores, reges, pontifices, principes, vel communitates, ab ineunte saeculo duodecimo, viz. ab anno 1101, ad nostra usque tempora, habita aut tractata […].Tomus XVI / accurante Thoma Rymer, ed. secunda, studio Georgii Holmes (1727-1735). Londres: J. Tonson (consultable sur le site Gallica) (abrégé: Propos tenu entre le Roy de France et le Cardinal).
Bibliographie, bases de données textuelles et linguistiques ATILF / Steinfeld, Nadine (2005–): Base des mots fantômes (base dédiée aux «mots fantômes»: pseudo-lexèmes disposant à tort d’un statut lexicographique). Nancy: ATILF-CNRS / NancyUniversité (site internet: http://www.atilf.fr/MotsFantomes/) (abrégée: Base des mots fantômes). ATILF / Ringenbach, Jean-Loup (2007–): Bibliographie Godefroy. Nancy: ATILF-CNRS / NancyUniversité (site internet: http://www.atilf.fr/BbgGdf/) (abrégée: Bibliographie Godefroy). ATILF / Équipe du «Dictionnaire de Moyen Français» (2010): Dictionnaire du Moyen Français. Nancy: ATILF-CNRS / Nancy-Université (site internet: http://www.atilf.fr/dmf) (abrégé: DMF 2010). Bibliothèque nationale de France (1999–): Gallica, la bibliothèque numérique. Paris (site internet: http://gallica.bnf.fr). (2007–). Google, moteur de recherche, site internet: http://www.google.fr/books (2008–). Open Library, site internet: http://openlibrary.org/
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Nadine Steinfeld
4. Travaux Duval, Frédéric (2003): Frédéric Godefroy: parcours bio-bibliographique. In: Duval, Frédéric (éd.): Frédéric Godefroy. Actes du Xe colloque international sur le moyen français organisé à Metz du 12 au 14 juin 2002 par le centre «Michel Baude, littérature et spiritualité» et par l’ATILF (UMR 7118). Paris: École des Chartes (Mémoires et documents de l’École des Chartes: 71), 25-42. Paris, Gaston (1889): Compte-rendu de La langue et la littérature française depuis le IXe siècle jusqu’au XIVe siècle. Textes et glossaires par Karl Bartsch, précédés d’une grammaire de l’ancien français par Adolf Horning. Paris: Maisonneuve, 1887. In: R 18, 136-159. Omont, Henri (1891): Inventaire des manuscrits de la collection Moreau. Paris: Picard. Thomas, Antoine (1903): Le suffixe -aricius en français et en provencal. In: R 32, 177-203. –– (1908): Notes étymologiques et lexicographiques. Note complémentaire sur le suffixe -arilis. In: R 37, 112-114. Vielliard, Françoise (2003): Godefroy et les institutions philologiques françaises. La réception du Dictionnaire. In: Duval, Frédéric (éd.): Frédéric Godefroy. Actes du Xe colloque international sur le moyen français organisé à Metz du 12 au 14 juin 2002 par le centre «Michel Baude, littérature et spiritualité» et par l’ATILF (UMR 7118). Paris: École des Chartes (Mémoires et documents de l’École des Chartes: 71), 57-74.
Emanuela Timotin
Le roumain en deux miroirs: le latin et le slavon. Les mots roumains dans deux dictionnaires bilingues du XVIIe siècle
1. La présente étude porte sur une catégorie de termes bien délimitée: les mots roumains hérités du latin et leurs dérivés qui se trouvent dans deux dictionnaires bilingues rédigés au milieu du XVIIe siècle, l’un roumano-latin, l’autre slavo-roumain. Je me propose de discuter ces termes du point de vue de leur rapport avec le vocabulaire du roumain ancien (XVIe-XVIIIe siècles), de mettre en évidence la fidélité de leurs auteurs par rapport à la norme littéraire contemporaine et leurs innovations, et de repérer des significations spécifiques de certains lexèmes, ignorées par les historiens de la langue roumaine. 2. Les deux dictionnaires sont les premières œuvres importantes de la lexicographie roumaine.1 Le dictionnaire slavo-roumain qui nous occupe a comme modèle le dictionnaire slavo-russe de Pamvo Berânda, paru en 1627 à Kiev. Il a été rédigé en 1649 par le moine Mardarie dont l’activité remarquable de scribe et miniaturiste n’a été révélée que récemment (Mareş 2010). Originaire de l’Olténie2, Mardarie a transcrit le dictionnaire slavo-roumain lorsqu’il était dans un centre monastique de la même région, le monastère de Cozia.3 Son travail s’inscrit dans l’activité d’une école de scribes et miniaturistes attestée dès le XVIe siècle en Olténie autour du monastère de Bistriţa, et sa figure se joint à celles d’autres moines lettrés qui dans la première moitié du XVIIe siècle ont soutenu, dans la même région, une intense activité littéraire (Mareş 2010). Le dictionnaire de Mardarie, un lexique avec 4574 entrées, n’illustre pas la seule traduction roumaine de l’ouvrage de Pamvo Berânda4; une autre traduction date de 1660-1670 et fut achevée par Staicu, le secrétaire de l’église métropolitaine de Târgovişte. L’œuvre de Staicu est encore inédite, comme l’est également sa copie datant de 1778;5 elles sont préservées à présent dans les archives de la Bibliothèque de l’Académie Roumaine de Bucarest, sous les côtes 312 et 2252. Le dictionnaire roumano-latin qui nous occupe s’intitule Dictionarium Valachico-Latinum, mais il est connu surtout sous le nom d’Anonymus Caransebesiensis. Comprenant 5326 Elles ne sont devancées que par des gloses roumaines écrites en marge des manuscrits slavons ou par des lexiques slavo-roumains de petites dimensions; voir Kałužniacki (1894); Bogdan (1968: 542-558); Strungaru (1966); Seche (1966: 7); Mihăilă (1973: 161-162). 2 L’origine de Mardarie a été établie, en partant de prémisses différentes, par Creţu (1900: 95-96), Teodorescu (1972), Mareş (2010: 133-134). 3 Mareş (2010: 132-133) a montré que le dictionnaire slavo-roumain a été copié et non pas traduit par Mardarie; une opinion similaire avait été avancée, au titre d’hypothèse, par Mihăilă (1972: 312, n. 1); cf. Creţu (1900: 63), Teodorescu (1972: 78). 4 Pour d’autres glossaires de petites dimensions qui précédent le dictionnaire de Mardarie, voir Creţu (1900: 24-57); Seche (1966: 7-8); Strungaru (1966: 148-153); Bogdan (1968: 559-567); Mihăilă (1973: 162). 5 Ce dictionnaire est décrit dans EMR (col. 1259); Creţu (1900: 55-56); Seche (1966: 14); Strungaru (1966: 148-151); Mihăilă (1973: 62). 1
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entrées, il est le plus important dictionnaire roumain-latin de l’époque ancienne du roumain.6 L’Anonymus a attiré l’attention des philologues roumains dès la fin du XIXe siècle, quand il connut deux éditions: une partielle, due à B. P. Hasdeu (1891), l’autre intégrale, par Gr. Creţu (1898). On en possède aujourd’hui une édition moderne due à Gh. Chivu (2008). Grâce à cet intérêt pour l’Anonymus, on sait qu’il fut rédigé entre 1640-1660, plutôt vers 1650 (Chivu 2003: 21-27); que son auteur, dont on ignore l’identité, avait utilisé des sources lexicographiques latines et hongroises et qu’il était originaire de Banat, une région marquée par une intense activité littéraire aux XVIe-XVIIe siècles (Gheţie 1997: 80-81; Gheţie / Teodorescu 2005: 21). 3. Actifs dans deux importantes régions culturelles de l’époque, Mardarie et l’auteur de l’Anonymus sont, évidemment, des lettrés qui maîtrisent le roumain littéraire ancien. Leur fidélité par rapport à la norme littéraire contemporaine ressort de l’emploi de termes dont l’usage est limité au roumain ancien. En témoignent les termes suivants dont la diffusion n’est attestée que pour les XVIe-XVIIe siècles.7 Le mot nişchit (< lat. NESCIO-QUANTUS) ‹peu de› est rendu par parum dans l’Anonymus (Chivu 2008: 105, s.v. 2906). Au XVIe siècle, il était fréquemment utilisé dans plusieurs versions du Psautier: il s’agit tant de psautiers manuscrits (Candrea 1916: 11, 10v), que des psautiers imprimés, comme les deux psautiers de Coresi, roumain, datant de 1570, et slavo-roumain, datant de 1577, de même que le psautier slavo-roumain imprimé en 1589 par Şerban Coresi (Coresi 1976: 54, 10v); on rappelle également son usage dans le Tétraévangile imprimé par le diacre Coresi et dans l’Évangéliaire de Radu de Măniceşti (Dimitrescu 1963: 74, 61v), dans un livre de l’Ancien Testament (Pamfil 1968: 98) et dans une traduction des Actes (Costinescu 1981: 291, 32r). Au XVIIe siècle, à part son usage en Banat dont témoigne l’Anonymus, il est attesté également en Transylvanie, dans un manuscrit de la première moitié du XVIIe siècle (Drăganu 1914: 191, 1r) et dans le Nouveau Testament de 1648 (179r), mai aussi en Moldavie, dans les Vies des saints imprimées par le métropolite Dosoftei en 1682-1686 (novembre 153v).8 Le diminutif de nişchit, nişchiţel, un mot qui a attiré depuis longtemps l’attention des philologues (Hasdeu 1878: 295), se retrouve dans le plus ancien texte roumain, le Psautier Hurmuzaki (Gheţie–Teodorescu 2005: 98, 11r) et dans des ouvrages lexicographiques du XVIIe siècle: chez Mardarie (Creţu 1900: 245, s.v. 3484), dans l’Anonymus (Chivu 2008: 105, s.v. 2907), et dans le dictionnaire slavo-roumain de Staicu (fol. 143r). Dans l’ouvrage de Mardarie et dans celui de Staicu, le mot nişchiţel traduit sl. sc™glo, traduction assez inattendue vu que le terme slavon, rendu par kat’ƒd…an et par privatim dans Miklosich (1862-1865, s.v.), signifie ‹en particulier›.9 Il est pourtant certain que le mot roumain n’avait pas acquis une signification nouvelle au milieu du XVIIe siècle: en témoignent l’Anonymus, qui le glose par La liste de mots roumains et latins publiée en 1688 par Ioannis Lucius a des dimensions restreintes et ne comprend que quelques mots du lexique fondamental et quelques énoncées utiles pour la conversation (Coşeriu 1994: 135-137). 7 Pour la description de la diffusion de ces termes nous avons utilisé les principaux dictionnaires historiques du roumain (DA, DLR), des éditions modernes des textes roumains anciens et des travaux récents sur le roumain des XVIe-XVIIIe siècles. 8 Sur la base de cette distribution dialectale du mot au XVIIe siècle, Gheţie / Mareş (1974: 238) ont considéré qu’il avait circulé en Moldavie également au XVIe siècle. 9 L’éditeur du dictionnaire de Mardarie (Creţu 1900: 245, n. 6) est le premier à avoir remarqué cette discordance. 6
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Paululum, et Staicu, qui rend sc™glo d’abord par puţânel (fol 143r), diminutif de puţin ‹peu de› et ensuite par nişchiţel. Dans ces conditions, il est probable que la traduction de sc™glo ‹en particulier› par nişchiţel chez Mardarie et Staicu soit motivée par la compréhension de la relation particulier – général dans les termes d’une relation partitive. L’adjectif fericat ‹heureux› (< ferica < lat. *FELICARE10), glosé comme Beatus dans l’Anonymus (Chivu 2008: 85, s.v. 1254), est enregistré au XVIe siècle dans plusieurs versions manuscrites et imprimées du Psautier (Gheţie / Teodorescu 2005 I: 87, 1r; Candrea 1916: 121, 96r; Coresi 1976: 148, 57v), dans le Tétraévangile imprimé par le diacre Coresi et l’Évangéliaire de Radu de Măniceşti (Dimitrescu 1963: 59, 35r), dans le Missel imprimé par Coresi en 1570 (Mareş 1969: 129, 6v), dans une version des Actes (Costinescu 1981: 301, 37r). On le retrouve ensuite dans deux textes transcrits dans un codex miscellaneus entre 1590–1619 (Chivu 1993: 270, 53v; 299, 119v), dans un fragment évangélique (Drăganu 1914: 219, 90v), dans une chanson de Noël (Gaster 1891 I: 136) rédigée autour de 1657 par un scribe de la Transylvanie de sud-est d’après le modèle d’un texte rédigé en Banat (Gheţie 1965), dans un psautier anonyme, rédigé en alphabet latin vers 1660 (Pantaleone 2008: 175, 11) et dans d’autres manuscrits rédigés en Transylvanie au XVIIe siècle (ms. 3821 fol. 50r, et ms. 4642, fol. 71v de la Bibliothèque de l’Académie Roumaine de Bucarest). Le mot apparaît couramment dans les livres de chansons rédigés dans les régions de Cluj et de Banat-Hunedoara par divers auteurs calvinistes au XVIe siècle (Gheţie 1982: 337, 1v) et entre 1640–1697 (Gheţie 1965: 699). Le substantif neştiutură (< şti < lat. SCIRE), expliqué par Ignorantia dans l’Anonymus (Chivu 2008: 104, 2882), est attesté au XVIe siècle chez Coresi, dans ses deux livres de sermons (Cipariu 1866: 226; Puşcariu / Procopovici 1914: 83) et dans son missel (Mareş 1969: 137, 23r). Le mot plinăciune (< plin < lat. PLENUS), expliqué par Plenitudo dans l’Anonymus (Chivu 2008: 110, s.v. 3377), ne semble connaître qu’une seule autre attestation, dans un livre de l’Ancien Testament du XVIe siècle (Pamfil 1968: 254). Le mot depărătură, un dérivé du verbe depăra (< lat. DEPILA), n’est connu que sur la base des textes du XVIIe siècle. A part l’Anonymus qui l’explique par depilatio (Chivu 2008: 80, s.v. 791), le mot est enregistré dans un document de Moldavie rédigé à Jassy le 13 janvier 1628: Aşijderea şi pârcălabii să nu aibă treabă cu satele svintei mănăstiri Humorului, a prăda pentru depărături şi pentru alte svade ce să vor face (Chirca 1969: 394).11
Dans ce contexte, le mot signifie ‹lamentation, agitation›, une signification qui correspond au développement sémantique du verbe depăra qui, à partir du sens principal de ‹s’arracher les cheveux› a développé le sens secondaire de ‹se lamenter›, sens enregistré également pour les verbes aroumains et mégléno-roumains correspondants (CDDE, s.v. 1329). Pourtant, l’équivalence établie dans l’Anonymus entre depărătură et depilatio suggère que le mot roumain y désigne l’‹action de s’arracher les cheveux›. Etymologie proposée dans CDDE (580); Densusianu (1961 II: 127); Candrea / Adamescu (1931, s.v.); RDW3, s.v.; cf. DA, s.v. ferica; Scriban (1939, s.v. fericesc); CDER, s.v., selon lesquels ferica dérive de l’adjectif ferice (< lat. FELIX, -ICEM). 11 Le document a été publié d’abord par Bianu (1907: 191). Le fragment comprenant le mot qui nous occupe a été également repris dans Papahagi (1939: 19). 10
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Le mot înomenire (< om < lat. HOMO, -INEM) est présent chez Mardarie qui l’utilise pour traduire vßçlçenïe (= vßçelov™çenïe) (Creţu 1900: 124, s.v. 645), qui signifie ¢nqrwpismÒj, humanitas ‹nature humaine› (Miklosich 1862-1865, s.v.). A part cet usage, le terme se retrouve aussi dans le code législatif paru à Târgovişte en 1652. Le mot a été expliqué comme ‹incarnation› (DA, s.v. înomeni; CDDE, s.v. 1280) avec pour synonymes încarnare, întrupare et împeliţare. Le fragment du code législatif suggère pourtant que la compréhension du mot înomenire comme ‹incarnation› est pour le moins hâtive: «Canoanele… carele au încolţit… de la întruparea şi înomenirea cuvântului pre lume» (Rădulescu 1962: 40). Le rapprochement de înomenire et întrupare dans ce texte montre que les deux termes ne sont pas des synonymes. La distinction sémantique entre les deux termes correspond à la distinction théologique entre l’incarnation du Christ et le fait qu’il a pris nature humaine, distinction opérée dans le Credo de Nicée: «Et incarnatus est de spiritu sancto ex Maria Virginis et homo factus est». Par conséquent, dans le code législatif de 1652, întrupare signifie ‹incarnation› et înomenire désigne ‹le fait de devenir homme, de prendre nature humaine (en parlant du Christ)›. Dans ces conditions, il est plus prudent de considérer que chez Mardarie le même mot signifie ‹le fait de devenir homme› jusqu’à ce que des études diachroniques éclairent le sémantisme du slavon vßçelov™çenïe. Mescătoriu (< meşte < lat. MISCERE12) signifie ‹échanson› et semble n’être attesté en roumain qu’au XVIIe siècle: chez Mardarie et dans le dictionnaire slavo-roumain de Staicu. Mardarie l’utilise d’abord dans l’expression mescătoriu de vin (Creţu 1900: 117, s.v. 425), pour traduire sl. vinoçerpatel ‹pincerna› (Miklosich 1862-1865, s.v.). Le mot roumain apparaît dans la même expression pour traduire sl. vin´çerpalnik dans le dictionnaire de Staicu (fol. 55r) qui y ajoute un autre mot roumain, peharnic ‹celui qui verse à boire aux convives›. Mescătoriu et păharnic sont utilisés par Mardarie aussi (Creţu 1900: 290, s.v. 4411) pour traduire çrßpçïi, podça‚ïi et ça‚nik´. Le dictionnaire de Mardarie utilise un autre dérivé du verbe meşte (< lat. MISCERE), mescătoare ‹seau›, pour traduire poçrßpalß (Creţu 1900: 205, s.v. 2581), un terme rendu par haustrum par Miklosich (1862-1865, s.v.). C’est toujours chez Mardarie qu’on retrouve le mot mescătoare près de ses synonymes pocirăpală et vadră pour traduire çrßpalo et poçrßpalo (Creţu 1900: 290, s.v. 4410). Il n’y a pas, semble-t-il, d’autres attestations de ce mot en roumain. Par rapport au dictionnaire de Mardarie, l’Anonymus semble comprendre plusieurs hapax. On sait aujourd’hui que son auteur a utilisé des sources latines et hongroises, parmi lesquelles l’ouvrage d’Albert Scenczi Molnar, Lexicon latino-graeco-hungaricum. On peut bien imaginer que l’auteur de l’Anonymus aurait puisé certains termes dans ces sources, les aurait traduits en roumain et aurait ensuite procédé à la rédaction de son dictionnaire roumain-latin. Il est plausible que l’auteur ait forgé des mots nouveaux qui respectent les particularités morphologiques du roumain pour traduire un certain nombre de termes latins. Ces mots, attestés, semble-t-il, exclusivement dans l’Anonymus, sont surtout des dérivés formés avec le suffixe -ură, un suffixe particulièrement répandu dans la région de Banat aux XVIe-XVIIe siècles.13 Voici quelques exemples: «chemătură Vocatio» (Chivu 2008: 93, Pour une discussion sur la transition sémantique du latin MISCERE au roumain meşte, voir Hasdeu (1878: 292). 13 Pour un dossier des opinions avancées à ce sujet, voir Dima (2009: 80). 12
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s.v. 1921); «dezbătătură Excutio. Dissvasio» (Chivu 2008: 81, s.v. 860); «urdinătură Idem [=Frequentatio]» (Chivu 2008: 131, s.v. 5129); «zăuitătură oblivio» (Chivu 2008: 132, s.v. 5246); «zbătătură Excussio» (Chivu 2008: 132, s.v. 5205); «curăciune Puritas. Castitas» (Chivu 2008: 96, s.v. 2210); «fămeiat habens familiam» (Chivu 2008: 85, s.v. 1238); «necurăciune Impuritas» (Chivu 2008: 104, s.v. 2826). 4. La fidélité des auteurs des deux dictionnaires par rapport à la norme de l’époque s’exprime également par l’usage qu’ils font de certains termes qui jouissent toujours d’une large diffusion en roumain, mais qui revêtent ici des significations spécifiques au roumain ancien. C’est le cas de zgaibă (< lat. SCABIES), un terme par lequel, au cours de l’histoire du roumain et même dans la période contemporaine, furent désignées plusieurs maladies des hommes ou des animaux qui se caractérisent par l’apparition de (petits) boutons sur la peau. Il semble que l’auteur de l’Anonymus était bien au courant du fait que zgaibă avait une signification assez générale, car il le rend d’abord par le latin scabies ‹gale› (Chivu 2008: 132, s.v. 5251). Il y ajoute une seconde glose, lepra, grâce à laquelle on obtient une signification plus précise du terme. L’usage du roumain zgaibă au sens de ‹lèpre› n’est pas singulier: on en retrouve un emploi similaire dans un fragment de l’Ancien Testament (4 Rois 5) rédigé dans le dernier quart du XVIIe siècle d’après une source de Banat-Hunedoara (Dima 2009: 124).14 De plus, la relation entre le mot zgaibă et la lèpre était bien établie en roumain dès le XVIe siècle, à en juger d’après l’usage qu’on faisait à l’époque de l’adjectif dérivé de zgaibă, zgăibos. Cet adjectif est employé au sens de ‹lépreux› au XVIe siècle dans une version de l’Exode 4, 6: «Zise iară Domnul lui: ‹pune mâna în sânul tău›. Şi o puse în sân şi iară o luă afară, iaca era zgăiboasă ca şi neaua». (Pamfil 1968: 189).15 Au XVIIe siècle, l’Anoymus explique le même adjectif d’abord par Leprosus et ensuite par Scabiosus (Chivu 2008: 132, s.v. 5256). Auă (< lat. UVA) est un autre mot hérité du latin dont la signification en roumain ancien, ‹raisin›, est différente de celle contemporaine, ‹variété de raisin›.16 L’usage du terme au sens de ‹raisin› est bien attesté aux XVIe-XVIIe siècles. Au XVIe siècle, le mot est utilisé au sens de ‹raisin› dans plusieurs éditions du Psautier (Candrea 1916: 314, 246v) et dans l’Ancien Testament (Pamfil 1968: 174); pendant le siècle suivant, il apparaît avec la même signification dans le Nouveau Testament de 1648 (Apoc. 14, 18) et dans les dictionnaires slavo-roumains de Mardarie et de Staicu. Chez Mardarie, il se retrouve dans l’expression strugur de auă (Creţu 1900: 129, s.v. 768) pour traduire sl. grejnoven´, que l’éditeur moderne a considérée comme une forme aberrante due à Mardarie (Creţu 1900: 129, n. 3). Auă est repris par Mardarie dans le syntagme strâng auo, à côté de culeg viţă, pour traduire sl. Σb´imaü, Σb´emlü loj¨ (Creţu 1900: 288, s.v. 4368). Dans le dictionnaire de Staicu, auă apparaît deux fois: d’abord près de struguri, quand il traduit grejporenïe (fol. 64v), ensuite pour rendre sl. rojd´ (fol 210v) qui signifie ‹uva› (Miklosich 1862-1865, s.v.). L’opinion exprimée dans DLR (s.v. zgaibă), selon laquelle le mot zgaibă désignait la ‹lèpre› également dans une version de l’Exode 9, 9-12 du XVIe siècle (Pamfil 1968: 205, 206) n’est pas recevable, car ni le texte massorétique ni la Septante ne font pas mention de la ‹lèpre›, mais des ‹pustules›. 15 Dans le texte massorétique, la main de Moïse devient lépreuse, ayant la couleur de la neige, alors que la Septante omet la référence à la lèpre (Septuaginta 2004: 203, n. 4.6). 16 En aroumain et en mégléno-roumain le mot continue à avoir le sens de ‹raisin› (Hasdeu 1867: 268269; CDDE, s.v. 117). Une description historique du champ onomasiologique du ‹raisin› en roumain a été dressée par Brâncuş (2004: 175-177). 14
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5. L’Anonymus consigne également des termes roumains dont les sens, qui ressortissent de la comparaison avec les significations de leurs équivalents latins, ne se retrouvent pas parmi les significations retenues dans les dictionnaires historiques du roumain. En effet, pour quelques uns de ces mots, les dictionnaires historiques notent qu’il s’agit de significations particulières, attestées seulement dans l’Anonymus. C’est le cas du mot osânză (< lat. ABSUNGIA / AUSUNGIA), utilisé généralement au sens de ‹graisse de porc›, mais qui désigne la ‹graisse de poisson› dans l’Anonymus: «osundză Pinguedo piscis» (Chivu 2008: 107, s.v. 3060). De même pour le mot guran (< gură ‹bouche› < lat. GULA ‹gorge, gosier›), glosé par Os magnum habens (Chivu 2008: 89, s.v. 1568). Pour expliquer le sens du mot dans ce contexte, le Dictionnaire de l’Académie traduit fidèlement l’expression latine par ‹om cu gura mare› (DA, s.v. gură), une traduction équivoque, car elle signifie à la fois ‹quelqu’un qui a une grande bouche› et ‹quelqu’un bavard›. L’ambiguïté n’est pas superflue, car il y a des arguments qui confortent chacune des deux lectures. La première interprétation est étayée par l’utilisation du mot guran, en Olténie, pour désigner un poisson qui a une bouche grande, le sandre (Lucioperca sandra) (DA, s.v. gură). D’autre part, il est également légitime de considérer que le mot guran signifiait ‹bavard›, car trois autres mots dérivés de gură, guraliv, gureş et guratec, ont le même sens. On peut y ajouter un quatrième, dérivé de guran, le verbe gurăni qui signifie ‹parler beaucoup, bavarder› dans les régions de Mehedinţi et de Gorj (CDDE, s.v. 772). L’Anonymus comprend d’autres termes roumains dont le sens consigné dans les dictionnaires historiques s’écarte des significations respectives des mots latins qui les glosent. Roum. coardă (< lat. CORDA) est un mot polysémique qui signifie ‹corde, tendon, sarment de vigne, ressort, traverse du toit des maisons de campagne; traverse qui relie les bras de l’armon; planchette de la hotte des cheminées› (DA, s.v.). Dans l’Anonymus, il est expliqué par lat. zona (Chivu 2008: 95, s.v. 2053) et semble avoir, de manière exceptionnelle, la signification de ‹ceinture› (Du Cange 1883-1887, s.v. zona1; Quicherat 1906, s.v. zona)17 ou de ‹courroie, cordon de soulier› (Quicherat 1906, s.v. zona). Si l’on accepte cette signification comme plausible, il faudrait qu’elle soit retenue dans les ouvrages lexicographiques. Le mot fânaţ (< lat. *FENACIUM) est rendu par lat. foenile (Chivu 2008: 85, s.v. 1241). On a affaire à la plus ancienne attestation du terme roumain. Selon les explications consignées en DA (s.v.), qui s’appuie sur des utilisations plus tardives du mot, fânaţ signifie ‹prairie, pré› ou ‹foin›. Ces deux significations ne correspondent pas au sens du lat. foenile ‹fenil, grenier de foin›. On est, donc, en droit de se demander si le mot roumain n’avait pas, au moins dans la région de Banat au milieu du XVIIe siècle, le sens que l’Anonymus lui assigne. Le mot deşchizătoare (< deschide < lat. DISCLUDERE) est enregistré une seule fois en roumain ancien: dans l’Anonymus, où il est expliqué par Apertorium. Clavis (Chivu 2008: 80, s.v. 838). DLR (s.v.) note que deşchizătoare est un hapax et qu’il signifie ‹clé›. Évidemment, pour définir le terme, les auteurs du dictionnaire ont fait un choix entre les deux termes latins qui glosent le mot roumain et qui ne sont pas synonymes: apertorium semble issu du latin médiéval et signifie ‹officina, taberna aperta in qua artifices palam opera sua conficiunt› (Du Cange 1883-1887, s.v.), alors que clavis signifie ‹clé›. On serait incliné à donner raison aux lexicographes contemporains, vu que le terme deşchizătoare est formé du verbe deschide Corde est utilisé au sens de ‹ceinture› dans le français médiéval, à partir de 1374 (DMF: Dictionnaire du Moyen Français, http://www.atilf.fr/dmf, ATILF - CNRS / Nancy Université, s.v. corde).
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‹ouvrir› et du suffixe d’agent -tor, donc il signifierait ‹celle qui ouvre›. Toutefois, il est peutêtre utile de garder à l’esprit la relation entre apertorium et deşchizătoare, telle qu’elle se retrouve dans l’Anonymus, et d’essayer de l’éclairer en cherchant d’autres attestations de ce mot dans le roumain ancien. Un problème intéressant soulève le mot ţărină (< lat. *TERRINA), glosé par trois termes dans l’Anonymus: «ţărină Arena. Ager. Terra» (Chivu 2008: 79, s.v. 720). Le premier, arena, appartient à l’auteur du dictionnaire, les deux derniers, Ager et Terra, sont marqués par un scribe ultérieur. Ţărină représente une variante phonétique du roum. ţărână, dont le sens principal est de ‹terre pulvérisée, poussière› (DLR, s.v.). Évidemment, cette signification ne s’accorde pas trop avec celle du lat. arena, que l’auteur de l’Anonymus a utilisé pour expliquer le mot roumain. Pourtant, le même dictionnaire établit une relation entre le mot roumain et la signification ‹sable› au niveau du roumain contemporain, car il note que le roum. ţărână acquiert ce sens dans le patois de la région de Sibiu. Vu que la contrée de Sibiu s’avoisine à celle de Banat, d’où l’auteur de l’Anonymus était originaire, on peut présumer que le mot ţărână était utilisé avec la signification ‹sable› également dans le roumain ancien, dans une région plus étendue qui incluait le Banat. L’auteur de l’Anonymus en témoigne lorsqu’il traduit le dérivé de ţărină, ţărinos, par arenosus ‹sablonneux› (Chivu 2008: 79, s.v. 721), un sens que ce mot préserve encore dans le roumain contemporain. Un autre scribe de l’Anonymus glose le terme ţărină par Ager. Terra. Cette correspondance est pour le moins surprenante, car ţărină n’a pas les significations de ces deux mots latins, ‹champ, terre labourable, territoire› (cf. DLR, s.v.). Il existe pourtant un autre mot, très proche phonétiquement de ţărină, dont la signification principale est de ‹champ, terre labourable›: ţarină (< ţară < lat. TERRA). Dans ces conditions, la glose du roum. ţărină par Ager. Terra, glose qui n’est pas due à l’auteur du dictionnaire et qui n’est pas conforme au sens du mot roumain, peut s’expliquer de deux manières. D’une part, il est possible que le scribe n’ait pas compris la graphie de l’auteur, ce qui l’aurait amené à lire ţarină au lieu de ţărină. D’autre part, il est également possible que le scribe fût originaire d’une région où le mot ţărină ne signifiait pas (plus) ‹sable›, raison pour laquelle il réinterpréta la graphie de l’auteur du dictionnaire et expliqua le mot d’une manière qu’il jugeait plus appropriée. En guise de conclusion, les deux ouvrages lexicographiques sont un témoignage remarquable pour comprendre l’histoire de la norme littéraire du roumain ancien. L’analyse des mots dont l’usage n’est attesté qu’en roumain ancien montre que les deux dictionnaires peuvent illustrer des étapes des phénomènes linguistiques en déclin, peuvent dessiner des cartes des phénomènes dialectaux qui se transmettent, éventuellement, par des ouvrages similaires; peuvent témoigner de l’esprit innovateur de leurs auteurs, qui va de pair avec leur souci de rester fidèles au canon littéraire qu’ils maîtrisaient. En même temps, les deux ouvrages lexicographiques peuvent témoigner des sens moins connus ou ignorés des mots roumains de l’époque. Le prouver s’avère une opération délicate car elle suppose la reconstitution de l’histoire sémantique des mots; cependant, au terme de cette opération on connaîtrait mieux le roumain du milieu du XVIIe siècle.
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Giulio Vaccaro (Opera del Vocabolario Italiano, CNR - Firenze)
Tradizione e fortuna dei volgarizzamenti di Vegezio in Italia1
1. Tradizione e fortuna di Vegezio Flavio Renato Vegezio, chi era costui? Il suo nome appare oggi come una delle molte ombre della letteratura latina tardo-antica. Di lui ci restano due opere (l’Epitoma rei militaris e la Mulomedicina2), ma non sappiamo con esattezza neppure il suo nome (Vegetius è infatti solo la forma più usata, ma lo stesso autore è chiamato anche Vegecius, Vegatius, Vegitus, Vegetus, Vigitus, Vicetus e addirittura Negotius) né il luogo in cui visse (probabilmente Roma, ma alcuni hanno proposto Costantinopoli).3 Lo spazio a lui dedicato nelle letterature latine è minimo: poche righe che lo collocano tra quei tardi autori e compilatori le cui opere –prive di carattere originali– interessano più come testimonianza di una temperie culturale che come documento letterario o tecnico-scientifico. La fama di Vegezio rimane legata a una sola frase (che tra l’altro non scrisse mai): si vis pacem, para bellum (e che, in realtà, suona qui desiderat pacem, praeparet bellum, L. III, prologus, l. 76). Molto differente era, però, la considerazione di cui godeva il nostro autore nel Medioevo. Per esempio, nell’Amorosa visione (c. 5, v. 49) Boccaccio colloca Vegezio tra i grandi scrittori della antichità, insieme a Sallustio, Claudiano, Persio, Catone e Marziale: ... E dopo questi / Sallustio, quasi in sembianza smarrita, / là parea che narrasse de’ molesti / congiuramenti che fè Catellina / contra’ Roman, ch’a lui cacciar fur presti. / Al qual Vegezio quivi s’avvicina, / Claudiano, Persio e Catone, / e Marziale in vista non meschina (Branca 1944: 33).
Anche Guglielmo Maramauro, nella seconda metà del XIV secolo, nell’Expositione sopra l’Inferno, segnala Vegezio nella lunga serie di letture preparatorie per la propria opera: Tutte le citazioni dell’opera latina di Vegezio sono da Önnerfors (1995). Il volgarizzamento di Bono Giamboni si cita dall’edizione Fontani (1815); la versione senese anonima e quella di Venanzo de Bruschino sono inedite (ma si veda Vaccaro 2007a). Questa comunicazione rientra nel progetto SALVIt (Studio, Archivio e Lessico dei Volgarizzamenti Italiani), i cui risultati sono consultabili alla pagina web http://www.salvit.org/. 2 Articolata originariamente, come dimostrato da Ortoleva (1996), in due opere distinte: i Digesta artis mulomedicinalis e il De curis bouum. 3 Per un panorama su queste due questioni, cfr. Richardot (1998). 1
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Ancora me fu necessario, per compire questa opera, vedere recapitulare e studiare li infrascripti libri, videlicet: Tito Livio, Gregorio, Augustino, Ambrosio, Ieronimo, la Biblia, el Maestro de le Istorie, el Magistro de le Sententie, Vincentio Ystoriarum, Ugo de San Victore, Isodero, Pap[i]a, san Tomaso d’Aquino, Iosepo, Orosio, Lactantio, Macrobio, Policrate, Svetonio, Boetio, Sedulio, Casiodoro, Seneca, Tulio, Quintiliano, Vegiecio, Sollino, Platone, Aristotile, Frontino, Plinio, Salustrio, Iustino, Iulio Florio (Pisoni / Bellomo 1998: 82).
Il commentario trecentesco dei Remedia amoris di Ovidio (nella traduzione indicata come B da Vanna Lippi Bigazzi) mostra appieno l’inportanza che nel Medioevo aveva Vegezio, spesso associato all’altro grande esponente della letteratura tecnica della tarda antichità, quel Palladio Rutilio Tauro Emiliano, autore del De agricultura: «Nella coltura di li terre il Palladio, nelle battaglie Vegezio insegna» (Lippi Bigazzi 1987: II.846). La fortuna dell’Epitoma rei militaris tra l’antichità e il Medioevo fu enorme: 246 sono i manoscritti latini noti e 53 di questi furono copiati prima del 1300.4 Questa fortuna dell’opera, si riflette, ovviamente, nei volgarizzamenti. La prima versione in area francese è quella composta in anglo-normanno da Mastre Richard, negli anni 1265-1272 (cfr. Thorpe 1952 e Shrader 1979: 305). Di pochi anni successiva alla precedente (fu infatti composta tra il 1284 e il 1315), è la traduzione in versi, intitolata Li abrejance de l’ordre de la chevalerie, nota da un solo manoscritto, di Jean Priorat da Besançon: il volgarizzatore, tuttavia, trasse spunto, più che dall’originale latino, dal testo in prosa di Jean de Meun. Ancora ispirato alla prima redazione di Jean de Meun è il volgarizzamento di Jean de Vignay, composto tra il 1326 e il 1350, intitolato De la chose de la chevalerie, di cui restano oggi otto manoscritti (cfr. Knowles 1956). A queste redazioni, che in qualche modo rimontano tutte all’originaria versione di Jean de Meun, se ne aggiunge una anonima, databile alla fine del XIV secolo, tràdita da due manoscritti (cfr. Camus 1890). All’area castigliana appartiene il quattrocentesco volgarizzamento per opera di Alfonso de Sant Cristóbal, importante perché nel prologo fornisce una giustificazione filosofica e morale all’argomento di Vegezio sulla preminenza della guerra rispetto alle altre arti. De questo volgarizzamento ne deriva un secondo, anonimo, intitolato Libro de la Guerra.5 Da questi testi, che si appoggiano gli uni sugli altri durante la trasmissione, nascono altri compendi e compilazioni che dànno origine principalmente a due gruppi di testi: un compendio che nei manoscritti compare attribuito a Cicerone, Catone o Modesto6 e un opusculo militare attribuito a Seneca.7 Al Quattrocento datano anche le tre versioni inglesi: quella molto copiata in tutto il secolo attribuita a John Trevisa (1408; 10 manoscritti), redatta per Thomas Berkeley; quella di Robert Parker (1458; tre manoscritti);8 e quella in scozzese di Adam Loutfut (1494; un manoscritto). Un confronto con i dati forniti dalla Buttenwieser (1942) indica che più di Vegezio furono copiati, prima del XIII secolo, solo Cicerone (oltre 600 manoscritti), Ovidio (305) e Virgilio (223). Sicché l’Epitoma sarebbe stata copiata non solo più di opere storiche come i Commentarii cesariani, le Historiae di Tito Livio e i Facta et dicta memorabilia di Valerio Massimo (41 copie), ma anche di opere tecnico-scientifiche di autori come Plinio il Vecchio (52), Vitruvio (28), Frontino (nove) e Columella (sei). Cfr. anche Allmand (2011). 5 Cfr. Roca Barea (2007). Per l’edizione del testo cfr. De Torre (1916). 6 Cfr. Dalmasso (1907). Per maggiori notizie su questa versione, cfr. anche González / Saquero (1988). 7 Per un panorama sulla questione, cfr. Blüher (1983: 141) e González / Saquero (1987). 8 Per l’edizione del testo e una descrizione analitica dei relatori cfr. Dyboskj / Arend (1935). 4
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Sempre nel XV secolo si hanno l’unico volgarizzamento tedesco, per opera di Ludwig Hohenwang von Tal Elchingen (1470), che dedica la su opera a Johann Graf von Lupffen; e una versione in portoghese, oggi perduta, dedicata a Don Pedro, duca di Coimbra (14291466) (cfr. Russell 2001). Al principio del XVI secolo il monaco brigidino svedese Peder Månsson appronterà una traduzione parziale dell’Epitoma, chiamata Stridskonst (cfr. Hyltén-Cavallius 1845). Vi è infine una versione anonima in yiddisch, conservata presso la Bayerische Staatsbibliothek di München (Monacensis Hebraicus, 235), ancora oggi inedita.
2. Vegezio in Italia 2.1. La versione di Bono Giamboni (a) Il primo volgarizzamento italiano (da me indicato come a) è quello compilato a Firenze da Bono Giamboni tra il 1260, anno in cui si hanno le prime notizie dell’attività traduttiva di Bono, e il 1292 (data di morte dell’autore). Questa versione è tradita da sei manoscritti: Firenze, Biblioteca Riccardiana, 1054 (R1), 1396 (R2) e 1614 (R3); Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, pl. XLIII, 29 (L1); Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II. II. 73 (N1) e II. IV. 125 (N2).9 L’opera fu citata, con la abbreviatura Vegez., dalla prima alla terza impressione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, da un «Testo a penna. Di Giuliano Davanzati nostro Accademico», identificato da Giulia Stanchina (2009: 201-2) nel codice R2; come dimostrato da Gandellini (1996: 78-92) e Stanchina (2009: 202), tuttavia alcune citazioni furono tratte da R1. Il testo è stato publicato, come detto, integralmente solo nel 1815 dall’accademico della Crusca e bibliotecario della Riccardiana Francesco Fontani, che seguì soprattutto la lezione di R1, utilizzando però –secondo criteri empirici– anche le lezioni degli altri due manoscritti riccardiani. Alcune correzioni al testo stabilito dal Fontani furono proposte da Salvatore Betti (1857). Parti del testo furono pubblicate in antologie, prima da Vincenzio Nannucci (1839: III.395412) e poi da Cesare Segre (1953: 335-50): Nannucci seguì, benché con la introduzione di alcune varianti –probabilmente congetturali o successive a una comparazione con il testo latino–, la versione del Fontani. L’edizione di Segre, limitata al solo quarto libro, si basa ancora su R1, corretto ope ingenii o, ancora, seguendo il testo latino. Il volgarizzamento di Vegezio sembra rientrare pienamente nella consolidata prassi del volgarizzamento due e trecentesco. qualsiasi discorso sulla prassi e sulla tecnica della traduzione non può prescindere dal condizionamento esercitato dal modello del testo latino di partenza: ciò è, probabilmente, ancor più vero per un testo come quello di Vegezio, nel quale Bono (ma come lui la gran parte dei traduttori) sceglie un codice che non tradisca la dignità della prosa latina e obbedisca alle esigenze di stabilità e referenzialità imposte nella trasmissione di contenuti «scientifici». Tutto ciò non si traduce in innovazioni profonde o sperimentalismi sintattici Tra parentesi indico le sigle stabilite da Gandellini (1996), che userò di qui in avanti. Per un’analisi del volgarizzamento giamboniano cfr. anche Vaccaro (2011).
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(d’altronde poco probabili in un testo duecentesco), ma si palesa in una pianificazione rigida del testo, segnata dalla prevalenza di nessi sintattici espliciti. Il rapporto col latino non è, almeno in questo volgarizzamento, particolarmente dinamico, benché appaia chiaramente la tendenza di Bono verso quelle «correnti di forma più popolare e di forma divulgativa» (Segre 1953: 17). Il traduttore medievale (e Bono rientra pienamente in questa categoria) non si cura, essenzialmente, della traduzione de verbo ad verbum, bensì predilige la trasmissione del senso complessivo del testo che ha tradotto. Deve quindi conciliare una duplice esigenza: da un lato non travisare il senso complessivo del brano; dall’altro il non appiattire il linguaggio, vista l’inadeguatezza del volgare di fronte alla specificità dei contenuti dell’opera latina. Così una lacuna dell’italiano antico si risolve, per esempio, con l’adozione della parola latina, che si può anche accompagnare a un nome comune in volgare: considerando due piccole monete che una vedova avea date, disse che più che neuno altro in corbonam avea messo. (Prologo) Ed ancora si fabbricano di verdi legni grandissime ruote, o vero cilindri tagliati di fortissimi legni, i quali sono taleas chiamati, e piallansi, acciocchè si volgano agevolmente... (IV.8) E principale dalla parte del ponente è Zefiro, e dalla sua parte diritta s’ aggiugne Lippi, o vero Africo, e dalla manca Iapte, o vero Favonio. E principale dalla parte del settentrione è Apartias, e dalla sua parte diritta è Tracas, e dal lato manco è Borea, cioè aquilone. (IV.38) Dipo’ il detto tempo infino a tertio idus, che è a dì undici di Novembre, è il navicamento non certano, e pericoloso, imperocchè dipo’ idus, cioè dì dodici di Settembre, nasce arturus che è una stella di grandissimo pericolo... (IV.39)
La seconda tipologia è ovviamente la glossa, introdotta quasi sempre da cioè: E non solamente a’ pedoni, ma a’ cavalieri, e cavalli di coloro che s’ appellavano Veliti, cioè che portavano i cappelli dell’ acciaio, è util cosa l’ apparare a notare, acciocchè neuna cosa, a che usati non siano, possa loro incontrare. (I.10) Così erano guerniti quegli principi che combatteano nella schiera primaia, e nella seconda astati, cioè con aste, nella terza triarj erano chiamati... (I.20) Erano appo gli antichi tra’ pedoni certi che si chiamavano ferentari, cioè genti scariche di ferro, i quali ne’ corni spezialmente della schiera s’ allogavano... (I.20) Candidati di doppia e Candidati semplici sono appellati i principali cavalieri, cioè capitani a cui sono dati molti privilegj; e tutti gli altri cavalieri sono appellati Munifici, cioè che sono per guiderdone alla cavalleria, cioè a fare i servigi costretti. (II.8)
Le note esplicative si concentrano «a gruppi» nelle sezioni più tecniche dell’opera. In alcuni casi, la volontà di Bono andrà attribuita unicamente a una tendenza «divulgativa»: Ed ancora i cavalieri delle centurie, e contubernie tra loro vicendevolmente, cioè l’ uno per l’ altro, fanno continue guardie nel tempo della pace... (II.20) Tagliansi utilmente le travi passata la state, cioè dipo’ il mese di luglio e agosto, e tagliansi poi infino per tutto gennaio. (IV.36)
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In altri casi, l’insufficienza terminologica del volgare è indicata da Bono con la formula per lettera s’appella / si chiama. Alla parola latina a volte si giustappone la volgare, marcata, per contrasto, con la formula per volgare: Le schiere de’ cavalieri per lettera s’ appellano ale, perchè ci cuoprono e difendono da ogni parte. (II.2) due lancioni, uno maggiore con ferro a tre canti, di peso di nove once, e l’ asta di lunghezza di cinque piedi e mezzo, il quale per lettera si chiama pilo, ed in volgare spiedo, alla fedita del quale s’ ausavano spezialmente i cavalieri... (II.16) Questo gatto ha dentro una trave ove si mette un ferro uncinuto, il quale è falce chiamato, col quale, perocchè piegato, del muro si traggono le pietre, o vero che il capo gli si veste di ferro, ed è chiamato in volgare bolcione, e per lettera montone, perchè ha durissima fronte, e con esso si fanno le mura cadere, o vero ch’ a modo di montone torna addietro, acciocchè con grande forza menato più fortemente percuota. Il gatto è detto per lettera testuggine a similitudine della verace testuggine... (IV.14)
In alcuni casi si marca la differenza cronologica con una proposizione relativa introdotta da appellare o chiamare: Quegli di Lacedemonia, e d’ Atena, ed altri Greci ne’ libri che fecero molte cose ne dissero, i quali erano tattici appellati. (I.8) Ancora il primaio prefetto due centurie, cioè dugento cavalieri menava nella schiera seconda, il quale ducenario è oggi appellato. (II.9) Ed ancora i centurioni, che oggi sono gonfalonieri chiamati, combattenti, e bene armati aveano nell’ elmo la insegna... (II.14) Il terzo ordine si dispone d’ armadure tostane, cioè di giovani balestrieri, e di buoni lanciadori, i quali erano ferentari dagli antichi appellati. (III.14)
Non si possono, dunque, non sottoscrivere le parole con cui Santorre Debenedetti (19121913: 271) apriva la sua biografia di Bono Giamboni: «nel quadro della cultura fiorentina, dopo ser Brunetto, conviene ricordar lui, il nostro Giudice. Traduttore dal latino e dal francese in solenni periodi, apre la schiera dei forti volgarizzatori, che diffondono mirabilmente il toscano, e preparano l’avvento del Decameron. Uomo di legge e letterato, in Italia, ove il giure e la bella letteratura si sposarono così per tempo, dando così bei frutti, favorisce anch’egli il laicizzarsi della dottrina, il suo divenir popolare». 2.2 La versione anonima f L’inedito volgarizzamento f è conservato nel solo manoscritto II.II.72 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Esso data agli anni finali del XIV secolo ed è di provenienza senese. Questa versione non ha avuto grande considerazione negli studi sui volgarizzamenti vegeziani, laddove si eccettui la breve analisi di Reeve (2003: 397-8). L’unica altra menzione
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del testo è nel censimento di Shrader (1979: 305), che propone un’origine fiorentina. Questa proposta, tuttavia, pare contraddetta dai dati linguistici, che riconduco piuttosto a Siena:10 proprio l’origine, unita alla datazione puttosto alta, rende questo volgarizzamento meritevole di maggiore attenzione. L’autore di questo volgarizzamento ha avuto un rapporto con il testo di base latino assai diverso sia rispetto a Bono Giamboni, sia rispetto a Venanzo. Ciò che, infatti, maggiormente colpisce è la pressoché totale assenza d’aggiunte, siano esse glosse, dittologie sinonimiche o interpolazioni. Due sole –nella porzione di testo da noi edita– le glosse esplicative d’un termine ritenuto oscuro, introdotte entrambe dal connettivo cio(è): Hunnorumque (XX.2) catafractis (XX.3)
et Huni, ciò Alamanni catafracte, cioè de cappelline de chioro
Pochi i casi di dittologia sinonimica: iaculatoribus (XV.4) fundis (XVI, rubrica)
sagittari e bacolatori cum le mani o cum le fronçe
La principale caratteristica di questa redazione è però certamente il sistematico scorciamento del testo latino. Che non si tratti di banalizzazioni dovute a problemi di comprensione del testo o a lacune del testo latino è dimostrato dal rapporto dinamico che si instaura tra volgare e latino. Abbiamo infatti –per esempio– inversioni delle componenti originali, quando esse possono sembrare maggiormente funzionali alla comprensione: Saepe enim aduersum bellatores cassidibus catafractis loricisque munitos teretes lapides de funda uel fustibalo destinati sagittis sunt omnibus grauiores, cum membris integris letale tamen uulnus importent et sine inuidia sanguinis hostis lapide ictus intereat (XVI.2)
Ché spesse fiade più che nulla sagitta lo gittatore de le petre sì fere lo tuo nemicho e falli mortale ferita, cum sangue o sença sangue occide li soi nemici. Essendo armati de scudo et d’elmo de lengno e de coro e de pançiere, e questi gittatori sì erano usati de gittare de le pietre tonde o minute con la fronça et collo cacciascudo.
e ancora delle anticipazioni di alcuni termini, sempre vòlte a una maggiore comprensibilità del testo, come in Plumbatarum quoque exercitatio, quos mattiobarbulos uocant, est tradenda iunioribus (XVII.1)
L’uso delle darde che se chiamano plumate sie da acostumare [a] li gioveni, li quali feritori dì se chiamavano marçi barboli
In altri casi, si ha invece una modernizzazione (che è, ovviamente, anche una semplificazione) terminologica: fustibalo (XVI.2) barbari (XVI.5) in Illyrico (XVII.1)
cacciascudo saracini en la contrada de Veneçia
Cfr. Castellani (1952: 35-52 e 2000: 253-457) e Vaccaro (in stampa).
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Nella maggior parte dei passi, si verifica una riduzione delle informazioni date, in particolare laddove esse siano ritenute di mero interesse storico; per esempio a xvii.2 il testo latino Per hos longo tempore strenuissime constat omnia bella confecta, usque eo, ut Diocletianus et Maximianus, cum ad imperium peruenissent, pro merito uirtutis hos Mattiobarbulos Iouianos atque Herculianos censuerint appellandos eosque cunctis legionibus praetulisse doceantur.
è ridotto a E per longho tempo si erano così vencitori delle battalie sie Domitiano et Maximiano imperadore, sì le metteano a più grande merito de vertù che tucte l’altre legione. Et sì l’aveano posto nome cavaleri de deo Jove et deo Ercolo.
Questa versione del volgarizzamento si differenzia in misura notevole dalle altre, non solo per la prassi volgarizzatoria ma anche e soprattutto per la fonte da cui essa proviene. Come detto in precedenza ampia parte dei manoscritti di area italiana deriva da una famiglia (o da un gruppo di codici) legati al o copiati dal manoscritto V.A.21 della Biblioteca Nazionale di Napoli. Questa redazione non discende invece da questa famiglia, ma da quella battezzata da Reeve f. In particolare, il volgarizzatore di questa redazione chiama –seguendo il suo originale latino– l’autore non Vegecius (o Vegetius), bensì Ayecius. 2.3 La versione anonima b. La versione b di provenienza settentrionale, conservata nel manoscritto Ital. 68 della Houghton Library della Università di Harvard data agli ultimi anni del Trecento o ai primi del secolo successivo. Questa redazione del volgarizzamento –di cui non ci si occuperà nel presente studio– è oggetto di ricerca da parte di Paolo Divizia, il quale ne sta curando l’edizione critica. 2.4 La versione di Venanzio de Bruschino da Camerino (g). Questo volgarizzamento dell’Epitoma, noto da due testimoni manoscritti (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, nuovi acquisti 291 e Napoli, Biblioteca Oratoriana del Monumento nazionale dei Gerolamini, 2.23 [già XLVIII; Pil. XV, n. VI]), data al 1417 ed è opera di Venanzio de Bruschino (o Venanzio Bruschino) da Camerino, cancelliere del comune di Perugia, il quale dedicò l’opera al signore della città dal 1416 al 1418, Andrea Fortebracci, detto Braccio da Montone. Sull’autore di quest’opera –a tutt’oggi inedita– non si hanno notizie, se non quelle desumibili dall’epistola dedicatoria dell’opera: si sa che egli si trasferì da Camerino a Perugia, che fu cancelliere della città e che, in gioventù, aveva studiato gli autori classici. Non si ricavano notizie ulteriori né nel repertorio del Giorgetti (1993: s.a. 1417) né nell’opera del Boccanera (1964), pur dedicata nello specifico all’analisi dei rapporti tra Camerino e Perugia: in esse –anzi– il nome di Venanzo non figura affatto. La versione di Venanzo si differenzia notevolmente dalle altre redazioni dell’opera vegeziana: gli ampliamenti, gli ammodernamenti e più ancora l’impianto complessivo dell’opera sembrano
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richiamare più opere di rielaborazione del testo vegeziano (come il De regimine principum di Egidio Colonna o i Fais di Christine de Pisan) che non un vero e proprio volgarizzamento. La più comune prassi di intervento e di ampliamento del testo di partenza è senza dubbio l’aggiunta di brevi frasi che rendano maggiormente comprensibile il testo: se pure questa tipologia è tipica della volgarizzazione medievale (cfr. Segre 1953: 61), essa raggiunge in Venanzo un livello quasi parossistico: hastilia quoque pondera grauioris quam uera futura sunt iacula aduersum illum palum tamquam aduersus hominem iactare compellitur. (XIV.1)
lanciare le cavallotte di doppio peso, che non deggono essere li lancioni da lanciare con verità contra li veri nemici, adverso lu predecto palo, come se proprio fusse huomo e suo nemico.
ut destinato ictu uel in palum uel iuxta dirigat missile (XIV.2)
sì che con appostato colpo o se percuoti il palo o lì se lanci, sì ad presso che el detto palo fusse huomo, al tutto rimanghi ferito.
Balearium insularum (XVI.1)
ne la isola di Maiorica, la quale è di due ragioni, cioè Maiorica magiore et Maiorica minore
In altri casi l’ampliamento semantico d’un termine latino avviene mediante la resa con una coppia sinonimica, separata –nella maggior parte dei casi– dalle congiunzioni o o e, per esempio: exercitio (XIV.2)
il magisterio et la usança
Sagittis [[...]] imbuendos (XV, rubrica)
di saettare o di balestrare
siue in equo siue in terra (XV.2)
il cavallo o vero il cavalcare o vero il palo o vero qual ti vòli altro corpo
Meno comune la spiegazione di un termine ritenuto oscuro, introdotta dai connettivi cioè o però che. Come in altri volgarizzamenti e in altre redazioni dell’Epitoma, questa tipologia è attuata per mezzo della giustapposizione del termine vulgato a quello della fonte: plumbatarum (XVII.1)
piombate, cioè palle di piombo o di ferro da gittare con mano
mattiobarbulos (XVII.3)
margiobarboli, cioè palle di piombo o di ferro
triarii (XX.13)
triarii, però che erano nel terço luogo posti
Ancora, sembra di notevole interesse lo sforzo di ammodernamento terminologico proposto dallo stesso Venanzo nella terminologia militare: egli giustappone il termine cavallotta a quello di lancia; introduce tra le armi atte a lanciare pietre il fuste cordato; e tra le diverse tipologie d’armatura cita la barbuta e la cervelliera. L’autore aggiunge, inoltre, dei moderni aneddoti a quelli narrati da Vegezio nell’originale latino. Si veda, per tutti, l’aggiunta finale al cap. xvii: Et perché di ciò te maravegli, Segnor mio, con ciò sia cosa che di poi che tu venisti ne la presente luce, ne la tua magnifica città de Perusia fosse vetato sotto pena de vita che non entrasse in battaglia uno tuo cittadino lu quale con una pietra vegna percotendolo in petto, amaçava lu huomo armato di giano e di coraça. Et anche questi coglieva di patto fermo fi.... nella porta dei tuoi magnifici signori Priori, la detta pietra vegna gittandola sei passe di longi da la detta pietra.
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Per quanto concerne la fonte del volgarizzamento, essa deve essere individuata –così come per il volgarizzamento giamboniano– in un codice della «famiglia napoletana» individuata da Reeve (2003: 335-37). 2.5 La versione anonima d La versione d, parziale (contiene solo il I libro), si conserva in un manoscritto della Biblioteca Nazionale di Napoli (IX.C.24). Questa versione si può collocare nell’area compresa tra l’Abruzzo meridionale e la Campania (cfr. Sabatini 1975: 197) e data al secondo decennio del XV secolo.11 2.6 La versione anonima z L’unica notizia in nostro possesso di questa redazione è quella fornita in Zambrini (1883: 1042): «Alcuni Frammenti di una versione diversa dalla soprallegata [i.e.: quella di Bono Giamboni], in capitoli 15 del libro I e 6 del III, trovavansi in un codice mem., insieme con altri mss., nella Libreria dei Monaci di S. Pietro in Perugia, ma sa Iddio dove quei preziosi documenti sieno andati a finire dopo le prodezze di valore date nel 1859 in detta città, e più in quel monastero, dalle soldatesche svizzero-papali!». Zambrini edita anche due capitoli: il xiii (che corrisponde al xiv del testo latino) e il xix (che corrisponde al xx del testo latino) del primo libro. 2.7 La versione anonima h. Presso la Biblioteca privata dei Conti Capialbi, a Vibo Valentia, era conservato –almeno fino al 1897– un testimone di una redazione non altrimenti nota di un volgarizzamento dell’Epitoma. Le notizie a oggi reperibili su questa versione sono quelle fornite da Vito Capialbi (1835: 109-10) e da Francesco Carabellese (1897: 204). 2.8 La versione l Un’ulteriore redazione (l), anch’essa parziale (contiene solo il II libro) è contenuta in un codice del XVII sec. (London, British Library, Additional 24216) ed è attribuita nel manoscritto, da una mano settecentesca, a un Landini: che l’autore di questa versione sia da identificarsi in Cristoforo Landino appare però improbabile, mentre sembra più verosimile che si tratti di una traduzione secentesca, sicché essa non viene trattata nel presente lavoro.
Per un’analisi più approfondita di questo volgarizzamento, cfr. Vaccaro (in stampa) e Vaccaro (2007b).
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Paul Videsott (Université Libre de Bolzano)
Quand et avec qui les rois de France ont-ils commencé à écrire en français?
1. Introduction Dans son étude «Quelques remarques sur les langues écrites à la chancellerie royale de France», Lusignan (1997: 100) formulait le desideratum suivant: «L’une des premières recherches qui s’imposent est d’établir une chronologie précise de l’utilisation du latin et du français dans les actes royaux». Dans l’article suivant, nous essayerons de répondre à cette invitation, au moins pour ce qui concerne le français et le début de son usage à la Chancellerie royale pendant le XIIIe siècle.1
2. Le français à la Chancellerie royale Si l’on parle de l’usage du français à la Chancellerie royale, il faut d’abord situer cet usage dans l’usage plus général du français dans la capitale du royaume capétien. La première distinction qui s’impose est celle entre actes de la pratique et textes littéraires. Dans les deux domaines, l’apparition des documents vernaculaires en Île-de-France et à Paris est –comme on le sait– relativement tardive.2 Etant donné la place limitée dont nous disposons, nous nous bornons à donner ici un résumé des données et des chiffres les plus importants. Leur discussion plus approfondie est renvoyée à un autre endroit (cf. Videsott sous presse). Nous remercions sincèrement Serge Lusignan (Montréal) d’avoir bien voulu nous faire bénéficier de ses commentaires sur une version précédente de cet article et Emmanuel Faure (Ratisbonne) d’en avoir aimablement revu la forme. 2 Un premier aperçu sur l’apparition du français dans les domaines littéraire et non littéraire à Paris et dans l’Île-de-France –à comparer avec les données pan-romanes présentés par Frank / Hartmann / Kürschner (1997)– est offert par Pfister (1973: 225-229; 1993: 19-23) et Berschin / Felixberger / Goebl (2008: 192, basé sur A. Brun et Th. Gossen), mais les dates indiquées jusqu’à maintenant pour les premières chartes en français dans cette région doivent être avancées d’au moins trois décennies (cf. Videsott 2010a). Sur l’importance de la bourgeoise et de l’Université pour l’éclosion du français littéraire parisien, S. Lusignan (en préparation) a récemment avancé quelques considérations très pertinentes, dont nous avons pu bénéficier. 1
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Paul Videsott
Pour ce qui concerne les actes de la pratique, face à la Grande Chancellerie il y avait d’autres centres d’écriture à Paris, moins importants, certes, mais dont la production écrite en français était quantitativement supérieure. En dehors des institutions royales, on trouvait par ex. les chancelleries des princes du sang et des grands feudataires, qui –en dépit de leur titre– résidaient souvent à Paris et faisaient déjà un emploi modéré du français.3 Ceci nous permet de supposer –en plus des raisons données par Lusignan (2004: 112-116)– que lorsqu’en octobre 1330, le nouveau roi Philippe VI donne l’impulsion décisive qui fera passer la Grande Chancellerie à l’emploi majoritaire du français, il ne fait que suivre l’exemple des autres grands feudataires et applique les usages linguistiques qu’il connaissait par sa propre chancellerie de comte de Valois. Parmi les institutions royales figuraient la Chancellerie et la Prévôté. Cette dernière avait toutes les caractéristiques des institutions de justice «bourgeoises», favorisées par les rois pour soustraire leur sujets, quand il s’agissait de l’administration de la juridiction gracieuse, aux officialités ecclésiastiques (cf. Boüard 1910: 12-35). L’organisation de la Prévôté ressemble sur beaucoup de points au modèle de l’échevinat des villes flamandes (sans en être l’équivalent exact, ce qu’était, en toute rigueur, la Prévôté des marchands); celles-ci ont d’ailleurs dès le début utilisé le français. Bien que le premier document en français de la Prévôté qui nous soit connu (datant de 12604) soit postérieur de près de deux décennies au premier document en français de la Chancellerie (de 1241, cf. infra 4), on peut supposer que l’usage linguistique de la Prévôté, surtout après sa réorganisation sous Etienne Boileau, premier prévôt bourgeois (1258-60 et 1261-70), a influencé celui de la Chancellerie. Entre ces deux chancelleries, il y avait un lien étroit, comme le démontre non seulement l’échange des sceaux, mais aussi le passage, attesté, de notaires du Châtelet à la Grande Chancellerie.5 La grande différence entre la Chancellerie et la Prévôté, excepté la différence de leur domaine d’activité, est que la Prévôté est dès le début une institution laïque, cependant que la Chancellerie restera longtemps sous la direction de gardes des sceaux ecclésiastiques. Il est symptomatique qu’à partir du moment où les gardes des sceaux seront laïques eux aussi, l’usage du français à la Chancellerie ait augmenté sensiblement (cf. infra 4). C’est le cas d’Alphonse de Poitiers, frère du roi Louis IX (cf. Molinier 1894-1900; 1900b; CarolusBarré 1976: 153 n. 10). Les comtes de Champagne expédiaient également souvent leurs actes à partir de Paris, faisant un usage modeste mais précoce du français en leur qualité de comtes (cf. Coq 1988; Lusignan 2004: 57), mais restant fidèles au latin pendant tout le XIIIe siècle en leur qualité de rois de Navarre (cf. Brutails 1890). 4 Selon nos recherches dans les archives, il devrait s’agir du document AN S 293 – Notre Dame, n° 16 (janvier 1260) délivré par Pierre Gontier. Lodge (2004: 85, repris par Videsott 2010a: 68 n. 23) mentionne dans sa liste des «Vernacular documents in the Prévôté de Paris, 1249-1365» deux documents précédents de 1249 et de 1253. Vérification faite, il ne s’agit pas de documents de la Prévôté, mais, pour celui de 1249, d’une sentence arbitrale rendue et scellée par Renaud, seigneur de Tricot et Geoffroi de la Chapelle, panetier de France (Carolus-Barré 1964: 6-8) et pour celui de 1253, d’un accord entre Galeran, chambrier de Saint-Germain-des-Prés, et Gaucher de Châtillon, sire de Crécy (Layettes III, no 4070). 5 Pour l’usage du sceau du Châtelet en l’absence des sceaux royaux, attesté pour la première fois en 1312, cf. Bautier (1991: 22). Il est en revanche assez difficile d’établir avec certitude les notaires de la Prévôté (dont le nombre fut limité à 60 par une ordonnance royale de 1301) qui sont effectivement passés à la Chancellerie (qui en comptait une dizaine vers 1300, cf. Lusignan 2004: 105); cette difficulté vaut notamment pour le XIIIe siècle, pour lequel nous ne disposons pas de registres complets mentionnant les noms des notaires responsables de la rédaction de l’acte, comme c’est le cas à partir de 1305. 3
Quand et avec qui les rois de France ont-ils commencé à écrire en français?
447
3. Le «Corpus des actes royaux en français du XIIIe siècle» Notre documentation de l’usage du français à la Chancellerie royale s’appuie sur un corpus de 94 documents originaux, extrait du «Corpus des actes royaux en français du XIIIe siècle», que nous sommes en train d’établir dans le cadre du projet «Les plus anciens documents linguistiques de la France».6 Naturellement, ce corpus représente seulement une petite partie de la production écrite en français de la Chancellerie: outre le grand nombre d’actes détruits ou manquants7, pour une «histoire du français» à la Chancellerie qui mérite ce nom, il faudrait tenir compte aussi d’autres types de documents: – Les actes français établis par d’autres institutions et vidimés à la Chancellerie (ce qui implique le copiage du document en français). Le premier exemple qui nous soit connu de cette pratique remonte à l’année 1237 (cf. Carolus-Barré 1976: 149). – A la Chancellerie, on a aussi réalisé la traduction en français d’un bon nombre d’actes latins. Nous pouvons attester les premières traductions dès le règne de Philippe Auguste, au début du XIIIe siècle (cf. Dehaisnes / Finot 1906: 342). Tout en renvoyant la question à un examen plus approfondi, rappelons pour le moment la conclusion de Lusignan (2004: 97), pour qui les destinataires de ces traductions sont concentrés dans les régions de droit coutumier. – Enfin, la Chancellerie a aussi établi des actes en français sans les intituler au nom du roi. C’est ce qui explique qu’ils soient particulièrement difficiles à identifier. Cependant Völker (2003: 152-153) en a identifié et analysé 5, et on pourrait en ajouter d’autres encore (cf. Videsott 2010a: 78 n. 52). Dans ce cas encore, une étude plus approfondie s’impose. Le tableau suivant contient les 94 documents retenus pour notre analyse. Il s’agit exclusivement de documents français a) conservés dans l’original, b) intitulés au nom du roi, c) établis à la Chancellerie royale, d) n’étant pas des traductions (à notre connaissance) et e) excluant les expéditions doubles.8 La présentation la plus récente du projet est celle de Gleßgen (2010), cf. aussi Gleßgen (2003; 2008). Pour ne prendre qu’un seul exemple, pour les chartes royales, on a la trace d’au moins 5 chartes en français, conservées aux archives d’Ypres (Gilliodts-Van Severen 1908) et de Tournai (Herbomez 1893) et qui ont disparu ou ont été détruites pendant la Première et la Seconde guerre mondiale. 8 Légende et abréviations utilisées: Rang social des personnages impliqués (la dénomination retenue est celle du titre le plus élevé): R = roi; P = princes du sang et famille du roi; AR = employés de l’administration royale; HN = haute noblesse (comtes inclus); BN = basse noblesse; C = clergé (séculier et ordres religieux); VB = villes et bourgeois. Type du document (T): 1 = lettre patente; 2 = lettre patente en forme de charte; 3 = mandement; 4 = lettre («privée», cf. infra n. 15). Mode de scellement (S): a = sceau en cire verte sur lacs de soie rouge et verte; b = sceau en cire blanche sur double queue; c = sceau en cire blanche sur simple queue; d = sceau du secret en cire rouge; e = documents non scellés (minutes et autres) ou ayant perdu toute trace du scellement. L’astérisque * à coté de l’indication «Paris» indique que le document ne concerne pas une région précise. Pour la description détaillée des documents et la référence au dépôt d’archives, nous nous permettons de renvoyer à Videsott (sous presse). Les indications chronologiques sont données dans l’ordre AAAA/M/J, les dates résultant de reconstitutions sont indiquées entre crochets carrés [ ]. 6 7
448
Paul Videsott
Philippe IV (26.10.1285 –[1300]) 80 documents français
Philippe III (25.8.1270 – 5.10.1285) 10 documents français
Louis IX (122624.8.1270) 4 documents français
Règne Année
Date du document
1241-45 1241/8 1246-50 1251-55 1254/12 1256-60 1259/10 1261-65
Région concernée
Champagne Ordre des Templiers (C)
Angleterre
Guyon, fils du comte Renaud de Forez (HN) Jeanne, fille du chevalier Philippe de Montfort (BN) 2 a Pierre, comte d’Alençon (P) 1 b Jean, comte de Blois-Châtillon (HN) er Édouard I , roi d’Angleterre (R) 4 e Robert IV, comte de Dreux (HN)
Angleterre
Édouard Ier, roi d’Angleterre (R)
4 e
Angleterre
Édouard Ier, roi d’Angleterre (R)
4 e
Forez
1271-75 1271/12
France (régence)
[1279] /10/26 [1280] /6/28 [1281] /2/28 1282/7/20
1 b
Champagne / Marguerite, reine de Navarre (R) Bretagne / Thibaut, roi de Navarre et comte de Champagne (R) 2 a Navarre Angleterre Henri III, roi d’Angleterre (R) 2 a
1266-70 1268/12
1276-80
Nom et rang social des personnages impliqués en T S tant que destinataires / bénéficiaires du document
Flandre
Guy de Dampierre, comte de Flandre (HN) 3 c Jeanne, reine de Navarre (R) reine de Navarre (R) 1284/5/17 Champagne Blanche, Edmond, fils de Henri III, roi d’Angleterre, mari de 2 a Blanche (R) France Louis d’Évreux (P) 1285/2/28 2 a 1281-85 (apanages) Charles de Valois (P) France 1285/3 2 b (testament) Philippe III, roi de France (R) s.d. [1270/8/25- Paris* Maladeries et couvents (C) 2 e 1285/10/5] s.d. de [1270/8/25- Evêché Guy, évêque de Langres (C) 1 e Langres 1285/10/5]
de 1285/10/9 duché Bourgogne 1286/8/[9- Paris* 18] 1287/8 Chartres Paris* 1288/11/1 Blois / Flandre / 1285-90 Gueldre / 1289/4/20 Valkenburg / Brabant / Cologne / Aix 1289/8 Melun 1289/8 Flandre 1290/6 Nonette 1290/8/14 Flandre
Robert II, duc de Bourgogne (HN)
1 a
Jeanne d’Alençon (P)
1 e
Jeanne d’Alençon (P)
2 a
Jeanne d’Alençon (P)
1 b
Jean Ier, duc de Brabant, de Lothier et de Limbourg (HN) 1 b Villes de Cologne et d’Aix-la-Chapelle (VB) Adam, vicomte de Melun (BN) Jean, son frère (BN) Guy de Dampierre, comte de Flandre (HN)
Bourgeois de Nonette (VB) Guy de Dampierre, comte de Flandre (HN)
2 e 3 c 3 a 3 c
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Quand et avec qui les rois de France ont-ils commencé à écrire en français?
Philippe IV (26.10.1285 –[1300]) 80 documents français
Règne Année
Date du document
Région concernée
/ 1291/2/18 Paris* Jeanne d’Alençon (P) Alençon comté de 1291/[6/9] Bourgogne Othon IV, comte de Bourgogne (HN) (mariage) 1291/9/[11- Beaumont 15] (Val d’Oise) Ordre des Templiers (C) Bailli d’Auvergne (AR) 1293/2/11 Forez Jean Ier, comte de Forez (HN) 1293/3 Auvergne Jean II, comte de Dreux (HN) / Guy de Dampierre, comte de Flandre (HN) 1293/6/16 Flandre Hainaut Jean d’Avesnes, comte de Hainaut (HN) Angleterre Édouard Ier, roi d’Angleterre (R) 1294/2 (mariage) Marguerite de France, sœur de Philippe le Bel (P) Charles de Valois (P) 1294/6/20 Brie Guillaume de Hangest, prévôt de Paris (AR) 1291-95 s.d. / [1294/6/21- Paris* Renier Acorre, receveur de Champagne (AR) Champagne 26] / 1294/11/12 Paris* Luxembourg 1295/1/30 Arras 1295/3/17 Flandre 1295/3/23 Flandre comté de 1295/3 Bourgogne 1295/4/15 Flandre
12961300
1 b 1 e 1 a 3 c
2 a 1 b 2 e 3 c 2 e
Henri VII, comte de Luxembourg (HN)
2 a
Bourgeois d’Arras (VB) Guy de Dampierre, comte de Flandre (HN)
3 c 3 c 3 c
Guy de Dampierre, comte de Flandre (HN) Othon IV, comte de Bourgogne (HN)
2 a
1295/6/23 1295/7/17 1296/1/6 1296/1/6
Flandre Flandre Flandre Flandre
Hugues de Bourgogne, son frère (HN) Guy de Dampierre, comte de Flandre (HN) Jean d’Harcourt et Matthieu de Montmorency, lieutenants généraux de l’armée navale (AR) Guy de Dampierre, comte de Flandre (HN) Guy de Dampierre, comte de Flandre (HN) Guy de Dampierre, comte de Flandre (HN) Guy de Dampierre, comte de Flandre (HN)
1296/1/9
Paris* / Hollande
Florent V, comte de Hollande (HN)
1 b
1296/1/10 1296/2/20 1296/5/29 1296/6/21 1296/6 1296/6 1296/6 1296/6 1296/6
Flandre Gand Flandre Flandre Bruges Gand Ypres Douai Bruges
Guy de Dampierre, comte de Flandre (HN) Ville de Gand (VB) Guy de Dampierre, comte de Flandre (HN) Guy de Dampierre, comte de Flandre (HN) Ville de Bruges (VB) Ville de Gand (VB) Ville d’Ypres (VB) Ville de Douai (VB) Ville de Bruges (VB)
3 1 3 3 1 1 1 1 1
1295/9/15 France
Philippe IV (26.10.1285 –[1300]) 80 documents français
Nom et rang social des personnages impliqués en T S tant que destinataires / bénéficiaires du document
3 c 1 b 3 3 1 1
c c a b
c b c c a a a a a
450
Paul Videsott
Règne Année
Date du document
Région concernée
Nom et rang social des personnages impliqués en T S tant que destinataires / bénéficiaires du document
Douai Lille Bruges Gand Ypres Lille Douai Lille comté de 1297/1 Bourgogne 1297/3/20 Lille 1297/3/20 Courtrai 1297/3 Corbie 1297/5 Hainaut 1297/6/12 Hainaut
Philippe IV (26.10.1285 –[1300]) 80 documents français
1296/6 1296/6 1296/6 1296/6 1296/6 1296/6 1296/6 1296/6
12961300
Ville de Douai (VB) Ville de Lille (VB) Ville de Bruges (VB) Ville de Gand (VB) Ville d’Ypres (VB) Ville de Lille (VB) Ville de Douai (VB) Ville de Lille (VB) Othon IV, comte de Bourgogne (HN) Robert II, duc de Bourgogne (HN) Ville de Lille (VB) Ville de Courtrai (VB) Maïeur et jurés de la Ville de Corbie (VB) Jean d’Avesnes, comte de Hainaut (HN) Jean d’Avesnes, comte de Hainaut (HN) Jean d’Avesnes, comte de Hainaut (HN) 1297/6/12 Valenciennes Bourgeois et communauté de la ville de / Hainaut Valenciennes (VB) 1297/6/12 Hainaut Jean d’Avesnes, comte de Hainaut (HN) 1297/6/19 Hainaut Jean d’Avesnes, comte de Hainaut (HN) 1297/8/29 Lille Ville de Lille (VB) 1297/9/17 Lille Ville de Lille (VB) 1297/10/17 Hainaut Jean d’Avesnes, comte de Hainaut (HN) «à tous ses chastellains et justiciers de la duchee 1298/2/11 Aquitaine d’Aquitaine» (AR) duché de 1298/2/12 Bourgogne Robert II, duc de Bourgogne (HN) 1298/2/25 Angleterre Édouard Ier, roi d’Angleterre (R) 1298/6/26 Angleterre Édouard Ier, roi d’Angleterre (R) 1298/10/ France Marguerite, fille de Charles de Valois (P) [1-2] (mariage) Guyot, fils d’Hugues de Châtillon (HN) France 1298/10/6 (apanage) Louis, comte d’Évreux (P) «Betin Caucinel mestre de noz monoies» (AR) 1299/1/24 Paris* Jean Clersens, clerc du roi (AR) Robert, sire de Tancarville (BN) 1299/1/26 Artois Jean II, sire de Harcourt (BN) Robert II, comte d’Artois (HN) duché de 1299/3/6 Bourgogne Robert II, duc de Bourgogne (HN) Ham / Jehan de Noentel et Peronelle, sa femme (VB) 1299/3/26 Chauny / Saint-Quentin Clément de Savy (AR) 1299/5/1
Artois
Robert, sire de Tancarville (BN) Jean II, sire de Harcourt (BN) Robert II, comte d’Artois (HN)
1 1 1 1 1 1 1 1
a a a a a a a a
2 b 3 3 1 2 1
c c a a a
1 b 1 1 1 1 1
b b a a b
1 b 1 b 1 b 1 b 1 a 2 a 3 c 1 b 3 c 1 b 1 d
Quand et avec qui les rois de France ont-ils commencé à écrire en français?
Philippe IV (26.10.1285 –[1300]) 80 documents français
Règne Année
12961300
Date du document
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Région concernée
Nom et rang social des personnages impliqués en T S tant que destinataires / bénéficiaires du document
1299/6/2
Valois
Charles, comte de Valois (P)
1299/8/3
Angleterre / Édouard Ier, roi d’Angleterre (R) Flandre
1 b 1 e
1299/8/4
France
Guillaume Thibout, prévôt de Paris (AR)
3 e
1300/3/3
Dreux
Jean, comte de Dreux (HN)
1 b
de 1300/5/10 duché Bourgogne
Robert II, duc de Bourgogne (HN)
2 a
1300/5/[11- duché de 14] Bourgogne
Robert II, duc de Bourgogne (HN)
2 b
1300/10/25 France (régence) France / de 1301/3/28 duché Bourgogne (mariage)
Jeanne, reine de France et de Navarre (P) Charles 1 a de Valois (P) Robert II, duc de Bourgogne (HN) Louis, fils du roi de France (P) Marguerite, fille du duc de Bourgogne (HN)
2 a
4. Répartition chronologique des documents français A la lumière des données contenues dans le tableau, analysons d’abord la première de nos questions: quand les rois de France ont-ils commencé à écrire en français? Le premier document royal en français qui nous soit connu est de 1241 (cf. Videsott 2010a; 2010b). Il reste tout à fait épisodique, car pendant les 30 années suivantes du règne de Saint Louis, nous n’avons que 3 autres attestations de l’usage du français avec l’intitulatio royale, mais parmi celles-ci figure le très important traité de paix de 1259 avec l’Angleterre (cf. Carolus-Barré 1976: 152; Rymer I/1, 1816: 389-390; Videsott 2011). Sous Philippe le Hardi, la fréquence des documents français n’augmente guère, elle est de 10 documents pendant les 15 années de son règne. Le document le plus significatif de cette période est le deuxième testament du roi, de mars 1285 (cf. D’Achery III, 1655-77: 691-692). Le premier, écrit en 1270 en vue de la IXe croisade, était en latin, de même que les testaments de son prédécesseur, Saint Louis, et de son successeur, Philippe le Bel. La situation change avec Philippe le Bel, à partir des années 1290, et surtout de 1295: dans les cinq dernières années du XIIIe siècle ont été écrits à la Chancellerie plus de la moitié des documents français de ce siècle. Une première explication a déjà été avancée (cf. supra 2): la présence de gardes de sceaux laïques. L’année 1295 correspond précisément à la nomination de Pierre Flote.9 Mais d’autres facteurs ont également favorisé le changement linguistique, liés surtout à un usage juridique nouveau des chartes en général (cf. infra 8). Sur Pierre Flote (*v.1250 - †1302 – mentionné par erreur [au lieu de Guillaume Flote] comme l’un des sept chanceliers de Philippe VI par Lusignan 2004: 111), cf. Favier (1978); sur son successeur Guillaume de Nogaret (*v.1260 - †1313), cf. Holtzmann (1898).
9
452
Paul Videsott
5. Répartition géographique des documents français Pour la deuxième question –avec qui le rois ont-ils employé le français?–, analysons d’abord la répartition géographique des documents. On voit que parmi les régions concernées, nous trouvons un seul État (l’Angleterre, avec laquelle une bonne partie des contacts diplomatiques se sont déroulés en français, cf. Lusignan 2004: 88; 17710), mais plusieurs régions et villes de l’Empire (le Hainaut, la Gueldre, le Brabant, le comté de Bourgogne, les villes de Valenciennes, Cologne et Aix-laChapelle), et, en France même, des fiefs (le duché de Bourgogne, les comtés de Champagne, de Flandre, de Forez), des terres du domaine royal (les comtés d’Artois et de Chartres), des villes (Courtrai, Corbie, et surtout les 5 grandes villes de Flandre: Bruges, Gand, Ypres, Lille et Douai), jusqu’à un simple village comme Nonette (Puy-de-Dôme).11 La caractéristique commune à toutes ces régions est qu’elles sont toutes situées dans la moitié «nord» de la France actuelle. Cette bipartition face à l’usage du français est encore nettement perceptible dans la première moitié du XIVe siècle, comme l’a montré Lusignan (2004: 75), et a été mise en relation –comme déjà la traduction d’actes royaux, et avec toutes les précautions qui s’imposent– avec la prédominance du droit coutumier dans ces régions. On voit clairement ressortir les régions «périphériques» du Nord et de l’Est de la France avec leurs villes –endroit précis où le français a fait aussi sa première apparition comme langue administrative (cf. Lusignan 2004: 50-51).
6. Répartition sociale des personnages impliqués Jetons maintenant un coup d’œil aux personnages impliqués (en tant que bénéficiaires et / ou destinataires) et à leur statut social. On constate une dispersion assez vaste, mais avec quelques éléments centraux. Parmi les personnages auxquels le roi s’adresse le plus souvent en français, on trouve surtout (en correspondance avec les régions concernées) des représentants de la haute noblesse française (46 documents), comme le comte de Flandre Guy de Dampierre (14 documents) et le duc Robert de Bourgogne (7 documents). Suivent les grandes villes de la région flamande (18 documents). Par contre, avec les seigneurs de moindre rang (qui ont eu une grande importance pour l’essor du français comme langue administrative en général, cf. Lusignan 2004: 48), l’usage de la langue vulgaire est plus limité (7 documents au total). Il nous semble significatif, notamment, que la formule de l’hommage lige prêté par le roi d’Angleterre au roi de France au sujet des possessions anglaises sur le continent nous soit transmise en français. 11 Le village de Nonette compte environ 300 habitants aujourd’hui, mais au Moyen Âge il avait le statut de ville et appliqua l’ordonnance sur les bourgeoisies de 1287 (cf. Chabrun 1908: 135-144; 150-152). 10
Quand et avec qui les rois de France ont-ils commencé à écrire en français?
453
Un autre domaine d’emploi du français se trouve au sein même de la famille royale, notamment avec Charles de Valois, frère du roi Philippe IV (5 documents). Cet usage a aussi pu contribuer à la «familiarité» avec le français «administratif» que Philippe VI de Valois, fils de Charles, devait avoir quand il imposa le français à la Chancellerie royale en 1330 (cf. Lusignan 2004: 80; 112-113). Un troisième domaine est l’usage du français dans les rapports avec le roi d’Angleterre (9 documents) et avec des princes voisins de l’Empire, notamment le comte de Hainaut Jean d’Avesnes (9 documents) et Othon IV, comte de Bourgogne (3 documents). En revanche, l’usage du français à l’intérieur de l’administration royale est encore peu répandu (9 documents en tout) et concerne surtout des dispositions financières. Parmi les ordres religieux, on trouve uniquement l’ordre des Templiers (2 documents) –ce qui n’est certainement pas dû au hasard.12 Le seul destinataire du haut clergé est Guy, évêque de Langres. L’objet de la lettre est moins en rapport avec sa fonction d’évêque qu’avec son statut de duc de Langres et de conseiller du roi: Philippe le Hardi lui recommande la plainte d’un certain chevalier Ellebaut.13
7. Arguments évoqués et forme diplomatique Regardons enfin encore brièvement la répartition des thématiques et l’aspect formel des documents en français. Nous avons recensé les contenus suivants (à confronter à Lusignan 2004: 93): amortissements: 1; arbitrages: 5; concessions de privilèges: 2; confirmations de privilèges: 5; consentements: 4; constitutions d’apanage: 2; contrats de mariage: 4; dispositions administratives: 11; dispositions financières: 11; dispositions judiciaires: 1; dispositions militaires: 5; donations: 2; donations pieuses: 1; échanges de biens: 1; écrits privés: 3; engagements: 1; injonctions: 6; lettres de non-préjudice: 1; lettres de sauvegarde: 4; notifications de trêves: 5; ordonnances sur les monnaies: 9; recommandations: 1; rentes: 1; testaments: 1; traités (par ex. d’alliance ou de succession féodale): 4; traités de paix: 2. On peut les regrouper en quatre blocs importants: Le premier est le domaine monétaire dans son ensemble (ordonnances sur les monnaies, dispositions de paiement, organisation financière des villes, collecte d’aides et de décimes pour la guerre).14 Le deuxième groupe est lié à la guerre et aux activités diplomatiques qui la précèdent ou lui font suite (ordres de se présenter à l’ost, sauvegardes pour les villes, notifications de trêves, traités de paix). Le troisième groupe est celui où le roi organise son royaume (modifications des En ce qui concerne l’utilisation du français par l’Ordre des Templiers, il est frappant de remarquer qu’il est impliqué non seulement dans la plus ancienne charte en français de la Chancellerie royale, mais aussi dans celle qui est peut-être la plus ancienne charte originale en français en général (cf. Lusignan 2004: 46). 13 Cette lettre a un statut ambigu, car nous en possédons seulement la minute. Il n’est pas exclu que la lettre définitive ait été expédiée en latin. On peut mentionner que Guy était aussi un parent du roi Philippe (cousin au 2e degré). 14 Lusignan (2004: 178) rappelle qu’en Angleterre également, parmi les rares chartes en français scellées du grand sceau, on compte celles concernant le monnayage et les forêts. 12
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Paul Videsott
frontières administratives, nomination au poste d’ambassadeur ou de commandant de l’armée, dispositions concernant la régence; ici on pourrait aussi faire rentrer les nombreux contrats de mariage rédigés en français concernant les membres de la famille royale). Le quatrième groupe, enfin, est celui où le roi agit comme souverain de la pyramide féodale (investiture de fiefs, concession et confirmation de privilèges, arbitrages entre les vassaux). Tous les autres domaines (par exemple les amortissements ou les donations pieuses) ne comptent qu’un ou deux témoignages de l’usage du français. Nous avons été légèrement surpris de constater que les documents plus solennels (lettres patentes et lettres patentes en forme de charte, comptant respectivement 50 et 21 exemplaires) prédominent nettement par rapport à ceux d’ordre plus «pratique» (20 mandements et 3 lettres «privées»), et, parallèlement, que ceux dont la validité est indéterminée (36 documents scellés avec cire verte) l’emportent sur ceux ayant une validité temporaire (27 documents avec sceau en cire blanche sur double queue) et sur les ordres immédiats (18 documents avec sceau en cire blanche sur simple queue).15 Au vu de cet état de fait, on pourrait en conclure que le français n’a pas eu à se faire sa place à la Chancellerie royale par le biais des «banalités» de l’administration quotidienne, mais qu’il y est entré dès le début pour les actes les plus solennels, témoins d’une volonté diplomatique royale clairement réfléchie.
8. Pourquoi les rois de France ont-ils utilisé le français dans ces cas précis? Cette constatation nous permet en conclusion d’avancer quelques hypothèses à propos de notre dernière question: pourquoi les rois de France ont-ils utilisé le français dans ces cas précis? On a déjà vu que le facteur le plus décisif pour la quantité des actes produits en français par la Chancellerie royale a été la nomination d’un laïque, Pierre Flote, au poste de garde des sceaux. Comme pour le passage majoritaire au français par la Chancellerie royale en octobre 1330, on peut indiquer le moment et la personne responsable de cette nouvelle orientation linguistique (Pierre Flote dans ce cas, le roi Philippe VI dans l’autre), bien qu’aucun acte écrit explicite à cet égard ne soit connu.16 Outre cette volonté globale, et avant l’avènement de Pierre Flote, on peut énumérer quelques facteurs qui ont pu influencer le choix linguistique. En tout cas, on peut exclure de la façon la plus générale un éventuel recul des compétences latines des scribes, car les clercs de la Chancellerie royale étaient les mieux formés du royaume, et ils continuèrent à rédiger la grande majorité de leurs documents en latin durant plusieurs décennies encore (cf. Lusignan 2004: 79-94; 106). En revanche, il faut tenir compte du grand changement au Restent 1 document scellé du sceau du secret en cire rouge et 12 documents non scellés (minutes et autres). Nous écartons provisoirement la question de savoir dans quelle mesure cette répartition pourrait aussi être due à la conservation probablement plus soignée des actes plus solennels en cire verte. 16 Lusignan (2004: 258) nie que le chancelier ait pu influencer de façon déterminante les usages linguistiques à la Chancellerie. C’est effectivement le cas quand cette volonté était contraire à celle du roi, mais dans le cas de Pierre Flote et de Nogaret on peut supposer qu’ils agissaient avec le consentement royal. 15
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sein de l’opinion publique qui s’était produit au cours du XIIIe siècle à l’égard de la valeur juridique des chartes en général, et, par conséquent, du besoin nouveau d’en comprendre le contenu pour la presque totalité de la population (cf. Lusignan 2004: 103). Pour cette raison, si on laisse de côté les lettres que nous qualifions de «privées», où l’emploi du français semble destiné à instaurer un rapport plus familier entre les interlocuteurs,17 l’emploi du français semble obéir exactement, dans les domaines officiels, à ce besoin de compréhension générale exprimé par le peuple, et provenant de deux directions: – D’une part, l’identification a posteriori aux grandes décisions royales des sujets affectés par celles-ci, comme les traités de paix, les trêves et les arbitrages, certainement plus aisée à obtenir par le biais d’un langue qui leur était plus accessible; – D’autre part l’identification a priori des mêmes sujets aux requêtes royales, comme dans le cas des services de guerre ou des contributions financières, ou de facto, le roi, en dépit de son pouvoir formel, est obligé d’obtenir un certain assentiment envers ses mesures. Ce faisant, le roi s’adressait explicitement aussi au peuple non lettré dans ses documents en français, comme on peut le déduire du fait (déjà souvent noté, cf. Lusignan 2004: 103) que l’inscriptio usuelle des documents en latin, «noverint universis presentes litteras inspecturis», considère seulement l’activité visuelle, c’est-à-dire la lecture (inspicere); en revanche, l’inscriptio française est généralement «à touz ceus qui ces presentes lettres verront et orront», où cet «orront» tient compte de la situation nouvelle qui résulte de l’usage du français. Le contenu d’une grande partie des lettres destinées aux grands seigneurs s’adresse en réalité aussi à leurs sujets (surtout à ceux qui détenaient un certain pouvoir financier), dont le roi avait besoin pour atteindre ses fins politiques et diplomatiques. – Dans le cas des mandements, enfin, l’usage du français pouvait contribuer à augmenter chez les destinataires l’impression de l’aspect concret et immédiat de la volonté du roi. Cet aperçu nous semble avoir montré que l’usage du français à la Chancellerie royale du XIIIe siècle n’est nullement aléatoire. En découvrir les raisons avec plus de détails encore constituera le but de futures recherches.
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Rémy Viredaz (Genève)
Est-alpin artīcŏrium ‹regain›
1. Formes attestées Pour désigner le ‹regain›, une partie du rhéto-roman et de l’italien du nord-est présente un ensemble de formes manifestement apparentées malgré leur diversité, mais d’origine inconnue:1 1.1. Formes modernes Formes relevées entre la fin du 19e siècle et aujourd’hui: Lombard alpin oriental: sud et est du lac de Côme, Valteline, Val Poschiavo: degö(r), digö(i)(r) (souvent fém.), par endroits adegö(i), adigö(r); Romanche des Grisons: seulement Basse-Engadine adgör, agör, argör, Val Müstair argör, Samnaun (éteint) ačẹr; Val di Sole: degör, degöi2, deǵöi, au nord (Rabbi) argjör; Val di Non: Cagnò argör, Fondo diguèr et aguèr, Cunevo degör, Vervò deguèr ou diguèr; Trente: ligor; Val Sugana: Viarago ligör; Val di Cembra: Faver degör; Val di Fiemme: adigöi; Ladin dolomitique: Val Gardena diguei, Val di Fassa digé, ligé, Val Badia artigö(i), -ẹi, Colfosco -u, Livinallongo arteguoi; Sources: Gartner 1910: 271 et 3-7; AIS 7, 1937, carte 1402; Prati 1922: 409; Jud 1928: 271-273; Stampa 1937: 88-90; DRG 1, 1939-46: 126-127 s.v. agör; Quaresima 1964 s. v. degör; Pellegrini 1972: 388-390, cartes pp. 404-405 (article de 1971); LEI 2, 1984: 23-26 (Crevatin/Pfister); DESF 1, 1984: 54-55; EWD 1, 1988: 153-4; HWR 1, 1994: 43. – Pour les formes actuelles du romanche des Grisons, nous suivons généralement l’orthographe de la langue écrite; g devant ö et autres voyelles antérieures est donc palatal (ǵ ou j selon le dialecte). Dans les autres cas, la graphie est phonétique (mais simplifiée): g est «dur» même devant e, ö. Certains caractères ont dû être évités pour des raisons techniques. Nous ne faisons pas de différence entre les transcriptions j et y (et i second élément de diphtongue), ni entre û, ū et u:. Nous omettons souvent la notation de la quantité voire de l’accent sur ẹ, ö, ọ. Le o ouvert accentué sera noté ò. Contrairement à l’AIS, nous notons ć, ǵ les affriquées palatales, č, ğ les chuintantes. 2 degöui (LEI) est une mauvaise translittération, due à Tagliavini, de degœui (avec œ accentué), où œu notait ö (cf. Battisti 1911: 213, 1900, 210). 1
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Cadore: autiguoi, auteguoi, autevuoi, autuoi, Ampezzo outigoi3, Comelico otigúi, otogúi; Selva di Cadore varteguoi, verteguoi, Valle di Zoldo orteguoi; Frioul4 (nord et est du Tagliamento seulement: ancien diocèse d’Aquileia5): altiûl, antiûl, antivûl, antiọl, artiûl; nord-ouest aussi aldiûl (Intissans6), altigûl (Cesclans); extrême nord-ouest altigọi (ONO, Forni di Sotto), urtigoul (NNO, Forni Avoltri).
1.2. Formes anciennes Formes relevées dans des documents plus anciens:7 Bormio adigoirum (Statuti):8 cf. aujourd’hui Bormio digöi,9 Isolaccia digöiŕ, féminins; Val di Sole adegorium (1408, Pellizzano): cf. auj. Termenago et Pèio degöi, deǵöi;10 Val di Non adegor (Taio, Regola11 [1513]): cf. Cunevo, Vervò (§1.1); Val di Fiemme Adegoi (nom d’homme, 1378, Tésero): cf. auj. Predazzo adigöi; Cadore altruoi (1541, San Vito;12 erreur probable pour *altuoi): auj. San Vito auteguoi, mais Vodo outuoi.
Ces attestations des 14e-16e siècles sont déjà modernes quant au traitement de la finale;13 en revanche, la déglutination du a initial (type digör) n’avait pas encore eu lieu; elle est attestée à Bormio depuis le 17e s. (DEB).
2. Reconstruction phonétique Les étymologies proposées jusqu’ici14 ne sont pas satisfaisantes. Nous ne les discuterons pas explicitement, préférant reprendre la question à zéro dans une approche de reconstruction comparative.
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Ampezzo antigoi (Alton 1879: 142) doit être une faute de copie pour *autigoi. Par endroits, les formes frioulanes citées désignent le deuxième regain (Pellegrini 1972: 405). Pellegrini 1972: 388-389. Matériaux récoltés pour l’ASLEF, cités par Pellegrini 1972: 388, carte p. 404. Prati 409-410; LEI 2: 23-25, nn. 1, 3. DEB s. v. adigöir cite de nombreuses formes des 16e-17e s. pour Bormio et les villages voisins. digoir Monti 1845:67, (a)digöjr Jud 1928: 272, digöi Stampa 1937: 89. Jud 1928: 273; AIS P. 320 Quaresima s. v. degör. LEI 2: 25. A part la latinisation superficielle de *-ör, *-öir en -orium, -oirum. Là où *ŕ était déjà réduit à j, la finale n’a pas été latinisée (*-öi est seulement rendu par -oi). Voir LEI 2 (1984): 26 et 3/2, Addenda: 2803; REW3 (1935): 385a, 7130; Alton (1879: 142).
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2.1. La finale A l’exception du Frioul, les résultats attestent une finale *‑ŏrium. Dans la majeure partie du Frioul, le résultat *-uoŕ ou *-uor a été remplacé par le suffixe fréquent *-uol < -eŏlum, -iŏlum. Ce *ŏ bref montre qu’on n’a pas affaire au suffixe latin ‑ōrium (en réalité d’ailleurs ‑tōrium/-sōrium). 2.2. La dentale / le groupe consonantique 2.2.1. Le début du mot présente les formes suivantes: 1° art-, alt- (> aut- etc.), ant-, 2° ad-, d- ou rarement l-, ald-; 3° ar- ou a- avec chute de la dentale devant consonne. En résumé (à une exception près, aldiûl, §§1.1, 2.2.2, sur près de deux cents formes relevées), l’occlusive dentale n’est sonore que là où elle est ou a été intervocalique. On restituera donc un prototype en *art-, dissimilé régionalement en *at- par le r de la finale *-ŏrium, avant la date de la lénition (sonorisation) des intervocaliques sourdes. La chute de la dentale dans *artǵör mais non dans adǵör n’étonne pas: pour l’expulsion de la seconde consonne d’un groupe de trois, comparer en latin ct, x, conservés après voyelle mais réduits à t, s après l, r. L’est du domaine (Cadore, Frioul) présente une dissimilation différente, peut-être plus récente, *‑rt- > -lt-. (Après la lénition, un t simple n’était plus possible à l’intervocalique.) Au Frioul, la finale a ultérieurement été altérée en *-uol (§2.1), occasionnant par endroits de nouvelles dissimilations, -lt- > -rt- (rare) ou -nt-. En partant d’un prototype en *alt-, on n’expliquerait pas les formes en art- (ar-devant consonne) et en ad-15. En partant de *areti- (par exemple) ou en admettant une variante *ald‑, on expliquerait mal l’absence (quasi) totale de formes en ard-, ald-. 2.2.2. Quelques formes vues au §1.1 échappent aux explications ci-dessus: 1° celles en l initial (Trente, Viarago, Val di Fassa), altérations locales de celles en d-; 2° aldiûl (Intissans), en bordure de l’aire altiûl; 3° altérations portant sur le vocalisme: orteguoi, verteguoi. Il doit s’agir d’innovations récentes, au vu de leur faible extension, mais nous en ignorons la cause. Le «piem. alsigul» donné par REW3 7130 n’existe pas; nous n’avons pas d’explication simple pour l’origine de ce fantôme. Ajoutons qu’au vu de sa position géographique (région de Belluno, AIS 1402), le type dòrk, adòrk < *adòrku est peut-être issu d’une contamination de *adegòryu et *kòrdu (cordum) apparue au contact des aires de ces deux mots.
Les restitutions en *-l- sont héritières du *altiliolum (< altilis ‹gras›) de Koštiál (1913), malheureusement adopté par REW3. Ce prototype initialement conçu pour le frioulan conviendrait certes phonétiquement pour cette langue, mais non pour les autres. Sémantiquement, le parallèle slave invoqué par Koštiál n’est pas valable, car otava ‹regain› ne provient de tyti ‹engraisser› que par l’intermédiaire de otaviti ‹reprendre des forces›.
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2.3. La gutturale 2.3.1 On restitue en général un *g intervocalique dans ce mot (références n. 14), mais un ancien *c est possible aussi. Peut-être même un *g latin intervocalique devant voyelle labiale ne se serait-il pas conservé: (1) En dolomitique16, c intervocalique devant ō, u est conservé sous la forme g (en finale k ou zéro) (Kramer 1977: 130):17 acūtum > B agü, L agu, G F agut, ‹clou›; dēcurrere > degọre(r) ‹dégoutter›, jocum, focum > B fü, fǖk, žǖk, L fuọk, žuọk, G fuek, žuek, F fẹk, žẹk. Au contraire, g dans la même position disparaît ou devient *v (ibid. 131-2): agustu > F aọšt, jugu > B žu, L žọu, G F žọuf. Si la distinction c: g est perdue devant a (> j, F zéro, ibid. 129, 131), c’est sans doute un effet de la palatalisation (*ǵ > j pendant que g, d subsistent). (2) La différence observée aux Dolomites entre jŭgum, fāgum et jŏcum, lăcum se retrouve ailleurs: Surselva juf, fau: giug, lag, Basse-Engadine juf, fau: gö, lai, Valteline ǧuf, fo: ǧök, Frioul yôf : ǧûk.18 Voir aussi pour l’italien AIS 1240 giogo19, 578 faggio: 354 fuoco, 740 giuoco, 1597 luogo, 1289 fico. De même, vieil espagnol fo: espagnol lago (mais yugo). (3) L’apparente exception *spagum ‹ficelle› (REW 8113, Kramer 1977: 132) doit être corri gée en *spacum, traité comme lacum: dolomitique špę:k, špęk (Kramer), italien spago (≠ romain favo, ombrien favu < fāgum), sicilien spáku, spáγu (Bigalke 1997: 32), etc. (comparer AIS 243 spago et les cartes citées sous (2)). Les formes semblant supposer *g latin, comme sarde centre-nord ispau, grec moderne σπάγος, seront donc empruntés à l’italien (génois, vénitien).20 (4) En romanche des Grisons, devant ŭ, ō, noter Haute-Engadine avuost < *agŭstum, alvuost < *ligŭsticum mais aguoglia < *acŭculam.21 Cependant l’évolution récente tend à effacer de telles distinctions: le Val Müstair et une partie de la Basse-Engadine ne prononcent pas le g devant uo; inversement, quelques points de cette région prononcent aguost pour ‹août›, et l’on a un g épenthétique dans surs. tschaguola, engad. tschiguolla ‹oignon› < cēpullam. Même devant a, les produits romanches de c et de g ne sont pas entièrement identiques: lĭgāre : plĭcāre, sĕcāre > Surselva ligiar (ǵ < *j) : plegar, segar, Basse-Engadine liar: plajar (analogique; aussi pliar), sgiar. Ce dernier est prononcé zjar sans occlusion; mais le s sonore et peut-être le j au lieu de i témoignent de l’ancienne prononciation occlusive *ǵ.22 Si le Abréviations: B (val Badia, Abteital, y compris Marebbe/Enneberg), F (val di Fassa), G (val Gardena, Gröden), L (Livinallongo, Fodom, Buchenstein). 17 L’exception acŭcula > ọdla, fass. vọia, tessin. vọǧa, etc. (ibid. et n. 462) résulte peut-être d’une dissimilation *agọgla > *aγọgla. 18 Le prototype lombard plọvum (REW 6609) se comprendra ainsi: germanique *plōγ emprunté sous la forme *plọ:γu (comme si le latin était *plōgum), devenu régulièrement *plọ:vu. 19 -g- (γ, k) seulement dans une zone correspondant en gros au triangle Florence-Ancône-Rome, sinon (*)‑v- ou zéro. 20 L’étymologie de *spacum est jusqu’ici inconnue. Mais les mots grecs σφήκη, σφηκόω (voir DELG 2: 1077a s. v. σφήξ) en donnent peut-être la clé: avant d’adopter la koiné (σφήκωμα, EWUG 245, LGII 494), les Grecs d’Italie avaient peut-être un mot *σφᾱκος ‹ficelle›. 21 Surselva farbun ‹fraise› < *fragōnem et dargun ‹torrent› < dracōnem comportent des problèmes annexes qui affaiblissent leur témoignage. 22 On restituera donc une chronologie telle que celle-ci: roman *leγàre, *plekàre, *sekàre > BasseEngadine *ləjar, *pləǵar, *səǵar > *ləjar, *pləǵar, *sǵar > *ləjar, *pləjar, *zǵar (*ǵ > j à l’intervocalique) > liar, pliar, *zǵar > liar, pliar (plajar), zjar. 16
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sursilvan a rugar ‹demander, implorer› (Tujetsch rujè) < rogāre comme lugar ‹placer›, giugar ‹être en chaleur› (T. lujè, ǵuè) < locāre, jocāre, cela doit refléter une confluence récente entre *γ < g et *g < c. Auparavant, *γ a été plus instable que *g et a pu devenir *w ou *y dans des conditions où *g subsistait. (5) En frioulan, la chute de l’intervocalique dans altiûl est compatible avec un ancien *c, cf. učâ ‹aiguiser› < acūtiāre, seond ‹selon› < secundum. 2.3.2 La difficulté de distinguer les produits de g et de c intervocaliques tient au fait que le second a suivi souvent le mêmes traitements phonétiques que le premier, quoique plus tard. Une autre difficulté tient à la rareté de ŏ en syllabe intérieure en latin (où *o ancien n’est généralement pas conservé) et donc des exemples de c, g intervocaliques devant ŏ. Les cas ne manquent pas devant ō, ŭ, ū, mais on ne sait pas si leur traitement peut être extrapolé à la position devant ŏ. Les exemples de cŏ, tel *sē recordāre, sont peu instructifs, confirmant seulement la sonorisation (romanche: Surselva seregurdar, Basse-Engadine s’algordar); avec gŏ on n’a guère que frīgora ‹fièvre› et frīgorōsus, qui ne subsistent pas dans les parlers qui nous occupent.23 2.3.3 En conclusion: – La consonne représentée par g dans les formes modernes (zéro en frioulan) peut avoir été un *c en latin régional. – Il n’est pas sûr qu’elle puisse avoir été un *g. Nous avons pu réunir sinon des preuves, du moins quelques présomptions qu’un *g intervocalique se serait plutôt réduit à zéro ou *v devant *ŏ. 2.4. La voyelle de la deuxième syllabe Cette voyelle, là où elle subsiste, est représentée par i ou e. Il nous semble que ni *i, ni *e romans ne peuvent rendre compte de l’ensemble des formes attestées. En revanche, on sait qu’une longue latine inaccentuée devient parfois brève avant même la perte générale des quantités latines (Fouché 1949 et 1969: 177-188; Sala 1976: 162, 166), si bien qu’un *ī latin pourrait avoir donné *i ou *e romans selon les dialectes. Ce n’est pas que *ī puisse devenir indifféremment *i ou *e. Ce serait contraire au principe de régularité des changements phonétiques. Les exceptions sont plutôt d’origine analogique. Ainsi, mīrābĭlia > *mĭrăbĭlia> fr. merveille, mais mīrāre > fr. mirer par analogie des formes à radical accentué. ūtēnsilia > *usetẹlya/*osetẹlya présente un tableau assez bigarré en Italie du Nord (REW 9101, FEW s. v.), mais *us- résulte certainement d’une influence du verbe *usáre, *úso. L’hypothèse d’un ancien *ī, éventuellement abrégé par la loi de Fouché, est sans doute le seul moyen d’expliquer que certaines régions aient généralement i et d’autres générale ment e. Elle n’est cependant pas vérifiable, dans la mesure où elle ne permet pas de prédire la distribution géographique de ces deux produits. De plus, il existe aussi des variations L’ancien provençal freguros mentionné sous REW 3514 frīgorōsus ne figure pas chez Levy 1909, qui a frejuros, dérivé de freidura/frejura (p. 197, cf. ibid. 319 et FEW 3: 798-799). Le provençal frigourous semble emprunté au latin (FEW 3: 802).
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sporadiques entre villages d’une même région (ainsi en Valteline, voir Stampa 1937: 8890), qui ne sauraient s’expliquer par un fait remontant à l’époque romaine comme la loi de Fouché, et dont les causes restent obscures (à part quelques cas d’assimilation vocalique). 2.5. Conclusion Bien que certains points restent incertains (c ou g, §2.3; ī ou ĭ, e, §2.4; possibilité d’un *h initial puisque ce phonème ne laisse pas de traces), la reconstruction la plus probable du prototype latin (régional) sera *artīcŏrium. D’autres restitutions comme *alti-, *aldi-, *areti- ou *-ōrium sont infondées et improbables ou impossibles (§§2.1-2).
3. Etymologie Il est maintenant possible d’aborder la question de l’étymologie. Le mot n’est pas latin, car on n’aperçoit aucune interprétation plausible par cette langue (cŏrium ‹cuir›, parfois ‹surface›, est sémantiquement trop éloigné). Il n’est pas vénète, car le domaine des anciens Vénètes se situe trop à l’est. Il n’est pas rhétique, car cette langue n’avait pas de phonème o; du reste, l’aire de notre mot déborde sensiblement, à l’ouest (Valteline) comme à l’est (Cadore, Frioul), celle des inscriptions rhétiques (voir la carte de Schumacher 2004: 277). 3.1. *artīcam En revanche, *artīcŏrium rappelle les mots romans régionaux *artīcam ‹terre défrichée› (Catalogne et nord de l’Aragon; en toponymie, tout le Sud-Ouest de la France, des Pyrénées au Limousin, à l’Auvergne et au Var) et *artīcum ‹id.› (artiu etc. en wallon et en picard, toponymes Artic etc. dans le Sud-Ouest).24, 25 Au vu de leur extension géographique, ces mots *artīc-am, -um proviennent certainement du gaulois, bien qu’ils n’aient été empruntés par le latin que dans une partie du domaine de Sur *artīcam: REW 686a, DCECH 1: 366 (1980), FEW 25: 387-390 (1988, Chambon), Grzega 2001: 61-62. Sur *artīcum: Chambon l. c., Henry 1995. D’autres mots en *-īcam ont un radical celtique (Thomas, cité dans DCECH l. c.) ou parfois préceltique (*garrīcam ‹lande›, DCECH). – Une partie des formes romanes remontent à *artīquum, -am, analogiques d’antīquum, -am (hypercorrection liée à antīquum > *antīcum). 25 Nous étions parvenu depuis peu à cette hypothèse (parenté avec *artīcam, 9.1999) lorsque nous avons appris, par Koštiál 1913, que le dolomitique artigu, diguei etc. avait déjà été rapproché de l’espagnol et provençal artig(u)a par Alton 1879: 142, une suggestion tombée dans l’oubli depuis lors, jusqu’à ce qu’elle soit reprise, parmi d’autres, par Nicolai 2000: 460 (que nous n’avons connu qu’en 8.2010). Cependant ces auteurs ne se prononcent pas sur l’aspect sémantique. 24
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cette langue, et que leur étymologie soit incertaine (ils ne sauraient être identiques au nom verbal gallois aredig ‹labourer› < *ara-t-īko-). Il reste à établir le lien sémantique entre *artīcum, -am ‹terre défrichée› et *artīcŏrium ‹regain›. 3.2. recidīvum Un fait de géographie linguistique est peut-être instructif à ce sujet. 3.2.1 Parmi les nombreux termes, d’origine sémantique diverse, désignant le ‹regain› en Italie du Nord ou dans la Romania en général, il en est un qui existe exclusivement au voisinage de l’aire *artīcŏrium: c’est recidīvum, -am. En latin, recidīvus est seulement adjectif, ‹qui repousse›, dit d’abord «des semences qui, en tombant, produisaient une seconde, une troisième moisson» (recidīua sēmina), puis généralement de ce qui renaît (DELL 82). Il n’a survécu dans les langues romanes que dans des formes substantivées désignant le regain (REW 7117)26, qui se distribuent ainsi:27 (I) aire compacte recidīvum: romanche des Grisons, Val Bregaglia, région de Chiavenna, Tessin, Ossola supérieure; (II) îlots recidīvum: a) Val Camonica: Borno kòrt, mais Ossimo riṣíå;28 haut de la vallée: Sonico et Monno rešíf, Cortenedolo rehíf, Ponte di Legno rišío; haut du Val di Sole: Vermigno rišío; b) haut des Valli Giudicarie: Stenico režedíf; (III) aire compacte recidīvam:29 approximativement la moitié sud de la Vénétie.30 Les deux îlots II n’en faisaient peut-être qu’un autrefois (malgré une différence phonétique notable). En revanche, ils sont séparés de l’aire I par la Valteline, qui continue *atīcorium, lequel doit être indigène (vu l’absence de tout résidu de recidīvum en Valteline et dans ses vallées latérales autres que les plus occidentales). En résumé, dans la Romania, recidīvum, -am occupe trois aires distinctes, toutes au voisinage immédiat (ou presque, III) de *a(r)tīcŏrium. Cette distribution se comprendrait bien si recidīvum était un calque du gaulois *artīkorion (sa traduction latine). 3.2.2 Les choses ne sont toutefois pas si simples. D’une part, l’aire III se trouve sur le territoire des anciens Vénètes, qui n’ont jamais parlé gaulois mais ont abandonné leur langue directement pour le latin. Cependant il y a eu des contacts entre les trois langues, si bien que le vénète pourrait avoir aussi calqué l’expression gauloise. Ou alors la coïncidence relevée §3.2.1 est fortuite. La France connaît en outre un dérivé recidīvāre (Midi), *recadīvāre (Centre et Nord) au sens de ‹recommencer une maladie› (REW 7116). 27 Sources: Gartner, AIS, Jud, Stampa, voir n. 1, et Battisti (1911: 2131). )28 s avec point souscrit, AIS, carte 1402 ‹regain›, note à propos du point 238. 29 Apparemment par ellipse de herbam, au lieu de fēnum comme pour cordum, recidīvum etc. 30 Quaresima 1964: 9, donne la même origine pour anǧiva, anǧia, arǧiva ‹meule de paille dans les prés›, dans le haut Val di Non, ce qui ne convient ni pour la forme ni pour le sens. 26
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D’autre part, les Rhètes non plus n’ont peut-être jamais adopté le gaulois, ou seulement partiellement. Dans l’aire anciennement rhétique, *artīcorium n’aurait donc pas été apporté par le gaulois mais par le latin régional. Enfin, la séparation géographique actuelle entre les types artīcŏrium, recidīvum (-am) et cordum n’est pas nécessairement aussi ancienne que la romanisation (cf. ci-dessous §4.2), ce qui affaiblit l’argument aréal du §3.2.1. 3.3. Celtique *-ŏrio-? Une finale celtique -orio- semble attestée en anthroponymie (Holder 2: 878; 1: 19, 182, 770, 1085, 2: 871). Les rares exemples qui témoignent de la quantité du o sont contradictoires et nous ne savons pas s’ils sont fiables. Les exemples de Holder sont de qualité inégale, mais Carantorius, Artorius, -oria, Mallorius, si les lectures sont sûres, ne seront pas à séparer des anthroponymes Carantus ‹cher›, Artos ‹ours›, Mallus (‹lent›?) (cités aussi par Delamarre 2003: 107, 55, 214), ni peut-être le galate Ὀρεστόριος du grec Ὀρέστης. Holder pense que les noms en -orio- sont hypocoristiques, mais c’est peu compatible avec la longueur de certains d’entre eux. En tant que finale d’anthroponymes, -orio- pourrait avoir exprimé la filiation, et contenir la racine du latin orior ‹se lever, sourdre, naître›, orīgō ‹origine›, indo-européen *h3er-.31 Le gallois et l’irlandais ont quelques composés attribués à cette racine (IEW 328). Ceux-ci présentent tous un o bref, mais leur sens n’appuie pas la possibilité d’un emploi patronymique ou anthroponymique. 3.4. Conclusion Sous toutes réserves, donc, nous risquons l’hypothèse d’un second terme de composés *‑ŏrio- signifiant initialement *‹issu de›, formant un adjectif éventuellement substantivé *artīk-ŏrio-. Celui-ci se serait peut-être dit d’abord des rejets de racines (jeunes arbres) qui poussent sur un lieu défriché (et qu’il faut couper à nouveau), avant de s’appliquer ensuite par métaphore à l’herbe qui repousse après une première fenaison. Lors de la latinisation, recidīvus, qui exprimait probablement déjà le premier de ces sens, aura aussi servi pour le second (recidīvum, au lieu de cordum). Si la reconstruction de la forme, *artīcŏrium (vel simm.), est relativement sûre (§2.5), et le rattachement à *artīcam, probable (§3.1), en revanche l’analyse morphologique et sémantique reste ouverte (discussion §§3.2-4).
Sur la différence entre i.-e. *h1er- (grec ὄρνυμαι ‹s’élancer›) et *h3er- (‹se lever›), voir Hackstein 1998: 228.
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4. Notes complémentaires de géographie linguistique 4.1. Basse-Engadine32 La coexistence, en Basse-Engadine, de trois types principaux, adgör, argör et rasdiv, ne peut guère être ancienne. rasdiv n’occupe de manière exclusive que le tiers supérieur de la Basse-Engadine; plus bas, il coexiste avec a(r/d)gör de manière toujours plus sporadique à mesure que l’on des cend dans la vallée. Il semble donc que rasdiv se soit diffusé à partir de la Haute-Engadine. agör fait transition entre adgör (partie inférieure de la Basse-Engadine) et argör (Ardez) et est sans doute né de la rencontre des deux. argör est non seulement la forme du Val Müstair33), mais aussi une des formes d’Ardez, sans qu’un emprunt soit plausible. L’étroite parenté dialectale du Val Müstair et de la BasseEngadine ne résulte pas de contacts directs (gênés par la topographie), mais de leur débouché commun, direct ou indirect, sur le haut Val Venosta (Schorta 1938: 116), germanisé à date récente (ibid. 7). On peut en déduire que argör (ou du moins son antécédent *artiǵüeir v. sim.) a dû occuper autrefois non seulement le Val Müstair, mais aussi tout le haut Val Venosta et la Basse-Engadine, avant de reculer devant adgör. adgör (ou *adiǵüeir, *adeǵüeir v. sim.), venu de l’aval, aura eu le temps de remonter jusqu’aux premiers villages de Basse-Engadine avant la germanisation du Val Venosta. Au Samnaun, on a relevé les trois formes adjẹr, aćẹr, ačẹr.34 La sourde s’explique sans doute par l’influence de l’allemand (et non par *artǵör > *artjẹr comme nous l’avons proposé à Valence). 4.2. Lieu d’origine de la dissimilation Au vu de la distribution actuelle, un des foyers de de la dissimilation *artīcŏrium > *atī- a dû être Trente, d’où l’innovation se serait diffusée en remontant le long de certaines vallées et non d’autres. Mais elle touche aussi toute la Valteline. Il semble donc que la dissimilation soit apparue initialement en dehors de l’aire *a(r)tīcŏrium actuelle (par exemple à Côme pour la Valteline, voire dans la plaine du Pô si l’on veut supposer un foyer unique). Cela signifierait que les types cordum, recidīvum et *artīcŏrium ont d’abord coexisté sur une aire assez large avant que les régions ne choisissent l’un ou l’autre. Par lettre du 5 août 2002, Claudio Vincenz, alors rédacteur au DRG, a très aimablement complété –«en parcourant le matériel ayant servi à la rédaction de l’article agör (DRG 1: 126) ainsi que celui collectionné depuis»– la liste de formes que nous avions tirée d’AIS 1402, DRG l. c. et HWR 43 s. v. adgör. 33 Le village même de Müstair, où l’immigration et l’influence allemande ont été plus fortes (Schorta 1938: pp. 2, 68), prononce aržör < *arǧör. 34 Vincenz (2002) (voir n. 32; ẹ long accentué). 32
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Aude Wirth-Jaillard (Université Catholique de Louvain)
Des sources médiévales méconnues des linguistes, les documents comptables
1. Introduction Il y a quelques dizaines d’années encore, les études linguistiques portaient le plus souvent sur des textes littéraires, les textes n’appartenant pas à cette catégorie étant quant à eux ignorés. La situation a heureusement évolué depuis, comme en témoigne l’ouvrage de W. Ayres-Bennett (1996), dans lequel près de la moitié des textes présentés pour le Moyen Âge ne sont pas des textes littéraires. On y trouve ainsi une donation testamentaire, une charte ou encore un traité d’algèbre; les documents comptables en sont en revanche absents. Mais au moins, dans cet ouvrage, une place non négligeable est laissée aux textes non littéraires, contrairement à d’autres dont les auteurs ne semblent pas s’être interrogés sur la représentativité des textes littéraires et sur tous les problèmes qu’ils posent du point de vue, notamment, de la datation, de la tradition manuscrite ou de leur degré d’élaboration. Dans la très grande majorité des cas, ces différents problèmes ne se posent au contraire pas avec les documents comptables; ce sont là quelques-uns des points qui font des comptes des sources particulièrement intéressantes pour le linguiste.
2. Les documents comptables: présentation générale Les documents comptables se présentent le plus souvent sous la forme de registres, les plus anciens en parchemin, les autres de papier, allant de quelques feuillets à plusieurs centaines de pages; les rouleaux sont plus rares. On trouve également des acquits, qui sont les pièces justificatives qui ont permis l’élaboration de ces registres ou rouleaux. Certains de ces comptes sont d’ordre privé, comme les livres de raison ou les comptes tenus par des marchands; les autres ont été rédigés sous l’impulsion d’une entité administrative, parfois soumise à une vérification de la part de la chambre des comptes, en charge du contrôle et de la validation de ceux-ci. Les comptes appartenant à la seconde catégorie étant, de loin, les plus nombreux, cette étude se concentrera sur eux.
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2.1. Un contenu varié Le plus souvent, les documents comptables comprennent les recettes et les dépenses d’une entité pouvant être une ville, une abbaye, une prévôté, une seigneurie, etc. Contrairement à ce que l’on pourrait imaginer, ils ne constituent pas des recueils de chiffres ou de calculs se succédant les uns aux autres avec sécheresse; ce sont en réalité des documents rédigés, dans lesquels les dépenses et les recettes ne sont pas seulement reportées, mais aussi justifiées. Parmi les recettes, on peut ainsi trouver des listes de contribuables, très intéressantes pour l’anthroponymiste, ou encore des listes d’amendes avec leurs causes, comme des vols, des injures ou des propos parfois retranscrits et dans lesquels affleure l’oral médiéval ‹vrai› (Wirth-Jaillard à paraitre a), etc. Parmi les dépenses, on rencontre quelquefois des descriptions précises des frais occasionnés par la venue d’un hôte de marque avec le détail des aliments cuisinés ou encore, dans le cadre de la réfection du château seigneurial, des indications riches en vocabulaire sur les étapes de celle-ci et les différents corps de métiers employés et, plus largement, en éléments intéressant l’historien et l’archéologue (date et nature des travaux, quantité et provenance des matériaux, origine géographique des artisans, etc.). 2.2. Des documents datés et localisés Les sources comptables présentent également l’avantage d’être presque toujours datées et localisées avec précision, en raison même de leur objet qui rend nécessaire ces indications; la gestion d’une seigneurie, d’une abbaye ou de toute autre entité de ce type et son contrôle supposent en effet des limites spatiales et temporelles explicites. Souvent dès la première page du document sont ainsi indiqués l’entité concernée, la période de l’exercice comptable et le nom de l’officier en charge de celui-ci. Il n’est cependant pas assuré que la rédaction et la mise au net du compte soient de la main même de l’officier; certaines mentions de dépenses relatives à l’emploi d’un scribe laissent en effet penser que ces tâches étaient effectuées par une autre personne. Cette localisation et cette datation précises constituent des atouts indéniables si on les rapproche de la majorité des textes littéraires ou des chartes pour lesquels il faut souvent inférer la date ou le lieu de rédaction d’indices plus ou moins précis ou assurés, avec un résultat qui peut être sujet à caution. 2.3. Des sources originales Dans leur très grande majorité, les comptes qui nous sont parvenus le sont sous la forme d’originaux. La question du filtre de la copie ne se pose pas, du moins pas dans les mêmes termes, que, par exemple, pour les œuvres littéraires ou encore, pour prendre un exemple de documents de la pratique, les cartulaires, dont on sait qu’ils ne sont pas toujours fidèles aux chartes qu’ils reprennent, tantôt ajoutant des éléments, tantôt retranchant des informations ou des formes présentes dans celles-ci. Les comptes constituent donc un type de sources non seulement fiable du point de vue du contenu comme de la langue, mais également aisé à éditer. En outre, certains de ces documents, rédigés en double exemplaire, l’un conservé
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par l’officier, l’autre soumis à la vérification, autorisent l’étude de la variation pour un même type de document et une même période chez un même scribe. 2.4. Des sources abondantes sur plusieurs siècles Les comptes ont aussi pour caractéristique d’être abondants puisqu’on en trouve en nombre pour toutes les régions de la France métropolitaine actuelle, le plus souvent conservés dans les dépôts d’archives départementaux; les archives départementales de la Meuse en conservent ainsi plusieurs centaines, celles de la Meurthe-et-Moselle plusieurs milliers concernant des entités administratives situées en Lorraine mais aussi hors de Lorraine, comme le compte de la seigneurie de Boves, dans la Somme, pour 1453–1454 (conservé sous la cote B 3658; cf. Wirth à paraître). Pour une même entité administrative, on a ainsi parfois une série de plusieurs dizaines de documents de même nature sur plusieurs siècles. Pour la seigneurie de Châtel-surMoselle, dans les Vosges, ceux-ci vont de 1431 à 1668; pour d’autres entités, dans la Meuse notamment, ils peuvent être plus anciens encore. Le premier conservé pour la Lorraine romane, le mémorandum du compte général du comté de Bar, date de 1291-1292 (Collin 1990); les plus récents ont quant à eux été rédigés dans la seconde moitié du XVIIe siècle ou au tout début du XVIIIe. Leur nombre croit avec le temps: pour la Lorraine romane, on passe de quelques dizaines de documents pour les XIIIe et XIVe siècles à plusieurs centaines pour le XVe. Ces séries sont particulièrement précieuses parce qu’elles permettent des comparaisons tant du point de vue lexical que du point de vue syntaxique ou encore anthroponymique ou toponymique; elles permettent également de suivre l’évolution de ce type de sources. Et comme des séries comparables se retrouvent pour différentes régions linguistiques ou historiques, des comparaisons entre les unes et les autres sont également possibles.
3. Les linguistes et les documents comptables Les documents comptables constituent donc pour la période médiévale un matériau riche et abondant. Toutefois, malgré cette richesse, ils ont surtout été étudiés par les historiens; les linguistes ne s’y sont en revanche intéressés le plus souvent que ponctuellement. 3.1. Études ponctuelles Parmi les études publiées par ces derniers, on peut citer celle de P. Gardette (1962), qui porte sur quelques lexèmes tirés d’un tarif de péage du XIVe siècle édité par Ch. Perrat et P. Gardette (1961); la même année, Ch.-Th. Gossen (1962) s’est intéressé à la langue du livre de comptes d’un curé normand du premier tiers du XVe siècle en s’appuyant cependant sur une édition ancienne. Un peu plus récemment, B. Horiot et M. du Pouget (1990) ont proposé une édition d’un journal de recette de péage de Belleville (XVe siècle) précédée d’une rapide introduction et suivie de plusieurs index, d’une étude linguistique et d’un glossaire; avec
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un plan comparable, Ph. Olivier et J.-Cl. Rivière (1992) ont quant à eux proposé une étude beaucoup plus approfondie pour un livre de recette de la seconde moitié du XVe siècle. 3.2. Études suivies À côté de ces études ponctuelles, on rencontre également quelques travaux suivis. Les comptes dijonnais ont ainsi été exploités dans plusieurs publications dues à M. Monsaingeon (1999; 2001; 2009; 2010), dans lesquelles cet auteur s’intéresse tout particulièrement à l’anthroponymie dans ses aspects linguistiques. C’est d’ailleurs sous l’angle de l’anthroponymie, avec une approche linguistique et historique, que nous avons nous-même abordé dans un premier temps les documents comptables de la Lorraine romane ou conservés en Lorraine (Wirth 2007; 2010; à paraître), avant d’élargir notre perspective à des questions plus spécifiquement linguistiques comme celles de la rhétorique de ces documents, de leur exploitation sous forme de corpus et du discours rapporté que l’on y relève (respectivement Wirth-Jaillard à paraître b; a; en préparation). Les comptes des consuls de Montferrand, rédigés en occitan, font quant à eux l’objet de recherches de la part d’Anthony Lodge (1981; 1985; 1997; 2006; 2009), qui étudie ces documents sous les angles de la graphie (en lien avec la phonétique), de la morphologie, ou encore de la syntaxe. 3.3. Documents comptables et lexicographie Quelques ouvrages lexicographiques ont intégré des attestations tirées de documents comptables. Le Gdf cite ainsi dans ses articles de nombreux exemples tirés de sources de cette nature; un certain nombre figurent également dans le DMF et ses bases textuelles. Dans l’un et l’autre cas cependant, les éditions utilisées sont le plus souvent anciennes (XIXe siècle et début du XXe) et ne répondent pas aux exigences des linguistes: les abréviations sont résolues de façon moderne, non en fonction du texte, les graphies peuvent être normalisées, etc. Les références qui y sont faites dans l’article lexicographique peuvent donc parfois être sujettes à caution. 3.4. Bilan et perspectives Lorsqu’ils ont été étudiés ou exploités par des linguistes, les documents comptables ont donc généralement été vus comme des réservoirs d’attestations anciennes pour le lexique ou la syntaxe. Certains domaines de recherche relativement récents comme celui de la scripta n’ont en revanche pas pris en compte ces sources, se limitant pour le moment aux textes littéraires (Dees 1987), aux chartes (Dees 1980; Holtus / Overbeck / Völker 2003) ou aux testaments (Trotter 2005), alors que les sources comptables, en raison de leurs datation et localisation précises ainsi que de leur abondance peuvent fournir un matériau de premier choix. Un autre axe d’étude encore insuffisamment exploité est celui de leur genèse et de leur logique interne (Wirth-Jaillard à paraître b).
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4. Les historiens et les documents comptables À première vue, il peut paraître surprenant de consacrer une partie entière aux études menées par les historiens sur les comptes dans un article explicitement orienté vers la linguistique. Plusieurs raisons expliquent ce choix. Tout d’abord, c’est aux historiens que l’on doit la plupart des éditions et des études de documents comptables; contrairement aux linguistes, ils connaissent et exploitent depuis longtemps ce type de sources; ils en sont par conséquent les meilleurs connaisseurs. En outre, le renouvellement de leur approche depuis quelques années ouvre des perspectives nouvelles également pour le linguiste que nous jugeons utile d’esquisser, sans prétendre à l’exhaustivité. 4.1. Histoire économique et sociale Jusqu’à il y a peu, les recherches historiques ayant porté sur les documents comptables les envisageaient comme des sources permettant essentiellement d’établir l’histoire économique et sociale; dans cette perspective, on peut citer les travaux d’A. Rigaudière (1977; 1982), S. Curveiller (1989), J.-M. Yante (1996) ou encore, récemment, J. Rauzier (2009). Dans ces travaux, les comptes sont envisagés comme pourvoyeurs d’éléments divers permettant de reconstruire l’histoire de la zone étudiée. 4.2. Histoire de la comptabilité D’autres historiens optent pour une vision plus large des documents comptables en les envisageant non pas uniquement en tant que sources, mais également en tant qu’objet d’étude qui doit être resitué dans l’histoire générale de la gestion. Si la grande majorité de ces travaux portent sur les périodes moderne et contemporaine, on en recense tout de même quelquesuns pour le Moyen Âge (par exemple Dobie 2008). Ce type de recherche semble davantage développé dans les pays anglo-saxons. 4.3. Orientations nouvelles L’orientation prise ces dernières années par la recherche historique témoigne d’un renouvellement dans la façon d’envisager les documents administratifs dans leur ensemble. La perspective change: ceux-ci ne sont plus appréhendés qu’en tant que sources ou de façon générale, mais aussi dans leur contexte de production, dans leurs aspects matériels et dans la façon dont les informations qu’ils nous transmettent sont présentées. Cette tendance forte est à l’origine de plusieurs manifestations récentes. Pour 2008, on peut citer le colloque Décrire, inventorier, enregistrer entre Seine et Rhin au Moyen Âge. Formes, fonctions et usages des écrits de gestion qui s’est tenu en mai aux Facultés universitaires Notre-Dame de la Paix de Namur, et la séance inaugurale du groupement de recherches Diplomatique du CNRS, en
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mai, à Paris, tandis qu’en octobre paraissait la liste des projets sélectionnés par l’Agence nationale de la recherche sur le programme Gouverner et administrer; enfin, en novembre, c’est à Louvain-la-Neuve qu’a eu lieu la table ronde sur Les documents comptables, repérage et approche critique (XIIe–XVe siècles) destinée à préparer la production de volumes sur ce sujet dans la collection Typologie des sources du Moyen Âge occidental.1 C’est dans ce contexte qu’a été lancé, en octobre 2008, sous l’impulsion de P. Beck, de l’Université Lille 3, à qui l’on doit une étude codicologique et diplomatique des cherches des feux bourguignonnes (Beck 2006), et d’O. Mattéoni, de l’Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne, qui s’est notamment intéressé au travail des chambres des comptes (Contamine / Mattéoni 1996; 1998; Mattéoni 2007), un programme de recherche international intitulé Comptables et comptabilités de la fin du Moyen Âge: codicologie, diplomatique, prosopographie. Ce programme fédère une cinquantaine de chercheurs de tous âges venant de France, de Belgique, d’Italie, du Portugal et du Canada; leurs travaux portent sur les comptabilités de Bourgogne (P. Beck), de Paris (C. Bourlet), d’Auvergne (É. Grélois), du Forez (O. Mattéoni), de la Toscane (S. Tognetti), du Portugal (A. Melo), etc. La réunion fondatrice a eu lieu en octobre 2008; elle a été suivie, un an plus tard, de journées d’étude portant sur la Codicologie des documents comptables. Matières et formes - modalités d’usages et d’archivage et, en 2010, sur Le vocabulaire et la rhétorique des comptabilités médiévales. Modèles, innovations, formalisation; la parution des actes est prévue dans la revue en ligne Comptabilité(s). Revue d’histoire des comptabilités. Cette même année, l’Agence nationale de la recherche a apporté son soutien au programme GEMMA, Genèse médiévale d’une méthode administrative. Formes et pratiques des comptabilités princières (Savoie, Dauphiné, Provence, Venaissin) entre le XIIIe et le XVIe siècle, dirigé par A. Jamme (CNRS, Lyon). 4.4. Études historiques des documents comptables hors de France Outre les manifestations ayant eu lieu en Belgique citées supra et les chercheurs étrangers impliqués dans le programme Comptables et comptabilités de la fin du Moyen Âge: codicologie, diplomatique, prosopographie, on recense également des recherches sur les comptabilités de langues germaniques. Une équipe autour d’O. Volk, de la PhilippsUniversität Marburg, travaille sur la comptabilité de la fin du Moyen Âge et de l’Époque moderne; elle anime le site COMPUTATIO qui lui est consacré (http://online-media.unimarburg.de/ma_geschichte/computatio/). Un projet est également actuellement mené à l’Université du Luxembourg, sous la direction de M. Pauly et avec la collaboration de Cl. Moulin, de l’Université de Trèves, sur l’histoire de la ville de Luxembourg à partir de registres comptables des XIVe et XVe siècles (projet Villux 7, 2008–2010), ceux-ci en étant une des sources les plus importantes. Quatre volumes d’éditions sont déjà parus (Moulin / Pauly 2007, 2008, 2009, 2010).
La plupart de ces manifestations nous ont été indiquées par P. Beck et O. Mattéoni que nous remercions.
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5. Conclusion Les documents comptables offrent donc aux linguistes un champ de recherche riche mais presque vierge encore au vu de la masse documentaire à disposition dans les dépôts d’archives. Les historiens qui depuis quelques années l’investissent sous des angles diversifiés l’ont bien compris, comme en témoignent l’intérêt porté au vocabulaire et à la rhétorique par le programme Comptables et comptabilités de la fin du Moyen Âge et l’annonce de la préparation d’éditions dans le cadre du programme GEMMA. Il y a donc là une belle opportunité de collaboration interdisciplinaire où les compétences des uns et des autres trouveraient à s’exercer de façon fructueuse et à s’enrichir mutuellement.
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–– (à paraître): L’anthroponymie de la seigneurie de Boves (Somme) au milieu du XVe siècle. In: Tamine, Michel (edd.): Actes du colloque «Noms des champs, noms des villes» organisé par la Société française d’onomastique (Arras, 15–18 octobre 2008). Wirth-Jaillard, Aude (à paraître a): Corpus de français médiéval et documents non littéraires: les registres de comptes. In: Guillot, Céline (edd.): Actes du colloque DIACHRO-V, Le français en diachronie (ENS de Lyon, 20–22 octobre 2010). Berne: Peter Lang. –– (à paraître b): «De Plaisance pour avoir dit au Gorran: ‹je voy teil qui m’ait emblez mon bleif batu et à bastre›»: les discours rapportés dans les documents comptables médiévaux. In: Boré, Catherine / Mellet, Caroline / Sitri, Frédérique (edd.): Actes de la journée CONSCILA «Discours rapportés et genres» (10 décembre 2010), publication en ligne. –– (en préparation): La rhétorique des documents comptables médiévaux: réflexions à partir des comptes du receveur de Châtel-sur-Moselle (1429–1510). In: Comptabilité(s). Revue d’historie des comptabilités, 5. Yante, Jean-Marie (1996): Le péage lorrain de Sierck-sur-Moselle (1424–1549). Analyse et édition des comptes. Sarrebruck: Saarbrücker Druckerei und Verlag.
Secció 16 Història de la lingüística i de la filologia romàniques
Margarita Lliteras (Universidad de Valladolid) / María José Martínez Alcalde (Universitat de València) / Pierre Swiggers (KU Leuven & Université de Liège)
Présentation
L’histoire de la linguistique et de la philologie romanes –thématique dont la pertinence a été reconnue dès les débuts institutionnels de notre discipline– constitue, depuis quelques décennies, l’objet d’une section au sein de nos congrès de linguistique et de philologie romanes. En 1986, au XVIIIe Congrès de notre société, la section a pu incorporer aussi une Table Ronde consacrée spécifiquement aux problèmes méthodologiques de l’historiographie des études linguistiques romanes. Notre regretté collègue Hans Helmut Christmann y prononça un discours d’introduction dans lequel il soulignait la complexité, mais aussi la nécessité des recherches (et d’un enseignement!) dans le domaine de l’histoire de la linguistique (romane), en insistant particulièrement sur le rôle formateur d’une approche historiographique, tellement instructive pour les futurs romanistes. En effet, si on établit ou si on a établi une discipline, il faut aussi penser à son existence dans le cadre de l’enseignement, dans le cadre de l’université. C’est un point de vue qui manque dans la discussion pertinente de l’histoire de la linguistique que fait Brekle au début d’un livre récent, discussion axée sur les questions classiques quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo, quando, mais à compléter par la question cui. Car il serait absurde d’enseigner cette discipline uniquement aux futurs professeurs d’elle-même. Il faut penser aux étudiants de linguistique, et ce faisant, on se rend compte que la distinction purement logique de Canguilhem, par exemple, entre l’objet de la science et l’objet en histoire des sciences ne s’applique pas à l’enseignement, parce que les étudiants, en général, apprennent l’histoire de la linguistique pour mieux comprendre la linguistique elle-même ou la langue elle-même (Christmann 1987: 238-239)1.
Depuis 1986, l’histoire de la linguistique romane a reçu une attention croissante, comme en témoignent de nombreux articles publiés dans les revues spécialisées d’histoire de la linguistique2 (Historiographia Linguistica [1974-]; Histoire, Épistémologie, Langage [1979]; Beiträge zur Geschichte der Sprachwissenschaft [1991-], Boletín de la Sociedad Española de Historiografía Lingüística [2002-])3, la publication d’ouvrages et d’articles à visée synthétisante, ainsi que la création de nombreuses sociétés internationales et nationales d’historiographie de la linguistique.
Nous citons le texte de Christmann d’après sa première publication en 1987. Il convient de mentionner à ce propos le rôle crucial joué par E. F. Konrad Koerner, depuis le début des années 1970, dans l’institutionnalisation de l’historiographie de la linguistique comme discipline à part entière. 3 Signalons aussi la création, en 2009, d’une revue électronique, la Revista argentina de historiografía lingüística (www.rahl.com.ar). 1 2
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Au XXVIe Congrés Internacional de Lingüística i Filologia Romàniques, organisée à Valence, vingt-huit communications (sélectionnées par le président et les co-présidentes) ont été présentées dans la section 16 («L’histoire de la linguistique et de la philologie romanes / Història de la lingüística i de la filologia romàniques»); de celles-ci seize textes ont été acceptés dans leur rédaction définitive, après une évaluation triplement individuelle d’abord, conjointe ensuite. Les seize textes qui composent cette section constituent tous un apport fondamental à l’histoire, riche et complexe, de la linguistique et de la philologie romanes. On peut distinguer, à l’intérieur de ce champ, divers domaines. Ainsi, conformément à la tradition inaugurée par le Grundriss de Gröber4, on peut délimiter un sous-champ consacré à l’histoire de la philologie romane, prenant comme objet les méthodes et les pratiques de l’édition de textes (romans), l’«ecdotique» étant au centre de la philologie traditionnelle. La contribution de Craig Baker, qui prend comme objet l’œuvre et la carrière du philologue belgo-allemand, Auguste Scheler (1819-1890) –disciple de Friedrich Diez–, se situe entièrement dans ce domaine. Si les travaux philologiques (et étymologiques) de Scheler ne sont pas sans failles, ils constituent toutefois le point de départ d’une forte tradition de philologie romane en Belgique. Un autre domaine représenté ici par une seule contribution est celui de l’histoire de traditions micro-dialectologiques romanes, c’est-à-dire l’étude de travaux réalisés par des spécialistes et / ou amateurs de variétés locales. Aitor Carrera nous présente ici un document précieux, inédit, d’un auteur aranais, Jusèp Condo, qui, à côté d’une œuvre littéraire et ethnographique très vaste et de nombreux travaux dialectologiques et lexicographiques, nous a laissé aussi un document manuscrit, Quatre regles de Gramática aranesa; c’est ce dernier document, témoignage historiquement important, qui fait ici l’objet d’une analyse serrée. On sait que les volumes du Lexikon der romanistischen Linguistik5 accordent une place importante aux diverses traditions nationales, dans la Romania, de grammaticographie et de lexicographie. L’intérêt pour cette thématique grammaticographique et lexicographique, inscrite au cœur des activités de la section 16 du congrès, est illustré par les nombreuses contributions qui portent sur différentes traditions nationales, quelquefois étudiées en parallèle et en contraste. Parmi les contributions «contrastives», il faut mentionner celles de Margarita Lliteras et de Claudia Polzin-Haumann. Cette dernière a étudié le rapport entre norme et variation dans les traditions grammaticales française et espagnole, à l’époque de la Renaissance. L’auteur montre que les divergences entre ces deux traditions s’expliquent, dans une très large mesure, par l’histoire interne divergente des deux langues en question, par Cf. Gröber (éd. 1888). Le premier Band contient une longue «Einführung in die romanische Philologie» (rédigée par Gröber), avec deux parties: «Geschichte der romanischen Philologie» et «Ihre Aufgabe und Gliederung». L’aperçu historique de la philologie romane accorde une place importante à l’édition de textes (anciens); signalons aussi que dans la section «Anleitung zur philologischen Forschung» (avec deux parties: «Die Quellen der romanischen Philologie» et «Die Behandlung der Quellen»), on trouve un long chapitre, rédigé par A. Tobler, sur la «Methodik der philologischen Forschung». 5 Voir Holtus / Metzeltin / Schmitt (1988-2005). Le volume I comporte aussi des bilans historiographiques et méthodologiques de l’histoire de la linguistique romane, de l’histoire de l’enseignement des langues romanes, ainsi que du développement de méthodes et d’approches en linguistique romane. 4
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des attitudes différentes adoptées par les grammairiens face au problème du polymorphisme linguistique et à celui de la norme, par le statut différent de l’écrit et de l’oral dans l’espace linguistique français et l’espace hispanique, enfin par des contextes sociolinguistiques et écolinguistiques très dissemblables. Margarita Lliteras, adoptant une perspective contrastive (l’espagnol vs d’autres langues romanes, tout particulièrement l’italien et le français), analyse un aspect important de la «codification» de l’espagnol, du XVIe au XIXe siècle: l’appréciation de son statut à l’égard de l’italien (et, dans une moindre mesure, du français) en termes de prestige, d’ancienneté, de capacités et de positionnement historique6. On y voit comment la «mise en comparaison» de langues aux Temps Modernes, tout en véhiculant un certain nombre de préconceptions idéologiques (très souvent sans aucune justification empirique) a façonné le processus d’élaboration (au sens de Heinz Kloss7) de l’espagnol comme «langue de référence». Trois traditions grammaticographiques ont été au centre des travaux présentés dans la section 16: la tradition grammaticographique espagnole; la tradition grammaticographique portugaise; la tradition grammaticographique italienne. Les contributions qui concernent l’histoire de la grammaire espagnole sont celles de Carmen Quijada Van den Berghe, de Javier Satorre Grau et de Marta Prat Sabater. Le travail de Carmen Quijada concerne l’histoire de la grammaire espagnole aux XVIe et XVIIe siècles. Les travaux historiographiques traditionnels admettaient, trop facilement, une dépendance étroite de la grammaticographie espagnole (et romane, en général) à l’égard de la tradition latine, mais on peut relever d’importants points de séparation. Ces divergences ne s’expliquent pas seulement par un retour, au-delà du modèle latin, à la grammaire alexandrine. Par son analyse du traitement de l’article dans la grammaticographie espagnole, C. Quijada montre que la tradition «vernaculaire / vernacularisante» a peu à peu forgé une approche propre, en s’intéressant aux aspects discursifs et textuels (internes à la langue étudiée) qui déterminent le statut grammatical de la classe de l’article. Javier Satorre Grau, dans le prolongement de ses travaux sur l’historiographie de catégories grammaticales, s’intéresse à la problématique de la description de la classe des pronoms dans l’histoire de la grammaire espagnole. Il s’agit d’une classe dont le traitement a toujours laissé à désirer (et cela non seulement dans la grammaticographie espagnole!). À partir d’une analyse détaillée d’un large corpus de grammaires, l’auteur met en évidence la nécessité d’un important travail de redéfinition et de remaniement des classifications. Marta Prat Sabater, de son côté, a étudié la tradition grammaticographique espagnole des derniers siècles pour ce qui concerne l’approche des pronoms d’adresse (pronombres de tratamiento). Il s’agit d’une sous-classe («allocutoire»), qui requiert (a) une forte intégration entre analyse grammaticale et caractérisation discursive et pragmatique, et (b) une ouverture de la description linguistique à la variation diatopique (espagnol d’Espagne et espagnol d’Amérique latine) et à la «contextualisation» ethnographique. Il est intéressant de relever à Les travaux «contrastifs» des humanistes nous offrent ainsi un spécimen de linguistique «précomparatiste» (cf. Swiggers 1997, à propos de l’œuvre de Henri Estienne). 7 Sur ce concept d’élaboration linguistique, cf. Kloss (1952, 1967) et, pour une application à des langues romanes, voir Muljačić (1982, 1983). 6
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ce propos un indéniable progrès descriptif et un élargissement graduel de la perspective, dans la grammaticographie espagnole, du XVIIIe au XXIe siècle. La tradition grammaticale et linguistique portugaise fait l’objet de quatre contributions, qui couvrent une période très large, du XVIe au XIXe siècle. Gonçalo Fernandes s’intéresse aux débuts de la grammaticographie portugaise, à mi-chemin entre la grammaire du latin et celle du portugais. Son étude porte sur le rapport entre, d’une part, certains textes didactiques du grand latiniste espagnol du XVIe siècle, Francisco Sánchez (tout particulièrement son Arte para en breve saber Latin, 1595, texte en langue vulgaire) et, d’autre part, l’œuvre didactique du grammairien portugais Pedro Sánchez, qui en 1610 publia un Arte de Grammatica, pera em breve saber Latim, la première grammaire imprimée du latin et écrite en portugais. L’étude présentée ici compare le plan descriptif, la formulation de règles de morphologie et de syntaxe, et la démarche didactique des deux auteurs. La grammaticographie du portugais, baignant dans des modèles latinisants, a été dans une très large mesure une grammaticographie «réceptrice» d’autres traditions nationales, d’abord à l’égard de la tradition française, ensuite à l’égard de la tradition espagnole. Deux contributions illustrent bien ce positionnement récepteur. Rolf Kemmler analyse un texte inédit qui constitue une traduction portugaise partielle de la Grammaire générale (1767) de Nicolas Beauzée. Il s’agit d’une traduction entreprise par João Albino Peixoto. Ce document intéressant est analysé ici en rapport étroit avec l’original français, avec une attention particulière consacrée à la façon dont le traducteur portugais, tout en respectant la macrostructure de son modèle français, a voulu expliciter et éclaircir le texte original pour le public portugais. Teresa Maria Teixeira de Moura analyse un jalon important dans l’histoire de la grammaticographie portugaise, les Rudimentos de Gramatica Portugueza (1799) de Pedro José da Fonseca. On sait que Fonseca se réclame de la grammaire philosophique française (entre autres, de Du Marsais et de Condillac), mais l’analyse qui est présentée ici montre que cette influence reste essentiellement limitée au prologue de l’ouvrage de Fonseca, où il est question de généralités (fonction du langage; définition de la grammaire), alors que dans le corps de l’ouvrage, on relève une très nette influence exercée par la Gramática de la Real Academia Española (première édition, 1771), qui a laissé son empreinte sur la macrostructure et la micro-structure des Rudimentos. Dans le dernier tiers du XIXe siècle la linguistique portugaise s’ouvre au modèle allemand de linguistique historico-comparative, et on voit paraître aussitôt des grammaires scolaires qui essaient d’introduire les principes de la grammaire historico-comparative dans le traitement de données grammaticales synchroniques. Maria Filomena Gonçalves analyse un de ces textes, aujourd’hui moins connu, à savoir la Grammatica Portugueza Elementar (1876) de Teófilo Braga, un auteur connu surtout comme homme politique et écrivain. L’analyse de sa Grammatica montre que si l’auteur, réagissant contre le courant de la grammaire traditionaliste latinisante, a voulu incorporer certains principes de la grammaire historicocomparative, il s’en tient pourtant, dans sa morphologie, au schéma traditionnel des parties du discours et, dans sa syntaxe, à un traitement en termes de règles de construction. Il n’en reste pas moins que l’œuvre de Braga demeure un témoignage intéressant à propos de l’attrait exercé, au Portugal, par la linguistique historico-comparative allemande (et sa médiation par la France), à la fin du XIXe siècle.
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Deux contributions prennent pour objet la tradition linguistique italienne. Josep L. Teodoro Peris nous présente un texte peu connu, le Saggio sopra la necessità di scrivere nella propia lingua de Francesco Algarotti. Ce texte, datant de 1750, marque un jalon important dans le débat séculaire à propos du statut du latin (vis-à-vis des vernaculaires romans, et en particulier l’italien), mais aussi dans la Questione della lingua. Si l’on ne saurait prétendre que l’essai d’Algarotti a joué un rôle déterminant dans les deux débats, on ne peut se soustraire à l’évidence que le contenu de son essai représente bien l’idéologie linguistique de son époque; on retrouve d’ailleurs des échos de ses idées dans des travaux portant sur les langues mortes (d’Alembert, Ferri, Vannetti), ainsi que dans ceux sur le rapport entre langue et nation et sur le choix d’une langue nationale. Dans leur contribution, Sara Szoc et Pierre Swiggers présentent un projet de recherche qui se situe au carrefour de la métalexicographie, de l’analyse terminographique de la grammaticographie italienne et de la linguistique contrastive. Il s’agit plus particulièrement d’une description de la terminologie grammaticale technique telle qu’on peut la trouver dans un corpus, clairement circonscrit en fonction de paramètres analytiques, de grammaires italiennes du XVIe au XVIIIe siècle. Les auteurs présentent l’architecture du dispositif terminologique et terminographique et discutent en détail les problèmes théoriques et méthodologiques qui se sont posés lors de la conception et de l’exécution du modèle terminographique (en rapport avec un cas illustratif: le traitement du pronom); enfin, ils esquissent un certain nombre de perspectives d’élargissement du projet. S’il est vrai que la linguistique romane s’est caractérisée, tout au long de son histoire, par une tendance à la «particularisation»8, on ne saurait méconnaître ses multiples apports à la linguistique générale9, que ce soit (a) au plan des conceptions grammaticales, (b) au plan de la méthodologie et de la pratique des études de géographie linguistique10, (c) au plan des études de sociolinguistique, ou (d) au plan des études de lexicologie et de lexicographie, à la fois en synchronie et en diachronie.11 Les liens féconds entre linguistique romane (et les études de linguistique dans les pays romans) et linguistique générale sont illustrés ici par trois contributions, qui concernent des moments et des lieux différents, mais qui se rattachent toutes à des phases dans l’élaboration d’une linguistique générale articulée autour du concept de «signe». Voir les remarques de Malkiel (1964); cf. aussi, pour un examen global des rapports entre linguistique romane et linguistique générale, Swiggers (1996a). 9 Si le manuel de Meyer-Lübke (1920) témoigne déjà du souci d’intégrer la linguistique romane à la linguistique générale, cela est davantage le cas dans l’œuvre du grand romaniste suisse Walther von Wartburg, qui n’a cessé de mettre en évidence la pertinence «générale» de ce qu’on étudie en linguistique romane; voir surtout von Wartburg (1969). 10 Déjà Antoine Meillet avait reconnu l’importance des travaux de géographie linguistique (de J. Gilliéron) pour les études de grammaire comparée et de linguistique générale; cf. Meillet (1921) et voir Swiggers (1996b). 11 Il est inutile de rappeler ici les grandes entreprises lexicographiques, à orientation synchronique ou diachronique, consacrées à diverses langues romanes, et qui constituent des modèles méthodologiques et documentaires à l’échelle internationale. Pour ce qui concerne la méthodologie en lexicologie / lexicographie diachroniques (= «étymologie»), il n’est sans doute pas inutile de rappeler que les meilleures introductions aux études étymologiques sont dues à des romanistes. On recommandera à ce propos le manuel précieux de Pfister / Lupis (2001). 8
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Margarita Lliteras / María José Martínez Alcalde / Pierre Swiggers
Kerstin Ohligschlaeger a étudié, dans le contexte historique du sensualisme condillacien et du courant de l’Idéologie, trois textes inédits, proposés au concours de 1797 organisé par l’Institut de France. Les trois textes qu’elle analyse abordent des problèmes connexes, mais en apportant des éclairages spécifiques: il y est question du rapport entre la langue et la pensée, du rapport entre l’emploi de signes et l’expression de la pensée, enfin de la possibilité du perfectionnement de la pensée (par une meilleure organisation des systèmes de signes). Un auteur qui se rattache au courant condillacien et à la philosophie des Idéologues est Eduardo Benot, dont l’Arquitectura de las lenguas (1889) et l’Arte de Hablar (1910) demeurent une source inépuisable pour le linguiste général contemporain. Ricardo Escavy Zamora examine ici la conception du signe chez Eduardo Benot, en insistant sur le fait que la «sémiotique» de Benot est plus extensive que celle de Ferdinand de Saussure, et qu’elle comporte une dimension cruciale, celle de l’intentionnalité, qui fait que, pour Benot, le signe, instrument conventionnel, devient un outil social opératoire, à l’intérieur d’un système qui relie le langage à la réalité, par l’acte d’élocution. Ana Maria Curea s’intéresse à la contribution de Charles Bally et d’Albert Sechehaye à une «science de l’expression», en rapport étroit avec les exigences que Saussure avait imposées à la science du langage. Elle montre que la «linguistique affective» des auteurs genevois, éditeurs du Cours de Linguistique générale, repose finalement sur une articulation épistémologique divergente et que par conséquent le contenu de la «stylistique» dont parlent Bally et Sechehaye revêt une charge sensiblement différente chez ces deux auteurs. En conclusion, il nous semble que les contributions qui ont été acceptées pour publication au sein de cette section 16 «L’histoire de la linguistique et de la philologie romanes», témoignent, au-delà de l’investissement d’efforts en historiographie de la linguistique romane de la part de chercheurs venant de différents pays romans, de: (a) l’ampleur et la complexité du domaine d’étude, allant de la grammaticographie et de la lexicographie, à la géographie linguistique, à la sociolinguistique, à l’histoire de la langue, et aux problèmes centraux de la linguistique générale; (b) la pertinence de l’étude de l’histoire de la pensée linguistique pour la réflexion et pour le travail pratique dans différents sous-champs de la linguistique romane actuelle; l’évolution de nouveaux cadres conceptuels et de nouveaux modèles méthodologiques pour l’étude de thématiques cruciales relevant du champ de l’historiographie de la linguistique romane.
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Craig Baker (Université Libre de Bruxelles)
Auguste Scheler (1819-1890) et la philologie française en Belgique
1. Introduction Quand on pense aux éditeurs de textes en ancien français actifs dans la deuxième moitié du XIXe siècle, on pense d’abord à Gaston Paris et Paul Meyer, on pense à Adolf Tobler et Wendelin Foerster. Sans doute le nom d’Auguste Scheler n’est-il pas le premier à venir à l’esprit. Pourtant, lorsqu’il s’éteint le 16 novembre 1890, à l’âge de 71 ans, Scheler laisse derrière lui une production scientifique tout à fait impressionnante. Entre 1866 et 1882, il édite les œuvres complètes de Baudouin de Condé, Jean de Condé et Watriquet de Couvin et publie, entre autres, trois des quatre œuvres d’Adenet le Roi, les poésies complètes de Jean Froissart et la chanson de geste Le Bâtard de Bouillon. Réalisées sous l’égide de l’Académie royale de Belgique, ces publications constituent un total de plus de 4 000 pages de texte en ancien français sans compter les introductions et les notes, faisant de Scheler l’un des éditeurs les plus actifs de la deuxième moitié du siècle dans le domaine de la littérature médiévale de langue française. Si la qualité de son travail a parfois suscité des réserves, Scheler n’a pas moins eu droit en son temps aux éloges d’un Littré (1868) ou d’un Tobler (1867). Digne de mémoire par la quantité de textes qu’il a publiés –et dont la majorité était jusqu’alors inédite–, ainsi que par sa contribution à l’étude de la langue ancienne, Scheler est aussi intéressant par la place qu’il occupe dans l’histoire de la philologie française en Belgique et, plus généralement, en Europe. En effet, dans la Belgique de son époque, Scheler n’a pas son égal dans l’étude et l’analyse des textes anciens. Né en Suisse et éduqué en Allemagne1, Scheler est le seul qui possède une formation linguistique suffisante pour contribuer non seulement à faire connaître les textes, mais encore à les faire comprendre. Formé de bonne heure aux travaux de Friedrich Diez, Scheler connaît bien la nouvelle linguistique romane. Particulièrement actif en lexicographie –comme en témoignent ses travaux consacrés à Froissart (1874d), Jean d’Outremeuse (1882a) et Gilles le Muisit (1884)– sa compétence dans le domaine lui vaudra l’honneur d’être chargé d’achever la publication du Dictionnaire étymologique de la langue wallonne de Grandgagnage (1880) et de réaliser les 4e et 5e éditions de l’Etymologisches Wörterbuch der romanischen Sprachen de Diez lui-même (41878, 51887). Cette évidente maîtrise de la science linguistique contemporaine fait de Scheler la première figure de la philologie française moderne en Belgique.2 Sur la vie et la carrière de Scheler, voir Counson (1911-1913). Parmi les contemporains connus pour leurs travaux d’édition, citons les trois académiciens J.-M.-B.-C. Kervyn de Lettenhove (1817-1891), André Van Hasselt (1806-1874) et Charles Potvin (1818-1902).
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En revenant ici sur son travail éditorial, nous chercherons à le situer sur le plan méthodologique et à le replacer dans le contexte intellectuel et idéologique de son époque. L’examen de sa méthode et de ses techniques d’édition et le rapprochement avec les travaux de ses contemporains permettront à la fois de cerner la manière dont Scheler conçoit l’édition critique et son apport à la science; ils permettront aussi de constater comment Scheler –bibliothécaire et non professeur, comme la plupart de ses collègues– négocie la professionnalisation croissante de la discipline. Si cette dialectique entre un travail individuel et une communauté internationale de savants fait comprendre certains aspects de son travail, on ne saurait en prendre la pleine mesure qu’en faisant un retour sur la situation particulière de la Belgique à cette époque. C’est donc par là que nous terminerons.
2. Scheler et les progrès de la discipline Au moment où Scheler fait paraître ses premières éditions, la discipline philologique est dans un état de transition. Si la méthode des fautes communes n’a pas encore édicté de nouvelles règles pour l’édition des textes, les progrès scientifiques sont en train de réduire l’arbitraire et la diversité des pratiques et d’exclure, de plus en plus, l’amateurisme qui caractérisait la discipline à ses débuts.3 Très au fait des recherches alors actuelles, Scheler participe pleinement à ce renouveau de la philologie à partir du milieu du siècle. Tout en montrant des traits qui pour nous appartiennent encore à la période précédente, les éditions de Scheler témoignent des nouvelles exigences scientifiques et révèlent une conception du travail éditorial qui est novatrice et, jusqu’à un certain point, personnelle. Des sondages effectués dans ses premiers travaux permettront de s’en rendre compte. Tout d’abord, on remarque que l’attitude de Scheler envers la documentation n’est pas toujours rigoureuse. L’heure n’est pas encore à l’exigence pour les éditeurs d’examiner personnellement la documentation ancienne, ni de la connaître et de la faire connaître dans sa totalité. Par rapport à des contemporains comme Célestin Hippeau ou Henri Michelant, il est vrai que les premières éditions de Scheler font bonne figure. On y trouve souvent une description détaillée de l’ensemble des manuscrits connus et un choix généreux de variantes cueilli de première main. Toutefois, l’éditeur de Bruxelles n’est pas toujours aussi regardant sur la source de ses informations, ni systématique dans son relevé des variantes. Sa première grande édition est assez typique de sa démarche. Parmi les septante-cinq poèmes de Jean de Condé, il base son édition de trente-quatre pièces sur le ms. de Rome. Or, ce dernier manuscrit ne lui est Scheler exprime souvent sa conscience des progrès de la discipline. Dès 1866, dans son compte rendu de l’édition du Cleomadés d’Adenet le Roi par A. Van Hasselt, Scheler insiste sur l’avènement d’une nouvelle génération de spécialistes; il y met en garde l’académicien contre «la petite pléiade de censeurs qui de nos jours contrôlent le genre d’opération scientifique dont il s’agit, avec une toute autre sévérité que le public savant de l’époque des Barbazan, des Méon, des Roquefort, [...] ces censeurs rigides, disons-nous, appelés Paul Meyer, Gaston Paris, Littré, Guessard, etc., tous formés à l’école critique du vénérable Diez» (105). Cf. Scheler (1874c: vi).
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connu qu’à travers l’édition de douze poèmes publiée par Tobler en 1860 et, pour les vingtdeux autres, à travers la transcription d’un certain «M. le chevalier Tessieri», autrement inconnu, mais apparemment peu préparé pour la tâche qu’on lui a confiée.4 Le cas peut-être le plus déconcertant se produit avec l’édition des Poésies de Froissart. Scheler connaissait les deux mss de la Bibliothèque nationale de Paris, copiés, croit-on, sur commande de l’auteur; un examen linguistique lui a permis d’affirmer la supériorité du fr. 831 sur le fr. 830. Comme on a refusé de lui faire parvenir à Bruxelles l’un et l’autre ms., cependant, il se contente de se faire envoyer une copie du moins bon des deux effectuée par La Curne de Sainte-Palaye au XVIIIe siècle. C’est sur cette copie qu’il base son édition (Scheler 18701872: vol. 1, lxxi-lxxii). Parmi les quatorze gros volumes d’éditions publiés par Scheler, au moins onze reposent sur une documentation indirecte soit pour le ms. de base, soit pour le relevé des variantes.5 La pratique peut paraître digne d’un autre âge. A l’époque où Scheler commence à faire paraître ses travaux, pourtant, elle ne choque guère. Guessard et Michelant avaient eu recours au même procédé en 1858 (Otinel, xii), et même dans un compte rendu de 1876, Gaston Paris ne songera pas à lui en faire grief, déclarant, au contraire, après quelques remarques liminaires: «Je n’ai maintenant qu’à faire l’éloge de ses textes».6 Si, par sa manière de recueillir la documentation ancienne, Scheler se situe dans la continuité des pratiques anciennes, par d’autres aspects de son travail, il rompt avec le passé –voire avec ses contemporains– et innove de façon heureuse. Comme chez d’autres à la même époque, sa démarche critique témoigne d’un souci accru de respecter le manuscrit de base et de présenter une documentation exacte à ses lecteurs. Suivant peut-être l’exemple des éditeurs de la collection des «Anciens Poëtes de la France», il se montre réticent à intervenir sur son ms. de base et tente d’enregistrer scrupuleusement toutes ses interventions. Le plus souvent, il signale même les corrections visant à rétablir le système bicasuel. Expérimentant à l’occasion avec l’emploi des italiques ou des crochets insérés directement dans le corps du texte7, sa présentation la plus habituelle consiste à fournir un apparat critique unique en bas de page. Dans l’édition des œuvres de Baudouin et Jean de Condé, il a visiblement cherché à distinguer les leçons rejetées, imprimées en italiques, des variantes des autres témoins, en caractères romains. La présentation est d’une clarté et d’une facilité de consultation qui Scheler (1866-1867: vol. 2, 49 et 57). On notera par ailleurs que dans les poèmes de Baudouin de Condé, le texte de la pièce XVII est basé sur l’édition de Montaiglon, celui de la pièce XXI sur une transcription fournie par Mussafia et que les variantes du ms. BnF, fr. 837 (anc. 7218) sont reportées d’après les éditions de Jubinal (1866-1867: vol. 1, xxvii, 175, 197, 267). 5 Comme Scheler indique généralement la source de ses transcriptions (par ex., 1874b: viii; 1874c: ix; 1879: 58, 82; 1882b: xvi), l’absence de précision en ce sens laisse supposer qu’il avait une connaissance directe des mss: il en va ainsi du dernier volume des œuvres de Jean de Condé (18661867) et des éditions de Beuves de Commarchis (1874a) et du Bâtard de Bouillon (1877b). 6 Paris (1876: 116). Tobler, il est vrai, sera plus attentif à la provenance et la fiabilité des transcriptions; sans condamner la démarche de Scheler par principe, il la souligne explicitement à plusieurs reprises (Tobler 1867: 332; 1876: 245). 7 Dans sa première édition, Scheler utilise les italiques dans le corps du texte pour signaler les corrections visant à combler des lacunes dans la base (voir, par ex., 1866-1867: vol. 1, 96, 135, 245); les crochets droits dans le texte du Bâtard de Bouillon signalent des corrections conjecturales apportées au texte du ms. unique (1877b: xv). 4
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tranche avec celle de la plupart des éditions contemporaines. L’attention qu’il porte à l’emploi des signes diacritiques est également remarquable. La réflexion sur les conventions typographiques appliquées aux anciens textes peut sembler revêtir un intérêt mineur. Pourtant, pour les savants de l’époque, la question était d’actualité. Dans son compte rendu des éditions des œuvres d’Adenet le Roi, Gaston Paris y consacre une place importante (1876: 116-117). La question agite la discipline, qui est à la recherche d’une norme.8 Dans une série de contributions dans les années 1860, Scheler tente d’élaborer un système cohérent, alliant la rigueur linguistique à la commodité du lecteur (1863; 1866: 113-114; 1866-1867: vol. 1, xxix-xxx). Tout en faisant un emploi parcimonieux des signes diacritiques, il s’oppose vigoureusement à la tendance diplomatique, qui risque de dégénérer «en pédante et stérile imitation des copistes d’un autre âge» (1863: 221; cf. 1866-1867: vol. 1, xxx). Afin d’aider le lecteur, son système d’accentuation s’inspire des habitudes du français moderne, mais introduit une série d’innovations, comme l’emploi diacritique de l’accent grave pour distinguer des homographes: Scheler oppose ainsi mes (meos), mès (magis) et més (met+s); ou bien l’emploi du digramme œ pour la diphtongue, ce qui distingue œs (opus) de oes (audias). Au nom de l’exactitude linguistique, Scheler s’insurge en même temps contre un certain nombre de pratiques courantes chez les éditeurs contemporains, comme la séparation de jel et nel en je l’ et ne l’ devant consonne ou bien l’emploi de l’accent aigu sur le e en hiatus devant la voyelle tonique; rejetant cette dernière graphie qui «préjugerait la prononciation fermée de l’e en question» (1866-1867: vol. 1, xxix), il imprime veü au lieu de véu, veïsse à la place de véisse. Apparaissent ainsi certaines de nos graphies modernes. Novateur et rigoureux par certains côtés, le système préconisé et employé par Scheler ne réussit cependant pas à éviter l’arbitraire ni la contradiction.9 Les valeurs phonétiques, liées aux exigences linguistiques, ne l’emportent pas entièrement sur des valeurs purement diacritiques, déterminées en partie par les habitudes.10 Malgré ses faiblesses, le système graphique élaboré par Scheler possède le grand mérite de reprendre la question au complet, de tenter de concilier les habitudes de lecture avec la science linguistique de son époque et, peut-être surtout, d’être explicite. A une époque où les savants éditeurs sont peu loquaces sur la manière dont ils éditent et présentent les textes, Scheler explique et justifie sa démarche. Sans doute le plus grand mérite des éditions de Scheler et ce qui leur confère une valeur durable est le fait que ses textes sont systématiquement accompagnés d’un très ample commentaire historique et, surtout, philologique. Pour éclairer le sens du texte et améliorer les connaissances de l’ancien français, Scheler relève et discute les points de grammaire les plus dignes d’intérêt, éclaire le sens de termes difficiles et propose des traductions de passages obscurs; un index final, qui renvoie à sa discussion des mots les plus intéressants, fonctionne A ce sujet, voir, par ex., le vœu formulé par Michelant «de voir des philologues distingués comme MM. Bartsch, Guessard, Meyer, Mussafia, Scheler, etc., adopter un système uniforme [qui] finirait par être suivie par les divers éditeurs» (1867: 214). 9 Pas plus, soit dit en passant, que les conventions actuelles. 10 A cet égard, cependant, Scheler est loin d’être seul. Certaines habitudes auront la vie longue et malgré les critiques formulées par Scheler et Paris, les graphies comme vëoit, près et mauvès sont encore courantes à la fin du XIXe et au début du XXe siècle (cf. Renart le contrefait, éd. G. Raynaud et H. Lemaître, Paris, 1914). Le système actuel ne se mettra en place qu’avec les recommandations décidées par la SATF en 1925 et publiées par Mario Roques en 1926. 8
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comme une sorte de glossaire. Le fait peut paraître banal, habitué comme nous le sommes à la présence systématique de glossaires, voire de notes philologiques dans les éditions modernes. A l’époque, cependant, c’était chose rare. Chez la plupart de ses contemporains, les textes critiques n’étaient généralement suivis que d’une table des matières et –quand on avait de la chance– une liste des variantes. On chercherait en vain des commentaires comparables ou seulement un glossaire dans les dix volumes des «Anciens Poëtes de la France», voire même, bien plus tard, dans certains volumes de la SATF.11 Scheler, en revanche, fournit invariablement un commentaire philologique qui est, en règle général, de dimensions importantes. Pour n’en citer que deux exemples, son commentaire des œuvres de Watriquet de Couvin occupe 100 pages, celui des œuvres de Baudouin de Condé, 150. Conformément à ses propres intérêts, mais dans le désir sincère de se mettre au service des lecteurs, Scheler se concentre essentiellement sur la lexicologie, expliquant les mots rares, cherchant l’origine de mots jusqu’alors inconnus et soulignant des sens désuets de mots conservés dans la langue actuelle. Scheler voyait là l’une des tâches les plus importantes de l’éditeur, et il l’a accomplie avec le plus grand soin. C’est ainsi qu’il fut le premier, sauf erreur, à relever et à discuter: – des sens nouveaux de mots connus, comme remort, ‹récit›, et remordre, ‹raconter› (1866-1867: vol. 1, 383, 398); – des mots jusqu’alors inconnus comme espincier, ‹exposer brièvement›, lois, ‹louche› (luscus), se desciver, ‹éviter› (de+eschiver) , clipée, ‹coup› (aflam. klippel, ‹bâton›), puisnier, ‹empoisonner› (1866-1867: vol. 1, 391, 395, 402, 406, 414); – des expressions rares ou non attestées auparavant comme prendre panie sur qqn, ‹faire du tort à qqn en lui dérobant son bien› (pan, ‹chose saisie, gage›), se conseiller a Jacob, ‹prendre les champs, prendre la poudre d’escampette› (Gdf IV, 625: ‹être lâche›), estre en basse lame, ‹être de basse origine›, ou avoir le cuer dans la cauce, ‹être timide ou lâche› (1866-1867: vol. 1, 391, 403, 442, 526).
Ses définitions et ses explications ne sont pas toujours heureuses –on pourrait en relever bien des exemples12–, mais il faut se souvenir que Godefroy n’avait pas encore publié son dictionnaire, que celui de La Curne de Sainte-Palaye n’existait que sous forme manuscrite et que, dans le domaine français, les chercheurs étaient souvent réduits à utiliser le glossaire de Roquefort. La contribution de Scheler à la lexicographie de l’ancien français est loin d’être négligeable: il a fourni une ample moisson de mots intéressants et, encore aujourd’hui, c’est à lui que l’on doit les seules attestations et parfois les définitions de certains mots dans les dictionnaires modernes (par ex. espincier et remort dans le Gdf, clipee et se deschiver dans le TL). C’est ce travail inlassable de réflexion sur le sens des textes et des mots, qui lui vaudra en bonne partie les éloges qu’il reçoit de ses contemporains et assurera sa place dans En règle générale, les éditions de la SATF ne comportent pas de notes philologiques; si la présence de glossaires est presque systématique dès le début, il existe des exceptions, comme les Deux rédactions du Roman des sept sages de Rome de G. Paris et le Guillaume de Palerne de H. Michelant, publiés tous deux en 1876. Sur la deuxième de ces publications, voir les diverses explications données dans Michelant (1876: xxii), et Michelant / Meyer (1894: i-iii). 12 Sur le problématique clerir, ‹commencer à faire clair›, pourtant accepté par Godefroy (Gdf II, 152) et von Wartburg (FEW II, 740), par exemple, voir Ribard (1966). 11
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l’histoire de notre discipline. Le jugement de Gaston Paris témoigne de l’estime dont il bénéficiait déjà à l’époque: L’Académie de Belgique a le bonheur d’avoir à sa disposition, dans la personne de M. Scheler, un éditeur à la fois zélé, infatigable et excellent: heureuse, –et rare–, circonstance dont a déjà profité et dont profitera encore notre chère littérature du moyen-âge.13
3. Ruptures et réorientations Mais les éloges ne seront pas toujours au rendez-vous. Au cours de la carrière de Scheler, les pratiques de l’édition des textes anciens connaîtront, on le sait bien, une évolution majeure. La fin des années 1860 et le début des années 1870 voient l’éclosion, dans les milieux de la philologie romane, d’une méthode et de techniques de critique textuelle nouvelles. Basée sur le principe des fautes communes, la méthode devait permettre de déterminer avec précision les rapports entre les manuscrits conservés et fournir le moyen ‹scientifique› de constituer un texte critique qui, dans le meilleur des cas, se rapproche de l’œuvre telle qu’elle est sortie des mains de l’auteur. En 1872, G. Paris fournira le manifeste de la nouvelle école critique: sa célèbre édition de la Vie de saint Alexis donne de la méthode à la fois un exposé circonstancié et une brillante illustration. La méthode s’impose rapidement en Allemagne, en France, en Suisse... mais non en Belgique. Scheler, qui était un enfant de Diez, ne sera pas l’enfant de Lachmann. Restant presque entièrement étranger à la révolution qui modifiait en profondeur la critique textuelle de son époque, Scheler continuera à éditer des textes comme il l’a toujours fait. Aux yeux des partisans de la nouvelle méthode, sa démarche paraîtra de plus en plus dépassée et, à partir de la fin des années 1870, la réception critique de ses travaux s’en ressent. Au début, les critiques sont rapides et ne mettent pas fondamentalement en cause la qualité de ses publications. Paris en 1876 et Bartsch en 1878 se contentent de relever le problème de méthode, sans insister.14 Paul Meyer, en revanche, sera plus sévère. Son compte rendu de Paris (1876: 115). Même Meyer, dans sa nécrologie peu amène, doit reconnaître que les travaux de Scheler «sont des publications honnêtement faites, qui valent surtout par les soins apportés à l’interprétation des mots et passages difficiles. Scheler était un érudit consciencieux qui cherchait à comprendre ce qu’il éditait, et qui n’hésitait jamais à confesser son embarras lorsqu’il se trouvait en présence d’une difficulté insurmontable. Ses commentaires ont, pour la lexicographie de notre langue, une valeur durable» (Meyer 1890: 181). Voir encore Anonyme (1866: 315); Littré (1868: 703); Tobler (1867: 331-332 et 1876: 244). 14 Voici, par exemple, l’avis de G. Paris sur l’édition des œuvres d’Adenet le Roi: «On peut cependant reprocher aux publications de M. Scheler de ne pas répondre encore absolument aux rigoureuses exigences de la critique [...] les quatre manuscrits d’Ogier, les six manuscrits de Berte, n’ont été ni classés, ni même complètement collationnés: l’éditeur s’est borné à ‹prendre pour base› le manuscrit qui lui a semblé le meilleur [...]. Cette manière de faire a peu d’inconvénients, on doit le reconnaître, pour les œuvres auxquelles M. Sch. l’a appliquée: les manuscrits d’Adenet sont à peu près de son temps, ils n’offrent que bien peu de différences, et l’éditeur a su presque toujours s’aider des variantes de manière à fournir au lecteur la bonne leçon. Aussi n’est-ce que pour le principe que je 13
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l’édition des deux Vies de sainte Marguerite est brutal: il dénonce la pratique, assez habituelle chez Scheler, d’avoir recours à des sources indirectes, déclare inadmissible le fait de ne pas avoir collationné la totalité des témoins et condamne comme «arbitraire» la vieille méthode d’édition qui consiste à corriger un manuscrit à l’aide d’autres sans connaître les rapports entre eux.15 Meyer ironise sur les prétentions scientifiques de l’éditeur de Bruxelles. Deux ans plus tard, dans le compte rendu des Trouvères belges paru dans la Romania, la virulence de ses critiques augmente: Meyer y accuse Scheler d’ignorer complètement les exigences de la science moderne et considère qu’il s’agit d’une édition «où les questions capitales, loin d’être résolues, n’ont pas même été posées» (1880: 143). Si les critiques de Meyer paraissent par moments excessives, on ne saurait nier que Scheler ne pousse pas très loin les analyses et ne se livre même jamais à une étude approfondie d’une tradition manuscrite. Et pourtant, l’on ne saurait invoquer l’ignorance: il connaît la Vie de saint Alexis, qu’il cite à l’occasion. Mieux encore: en 1870, deux ans avant la parution de l’édition de Paris, Scheler applique le concept des fautes communes pour régler une question mineure dans la tradition manuscrite des œuvres de Froissart (Scheler 1870-1872: vol. 1, xi-xii). Comment dès lors expliquer que Scheler semble rester à l’écart de l’évolution de la discipline? Il y a à cela au moins deux explications. La première, donnée explicitement par Scheler dans la préface de son deuxième volume de Trouvères belges publié en 1879, repose sur des réserves d’ordre méthodologique. L’éditeur avance trois arguments: 1. La faible qualité littéraire des œuvres qu’il édite ne mérite pas une telle dépense de temps et d’énergie: «La chanson de Roland impose à son éditeur des conditions de critique plus sévères que la pastourelle d’un obscur chansonnier du 13e siècle» (1879: vii). 2. Il ne croit pas au caractère prétendument scientifique et objectif de la méthode: «il me semble que trop de minutie dans le remaniement des textes peut exposer l’éditeur [...] au reproche d’une assurance outrée, d’un purisme trop individuel» (1879: vii). 3. Par conséquent, enfin, si le texte d’un manuscrit convenait à un public du XIIIe siècle, pourquoi ne conviendrait-il pas à un lecteur du XIXe (1879: viii)? Dans cette méfiance envers une méthode qui modifie profondément les textes et dans cette volonté de reproduire une version ‹authentiquement médiévale›, on croirait déjà entendre la voix de Joseph Bédier. Plus encore quand il dit choisir un manuscrit de base qu’il ne modifie que lorsque «la correction s’impos[e] rigoureusement» (1879: vi). Il y a pourtant de grandes différences et le discours de Scheler n’est pas sans ambiguïté. En même temps qu’il avance ces critiques, il se place assez nettement dans une position d’infériorité par rapport aux «professeurs de philologie romane en Allemagne et en France» (1879: viii), dont il s’éloigne désormais. De fait, en d’autres endroits de la préface, on voit bien que Scheler ne conteste ni l’autorité de ces professeurs étrangers, ni la légitimité de la nouvelle méthode critique. Il ne se pose donc nullement en chef de file d’un courant dissident. Bien au contraire, il s’assigne un rôle plus modeste et restreint progressivement le public présente cette observation» (Paris 1876: 115-116). Cf. Bartsch (1878: 477). «C’est une manière de procéder que nous ne pouvons en aucune manière approuver. [...] Il est toujours aisé, lorsqu’on a à sa disposition plusieurs mss., de corriger les leçons évidemment mauvaises, et de donner ce qui s’appelle un texte lisible, mais si l’emploi des mss. n’est pas réglé par la connaissance du rapport qu’ils ont entre eux; si, en d’autre termes, on n’a pas au préalable classé ces mss. par familles, on aboutit à un texte constitué arbitrairement» (Meyer 1878: 339-340).
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visé: dans sa préface de 1879, comme déjà celle de 1877, il affirme que ses publications ne s’adressent pas uniquement aux philologues de profession (1877b: xv; 1879: vii-viii, ix); avec sa dernière édition d’un texte littéraire en 1882, il ira même jusqu’à exclure ce public érudit en déclarant que son travail «n’est pas destiné aux linguistes ni aux apprentis-linguistes, groupés autour des nombreuses chaires de philologie romane créées récemment dans la plupart des pays de l’Europe» (1882b: xiv). L’éditeur de Bruxelles s’adresse donc désormais principalement à un public profane, cultivé mais non spécialiste. En plus de délaisser la nouvelle méthode d’édition, Scheler semble ainsi renoncer à toute prétention scientifique. Mais les choses sont plus complexes et ce qui ressemble à une démission n’est, en réalité, que la prise de conscience du caractère de plus en plus irréconciliable des deux missions qu’il a toujours poursuivies. Dès ses premières publications, Scheler a toujours évoqué son double public et son double objectif: d’une part, se rendre utile à la communauté internationale des savants en faisant progresser la science; d’autre part, aider les lecteurs cultivés, mais peu rompus aux subtilités de l’ancienne langue, à accéder aux textes des anciens auteurs de la Belgique (1866-1867: vol. 1, vii, xxx-xxxi; 1874c: x). Il ne faut pas oublier, en effet, que la totalité des grandes éditions de Scheler s’inscrit dans le cadre de la collection des «Grands Ecrivains du Pays» publiée par l’Académie royale. C’est ce projet national et le contexte particulier de la Belgique à ce moment de son histoire qui constitue la deuxième explication que l’on peut avancer de l’attitude adoptée par Scheler. Dans ses dernières préfaces, il est significatif qu’il ajoute toujours une précision géographique lorsqu’il évoque les centres de la science de son époque: ce sont des «professeurs d’Allemagne et de France» et ce sont des «chaires de philologie récemment créées dans la plupart des pays de l’Europe». En se détournant de ce public-là, Scheler se tourne vers le lectorat belge, le premier public naturel d’une collection de l’Académie royale et un public composé nécessairement de non-specialistes puisque, comme Scheler le rappelle lui-même, il n’existait alors dans l’enseignement supérieur en Belgique aucune chaire de philologie romane: Nous n’avons, dans ce pays, pour propager et vulgariser des études qui fleurissent en France, en Allemagne et en Italie, pas la moindre chaire universitaire de langues ou de littérature romanes, et c’est à notre Commission académique seule que revient le mérite d’avoir facilité les voies d’accès aux rares philologues qui se sentent disposés à se rendre utiles dans ce sens (1877b: xv-xvi).
Aux yeux de Scheler, son travail au nom de l’Académie devait donc pallier, d’une certaine façon, l’absence d’une instruction publique dans le domaine.16 Ce déplacement de l’accent dans le public visé est sans doute autant, sinon plus, un devoir patriotique qu’un acte d’humilité. Sa participation au projet des «Grands Ecrivains du Pays» explique également la rapidité avec laquelle il publie ses travaux. Le lecteur ne peut manquer de constater, en effet, que Notons d’ailleurs que Scheler sera l’un des premiers, sinon le premier, à assurer un enseignement universitaire de la discipline en Belgique: responsable depuis 1876 d’un cours de grammaire générale à l’Université Libre de Bruxelles où il est nommé professeur ordinaire en 1879, il «joignait à son cours principal ‹un cours facultatif d’exégèse pour les textes de l’ancienne littérature française›, cours qui se faisait soit à l’université, soit au domicile du professeur» (Counson 1911-1913: 653).
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Scheler travaillait souvent très vite—trop vite, même. Depuis les transcriptions qu’il n’a pas eu le temps de contrôler jusqu’aux traditions manuscrites qui n’ont pas été entièrement explorées, ses publications portent de nombreuses traces d’un travail hâtif que Scheler luimême est le premier à reconnaître.17 L’habitude lui attirera des critiques. Voici, par exemple, la leçon que Meyer adresse à son collègue bruxellois dès 1877: Il y a trente ou quarante ans les éditions d’anciens ouvrages français étaient rares et c’était servir nos études que de publier, même médiocrement, des textes inédits; maintenant il importe moins de publier beaucoup que de bien publier, et en cette matière c’est à des hommes du mérite de M. Scheler qu’il appartient de donner le bon exemple (Meyer 1877: 341).
Mais Meyer se trompe. Il pense aux «anciens ouvrages français». Et il est vrai que depuis le temps des Méon et Barbazan, la situation a évolué de façon importante en France: on disposait de centaines d’éditions imprimées; depuis 1858, le pays possédait une collection nationale, les «Anciens Poëtes de la France»; et la création de chaires de philologie romane assurait la formation de la prochaine génération de chercheurs et éditeurs. Mais qu’en était-il de la Belgique? Tout restait à faire: la masse de documents disponibles restaient largement inédits et la collection nationale, décidée par arrêté royal en 1845, n’avait toujours pas été commencée en 1860, faute de volonté ou faute d’ouvriers. A partir de 1863, les choses changent de la façon la plus spectaculaire. Lancée avec deux volumes consacrés aux Chroniques de Froissart, la collection des «Grands Ecrivains du Pays» sera l’entreprise éditoriale la plus ambitieuse jusqu’alors dans le domaine de la littérature médiévale de langue française.18 Avançant à un rythme de trois à quatre volumes par an, les éditeurs belges dépassent leurs collègues français en l’espace de cinq ans. Alors que la collection des «Anciens Poëtes de la France» s’essouffle avec son dixième volume, paru en 1870, la collection belge fait paraître soixante-cinq gros volumes entre 1863 et 1882. Cet exploit éditorial est essentiellement l’œuvre de deux hommes: l’académicien J. M. B. C. Kervyn de Lettenhove et Auguste Scheler. Infatigable, Scheler signe près d’un quart des volumes de la collection au cours de cette période.19 L’énergie que Scheler consacre à cette entreprise et la rapidité avec laquelle il travaille se comprennent aisément. Il ne s’agissait de rien moins que de ressusciter –voire, en un certain sens de créer– le passé national d’un pays qui n’existait pas cinquante ans auparavant. A eux deux, Kervyn et Scheler ont donné à la jeune nation un patrimoine artistique qui plongeait ses racines dans le lointain Moyen Age et qui se rattachait certes à la culture française, mais sans se confondre avec elle. Dans cette entreprise, Scheler était visiblement animé d’un sentiment d’urgence. Conscient que, en l’absence de chaires de philologie romane, il risquait de n’y avoir personne pour Dans la préface des Poésies de Froissart, par exemple, il déclare: «nous avons passé une vingtaine d’heures à collationner les deux recueils de la Bibliothèque nationale pour en recueillir les variantes. La rapidité avec laquelle nous avons dû procéder, nous mettra à l’abri d’un blâme trop sévère, si l’une ou l’autre variante de quelque intérêt a pu nous échapper» (1870-1872: vol. 1, lxxii). Cf. encore (1868a: xxiii; 1874c: ix; 1879: xix). 18 Sur l’histoire de la collection, voir Jodogne (2000). 19 La SATF elle-même, lancée en 1875, n’atteindra son 65e volume qu’au tournant du XXe siècle. Et encore faut-il remarquer que ces volumes sont signés par près d’une trentaine de collaborateurs. 17
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prendre la relève, il publiait comme si le projet des «Grands Ecrivains du Pays» devait mourir avec lui et son collègue Kervyn de Lettenhove. Il n’avait pas tort. Après la mort de l’un en 1890 et de l’autre en 1891, la collection est abandonnée pendant plus de quarante ans.20 Dans de telles conditions, il ne pouvait pas être question de passer des années à analyser la tradition manuscrite de chaque œuvre avant de la publier21, ni de se limiter à l’édition d’œuvres conservées dans des manuscrits uniques, ce qui semble avoir été une stratégie de certains contemporains de l’Hexagone.22 Vu la situation, il fallait tout publier et il fallait publier vite. A côté donc des réserves sans doute réelles que Scheler pouvait nourrir à l’égard des nouvelles méthodes ecdotiques, son attitude et son activité scientifique s’expliquent aussi en partie par des raisons idéologiques et des considérations d’ordre pratique liées au contexte spécifique de la Belgique et à la nature de la collection de l’Académie royale.
4. Conclusion Dans l’histoire de la philologie française en Belgique, Scheler est incontestablement une figure majeure. Rendant disponibles les trésors littéraires du passé national, il a contribué à établir l’identité culturelle et historique du pays en même temps qu’il a rendu possible l’étude de son ancienne littérature par les spécialistes. A sa manière, il a ainsi préparé le terrain à la lignée des philologues belges qui, à commencer par Maurice Wilmotte, consacreront souvent une part de leurs recherches à l’étude de la langue et de la littérature médiévales du pays. Du point de vue de la discipline dans son ensemble, aussi, l’héritage de Scheler mérite encore considération. Au cours de sa carrière, il a édité une quantité impressionnante de textes, dont la majorité était jusqu’alors inédite. Il a ainsi permis de découvrir tout un pan de la littérature médiévale. Encore aujourd’hui, ses éditions sont parfois les seules dont nous disposons pour certaines œuvres, comme celles de Baudouin et Jean de Condé, de Watriquet de Couvin et de Jean de Le Mote. A l’époque de leur publication, ses éditions ont marqué un net progrès sur le travail de ses prédécesseurs et parfois même de ses contemporains. Certes, il n’a pas adopté les nouvelles techniques ecdotiques qui se sont imposées au cours des années 1870 dans les hautes sphères de la philologie européenne. Il ne faut pourtant pas exagérer la rupture que suggèrent les critiques mordantes de Paul Meyer. Peu porté à l’étude minutieuse des manuscrits et des rapports qu’ils entretiennent les uns avec les autres, comme à des questions d’histoire littéraire ou de critique esthétique, Scheler a concentré ses efforts dans les domaines de la lexicologie et de la grammaire de l’ancien français. Le travail qu’il a réalisé dans ces domaines tout au long de sa carrière constitue une contribution importante Après 1891, la collection s’arrête. Elle ne renaîtra qu’en 1935, sous le nom des «Anciens Auteurs Belges», avec la publication des Chroniques de Molinet par G. Doutrepont et O. Jodogne. 21 A titre de comparaison, rappelons que lorsque Albert Henry a réédité les quatre œuvres d’Adenet le Roi, la publication s’est étendue sur une vingtaine d’années (1951-1971). 22 Parmi les éditions publiées par la SATF au cours des premières années de son existence, la proportion très élevée d’œuvres conservées par un manuscrit unique n’est certainement pas un hasard. 20
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à notre connaissance de l’ancienne langue et à l’interprétation des textes. C’est ce travail inlassable qui lui a valu l’estime de ses contemporains et qui explique aussi qu’au moment de sa mort en 1890 il travaillait en collaboration avec Gaston Paris à une nouvelle édition critique (Meyer 1891: 181, n. 3). Le travail éditorial de Scheler n’est assurément pas sans faiblesses. Il n’en possède pas moins d’indéniables qualités qui font honneur à son auteur. La carrière atypique de Scheler, située en quelque sorte entre Diez et Lachmann, nous fournit un aperçu intéressant de cette période d’une importance capitale pour la mise en place de la discipline moderne. Par le caractère de son travail et le projet national qu’il poursuivait, Scheler nous offre aussi un bon exemple de l’interaction entre la science et la société, entre la méthodologie et l’idéologie qui caractérise le début de notre discipline et qui conditionne parfois encore nos études, souvent à notre insu.
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Aitor Carrera (Universitat de Lleida)
Quatre regles de gramàtica aranesa. Aportacions de la gramàtica inèdita de Jusèp Condò a l’estudi de l’aranès contemporani
1. Presentació Tothom sap que Jusèp Condò és «la figura més destacada que han donat les lletres araneses» (Sànchez i Vilanova 1988: 16). Condò va nàixer a Montcorbau l’any 1867 i va morir a Bossòst l’any 1919. De ben jove va haver de desplaçar-se fins al seminari de la Seu d’Urgell. Després de ser ordenat sacerdot, va ser destinat a Sallent d’Organyà (o Sallent de Montanissell, al municipi de Coll de Nargó, a l’Alt Urgell), a la localitat lliterana de Gavasa i a Moror, a Sant Esteve de la Sarga, a la Conca de Tremp. L’any 1905 va ser enviat a Gessa, i va tornar doncs a la Vall d’Aran. El 1910 va ser nomenat rector de la localitat veïna de Salardú, i el 1915 va passar a dirigir la parròquia de Bossòst, on és enterrat.1 La producció de Condò és variada i prou abundant. Va publicar un bon nombre de composicions poètiques en aranès, gairebé sempre en les revistes Era Bouts dera Mountanho i Armanac dera Mountanho del luixonès Bernard Sarrieu, a qui va conèixer en l’etapa de Bossòst.2 Condò també va ser l’autor de textos i contes entre el costumisme, l’excursionisme, l’etnografia i la història publicats en el Butlletí del Centre Excursionista de Catalunya, del qual va convertir-se en delegat en l’època de Moror.3 A més d’algunes obretes religioses en espanyol i d’algun assaig històric,4 es diu que Condò és probablement responsable d’alguns gojos aranesos (de Sant Martin de Corilha, a Gessa, i de la Mair de Diu des Desemparats de Un resum de la biografia de Condò a Sànchez i Vilanova (1988: 19-65). També és interessant el seguiment del record de Condò «de village en village» realitzat pels Ponsolle (1981: 13-21). 2 Les seues primeres poesies van ser, però, en català: Mon primer ram, La vida d’una mare, L’Sol d’Espanya, Els dolors de Maria, Lleyda a Maria Santíssima... Condò va obtenir nombrosos premis en els concursos de l’Acadèmia Mariana de Lleida, i no va ser fins que va tornar a la Vall d’Aran i va contactar amb Sarrieu que la seua obra literària va expressar-se en occità. Sobre la producció de Condò, vegeu Ponsolle (1981: 42-43) o Sànchez i Vilanova (1988: 177-178). Vegeu també Condò (1981), on hi ha un bon nombre de composicions poètiques, o Montoya (1999: 223-351), que dedica més de cent trenta pàgines a reproduir creacions del sacerdot de Montcorbau. 3 Destaquem Tradicions i costums de la Vall d’Aran i Gabassa, amb anotacions sobre el parlar de Gavasa, ambdós de 1896 (i reproduïts en part per Sànchez Vilanova 1988: 90-104). 4 A més de la història del Pabordat i la Baronia de Mur, Condò tenia notes i apunts sobre la Seu d’Urgell, «la història de la quina [sic] ciutat tenia pensat escriure» (Sánchez i Vilanova 1988: 36). 1
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Montcorbau; segons Amiell 1988: 41). També va dedicar-se a la traducció, i per encàrrec de Sarrieu va començar la versió espanyola de l’ambiciós poema Era Pireneida del luixonès.5 És l’autor d’un «Catecisme cuért (inachevé)» (Ponsolle 1981: 44) que era «una traducció del catecisme de Pius X a l’aranés [sic]» (Sànchez i Vilanova 1988: 60), i d’una peça de teatre, Era Caritat. Però l’obra més coneguda de Condò és Era Isla des Diamants, una de les seues dues novel·letes, que va donar nom al recull de treballs editat per l’Escolo deras Pireneos (Condò 1981). En l’àmbit estrictament poètic s’ha comparat Condò amb Verdaguer.6 La comparació és exagerada, tant des d’un punt de vista literari com des de l’angle de les connotacions patriòtiques –Condò no deixa de ser un localista aranès malgrat els seus contactes amb els felibres comengesos– i de la transcendència social dels dos personatges. Però és cert que hi ha interessants ressonàncies verdaguerianes en l’obra de Condò, que suggereixen una admiració per Verdaguer per part del sacerdot aranès, o almenys una certa voluntat d’imitarne els motius o tòpics literaris.7 Condò va col·laborar amb Griera com a informant de Vielha de l’Atlas Lingüístic de Catalunya (ALC), les dades del qual van servir després per a l’Atlas Lingüístic de la Vall d’Aran (ALVA).8 Va ser també l’autor d’un «Vocabulari aranès» publicat al BDC (Condò 1914), i gràcies a Joan Coromines (1990: 10) sabem que va elaborar altres materials que han romàs inèdits, que van ser de molta utilitat al gran savi català: QMC (= qüestionaris de Mn. Condò) que envià a la Secció Filològica de l’Institut d’Estudis Catalans, responent als qüestionaris (omplerts copiosament i amb gran estudi i intel·ligència) del projectat Diccionari Català de Dialectes, que preparava la S.F. Amb QRGA abreujo l’inèdit Quatre regles de Gramàtica Aranesa, útil esbós de gramàtica, de Mn. Condò, quasi només morfologia, del qual vaig treure còpia.
Fins avui no s’havia pogut tenir accés a aquests documents. Quatre anys enrere, però, la família de Jusèp Sandaran va fer una històrica donació de documents a l’Archiu Generau A Condò (1981: 263-347) es pot trobar la traducció d’extrets del primer cant de l’obra. Més fragments originals en gascó (amb traducció en francès) a Sarrieu (1977: 303-353). 6 Vegeu Montoya (1999: 223). Ponsolle (1973: 2) fins i tot arriba a dir que Condò era «Amic de Verdaguer» (també almenys a Condò 1981: 256; «Ami de Verdaguer»), cosa que és incerta. Condò era a la Seu d’Urgell quan va passar-hi Verdaguer, i el poeta aranès fins i tot va col·laborar amb la revista L’Atlàntida (Pinyol 1991: 111), amb la qual cosa podria haver tingut l’oportunitat de coincidir amb el poeta de Folgueroles o fins de conèixer-lo. Però d’aquí a parlar d’una amistat... 7 És impossible parlar de les composicions Era Maladeta o Luenh dera pàtria sense referir-se, respectivament, a Canigó i a L’Emigrant. També semblen d’inspiració verdagueriana, posem per cas, la Cançon dera Garona o la Cançon dera Noguera Palharesa, amb una tornada que diu «Garona per Aran / Bramant; / Noguèra per Alós / Tot doç». Posats a comparar Verdaguer i Condò, fins i tot podríem fer referència al fet que el poeta de Folgueroles va fer estada a Gessa, on anys després van destinar Condò. 8 Griera es devia servir també del sacerdot aranès per a La frontera catalano-aragonesa (Griera 1914), treball en què, a més de Vielha, hi havia Salardú, Canejan i Montcorbau. Condò va arribar a Salardú durant l’agost de 1910 provinent de Gessa –a tocar–, i els materials de Griera van ser «recollits en l’excursió dialectal que férem pels mesos de juliol i agost de 1910» (Griera 1914: 11). Les dades de Vielha de Griera (1918) contenen trets més aviat propis de Marcatosa i alguns deixos típics de Condò (saigut per seigut, presència teòrica de -[t] en mots com malaut, entre altres). 5
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d’Aran,9 l’estudi dels quals ens va encarregar el Conselh Generau d’Aran. Vam poder comprovar que, entre moltes altres cèdules valuosíssimes, aquests documents incloïen –per sorpresa nostra– les famoses Quatre regles de Gramàtica aranesa de Jusèp Condò.
2. Les Quatre regles de Gramàtica aranesa. Descripció general i qüestions formals El document, escrit en català, consta de quaranta-vuit pàgines manuscrites, relligades amb fil, a les quals cal sumar tres retalls o fulls independents que no formen part de l’assaig gramatical i que contenen –per aquest ordre– alguns símbols fonètics, alguns exemples de transcripció i unes anotacions sobre les formes i l’ús de l’article definit en aranès.10 En la coberta s’indiquen el títol i l’autor: «Quatre regles / de / Gramática aranesa / per Mossen Josep Condó». I la data: «Bosost 30 Janer 1916». Alguns detalls fan pensar que tenim al davant un document original del mateix Condò.11 D’entrada, les nombroses addicions, correccions i modificacions aparentment espontànies que hi ha en el mateix text. El document no sembla del tot definitiu, perquè qui l’escriu hi va fent retocs a mesura que avancen les pàgines,12 i s’hi succeeixen explicacions, nombrosos exemples i també columnes.13 Les convencions usades per representar alguns mots aranesos confirmen que ha de ser un document de Condò o, a tot estirar, una còpia rigorosament fidel d’un hipotètic document anterior del poeta de Montcorbau. Per presentar les formes araneses Sandaran, contemporani de Condò, és la segona figura més destacada de la cultura aranesa de l’inici del segle XX. Sobre Sandaran, vegeu Montoya (1999: 355-362) o Carrera (en premsa). 10 La cal·ligrafia d’aquesta espècie d’apèndix és clarament diferent de la del conjunt de l’obra, i també hi ha diferències en el sistema de transcripció fonètica. En el darrer full hi apareix el següent comentari: «A Lés fixar-se bé en si hi ha supervivències de l’article eǧ, eč». I allí mateix sembla que s’hi usa l’abreviatura Bag, que Coromines feia servir per referir-se a Bagergue. Caldria comparar bé la cal·ligrafia d’aquestes pàgines i la dels possibles candidats a ser-ne els autors. 11 A primera vista sembla que hi ha semblances cal·ligràfiques entre el nostre document i alguns manuscrits de Condò com Ena mòrt de Père Sarrieu o la carta adreçada a Sarrieu des dels Banhs de Tredòs, ja malalt (vegeu Ponsolle 1973: 3; Condò 1981: 256-260; Montoya 1999: 342-346). 12 Al començament ja hi ha una correcció estilística, i s’hi afegeix estratègicament un adverbi: «Les no poques diferencies de llenguatje que hi ha entre ‘l llenguatje» (1). Més endavant, per exemple, gairebé es repeteix el verb hèr (36) en la quarta conjugació malgrat que ja apareix en la tercera (31-32). En els adverbis surt mai mès en un lloc (38), però això no impedeix que comparegui també al costat de jamès plus (39). Fins i tot hi ha un fals final abans del darrer capítol, ratllat però perfectament legible: «Y veus ‘aquí les quatre regles de gramática aranesa que ‘ns haviem proposat escriurer per a donar al public una petita idea de la parla de la Vall d’Aran» (46). Hi ha un final real que conté una frase gairebé idèntica dues pàgines més endavant (48). 13 Les explicacions van generalment acompanyades d’exemples, però també es despatxen fets lingüístics dient, per exemple, que «Aquí ja no’hi cal exemples» (47). Els paradigmes verbals apareixen regularment en columnes, i en alguns casos fins es pot arribar a reservar alguna columna a les equivalències catalanes de les formes araneses. De tant en tant es donen «regles generals» que es numeren, i després se citen –si cal– les excepcions. L’obra sembla deliberadament esquemàtica i didàctica, encara que algunes vegades sembli que s’adreci als «entesos» (47). 9
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s’usa sistemàticament la transcripció fonètica i se segueixen les convencions del «Vocabulari aranès» del BDC de dos anys abans, que són anomenades «ortografia especial».14 Ja vam advertir (Carrera 2006: 12; 2008: 97) que Condò, contràriament a Sarrieu, tenia tendència a escriure h quan sabia que hi havia H etimològica, almenys en els documents manuscrits (o, si volem, en la seua grafia privada). Doncs bé, això es repeteix en les QRGA: hi ha h- en formes com òme (5 o 17, per exemple) o en el verb auer (18).15 Per contra, h- no apareix quan es parla específicament del baix aranès,16 i és absent en formes amb F- etimològica com hormiga (2), hilh o holh (8). Només fa acte de presència en alguns pocs casos com huec, horn (4), humarau, hame (6) o hered (12), segons una norma gens clara.17 Aquest ús de h (per H) és un més dels casos en què Condò practica un curiós respecte a l’etimologia: en formes com deuant (37), naut (38) o fins tant (40), en què l’oclusiva final ha desaparegut a gairebé tota la Vall d’Aran, hi ha -[t] en les transcripcions.18 Condò escriu abánts (38), i fins i tot representa aciu i aquiu com si fossin *[asjewt] i *[akjewt] (37), perquè creia que s’hi havia produït el mateix emmudiment de -t final que a naut, lèit o malaut, que tenen -[t] al vocabulari del BDC (Condò 1914: 18-20). Els objectius i els destinataris del tractat només apareixen en algun comentari breu. Per exemple, en la inauguració de la morfologia verbal: «escribim aquestes ‹Quatre regles de Gramática aranesa› per als que saben ja la catalana i castellana» (18). O en la darrera pàgina (48): I veus’ aquí les «Quatre regles de Gramática aranesa» que ‘m havíem [sic?] proposat escriurer per a donar al públic una petita del llenguatje de la Vall d’Aran. Si no hem sabut dexar-les prou clares per a la intel·ligencia de tothóm, creyém que ho seran prou per als que han saludat la literatura catalana. Y aixó ‘ns abastaria, car ja no ‘ns hem proposat res més al començar aquet mal fargat escrit. «Ens apar que l’ortografia especial que hem usat per a escriurer les anteriors regles gramaticals basta per si sola per a que ‘ls entesos sapiguen pronunciar bé cada mot aranés, independentment dels altres» (47). Només puntualment hi ha alguns errors importants: transcripció de luenh amb el mateix so final que a on (37) o de les aproximants –aquí, «fricatives»– com si fossin oclusives (2, però no sempre; 38), ús de ny per al so nasal de shinhau (39) o presència ocasional de [v] (15). 15 Per comoditat presentem regularment en grafia normativa les formes araneses que dóna el document, tret que fem una cita literal d’algun fragment. En alguns casos podem adaptar certs símbols fonètics de Condò als de l’Alfabet Fonètic Internacional, o prescindir –sempre que no provoqui confusions o lectures errònies– d’alguns diacrítics difícils de reproduir. 16 Aquesta absència de h- és encara més sorprenent si tenim en compte el que diu Barnils (1914: 54) que li explicava Condò: «Una lletra del I.r de novembre de 1913 del nostre benvolgut amic i col·laborador entusiasta Mn. Josep Condó, de Salardú, [...] ens fa la següent observació: ‹La h, al centre de la Vall, no té pronunciació, encara que a Bossost, Bausen, Les i Canejàn és fortament aspirada, atansant-se a la j castellana›». 17 «La h no te cap força de prosodia, sinó solzament etimológica, excepte abans dels articles masculins et i er» (18). Costa, però, de veure la diferència que separa hilh i horn. I costa d’imaginar [h] després de l’article er, perquè s’usa només davant de vocal. Diguem, per altra banda, que en algun cas Condò arriba a escriure h- en la forma ué (però no en el seu sinònim aué; 38) i fins i tot en la interjecció uè (46). També usa h en les interjeccions a, e, ò. 18 I, per contra, hi ha donc sense -[k] final, generalment també emmudit (45).
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Condò vol que el document tingui forma i estructura de gramàtica, i el divideix en onze capítols, un per a cada categoria, amb l’excepció del darrer, dedicat a les «Regles de Prósodia [sic]», l’únic en què es prenen mínimament en consideració les qüestions fonètiques.19 En els «Preliminars» (1-3) se situa breument l’aranès i es fan comentaris sobre la variació dialectal. En el primer capítol, «Del article» (4-5), es dóna l’inventari de formes de l’article definit aranès, s’hi estableix l’ús de eth i er, i s’hi fan algunes remarques que més tard apareixeran en d’altres treballs: «També s’usa [eth] algunes vegades devant dels mots que començan amb h, encara que no sigui aspirada». Es precisa que s’usa [et] en alguns pobles dels Quate Lòcs, es parla del pronom ac (sinònim del català ho, però etiquetat com a «article neutre»; 4) i es comenten alguns casos en què «Els aranesos supremexen l’article»: quan s’usa el possessiu àton ta (ta pare, amb el catalanisme pare),20 «davant dels noms propis de persones i poblacions»,21 o precedit de la preposició en (cas en què Condò confon la contracció amb l’absència de l’article).22 A la fi del capítol s’enumeren les formes de l’article indefinit (5). El segon capítol, «Del nom substantiu» (6-10), es refereix al gènere i el nombre. Pel que fa al gènere, es donen informacions destinades a identificar el de certes paraules que Condò potser creia que sonarien exòtiques als catalans.23 Pel que fa al nombre, Condò parla del canvi de -a en -es, del fet que les formes que tenen -[a] tònic o «vocal aguda» o -t afegeixen -s, o de la formació del plural de formes com pan (que fa [pas]), alh ([als]) i banh ([bans], també amb despalatalització de la final). A la fi d’aquesta secció apareixen alguns comentaris fonològics més o menys desubicats sobre la conversió de [] i [] tònics en [e] i [u] en posició àtona (en derivacions com hèish → heishet). El tercer capítol es refereix també al gènere i el nombre, però aplicat a l’adjectiu (11-13). Aquí s’estableix que la desinència prioritària per formar el plural dels adjectius és -i (11). Condò comenta també els plurals de les formes amb les seqüències finals -at, -et i -it, a partir dels quals surten algunes excepcions (com barati o petiti, que no són «verbals»; 12), o el de mots com planèr o sancer, per als quals s’admet planèri i planèrs, sanceri i sancers (i, per contra, només laugèri; 13). En la darrera secció d’aquest capítol es fa referència als «Comparatius, aumentatius i superlatius», amb un comentari sobre els «quatre aumentatius propis del positiu» (milhor de bon, pijor de dolent, major de gran i menor de petit) i sobre el Ja hem advertit que hi ha un fals final anterior al darrer capítol. Podria ser, doncs, que aquesta darrera secció de les QRGA hagués estat afegida més tard als deu capítols anteriors. 20 Malgrat que en aranès sa és molt més habitual que ta, Condò no parla de sa ni tampoc de ma. Potser això explica que Coromines, després de recollir el ta de Condò i el sa corrent en l’ús oral, digui que «no crec que ma mai [sic] ni ma pai [sic] o pare, siguin aranesos» (Coromines 1990: 92). És xocant, d’altra banda, que Condò digui que es pot suprimir l’article davant del possessiu tòn, perquè *tòn germà avui seria vist en aranès com un catalanisme intolerable. 21 Condò no diu res de la supressió davant d’hidrònims com Garona, en què «els vells ho deien sense article» (Coromines 1990: 471; vegeu també Carrera 2007a: 81). De fet, recordem que una de les seues composicions es diu Cançon dera Garona (i no de Garona!). 22 En, en contacte amb els articles eth i era, produeix en i ena. 23 Feminitat de les formes acabades en -a o -[a] tònic, masculinitat de les formes en -au (amb excepcions com sau o clau «per a tancar», però no «per a clavar»), amb -[] tònic final (paèr, graèr o grauèr) o amb -e «plana i tancada» (6) 19
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fet que «Per als altres adjectius se supleixen amb els adverbis ta o tant», mès i l’hispanisme *menos. Condò cita encara l’ús de ben, molt i el francesisme *totafèt, a més de la possibilitat d’usar el sufix –també intrús– -íssim. El quart capítol és «Del pronom» (13-15). Malgrat el títol, Condò hi inclou el que queda de la morfologia nominal: pronoms personals, demostratius, possessius, sis «relatius» (que, qui i... quin, quina, quini, quines!) i els «Pronoms indeterminats». El capítol s’inicia parlant dels pronoms personals: se’n citen les formes tòniques i les equivalències àtones, i s’aprofita l’ocasió per comentar el cas del pronom baixaranès le, acusatiu i datiu (14).24 Es fan consideracions «sobre ‘l nom personal neutre»: els demostratius açò i aquerò, i «la variant» ac. Condò fixa que aquerò és prioritari en contextos en què «no s’ha de fer esment de la cosa de més aprop amb relació de la de més lluny» (15). En la secció dedicada als demostratius s’enumeren les formes aguest, aguesta, aguesti, aguestes; aqueth, aquera, aqueri, aqueres; els pronoms açò i aquerò; i també [jawte], [jawta] (realitzacions de un aute, ua auta), d’auti i d’autes, perquè resulta que «També fan de pronoms demostratius». S’enumeren igualment els possessius i es fa referència a l’alt aranès, que usa mèn, tòn i sòn en comptes de mia, tua i sua (15-16).25 En la secció dedicada als «Pronoms indeterminats» (16-17) Condò s’estén en les especificitats altaraneses que afecten els indefinits (arrés o fins res per arren, quauquarrés per quauquarren, degun per arrés, quauquedegun per quauquarrés).26 El capítol «Del verb» és el més extens del treball (18-36), i segurament el més valuós i sistemàtic del document, malgrat que tampoc no hi falten els errors lingüístics i expositius habituals en la resta de l’opuscle. Condò hi exposa els paradigmes del verb auer, que «servex d’auxiliar per a la [conjugació] dels altres verbs» (19-22),27 i del verb èster (22-23), i distribueix la resta de verbs en cinc conjugacions. La primera, els verbs amb [a] tònic (-ar); la segona, amb «é plana i tancada» (-er àton); la tercera, amb «é aguda i tancada» (-er tònic); la quarta, formada per «tots els que l’acaben [l’infinitiu] amb í aguda» (-ir); i la cinquena, en què hi hauria els que tenen -[j] en la desinència de l’infinitiu (-èir, -eir, -òir). En definitiva: la segona conjugació (verbs en -ir) correspon a la quarta de Condò, i la tercera estaria formada pels verbs de la segona, la tercera i la cinquena conjugacions condonianes. Després de fer alguns comentaris sobre la formació del gerundi28 i de repassar el verb èster,29 Sobre l’ús de le als Quate Lòcs, vegeu Carrera (2008: 55-58). Curiosament, Condò no parla de l’ús de la proclític masculí, avui habitual en els parlars del centre i de la part alta. 25 Condò va arribar a usar mèn o sòn com a femení en algunes composicions (vegeu Carrera 2006: 16; Carrera 2008: 103). Les QRGA confirmen, doncs, que devia imitar algunes característiques de l’alt aranès durant l’estada a Pujòlo. 26 Condò, però, inverteix les etiquetes territorials de les columnes. 27 Tanmateix, en les seues produccions literàries –que tampoc no són un exemple de purisme– no és rar que s’usi èster com a auxiliar de verbs pronominals (vegeu Carrera 2006: 19; 2008: 107). 28 Condò (22) recull cinc teòriques maneres de formar el gerundi, a les quals cal sumar la que ha donat a propòsit del verb auer (auent; 21): en + infinitiu, en tot + infinitiu, en tot que + verb en forma personal, tot + gerundi i tot que + forma personal. De fet, en l’inventari inclou locucions conjuntives (que poden tenir usos semblants a algunes construccions de gerundi) i oblida possibilitats de formació del gerundi vives en aranès (en + gerundi). 29 Per al verb auer, a diferència de tots els altres verbs, es donaven més d’una desena de temps verbals, també compostos, i cinc formes no personals, però això ja no es repeteix en el cas de èster. A 24
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Condò conjuga el verb cantar (24-25), fa comentaris sobre la irregularitat de dar i estar (2526),30 i exposa les formes del present d’indicatiu, del present de subjuntiu i de l’imperatiu del verb anar (26). En la secció dedicada a la segona conjugació (27-28) s’enuncien els paradigmes del verb apréner, es fa referència a les parelles del tipus preni / prengui i es comenta que tóner «no te la segona forma [amb velar]». Se situen en la tercera conjugació (amb -er tònic), a més de saber, voler o poder, els verbs tier i vier (del qual s’assenyalen les formes d’imperatiu vene i viende; 30), que en algunes zones d’Aran són [tie] i [bie]. Condò adverteix que en la tercera conjugació, «no’s pot donar una regla general ni fixa per a ningun d’ells; perque tots tenen una diferencia o altra en la conjugació» (29). El poeta aranès conjuga en columnes els verbs tier (29-30), voler (30-31) i hèr (31-32), que hauria estat millor de situar en un altre lloc, i dóna pogui i posqui en la primera persona del present de l’indicatiu de poder (31). En la quarta conjugació Condò exposa les formes de dormir (33), que té -isqui en la primera persona del present d’indicatiu, «de quina arrel [sic] se deriven les dues terceres persones del imperatiu i totes les del present de subjuntiu» (32). Però el punt més interessant d’aquesta secció és el fet que dormir i morir també poden conjugar-se sense les seqüències incoatives -[isk]- i -[is]-.31 El sacerdot aranès dóna formes com dòrmi o dròmi (amb metàtesi!), i creu que són possibles perquè els verbs «se fan irregulars, catalanisant el present d’indicatiu i l’imperatiu» (34). En la quinta conjugació (34-35) es donen sobretot les formes del verb veir, i es fan comentaris sobre algunes solucions irregulars de verbs com creir (se n’exposa en dues columnes l’imperatiu; 36), sèir o trèir (amb [a]- pretònic en formes que no són rizotòniques), quèir, mòir o plòir (34-35).32 A «Del adverbi» (37-41) es donen llistes d’adverbis «de lloc, de temps, de modo, de cantitat, de comparació, de ordre, de afirmació, de negació i de dupte» (37). En els de lloc hi ha ací, aciu i aquiu (que aquí tenen -[jewt]), acitau i aquitau (catalogats d’altaranesos), deçà, delà, ençà, enlà, pròp o apròp (que es poden canviar per ath pè o ath cant «quan signifiquen que la distancia es molt petita»), luenh (amb -[n] per error), a on, deuant, el meridionalisme *enfrente, darrèr o laguens. En els de temps hi ha ué i aué, ger i ager, deman i un ademan que seria de la part alta, abans i l’hispanisme *antes (i no abantes, exageradament difós en l’aranès actual), jamès i un altaranès jamai, mai mès al costat de jamès plus (repetit a 39), de seguit i en seguida, delànet i un altaranès denàlet, ger ser (baixaranès), arunan (que és [aajwan]) o er an passat (però no est an passat). Hi ha també alguns sintagmes catalogats propòsit d’aquest verb, Condò comenta l’ús de l’imperfet de subjuntiu o del d’indicatiu en les oracions condicionals. Aquest punt serà reprès per Coromines (1990: 217). 30 «Aquéts i altres tenen dues arrels per a la seva conjugació; 1a la primera persona del singular del present d’indicatiu; i 2a el present d’infinitiu. De la primera arrel se deriven les terceres persones del singular i plural del imperatiu i totes les del present de subjuntiu, amb la deguda terminació. Del present d’infinitíu se deriven tots els altres temps i persones» (25). 31 Molts treballs obliden o tracten d’una manera molt superficial aquesta qüestió. Tot i això, vegeu Coromines (1990: 136), l’ALVA (657) o Carrera (2007a: 189-191). 32 Com ja hem dit, Condò comença a exposar novament el verb hèr en la quinta conjugació: «encara que sembla que hauría de pertenéxer a la tercera conjugació, no pertenex cap, [sic] per ésser massa irregular» (36). El cas és que, morfològicament, hèr (que abans era hèir) té més coses en comú amb els verbs amb -[j] en l’infinitiu que no pas amb els que tenen -er tònic.
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de «parts del dia», interessants per a l’estudi de l’ús de certes preposicions: ath maitin, ena maitiada, ena meddiada, ena serada, ena vrespada (etiquetat de baixaranès), ath ser, ath vèspe, pera net. En els adverbis «de modo» se citen ben, mau, *talqual (!!), talaments, com, atau, atau-atau, bonaments, malaments, pòc a pòc (que Condò pronunciava [papk]), segons i segontes, *igual (!), *lo madeish (per çò de madeish), exprès, exprèssaments o intencionadaments (39). En els de «cantitat» remarquem que hi ha fret sense cap mena de marca territorial,33 o que Condò intenta exposar la diferència entre tan i tant.34 En els de «comparació» se citen lacònicament mès, *menos, milhor i pijor (40). En els d’afirmació, entre alguna altra romanalla com sifèt o sipàs, Condò recull l’extraordinari çapur, transcrit [sapi] i oposat a l’adverbi de negació paspur ([paspy]; 40-41). En els de «dupte» hi ha dilhèu, pòt èster i qui sap. El capítol «Del participi» (41-43) dóna -at per a la primera conjugació, -ut per a la segona i la tercera, i -it per a la quarta, mentre que «Els de la quinta van a les seves: cada verb te ‘l seu participi».35 A «De la preposició» (43-44) s’enumeren les preposicions araneses, i hi apareixen formes com còntra (per contra), *des de, *asta (meridionalismes) o sobres (per sus). Condò precisa alguns usos de entà i en (vau entà casa, viui en França; 43-44), i interpreta ad i ada –variants contextuals de la forma a– com una suma de a i de (44). La secció «De la conjunció» (44-45) és, ras i curt, una breu enumeració de formes (divides en «copulatives», la «disjuntiva» o «adversatives», «condicionals» i «continuatives») amb algunes adscripcions més aviat sorprenents.36 En el capítol «De la interjecció» (4546) s’enumeren unes quantes interjeccions (en la llista hi ha hispanismes com «ojalá» o «hóla», i també adverbis d’afirmació com òc-ben), i després es fan alguns comentaris sobre l’ús de determinades formes. Les QRGA acaben amb el capítol «Regles de Prósodia» (47), l’única secció que s’encarrega monogràficament d’algunes qüestions fonètiques, i que s’endinsa concretament en la fonètica sintàctica. No és estrany, doncs, que aparegui després d’un fals final, i que constitueixi l’onzè capítol de l’opuscle.37 Els únics ingredients fonètics Coromines (1990: 463), per contra, creia que era més aviat «només de Puj [Pujòlo]». Comenta que tan «s’usa immediatament abans de l’adjectiu», i tant «després ó quan l’adjectiu va sobre-entés». I després fa l’única referència a l’espanyol de tot el treball, també incorrecta: «Igual, respectivament, que ‘ls adverbis castellans tan i tanto» (40). 35 Condò s’entreté a parlar de verbs que tenen al mateix temps participis regulars i irregulars, però en la pràctica barreja situacions en què l’analogia ha creat un segon participi (comprés o comprenut, pres o prenut) amb casos que no hi tenen res a veure (hartat i hart, apraiat i prèst). 36 Condò hi recull mèsalèu (i d’aquí surt la dada de Coromines 1990: 537, que ja adverteix que és més comú mèslèu) i el famós p(e)rò comentat per Coromines (1990: 204). 37 S’hi exposen quatre regles. La primera toca l’assimilació d’una consonant oclusiva al so que el segueix en sintagmes com blat petit o esclòp gran («quan un mot acaba i’l següent comença amb consonant, el primer la pert, cambiánt-la per la primera del següent que resulta doble»). La segona parla del fet que -s i -l es mantenen en contacte amb qualsevol altra consonant (regla previsible i prescindible). La tercera es refereix a l’assimilació d’un so nasal al punt d’articulació del so següent en casos com plan de naut, plan petit o plan gran. La darrera comenta el contacte de dos sons vocàlics (amb una conclusió parcial, per no dir errònia): «Si ‘l mot primera acaba i ‘l següent comença amb vocal, per regla general se supremex la primera; excepte quan la vocal primera del mot [sic] el mot següent es un dels pronoms personals: ét, éra». 33 34
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comparables als d’aquest capítol final apareixen en els «Preliminars», on Condò usa tres fets fonètics per dividir els parlar aranesos.
3. Algunes qüestions dialectològiques Les QRGA presenten dades interessants per a l’estudi dialectològic de l’aranès. En la primera pàgina Condò ja divideix l’aranès en tres blocs, com Juli Soler i Santaló (1998: 53) o Francisco de Zamora (Boixareu 1973: 198). Aquests tres blocs coincideixen amb les tres zones araneses en què Condò va viure: la zona central (Montcorbau), la part alta (Gessa i Salardú) i la part baixa (Bossòst). Per lo que toca al llenguatje, la Vall d’Aran pot i déu dividir-se en tres regions, per haver-hi diferencies notables entre’l parlá de l’una i de l’altra. Encara que la Gramática anirá basada en el parlá del centre de la Vall, per ser el que més conex l’autor, procurará no descuidar les diferencies mès notables de les altres dues regions. Aquestes aniran senyalades respectivament en la següent forma: (R. B.), regio baxa de la Vall en la + que van incloses les quatre poblacions de Bossost, Lés, Canejan i Bausen. (Regió (R.C.), regió central, que inclóu totes les poblacions des de Arres fins a Casarill, inclussive. Y (R.A.), regió alta, que comprén les poblacions de Artíes, Garós, Gessa, Salardú, Uña, Tredós, Bagergue i Montgarri
A diferència d’aquells autors, Condò no basa la divisió en generalitzacions lexicals vaporoses, sinó que parteix de tres fets fonètics concrets (1-3): 1a A les regions central i baxa la a final plana es ben oberta, com la castellana, mentre que a l’alta es una mica tancada envers la o; sens dupte, a causa del contacte que tenen amb els pastors del Ariege (França), qué als estius venen a pasturar els seus bestiars en aquelles muntanyes araneses. 2a A les dues regions baxes hi ha moltes paraules que acaben amb n, que ‘s pronununcien com la final francesa = ṅ, mentres que a la regió alta se pronuncien les matexes sense dita ṅ final, degut a l’influencia del catalá i mes del gascó del Ariege (França). 3a En tots els mots en que a les regions central y baxa hi ha u entre dues altres vocals, a la regió alta se cambia la u en β fricativa.
En el primer cas es refereix a la velarització i labialització de -A àtona final en alt aranès. En el segon, a les solucions de -N’ després de vocal tònica (pan, man o vin, que són [pa], [ma] o [bi] a Naut Aran). En el tercer, parla de les solucions de -B- i -V- intervocàliques (auer o aver, lauar o lavar). Els fets fonètics de Condò serveixen només per diferenciar l’occità de Naut Aran de la resta de l’aranès, i no pas per caracteritzar el gascó de la part baixa de la comarca, identificat amb el dels Quate Lòcs. Tot i això, Condò fa referència dues vegades als parlars gascons d’Arièja, va més enllà que altres estudiosos de l’època (com Sarrieu o Belloc)38 Sarrieu (1906: 15) deia que l’alt aranès era «une transition entre le gascon et le catalan», i Belloc (1910: 55) que «le langage du bas-Aran parait [sic] s’être conservé dans sa pureté native, tandis que celui de la haute région semble, au contraire, avoir subi quelques transformations».
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i fins i tot que diversos autors posteriors (com Ademá, Allières... i, segons com, el mateix Coromines),39 i s’adona que en les característiques altaraneses hi ha alguna cosa més que la interferència del català. Condò no fa una descripció profunda de la variació dialectal aranesa, però recull uns quants trets típics d’algunes poblacions de Baish Aran i Naut Aran. Pel que fa al baix aranès, ja hem vist que parla del pronom le (14) o que etiqueta com a propis de la «R.B.» sintagmes com ger ser o ena vrespada (38-39). Però no s’atura aquí. En la secció dedicada a l’article definit, per exemple, comenta que [et] «S’usa [...] generalment a Canejan, Bausen i no tant generalment a Les, per contes de la forma er» (2), cosa que prova que una forma que avui és pròpia de les dues localitats extremes de Baish Aran, havia existit també en altres punts dels Quate Lòcs. El problema és que a vegades Condò sembla que generalitza a tota la «R.B.» o a tot el terçó dels Quate Lòcs coses que en la seua època potser ja no hi eren generals, com les formes d’imperfet del verb hèr del tipus hadia, hadies, hadie (31) o la realització [‘(h)iw] de hiu.40 Condò també comenta que en el baix aranès «se supremex la s final de la segona persona del plural en tots els verbs i temps», cosa que actualment se sent sobretot a Les i Bossòst (auetz és [awet]; 19).41 Pel que fa a l’alt aranès, ja hem advertit que Condò comenta l’ús de mèn, tòn i sòn «per al masculí i femení» (16), dels indefinits quauquedegun i degun, de quauquarrés i arrés amb el valor de quauquarren i arren (17),42 dels adverbis acitau o aquitau (37),43 de la curiosa variant metatètica denàlet de delànet,44 o de jamai en comptes de jamès (38). En la morfologia verbal no només assenyala agueres o cantères en el perfet (per aguís o cantès; 19, 22, 25, 28), sinó que identifica com a altaraneses formes d’imperfet com tieja o tieges (del verb tier; 29). Condò fins s’atreveix a construir una frase plena de formes típicament altaraneseses (on comet l’error, però, d’usar venguia en lloc de vieja).45 Segons Ademá (1966: 21) a Naut Aran «se aprecian más variantes y se acusa con más intensidad la influencia catalana». Allières (1971: 249-250) va arribar a sentenciar que el parlar de Tredòs era «un parler exceptionnel, aberrant, marginal, produit de l’interférence du fonds gascon et d’éléments extérieurs –catalans sûrement [...] castillans peut-être». Coromines (1976: 21-22) deia que a Salardú hi havia «Molta influència del català», a Tredòs «menys influència del català que a Salardú», a Montgarri «certa influència catalana», a Unha «menys influència del català». Aquestes consideracions, de fet, no es corresponen amb la descripció que fa ell mateix de l’aranès, on resulta francament difícil de trobar aquestes hipotètiques diferències entre poblacions veïnes causades per la intromissió del pallarès. Vegeu, en canvi, l’inventari de fets lingüístics comuns a l’alt aranès i al coseranès –i, si cal, al català occidental pirinenc– citats per Carrera (2007b: 23-36). 40 Condò transcriu [jiw] en comptes de [iw] o [hiw]. En la seua època hiu ja devia ser [jew] a Bossòst. Altrament, en aquesta població el pas de [iw] a [jew] s’hauria produït en els pocs anys que separen les QRGA i la tesi de Coromines, cosa improbable. 41 Bausen i Canejan coneixen -[t], tot i que la realització -[t] no hi és desconeguda. Vegeu Carrera (2007b: 17), que amplia i detalla el que es diu a Carrera (2007a: 172). 42 Condò fins i tot assenyala que arrés pot realitzar-se [res]. Sobre això, vegeu Carrera (2005: 100). 43 S’usen també en l’extrem baixaranès, i apareixen fins i tot en Sandaran (vegeu Carrera en premsa). 44 En el vocabulari del BDC, teòricament destinat a reflectir «principalment el parlar de Salardú» (Condò 1914: 1), Condò ja va recollir aquesta forma, a poca distància de delànet (Condò 1914: 7). 45 Quan venguia [vieja] deth prat veiguí a quauquedegun que s’amagave quauquarrés ath dejós deth braç, tà que degun non lo veiguesse (17). No és la primera ni única vegada que Condò juga amb les 39
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Hi ha d’altres informacions de les QRGA que són interessants des d’un punt de vista dialectològic a les quals Condò no va atorgar importància. És notable, per exemple, la vibrant de carriòt (9) tenint en compte la difusió actual de la bategant. I ho és també l’ordre pronominal de Se tu volies véner era casa, la te cromparia (23), que reapareix en d’altres creacions del sacerdot, però que no s’avé amb l’estructura avui majoritària en aranès (Carrera 2006: 16; 2008: 102-103). És remarcable que es doni posqui sense cap marca territorial al costat de pogui, perquè les formes amb -[sk]- del present d’indicatiu (la de la primera persona) i del de subjuntiu apareixen actualment als dos extrems de la Vall d’Aran.46 Resulta sorprenent, d’altra banda, que en l’imperfet de veir Condò només reculli formes del tipus veiguia (35) i no digui res de vedia, vedies o vedie, que tenen una difusió territorial important (potser és per coherència amb veiguí?). Assenyalem encara que les QRGA donen apraiar47 o transcriuen [det rjew] (37, der arriu), cosa que podria ser una prova de l’ús de de [jew] al costat de r al centre d’Aran en cas que Condò no imiti la realització del mot a Bossòst o Naut Aran. És interessant, per cert, que l’únic cop que apareix ase –avui només toponímic– ho faci al costat de l’article canejanès [et] (4), que Condò només consigni tamb (i no damb, 43) o que hi hagi sistemàticament -s en els adverbis en -ment (-ments).
4. Recapitulació Les QRGA tenen nombrosos dèficits, que van de l’estil de la redacció a l’ús impropi de la terminologia lingüística, la barreja de nivells o de categories, les interpretacions errònies o desenfocades de certes qüestions, les explicacions confuses, la irregularitat en la informació, la impertinència en l’exposició de determinades dades o la manca d’un treball de depuració de la interferència. L’opuscle és «quasi tot morfologia» (Coromines 1990: 10), la sintaxi només hi brota de tant en tant a través de petits comentaris sovint desubicats, i les qüestions fonètiques només apareixen al principi i a la fi del treball. Però tot això no ens ha de fer perdre de vista que parlem d’una de les primeres temptatives de descriure l’aranès, que aquest treballet conté dades utilíssimes per a l’estudi gramatical i dialectològic d’aquesta forma de gascó, i que supera les aproximacions de la seua època. Han hagut de passar massa anys per fer una mica de justícia a la seua importància històrica.
diferències dialectals: vegeu algun canejanisme a Condò (1930; el text dataria de 1913), o els exemples que comentàvem a Carrera (2006: 16) o Carrera (2008: 102-104). 46 Coromines (1990: 177) diu, però, que a Vilac també admetien posqui. Cal pensar que les formes amb -[sk]- tenien vitalitat al centre de la comarca o és un altre dialectalisme intencionat? 47 Potser fa un segle apariar no era tan general com avui en certes zones araneses? Potser és un altre altaranesisme no advertit? El cas és que Condò recull apariar al BDC (Condò 1914: 2) i que en altres obres utilitza paral·lelament apariar i apraiar (Carrera 2006: 16-17; 2008: 103).
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Daniel Casals / Neus Faura (Universitat Autònoma de Barcelona)
El ressò del VII Congrés Internacional de Lingüística Romànica (Barcelona, 1953) i del XVI Congrés Internacional de Lingüística i Filologia Romàniques (Mallorca, 1980) a la premsa coetània
1. Objecte d’estudi, objectius, estructura i metodologia L’objectiu d’aquest treball és analitzar el tractament que van tenir a la premsa coetània el VII Congrés Internacional de Lingüística Romànica, celebrat a Barcelona el 1953, i el XVI Congrés Internacional de Lingüística i Filologia Romàniques, que va tenir lloc a Mallorca el 1980. Dels articles periodístics de 1953 i de 1980 dedicats a aquests dos esdeveniments, en considerem, en particular, cinc variables. La primera es refereix a l’esment als diaris del contingut cientificofilològic de les intervencions del Congrés; la segona destaca les referències a la llengua catalana, tant si va ser vehicular d’intervencions com si va ser objecte d’estudi científic o objecte de debat, tenint en compte la situació política de cadascuna de les dues èpoques; la tercera considera el relleu que les notícies van donar a les institucions culturals, religioses i polítiques que participaren en el Congrés; la quarta remarca el ressò que hi van tenir les activitats extraacadèmiques organitzades a propòsit d’aquestes trobades científiques; finalment, la cinquena fa referència al tipus de periodisme exercit en les dues èpoques dels congressos estudiats: el primer al servei del franquisme i el segon en el marc de la recuperació del dret a la llibertat d’informació. Aquest treball s’estructura en cinc apartats. El primer s’ocupa d’establir l’objectiu de la recerca i de descriure’n l’objecte d’estudi; el segon dibuixa els contextos sociopolítics i culturals dels anys 1953 i 1980, corresponents als dos congressos analitzats. El tercer apartat exposa els trets més rellevants de les dues trobades acadèmiques estudiades: d’una banda, el VII Congrés Internacional de Lingüística Romànica (Barcelona, 1953) i, de l’altra, el XVI Congrés Internacional de Lingüística i Filologia Romàniques (Mallorca, 1980). El quart apartat, nuclear del treball, estudia el tractament d’aquests congressos a la premsa diària coetània d’acord amb les cinc variables esmentades suara i el cinquè recull les conclusions de la recerca duta a terme. Aquesta investigació abraça dues disciplines: la història del periodisme i la història de la llengua catalana. La primera, perquè té l’objectiu d’analitzar com el periodisme escrit de l’Estat espanyol els anys 1953, en ple franquisme, i 1980, ja en democràcia, informa, de maneres radicalment diferents, d’esdeveniments cientificofilològics de caràcter internacional.
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La segona, la història de la llengua catalana, perquè aquestes trobades científiques van tenir el català, d’una banda, com a llengua vehicular i, de l’altra, com a objecte d’estudi en dues èpoques en què aquest idioma va tenir un estatus jurídic diferent. Els dos congressos estudiats tenen en comú el fet que els van acollir territoris del domini lingüístic català de l’Estat espanyol, com són Barcelona (1953) i Mallorca (1980), a més de la circumstància que el català en va ser llengua d’estudi i també un dels idiomes vehiculars. Tanmateix, i aquesta és una altra motivació de l’estudi, aquests dos congressos es van produir en contextos sociopolítics ben diferents, cosa que afecta tant el règim jurídic de la premsa com l’estatus legal del català, tal com hem avançat. La mostra de diaris analitzada inclou rotatius de Barcelona, de Madrid i de València de les dues èpoques assenyalades. Pel que fa a l’any 1953, tenim en compte La Vanguardia Española, Solidaridad Nacional, La Prensa, El Noticiero Universal, El Correo Catalán i Diario de Barcelona (Barcelona); Ya, Pueblo, Arriba, El Alcázar i Hoja Oficial del Lunes (Madrid), i Jornada, Las Provincias i Levante (València), entre els dies 7 i 13 d’abril. Pel que fa a l’any 1980, a les tres ciutats esmentades hi afegim Palma pel fet de ser la seu del segon congrés analitzat. Així, hem resseguit Avui, La Vanguardia, El 9 Nou, El Punt, El Periódico de Catalunya, El Correo Catalán, Tele-eXpress i Hoja Oficial del Lunes (Barcelona); Ya, Pueblo, Hoja Oficial del Lunes, El Alcázar i El País (Madrid); Las Provincias i Levante (València), i Diario de Mallorca, Última Hora i Baleares (Palma), també del 7 al 13 d’abril d’aquest altre any. De tots els diaris analitzats hem tingut en compte els textos de gènere informatiu, principalment notícies, per bé que en algunes ocasions també hem analitzat algunes entrevistes relacionades amb les trobades acadèmiques objecte d’estudi. Només puntualment hem considerat un text d’opinió, concretament un editorial dedicat a una de les trobades científiques estudiades. Les fonts que s’han tingut en compte per a la realització d’aquest estudi són les actes dels congressos de 1953 (3 volums, 1955) i de 1980 (2 volums, 1982-1985), testimonis de científics que van participar-hi (Antoni M. Badia i Margarit, Germà Colon, Vicent Pitarch i Gilles Roques), epistolaris publicats i també algun d’inèdit (Francesc de B. Moll, Joan Coromines i Ramon Aramon), cròniques (Antoni M. Badia i Margarit, Ramon Aramon, Jordi Carbonell i Joan Coromines), i actes i material gràfic (Institut d’Estudis Catalans, Reial Acadèmia de Bones Lletres de Barcelona, Agencia EFE (Cifra), Delegació de Barcelona del Consejo Superior de Investigaciones Científicas (CSIC) i Arxiu Històric de la Universitat de Barcelona). També s’han consultat fons de l’Arxiu de la Universitat de les Illes Balears i de l’Arxiu de la Fundació Bartolomé March.
2. Contextos sociopolítics de 1953 i 1980 Els contextos sociopolítics de les èpoques dels congressos objecte d’estudi mostren situacions ben diferents. El sistema polític corresponent a la primera trobada era la dictadura franquista, sorgida de la rebel·lió militar del 1936 contra el Govern de la República. Aquest règim va derogar, l’any 1938, l’oficialitat de la llengua catalana, establerta a l’Estatut de
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Catalunya de 1932. Segons han convingut els historiadors, l’època en què es va celebrar el primer congrés estudiat (Barcelona, 1953) s’integra en la segona etapa del règim franquista, la posterior a l’acabament de la Segona Guerra Mundial. En aquell moment, l’objectiu del Govern del general Franco era l’obertura del seu règim a l’exterior amb la finalitat d’obtenir reconeixement internacional: l’any 1950 Espanya va ingressar a la FAO (Organització de les Nacions Unides per a l’Alimentació i l’Agricultura); el 1951 va ser admesa a l’OIAC (Organització Internacional de l’Aviació Civil) i un any després, a la UNESCO; el 1953 l’Estat espanyol va signar el Concordat amb la Santa Seu i els acords amb els Estats Units d’Amèrica, i dos anys més tard va ser admès a l’ONU (Organització de les Nacions Unides). Portes endins, el règim franquista també va fer canvis, com ho demostra la remodelació ministerial de 1951, en la qual Joaquín Ruiz-Giménez es va fer càrrec del Ministeri d’Educació i en la qual es va crear el Ministeri d’Informació i Turisme. Aquesta nova cartera va assumir les competències en matèria de censura, que fins aquell moment tenia reservades el Ministerio de Educación Nacional. La legislació vigent feia que la premsa estigués totalment controlada pel règim. El Servicio Nacional de Prensa duia a terme aquesta fiscalització per mitjà del Servicio de Prensa de cada Govern Civil, d’acord amb els termes establerts per la Llei de premsa i impremta de 1938. Aquesta norma permetia el control del nombre i l’extensió de les publicacions; la intervenció en el nomenament dels directors; la reglamentació de la professió periodística; la vigilància de l’activitat de la premsa, i l’establiment de la censura prèvia. En aquest context, la premsa generalista que es publicava sortia només en castellà: La Vanguardia, Diario de Barcelona, La Prensa, etc. Només a algunes publicacions culturals, literàries i religioses, se’ls va tolerar l’ús del català, com també va passar en algunes publicacions clandestines (Ariel, 1946-1951; Quaderns de Poesia, 1951-1952; Ressò, 1953, etc.). En canvi, el 1980, any de la celebració del congrés de Mallorca, es vivia el procés polític conegut com a Transició, que significava el pas del Franquisme a la consolidació d’una democràcia parlamentària establerta per la Constitució espanyola de 1978. Amb un marc legal absolutament diferent, doncs, l’Estat espanyol del 1980 maldava, ja des de l’any 1976, pel restabliment de relacions amb països europeus, inclosos els de l’Est, i per formar part dels organismes internacionals en els marcs europeu i occidental: el 1977 va presentar la sol·licitud d’entrada a l’Assemblea Parlamentària del Consell d’Europa i entre els anys 1977 i 1985 va tenir lloc el procés de negociació d’entrada a la CEE (Comunitat Econòmica Europea). El 1980 es va iniciar el procés d’adhesió a l’OTAN (Organització del Tractat de l’Atlàntic Nord). Un any abans del congrés de Mallorca s’havia aprovat l’Estatut de Catalunya, al qual seguirien altres normes estatutàries com la de les Illes Balears, promulgada el 1983. De fet, va ser durant la dècada dels vuitanta que es va instaurar l’estat de les autonomies. És fruit d’aquests estatuts la cooficialitat de la llengua catalana en els territoris de Catalunya i de les Illes Balears, com també del País Valencià. A més, el mateix marc constitucional també establia la llibertat de premsa: Es reconeix i es protegeix el dret a comunicar o rebre lliurement informació veraç per qualsevol mitjà de difusió. La llei regularà el dret a la clàusula de consciència i al secret professional en l’exercici d’aquestes llibertats. L’exercici d’aquest dret no pot restringir-se amb cap tipus de censura prèvia (art. 20).
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Durant l’època del congrés de Mallorca, tot i no persistir la prohibició del català, la premsa diària generalista s’editava majoritàriament en castellà. En són exemples a Catalunya El Periódico de Catalunya, La Vanguardia, El Correo Catalán, Tele/Exprés, Hoja Oficial del Lunes...; Diario de Mallorca, Las Provincias, Levante, Jornada..., per bé que el català era present a l’Avui (des de 1976) i es començava a estendre en publicacions de proximitat (El 9 Nou, Regió 7, El 3 de Vuit, etc.).
3. El VII Congrés Internacional de Lingüística Romànica i el XVI Congrés Internacional de Lingüística i Filologia Romàniques El VII Congrés Internacional de Lingüística Romànica, promogut per la Société de Linguistique Romane i celebrat entre el 7 i el 10 d'abril de 1953, va reunir més de 300 congressistes de setanta-una universitats. El tema preferent del congrés va ser El domini lingüístic català en relació amb les llengües iberoromàniques i gal·loromàniques. N’integraven el Comitè Organitzador A. Griera (President); A. M. Badia i Margarit, A. Tovar i R. de Balbín (Vicepresidents); F. Udina (Secretari), i J. C. Sobregrau (Tresorer). Aquesta trobada científica es va organitzar al voltant de disset seccions acadèmiques1 i també d’activitats ludicoculturals.2 L’esmentat congrés s’adreçava a una audiència especialitzada de caràcter internacional i es presentava com una oportunitat perquè el règim es projectés a l’exterior, objectiu al qual la premsa de l’època va contribuir. El XVI Congrés Internacional de Lingüística i Filologia Romàniques es va celebrar a Palma entre el 7 i el 10 d’abril del 1980. El tema preferent del congrés va ser El procés de normalització lingüística del català. N’integraven el Comitè Organitzador A. M. Badia i Margarit (President), Francesc de B. Moll (Vicepresident) i Aina Moll (Secretària). Aquesta trobada científica es va organitzar al voltant de sis seccions acadèmiques3 i també s’hi van fer diverses activitats ludicoculturals. Aquest segon congrés també s’adreçava a una audiència especialitzada en la romanística internacional, però, a diferència del de 1953, va comptar amb una acció periodística bàsicament informativa i no propagandística. 1. Gramàtica històrica catalana; 2. Etimologia, lexicografia i toponímia; 3. Història de la poesia; 4. Edició de textos; 5. Preceptiva; 6. Sintaxi; 7. Precedents del llatí; 8. Elements preromans; 9. Element mossàrab; 10. Element eclesiàstic; 11. Romanística general; 12. Àrees lèxiques no llatines; 13. Relacions lèxiques romàniques; 14. Geografia lingüística; 15. Parles del Pirineu; 16. Toponímia i antroponímia; 17. Organització del treball. 2 Les activitats ludicoculturals van aplegar: a) visites guiades (Barcelona, Tibidabo, Sant Cugat del Vallès, Terrassa, Sant Sadurní d’Anoia i Montserrat); b) concerts (Coral Sant Jordi); c) activitats folklòriques (Poble Espanyol); d) recepcions en institucions (Acadèmia de Bones Lletres, Institut d’Estudis Catalans, Consejo Superior de Investigaciones Científicas) i e) sopars (Institut d’Estudis Catalans i cloenda al Saló Rosa del Passeig de Gràcia). 3 1. Present i futur de la llengua catalana; 2. Més enllà de l’estructuralisme; 3. Sociolingüística i lingüística romàniques, 4. Teories lingüístiques i lingüística romànica; 5. Semàntica i lexicologia, i 6. Mètodes moderns i literatura antiga. 1
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4. El tractament a la premsa coetània 4.1. El VII Congrés Internacional de Lingüística Romànica Les referències del contingut científic del congrés a la premsa de l’època es limitaven generalment als títols d’algunes intervencions, com ara «La toponimia de Barcelona», d’A. M. Badia i Margarit. En algunes ocasions, per bé que poques, les cròniques de la premsa coetània s’ocupaven del contingut de les intervencions científiques. N’és un exemple la referència que transcrivim a continuació, publicada a La Vanguardia Española: El profesor Joseph M. Piel, de la Universidad de Coimbra, estudió las afinidades y diferencias entre el onomástico germánico medieval gallego, portugués y el catalán, y los problemas y métodos de fitotoponimia hispánica, esbozando el plano de un trabajo de conjunto sobre los nombres de las plantas en la toponimia peninsular. (10.IV.1953, pàg. 11)
Pel que fa a l’ús del català com a llengua vehicular, en absència d’una informació sistemàtica per part de la premsa, hem sabut, per les actes, que el català va ser la tercera llengua més usada en les comunicacions, amb un total de deu (el 14,7%). El primer idioma emprat va ser el castellà, amb 33 títols (el 48,5%); el francès va ocupar la segona posició, amb 19 comunicacions (és a dir, el 27,9%). Per darrere del català, hi va haver l’italià, amb quatre intervencions (el 5,9%). Tanquen la llista l’alemany i l’occità, amb una comunicació cadascun (és a dir, l’1,5% per cap). Van realitzar intervencions en català Ramon Aramon, Antoni M. Badia i Margarit, Pere Bohigas, Germà Colon, Joan Coromines, Enric Guiter, Francesc Marsà, Francesc de B. Moll, Joan Ruiz Calonge, Jordi Rubió i Balaguer, i Manuel Sanchis Guarner. Si ens fixem en el català com a objecte d’estudi, de les 68 comunicacions presentades en aquest congrés, 40 van tractar la llengua catalana, el 58,8%. La premsa de l’època es va referir a aquest fet de manera indirecta, amb l’esment dels títols d’alguns d’aquests treballs, com va fer el Diario de Barcelona (8.IV.1953, pàg. 17) amb les comunicacions «Marco histórico del dominio lingüístico catalán», F. Udina [publicada en castellà]; «La filología catalana, entre dos congresos de Lingüística», A. M. Badia [castellà]; «El catalán en la Universidad de Hamburgo», W. Giese [castellà] i també amb el nom d’una de les seccions, «Dominio lingüístico del catalán». Encara sobre el català com a objecte d’estudi, podem aportar una paràfrasi que es refereix a una de les intervencions: «Se enfocaron temas de tan vivo interés histórico y lingüístico como los toponimios [sic] monetales en el dominio catalán…», publicada al Diario de Barcelona, del 10 d’abril del 1953 (pàg. 17). Al seu torn, la premsa valenciana es va referir també a continguts d’aquest congrés a propòsit, però, de la presència de filòlegs del País Valencià, tal com ho demostra el passatge següent: Felipe Mateu pronunciará una conferencia sobre «La toponimia monetaria ibérica en el dominio lingüístico catalán»; Sanchis Guarner hablará sobre «Romances anteriores a la Reconquista de Valencia y Mallorca», y Germán Colón desarrollará el tema «El valenciano». (Jornada, 6.IV.1953, pàg. 3)
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Van ser els rotatius de Madrid, però, els que van oferir més detalls i explicacions del contingut científic del congrés en les seves cròniques. Com a exemple, ho podem veure en una notícia publicada al diari Ya el dia 8 d’abril del 1953: BARCELONA, 7 (Servicio especial para Ya, por Manuel Vigil y Vázquez) El catalán es una lengua iberorománica y no galorománica; es decir, el catalán es una lengua románica de la península Ibérica. La afirmación la ha hecho el presidente del VII Congreso Internacional de Lingüística Románica, hoy inaugurado en Barcelona, el profesor suizo Walter von Wartburg, una de las mayores autoridades romanistas del mundo entero. (Ya, 8.IV.1953, pàg. 2)
També ho podem observar a propòsit de la conferència de cloenda, pronunciada per Ramon Menéndez Pidal: En la toponimia de nombres y lugares de las poblaciones, por sus prefijos o sus sufijos, se deduce la unidad lingüística con anterioridad a la dominación romana. Don Ramón fue citando ejemplos de sufijos, aparentemente vascos, que aparecen en la toponimia valenciana o en la catalana. Y hasta en la italiana. Por donde cabe sospechar que con anterioridad a la fundación de Roma y su posterior dominación había cierta unidad lingüística entre ambas penínsulas, la Ibérica y la Itálica. (Ya, 11.IV.1953, pàg. 2)
Un altre dels centres d’interès de la premsa de Barcelona va ser la presència dels representants institucionals en els actes del congrés, com passa en aquest fragment, a propòsit de la inauguració d’aquesta trobada científica: presidió el acto el Rector de la Universidad, doctor Buscarons, que compartió estrado con el general Don Antonio Caballero, jefe de Intendencia de la IV Región Militar, que representaba, conjuntamente, al capitán general y gobernador militar de esta plaza; don José Segura Lagos, secretario general del Gobierno Civil, que ostentaba la representación del Gobernador, don Felipe Acedo Colunga, en ausencia obligada de éste; el señor Sedó-Peris Mencheta, por la Diputación Provincial, y como diputado ponente de Cultura, monseñor Griera, presidente del Congreso… (Diario de Barcelona, 8.IV.1953, pàg. 17)
Un altre dels pols d’atenció de la premsa, especialment de la barcelonina, va ser la participació d’institucions científiques i culturals en l’organització i en el desenvolupament del congrés. N’és un exemple aquest passatge referit a una de les recepcions ofertes als congressistes: en la Casa del Arcediano la anunciada recepción ofrecida a los congresistas por la Academia de Buenas Letras, el Instituto de Estudios Catalanes y la delegación en Barcelona del Consejo Superior de Investigaciones Científicas. (La Vanguardia Española, 10.IV.1953, pàg. 11)
La premsa barcelonina es va centrar també a informar sobre les activitats extraacadèmiques que van tenir lloc en el marc del VII Congrés Internacional de Lingüística Romànica. N’és un exemple aquest fragment extret d’una de les cròniques publicades: los congresistas realizaron […] una visita a la ciudad, deteniéndose en cuanto es y significa historia de la misma. El director del Instituto Municipal de Historia de Barcelona, señor Durán y Sanpere, sirvió de Guía y Mentor a los congresistas… (Diario de Barcelona, 8.IV.1953, pàg. 17)
Justament a propòsit d’una de les activitats culturals organitzades, sigui intencionadament sigui per error, un diari barceloní de l’època posava en dubte la unitat lingüística dels territoris
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de parla catalana a la crònica sobre l’exposició dels materials del Diccionari català-valenciàbalear, d’Antoni M. Alcover i Francesc de B. Moll: se ha abierto de nuevo en la Biblioteca Central la exposición del Diccionario catalán-valencianobalear, que vienen [sic] a constituir un pequeño museo de dichas lenguas y sus diferencias dialectales mediante mapas y cuadros sinópticos con la expresión de la división dialectal y de los cambios que experimentan los nombres a través de las comarcas, así como valiosas aportaciones gráficas al estudio de cosas y palabras…4 (La Vanguardia Española, 8.IV.1953, pàg. 10)
La ideologia que els diaris vehiculaven sobre la llengua catalana també es manifesta en l’omissió de fets que van ocórrer. N’és un exemple el silenci sobre el parlament que el filòleg Joan Coromines va fer durant el sopar del cloenda del congrés. Llegim-ne un fragment: Els nord-americans […] s’haurien alarmat moltíssim, potser s’haurien espantat seriosament, en saber que Catalunya és un lloc on la llengua pròpia està totalment prohibida a les escoles, de primària i secundària, no únicament a la Universitat. Sens dubte, és l’únic lloc d’Europa on la llengua materna està prohibida a les escoles de Primària. A més, és un lloc on es produeix una paradoxa enorme: la llengua i la literatura catalanes poden estudiar-se a la Universitat de Madrid, però no a la Universitat de Barcelona!5
Tanmateix, la premsa sí que va parlar de les referències que el representant del govern franquista va fer durant la cloenda del congrés, paradoxalment apropiant-se de la defensa de la diversitat lingüística i, en particular, de la llengua i de la literatura catalanes: El señor Royo Villanova cerró el acto pronunciando unas palabras de clausura del Congreso en nombre del ministro de Educación Nacional. Dijo que España, que comprende que una de las mayores riquezas que le ha concedido la Providencia es la variedad, favorece todas las lenguas que viven dentro de su territorio. Se refirió a la importancia de la literatura catalana y a las cátedras creadas por el Gobierno español para su enseñanza en las universidades españolas. Fue muy aplaudido. (La Vanguardia Española, 11.IV.1953, pàg. 12)
I aquesta mateixa línia va seguir la premsa madrilenya coetània, com a altaveu dels propòsits del règim franquista: El subsecretario clausuró el congreso diciendo que los españoles estamos tan orgullosos de las partidas del Rey Sabio como de los ‹utsages› [sic] catalanes de Ausias March [sic], como de Bernard [sic] Metje [sic]. Dijo que la variedad lingüística que se observa en España sirve para dar mayor valor a su unidad, pues por encima de las diferencias de sus distintos pueblos hay en todos ellos unos rasgos comunes y perdurables, como bien lo ha demostrado con sus estudios el maestro Menéndez Pidal. (Ya, 11.IV.1953, pàg. 2)
Un dels fets en què coincideix la premsa de l’època és a assenyalar els telegrames d’adhesió al general Franco. Aquest era el sistema –relatat amb la prosa periodística de l’època– com el règim buscava tenir el reconeixement i la legitimitat, sobretot de l’exterior, aprofitant l’avinentesa de la presència de científics estrangers de renom com a participants en el congrés. Vegem-ne un cas: Fa referència al corrent d’estudi anomenat Wörter und Sachen. Traduït de l’anglès, reproduït a Ferrer / Pujadas (2006); publicat a les revistes La Nostra Revista i Pont Blau (Mèxic), i a Ressorgiment (Argentina).
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Terminados estos parlamentos, el ilustre hispanista holandés C. F. Adolfo Van Dam, de Utrecht, leyó dos telegramas de salutación y gratitud dirigidos al jefe de la Casa Civil S. E. el jefe del Estado, para que lo elevase a S. E., y al Ministro de Educación Nacional. El texto fue aprobado por unanimidad, en medio del mayor entusiasmo y el presidente y profesor von Wartburg lo subscribió en el acto. (La Vanguardia Española, 11.IV.1953, pàg. 12).
4.2. El XVI Congrés Internacional de Lingüística i Filologia Romàniques El XVI Congrés Internacional de Lingüística i Filologia Romàniques de Mallorca (1980) va tenir ressò principalment als diaris de les Illes Balears i també a l’Avui, publicat a Catalunya. Ocasionalment, també La Vanguardia hi va fer alguna referència, per bé que poques. Aquests diaris hi van dedicar unes quantes cròniques i també entrevistes a científics estrangers experts en sociolingüística, com Gerold Hilty, de la Universitat de Zurich, i Giuseppe Grilli, de la Universitat de Nàpols. Les cròniques d’aquestes publicacions esmentaven les temàtiques científiques que s’havien tractat en el congrés i els debats sociolingüístics que havien generat polèmica, com en els dos exemples següents: El profesor Aurelio Maria Roncaglia pronunció ayer la cuarta conferencia plenaria del XVI Congreso de Lingüística y Filología Románicas en el Aula Magna del Palacio de Congresos del Pueblo Español. También se celebraron dos mesas redondas simultáneas sobre «Sociología [sic] y lingüística románica» y «Teorías lingüísticas y lingüística románica», interviniendo en la primera los profesores [?] de Utrech [sic]; Aracil, de Barcelona; Schlieben-Lange, de Frankfurt, i Varvaro, de Nápoles; i en la segunda, Alarcos, de Oviedo; Manoliu-Manea, de Calabria; Metzeltin, de Groningen i Posner, de Oxford. (Diario de Mallorca, 11.IV.1980, pàg. 17) En la taula rodona participaren els senyors Badia i Margarit, rector de la Universitat de Barcelona i president del Comitè Organitzador del Congrés, Pitarch, de València, Kremnitz, de Münster, Wandruska, de Salzburg. Tots ells analitzaren la situació lingüística del català com a fenomen pioner respecte a la normalització de les llengües minoritàries d’arreu d’Europa i del món. Es produïren algunes discrepàncies d’opinió respecte a la coexistència que pot haver-hi o no entre el castellà i el català. Tal volta, l’actitud més radical i la que més aplaudiments aixecà entre els assistents fou la de Pitarch, que recordà que el 50% d’habitants del País Valencià, el 60% de Catalunya i el 75% de les Illes empren el català normalment. (Avui, 9.IV.1980, pàg. 6)
L’ús del català com a llengua vehicular a les ponències del Congrés de Mallorca va representar el 7,8% del total, com mostra aquest quadre: Llengua Francès Castellà Italià Català Portuguès Gallec Total
Total 49 13 7 6 1 1 77
% 63,6% 16,9% 9,1% 7,8% 1,3% 1,3% 100%
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Les sis ponències presentades en català van ser pronunciades per Germà Colon, Vicent Pitarch, Sebastià Serrrano, Daniel Recasens, Max Wheeler i Xavier Lamuela. Tot i que va ser ja en el marc d’una democràcia parlamentària a l’Estat espanyol, en què el català ja era reconegut com a llengua oficial de Catalunya i ho seria també de les Illes Balears i del País Valencià, els rotatius de l’època remarcaven l’ús del català, com fa aquesta crònica: També ahir dimarts va ser pronunciada la segona conferència plenària del Congrés, a càrrec de Germà Colon, professor de Basilea, que va tractar, en català, el tema «Tipologia lèxica de les llengües romàniques». (Avui, 9.IV.1980, pàg. 6)
Com a objecte d’estudi, vuit de les setanta-set ponències van ser sobre la llengua catalana, cosa que va representar el 10,4% del total. El diari Avui (vegeu el text anterior del 9.IV.1980, pàg. 6) es va fer ressò precisament de la taula rodona que va tenir lloc sobre la normalització lingüística i la situació sociolingüística del català, i va reflectir les discrepàncies que s’hi van produir, entre les quals considera que la de Vicent Pitarch va ser ‹la més radical›. La Vanguardia, per la seva banda, també hi va fer referència, però situava el debat sobre la normalització lingüística al costat d’altre temes que es van tractar en les ponències del segon congrés estudiat: Los temas a tratar en estas jornadas presentan aspectos tan interesantes como «La normativización y normalización del catalán», tema que será desarrollado por un especialista de la Universidad de Frankfurt; una referencia a los estudios de catalán en Rusia; un estudio sobre el dialecto alguerés; investigaciones sobre la fragmentación dialectal del castellano; comunicaciones sobre la problemática lingüística en la obra de Ramon Llull, de la mano de un profesor Checoslovaco y otro japonés. (La Vanguardia, 9. IV.1980, pàg. 33)
La premsa també va donar compte d’actes extraacadèmics, culturals i lúdics, que van comptar amb la participació d’institucions polítiques, com la recepció oferta per l’Ajuntament de Palma als congressistes en la cloenda del Congrés, i d’associacions culturals, com l’actuació de l’Escola Municipal de Música i Danses de Mallorca al Castell de Bellver o el concert ofert per la Coral Universitària i per la Coral Polifònica de Bunyola, així com altres activitats turístiques i lúdiques. Una de les qüestions que va generar més polèmica i que va tenir més ressò a la premsa va ser la unitat de la llengua. El fet és que els participants a la taula rodona sobre present i futur de la llengua catalana van ratificar un document emès l’any anterior (1979) en ocasió del V Col·loqui organitzat per l’Associació Internacional de Llengua i Literatura Catalanes (AILLC) a Andorra, i van fer tot el possible per elevar aquest text a la sessió plenària del congrés de Mallorca. Alguns dels punts d’aquest document deien: Els qui signen, membres de l’AILLC o participants al Vè Col·loqui Internacional de Llengua i Literatura Catalanes a Andorra, procedents de diversos països d’Europa i Amèrica i especialistes en l’estudi del català i la seva cultura, manifesten: [...] 2. Que temen que els termes en què ha estat redactat el Reial Decret del País Valencià –que parla en tot moment de ‹llengua valenciana›– i el títol del de les Illes Balears –que fa referència a les ‹modalitats insulars de la llengua catalana›– puguin produir elements de confusió que obstaculitzin el procés mateix de normalització.
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3. Que, com a especialistes en la matèria, prescindint de tota consideració política, se senten obligats a declarar: a) Que la llengua catalana, tal com és reconegut per les Acadèmies i personalitats científiques d’arreu del món, comprèn dins l’Estat espanyol l’àmbit territorial de les Illes Balears, el País Valencià i el Principat de Catalunya, a més d’una franja lingüística del territori aragonès. b) Que perquè sigui possible la normalització de la llengua d’aquests territoris cal ensenyar una modalitat de llengua vàlida per a tots ells i apta per a les manifestacions culturals i administratives a tots els nivells.
Aquest document, però, va ser descartat, i en lloc d’aquella ratificació, es va redactar aquest altre text que van signar els trenta-sis lingüistes procedents de diverses universitats europees que consten més avall (Moll 1982-1985): Les romanistes soussignés, participant au XVIe Congrès International de Linguistique et Philologie Romanes, manifestent leur satisfaction des progrès récemment obtenus par la langue catalane sur la voie de la normalisation avec la création de nouveaux centres de recherche, l’incorporation de la langue aux divers degrés de l’enseignement, la multiplication des publications et autres manifestations culturelles, bien que l’on n’atteigne pas encore les moyens de communication sociale avec l’intensité souhaitable. Nous regrettons, néanmoins, les tentatives de sécession idiomatiques effectuées au Pays Valencien par certains groups de pression pour des raisons dépourvues de tout fondement scientifique. Le catalan, comme n’importe quelle langue, a sa propre structure, bien définie. Et les romanistes de ce XVIe Congrès considèrent comme inacceptables ces tentatives de fragmentation linguistique. Iorgu Iordan (Bucarest), Max Pfister (Saarbrücken), Giuseppe Tavani (Roma), Veikko Väänänen (Helsinki), Eugenio Coseriu (Tübingen), Isaac Salum (Sao Paulo), Max Wheeler (Liverpool), Pèire Bec (Poitiers), Mario Wandruszka (Salzburg), Herbert Peter (Viena), Helmut Lüdtke (Kiel), Luis F. Lindley Cintra (Lisboa), Artur Greive (Köln), Celso Ferreira da Cunha (Rio de Janeiro), Udo I. Figge (Bochum), Madeleine Tyssens (Liège), Brigitte Schlieben-Lange (Frankfurt), Giuliano Gasca Queirazza (Torino), Manuel de Paiva Boléo (Coimbra), Gaston Dulong (Québec), Giuseppe Grilli (Napoli), Maria Grossmann (Cosenza), Xavier Ravier (Toulouse), Cesare Segre (Pavia), Sofia Cantor (Jerusalem), Michael Metzeltin (Groningen), Félix Lecoy (Paris), Georges Straka (Strassbourg), Kurt Baldinger (Heidelberg), Gerold Hilty (Zürich), Alberto Varvaro (Napoli), Georg Kremnitz (Münster), Kristin A. Müller (Salzburg), Alberto Limentani (Padova), Albert Henry (Bruxelles), Aimo Sakari (Finlandia).
La premsa de l’any 1980 va fer diverses referències a la signatura d’aquest darrer document. Algunes deixaven entreveure les discrepàncies que s’hi van produir, com aquesta del diari Avui: En la taula rodona sobre present i futur de la llengua catalana s’aprovà una resolució ratificant en tots els seus termes el document del V Col·loqui Internacional de Llengua i Literatura Catalanes celebrat a Andorra l’any passat [1979]. (Avui, 13.IV.1980, pàg. 1) [Badia] assenyalà que dificultats diverses no havien permès elevar aquest text a la sessió plenària del congrés. Va informar també d’un altre document sobre les dificultats que passa la llengua catalana, que ha circulat per les sessions del congrés i és avalat per la signatura de prestigiosos romanistes internacionals. (Avui, 13.IV.1980, pàg. 6 [interior])
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Tanmateix, el comentari transcrit a continuació de La Vanguardia no fa cap referència concreta a aquelles discrepàncies, i parla simplement de ‹tema polémico› i de ‹diferentes opiniones›: Uno de los temas más polémicos tratados en el congreso ha sido sin duda las diferentes opiniones sobre distintas ramas y variantes del catalán. Sobre este punto, el manifiesto de los romanistas se opone «a los intentos de secesión idiomática que propugnan en el País Valencià ciertos grupos de presión, por razones desprovistas de base científica. El catalán […] como cualquier lengua tiene una estructura definida y los romanistas de este congreso rechazan estos intentos de fragmentación lingüística». (La Vanguardia, 15.IV.1980, pàg. 27) Los citados catedráticos, en escrito enviado a esta redacción, se oponen a los intentos de secesión idiomática que propugnan en el País Valenciano ciertos grupos de presión por razones desprovistas de base científica. «El catalán –manifiestan– como cualquier lengua, tiene una estructura definida y los romanistas del XVI Congreso consideramos rechazables estos intentos de fragmentación lingüística». (Diario de Mallorca, 13.IV.1980, pàg. 12)
També va ser present en els debats del congrés de Mallorca, i en la declaració esmentada, la recuperació de la llengua catalana per a l’ús públic formal en diferents àmbits, dels quals, com hem dit abans, havia estat apartada pel règim anterior. La premsa va destacar aquest fet: En este sentido, cabe destacar la carta que cuarenta romanistas, catedráticos de universidades extranjeras hicieron pública al final de las sesiones. «Manifestamos nuestra satisfacción –dice la nota– por los avances últimamente registrados en el proceso de normalización de la lengua catalana, con la creación de nuevos centros de investigación, la incorporación de la lengua a los diversos niveles de enseñanza, el incremento de la producción bibliográfica y otras manifestaciones culturales; aunque no todavía con la proporción deseable en los medios de comunicación social». (La Vanguardia, 15.IV.1980, pàg. 27)
5. Conclusions El tractament del congrés de 1953 a la premsa de l’època va demostrar el caràcter propagandístic d’uns rotatius que servien els objectius del règim franquista. L’esment dels continguts científics és desigual en els diaris que s’hi van referir: més present als de Madrid que als de Barcelona. Del contingut científic, es va esmentar la llengua catalana i d’altres llengües romàniques com a objecte d’estudi. Quant als esdeveniments no filològics, destaquen el to propagandístic a l’hora d’esmentar els telegrames d’adhesió al cap de l’estat, la lloança de l’hospitalitat, el programa d’activitats lúdiques i culturals, la presència d’autoritats i d’institucions civils, militars i religioses i també la suposada tolerància del règim amb la diversitat. Tanmateix, aquesta mateixa premsa va silenciar fets com l’ús del català en les sessions científiques, la participació d’institucions, d’intel·lectuals i de personalitats non gratae per al règim, i també les denúncies de genocidi lingüístic i cultural que se li atribuïen. El congrés de 1980 va tenir un seguiment desigual a la premsa de l’època: l’Avui va ser més regular en l’oferiment d’aquesta informació i també en va parlar el Diario de Mallorca, però va ser poc tractat a La Vanguardia. En els textos periodístics va desaparèixer el to
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propagandístic del 1953 i es va substituir per una voluntat informativa. Dins de les dades ofertes pels rotatius, hi dominaven els continguts científics i, només secundàriament, hi són presents les activitats lúdiques i culturals, a diferència del que va passar l’any 1953. Una altra de les novetats del 1980 va ser la presència notable d’entrevistes periodístiques a científics estrangers, que a la premsa del 1953 només van ser testimonials. Del contingut del segon congrés en destaca la polèmica entorn de la unitat de la llengua i l’anàlisi de la situació del català en aquella època, que inclou la recuperació de l’ús de l’idioma per a tots els àmbits, especialment, els públics i formals.
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Anamaria Curea (Université Babeş-Bolyai de Cluj-Napoca)
Le facteur affectif dans les conceptualisations du langage, de la langue et de la linguistique chez Charles Bally et Charles-Albert Sechehaye
1. Introduction Dans la linguistique genevoise de la première moitié du XXe siècle, la problématique de l’affectivité occupe une place de choix chez deux de ses représentants les plus marquants, contemporains et successeurs de Ferdinand de Saussure, proches collaborateurs du maître et éditeurs du Cours de linguistique générale, Charles Bally et Charles-Albert Sechehaye. Dans notre article, nous nous intéressons moins à la dimension immédiatement saussurienne de leurs travaux (dimension d’ailleurs assez controversée) pour privilégier un aspect qui nous semble servir d’argument en faveur de l’hypothèse d’une consistance théorique de leurs approches à l’intérieur de l’école, consistance légitimée par un recouvrement partiel de conceptualités. Le rôle attribué au facteur affectif dans leurs modes de conceptualisation du langage, de la langue et de la linguistique est-il le même? Pourrait-on considérer cette problématique comme un des axes d’un programme de recherche commun ou d’une ligne de pensée commune? Ce sujet présente un intérêt remarquable sur deux points, à notre sens: 1. les approches des deux linguistes sont organisées différemment en fonction de quelques critères, parmi lesquels le facteur affectif s’avère particulièrement significatif comme élément autour duquel il est possible de relever des convergences, mais aussi des divergences révélatrices entre leurs modes de conceptualisation du langage, de la langue et de la linguistique; 2. malgré les divergences considérables qui séparent les deux approches (la théorie stylistique de Charles Bally, la linguistique théorique de Charles-Albert Sechehaye), l’intérêt que les deux linguistes portent au facteur affectif les rapproche et les situe en même temps sur une position qui pourrait paraître complètement étrangère à l’enseignement du maître. Le débat autour de l’affectivité et de la place qu’elle devrait occuper en linguistique est l’enjeu majeur d’une science de l’expression1 (syntagme qui revient souvent sous leurs plumes) que chacun des deux linguistes met en place à sa manière, selon des principes différents. L’intérêt des deux linguistes pour ce topos est signalé et interprété par G. Bergounioux (1994) comme un élément qui a beaucoup influencé le travail de reconstitution et de restitution de la pensée du maître par Ch. Bally et A. Sechehaye.
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2. Contre les «dangers de l’intellectualisme linguistique»: l’affectivité chez Charles Bally, de la stylistique à la théorie de l’énonciation Le projet disciplinaire élaboré par Charles Bally sous le nom de stylistique constitue son sujet de prédilection entre 1905 et 1929. La stylistique n’est pas seulement considérée comme une des contributions les plus significatives dans l’histoire de la discipline (faisant partie des textes fondateurs mêmes), mais aussi comme une approche linguistique singulière de l’affectivité. Cette problématique a été développée, approfondie, reprise sous diverses formes durant toute son activité scientifique. Sa forme la plus claire et la plus cohérente apparaît dans son ouvrage de 1909, Traité de stylistique française (ci-après TSF). Selon le principe chronologique, nous avons pu constater que l’approche linguistique de l’affectivité a un caractère évolutif dans la théorie du linguiste genevois. 2.1. L’étape ‹pré-théorique› Dans une première étape que nous pourrions considérer comme ‹pré-théorique› à ce propos, plusieurs tentatives se dessinent vers une conceptualisation du langage comme expression de deux types d’éléments, à savoir un type intellectuel (sous la forme d’«idées pures») et un type affectif (pas encore théorisé en tant que tel), sous la forme d’un intérêt particulièrement marqué à l’égard d’une méthode descriptive et expérimentale visant à illustrer et à expliquer les effets des faits de langue sur la sensibilité du sujet parlant. En insistant sur la nécessité d’une prise en considération du contexte, de l’emploi réel et actuel des mots, de l’étude du sens impressif ou intuitif des mots et des expressions, Ch. Bally prépare le terrain à l’étape de théorisation proprement dite de l’affectivité du langage dans le TSF. i. Dans la définition de la stylistique et de son objet, qui ouvre le Précis de Stylistique française (1905), premier aperçu de la stylistique et première tentative d’autonomisation de cette nouvelle discipline dans le champ de la linguistique, aucune référence n’est faite à l’affectivité, ni comme critère de classement des faits de langage, ni comme critère de description: La stylistique étudie les moyens d’expression dont dispose une langue, les procédés généraux employés par elle pour rendre par la parole les phénomènes du monde extérieur aussi bien que les idées, les sentiments et en général tous les mouvements de notre vie intérieure. Elle observe les rapports qui existent dans une langue donnée entre les choses à exprimer et leur expression; elle cherche à déterminer les lois et les tendances que suit cette langue pour arriver à l’expression de la pensée sous toutes ses formes. Elle recherche enfin une méthode propre à faire découvrir ces moyens d’expression, à les définir, à les classer et à en montrer le juste emploi (Bally 1905: 7, nous soulignons).
La première définition de l’objet de la stylistique utilise largement la notion d’expression, avec une extension maximale. Deux niveaux de conceptualisation y sont impliqués et semblent se présenter conjointement et indistinctement: le premier est celui de la parole comme activité, en tant que champ de manifestation du rapport entre la pensée et la langue,
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servant à rendre les phénomènes du monde extérieur (le monde objectif) et les «mouvements de la vie intérieure» (la sphère de la subjectivité); et le second est celui de la parole dans une langue donnée (chaque langue possède ses propres moyens d’expression), qui est à proprement parler le domaine de la stylistique. ii. Deuxièmement, dans cette étape ‹pré-théorique›, la problématique de l’affectivité apparaît sous forme de considérations sur l’importance des sens impressifs des faits de langue dans l’usage courant, réel et actuel. La stylistique vise à une connaissance intuitive des mots, c’està-dire de la correspondance entre les représentations de l’esprit et leur expression linguistique. Le rapport établi dans le PSF entre la présence ou l’absence de nuances impressives (effets sur la sensibilité et l’imagination des sujets parlants) et la prise en considération de leur réception par l’intelligence des sujets entendants anticipe, à notre avis, l’opposition entre les éléments intellectuels et les éléments affectifs du langage sur laquelle est fondée la deuxième définition de la stylistique, celle qui est présentée dans le TSF. Dès qu’il s’agit de rendre compte des particularités expressives relevant de la construction de la phrase, il nous semble que Ch. Bally a une tendance à exclure du champ de la stylistique les relations logiques entre l’expression et l’idée, et n’accepte comme relevant de son domaine que l’action du sentiment sur l’ordre habituel des mots (justifiée par la nécessité psychologique). La grammaire et la syntaxe sont placées ainsi du côté de la logique, qui est inexpressive, et la stylistique – rapprochée, et plus tard, même assimilée à la psychologie – doit étudier l’effet du sentiment sur l’ordre logique. Idée et sentiment, grammaire et stylistique, logique et psychologie se distribuent selon une vision dichotomique de l’expression qui conduit à l’une des deux acceptions du terme expressif dans le TSF: synonyme de l’affectif et du subjectif et contraire de l’objectif et de l’intellectuel. iii. Troisièmement, le terme affectif n’est utilisé que tardivement dans le PSF, dans le chapitre VII, comme un synonyme du terme subjectif. Le langage subjectif ou affectif est opposé au langage objectif, et assimilé au langage appelé sentimental. Cette forme de langage a deux caractéristiques, selon Ch. Bally. D’abord, elle se superpose au langage discursif ou langage des idées (l’idée est énoncée lexicalement, alors que le sentiment est exprimé par les procédés du langage sentimental, à savoir l’intonation, la mimique, les gestes). Ensuite le langage subjectif précède le langage des idées, dans la mesure où il n’est pas encore affranchi des sensations (la forme la plus pure du langage subjectif est le langage enfantin, presque entièrement affectif). Finalement, les termes langage et langue semblent parfaitement interchangeables: Nous parlons simultanément deux langues, et c’est parce que nous n’en observons généralement qu’une, la plus facile à saisir, la langue objective, que tant de malentendus règnent encore sur la nature du langage. [...] Le sentiment s’exprime dans une langue à lui, il a des moyens d’expression qui lui appartiennent en propre; son vocabulaire et sa syntaxe ne sont pas ceux de la langue objective. Mais voici qui est bien plus paradoxal: pour exprimer les sentiments, il n’a pas même besoin de la voix; en second lieu, il peut se servir de la voix sans articuler des mots; et enfin, s’il fait usage des mots, c’est pour leur donner une signification qu’ils n’ont pas par eux-mêmes (Bally 1905: 130-131).
Cette perspective amène Ch. Bally à considérer que la parole sert à extérioriser prioritairement des impressions et des sentiments plutôt que des idées, et à renforcer cette idée que «le fond de l’être humain est la sensibilité» (ibid., p. 130). Cette position théorique qui explique la sensibilité par le recours aux notions d’impressions et de sentiments, par la
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sphère de l’affectivité, tout en gardant un rapport étroit avec l’immédiateté de la relation du sujet parlant avec son milieu, est indispensable pour bien comprendre l’originalité de la stylistique dans le contexte de la linguistique de son époque. 2.2. Vers une théorisation proprement dite de l’affectif L’hypothèse qui sous-tend l’échafaudage de la stylistique comme science de l’expression est conçue sous la forme d’une adéquation entre la pensée et l’expression fondée sur la possibilité de distinguer entre éléments intellectuels et éléments affectifs (l’intellectuel et l’affectif seront considérés, au cours du développement théorique, comme des modes d’expression combinés dans des proportions variables; cette modification répondrait ainsi à des critiques auxquelles cette première formule a donné suite). Cette distinction est formulée comme un axiome soutenant que le langage exprime des idées et des sentiments.2 i. Le TSF propose une définition de la stylistique (qui s’est imposée au détriment de la première) qui évoque principalement la sensibilité et le contenu affectif: La stylistique étudie donc les faits d’expression du langage organisé au point de vue de leur contenu affectif, c’est-à-dire l’expression des faits de la sensibilité par le langage et l’action des faits de langage sur la sensibilité (Bally 1909/1951: 16).
L’affectif est élevé au rang de critère de sélection et de classement des faits de langage qui forment l’objet de la stylistique. Il est au centre du système conceptuel de la nouvelle discipline, il connaît sa fortune en tant que notion servant à définir et à identifier un objet, une méthode, une discipline linguistique. Une question subsiste pourtant: est-ce que cette notion placée au centre d’une théorisation linguistique devient un concept proprement opératoire? Perd-elle quelque chose de la signification générale avec laquelle elle est employée régulièrement dans le langage commun, gagne-t-elle quelque chose pour devenir vraiment un terme technique, un outil spécifique? La méthode stylistique vise à dégager les caractères affectifs des faits d’expression (caractères affectifs naturels ou effets affectifs produits par l’évocation des milieux) par comparaison avec des termes d’identification puisés dans la langue normale ou intellectuelle, d’un côté, ou dans la langue commune, de l’autre côté. Ch. Bally insiste à plusieurs reprises sur le caractère relatif de ce dégagement, sur la nécessité du traitement de l’expression en termes de gradualité et de dominante, sur la distinction de principe entre le mode d’expression intellectuel et le mode d’expression affectif: Les faits d’expression reposent sur des combinaisons psychologiques où chaque élément entre dans des proportions variables; la bonne méthode consiste à dégager dans chaque cas le facteur dominant d’après lequel un phénomène stylistique peut être classé (Bally 1909/1951: 27).
Dans cette entreprise de théorisation de l’objet et de la méthode de la stylistique, une attention particulière est accordée par le linguiste genevois à l’idée de la relativité des valeurs Selon Amacker (2000), cette idée serait inspirée également par la psychologie autrichienne, intéressée par le jugement de valeur, lié à la notion d’affectivité.
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intellectuelle et affective3, de la variation permanente de proportion entre ces éléments dans les faits de langage, de la dépendance exclusive de ces valeurs d’un usage actuel du fait de langage respectif, d’un usage «vivant». Ch. Bally traite l’affectif comme étant définissable et quantifiable en fonction de son domaine de contraste, l’intellectuel, et utilise plutôt des syntagmes tels éléments affectifs, valeur affective, dominante affective, côté affectif, contenu affectif, mode d’expression affectif: On sait en effet qu’il n’y a jamais d’expression entièrement intellectuelle ou entièrement affective, parce que l’intelligence et le sentiment, ces deux aspects (je ne dis pas ces deux facultés) de notre esprit, se trouvent mêlés à toutes nos pensées; donc, seule, la proportion importe. Étant donné un fait de langage quelconque, il faut déterminer quel est l’élément qui prédomine dans la conscience de ce fait et lui donne sa marque propre. Le dosage est-il tel que l’expression apparaît essentiellement intellectuelle ou essentiellement affective? Voilà, ramené à sa formule la plus générale, l’objet de la stylistique (Bally 1905/1951: 157-158).
Á quoi renvoie donc plus exactement le terme affectif? Tout en conservant son sens habituel lié au sentiment et aux émotions du sujet, il est utilisé comme élément de métalangage à l’intérieur d’une théorie linguistique. L’affectif devient un critère de sélection et de classement des faits d’expression qui consiste plus exactement dans un ensemble d’indices de différentes natures concernant les effets ou les impressions qu’un fait de langage produit chez le sujet parlant et le sujet entendant. L’étude de ces effets, qui repose largement sur l’intuition, voilà le domaine propre de la stylistique. La perspective de Ch. Bally sur l’affectivité se situe dans le système de la langue elle-même.4 2.3. Vers un nouveau système explicatif Sous l’influence de sa vision vitaliste5, la conception de l’affectivité et de la subjectivité dans le langage connaît un changement dans Le Langage et la Vie (1926) et dans Linguistique générale et linguistique française (1932). L’affectivité est associée, comme dans la stylistique, au langage de la vie et de l’action, ainsi qu’à l’expression du sentiment et de l’émotion du sujet La relativité est considérée par Sylvie Durrer comme un concept central dans une «approche variationniste plus diffuse» qui apparaît à côté d’une approche normative plus évidente (Durrer 1998: 83). 4 L’ambiguïté qui entoure la notion d’affectivité chez Ch. Bally est attribuée par Sylvie Durrer à une oscillation dans son emploi: elle renvoie tantôt à un mode d’expression (à côté du mode intellectuel, qui lui sert de domaine de contraste), tantôt à toute attitude énonciative. Deuxièmement, tout en considérant les deux pôles comme également pertinents, il privilégie pourtant le mode affectif, parce qu’il est «le plus fréquent», «le plus naturel» et «le plus vivant» des modes d’expression (Durrer 1998: 115). Du point de vue chronologique, nous pouvons affirmer que le changement intervient là où l’affectivité cesse d’être considérée comme un critère de classement et de description d’un fait de langue pour occuper une place importante dans une approche explicative de la dynamique de la langue, autrement dit dans une théorie du langage. 5 La vision vitaliste de Ch. Bally a été inspirée par les vues d’Henri Bergson sur la vie de l’esprit et sur l’intuition. Pour une analyse de l’influence des idées de Bergson sur la conception du langage présentée dans LV (1913 et éditions ultérieures) et LGLF, voir Médina (1985: 95-104). 3
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parlant, mais elle n’est considérée ni comme un critère de classement des données, ni comme un attribut du contenu d’un fait de langue (le «contenu affectif»). Elle est définie en tant que manifestation naturelle et spontanée des formes subjectives de la pensée, elle est conçue dans ses rapports avec les désirs, les sensations, les volontés, et les jugements de valeur. Le traitement de l’expressivité en tant que mécanisme situe l’affectivité dans un cadre plus général comme un facteur indispensable dans la dynamique de la langue, dans l’antinomie entre l’expression et la communication. L’affectivité du langage est expliquée par le recours à des éléments qui figuraient déjà dans sa stylistique, mais auxquels Bally n’avait pas assigné un rôle précis dans l’approche de l’expressivité: les éléments extralinguistiques (la situation d’énonciation), les éléments suprasegmentaux et la mimogestualité, et les procédés d’association sur le signifiant ou sur le signifié (par superposition ou par substitution). Dans sa conception de l’antinomie entre l’expression et la communication, l’affectivité se situe du côté de l’expression, en association avec d’autres notions, telles l’illogisme, la pensée, le langage, la motivation, les innovations personnelles, la subjectivité. Par opposition au pôle de l’expression, le pôle de la communication organise un autre réseau notionnel, faisant appel à des notions telles l’objectivité, la langue, le social, la logique, l’arbitraire ou le conventionnel. Si dans la stylistique, l’affectivité est considérée comme un attribut de la langue (dans sa combinaison avec le contenu intellectuel), dans LV, par la place qui lui est assignée dans l’antinomie de l’expression et de la communication, l’affectivité devient un facteur expliquant les innovations individuelles et leur rôle dans la dynamique de la langue. Si dans la stylistique, l’affectivité semble être traitée comme un attribut proprement linguistique, dans LV elle est plutôt un concept qui s’intègre à une théorie du langage, ou à une théorie explicative de la dynamique de la langue et non pas à une théorie descriptive d’une langue donnée. Dans LGLF, la notion d’affectivité est abandonnée souvent au profit de la notion de modalité (la phrase segmentée, le rôle de l’intonation), ce changement étant accompagné par un autre, très important également: le sujet de la stylistique, qui était plutôt un sujet pensant ou un sujet psychologique, devient un véritable sujet parlant, source de l’énonciation. La réflexion sur le modus et le dictum dans la phrase, la définition de la phrase comme une représentation modalisée, sont les jalons principaux vers une prise en considération du sujet comme un je énonciateur, conception qui se distingue de celle du sujet comme siège des sentiments, des émotions et des volitions. Cette nouvelle conception ne contredit pas la première, mais semble l’intégrer dans un cadre qui vise l’énonciation, et non plus le contenu affectif des faits d’expression.
3. Affectivité, nature, nécessité psychologique. Une explication raisonnée du fonctionnement langagier par Ch.-A. Sechehaye Dans l’approche théorique de Ch.-A. Sechehaye, la problématique de l’affectif est intégrée à un système explicatif cohérent de la nature du langage comme objet de la linguistique. Constamment préoccupé par les rapports entre les diverses sciences et la nature de leur objet, A. Sechehaye tente d’éclaircir les attributs du langage et de concevoir un système
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explicatif adapté à sa nature. Dans cette démarche, il a souvent recours à une attitude critique constructive à l’égard de diverses approches psychologiques ou linguistiques, et notamment à l’égard de celle de son collègue et collaborateur, Charles Bally. La problématique de la séparation entre intellectuel et affectif lui inspire une réflexion sur la terminologie et la méthodologie de la linguistique, ainsi que sur son objet. 3.1. Pour une refondation de la science de l’expression A. Sechehaye publie en 1908 un article intitulé La stylistique et la linguistique théorique, paru dans le volume Mélanges de linguistique offerts à M. Ferdinand de Saussure. Comme son titre l’indique, cette étude est à la fois une interprétation critique constructive de la stylistique de Ch. Bally et une présentation des principes sur lesquels est fondée la linguistique théorique. Il faut dire que sa vision rencontre sur certains points celle de Ch. Bally, mais qu’elle vise à mettre l’étude de l’expression sur des assises différentes, tout aussi originales.6 i. Critique de la stylistique comme science à part. Délimitations insuffisantes A. Sechehaye reprend d’abord les vues théoriques et méthodologiques du Précis en exprimant ses réserves quant au bien-fondé de la stylistique comme science nouvelle et autonome dans le champ de la linguistique. Deuxièmement, il se montre quelque peu sceptique à l’égard d’un des aspects essentiels de sa scientificité, à savoir son aptitude à saisir la nature précise de son objet. À la suite de cette revue commentée du Précis, celui-ci lui apparaît comme «une première tentative, un ensemble de vues, plutôt qu’un système». La première définition de la stylistique suscite les critiques d’A. Sechehaye de par sa généralité. Traiter le langage en termes d’ «expression adéquate des mouvements de la vie intérieure» comporte, selon lui, une dimension tautologique: «autant vaudrait dire: en tant que langage, car que reste-t-il de notre parler, si on le considère en dehors de sa valeur expressive?» (ibid., p.162). Deuxièmement, A. Sechehaye se demande en quoi le programme de la nouvelle science diffère de celui de toutes les autres disciplines linguistiques (la lexicologie, la flexion, la syntaxe), qu’il soit question de l’analyse logique ou des qualités du style, selon lui, tout en linguistique concerne l’expression de la pensée. Les seules disciplines à part, qu’il envisage comme distinctes à l’intérieur de la science du langage, sont la phonétique, «la partie de la science du langage qui s’occupe de l’étude des sons considérés en eux-mêmes» et l’étymologie, «qui a pour objet les évolutions du langage». Quant à l’objet précis de la stylistique, il n’est pas, à son sens, suffisamment défini pour soutenir un programme bien distinct au sein des sciences du langage traditionnelles. Ce flou de la définition ne veut pas dire, selon A. Sechehaye, qu’elle manque de valeur. Bien au contraire, il considère l’approche de Ch. Bally comme la marque d’une «tendance bien définie et nouvelle». Il fait allusion à un déplacement de l’intérêt à l’intérieur du champ des études sur le langage: plutôt que de continuer d’étudier les formes de la langue en Nous rappelons que l’article que nous citons ici a paru en 1908 et concerne le Précis de stylistique française et le Traité de Stylistique française, cité en tant que Manuel, nom sous lequel ce livre a probablement circulé avant sa parution éditoriale de 1909.
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elles-mêmes, il y a une tendance, qui se précise toujours mieux, à étudier les mécanismes langagiers, le fonctionnement du langage, en un mot, l’ «expression de la pensée». ii. Critique de la distinction intellectuel / affectif Le premier aspect du TSF commenté par A. Sechehaye est la définition de la pensée complexe exprimée dans le langage par l’idée de la combinaison de trois facteurs, constamment entremêlés dans la langue parlée: le facteur intellectuel, les idées pures, le facteur affectif, les émotions, les dispositions subjectives de la sensibilité, et le facteur social, qui modifie l’expression en fonction de la «présence réelle ou de la représentation d’un ou de plusieurs autres sujets». La prise en considération d’un facteur «social» lui semble non seulement juste, mais nécessaire. Ce qui est plus problématique, à son sens, est le fait de placer théoriquement le facteur social au même niveau que l’intellectuel et l’affectif. Selon A. Sechehaye, le facteur social n’est en soi un élément constitutif ni de la pensée, ni de l’expression. Du point de vue linguistique (et psychologique), il est à considérer comme un mécanisme de réglage et comme un facteur d’adaptation au milieu linguistique. Il relèverait plutôt du facteur intellectuel de représentation. Si A. Sechehaye considérait déjà que le facteur social ne se plaçait pas au même niveau que les deux autres, il affirme nettement que les deux autres ne sont pas les termes d’une alternative: l’objet de l’expression est formé uniquement par les idées. C’est dans la formation de l’idée qu’une impression subjective peut jouer un rôle, notamment dans le cas des expressions évaluatives. 3.2. Le langage affectif comme milieu emboîtant Le problème qui se pose quant à l’objet de la linguistique est la manière dont il faut le saisir selon sa propre nature. Le langage comporte deux éléments distincts: l’élément grammatical (ou organisme grammatical) et les éléments extragrammaticaux. La nature des éléments extragrammaticaux est liée à leur origine psychologique. Une pensée, une émotion ou un acte de volonté les déclenchent et en font l’objet d’un réflexe, plus ou moins soumis au contrôle de l’intelligence. Ce type d’éléments, manifestations psychologiques qui ont peu à voir avec l’expression grammaticale de la pensée, sont définitoires pour l’acte de parole, partie intégrante de la vie psychologique générale du sujet. Ch. Bally prenait en considération les mêmes types d’éléments, qu’il plaçait dans la catégorie du langage expressif ou langage de la vie. Les deux modes idéaux de l’expression, la langue intellectuelle et la langue commune constituent le pôle du langage organisé, correspondant chez A. Sechehaye à l’organisme grammatical. La langue expressive, objet de la stylistique, est conçue comme une zone intermédiaire entre le langage organisé et le langage de la vie. Chez A. Sechehaye, cette langue expressive est l’ensemble des actes de parole, où l’on peut distinguer certains éléments relevant de la grammaire ou de la convention, et des éléments expressifs naturels, qui ont des causes psychiques et qui s’adressent à l’intuition. Le domaine de l’expressif chez A. Sechehaye n’est pas associé strictement à ce que Ch. Bally appelait affectivité:7 il y a, selon lui, une expression grammaticale de la pensée, d’un côté, et Nous avons d’ailleurs souligné que Bally lui-même utilisait parfois le terme expression avec une
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des éléments expressifs naturels relevant de la spontanéité du sujet qu’il associe au domaine psychologique dans une mesure plus grande que les éléments conventionnels. Il nous semble que chez lui, ce que Ch. Bally situait dans la catégorie de l’affectivité, entre dans la catégorie du psychologique, associé plutôt à l’intuition qu’à l’intelligence. Il est vrai qu’il ne conçoit pas un continuum entre les éléments des deux types, pas plus qu’un rapport oppositif. Il ne descend pas encore d’ailleurs au niveau de l’analyse des faits linguistiques, ces termes ayant pour lui une valeur explicative, plutôt qu’une valeur opérationnelle dans une analyse linguistique proprement dite. A. Sechehaye conçoit une première partie de la linguistique théorique sous la forme d’une science du Langage affectif, un des éléments qui rapproche considérablement sa vision de celle de son collègue.8 La différence essentielle consiste à admettre le caractère insaisissable du langage prégrammatical, malgré la clarté de la définition qu’on peut lui donner en théorie. L’affectif n’a pas d’étendue, il est de nature psychologique, se rapportant principalement aux émotions et aux représentations qui accompagnent la pensée. L’usage des signes ne révèle pas la proportion d’éléments du type grammatical et prégrammatical: Nous n’avons pas de procédés d’analyse suffisants pour percevoir clairement ce qui se cache de facteurs psychologiques sous chaque phénomène, de telle sorte que, entre ce qui est purement mouvement instinctif (attitude de la colère par exemple) et ce qui est déjà un langage voulu, impliquant un élément conventionnel appréciable (comme quand on menace du doigt, en pensant à un châtiment tout autre qu’une punition corporelle) il y a tout un domaine intermédiaire où il est impossible de dire: ici est la limite (Sechehaye 1908: 77).
Une telle difficulté ne peut être surmontée qu’en adoptant une solution pareille à celle proposée par Ch. Bally au sujet du caractère dominant d’un fait d’expression. Chez A. Sechehaye nous pouvons constater l’illustration de la même idée quand il propose d’analyser un langage où les éléments prégrammaticaux sont prédominants, plus actifs ou plus apparents que l’élément grammatical ou inversement. Comme chez son collègue, un rapport s’établit également entre le facteur intellectuel et ce qu’il appelle «vie affective». La grammaire est fondée sur un acte intellectuel, alors que les éléments prégrammaticaux ou extragrammaticaux sont générés par la vie affective: Le langage prégrammatical, et par conséquent aussi les éléments extragrammaticaux du langage organisé, sont conditionnés par les mouvements de la vie affective, par les émotions et les représentations qui accompagnent la pensée; tandis que tout ce qui est grammaire, convention, accommodation à la collectivité a pour principe un acte intellectuel (Sechehaye 1908: 79; les italiques appartiennent à l’auteur). extension maximale et d’autres fois dans une acception synonyme de l’affectivité et de la subjectivité. Dans son article intitulé «La revanche de la stylistique» (CFS 54, 2001: 128), Anne-Marguerite Frýba-Reber signale cette différence de conception entre Bally et Sechehaye: «[...] si les deux linguistes sont d’accord sur le fait que le langage affectif précède le langage intellectuel d’un point de vue génétique, ils sont en désaccord sur le statut du langage affectif d’un point de vue fonctionnel: pour Bally, l’affectif vient se greffer sur le discursif, pour Sechehaye, le discursif est une sorte de cristallisation de l’affectif». Cela pourrait s’expliquer aussi, à notre avis, par une vision différente sur le facteur affectif. Selon Ch. Bally, l’élément affectif est une fonction de la langue (au moins dans sa stylistique), pour A. Sechehaye, il est une «fonction du sujet parlant».
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La première forme du langage, le «langage affectif», sert à l’expression instinctive des émotions qui est gouvernée par des lois psychologiques, mais en tant que telle, elle ne connaît pas d’organisation. Il faudrait la concevoir, affirme A. Sechehaye, comme une «modalité du sujet», animé par une nécessité psychologique –ce qui explique le caractère expressif des signes par l’interprétation intuitive de l’impression qu’ils produisent sur la sensibilité ou sur l’imagination d’autrui, sujet entendant ou récepteur. Ces signes n’expriment clairement aucune idée (il ne s’agit donc pas de symboles), mais ils sont provoqués par des idées, et accompagnent celles-ci. Le langage affectif, défini comme «une fonction du sujet parlant», est à la fois plus général et plus individuel que le langage organisé, car il existe en vertu de la même constitution psychophysique des individus, qui sont pourtant capables d’y imprimer une marque originale. La linguistique théorique devrait s’occuper d’abord de l’étude du langage affectif, dont les principales formes sont le langage des animaux (des habitudes acquises exprimant des émotions), le premier langage des enfants, caractérisé par une préférence marquée pour ce qui est «expressif», à savoir les exclamations, les onomatopées, les redoublements (les premiers débuts de la syntaxe font déjà l’objet de la grammaire);9 le langage par gestes, objet de l’influence directe des sujets parlants, qui créent ou modifient les signes dont ils usent, sous le coup d’une émotion ou d’une représentation et l’expression de l’émotion vive (le langage exclamatif chez Ch. Bally). Toutes ces formes du langage affectif sont expliquées par le recours à la tension qui s’établit dans leur manière d’exprimer l’émotion et l’idée. Les signes qui leur sont propres sont partiellement naturels, car ils sont expressifs par euxmêmes, et partiellement conventionnels, comme formes relativement fixes. Sous l’influence de l’émotion, qui prévaut sur l’idée dans leur contenu (ce sont donc l’émotion et l’idée qui entrent en concurrence), ces signes tendent à perdre ce qu’ils ont de grammatical et à être perçus comme des réflexes de la sensibilité, ou comme des actes instinctifs. Tout en partageant une conception vitaliste semblable à celle de son collègue, A. Sechehaye considère les éléments affectifs dans le langage comme tributaires des besoins de la vie, ce qui peut en faire des réflexes de notre sensibilité. Mais il n’attribue à ce genre d’éléments qu’une importance secondaire dans l’expression. La place centrale est assignée à l’acte de volonté intelligente qui assure la communication efficace, et le geste, la mimique, l’intonation sont l’entourage naturel de l’acte central de l’émission du mot.
4. Conclusions Le rôle et la place attribués au facteur affectif dans les conceptualisations du langage, de la langue et de la linguistique par les deux linguistes genevois présentent des similitudes et des différences significatives. Sur l’intégration du langage enfantin à une science du langage affectif sous la forme de la «connaissance d’une modalité de l’expression individuelle dans la langue», et moins comme un élément d’une théorie de l’acquisition, voir Puech (1995: 178-180).
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Si pour Ch. Bally, la problématique affective occupe une place centrale dans la conception expressiviste du système de la langue qui se dégage de la stylistique (et à laquelle elle tend parfois à se substituer), pour Ch.-A. Sechehaye l’affectif est un attribut du langage prégrammatical et se réalise par des signes expressifs naturels. Une science du langage affective est nécessaire, à son sens (et elle est la première dans le système de la linguistique théorique), mais elle ne connaît pas le même principe d’organisation que la science du langage grammatical. Alors que dans la stylistique de Ch. Bally l’affectif est souvent considéré comme un attribut de la langue, comme un caractère interne au système de la langue, dans la linguistique théorique d’A. Sechehaye, l’affectif est une «modalité du sujet», accessible à l’intuition et nécessaire à l’intercompréhension. Si les divergences entre les deux conceptions tiennent à l’attribution d’une valeur théorique et méthodologique à la problématique affective, les similitudes révèlent une tendance commune à intégrer à l’étude du langage une conception vitaliste souple10 sous la forme d’une prise en considération de la conscience du sujet parlant, de son rôle actif dans l’acte de parole et de sa complexité (nous signalons que Ch.-A. Sechehaye a toujours considéré son approche et celle de son collègue comme étant complémentaires, comme les deux faces d’un même phénomène à l’intérieur d’une science générale des valeurs linguistiques). Autour du facteur affectif semble s’organiser, chez Ch. Bally et Ch.-A. Sechehaye, un programme de recherche qui tente d’élargir les perspectives sur le langage par l’intégration d’une «psychologie du langage» dans la linguistique. Sous la forme d’une stylistique de la langue ou d’une science du langage affectif, cette problématique se révèle comme un des axes d’une science de l’expression dont les deux linguistes genevois de la première génération avaient tenté d’instituer les principes dans leurs travaux.
Bibliographie Sources primaires Bally, Charles (1905): Précis de stylistique: esquisse d’une méthode fondée sur l’étude du français moderne. Genève: Eggimann. ― (1909): Traité de Stylistique française. Vol. 1, Heidelberg: Winter; Paris: Klincksieck [cité d’après la 3ème édition, Genève: Librairie Georg, Paris: Klincksieck, 1951]. ― (1913): Le langage et la vie. Genève: Atar [3e édition augmentée, Genève: Droz, 1977]. ― (1932): Linguistique générale et linguistique française. Paris: Librairie Ernest Leroux. Sechehaye, Charles-Albert (1908a), Programme et méthodes de la linguistique théorique. Psychologie du langage. Paris: Champion. La tentative d’instituer le sujet parlant à travers une théorie de l’expression est considérée par Dominique Combe comme relevant d’une phénoménologie de la parole: «Bally a (...) tenté de rétablir les droits du «sujet parlant» à travers le concept d’expression et de langage subjectif, dans une sorte de phénoménologie de la parole. Mais cette démarche du stylisticien ne saurait être comprise sans la référence à un climat bergsonien anti-positiviste et anti-rationaliste, qui appelle à réhabiliter l’intuition contre la tyrannie de l’intelligence et de la représentation» (Combe 2006: 62).
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― (1908b): La stylistique et la linguistique théorique. In: Mélanges de linguistique offerts à M. Ferdinand de Saussure, Paris: Champion (réimpr. Genève: Slatkine, 1975, Paris-Genève: Slatkine Reprints, 1982), 155-187. ― (1926): Essai sur la structure logique de la phrase. Paris: Champion.
Bibliographie secondaire Amacker, René (2000): Le développement des idées saussuriennes chez Bally et Sechehaye. In: HL 27, 205-264. Bergounioux, Gabriel (1994): Le tournant psychologique de la linguistique saussurienne: l’exemple de Bally et Sechehaye. In: Actes du Colloque «La psychologie et ses frontières du XIXe siècle à nos jours», disponible sur le site www.halshs.archives-ouvertes.fr, consulté le 25 octobre 2010). Chevalier, Jean-Claude (1999): Albert Sechehaye, pédagogue et théoricien. In: CFS 52, 69-81. Chiss, Jean-Louis (1997): Charles Bally: qu’est-ce qu’une «théorie de l’énonciation»? In: Chiss / Puech: Fondations de la linguistique. Études d’histoire et d’épistémologie, 2e édition, Gembloux: Duculot, 159-167. Combe, Dominique (2006): Situation de Charles Bally: linguistique, philosophie, psychologie, sociologie, anthropologie. In: Charles Bally (1865-1947). Historicité des débats linguistiques et didactiques. Louvain-Paris-Dudley: Peeters, 55-66. Durrer, Sylvie (1998): Introduction à la linguistique de Charles Bally. Lausanne-Paris: Delachaux et Niestlé (Coll. Sciences des discours). Frýba-Reber, Anne-Marguerite (1994): Albert Sechehaye et la syntaxe imaginative: contribution à l’histoire de la linguistique saussurienne. Genève: Droz. ― (2001): La revanche de la stylistique: hommage d’Albert Sechehaye à son prédécesseur et ami Charles Bally. In: CFS 54, 125-144. Médina, José (1985): Charles Bally: de Bergson à Saussure. In: Langages 77, 95-104. Puech, Christian (2000): L’esprit de Saussure – Paris contre Genève: l’héritage saussurien. In: Modèles linguistiques 20, 79-93 [disponible en ligne sur www.unice.fr, sous le titre L’esprit de Saussure: réception et héritage (l’héritage linguistique saussurien: Paris contre Genève)]. ― (1995): Enjeux psycholinguistiques de quelques représentations de l’acquisition à la fin du XIXe, début du XXe siècle. In: HEL 17/I, 163-183.
Ricardo Escavy Zamora (Universidad de Murcia)
La concepción del signo lingüístico en la obra de Eduardo Benot (1822-1907)
1. Introducción Con la presente comunicación satisfacemos una deuda contraída en la década de los setenta con este autor, cuando, indagando en sus observaciones relativas al pronombre, nos sorprendió su postura teórica sobre cuestiones que estaban en el centro de las discusiones lingüísticas del momento. Llegamos algo tarde, porque en la actualidad el número de trabajos sobre Eduardo Benot es considerable (Zamorano 2004), poniendo de relieve en todos los casos el carácter anticipador de sus ideas sobre el lenguaje, como hacen autores tan destacados como Pottier (1977) o Wigdorsky (1995). En relación con la teoría del signo lingüístico ¿existió algún tipo de influencia entre Benot y Saussure (Mollfulleda 1983), en uno u otro sentido, teniendo en cuenta que ambos fueron coetáneos? Esto parece poco probable, aunque pudieran haber bebido en algunas fuentes comunes. Sólo son conjeturas poco sólidas, pues el Cours de Linguistique générale se publica en 1916, nueve años después de morir Benot. No parece, además, que su difusión fuera inmediata y profusa, pues el propio Meillet en 1915 no conocía el Curso, aunque como alumno suyo conocía su doctrina (Koerner 1989). Figuraba, no obstante, en la biblioteca de Á. Amor Ruibal (Alonso 2009). Eduardo Benot, mayor que Ferdinand de Saussure, publicó su Arquitectura de las Lenguas en 1889, mientras que Saussure comienza sus cursos en Ginebra en 1891, de donde se recogen sus ideas para ser publicadas por sus discípulos. De cualquier modo, Benot adopta la postura de no citar (1889: 15): Al exponer nuevas doctrinas, claro es que combato las generalmente seguidas, pero rara vez lo digo, y nunca cito autores, para quitar á esta obra todo carácter de controversia; y, sobre todo, de controversia personal.
En sentido contrario la influencia en Saussure, o el conocimiento de la teoría benotiana es impensable, puesto que ni siquiera entre sus contemporáneos españoles sus aportaciones tuvieron eco (Lope Blanch 2001). Algunas de sus enseñanzas fueron tenidas en cuenta por gramáticos como José Torres Reina, en 1904, José Juncal, en 1912, Juan B. Puig, en 1938 (Sarmiento 1991: xvii) y Vidal Rodríguez en su Sintaxis (1915), segunda parte de sus Lecciones de Gramática Española, publicada en 1910 (Garrido 2004).
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2. El concepto de signo lingüístico en las gramáticas españolas de la época Las gramáticas de la Real Academia del siglo xix no incluyen aspectos lingüísticos obtenidos de las obras de Eduardo Benot, ni en particular del signo lingüístico, a pesar de que el sabio gaditano era académico desde 1887, aunque no tomó posesión hasta 1889 con un discurso, cuyo título «¿Qué es hablar?» apunta a sus trabajos posteriores. Tampoco en las gramáticas más significativas de la época se recogen influencias notables de Eduardo Benot, como hemos adelantado, y, en concreto, en torno al signo lingüístico son parcas en el tratamiento. Se alude a los signos lingüísticos casi como una obligación, sin profundizar en su estudio, influidos por Locke, Condillac y Destutt de Tracy. J. Gómez Hermosilla justifica su opinión (1837: vi-vii) aludiendo a Locke, Port-Royal y a nuestro Brocense. A este respecto afirma el lingüista gaditano: «Es verdad que, desde Platón acá, no ha habido tal vez un solo filósofo que, poco i mucho no haya dicho algo de las palabras consideradas como signos de las ideas». Para añadir después (1837: 3): «Resulta, pues, que todas las palabras posibles pueden reducirse a tres clases: (sustantivos, verbos y partículas)». Más interesante es lo que a continuación precisa (1837: 4): Es fácil observar en cualquier sistema de signos, que los destinados a significar los objetos materiales son de dos especies: unos que los dan a conocer expresando la idea que de ellos tenemos, y otros que siempre los indican, o señalan para distinguirlos de algunos con los cuales pueden equivocarse o confundirse.
Es fácil descubrir en esta cita algo similar al doble campo al que se referirá K. Bühler (1950), el campo simbólico y el campo mostrativo, más claramente cuando explica que esto se comprende en el lenguaje de acción, puesto que las palabras son en el lenguaje hablado lo que los gestos en el de acción (1937: 5). Lenguaje que, junto al de los sonidos inarticulados (Benot 1889: 24), «es casi siempre natural y espontáneo», pero observa «Que a veces el lenguaje de acción es hijo de un convenio», como los movimientos de brazos, «previamente concertados» con los que se entienden las órdenes del capitán de un buque. «El lenguaje de la palabra es artificial y hay que aprenderlo» (Benot 1889: 25). Andrés Bello (1781-1865) reajusta la ciencia gramatical normal con inteligentes aportaciones, pero Benot le da un giro importante, que, de haber sido tenido más en cuenta entonces, habría supuesto un cambio de paradigma en nuestra lingüística, en el sentido de Kuhn, cosa que no ocurrió, sólo quedó en un intento (Hurtado 2004). Bello, Benot y PortRoyal dicen que «La gramática es el arte de hablar». Con relación al signo en el «Prólogo» Bello afirma que: El habla de un pueblo es un sistema artificial de signos, que bajo muchos respectos se diferencia de otros sistemas de la misma especie: de que se sigue que cada lengua tiene su teoría particular, su gramática. Obedecen sin duda, los signos del pensamiento a ciertas leyes generales, que derivadas de aquellas a que está sujeto el pensamiento mismo, dominan a todas las lenguas y constituyen una gramática universal.
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En «Nociones preliminares» agrega: Cada palabra es un signo que representa por sí solo alguna idea o pensamiento, y que construyéndose, esto es, combinándose, ya con unos, ya con otros signos de la misma especie, contribuye a expresar diferentes conceptos, y a manifestar así lo que pasa en el alma del habla.
La teoría que subyace en estas citas tiene que ver, desde nuestro punto de vista, con la naturaleza convencional de los signos de cada lengua, mientras que los signos de pensamiento responden a leyes universales, sin que explique lo que entiende por signos de pensamiento de manera precisa. Se descubre alguna influencia de Locke o Condillac (Abad 1999). En lo que coincide también con Benot es en la importancia concedida a la ‹construcción›, a la sintaxis, por más que en Benot es ‹construcción elocutiva›, tanto en el nivel morfológico: formación de palabras, como en el nivel sintáctico: formación de masas elocutivas. Esta construcción es posible gracias al ‹sistema› elocutivo que, con recursos finitos, posibilita combinaciones innumerables (Benot 1910: 19): Solo con un sistema es posible hablar: con un sistema que, por medio de un número de vocablos relativamente reducido, sea susceptible de combinaciones innumerables sin término y sin fin.
Supera, en nuestra opinión, la concepción de la lengua como sistema de signos, donde la relación de significante y significado quedaría limitada a los registros existentes, pero la lengua es algo más, es sistema para hablar, para con él formar masas elocutivas en el hablar (Hurtado: 50-51). Gregorio Herráinz (1869: 11) adopta una postura claramente psicologista, todo no se reduce a pensamiento en la mente humana. En este mismo año Francisco de Paula Canalejas en su discurso de ingreso en la Academia (1869: 34-ss.), «Las leyes que presiden a la lenta y constante sucesión de los idiomas en la historia indo-europea», apunta al respecto (Mourelle-Lema 1968: 167-75): Temerario es para mí contradecir a Humboldt, a Renan y a Müller; pero la Psicología, que es la verdadera guía y la luz de la Filología, como dice Steinthal, me prohíbe asentir a la opinión de aquellos eminentes filólogos.
Benot, como hiciera Bello, supera también el mero racionalismo que supone un paralelismo absoluto entre lógica y gramática: el magisterio de Steinthal se deja notar en este entorno. Gregorio Herráinz (1869: 11) entiende que frente a los signos naturales, concesión de la naturaleza, nuestra especie ha inventado el lenguaje artificial que no comprende sólo la palabra hablada, sino «la representación gráfica de ésta ó de la idea». Piensa que: Hay una conexión tan íntima entre el pensamiento y su signo, que apenas se concibe su separación. Cuando concentrándonos en nuestro interior, nos entregamos a la reflexión, la idea sigue acompañada de la palabra, su imagen, se desarrolla y brota adherida á su forma.
Matías Salleras (1876: 11), en la línea marcada por los anteriores gramáticos, claramente sigue a los sensistas e ideólogos, haciendo suya la máxima clásica asumida por Locke «Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu». Por tanto, las ideas proceden de los sentidos, a excepción de las que son prototípicas de la perfección, del bien, de la verdad y de la belleza. No debemos ignorar a Jaime Balmes (1810-1848), pues en su Filosofía Fundamental (1846: 86-87) afirma que las intuiciones sensibles están ligadas a conceptos generales con cuyo
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auxilio se pueden reconstruir dichos conceptos generales, referidos también a la intuición sensible en su consideración general, de manera que el entendimiento se pueda ocupar de cosas que no se le ofrecen distintas, de las cuales sólo dispone vinculadas a algunos signos, y es a través de éstos como, con claridad, puede «desenvolver» lo que encierran. Cuando hablamos para comunicarnos con seres de nuestra especie, esto no sólo es consecuencia de la razón, sino que la sensibilidad también opera como causa. Obedeciendo tanto a la cabeza como al corazón comunicamos con «signos materiales, lo que pensamos, recordamos, imaginamos, sentimos y queremos» (Salleras 1876: 7). Insistimos en que la lógica se va marginando y se allana el camino a la psicología: «No deja de ser misterioso y sorprendente el sistema de signos inventado para representar los diversos fenómenos psíquicos que son producto de tan maravillosas energías». Define el lenguaje del siguiente modo: Aunque, atendiendo a la etimología de la palabra lenguaje, sólo debiera significar el sistema de signos fónicos producidos por el movimiento de la lengua, sin embargo se le da mayor extensión diciendo que es el sistema general de signos materiales para la representación y transmisión de fenómenos psicológicos.
En Salleras (1876: 35) todo signo que representa una idea es una palabra; los signos de ideas son: sustantivos, determinativos, conexivos y mixtos; junto a ellos, las interjecciones son signos de afección. En todo caso inventados y adoptados por convención. Díaz-Rubio y Carmena (1888: viii), apoyándose en la crítica que ejerce a la gramática de Salleras al comienzo de la suya, hace disquisiciones sobre las dos oposiciones gramática general / gramática particular y gramática filosófica / gramática razonada, además de considerar las interjecciones «efecto del lenguaje natural, como lo son todos los signos que dimanan del corazón». Signos, en este último, son los gritos, las palabras y las acciones, por involuntarias que sean. Los signos son el lenguaje, si es de gestos es lenguaje de acción, destacado, como hemos dicho, entre otros, por Benot. Frente al lenguaje natural, fijo y constante, las lenguas no son otra cosa que signos artificiales, sujeto a reglas y principio de análisis: El lenguaje artificial o hablado es un poderoso instrumento de análisis, que manifiesta circunstancialmente todos los actos, todos los entes, descubriendo el armazón de una síntesis por complicada que sea.
En este sentido Salleras (1876: 8) sostiene que el análisis del lenguaje no es posible sin el análisis del pensamiento y de la «parte moral y afectiva del hombre».
3. El signo lingüístico en los ideólogos Dice Jaime Balmes (1846: 200) siguiendo a Condillac, al que cita: La vinculación de las ideas e impresiones en un signo, es uno de los fenómenos intelectuales más curiosos; y al propio tiempo, uno de los mejores auxiliares de nuestro espíritu. Sin vinculación, apenas podríamos pensar en objetos algo complejos; y, sobre todo, la memoria sería sumamente limitada.
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La influencia de los ideólogos en la teoría, no sólo del signo, sino del lenguaje en general, como hemos ido señalando, en las gramáticas españolas del XIX es frecuente, y poco cuestionable en las obras de Benot. Para él «La doctrina de una lengua tiene que ser ideología». Para el lingüista (Benot 1889: 328): Su ciencia no es la psicología, ni en los sinuosos laberintos del entendimiento humano tiene obligación de penetrar; pero solo cuando vea que las normas del lenguaje derivan directamente de indubitados hechos psicológicos, es cuando podrá concederles su absoluta confianza.
Al margen de que otras corrientes lingüísticas pudieran influirle, como la filología histórico-comparada, en lo relativo al signo, hay que tener en cuenta los antecedentes sensistas e ideológicos y la acentuada influencia que la psicología iba ejerciendo (Sarmiento 1991: xxi). La teoría del conocimiento de los ideólogos en líneas generales es tenida en cuenta: la gramática, la ideología y la lógica son la misma cosa. La idea hace nacer el signo y el signo hace nacer la idea, afirma Destutt de Tracy (1817, i: 368). No existe conocimiento sin lenguaje, pues los signos son medios de conocer (Rastier 1972: 15). No basta con esto, tanto Locke como Destutt de Tracy distinguen dos fines para los que se usa la lengua: registrar los conocimientos y comunicar a otros nuestros pensamientos (Mesa 1995), que Benot articulará de forma magistral en su teoría del signo lingüístico. Esto que parece una perogrullada no lo es en la explicación del signo. Un hombre aislado no hubiera concebido la idea de hacer una lengua (Destutt de Tracy 1817 i: 322), además concede la prioridad a Condillac con respecto a que observa y prueba que sin signos no podríamos comparar nuestras ideas simples ni analizar las compuestas. A partir de que la idea es anterior al signo, podemos afirmar que no hay signo cuando no hay nada que significar (Balmes 1846: 204). Ahora bien, sentimos antes de tener signos artificiales, puesto que si no sintiéramos no tendríamos necesidad de ellos (Destutt de Tracy 1817 i: 361). Como dice Condillac (1780: 111) el análisis no se puede hacer más que por medio de signos. El lenguaje se formó a partir de los signos del lenguaje de acción, nunca podría haberse formado a partir de los sonidos articulados de la lengua. «¿Cómo se hubiese convertido una palabra en el símbolo de una idea, si esta no se hubiese mostrado en el lenguaje de acción?». Los elementos del lenguaje de acción son innatos, son los órganos que nos ha dado el «Autor de la Naturaleza». Es preciso que precediera a las ideas, argumenta Condillac (1780: 106), pues sin alguna clase de signos nos sería imposible analizar nuestros pensamientos y así mostrar lo que pensamos. Benot y los gramáticos que hemos tratado para ofrecer el contexto gramatical de la época, todos se ocupan de manera similar del lenguaje de acción. Como la acción está determinada por las circunstancias y necesidades se descompondrá según un orden determinado por esas necesidades y circunstancias, por lo tanto el orden no puede ser arbitrario (Condillac 1780: 108). Es más, Destutt de Tracy (1817: 355) insiste en que nuestras acciones son los signos naturales y necesarios de nuestras ideas, es lo que se llama lenguaje de acción, organizado en sistema. Pero los signos naturales y necesarios se hacen artificiales y voluntarios, los cuales rehacemos para comunicar nuestras ideas a nuestros semejantes, en donde ofrece una propuesta integradora de la doble posibilidad de la naturaleza de los signos: motivados o convencionales. Al principio, hasta que los hombres no aprendan a analizar sus pensamientos en este lenguaje de acción todo está confuso (Condillac 1870: 107).
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4. Naturaleza del signo lingüístico en Benot Dice Amado Alonso (1971: 26) en el «Prólogo a la edición española» del Curso de Lingüística General de Saussure: «Sólo el ‹habla› real da realidad a la ‹lengua›. Esto obliga a ver en el habla y no en la lengua el gozne de la ciencia del lenguaje». Observación que es muy pertinente a la hora de reflexionar sobre la concepción benotiana del lenguaje y del signo lingüístico. En el debate clásico ya existían dos modos de considerar la lengua, como medio de significar y en los sofistas como medio de comunicación. Margarita Lliteras (2001) apunta al respecto: En este sentido Benot proporciona un modelo de gramática integrador, en el que la lengua hablada también es objeto de investigación. Su método consiste en la descripción de formas fónicas y gramaticales en virtud de su valor situacional y comunicativo.
Aunque Destutt de Tracy reconozca dos fines en el lenguaje el de conocer y el de comunicar, Condillac todavía mantiene el paralelismo entre el razonar y el arte de hablar bien, pues desde el enciclopedismo la ciencia de los signos encuentra su lugar en la gramática según D’Alembert (Swiggers 1982), y a pesar de que la gramática de Port-Royal no da una formulación explícita de lo que son los signos (Arnauld sí los trata en la Lógica) (Swiggers 1981), su vinculación al pensamiento no se desvanece. Nuestras relaciones sociales, para Destutt de Tracy (1817: 378), tienen su origen en la propiedad que tienen los signos de ser medio de comunicación con nuestros semejantes. En esta perspectiva Benot (1889: 21) entiende que la idea de signo es más general que la idea de lenguaje. Para él el concepto de signo está vinculado a la relación existente entre «lo significante» y «lo significado», siempre y cuando dicha relación sea percibida como tal por un ser inteligente (Benot 1889 i: 22). En donde, inicialmente, podríamos apreciar cierta similitud con la concepción de F. de Saussure, si hacemos coincidir la percepción de la relación con la unión psíquica de imagen acústica y concepto; sin embargo, Benot se refiere al signo en general, no sólo al signo lingüístico. Pero está claro que el signo lingüístico, en tanto que signo, ha de contener una relación entre «lo significante» y «lo significado» percibida por un ser inteligente (Benot 1889: 66): Sin sonidos, es verdad, no hay vocablos, pero los vocablos son más que simples sonidos; son sonidos expresivos de algo, son sonidos de significación; signos, en fin, medios con que un entendimiento se comunica intencionalmente con otro.
Saussure trata de aunar, en sentido inverso a San Agustín, lo que desde Aristóteles estaba diferenciado: una cosa es el signo no-lingüístico; otra, el signo propiamente dicho, de naturaleza lógica, y, por último, el signo lingüístico (González Pereira 2004). Benot, en lo que al signo lingüístico concierne, no cae en el asociacionismo mecanicista que desde Locke llega a Saussure (Hurtado: 44). Saussure da preeminencia al código, Benot (1889: 22) da un paso más: Los signos de lenguaje son signos en el acto de habla: Para que algo sea signo de lenguaje, se necesitan dos inteligencias: una que expresamente produzca la cosa significante con la intención de hacer comprender una relación entre ella y la
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cosa significada, y otra inteligencia perceptora de esa relación. En esa mediación el hombre es a la vez inteligencia que hace uso de los signos, e inteligencia que comprende las relaciones por ellos expresadas.
Pero los signos, como hemos dicho, encuentran toda su razón de ser en los actos de habla, que es donde se crean los mensajes, donde tienen lugar los enunciados cargados de intencionalidad, accesibles a través de lo que hoy denominamos fuerza ilocutiva, que en última instancia perfila el sentido de los mismos. Margarita Lliteras (2001) se ocupa de este aspecto en Benot, del que recogemos la siguiente cita (1889 iii: 353): Lo importante al hablar es saber si aquello que se enuncia se presenta al entendimiento con los caracteres de impersonal, o personal, de activo o pasivo, de adventicio o necesario, de posible o eventual, habitual o preciso, intencional o dudoso, debido o involuntario.
El lenguaje no es un conjunto de signos por medio de los cuales se exterioriza la actividad interna con el fin de dar satisfacción a las necesidades, pues otros objetos, entidades o medios se emplean en satisfacer necesidades, mas no encarnan el hablar: «No basta que un signo exteriorice su antecedente, su razón o causa; es preciso que la exteriorización sea intencional… para ser signos del lenguaje, les falta la intención de ser medios de comunicación» (Benot 1889: 21). 4.1 La doble articulación en el signo Las unidades inferiores a la palabra en general han tenido escaso tratamiento, muchísimo menos que la palabra o la oración (Zamorano 2004). Benot no las pasa por alto: «El último elemento de los vocablos no son las letras: son las raíces o sonidos de significación». No son las letras, sino «elementos fonéticos que tienen significado. Estos elementos que significan algo se han denominado raíces [...] Las letras, pues, no constituyen los elementos del lenguaje: los elementos del lenguaje son sólo las raíces» (Benot 1889: 66). La combinación de letras al azar no produce ni diccionarios ni gramáticas. Es cierto que los sonidos son imprescindibles, sin ellos no podemos tener vocablos, pero éstos son algo más que meras secuencias de sonidos: «Son sonidos expresivos de algo, son sonidos de significación; signos en fin; medios con que un entendimiento se comunica intencionalmente con otro». Con estos signos mínimos se combinan otros llamados desinencias, que son índices de relación. Junto a esta primera articulación atiende a una segunda articulación natural (Benot 1910: 5): Cuando se trata de descomponer oralmente los vocablos, no lo hacemos con el objeto de obtener aislados sus componentes, esto es, sus raíces con separación de sus afijos, sino con el fin de encontrar subgrupos orales de fácil pronunciación.
No es una segunda articulación con el sentido exacto de Martinet (1972: 25), puesto que la postura teórica de Benot se ocupa del hablar, pero no le podemos discutir la claridad al diferenciar los dos espacios de articulación, que en el caso de la expresión la resuelve con las unidades naturales: las sílabas.
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5. Arbitrariedad del signo La arbitrariedad en el sentido saussureano, no tiene mucho interés si se restringe a lo léxico y su contenido gnoseológico. Los signos son arbitrarios para significar la realidad, aunque dejan de tenerla dentro del sistema; su naturaleza encuentra sentido como instrumentos de comunicación intersubjetiva (González Pereira 2004). La convencionalidad de los signos en Benot (1889: 24) hay que buscarla unida a las clases de lenguaje que diferencia: de acción, de sonidos inarticulados, de sonidos articulados o palabras. De ellos, los dos primeros, son naturales y espontáneos. «Estos signos a fuerza de naturales no se aprenden». A pesar de esto, «a veces el lenguaje de acción es hijo de un convenio», como ocurre con movimientos de brazos previamente concertados. «El lenguaje de la palabra es artificial y hay que aprenderlo. El naturalmente espontáneo no depende de ningún convenio y no hay que estudiarlo: el artificial, sí». El concepto de arbitrariedad es preciso matizarlo. A pesar de que ha sido utilizado antes de Saussure por Aristóteles, entre ambos sólo experimentó algunas matizaciones (Calero 1990). Según Jespersen, hace suyas las ideas de Madvig y Whitney (Coseriu 1967:18-19); sin embargo, Mounin concluye que es una noción moderna con alguna muestra dispersa anterior. El planteamiento de Saussure tiene que ver con la inmotivación natural (González Pereira 2004), su carácter no imitativo, a excepción de las onomatopeyas, no implica «dependiente de la libre elección del individuo» (Godel 1957: 83), y se refiere, o bien al significado, o bien a la unión de ambos. Para Swiggers (1982) no distingue con claridad los diferentes tipos de arbitrariedad, que es conveniente diferenciar: i) no motivada, entre signans (signo) y signatum (cosa); ii) en cuanto que la forma convencional del signo es usada por la comunidad, ‘arbitrario’ se opone a ‘universal’ o pancrónicamente idéntico (se trata de la arbitrariedad del significante); iii) relación arbitraria entre el significante y el significado. Por otra parte es preciso tener en cuenta las relaciones que el término arbitrario mantiene con inmotivado, negativo, convencional, diferencial, opositivo, libre, fortuito, etc. Además de las observaciones de Swiggers, como destaca Jakobson (1959: 155-60) remitiendo a Benveniste no se puede hablar de arbitrariedad en un estado sincrónico donde cada uno ha de usar los términos que se le ofrecen, por ejemplo, en francés, fromage para queso. La conexión entre signans y signatum es mecánica y obligatoria para todos. El signo es necesario, pues no existe fuera de la combinación que representa; /k a s a/ es exigida y presupuesta por «casa», sin cuyo contenido /kasa/ es una secuencia vacía (Malmberg: 1977. 54). Destutt de Tracy (1817: 307) en parecidos términos afirma que las palabras, signos de nuestras ideas, no tienen valor fuera de la relación que tienen con ellas, sin esto sólo serían un vano ruido. Benot (1889: 23) con respecto al carácter arbitrario o no del signo se sitúa en la convención, dada la condición artificial, y al mismo tiempo social, del lenguaje de la palabra: «El hombre enseña al niño el sistema complicadísimo que nos sirve de vehículo social». Todavía hace una precisión más para destacar la calidad no icónica del signo lingüístico (Benot 1889: 25): La palabra es meramente signo del objeto que representa no retrato suyo: así, la bandera española significa nuestra nacionalidad, sin ser España: así la medalla indica al catedrático, sin poder reemplazarlo. Pero la imagen fotográfica es signo y retrato de su original.
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Cita en la que de manera más o menos implícita diferencia lo que después con Peirce van a ser símbolos, índices e iconos: la palabra representa una cosa sin serla, como bandera; la medalla señala al catedrático, sin ponerse en su lugar, la fotografía es un icono, pues siendo signo retrata al objeto de referencia. Las palabras, para Benot, tienen un significado en sí mismas sin referencia a la realidad, pero los palabras son todas términos generales, que no pueden aplicarse a ningún objeto particular cuando hablamos, pues para poderse aplicarse a un referente cada palabra necesita ser limitada con otras palabras: «Hablar es sacar a las palabras de su generalidad limitando con otras palabras su extensión» (Benot 1889: 33): La palabra, limitada, circunscripta, determinada por la palabra, se particulariza, se singulariza, y hasta se individualiza de tal modo, que puede ya ser el representante de cada uno de los seres que pueblan el universo, de sus estados, actos y modificaciones características, especiales o personales.
Pero esto sólo es posible en los actos de habla donde las palabras se combinan con otras palabras formando masas elocutivas dentro de los enunciados: «El arte de hablar consiste en formar los nombres propios de los objetos de los actos que se les atribuye, o se les niega, o se les manda, o se investigan, o del estado que se les reconoce, pasión, relación, condiciones, etc.» (Benot 1888:119), como trata de reflejar Hurtado (2002: 47) en esta cita que corresponde a Breves apuntes sobre los casos y las oraciones. 5.1 Mutabilidad del signo Directamente relacionada con la arbitrariedad en Saussure hay que considerar, como él hace, la mutabilidad del signo. Propiciada, precisamente, por aquella, hay que enmarcarla en el carácter social, que se incorpora a los signos y la incidencia del tiempo, que los cambia. En Benot (1889: 53) el problema se presenta y explica de manera llamativa vinculado a la etimología, como se trató en los orígenes, con un planteamiento inteligente: «En las lenguas primitivas no hay palabras abstractas, y por eso se dice que el lenguaje de los pueblos adelantados es una poesía fósil […]. Es preciso no ver en imagen, sino en idea». A través de esta solución implícitamente supone un origen natural del lenguaje, donde las voces se unen naturalmente a hechos materiales, que sólo se cargarán de significados muy elaborados de la inteligencia humana, «cuando las multitudes espontáneamente han olvidado la significación etimológica» (Benot 1889: 62). Los cambios en los signos pueden afectar al sonido o al sentido, que como dice Saussure, además de ello, desplaza la relación entre significante y significado.
6. El sistema Para Benot lo verdaderamente sorprendente y poderoso en el lenguaje es el sistema. Podríamos pensar que en esto coincide con Saussure, pero su concepción, que le viene de
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Condillac y Destutt de Tracy, es de otra índole. Conectando con los apartados precedentes acotamos del autor gaditano (Benot 1889: 33) que: Únicamente un sistema de pocos signos podía suplir al infinito de palabras necesario, en otro caso, para hablar del infinito de los objetos y del infinito de sus estados, actos, influjos y modificaciones. Ahora bien: ¿Cómo son esos signos?¿Cuál es ese sistema?
A los signos nos hemos referido; el sistema no es un sistema formal al estilo saussureano, donde lo que cuenta es el valor que los signos adquieren en la lengua y no en el lenguaje, a través de un juego de oposiciones y correspondencias, independiente de los individuos, socialmente asumido, frente al habla que es asistemática, como aclara A. Alonso (1971[=1945]: 11). Deslindada como objeto de estudio: ‹la lengua›, un autónomo sistema de signos, separado de su uso e independiente de los individuos que lo usan. Los otros aspectos se pueden también estudiar, pero como meramente adicionales, como ‹externos› a la lengua y por tanto a la lingüística.
‹Valor›, que en opinión de Benveniste (1966: 54) no es absoluto, sino relativo. Los signos mantienen una relación de necesidad de unos con respecto a otros. Benot acude al sistema numérico para explicarlo, dentro del cual las cifras tienen un valor absoluto, y otro relativo al combinarse con las demás. También Condillac (1780: 144-ss) y Jaime Balmes (1846: 200) se apoyan en el sistema numérico. Para Condillac (1780: 96) los conocimientos forman un sistema, donde todo está ligado desde las sensaciones, origen de todo sistema. Las ideas las agrupamos en clases, éstas se multiplican y forman un sistema perfectamente ordenado de manera paralela al orden con que el Autor de la Naturaleza nos formó. Para Destutt de Tracy (1817: 509) todo lo que representa nuestras ideas es un signo y todo sistema de signos es una lengua o un lenguaje, sea de signos lingüísticos en sentido estricto o de otros signos: gestos, etc. Benot supera el ámbito de las ideas, en tanto que su concepción del sistema es la que lo justifica como instrumento para hablar, para formar enunciados que necesariamente han de referirse a algo (1910: 415). Las palabras sólo adquieren operatividad en los enunciados, fuera de ellos son abstracciones (1910: 92). Cuando hablamos lo hacemos de cosas individuales, por lo que hemos de echar mano de las expresiones referenciales definidas. Benot sitúa la operatividad del sistema en la referencia, donde lo general se determina con lo general, y así asignar nombres propios a los objetos individualizados en la denotación (Díaz / Penedés 2002). No habría sido posible hablar si hubiéramos tenido que dotar de un nombre propio a cada objeto y de otros distintos a los cambios de dicho objeto (Benot 1910: 19): Sólo con un sistema es posible hablar: con un sistema que, por medio de un número de vocablos relativamente reducido, sea susceptible de combinaciones innumerables sin término ni fin. Así, a las pocas cifras de la numeración decimal es dado expresar por medio de un sistema todos los guarismos de la inacabable escala de la pluralidad.
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Gonçalo Fernandes (UTAD / CEL)
A Arte para en breve saber Latin (Salamanca 1595) de Francisco Sánchez de las Brozas e a Arte de Grammatica, pera em breve saber Latim (Lisboa 1610) de Pedro Sánchez
1. Introdução Francisco Sánchez de las Brozas (1523-1600), filho de Francisco Núñez e Leonor Díez, sobrinho, por parte da mãe, de Rodrigo Sánchez, prior de Óbidos, capelão da rainha D.ª Catarina da Áustria ou de Habsburgo (1507-1578), esposa do rei D. João III (1502-1557), e mestre de Latim da infanta D.ª Maria Manuela (1527-1545), futura esposa do seu primo Filipe I de Portugal e II de Espanha (1527-1598), sobrinho ainda de Pedro Sánchez (ca.1511ca.1580), «notável poeta novilatino» (Ramalho 1980: 237), e de Salvador Sánchez, pai de Pedro Sánchez, nasceu numa aldeia da província de Cáceres, chamada Las Brozas, terra natal de sua mãe, onde permaneceu até 1534. Entre os 11 e os 20 anos, viveu em Portugal, como pajem1 da rainha D.ª Catarina e do rei D. João III, estudou Humanidades em Évora até aos 14 anos e prosseguiu os estudos em Lisboa, até aos 20 anos, para onde se havia mudado a corte portuguesa. Em 1543 regressou a Espanha, acompanhando o séquito da infanta D.ª Maria para Valladolid, mas, com a morte prematura da rainha, em 1545, Francisco Sánchez deixou a corte e instalou-se em Salamanca, doutorando-se em Humanidades na Universidade de Valladolid, em 1551. Em 1554 foi nomeado Regente de Retórica no Colégio Trilingue, em 1573 ocupou a Cátedra de Retórica na Universidade de Salamanca, em 1576 ficou também com a Cátedra de Grego e só em 1593, com 70 anos, ano em que se jubilou, a de Latim, não chegando, por isso, a exercer. O Brocense faleceu a 5 de Dezembro de 1600, em casa do seu filho Lorenzo, médico em Valladolid. Por seu lado, Pedro Sánchez (?-1635) era filho de Salvador Sánchez, sobrinho de Pedro e Rodrigo Sánchez, com quem viveu em Óbidos e por quem foi educado (Machado 1752: 616), e, por isso, também sobrinho de Leonor Díez e primo de Francisco Sánchez de las Brozas. Foi bacharel em Teologia, organista e compositor de músicas religiosas, professor dos rudimentos de Latim em Óbidos e Beneficiado na Igreja de Santa Maria de Óbidos, tendo falecido a 13 de Abril de 1635, em Lisboa, em casa de um primo, Pedro Sánchez Farinha. Há documentos na Torre do Tombo que referem um Francisco Sánchez como luveiro de D.ª Catarina, mas, até esta fase das investigações, não foi possível sabermos se se trata da mesma pessoa.
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Apesar das dúvidas levantadas por Costa Ramalho sobre o grau de parentesco entre o filho de Pedro Sánchez, irmão de Rodrigo e de Salvador Sánchez, e o Brocense, na análise que fez a uma carta de 20 de Dezembro de 1559 de Pedro Sánchez a seu filho Luís, que, à data, estudava no Colégio das Artes em Coimbra, em que se refere ao Brocense como «est et Brocensis tibi sanguine iunctus auito», que traduz por «é o Brocense teu parente pelo sangue de antepassados» (Ramalho 1980: 238), parece-nos hoje seguro que Pedro Sánchez e Francisco Sánchez são, de facto, primos em primeiro grau, e que o sintagma usado pelo próprio, na dedicatória da gramática, «…Francisci Sanctii Brocensis, consanguinei mei» (Sánchez 2008: 7) deve ser interpretado em sentido estrito, isto é, «…Francisco Sánchez Brocense, meu consanguíneo».
2. Arte para en breve saber Latin (Salamanca 1595) Francisco Sánchez de las Brozas publicou uma gramática latina sintetizada, pelo menos oito vezes, ao longo de 33 anos, entre 1562 e 1595, segundo Jesús María Liaño Pacheco, a que deu o título mutatis mutandis de Verae breuesque grammatices latinae institutiones. Na edição de 1595, o título é acrescido de caeteres fallaces & prolixae. Estas Institutiones no reflejan la edición abreviada de 1576, sino la de 1566, aunque se aprovechó la licencia dada entonces como consta expresamente en el párrafo que precede a la aprobación (Liaño Pacheco 1971b: 203).
Com efeito, apesar de publicadas em 1595, oito anos, portanto, depois da Minerva seu de causis linguae Latinae (Salamanca 1587), o Brocense segue a divisão das partes orationis anterior, isto é, em seis classes: Voces numeri participes sunt, Nomen, Verbum, Participium. Expertes numeri: Praepositio, Aduerbium, Coniunctio. Quae partes orationis appelantur (Sánchez de las Brozas 1595a: 12r),
quando na edição definitiva da Minerva as partes do discurso eram apenas 3, nome, verbo e partículas (Sánchez de las Brozas 1587: 10r.), dividindo estas em preposição, advérbio e conjunção, retirando, por isso, o particípio como parte do discurso autónoma, que introduz novamente nas Institutiones, como Participium est vox particeps numeri casualis, tempus, & constructionem a verbo ducens: Amans, amaturus, in actiua omnia tempora adsignificant; sicut Amatus, & amandus in passiua (Sánchez de las Brozas 1595a: 13v).
Curioso é o facto de, nas Annotatiunculae, fazer referência à Minerva de 1587, por algumas vezes: Quoniam Minerva nostra dilucide, vere, atque ordine Grammaticorum tenebras discuit: & praeceptorũ, quae hic traduntur, exactam reddit rationẽ: hic tantum aliqua, quae ad has institutiones explanandas spectant, obiter percurremus (Sánchez de las Brozas 1595a: 27r).
A Arte para en breve saber Latin (Salamanca 1595) de Francisco Sánchez de las Brozas
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Se dúvidas houvesse sobre a edição da Minerva, a que se estava a referir, as passagens seguintes são muito elucidativas: Datiuo sensu, vel sensui. Quam sit in vsu datiuus in V: abũde docet nostra Minerva lib. 3. cap. 9. vbi exploditur foetidum illud supinum in V (Sánchez de las Brozas 1595a: 27r); Nam in magna Tarento deest vrbs: in molle Tarentum, deest oppidum, vide Ellipsin, causas quare in Minerua. lib. I. cap. 8. (Sánchez de las Brozas 1595a: 28r).
Com efeito, o capítulo IX do Livro III da Minerva analisa o «Supinum in VM admittitur, in V. excluditur» (Sánchez de las Brozas 1587: 141r) e o capítulo VIII do Livro I a «de Declinatione» (Sánchez de las Brozas 1587: 23r). Em síntese, as Verae breuesque grammatices latinae institutiones, caeteres fallaces & prolixae são uma reedição das Institutiones de 1566, apesar de o Brocense ter aproveitado a licença de 1576, embora com algumas anotações finais que refletem parcialmente o pensamento linguístico da Minerva seu de causis linguae Latinae (Salamanca 1587). Por outro lado, ainda que defendesse há muito a utilização do Romance no processo de ensino-aprendizagem do Latim e de nas Verae breuesque grammatices latinae institutiones expusesse em Romance os capítulos sobre as declinações e os verbos, com a tradução inclusive dos tempos e das pessoas verbais, o Brocense nesta edição apresenta, entre os fólios 44 e 48, uma Arte para en breve saber Latin, totalmente em Romance, com os exemplos em Latim, e um excurso final, não paginado, de 4 fólios com uma síntese das regras da gramática latina em verso (Ponce de León 2008: 257), que Pedro Sánchez intitulou Breves quasdam grammaticae regulas Hispano carmine elaboratas in vulgus (Sánchez 2008: 7) e cuja designação vamos adotar. A Arte para en breve saber Latin está divida em apenas 3 capítulos. No primeiro, acerca Del provecho que se faça de la Grammatica en Romance, o Brocense justifica que a gramática latina para os primeiros anos de ensino, isto é, «en las escuelas de leer, i escriuir» (Sánchez de las Brozas 1595b: 45v), deve ser escrita em Romance, porque Mucho mejor se toma de memoria lo que se entiende, que no lo mal entẽdido, antes daña mucho decorar lo que no se entiende por los malos accentos que se pengan, i el gran trabajo con que se ganan. Mejor se passa de la lengua sabida a la no sabida, que de la ignorada a la trillada (Sánchez de las Brozas 1595b: 45r).
E acrescenta ainda que La Grãmatica es para deprender Latin, i si esta en Latin, el niño ha menester maestro que se la declare, de aqui nascen muchas difficultades, porque no siempre tiene el maestro a la mano, i quando lo tenga, tiene mucho trabajo en percibir aquella estrañeza, i para retenerla otro maior, i al fin faltando el maestro, el discipulo dexala lauor. I aun si esto se hiciesse seria suffrider o en alguna manera, pero es lastima de oir lo que passa, i dolor de escreuirlo, que hazen al niño decorar genero, i preteritos, i aũ toda el arte primero que le vengan a construir i declarar lo que alli se contiene (Sánchez de las Brozas 1595b: 45r).
O Brocense argumenta, contra os que defendem a aprendizagem direta em Latim, que até os gramáticos erram e usam de barbarismos vários:
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ninguna cosa se habla entre Grammaticos que sea Latin. Barbarismos son: Ego amo Deum: homo bonus: agricola bona: dico quod: animaduertendũ est quod: teneor facere, per casum quem quaeris per eundem respõdere teneris, i otras mil maldades que porque no se quedẽ encaxadas no las digo (Sánchez de las Brozas 1595b: 45v).
No entanto, o Brocense vai mesmo mais longe e defende a escrita da gramática elementar em verso, por forma a os alunos reterem melhor os conteúdos: No es possible menos, que en algun genero de versos, escrevirse el arte para el Latin, porque ansi se toma mas facilmente, i se retiene mejor. I no diga nadie que sera mas escura en verso, porque para quien no entiende la sentencia, todo es vno. I pues ansi como ansi, toda arte (…) tiene necessidad de maestro, mejor queda en verso que no en prosa (Sánchez de las Brozas 1595b: 45v – 46r).
O segundo capítulo das Verae breuesque grammatices latinae institutiones é dedicado às regras de pronúncia do Latim ou Reglas para perfectamente leer, i pronunciar Latin (Sánchez de las Brozas 1595b: 46v), onde o Brocense critica as pronúncias tradicionais espanhola (e portuguesa) e italiana ou eclesiástica, defendendo a pronúncia clássica, restaurada ou reconstituída, embora não lhe atribua esta designação, e a não utilização do ípsilon grego em palavras latinas. Com efeito, para Francisco Sánchez, no hai Cha, che, chi, cho, chu. Ni ça, ce, ci, ço, çu. Ni ya, ye, yi, yo, yu (…). la consonante no puede mudar el son que hiziere con la a: vt Ca, ce, ci, co, cu (…). Siempre se guarde el sonido de Ga, como Ga, ge, gi, go, gu (…). Ta, te, ti, to, tu, se diga siempre, aunque tras la ti, se siga vocal, vt gratia, iustitia (…). Los diphthongos han de sonar sus dos letras enteras en vn sonido (…), ansi se ha de dezir en Latin magnae petrae, mui differente de, magne petre. Coelum por el cielo, se ha de dezir (…), i quien bien lo pronuncia se escusa dos errores, el vno de pronunciar la C, por ç, que es gran barbarie, i el otro de quitar al diphthongo su virtud haziendo de oe, E (…). La letra y, es sola de los Griegos (…) i no se halla sino en nombres Griegos (Sánchez de las Brozas 1595b: 46v – 47r).
No terceiro capítulo, o Brocense analisa as particularidades da terceira declinação, incluindo as exceções e os nomes gregos. Particularmente interessante é o excurso final, com 4 fólios, frente e verso, a duas colunas, onde o Brocense apresenta uma síntese das regras gramaticais do Latim em verso de arte menor, com cinco ou sete sílabas, e a justificação de ser mais fácil a memorização por parte dos alunos. Começa assim: En el nombre de Dios Padre i Dios hijo celestial, I Dios Espiritu sancto comencemos a cantar Canciones, que hasta agora ninguno supo entonar (Sánchez de las Brozas 1595c: [49r]).
De seguida, apresenta uma definição de gramática e as suas partes: La Grammatica es vna arte de congruamente hablar Quatro passos, o escalones
A Arte para en breve saber Latin (Salamanca 1595) de Francisco Sánchez de las Brozas
parra ellos has de passar. Orthographia enseña letras, Diphthongos, i su amistad Valor de syllabas trata la Prosodia, o Quantidad Enseña la Analogia declinar, i conjugar. La quarta obra es Syntaxis que es construir, i ordenar (Sánchez de las Brozas 1595c: [49r]).
Sobre as partes do discurso, o Brocense refere o seguinte: Partes orationes sex sunt, Nomen, Verbum, Participium, Praepositio, Adverbium, Coniunctio. Todas vozes, o dictiones en dos partes partiras: Numero tienen tres dellas sin numero las demas. Dos numeros conocemos, son Singular, i Plural Petrus amat: hic docetur: cernitis mysteria. Nombre, Verbo, Participio con cuenta, i Numero van, Mas las otras tres postreras sin numero quedaran (Sánchez de las Brozas 1595c: [49r]).
E, depois, apresenta cada uma das seis partes: Nomen est vox particeps numeri casualis, cum genere: Ex quibus differentijs oritur declinatio. Tiene el nombre Cuenta, i casos Genero, i Declinacion I es señal con que nombramos todas las cosas que son (Sánchez de las Brozas 1595c: [49r]); Verbum est vox particeps numeri temporalis cum personis: Ex quibus differentijs oritur coniugatio. El verbo es voz que declara las obras de nuestra action. Por sus Numeros, i Tiempos, Personas, Coniugation. Tres tiempos hai naturales praesente, i el que passò I Futuro: mas en onze Minerua los dividio.
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Persona es mazcara, o cara, por entrambos numeros, Verbo Personal por ella, O Impersonal se nombrò (Sánchez de las Brozas 1595c: [49r]); Participios no diffieren de Adiectiuos, sino es Que rijen casos del Verbo, con tiempos alguna vez (Sánchez de las Brozas 1595c: [49v]); A estas praepositiones Accusatiuo dare Ad, apud, ante: cis, citra contra, circa: Ergase (Sánchez de las Brozas 1595c: [49v]); Aduerbio es como adiectiuo del verbo, vt circiter. Prope, proxime, vsque, procul, pone, secus, pridie (Sánchez de las Brozas 1595c: [49v]); Coniunction no ajunta casos, mas ata sentencias, Misi tibi, & ad amicos, literas lepidulas (Sánchez de las Brozas 1595c: [49v]).
Sobre a Sintaxe, o Brocense refere Construction es vn concierto de las partes entre si Que el Griego llama Syntaxis i es concordar i regir (Sánchez de las Brozas 1595c: [51r]).
Curioso é ainda o facto de o Brocense não ter colocado em verso nem em Romance os advérbios de lugar nem as figuras de construção e afirmar que estão bem nos fólios 25 verso e 26 recto, respetivamente, o que significa uma interrelação entre os dois textos, isto é, as Institutiones, a Arte e as Regulae: Las figuras de Construction no me parecio ponerlas en Romance, estan bien puestas en la Foja 26. Los aduerbios locales bien estan en la foja 25 a la buelta (Sánchez de las Brozas 1595c: [52r]).
3. Arte de Grammatica, pera em breve saber Latim (Lisboa 1610) Pedro Sánchez, por seu turno, primo do Brocense e educado pelo mesmo tio, Rodrigo Sánchez, como vimos, publicou a primeira gramática latina em português com o título sugestivo de Arte de Grammatica, pera em breve saber Latim: composta em lingoagem, e
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verso Portugues. Com hun breve vocabulario no cabo, & algũas phrases latinas. Apesar de só publicada em 1610, 15 anos depois, portanto, da do Brocense, esta já devia estar concluída em finais 1605 ou no primeiro trimestre de 1606, pois a licença do S. Ofício, assinada por Marcos Teixeira e Rui Pires da Veiga, é datada de 11 de Abril de 1606. Com efeito, ao contrário da Arte para en breve saber Latin do Brocense, que assume não ser a primeira gramática latina em Romance, mas a de Bernabé de Busto, publicada em Salamanca em 1532 (Sánchez de las Brozas 1595b: 46r), a Arte de Grammatica, pera em breve saber Latim de Pedro Sánchez é a primeira latina impressa escrita em português de que temos conhecimento2, e o seu autor também afirma não saber de qualquer outra: non me latet viros aliquos doctissimos hanc institisse viam; quorum tamen vulgares institutiones nullas adhuc ipse vidi, si vnas tãtum excipiam Francisci Sanctij Brocensis, consanguinei mei (Sánchez 2008: [7]).
O título não deixa quaisquer dúvidas sobre a fonte de inspiração no Brocense, especificamente a Arte para en breve saber Latin, mas Pedro Sánchez refere explicitamente as Regulae, quando afirma: quas [breues quasdam grammaticae regulas Hispano carmine elaboratas in vulgus] mihi im praesentiarum imitandas proposui: vt quemadmodũ ille iuuentuti Hispanae prodesse studuit, sic & ego prodessem Lusitanae, & si non ea eruditione, ingenijue dexteritate (Sánchez 2008: [7]-[8]).
Os fundamentos metodológicos e pedagógicos defendidos por Pedro Sánchez são, efetivamente, os do Brocense, a saber, a utilização da língua materna dos estudantes no processo de ensino-aprendizagem, a brevidade expositiva e a utilização do verso, para eles memorizarem melhor os preceitos gramaticais: Pello que cõ muita razão amoesta, & ensina Horacio na sua Poetica, ð toda a Arte seja breue; porð assi se apprende com mais facilidade, & se conserua milhor na memoria (Sánchez 2008: [10]); ajuntey os preceitos, & regras de grãmatica ðme parecerão mais necessarios em verso, & lingua vulgar pera mais claridade, & firmeza da memoria, cõ os exẽplos em Latim. Não procurey buscar no verso muitos consoantes, porð como eu pretenda dar breues regras, & claras; forçadamente o accarreto de consoantes, as farião prolixas, & escuras (Sánchez 2008: [10]-[11]); quanto mais se accrecenta na arte, tanto menos fica na memoria, ainda dos estudantes diligentes, como vemos por experiencia (Sánchez 2008: 15); Erro grande he cuydar, que as regras de Grãmatica se ensinarão milhor em Latim ð o discipulo não entende, ð na lingoa propria sua: donde vemos que pera milhor, & mais breue entendimento da lingoa Grega, se faz a Arte em Latim, pera quem ja o sabe, cõ os exemplos em Grego: & se tudo fosse Grego, seria nunca acabar. Nem basta dizer, que pois o discipulo ha de saber Latim, que bom serà logo começar a entendello pellas regras da Arte (Sánchez 2008: [11]-[12]); O manuscrito Digby 26, de origem portuguesa do século XIV, da Bodleian Library da Universidade de Oxford, tem entre os fólios 76r e 82v as Reglas pera enformarmos os menỹos en latin, que, não sendo uma gramática completa, faz uma apresentação normativa, breve e simples, do funcionamento linguístico do Latim.
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Inda que a arte mais he pera o entendimẽto do Latim que se acha nos bõs authores, que não pera o escreuer, nem fallar: porque pella imitação dos Oradores, Hystoriadores, & Poetas se escreue, & falla milhor a lingoa Latina, ð pellas regras da Arte. Ia o fallar Latim de repẽte he cousa muyto perjudicial, porque nem todo o Latim, que segundo as regras de grammatica se falla, he verdadeiro Latim: porque como diz Quintil. Aliud est Grammatice, aliud Latine loqui. Segundo as regras de grammatica, certas orações saõ Estas: Ego amo Deum. Dico quod hoc facere teneris. Tu videris bonus homo. Mas não se dizem em bom Latim (…). O que importa mais he entẽdello, & escrevello per imitação, como fizerão homẽs doctissimos de nossos tempos, ð nunca, ou de maravilha o fallauão (Sánchez 2008: [12]-[13]).
Apesar desta influência explícita, a fonte principal relativa aos conteúdos linguísticos é a De Institutione Grammatica Libri Tres do jesuíta madeirense Manuel Álvares (1526-1583), também assumida por Pedro Sánchez, embora tenha introduzido as alterações que considerou necessárias, especialmente por questões de natureza pedagógica: Em quasi toda a Arte sigo ao Padre Manuel Aluarez, por me parecer boa ordẽ a da sua, ajudandome tambẽ do nouo acrecentamento De modo (Sánchez 2008: [11]); Nas conjugações mudey, tirey, & accrecẽtey algũas lingoajẽs (Sánchez 2008: [13]); Dos modos (que fora milhor não pòr algum3) tirey o Optativo; acrecentando em seu lugar hum segundo imperfeito no conjunctiuo: porque na verdade esta particula Vtinam, que significa ò si, mais parece ser interjeyção, & cõjunção juntamente, do que parece aduerbio (Sánchez 2008: [14]).
Efetivamente, a gramática de Manuel Álvares já tinha uma grande repercussão em Portugal e seguia uma perspetiva mais tradicional, com menos ruturas epistemológicas que a do Brocense, pelo que a Arte de Pedro Sánchez podia servir como propedêutica ao estudo daquela, em anos mais avançados. Se o Brocense tinha começado a utilizar a técnica da apresentação sinóptica da morfologia latina, de modo a facilitar a aprendizagem do Latim, Pedro Sánchez oferece esquemas das declinações e das conjugações e uma síntese final com sufixos modotemporais, ensinando, dessa forma, aos estudantes que, sem terem de memorizar todos os verbos, podiam formar todos os tempos a partir dos paradigmas apresentados: Na formaçam dos verbos nam ha pera que cansar em mudar letras, & acrecentar syllabas: basta regular todos os verbos, pellos que estam postos por exemplo das quatro conjugações, aduertindo bem as letras que cada verbo tem no presente do Indicatiuo, pera dahi se deriuarẽ todos os modos, & tempos, tirando o praeterito perfeyto do Indicatiuo, & os que delle nacẽ, que sam o plusquam perfeito logo junto, & perfeyto do coniunctiuo, plusquam perfecto, & futuro, & o perfecto do Infinitiuo ð se acabam em Ram, Rim, Ro, Sem, se, vt Legeram, Legerim, Legero, Legissem. Legiste. O qual praeterito em muytos verbos muda a letra do presente, vt Fero, Tuli, Ago, Egi, Tollo, Sustuli, & c. Do Supino, se formam os participios em Vius, & os do praeterito passiuo (Sánchez 2008: [78]-[79]).
Neste ponto, nota-se uma proximidade ideológica com o Brocense. Veja-se o Cap. VII e o Cap. XIII do Livro I da Minerva, edição de 1562 e 1587, respetivamente.
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Também apresenta o esquema de alguns sufixos pessoais, quer da voz ativa, quer passiva, fazendo corresponder ‹-o›, na primeira coluna, a ‹-r›, na segunda, como «amo» e «amor» (1ª pessoa do singular do presente do indicativo); ‹-t› a ‹-ur›, como «amat» e «amatur» (3ª pessoa do singular do presente do indicativo), ‹-a›, ‹-e› e ‹-i› a ‹-re›, como «ama», «doce», «audi» e «amare», «docere», «audire» (2ª pessoa do singular do presente do imperativo) (Sánchez 2008: [79]). No entanto, um dos aspetos mais importantes da Arte de Grammatica, pera em breve saber Latim de Pedro Sánchez é a utilização do verso de cinco e de sete sílabas, por forma a os estudantes memorizarem melhor os conteúdos linguísticos, ou, pelas suas palavras, «pera mais claridade, & firmeza da memoria» (Sánchez 2008: [10]). Não perpassam toda a gramática, mas são predominantes no estudo da Sintaxe. Apenas a título de exemplo: Adjectiuo, & substantiuo Em tres cousas conuiràm, Genero, Numero, & Caso, Estas tres cousas serám (Sánchez 2008: [89]); Todo o verbo pessoal Que nam for do Infinitiuo, Sempre quer antes de si O caso Nominatiuo, Claramente, ou escondido (Sánchez 2008: [141]); Relatiuo, Qui, Quae, Quod, Posto antes do Antecedente Concordaràm juntamente Em genero, & numero, E em caso conueniente (Sánchez 2008: [143]); Se dous nomes substatiuos, De diversa pretensam Se ajuntarem na oração, O segundo, he Genitiuo Denotando Possessam (Sánchez 2008: [145]); Substantiuo referido A louuor, ou a vituperio, Genitiuo, ou ablatiuo Tomarà por seu direito (Sánchez 2008: [147]); Adjectiuos, que Sciencia, Copia, Communicaçam, E o contrario significam Genitiuo tomaram (Sánchez 2008: [147]); Partitiuo, & Numeral, De partir, & de contar Pera si deuem tomar Genitiuo do plural (Sánchez 2008: [148]).
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4. Conclusão Por forma a auxiliar no processo de ensino-aprendizagem dos meninos de «las escuelas de leer, i escriuir» (Sánchez de las Brozas 1595b: 45v), Francisco Sánchez de las Brozas (15231600) redigiu alguns preceitos gramaticais em Romance nas Verae breuesque grammatices latinae institutiones, caeteres fallaces & prolixae (Salamanca 1595), a que apensou a Arte para en breve saber Latin e as [Breves quaedam grammaticae regulae Hispano carmine elaboratae in vulgus], um suplemento escrito em verso e em Romance, onde o Brocense reduz os preceitos gramaticais ao mínimo indispensável, para mais fácil memorização dos alunos. Inspirado nesta tripla obra, o seu primo «português», Pedro Sánchez (?-1635) escreveu a primeira gramática impressa latina em Português, a Arte de Grammatica, pera em breve saber Latim: composta em lingoagem, e verso Portugues. Com hun breve vocabulario no cabo, & algũas phrases latinas (Lisboa 1610), destinada também aos estudantes dos primeiros anos de latinidade, aliando a clareza expositiva a uma metodologia de fácil apreensão por parte do estudante, onde se destaca a apresentação das regras em verso, especialmente as referentes à sintaxe, e os quadros sintéticos, na morfologia, mas sem grandes ruturas epistemológicas, seguindo de perto a De Institutione Grammatica libri tres (Lisboa 1572), já com uma grande repercussão em Portugal.
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Maria Filomena Gonçalves (Universidade de Évora)
Sobre a projecção do método histórico-comparativo na gramática elementar portuguesa: a Gramatica Portugueza Elementar, fundada sobre o methodo historico-comparativo (1876)
1. Breve prólogo Neste trabalho analisa-se a aplicação do método histórico-comparativo à gramática escolar portuguesa, tomando como referência a Grammatica Portugueza Elementar, fundada sobre o methodo historico-comparativo. Publicada em 1876 por Teófilo Braga (1843-1924), escritor, professor e presidente da primeira República, esta obra é uma das primeiras tentativas de adaptação do novo método à gramática elementar da língua materna. Em ruptura com a orientação acientífica da gramática anterior, a gramática científica devia pautar-se pelos novos rumos das ciências da linguagem, acompanhando os recentes desenvolvimentos da filologia europeia, a alemã em particular. Assim, este estudo centra-se, por um lado, no processo de recepção desse método científico, que se projectou na concepção, na estrutura interna, na terminologia e nos conteúdos da gramática escolar portuguesa do último quartel do século XIX e, por outro lado, na renovação da gramática em conformidade com as reformas da educação fundamental e média.
2. A ciência linguística e o ensino da gramática O estudo das línguas conheceu, em Portugal, um ponto de viragem graças à publicação, em 1868, de A Lingua Portugueza. Phonologia, Etymologia e Syntaxe, obra pioneira na qual Francisco Adolfo Coelho (1847-1919) aplica à língua portuguesa, pela primeira vez, o método histórico-comparativo, distanciando-se, portanto, da perspectiva metafísica que a meados do século XIX ainda imperava na gramática da língua portuguesa e em outros estudos relativos a esta. Com efeito, embora na Europa –principalmente na Alemanha–, a meados de Oitocentos, uma nova ordem epistemológica já estivesse instalada na investigação linguística, a expansão dessa orientação não foi imediata, sobretudo em países periféricos
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como Portugal1, onde as ideias linguísticas, em especial as gramaticais, continuavam a ser de recorte filosófico ou geral, marcadas pelo hibridismo e, até aos anos 40 do século XIX, pela recepção da chamada Idéologie. Constituída a partir dos estudos fundadores de Bopp (1791-1867), Diez (1794-1876), Grimm (1785-1863) e Schleicher (1821-1868), a «linguística naturalista» (Desmet 1996; Auroux 2007), na esteira de ciências positivas como a botânica a biologia, assentava na observação das línguas em / por si mesmas (Desmet 2001), para tal adoptando o método comparativo. Na base da constituição da filologia como ciência linguística estava uma concepção radicalmente diferente da linguagem humana e do objecto língua, que deixou de ser analisado como representação do pensamento. Tal ruptura com o modelo anterior determinou uma intensa reflexão quer sobre a natureza e as relações genéticas / históricas entre as línguas naturais, quer sobre a própria ciência incumbida de tais estudos, e à qual Francisco Adolfo Coelho (Santos 2010: 178-198), seu introdutor em Portugal, na esteira dos mestres alemães, dava o nome de «glótica» (Coelho 1870) ou de «glotologia»2 (Coelho 1891a), e Leite de Vasconcelos, por sua vez, denominava simplesmente de «Filologia moderna» (Vasconcelos 1929: 886), variedade denominativa que além de indiciar a renovação metodológica em curso, traduz a procura da cientificidade (Gonçalves 2004). O primeiro intento de uma gramática «científica»3, elaborada em consonância com a nova orientação da investigação linguística4, regista-se em 1870, com a Grammatica practica da lingua portugueza (1870) de Augusto Epifânio da Silva Dias (1841-1916), cuja obra, «inspirada nas ideas modernas da Alemanha» (Vasconcelos 1929: 888), foi refundida em 18765, ano da morte de Diez e da publicação, em Portugal, da Grammatica Portugueza Em 1858, Evaristo Leoni (1804-1874) publica o Genio da língua portuguesa, ou causas racionaes e philologicas de todas as reformas e derivações da mesma língua. De acordo com Leite de Vasconcelos, deveria ser «cronològicamente a primeira obra do seguinte periodo, se Leoni tivesse conhecido Diez», cuja Grammatik tinha vindo a lume em 1836 (Vasconcelos 1929: 883). Sobre a obra de Leoni, cf. Hassler (2010). 2 Em sucessivas publicações, Adolfo Coelho foi reescrevendo e actualizando estudos anteriores, em todos revelando uma preocupação quase obsessiva com questões teóricas e metodológicas da ciência linguística e com a crítica à «filologia acientífica» dos seus contemporâneos. Tal interesse pelos fundamentos e limites epistemológicos dos estudos linguísticos traduz-se, de forma evidente, na reflexão sobre as denominações mais adequadas a uma ciência verdaderamente positiva e na própria evolução das posições do filólogo. 3 É de notar que já antes de 1868, ano em que F. Adolfo Coelho faz o corte com a filologia filosófica ou «metafísica» se registam intentos de actualização, ainda que o resultado de tais experiências fossem produtos híbridos do ponto de vista metodológico e teórico. Exemplo bem conhecido é a Grammatica Analytica da Lingua Portugueza (1832) de Solano Constâncio que, consoante demonstrou SchäferPriess (2002), se situa entre a gramática filosófica e a linguística histórico-comparativa. 4 Para o período científico dos estudos do português –o 4º na periodização de Vasconcelos (1929: 886890)–, Santos (2010), que inclui a gramática de Teófilo na bibliografia passiva, analisa um corpus constituído por apenas três gramáticas. 5 Leite de Vasconcelos (1929: 888) considera Epifânio da Silva Dias o «nosso primeiro gramático». A obra deste merece-lhe a seguinte apreciação crítica: A parte mais original do S.or Epiphanio Dias na sua Gramática é a Sintaxe, que pela primeira vez em Portugal recebeu foros de cidade em livros de aulas. Êste trabalho tem servido de modelo 1
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Elementar, fundada sobre o methodo historico-comparativo. Ressalvadas as referências que a ela fizeram Leite de Vasconcelos (1929), Boléo (1947), Machado (1971), Prista / Albino (1996) e Bechara (2007), esta gramática não está devidamente estudada nem quanto às ideias nela expostas, nem quanto à recepção do paradigma histórico-comparativo em Portugal. É claro que a transferência de metodologia e novas concepções para a gramática da língua materna –e as obras gramaticais de Epifânio e de Teófilo visavam precisamente os ensinos fundamental e médio–, não pode ser compreendida fora do contexto cultural, pedagógico e científico em que a gramática, como instrumento pedagógico-didáctico, foi produzida, nem do particular contexto –intelectual, ideológico e profissional– em que foram redigidas para um público escolar concreto. Importa por isso traçar um breve cenário do ensino em Portugal por forma a enquadrar a gramática, cujo ensino então praticamente se confundia com o da língua materna. Marcada pela revolução liberal e pela guerra civil, a primeira metade do século XIX caracteriza-se pela instabilidade política, período durante o qual se realizaram várias mudanças no sistema de ensino: num primeiro momento procedeu-se à reforma do ensino primário e à do ensino secundário, em cujo âmbito são criados em 1836 os Liceus, nos quais o ensino da gramática portuguesa era matéria obrigatória; num segundo momento, é criado o Conselho Superior de Instrução Pública, que tinha como missão fixar as matérias obrigatórias e aprovar os manuais escolares, e o Curso Superior de Letras (ambos em 1859), que entre as disciplinas leccionadas viria a ter a Filologia Comparada e, já em 1870, o Ministério da Instrução Pública (Carvalho 1986: 599-650). Como os manuais em circulação por volta de 1868, em especial as gramáticas, não se adequavam à renovação científica em curso, a redacção de textos actualizados à luz de uma filologia científica era um imperativo pedagógico-didáctico, motivo por que Epifânio Dias6 (1870) e Adolfo Coelho (1891b), filólogos de primeira linha da sua geração, publicaram gramáticas elementares. Idêntica motivação levou Teófilo Braga a publicar a Grammatica Portugueza Elementar, fundada sobre methodo histórico-comparativo, onde descreve o estado da gramática portuguesa e da investigação linguística nos seguintes termos (Braga 1876: VIII): Sob o domínio e disciplina escolar dos jesuítas, a Grammatica portugueza tornou a ser submettida aos promptuarios latinos e ás violencias da rhetorica; o padre Bento Pereira (1672) achou vocativo no pronome eu, genero neutro no pronome isto e isso; gerundios e supplementos de supinos nos verbos, e reduziu a syntaxe ás regras de concordância. Depois da reforma tentada por Pombal, a Grammatica de Lobato em nada levantou o estudo grammatical do portuguez, e sob a influencia abstracta das idéas de Condillac sobre a grammatica geral é que Jeronymo Soares Barbosa escreveu a sua Grammatica philosophica. Esta obra é a fonte de todas as grammaticas abreviadas ou praticas que se tem escripto em Portugal. Todas ellas peccam pela sua classificação dos factos a outras gramáticas, que porém ficam ainda muito longe dela, e de guia e ponto de referência a várias obras escolares. 6 No Prefácio à sua Grammatica da lingoa portugueza (1880), Epifânio (Dias 1880: 5) diz o seguinte: «Havendo nós posto em lingoagem e tirado a lume a grammatica latina do sábio dinamarquez Madvig, e tendo, pouco há, conjunctamente com o snr. J. Eduardo von Hafe, ordenado e publicado uma grammatica franceza que se baseia nos trabalhos do alemmão Plötz, necessário era haver uma grammatica portugueza elementar que, nas doutrinas geraes, se conformasse com aquellas obras. A este fim principalmente redigimos o livrinho que ora damos à estampa».
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linguísticos sem base racional, e ao mesmo tempo pelas explicações abstractas e auctoritarias, que tornaram a grammatica uma cousa mechanica.
Ora a principal mudança operada nestas gramáticas, na de Teófilo inclusive, consistiu na adopção de uma estrutura interna tripartida, na esteira da proposta de Adolfo Coelho, que em 1868 separara a etimologia do âmbito da morfologia, dividindo por isso A Lingua Portugueza em Phonologia, Etymologia, Morphologia e Syntaxe. Mas se das três gramáticas elementares aqui referidas é a Teófilo a que menos consenso mereceu tanto aos contemporâneos como à historiografia do século XX, poder-se-á perguntar qual o valor desta obra no contexto das ideias linguísticas em Portugal e, em particular, da gramaticografia em língua portuguesa. A esta pergunta se procura responder a seguir, começando por situar o autor e a obra.
3. A Grammatica Portugueza Elementar de Teófilo Braga 3.1. O autor e obra Teófilo Braga nasceu em Ponta Delgada (Açores) e cedo se destacou como historiador e estudioso da Literatura e das tradições populares portuguesas. Formado em Direito, dedicou a maior parte da sua vida ao estudo e ao ensino da Literatura, tendo exercido como professor no Curso Superior de Letras, entre 1872 e 1910, ano em que presidiu ao governo provisório da 1ª República, vindo depois, em 1915, a ser Presidente da República durante alguns meses. Seduzido pelo positivismo, cuja doutrina se reflecte na sua visão histórica e cultural, Teófilo foi um dos fundadores do periódico intitulado «O Positivismo» que tinha por missão difundir este ideal em Portugal. Homem polémico e muito contestado tanto pelos contemporâneos como pela historiografia do século XX, deixou uma vasta obra em que se inclui, entre outros manuais para o ensino, a Grammatica Portugueza Elementar, fundada sobre o methodo historico-comparativo, impressa na cidade do Porto em 1876, e de que não se conhece outra edição. 3.2. A recepção da Grammatica Portugueza Elementar A Grammatica Portugueza Elementar de Teófilo Braga não mereceu, como antes se disse, uma avaliação positiva por parte dos filólogos de finais do século XIX e, em geral, a avaliação crítica que dela se fez sublinha o facto de o autor ser mais um literato do que um filólogo ou linguista. Ao analisar os mais recentes avanços da filologia nacional, Leite de Vasconcelos sublinha nos seus Opúsculos (1929: 889) que, na Grammatica Portuguesa Elementar de Teófilo Braga havia sido menos feliz do que na aplicação de novas ideias à história literária.7 Escrevia José Leite de Vasconcelos (1929: 889): «Em 1876 deu à estampa o S.or D.or Th. Braga a sua Grammatica Port. Elementar, fundada sobre o methodo histórico-comparativo, á imitação da Gramm. Hist. de la langue française de Brachet; mas o conspícuo Professor do Curso Superior de Letras foi
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Também não lhe é mais favorável a apreciação de José Pedro Machado, que descreve a obra como mistura de gramática histórica, prática e normativa (Machado 1971) porque nela Teófilo procurou conciliar a história da língua, seguindo o modelo da Nouvelle grammaire française fondée sur l’histoire de langue à l’usage des établissements d’instruction secondaire, do francês Auguste Brachet (1844-1898), com a perspectiva normativa e prática inerente a uma gramática elementar. Embora a Grammatica Portugueza Elementar, fundada sobre o methodo histórico-comparativo não seja uma obra desconhecida da gramaticografia portuguesa, a verdade é que os actuais estudos da tradição gramatical não lhe têm prestado grande atenção, muito embora seja a primeira gramática a ostentar no título a referência ao método histórico-comparativo. Também terá passado despercebido o facto de o seu autor, para lá de adoptar a moderna estrutura tripartida, ter tentado aplicar a gramática histórica à perspectiva normativa, orientação bem diferente da seguida tanto na gramática prática de Epifânio8 como na de F. Adolfo Coelho (1891b), ambos mais habilitados do que Teófilo em matérias da natureza linguística. Embora a gramática de Teófilo, como texto didáctico, não tenha tido uma recepção comparável à de Epifânio, o simples intento de aplicar o método científico à gramática portuguesa elementar, independentemente do seu acerto ou rigor, já constitui em termos historiográficos um aspecto senão relevante pelo menos interessante na história das influências, da recepção e da difusão do método histórico-comparativo. Que no tempo de Teófilo e na historiografia subsequente esta gramática tenha sido desvalorizada devido à falta de rigor metodológico, não justifica que a historiografia actual passe ao lado de um texto que, afinal, revela como se processou a recepção e a assimilação de novas concepções e metodologias. 3.3. Os fundamentos Na «Advertencia» que serve de introdução à sua gramática, Teófilo justifica a aplicação do método histórico-comparativo nos seguintes termos: Desde que alcançámos um leve conhecimento do methodo comparativo da philologia moderna, e nos surprehenderam as descobertas operadas por esse methodo no campo das línguas românicas, sentimos um vivo desejo de o applicarmos a um exame completo da Grammatica da lingua portugueza (Braga 1876: VII).
Apesar de citar os estudos com que Adolfo Coelho havia introduzido a filologia científica e a gramática histórica em Portugal, a saber, a A Lingua Portugueza (1868), a Theoria da Conjugação em latim e portuguez (1871) e Questões da Lingua Portugueza (1874), Teófilo Braga sublinha que tais obras, mau grado o seu «seguro tino philologico», não serviam menos feliz nesta tentativa, do que na com que implantou cá, ou desenvolveu, o estudo critico da História literária, que constitue propriamente a especialidade dele, e ao mesmo tempo com outros trabalhos literários o tornou logo desde os verdes anos muito conhecido dentro e fora de Portugal». 8 Com efeito, a partir da Grammatica Pratica de 1870, Epifânio procedeu a várias actualizações e refundições da gramática. Assim, em 1876, vem a lume a Grammatica Pratica, com o título de Grammatica Portugueza para uso das aulas de instrucção primaria, com uma 2ª edição em 1878, e a terceira em 1880.
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[…] a causa do progresso no ensino da grammatica portugueza, porque a par das suas observações [de Coelho] sobre a nossa grammatica historica, devera ter reorganizado sobre esse criterio historico e comparativo uma grammatica elementar que expulsasse do ensino as repetidas parodias de Soares Barbosa. A necessidade instante d’esta de renovação nos forçou a encetarmos hoje esse trabalho, não com a auctoridade de philologo, mas com essa boa vontade que vence os maiores obstaculos (Braga 1876: VIII).
As palavras de Teófilo, que não alude à gramática prática de Epifânio, permitem supor que o autor desconhecia a renovação pedagógica já operada por este, cuja gramática não cita ou ignora propositadamente. Para Teófilo (1876: IX), a renovação gramatical consistia na adopção de uma estrutura tripartida, associada a uma terminologia própria, e em diferente concepção dos conteúdos de cada parte gramatical: Tomando para divisão fundamental da grammatica, as bases geraes por onde se analysa qualquer língua –os Sons, as Formas e as Construcções– rejeitamos essas velhas categorias irracionaes de Etymologia, Sintaxe, Prosodia e Orthographia, meramente tradicionaes.
O esquema tripartido era composto, como é sabido, pela Fonologia, a Morfologia e a Sintaxe. Por comparação com a anterior, na nova estrutura à Phonologia cabia tratar do vocalismo e do consonantismo, incluindo aspectos antes contemplados na Prosódia; na Morphologia, que consiste no estudo das formas, deixa de caber a Etimologia em cujo âmbito se estuda a derivação histórica das palavras; a Syntaxe, por sua vez, deixa de compreender a parte figurada, remetida agora para o estrito domínio da retórica ou «theoria do estylo»9 (Braga 1876: IX). Devido ao carácter arbitrário das suas regras, a ortografia deixou de integrar a estrutura canónica da gramática; no entanto, Téofilo inclui os «sinais ortográficos» (Braga 1786: 16-18) numa pequena secção da Fonologia e, ainda, umas Observações sobre a Ortografia Portugueza, nas duas páginas seguintes à Sintaxe (Braga 1876: 145-146). Teófilo considera a língua «um phenomeno natural e evolutivo», definindo a gramática como a «constituição regular e systematica da producção dos […] sons», da «forma das suas palavras» e da «reunião d’ellas em phrases ou contrucções» (Braga 1876: 1). Em termos estruturais, as 153 páginas da obra (incluindo índice e erratas), distribuem-se da seguinte maneira: 15 páginas tratam da Fonologia; a Morfologia, com a parte de leão, ocupa 107 páginas; a Sintaxe preenche apenas 16 páginas. 3.4. A estrutura A gramática de Teófilo Braga tem a seguinte organização interna: Fonologia
Morfologia
vogais /consoantes sílabas
palavras
Sintaxe proposições
No entanto, Teófilo (Braga 1874: 128) acrescenta alguma informação sobre a Syntaxe: «é considerada hoje por todos os philologos como não pertencendo á Grammatica, mas á theoria do Estylo; comprehende: a expressão abreviada (Ellipse); a expressão redundante (Pleonasmo); ou a fusão das palavras quando uma se regula por outra, postoque não estejam na mesma relação (Attracção)».
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No âmbito da Morfologia tratava das chamadas partes do discurso: Partes do Discurso nome substantivo / adjectivo / pronome / artigo / verbo e particípio / advérbio / preposição / conjunção /interjeição Já no no capítulo da Sintaxe a análise distinguia dois planos relacionais: o das palavras e o das proposições: Sintaxe palavras proposições concordância complemento independentes subordinadas
participais infinitivas conjuntivas relativas interrogativas
Embora se prescinda de uma análise pormenorizada do tratamento dado à morfologia e à sintaxe, é de realçar que não se encontra o conceito de complemento directo, já exposto na gramática de Epifânio, o que parece indicar que Teófilo, mais preocupado em utilizar, na esteira de Brachet, a história da língua para explicar as regras gramaticais, não havia assimilado verdadeiramente as novas concepções linguísticas e gramaticais. Este é, na verdade, o aspecto mais distintivo da gramática de Teófilo que, a despeito das imprecisões metodológicas, não deixa de ser um texto a ter em conta na história da recepção da filologia científica (Hassler 2010) e da transferência desta para a gramática portuguesa. No que tange à opção metodológica de Teófilo, é de realçar, por outro lado, que a ilustração dos assuntos é feita por meio de exemplos literários ou de exemplos forjados pelo autor, ponto em que Teófilo e Epifânio divergem, uma vez que este não optou por uma versão autorizada da gramática, não apresentando por isso exemplos extraídos dos autores portugueses. Não menos divergente é a opção de um e de outro filólogo relativamente à inclusão de dados históricos numa gramática elementar. Como referido acima, neste estudo põe-se de remissa a análise minuciosa dos conteúdos da morfologia e da sintaxe, atentando-se tão só em alguns aspectos da projecção do históricocomparativo, a saber, as referências ao método, as influências recebidas e as fontes utilizadas. 3.5. Referências ao método Na Grammatica de Teófilo Braga são muitas as menções ao método histórico-comparativo, à gramática histórica e à história da língua a propósito de diferentes matérias, com destaque para as seguintes: A origem histórica do s, como característico do plural é comum a muitas linguas românicas (Braga 1876: 26). […] provem do suffixo latino inus, cujo n para se conservar isempto da lei phonetica da queda da consoante medial, teve de se abrandar em nh […].
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O artigo é uma forma nova e caracteristica das línguas românicas; deriva-se do adjectivo ou pronome demonstrativo, começado a usar como tal na baixa latinidade (Braga 1876: 65). Para o caso em que d se conserva, como em tendes, vindes, pondes, explica Frederic Diez […] (Braga 1876: 72). A lingua portugueza da diversidade os perfeitos latinos tomou como seu typo geral e analógico o typo dos perfeitos dos verbos derivados em a-vi, e-vi, i-vi (Braga 1872: 77). Segundo Brachet (Nouvelle grammaire, p. 124) a desinencia re do infinito era para dar mais corpo á palavra. As formas italiana usual Essere, provençal Esser, e a antiga franceza Estre, explicam esta forma do infinito portuguez e hespanhol (Braga 1876: 92). A falta do critério histórico comparativo é que levou Filinto a propor este purismo artificial (Braga 1876: 119). Todas estas relações se exprimiam na syntaxe latina por meio de casos, suppridos nas línguas românicas pelas preposições (Braga 1876: 130).
Mas se a perspectiva histórica, por ser o terreno de eleição dos estudos comparativistas, vale dizer, da gramática histórica, percorre toda a parte relativa à Morfologia, já o mesmo não poderá dizer-se da Sintaxe, domínio em que Teófilo, sem fazer apelo a dados da história da língua, nem remeter para outras línguas românicas, se limita a expor as relações entre unidades sintácticas e a ilustrar a exposição com exemplos de autores portugueses. 3.5.1. Influências e fontes Embora o esquema estrutural da gramática de Teófilo seja o mesmo que Epifânio havia seguido na sua Grammatica Practica, não existe qualquer evidência de que aquele autor tenha sido influenciado por este, tanto mais que o modelo explicitamente assumido é a Nouvelle Grammaire Française, fondée sur l’histoire de la langue à l’usage des établissements de l’instruction secondaire, publicada por Auguste Brachet em 1872. Ora este gramático e pedagogo, que em 1867 já havia dado à estampa uma Grammaire historique de la langue française, também é conhecido por ter traduzido para francês, na década de 70 (1874-1876), junto com Alfred Morel-Fatio (1850-1924), a Grammatik der romanischen Sprachen de F. Diez, cuja perspectiva histórica, por sua vez, foi introduzida em França por Gaston Paris (1839-1903), antigo aluno do linguista alemão em Bona. Mercê do seu labor pedagógico e desta tradução, que tornou acessível um texto fundamental para a propagação do novo paradigma científico (Desmet / Swiggers 1992), Brachet contribuiu não só para a vulgarização das concepções da gramática histórica em França mas também para a transposição desta para manuais pedagógico-didácticos. Embora Teófilo se tenha inspirado em Brachet, é o alemão Diez quem lhe merece maior número de citações, conforme patenteia o rol de autoridades (12 remissões para este e 2 para Brachet). Recorre a Brachet ao tratar dos tempos compostos e do advérbio; a Diez, a propósito dos tritongos, dos sufixos diminutivos, da conjugação verbal, do mais-que-perfeito e do futuro em português.
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Além das remissões, Teófilo também traduz a Grammatik de Diez a partir da edição francesa realizada por Brachet, assim se demonstrando que a recepção das novas teorias não raro de fazia por via francesa. Com efeito, são vários os assuntos –veja-se o feminino dos adjectivos ou os pronomes pessoais–, a propósito dos quais Teófilo apresenta, em português, uma citação de Diez. Quanto aos filólogos portugueses, ao longo da sua gramática Teófilo remete apenas para Adolfo Coelho, o que se explica pelo facto de este filólogo ter publicado em 1871 uma Theoria da Conjugação em latim e portuguez. Estudo de grammatica comparativa, ainda assim unicamente quando expõe a conjugação dos verbos portugueses. As demais autoridades citadas são autores portugueses, clássicos sobretudo, alguns modernos também, mas nenhum contemporâneo do autor.
4. A modo de epílogo A Grammatica Portugueza Elementar de Teófilo Braga é um bom exemplo de que a transferência de um modelo teórico para a sociedade conhece transições e pontos de contacto que se manifestam ou revelam, quer nas influências explícitas ou implícitas, quer nas fontes declaradas ou não declaradas. Com efeito, independentemente do valor intrínseco desta gramática, parece evidente que ela permite reconstituir e interpretar as vias directas e indirectas da recepção de novos métodos e ideias, apesar da sua fraca repercussão tanto no meio filológico-linguístico como nos actuais estudos gramaticográficos. Ora na história da gramática portuguesa e na das ideias linguísticas em geral, a neutralidade historiográfica impõe que se atenda não só aos textos que conheceram grande recepção mas também àqueles que, tal como a Grammatica de Teófilo, não foram bem acolhidos pela comunidade ou, ainda, àqueles que não alinham com o modelo hegemónico. A Grammatica Portugueza Elementar, fundada sobre o methodo historico-comparativo é um desses elos esquecidos da cadeia de transmissão e difusão do método histórico-comparativo nas últimas décadas do século XIX.
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Rolf Kemmler (Universidade de Trás-os-Montes e Alto Douro)
Para a Receção da Gramática Geral em Portugal: a tradução portuguesa da Grammaire générale de Nicolas Beauzée
1. Introdução Quando, há cerca de nove anos, encontrámos o opúsculo manuscrito com a indicação de «Beausee Grammatica», pouco sabíamos da importância gramaticográfica da Grammaire générale, ou exposition raisonnée des éléments nécessaires du langage (1767), do autor francês Nicolas Beauzée (1717-1789), quer a nível da tradição francesa, quer a nível da sua importância para a escola portuguesa. Ora, tendo os principais aspetos da introdução da Grammaire générale na gramaticografia portuguesa sido estudados por Schäfer-Prieß (2001) podemos constatar que a influência explícita e implícita de Beauzée nos gramáticos portugueses das primeiras décadas do século XIX é maciça. Com efeito, se bem que ao longo do estudo magistral de Schäfer-Prieß (2000) bem como na obra mais recente de Santos (2010: 1046) sejam identificadas possíveis influências de Beauzée sobre os gramáticos portugueses até Soares Barbosa (sendo no entanto de notar que as definições do autor francês não tenham sido retomadas com a coerência desejável), a intensificação da preocupação contínua com a Grammaire générale nos anos vinte e trinta do século XIX parece-nos justificar a presunção que Beauzée podia ter efeitos sobre a produção gramatical posterior que até agora somente chegou a ser pouco estudada. Considerando, porém, que ambas as investigadoras tinham que restringir o corpus gramatical devido a considerações de pertinência, devemos constatar que um número considerável de textos metagramaticais teve de ser excluído deste estudo por as obras não se enquadrarem dentro da definição necessariamente estreita da ‹gramática propriamente dita› no sentido de Kemmler (2007: 378) e Schäfer-Prieß (2000: 1). As mesmas considerações de pertinência levaram Barbara Schäfer-Prieß a desconsiderar as gramáticas manuscritas, escolha imprescindível para quem queira apresentar uma panorâmica da gramaticografia portuguesa impressa. É inegável que as fontes manuscritas tendem a ser menos bem conhecidas, o que se deve, por um lado, à dificuldade geral de acesso a este tipo de material forçosamente raro e único, por outro lado, às dificuldades de leitura que estes textos oferecem aos estudiosos não preparados. No âmbito dos nossos trabalhos investigativos e editoriais relacionados com os monumentos manuscritos da tradição gramatical latino-portuguesa pretendemos, por isso, apresentar uma tradução inédita de alguns aspetos interessantes do primeiro volume da Grammaire générale. Esta tradução parcial foi realizada na primeira metade do século XIX pelo pintor e poeta João Albino Peixoto (1803-1891), natural da ilha de São Miguel (Açores), cujas vida e origens socioculturais tentaremos esboçar a seguir.
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2. João Albino Peixoto (1803-1891), tradutor de Beauzée Dado que as fontes continentais como Silva (1859, III: 283) somente fornecem um número muito reduzido de informações sobre o nosso autor hoje bastante desconhecido, tivemos de recorrer a uma fonte de natureza regional. Assim, a Enciclopédia Açoriana, sem explicitar as suas fontes, informa o seguinte: Peixoto, João Albino [N. Ribeira Grande, 5.8.1803 – m. ibidem, 12.7.1891] Poeta e pintor/ dourador. Na oficina do tio, José Caetano da Mota, aprendeu o ofício de ourives, aos doze anos de idade. Em 1819, deixou o mester para se dedicar ao estudo de latim, retórica e filosofia. Dez anos depois, iniciou o estudo de desenho e pintura com Vicente Malio, natural de Roma, que fixou residência durante algum tempo na Ribeira Grande. Após a saída do mestre, foi-lhe passada uma declaração, publicada na imprensa, referindo as suas aptidões. Posteriormente, aprendeu a técnica de dourar e restaurar painéis antigos com dois técnicos parisienses, estabelecidos em Ponta Delgada. A partir de 1846, comprou-lhes a oficina e todos os utensílios. Deixou obra espalhada por várias igrejas da ilha: capelas da igreja de Rabo de Peixe; a capela do Santíssimo da igreja do Rosário da Lagoa; a do Santíssimo da igreja da Conceição, da Ribeira Grande; a do Senhor dos Passos do Colégio, de Ponta Delgada; a de Nossa Senhora da Ajuda, na Bretanha, a de Nossa Senhora dos Prazeres, no Pico da Pedra e a de Nossa Senhora das Dores, em Porto Formoso. Já idoso, em 1865, trabalhou no posto fiscal do porto de Santa Iria da Ribeira Grande (Enes s.d.).
Conseguimos verificar a essência destas informações biográficas no âmbito das nossas investigações biográficas e arquivísticas em São Miguel. Consta para além disso que Peixoto fazia parte da media burgesia ribeira-grandense de então por ser proprietário e eleitor. Tendo casado com D. Maria Ricarda Botelho em 1844, deixou três filhos solteiros aquando da sua morte1. De entre o número considerável de opúsculos impressos deixados pelo nosso autor, nenhum deles permite presumir que o autor estivesse interessado em questões linguísticas ou mesmo gramaticais. Ao ser certo, porém, que o jovem João Albino Peixoto se tenha dedicado à sua educação desde 1819 até 1829, tudo leva a crer que não pudesse deixar de adquirir profundos conhecimentos nas humanidades, como era habitual no ensino anterior ao estabelecimento do ensino liceal em Portugal. Dado que a aprendizagem de línguas estrangeiras modernas não fazia parte do currículo da época, fica, no entanto, sem resposta a pergunta relacionada com a origem dos conhecimentos que o nosso tradutor tinha na língua francesa. Quanto ao manuscrito, os aspetos paleográficos levam a crer que a letra seja de uma pessoa que tenha aprendido a escrever em inícios do século XIX: observa-se uma mistura de alguns traços distintivos de finais do século XVIII, sendo o aspeto paleográfico geral marcadamente oitocentista, isto é, de inícios do século XIX. Além disso, o próprio texto manuscrito permite concluir que o autor, para além de saber português (que obviamente era a língua materna) e francês, também terá tido pelo menos algumas noções das línguas latina e talvez até grega, sem as quais dificilmente poderia ter reproduzido os exemplos naquelas línguas com a exatidão necessária para condizer ao original. Quanto às duas primeiras línguas, encontramse frequentes citações ao longo dos opúsculos do nosso autor. A autoria da obra é assumida explicitamente em duas referências dentro da segunda parte não paginada. A primeira referência é feita quando, numa espécie de subtítulo, o tradutor Para mais informações sobre a vida e a obra de João Albino Peixoto, veja-se Kemmler (2011: 183-193).
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atribui a autoria da tradução a si próprio: «Extractos da = Grammaire génerale &c. Par M. Beauzée &c... traduzidos por Joaõ Albino Peixoto» (Peixoto s.d.: fl. 1 r). Uma afirmação semelhante encontra-se no fim do opúsculo quando o autor afirma: «Traduzio para seu uso João Albino Peixoto» (Peixoto s.d.: fl. 34 r). Quer a possível inserção da elaboração da tradução no âmbito da formação do autor nos anos vinte do século XIX, quer os aspetos paleográficos, quer ainda a auto-atribuição da tradução pelo próprio João Albino Peixoto, levam-nos a considerar que o manuscrito tenha sido escrito pelo próprio ourives, pintor, dourador e autor miquelense, cujas atividades linguísticas até agora foram ignoradas.2 Para além disso, a nossa conclusão vem confirmada através das anotações manuscritas atribuíveis ao próprio autor nos dois opúsculos Peixoto (1859) e Peixoto (1860), bem como na documentação do posto fiscal de Santa Iria que conseguimos consultar na Biblioteca Pública e Arquivo Regional da Ponta Delgada. A confrontação entre a letra manuscrita no nosso manuscrito e os textos atribuíveis a João Albino Peixoto naquela biblioteca permitem-nos constatar que estes textos deverão ter sido escritos pela mesma pessoa, se bem que em épocas distintas.
3. O manuscrito: estrutura e conteúdo A tradução intitulada Beausee Grammatica consta de vários cadernos no formato 10,2 x 14,5 cm, encadernados em brochura junto com algumas folhas soltas. A capa num papel verde escuro marmorizado contemporâneo contém o título em duas linhas «Beausee / Grammatica» que nos serviu para a referência bibliográfica. A primeira parte de 14 páginas paginadas, intitulada «Da Gramatica [texto que falta] M. Beauzée»,3 consta de um caderno de oito páginas (págs. 1-8) e de três folhas soltas com seis páginas (págs. 9-14). A segunda parte não paginada e intitulada «Extractos da = Grammaire génerale &c. Par M. Beauzée &c... traduzidos por Joaõ Albino Peixoto (Peixoto s.d.: fl. 1 r)» consta de quatro cadernos de 16 páginas (fólios 1 r – 8 v, 9 r – 16 v, 17 r – 24 v, 25 r – 32 v), aos quais foram adicionadas duas folhas soltas (fólios 32 r – 34 r), apresentando um total de 34 fólios. O manuscrito não é datado e não traz nenhuma indicação relativa à sua procedência, pertencendo atualmente à nossa coleção particular por ter sido adquirido na secção de manuscritos de um alfarrabista em Lisboa cerca de 2002, não se sabendo nada sobre o percurso do manuscrito anteriormente à aquisição. Uma vez que se trata declaradamente de uma tradução, feita pelo próprio tradutor para fins de uso pessoal, pouco admira que o texto manuscrito nem sempre seja tão regular como seria de esperar, passando, sobretudo na segunda parte não paginada, a apresentar ocasionalmente a característica de um rascunho.
Por ser um texto manuscrito em posse particular não estranha que Cardoso (1994) não apresente nenhuma referência ao manuscrito ou ao tradutor. É da mesma forma coerente que Santos (2010) não manifesta qualquer conhecimento da tradução parcial de Beauzée para o português. 3 A primeira folha apresenta uma falta redonda de papel no tamanho de 3,2 x 2,1 cm. Dado que este pedaço de papel foi rasgado posteriormente à elaboração do manuscrito, não se pode saber o que teria sido escrito no trecho faltante. 2
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3.1. Beauzée traduzido ou a estrutura de uma tradução parcial A tradução limita-se ao primeiro tomo de Beauzée (1767) que trata sobretudo de aspetos prosódico-ortográficos e morfológicos. Como se pode verificar no quadro seguinte, o tradutor concentrou os seus esforços ao primeiro livro dedicado aos Éléments de la Parole: Beauzée (1767)
Peixoto (s. d.)
LIVRE I. Des éléments de la Parole PREFACE Introduction CHAPITRE. I. Des Voix simples & des lettres Voyelles
v-xlij 1-3 3-24
CHAPITRE II. De l’Hiatus, & des effets qu’il a occasionnés
24-43
CHAPITRE III. Des articulations & des lettres consonnes
43-90
CHAPITRE IV. Des Syllabes CHAPITRE V. De la Quantité des syllabes CHAPITRE VI. De l’Accent des syllabes CHAPITRE VII. De la Prosodie des mots CHAPITRE VIII. Des Lettres, de l’Alphabet & de l’Orthographe en général CHAPITRE IX. De l’assemblage des Lettres, & des manières de lire LIVRE II. Des élements de l’Oraison Introduction CHAPITRE. I. Des Noms CHAPITRE II. Des Pronoms CHAPITRE III. Des Adjectifs CHAPITRE IV. Des Verbes CHAPITRE V. Des mots supplétifs, qui sont les Prépositions & les Adverbes CHAPITRE VI. Des Conjonctions CHAPITRE VII. Des Interjections
91-115 115-133 134-154 154-166 166-199 199-231 232-234 235-258 258-287 287-391 392-513 514-563 563-603 604-619
1r-2v 2v 1-3 2v-4r 4-8 4r-4v 8-14 4 v - 12 r 12 r -15 v 15 v - 17 v 17 v - 18 r 18 r - 19 r 19 r - 21 v 21 v - 23 v 24 r - 24 v 24 v - 26 r 26 r - 27 v 27 v - 31 v 31 v - 33 r 33 v - 33 v 33 v – 34 r
O quadro permite a confirmação que de entre as 14 páginas e 34 fólios, a maior parte do manuscrito é dedicada aos conteúdos do primeiro livro do gramático francês. As considerações sobre as partes da oração, que constituem a principal parte do primeiro tomo de Beauzée (1767) somente são tratadas no espaço reduzido de dez fólios. A seguir, faremos uma breve apresentação de alguns trechos relacionados com as partes da oração.4 As características gráficas (ortografia, pontuação) do texto manuscrito serão mantidas. Com a exceção de para , serão desdobradas quaisquer abreviaturas, sendo o respetivo texto inserido em letras itálicas dentro de parênteses retos. Qualquer intervenção nossa no texto manuscrito será devidamente marcada por parênteses retos [ ]. Texto rasurado encontra-se em chaves { }, sendo identificado como tal quando seja ilegível. Qualquer texto adicionado no texto entrelinhas é sinalizado mediante o uso do chevron < >. Quaisquer negritos dentro de citações serão nossos.
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3.2. As partes da oração na tradução de João Albino Peixoto Após algumas considerações sobre as palavras em como sons físicos, desprovidos de significado, nas quais o texto algo mais detalhado de Beauzée (1767, I: 232) é reproduzido com bastantes reduções por Peixoto (s.d.: fl. 24 r), o tradutor procede a uma tradução do conceito da oração: Beauzée (1767, I: 233)
L’Oraison, dans le langage des grammairiens, c’est l’exercice actuel de la faculté de la parole appliqué à la manifestation des pensées. Le mot Oraison est tiré immédiatement du latin oratio; formé d’oratum, supin d’orare; & orare à une première origine dans le génitif oris du nom os (bouche), qui est le nom de l’instrument organique du matériel de la parole: orare, faire de l’organe de la bouche l’usage naturel pour exprimer sa pensée; oratio (Oraison) l’usage actuel de l’organe de la parole pour l’énonciation des pensées.
Peixoto (s.d: fls. 24 r – 24 v)
A Oraçao, na linguagem dos gramaticos, é o exercicio actual da faculdade da palavra aplicada á manifestaçaõ dos pensamentos. A palavra oração é tirada immediatamente do latim oratio, formada de oratum, supino de orare; e orare tem uma primeira origem no genitivo oris do nome os (boca), que é o nome do instrumento organico do material da palavra: orare fazendo orgão da boca o uzo natural, para exprimir seu pensamento; oratio (oraçaõ) o uzo actual do orgaõ da palavra para a enunciaçaõ dos pensamentos.
De forma evidente, estamos perante uma tradução bastante literal da definição racionalista do conceito de oração, relacionando a língua com os pensamentos como o faz Beauzée.5 Na definição do nome, torna-se, porém, óbvio que o tradutor nem sempre considera relevantes os mesmos trechos como nós o entenderíamos hoje no estudo deste grande monumento metalinguístico que é a obra de Beauzée: Beauzée (1767, I: 235)
Dès que l’on veut communiquer ses pensées, on se trouve dans l’obligation de faire connoître les êtres qui en sont les objets: on le fait par le moyen des Noms imposés à chaque chose; le Nom les rend reconnoissables, en rappelant à l’esprit l’idée de leur nature: NOMEN dictum quasi NOTAMEN, quod nobis vocabulo suo Notas efficiat; nisi enim NOMEN scieris, cognitio rerum perit. (e)* On peut donc dire que les Noms sont des mots qui expriment déterminément les êtres, en les désignant par l’idée de leur nature.
Peixoto (s.d: fl. 24 v)
Nomen dictum quasi Notamen, quod nobis vocabulo suo Notas efficiat; nisi enim nomen scieris, cognitio rerum perit. (Ididor [sic!] hispal.)
*Nota à margem direita: «(e) Isidro. hispal. Origin».
Onde Beauzée mantém a sua aproximação racionalista na definição do papel do nome, aproveitando-se da citação de S. Isidoro de Sevilha meramente para explicar o papel do nome com base na etimologia proposta pelo linguista medieval, o tradutor limita-se à reprodução Para mais informações sobre o termo de dentro da gramaticografia francesa e portuguesa, veja-se Schäfer-Prieß (2000: 111-114). Note-se, no entanto, que a ligação estabelecida entre língua e os pensamentos não é unicamente um traço da Grammaire génerale, encontrando-se considerações afins já na antiguidade clássica com Aristóteles (cf. Figge 1994: 652).
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da citação proposta por Beauzée. Como se vê na edição crítica moderna, o gramático alterou a pontuação do texto original, faltando a palavra res que foi estabelecida no texto definitivo: Nomen dictum quasi notamen, quod nobis vocabulo suo res notas efficiat. Nisi enim nomen scieris, cognitio rerum perit (Isidorus 1985, I: cap. VII).
Uma comparação da publicação integral das Etimologias isidorienses na edição algo anterior de Godefroy (uma coletânea de textos gramaticais latinos bastante divulgada em França desde finais do século XVI) parece confirmar que as alterações sejam a responsabilidade do gramático, uma vez que também considera um corte frásico entre efficiat e nisi: ¶ Nomen dictum quasi notamen, quòd nobis vocabulo suo notas efficiat. Nisi enim nomen scieris, cognitio rerum perit (Godefroy 1602: col. 823).
Na divisão do nome em e que remonta às categorias aristotélicas de vs (cf. Kemmler 2007: 395) e que, na tradição da Grammaire générale teve como precursores mais imediatos o espanhol Francisco Sánchez de las Brozas (cf. Lecointre 1992), bem como em França o abade Girard (cf. Schäfer-Prieß 2000: 139, Auroux 1992: 176) aproveita a distinção propriamente dita, sem aliás fazer uso das demonstrações que se seguem: Beauzée (1767, I: 264)
On regarde communément les noms comme un genre qui comprend deux espèces, les substantifs & les adjectifs; & l’on observe que de certains noms substantifs il se forme des adjectifs, comme de roi, royal; de terre, terrestre; &c. Or dans le systême des grammairiens qui raisonnent de la sorte le substantif primitif & l’adjectif qui en est dérivé sont également des noms: donc, disentils, meus, tuus, suus, &c. formés des génitifs mei, tui, sui, nostri, &c. des Pronoms ego, tu, sui, nos &c. sont aussi des Pronoms.
Peixoto (s.d: fl. 26 r)
Olhaõ-se commummente os nomes como um genero que comprehende duas especies, os substantivos, e os adjectivos; e observa-se que de certos nomes substantivos se formaõ adjectivos, como de rei real, de terra, terrestre &c.
Muitas vezes sem seguir à argumentação do gramático francês, o tradutor aproveita de trechos ocasionais, os quais não deixam de estranhar fora do contexto. Assim acontece com os seguintes trechos que na tradução são apresentados como trechos imediatamente seguidos: Beauzée (1767, I: 278)
Premierement, on n’a jamais employé notre il & notre elle comme un adjectif joint à quelque nom par apposition; jamais on n’a dit en françois il moi, il je, comme on dit en latin ille ego; ni il homme, elle femme, comme ille vir, illa mulier. Puisque il & elle ne peuvent être joints aux noms par apposition, & que c’est, comme on le verra bientôt, la principale destination des adjectifs; on ne doit donc pas, les regarder comme des adjectifs.
Peixoto (s.d: fl. 27 r) Nunca se diz em francez il moi, il je, como em latim ille ego; {O} ni il homme, elle feme [sic!], como em latim, ille vir, illa mulier &c...
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Beauzée (1767, I: 278)
Secondement, les noms en anglais n’ont point de genres, & avec raison, puisque les adjectifs y sont constamment indéclinables; cependant il ya un Pronom direct de la troisième personne pour le masculin, qui est hè, him, &. un pour le féminin, qui est shè, her. Il en est en françois comme en anglois de cette distinction: comme toutes sortes d’objets peuvent être à la troisième personne, c’est uniquement pour lever l’incertitude des applications, que l’idée principale du Pronom est modifiée par l’idée accessoire du genre, qui tient jusqu’à certain point à la nature des êtres; & la concordance grammaticale n’y a influé en rien.
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Peixoto (s.d: fl. 27 r)
Os nomes inglezes naõ tem generos, e com razaõ pois que os adjectivos saõ constantemente indeclinaveis; naõ obstante tem um pronome directo da terceira pessoa para o masculino que hè, him, e um para o femenino que é shè, her. . . . . . . . .
Ao passo que o gramático francês deixa claro que pretende esclarecer a diferença que distingue os pronomes pessoais dos adjetivos, a mera reprodução extracontextual destes dois trechos faz com que não se perceba o sentido da tradução. Beauzée (1767, I: 290-291)
Les Adjectifs sont donc des mots qui expriment des êtres indéterminés, en les désignant par une idée précise, mais accidentelle à la nature commune déterminément énoncée par les noms appellatifs auxquels on les joint. Les noms propres expriment des natures individuelles, que l’analyse n’a pas décomposées, & auxquelles par conséquent la synthèse n’a rien à ajoûter: la méthode synthétique n’est chargée que de combiner les idées élémentaires & générales; & voilà pourquoi les Adjectifs ne s’ajoûtent qu’aux noms appellatifs. Mais ces Adjectifs, n’exprimant les êtres que d’une manière indéterminée, n’ont un sens décidé qu’autant qu’ils sont effectivement appliqués à quelque nom appellatif, qu’ils supposent essenciellement. Or il n’y a que deux choses qui puissent être modifiées dans la signification des noms appellatifs, savoir la compréhension & l’étendue: de là deux espèces générales d’Adjectifs, que j’appellerai Adjectifs physiques & Articles.
Peixoto (s.d: fls. 27 v – 28 r)
Os Adjectivos saõ palavras pois que exprimem os seres (etres) indetreminados [sic!] designando os por uma determinada (précise), mas accidental {rasura ilegível} á natureza commum determinadamente enunciada por nomes appellativos aos quaes se lhes ajuntaõ. Os nomes proprios exprimem naturezas individuaes, que a analyse naõ tem desconcertado (decom posées), e as quaes por consequente a synthese naõ tem cousa alguma a ajuntar: o methodo sintetico naõ esta encarregado senaõ de combinar as ideas elementares e geraes; e eis-a que por que os adjectivos naõ se ajuntaõ senaõ aos nomes appellativos. Mas estes adjectivos, naõ exprimindo os entes senaõ de uma maneira indeterminada, naõ tem um sentido decidido senaõ tanto que elles saõ effectivam[en]te applicados a qualquer nome appellativo, que elles suppoem essencialmente. Ora naõ ha mais que duas, couzas que possaõ ser modificadas na significaçaõ dos nomes appellativos, saber a combrehensaõ [sic!] & a extensaõ: daqui duas especies de adjectivos, que chamarei Adjectivos phisicos, e Articulos.
Baseado no relacionamento que estas partes têm com os nomes próprios, o trecho trata da divisão dos adjetivos em (ou adjetivos propriamente ditos) face aos (ou artigos). A tradução permite-nos verificar os problemas com os quais o autor estava a lidar no estabelecimento da tradução. Para além de ocasionais gralhas como indetreminados ou combrehensaõ o texto conta com omissões (pois falta o termo de *idea claramente patente em Beauzée (1767, I: 291) «[...] en les désignant par une idée précise [...]»)
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ou mesmo com acréscimos no espaço entrelinhas (). Para além disso, ficam testemunhadas as incertezas explícitas e implícitas do tradutor. Assim, observa-se que ele costuma fazer acompanhar a tradução pelo termo francês em parênteses quando obviamente não tem certeza sobre a melhor escolha terminológica. Assim, o termo francês êtres é traduzido corretamente por seres, mas observa-se mais adiante que o tradutor usa igualmente o termo entes. Da mesma forma, Peixoto parece querer justificar a sua escolha em e . Além disso, ainda se observa o falso cognato qualquer por quelque, quando seria de esperar uma solução como *algum. Sendo o artigo incluído, como já se afirmou, na classe do adjetivo, também os esforços definitórios de Beauzée somente foram retomados de forma muito sumária: Beauzée (1767, I: 308-309)
1º. Les individus sont comme les membres du corps entier dont la nature est exprimée par le nom appellatif: or le mot grec arqron & le mot latin articulus, tous deux employés ici par les grammairiens, signifient également ces jointures, qui non seulement attachent les membres les uns aux autres, mais qui servent encore à les distinguer les uns des autres. Sous ce dernier aspect, le même mot peut servir avec succès à caractériser tous les Adjectifs qui, [309] sans toucher à la compréhension, ne servent qu’à la distinction plus ou moins précise des individus auxquels on applique le nom appellatif. 2º. L’un des Adjectifs compris dans cette classe est déjà en possession de ce nom dans les grammaires particulières de toutes les langues où il est usité. On connoît dans notre grammaire l’Article le, la, les; dans celle des italiens, il, lo, la; dans celle des espagnols, el, lo, la; dans celle des allemands der, die, das; en anglais the; en grec ; ; ; &c.
Peixoto (s.d: fl. 30 v) A palavra grega arqron (arton), e a palavra latina articulus, empregados aqui pelos grammaticos, significaõ igualmente estas juncturas, que naõ somente ataõ os membros da oraçaõ uns aos outros, que servem ainda a destinguilos uns dos outros. . . . . . . . . . . . . .
Articulos Francezes le, la, les: Italianos il, lo, la. Espanhoes el, lo, la. Alemaẽs: der, dir, das; Englezes the en [sic!] grego ; ; ; &c
Na definição do verbo, o tradutor concentra-se precisamente na noção da coexistência entre sujeito e atributo:6 É curioso que a definição que serviu de ponto-chave da definição do verbo (marcado por nós em negritos) em Schäfer-Prieß (2000: 191; 312) não se encontre devidamente aproveitada na tradução. Este texto original de Beauzée (1767, I: 395) reza: «Or c’est précisément l’idée de cette existence intellectuelle d’un sujet avec relation à un attribut, qui fait le caractère distinctif des Verbes, & qui en rend l’usage si fréquent: car il n’y a point de discours sans propositions; point de proposition qui n’exprime un jugement; point d’expression du jugement qui n’énonce un sujet déterminé, un attribut également déterminé, & l’existence intellectuelle du sujet avec relation à cet attribut; par conséquent point de proposition sans Verbe. L’idée de l’existence intellectuelle d’un sujet avec relation à un attribut est donc, non seulement le caractère distinctif du Verbe, mais encore ce qui en fait, entre tous les mots, le Mot par excellence, Verbum». Na tradução, Peixoto (s.d.: fl. 32 r) aproveita somente o início deste parágrafo: «Ora é precisamente a idea desta existencia intellectual de um sugeito com relação a um attributo, que faz o caracter distinctivo dos Verbos, e que faz o seu uzo taõ frequente...».
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Beauzée (1767, I: 402)
Je n’énoncerois, comme ont fait ces deux écrivains, que l’idée différencielle de l’objet défini, sans toucher à ce que les logiciens appellent le genre prochain: ainsi ma définition ne suffiroit pas pour expliquer tout ce qui appartient au Verbe. Je dis donc que les Verbes sont des mots qui expriment des êtres indéterminés, en les désignant par l’idée précise de l’existence intellectuelle avec relation à un attribut.
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Peixoto (s.d: fls. 32 r)
Eu (Beauzee) digo pois que os Verbos saõ palavras que exprimem entes indetreminados [sic], designando-os pela idea preciza da existencia intellectual com relaçaõ a um attributo.
Présent
Observa-se neste trecho que o tradutor habitualmente escreve quando traduz uma afirmação de uma opinião pessoal do gramático francês. A seguir às considerações seguintes sobre o sistema verbal, o tradutor reproduz os paradigmas verbais do presente, pretérito e futuro, dos quais por razões de espaço apenas analisaremos o relativo ao presente: indéfini antérieur postérieur
simple periodique
François je loue, je louois, je louai, je louerai,
Italien. lodo, lodava, lodái, lodéro,
Espagnol. alabo. alabáva. alabé. alabaré.
Prezente
(Beauzée 1767, I: 464). indefenido anterior posterior
simples periodico
louvo louvava louvai louvarei. (Peixoto s.d.: fl. 32 v).
O tradutor respeita a disposição do quadro original, limitando-se a traduzir o texto francês. No entanto, observa-se que, aparentemente não interessado no aspeto comparativo da gramática francesa, Peixoto deixa de lado as formas correspondentes em italiano e espanhol. De forma semelhante, nos três paradigmas seguintes, Peixoto (s.d.: fl. 33 r) volta a respeitar inteiramente a estrutura textual de Beauzée, traduzindo apenas as palavras francesas dos paradigmas da voz passiva do latim.
4. Conclusão O presente artigo visou trazer à memória um autor esquecido e um manuscrito oitocentista inédito. Conseguimos recordar as principais informações sobre João Albino Peixoto, um açoriano ribeira-grandense que chegou a adquirir uma sólida formação escolar para depois se dedicar a uma vida como pintor, dourador e oficial da alfândega –vida esta que alternava com a atividade cultural de escritor e poeta.
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Expusemos alguns dos aspetos mais importantes do manuscrito nas duas partes em que se conserva. Se bem que somente seja uma tradução parcial, julgamos que se trata de um documento linguístico único que merece destaque especial por ocupar-se de um dos monumentos metalinguísticos do século XVIII com o maior impacto na tradição gramatical europeia nesse século como no século seguinte. Tendo apresentado e analisado as traduções de alguns trechos escolhidos da tradução de Peixoto, sempre em confronto com os respetivos trechos do original francês, podemos afirmar, como resultado, que o tradutor procurou elaborar uma tradição preferentemente literal, ficando, porém, manifestas as ocasionais dificuldades de compreensão e de representação do texto francês que condicionavam o trabalho do jovem João Albino Peixoto e que talvez tenham levado ao facto de este esboço de uma tradução parcial para fins particulares ser mais breve do que o autor talvez tivesse intencionado…
5. Referências bibliográficas Auroux, Sylvain (1992): La catégorie de l’adjectif et les déterminants: l’apport de Beauzée. In: HEL 14, I (L’adjectif: Perspectives Historique et Typologique), 159-179. Beauzée, Nicolas (11767): Grammaire générale, ou exposition raisonnée des éléments nécessaires du langage, Pour servir de fondement à l’étude de toutes les langues (2 vols.). Paris: De l’imprimerie de J. Barbou. Cardoso, Simão (1994): Historiografia Gramatical (1500-1920): Língua Portuguesa - Autores Portugueses. Porto: Faculdade de Letras do Porto (Revista da Faculdade de Letras, Série Línguas e Literaturas; Anexo 7). Enes, Carlos (s.d.): Peixoto, João Albino. In: Enciclopédia Açoriana. In: http://pg.azores.gov.pt/drac/ cca/enciclopedia/ver.aspx?id=9367 (2010 12 06). Figge, Udo (1994): Sprache dient zum Ausdruck der Gedanken: Zur Geschichte einer Formulierung. In: Baum, Richard (éd.) (1994): Lingua et traditio: Geschichte der Sprachwissenschaft und der neueren Philologien: Festschrift für Hans Helmut Christmann. Tübingen: Gunter Narr Verlag, 651-665. Godefroy, Denis (1602): Avctores latinae lingvae in vnvm redacti corpvs: quorum auctorum veterum & neotericorum elenchum sequens pagina docebit. S. Gervasii: Apud Iacobum Chouët. Isidorus Hispaliensis (31985): Isidori Hispalensis Episcopi Etymologiarum sive Originum libri XX (2 vols.). Recognovit brevique adnotatione critica instruxit W. M. Lindsay. I-II. Oxonii: e Typographeo Clarendoniano. Kemmler, Rolf (2007): A Academia Orthográfica Portugueza na Lisboa do Século das Luzes: Vida, obras e actividades de João Pinheiro Freire da Cunha (1738-1811). Frankfurt am Main: Domus Editoria Europaea (Beihefte zu Lusorama; 1. Reihe, 12. Band). — (2011): João Albino Peixoto (1803-1891) - um poeta ribeira-grandense que traduziu Beauzée: Breve estudo biográfico-linguístico. In: Chrystello, J[osé] Chris (ed.): Atas / Anais do 16.º Colóquio da Lusofonia (Vila do Porto, Santa Maria, Açores): 30 de setembro a 5 de outubro 2011, CD-ROM, 182-203. Lecointre, Claire (1992): Omne nomen adjectivum habet suum substantivum: l’adjectif et la constitution de l’énoncé dans la grammaire sanctienne». In: HEL 14, I (L’adjectif: Perspectives Historique et Typologique), 123-140. Le Guern, Michel (2009): Nicolas Beauzée, Grammairien Philosophe. Paris: Éditions Honoré Champion (Les Dix-Huitiemes Siecles, 131).
Para a Receção da Gramática Geral em Portugal: a tradução portuguesa da Grammaire générale
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Margarita Lliteras (Universidad de Valladolid) Contrastes románicos en el proceso de codificación del español
1. Presentación Este trabajo constituye una pequeña parte de una investigación más amplia que consiste en analizar los cambios que experimenta la aplicación de una metodología contrastiva entre el español y otras lenguas románicas para la codificación del español en los diferentes periodos de la tradición hispánica. Se asume la consideración de que las referencias al contraste del español con otras lenguas románicas forman parte del proceso de codificación de la lengua española, tanto en los aspectos léxicos como en los gramaticales y filológicos, en general. Sin embargo, también se advierte que cada uno de los periodos que constituyen la historia de la lingüística y la filología españolas ha dirigido su atención hacia la comparación del español con lenguas románicas diferentes y con muy diversos propósitos. En este sentido, cabría distinguir tres etapas: 1.ª) Los Siglos de Oro se caracterizan por un desplazamiento progresivo del latín hacia las comparaciones con el italiano, que sirve de modelo para los principales apologistas clásicos, como Pedro Mexía (c. 1499-1551), Ambrosio de Morales (1513-1591) o el propio Juan de Valdés (c. 1498-1541), entre otros. Sin embargo, los principales gramáticos de la época defienden en sus obras la supremacía del castellano frente al latín y a las lenguas románicas, frecuentemente con argumentos basados en la extensión y variedades del idioma, como Villalón (c. 1510-1562) y sobre todo Correas (1571-1631). Los autores de esta etapa trasladan al español los atributos de la lengua perfecta que poco antes habían sido proclamados para el italiano. 2.ª) El periodo racionalista de la historia filológica española se mueve entre la admiración hacia la lengua francesa y el interés de los ilustrados por formar el canon de autoridades españolas clásicas. En esta etapa, el discurso apologético tiende a ser sustituido por una incipiente gramática contrastiva románica, pero sobre todo focalizada en las comparaciones entre el español y el francés, especialmente en las obras de San Pedro (1723-1801), Garcés (1733-1805) o Capmany (1743-1813). 3.ª) Por último, la corriente descriptiva de la tradición española, que comienza con las aportaciones de Salvá (1786-1849) y Bello (1781-1865), proporciona una nueva finalidad al método contrastivo aplicado al análisis del español con respecto a otras lenguas románicas.
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Se avanza hacia la clasificación y descripción de las unidades gramaticales a partir de la observación de los comportamientos sintácticos que muestran los elementos equivalentes en las lenguas vecinas. Este procedimiento resulta especialmente útil para la codificación de algunos elementos determinantes (como los posesivos) o de algunas conjunciones y también para la explicación de las estructuras oracionales que introducen las diferentes partículas (como, por ejemplo, la descripción de las diferencias entre pero y aunque). En este estudio nos limitamos a contextualizar brevemente algunas referencias de los principales autores españoles sobre las relaciones de su lengua materna con el italiano, especialmente durante los Siglos de Oro y la Ilustración. Prescindimos aquí de los autores que dedican sus obras a la enseñanza del español a extranjeros.
2. El prestigio de la lengua italiana en España El reconocimiento de la presencia italiana en la lengua española y en la conciencia idiomática de los propios españoles (Gauger 2004) comienza a reflejarse en tratados sobre la lengua literaria desde el siglo XV, a menudo ligado a las preocupaciones etimológicas de sus autores o a su inclinación por los préstamos de origen italiano. Es el caso de D. Enrique de Villena, en su Arte de trobar (1415) o de Juan del Encina en el Cancionero (1496). Pero la atracción por la lengua italiana se intensifica especialmente a partir de los humanistas contemporáneos del emperador Carlos V (Verdonk 2004). Así, Juan de Valdés (c. 1498-1541) reúne en el Diálogo de la lengua (1535?) las dos tendencias antes apuntadas acerca del interés por las etimologías italianas y por la adopción de nuevos préstamos de esta lengua. Así, por una parte, observa el origen italiano de la serie jornal, jornalero, jornada, que «han tomado principio del giorno que dezís acá en Italia» (1964 [1535?]: 37) y, por otra, se muestra partidario de la incorporación al español de palabras y acepciones italianas: De la lengua italiana desseo poderme aprovechar para la lengua castellana destos vocablos: facilitar, fantasía en la sinificación que lo tomáis acá, aspirar por tener ojo, como quien dize: Cada cardenal aspira al papado; dinar, entretener, discurrir y discurso, manejar y manejo, deseñar y deseño, ingeniar, por inventar con el ingenio, servitud, novela y novelar, cómodo e incómodo, comodidad, solacio, martelo, porque no parece que es lo mesmo que celos, pedante y assassinar (1964 [1535?]: 138).
Pero el Diálogo de la lengua aporta más testimonios de interés. De hecho, es la primera obra dedicada a la difusión de la lengua española en Italia (Beccaria 1968; Croce 1895, 1915; Fernández Murga 1971). Con esta finalidad, Valdés pone en práctica el método contrastivo tanto en los aspectos léxicos de ambos idiomas como en la relación que estos guardan con el latín. En esta línea, el autor dedica atención a las variantes sinonímicas del castellano más próximas al vocabulario italiano con el siguiente propósito: Que voy siempre acomodando las palabras castellanas con las italianas, y las maneras de dezir de la una lengua con las de la otra, de manera que sin apartarme del castellano sea mejor entendido del italiano (1964 [1535?]: 146).
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No trata Valdés de detectar italianismos en el castellano, sino de mostrar las semejanzas léxicas e incluso fraseológicas en casos como anillo, salario, enfermo, de cada canto, fenestra, conviene, comprar, letra, hinojos, lecho. Por el contrario, los sinónimos castellanos de estas palabras no formarían parte del vocabulario que Valdés cree común con el italiano, como serían, respectivamente, sortija, acostamiento, doliente, de cada parte, ventana, cumple, mercar, carta, rodillas, cama. En boca de su personaje, prosigue con otros pares de palabras ajustadas a la comparación con el vocabulario modélico italiano: Valdés.- Antes digo planto que lloro, antes candela que vela, antes tapete que alhombra, antes abrasar que quemar, antes máxcara que carátula, antes cuello que pescueço, antes roña que sarna, antes presto que aína, antes segur que hacha, y antes antorcha que hacha, antes acostumbrar que soler, antes digo de buena voluntad que de buen talante, y antes jardín que vergel, y antes favorecido que privado, y antes demandar que pedir, y antes can que perro (1964 [1535?]: 150).
El Diálogo de la lengua refleja además la idea generalizada en la época de la superioridad del italiano frente al castellano en virtud de las dos teorías renacentistas sobre la dignidad de lenguas que igualmente habían inspirado a Antonio de Nebrija 1444?-1522): la teoría de la corrupción y la tesis del cultivo literario. Para Valdés, el castellano procede de una corrupción del latín, mientras que el vocabulario italiano conserva menos alterada la lengua originaria: Aviendo considerado bien estas tres lenguas, conviene a saber, latina, toscana y castellana, hallo que la lengua toscana tiene muchos más vocablos enteros latinos que la castellana, y que la castellana tiene muchos más vocablos corrompidos del latín que la toscana (1964 [1535?]: 185).
Por otro lado, en la práctica del contraste de lenguas basada en la dignificación literaria, Valdés también concede la preferencia al italiano frente al castellano por haber alcanzado su prestigio como lengua de expresión literaria fijada en el uso autorizado de los escritores: Valdés.- [...] Veo que la toscana stá ilustrada y enriquecida por un Boccaccio y un Petrarca, los quales, siendo buenos letrados, no solamente se preciaron de scrivir buenas cosas, pero procuraron escrivirlas con estilo muy propios y muy elegante, y como sabéis, la lengua castellana nunca ha tenido quien escriva en ella con tanto cuidado y miramiento quanto sería menester para que hombre [...] se pudiese aprovechar de su autoridad (1964 [1535?]: 10).
Entre los apologistas del español clásico resultaba inevitable la comparación con la cultura italiana en el empeño humanístico de dignificación de la lengua vulgar. Italia se constituye en el modelo principal para estos tratadistas de nuestro siglo XVI, sobre todo cuando descubren en sus contemporáneos italianos la herencia de la tradición clásica grecolatina dirigida ahora al cultivo literario de su propia lengua. Pedro Mexía (1499?1551), uno de los cronistas del emperador Carlos V, desarrolla en su Silva de varia lección (1540) un argumento muy utilizado también por otros humanistas españoles vinculados a la cultura italiana, como Garcilaso o Fray Luis de León, quienes reconocen el atraso literario de la lengua española en comparación con el ejemplo italiano, pese a que su lengua materna ha alcanzado las propiedades de las lenguas cultas. Sin embargo, la actitud crítica ante determinados italianismos, especialmente de la jerga militar, frecuente en los escritores de la época (Núñez de Velasco, Guillén de Castro,
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Cervantes, Góngora, entre otros), contrasta con la admiración que despierta la lengua italiana en la literatura apologética. Así, Ambrosio de Morales (1513-1591), en su Discurso sobre la lengua castellana (1585) elogia del ejemplo italiano la afición y el aprecio que sienten en Italia hacia el estudio de su lengua materna y el prestigio literario que han alcanzado los escritores en lengua toscana: En Sena ai escuela publica, donde se aprende por licion que se lee, i por exercicio que se hace, la lengua Toscana, i la gracia i primor en hablarla: i está esto assi proveido en aquella señoria, porque la pureza i elegancia de la lengua, que el tiempo i el uso suelen corromper, se conserve entera en algunos, i en ellos a lo menos permanezca sin mezcla de otro lenguage que la enturbie, i de alli mane limpia i clara a los demas (ápud Pastor 1929: 76).
La fascinación de Morales por el modelo italiano se manifiesta en otros dos aspectos centrales del pensamiento renacentista. Además de los maestros que enseñan el italiano en la escuela, el estudio de los clásicos grecolatinos persigue la finalidad de ennoblecer la elocuencia italiana, el arte de hablar con elegancia y propiedad, que ha alcanzado su perfección en las obras de los celebrados maestros italianos, Petrarca, Boccaccio, Bembo y Castiglione. Pero entre las pruebas más incontestables de este renacimiento español, Morales no puede pasar por alto los elogios a nuestro idioma por su capacidad de equipararse en la expresión y el contenido a la belleza literaria del italiano. Sin embargo, no solo el contraste en la traducción prueba la madurez literaria de la lengua, pues el castellano de la época, según Morales, rivaliza con el modelo italiano –y aun lo supera– en la confrontación poética tras las obras de Boscán y Garcilaso de la Vega, cuya perfección desafía incluso a los clásicos latinos. Es más, Ambrosio de Morales extiende la comparación no solo al estilo literario sino también a la lengua común. La correspondencia entre escritura y pronunciación, de acuerdo con la máxima de la naturalidad nebrisense «escribo como hablo», constituye uno de los argumentos principales en los que apoya Morales su defensa del castellano frente al italiano. Fernando de Herrera (1534-1597), uno de los principales imitadores de Petrarca, en sus Anotaciones a las Obras de Garcilaso de la Vega (1580) atribuye al español la grandeza de la lengua perfecta «que excede sin proporción a todas las vulgares», pero el término de la comparación entre idiomas vuelve a ser el italiano. Admite Herrera la superioridad del italiano en el desarrollo de la poesía lírica (Benedetto 1966-67), que corrió en paralelo con la supremacía militar de España, si bien defiende que la fusión de las letras al estilo italiano con las armas se remonta a los sonetos del Marqués de Santillana. Francisco de Medina (1544-1615) traslada a la lengua española las principales propiedades que el movimiento renacentista italiano había atribuido a la lengua toscana. En sus elogios a Garcilaso de la Vega, desarrolla la idea humanística de que la norma literaria del castellano depende de la imitación de los modelos italianos, equiparados, a su vez, con el clasicismo grecolatino: En las imitaciones sigue [Garcilaso] los passos de los mas celebrados autores Latinos i Toscanos; i trabajando alcançallos, se esfuerça con tan dichosa osadía, que no pocas vezes se les adelanta (ápud Pastor 1929: 116).
En el debate renacentista sobre la perfección de la lengua materna, el Doctor Viana desarrolla, ya en el siglo XVII, las claves de la rivalidad entre el castellano y el toscano con
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la finalidad de demostrar la superioridad de su propia lengua frente a la más admirada de todas las vulgares. La obligada comparación de las dos lenguas neolatinas se resuelve a favor del castellano por tres razones principales: la excelencia de la lengua literaria española, la versatilidad de nuestra lengua para adaptarse a la métrica italiana sin que esta consiga imitar los metros castellanos y la perfección del español en las traducciones clásicas, mientras que las versiones en italiano se desvían de este canon horaciano. La comparación entre el español y el italiano llegó a convertirse en una verdadera obsesión hasta bien entrado el siglo XVII, incluso entre los gramáticos más serios de la época. Gonzalo Correas (1571-1631) dedica el último capítulo de su monumental Arte de la lengua española castellana (1625) a la comparación del latín con el castellano. El autor trata de demostrar la superioridad del griego entre todas las lenguas conocidas. Pero entre las vulgares, el español supera al latín y, en su opinión, también al italiano, según la anécdota que relata a continuación: Viene a propósito aquel dicho vulgar a manera de rrefrán, en que se comparan las tres lenguas, Española, Italiana y Tudesca, diziendo que la serpiente en el paraíso terrenal habló en Tudesco quando engañó a Eva, i Eva en italiano, i Adán en Español, denotando la habla Española por varonil, habla de onbre varón, la Italiana de muxer feminina, la Tudesca no umana, mal sonante y dura (1954 [1625]: 491).
El último argumento aportado por el Maestro Correas para defender la superioridad de su lengua materna se refiere a la extensión incomparable que ha alcanzado el idioma: Porque fue i es comun nuestra Kastellana Española a toda España, que es maior más de un tercio que Italia. I áse extendido sumamente en estos ziento i veinte años por aquellas mui grandes provinzias del nuevo mundo de las Indias ozidentales i orientales, adonde dominan los Españoles: que casi no queda nada de orbe universo donde no aia llegado la notizia y xente española [...]. Sábese en Italia i Flandes i prezianse de saberla en Franzia, Ingalaterra i la alta Alemania, i en las costas de Africa (1954 [1625]: 494).
Afirma con razón Gómez Moreno (1994: 20) que a España llegó el humanismo italiano tanto como el mismo ímpetu nacionalista que lo alentaba: La peculiaridad española estriba en que nuestra Península no solo se aprovechó de las aportaciones de los humanistas italianos, como en el resto de Europa, sino que en gran medida supo asimilar su misma esencia nacionalista. De este modo, la lengua castellana compitió con la italiana en cuanto a la nobleza de su estirpe; junto a Cicerón, los españoles pusieron a Séneca [...]; en España, como en Italia, los aficionados a las antigüedades, aunque pocos, podrían extraer lecciones acerca de nuestra tierra, de nuestras gentes y un pasado que proclamaban glorioso.
3. Atributos de la lengua perfecta El Siglo de Oro español imita y, al mismo tiempo, compite con el modelo italiano mediante argumentos que, en términos generales, habían sido difundidos desde Italia para proclamar la autonomía de la lengua vulgar frente al latín. Se hacía necesario desafiar a la lengua clásica y
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difundir una nueva cultura en la lengua que permitiera afianzar la identidad nacional (Silvestri 2001). Los florilegios en defensa y exaltación del italiano se aplican una y otra vez al español, especialmente favorecido por una dimensión imperial que lo acerca al latín (Romera-Navarro 1929) y lo distingue, en cambio, de la situación italiana (Terracini 1992). Así, nuestros autores clásicos adaptan a la lengua del imperio desde la definición misma de la lengua vulgar como lengua materna hasta las propiedades del idioma común mediante razonamientos que, desde Italia, recorrían igualmente gran parte de Europa. La metáfora de la lengua materna transmitida por el uso y no aprendida por reglas, que se remonta a De vulgari eloquentia de Dante y a las Prose de Bembo, se reproduce en las obras de nuestros humanistas, como Luis Vives, Juan de Valdés, Pedro Mexía, Cristóbal de Villalón, Fray Luis de León, Martín de Viciana, Miguel de Cervantes, entre otros, quienes también se hacen eco de la necesidad de escribir en la lengua que todos entienden, según la recomendación de Leon Battista Alberti (1404-1472). Del mismo modo, los humanistas españoles trasladan a su lengua las propiedades dignas de elogio, atribuidas inicialmente al italiano o al latín por sus defensores. Así, el primer atributo de la lengua perfecta suele ser la copiosidad o riqueza, que Leon Battista Alberti reconocía para el latín. Pero esta cualidad se aplica reiteradamente al castellano mediante fórmulas que, en general, ponderan la superioridad de la lengua del imperio con relación al italiano y, por extensión, a todas las «humanas». Hernando del Castillo (1584) o Carrillo y Sotomayor (1611) reelaboran este motivo de alabanza. La capacidad es otro signo de la perfección idiomática, que había sido atribuido al italiano en el Commento de Lorenzo el Magnífico (1449-1492). También Castiglione (1478-1529) reitera la capacidad del italiano para convertirse en lengua literaria: «[la lingua] capace che in essa si scrivesse così bene come in qualsivoglia altra» (ápud Terracini 1992: 64). Tal florilegio, sin embargo, se convierte en uno de los atributos del castellano en las obras que, desde el Renacimiento hasta el Barroco, intentan defender la aptitud del romance para tratar de temas elevados en el estilo sublime del ornato retórico, tal como lo interpreta, entre otros autores, José Pellicer de Ossau (1672): La elocuencia en España se mira en nuestros tiempos en un auge tan superior que no hallará en el universo otra que sea tan fecunda, tan elegante ni tan capaz de tropos, figuras, alegorías, conceptos, equívocos, sales y todo género y especies de muy acrisolada retórica [...]. La lengua castellana [...] sufre la rueda de todas las ciencias y artes [...], sin que haya materia, por delicada, difícil y sutil que sea que no pueda tratarse y controvertirse en ella con decencia, primor, propiedad y majestad (ápud Bleiberg 1951: 182).
Finalmente, en la gravedad de la lengua vieron los humanistas italianos el legado más valioso de la Antigüedad hacia su lengua vulgar. Pero durante el siglo XVI en España, y en otros países europeos, se abre el debate sobre la más grave de las lenguas neolatinas en justa correspondencia con el más grave de los pueblos. Los preciados atributos recaen, naturalmente, en los propios escritores que recogen los nuevos vientos procedentes de Italia. Para Fernando de Herrera (1580), el español es lengua de hombres, graves y cortesanos, mientras que el italiano, blando y lascivo, es la lengua de las zalamerías y los halagos, propia de mujeres (Terracini 1979). Dice el anotador de las obras de Garcilaso: Los españoles, cuya lengua (sea lícito decir sin ofensa ajena lo que es manifiesto) es sin alguna comparación más grave y de mayor espíritu y magnificencia de todas las que más se estiman
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de las vulgares [...]. La lengua toscana está llena de diminutivos, con que se afemina y hace lasciva, y pierde la gravedad [...], la nuestra no los recibe sino con mucha dificultad.
4. Contrastes del español con el italiano en la Ilustración Aunque desde finales del siglo XVII la influencia francesa sobre la lengua y la cultura españolas desplazan la admiración por lo italiano de los siglos anteriores, el padre Feijóo (16761764) todavía elogia el prestigio de la literatura italiana, pero con una importante novedad que cuestiona la tesis renacentista de la corrupción. En efecto, el fraile benedictino considera que no hay propiamente criterios para proclamar la excelencia de una lengua sobre las demás, pues la proximidad al latín y, por tanto, el menor grado de corrupción con respecto a la lengua de origen, que daría la preferencia a la lengua italiana, no deja de ser una metáfora porque una vez formada y fijada la norma del nuevo idioma, «podría también suceder que, no obstante la corrupción del primer idioma, se engendrase otro más copioso y más elegante que aquel de donde trae su origen» (ápud Bleiberg 1951: 217). Desde finales del siglo XVIII, el movimiento ilustrado dirige su atención a la historia de la lengua con la finalidad de defender las excelencias del idioma patrio mediante los argumentos de antigüedad y monumentalidad literaria. En este contexto, la comparación con el italiano vuelve a estar presente en muchas páginas dieciochescas con la intención de examinar la perfección del español casi en los mismos términos de exaltación idiomática utilizados desde hacía dos siglos. El cambio más destacado reside ahora, no obstante, en las muestras de erudición historicista: se trata de probar la antigüedad de la norma culta castellana entendida como codificación del español literario. Antonio Capmany cree haberlo conseguido en sus Observaciones críticas sobre la excelencia de la lengua castellana (1786). El autor concede cierta preferencia al italiano en los aspectos secundarios, pero reserva para el castellano las pruebas incontestables de su superioridad (Capmany 1852 [1786]: 9-10): La melodiosa y rica lengua italiana [...] podrá llevar alguna ventaja á la española en la suavidad y acento y en las licencias para el lenguaje poético; pero en cuanto a la gala, número, armonía y gravedad, seguramente está la superioridad á favor de la nuestra, y sobre todo por lo que respecta a su antigüedad.
Tras su exposición sobre los principales autores italianos que desde Fortunio (1516) hasta el diccionario de la Crusca (1612) contribuyeron a ilustrar su lengua con tratados, diálogos, gramáticas, tesoros, vocabularios, ortografías, etc., Capmany concluye: A pesar de haber tenido desde principios del siglo XVI la lengua italiana más fortuna que la castellana en orden al género y número de críticos, gramáticos y humanistas que la ilustraron con ejemplos y preceptos, es innegable que la nuestra fue formada y cultivada en prosa y en verso más de un siglo antes, cuyas composiciones, aunque sencillas y toscas, manifiestan una grande antigüedad.
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En esta misma época se reanuda el debate sobre el purismo entre los ilustrados españoles. La tolerancia manifestada hacia los neologismos y extranjerismos dependía, según los tratadistas, de la prudencia de los hablantes que utilizan voces forasteras necesarias, sobre todo para la comunicación de las ciencias y las artes. La nueva discusión sobre los neologismos necesarios y los superfluos condujo también a la revisión y crítica de los italianismos que habían usado nuestros clásicos del Siglo de Oro. El jesuita aragonés Gregorio Garcés (17331805) compuso durante el destierro en la ciudad italiana de Ferrara su Fundamento del vigor y elegancia de la lengua castellana (1791), donde se refiere a la «jerigonza extranjera» durante la época de mayor contacto con Italia: En el siglo de oro de nuestro romance hubo íntima unión y trato ocasionado en gran parte del dominio español en Italia, con los literatos de esa nación, y el efecto fue pegársenos palabras de que no teníamos necesidad alguna. Óigase en este lugar el célebre D. Diego Hurtado de Mendoza, el cual, con la ocasión de adoptar conforme el uso que se iba introduciendo la palabra centinela recién venida de Italia, habla así [...]: «Lo que agora, dice, llamamos centinela, amigos de vocablos extranjeros, llamaban nuestros españoles, en la noche, escucha; en el día, atalaya; nombres harto más propios para su oficio» (Garcés 1833 [1791]: II, 7).
La imitación italianizante de nuestros clásicos justifica, a juicio de Garcés, la presencia de voces italianas en sus obras. No obstante, la permisividad de la época hacia los italianismos, favorecida por la admiración a los escritores clásicos de las dos penínsulas que mostraban los ilustrados, contrastaba con la intolerancia hacia los galicismos utilizados por los autores contemporáneos. Se defiende así la idea de que el francés contamina el castellano, mientras que el italiano lo enriquece no solo por la autoridad de quienes lo introducen sino también por la semejanza que guarda con nuestra lengua en la construcción sintáctica y aun en la estructura morfológica y fonética de las palabras. En este sentido, Garcés elogia los italianismos de Cervantes «por mostrarse festivo y sazonado» y seguidamente desarrolla su argumento: Si el trato con los literatos de Italia dio ocasión de introducirse en nuestra lengua palabras desconocidas; y esto á tiempo que se iba enriqueciendo por el exquisito gusto y limados escritos de doctos españoles [...], decidme, os ruego, ¿qué tal se habrá parado nuestro romance con el comercio [...] con los doctos franceses?, siendo su lengua, no ya como la italiana, hija muy parecida de la latina y hermana natural de la nuestra, sino tan diferente en la invariable colocación de sus partes y regular terminación de voces, extraño sonido de sílabas y diptongos [...] (Garcés 1833 [1791]: II, 8).
5. Los comienzos de la gramática descriptiva Los gramáticos descriptivos del siglo XIX aportan un par de consideraciones de interés. Por un lado, heredan de los ilustrados la aprobación de la presencia de italianismos léxicos en los escritores clásicos españoles, especialmente si estos habían residido en Italia. Pero por otra parte, la fundamentación de la doctrina gramatical en textos literarios procedentes de corpus de autoridades determinó un conocimiento más ajustado de las posibles influencias italianas en la sintaxis del español. Las obras cervantinas se revisan con atención, unas veces
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para justificar sus influencias de la lengua del Lacio, como en el caso de Salvá (1988 [118301849]: 723-724) y otras para comprobar que el contraste con el italiano no siempre puede atribuirse a un préstamo, pues también puede servir para legitimar un uso sintáctico autóctono de desarrollo paralelo en ambas lenguas, como en el caso de Bello (1981 [11847-51860]): § 1287) a propósito del empleo cervantino de y pues, que el gramático venezolano registra en autores anteriores sin influencia italiana. Pero quizá la mayor novedad en la gramática española del siglo XIX reside en el desarrollo de descripciones basadas en universales románicos. Bello recurre a menudo a este procedimiento para explicar aspectos sintácticos de las partículas correlativas (del tipo tanto...cuanto, así...como), las irregularidades verbales o las diferencias entre los llamados adverbios relativos y las conjunciones.
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Resumen y conclusiones El método contrastivo románico aplicado a la codificación del español constituye un punto de interés en los estudios de historiografía lingüística hispánica. Cada periodo histórico da preferencia a una lengua románica para el contraste con el español de acuerdo con principios y características propias. La historia de la comparación entre el español y el italiano comienza con la extensión de los tópicos renacentistas sobre la perfección del idioma, pero desemboca en un recurso de interés para las gramáticas descriptivas, que toman en consideración los aspectos contrastivos de las lenguas románicas con el propósito de depurar el análisis de las propiedades sintácticas del español.
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Teresa Maria Teixeira de Moura (Universidade de Trás-os-Montes e Alto Douro / Centro de Estudos em Letras – Portugal)
Rudimentos da Gramatica Portugueza (1799) de Pedro José da Fonseca entre a GRAE (1771) e os ideólogos Franceses
1. Introdução A emancipação da língua portuguesa face à língua latina ocorre na centúria de setecentos, no momento em que os governantes portugueses criam legislação sobre o ensino / aprendizagem do português nas escolas oficiais das primeiras letras pelos sucessivos alvarás régios setecentistas. No entanto, só com as reformas de 1836 esta autonomia atinge o seu apogeu. De acordo com o Alvará Régio de 30 de Setembro de 1770 caberia aos professores de latim o ensino do português ainda que por apenas seis meses, devendo utilizar como guia A Arte da Grammatica da Lingua Portugueza de António José dos Reis Lobato.1 Não obstante ser a gramática de Reis Lobato o compêndio oficial para a aprendizagem do português, a segunda metade do século XVIII em Portugal foi muito profícua na produção de obras gramaticais que visavam, acima de tudo, guiar os alunos na aprendizagem do vernáculo. É neste ambiente cultural que Pedro José da Fonseca publica anonimamente em 1799 os Rudimentos da Grammatica Portugueza, Cómmodos á instrucção da Mocidade, e confirmados com selectos exemplos de bons Autores. Assim, numa época em que por toda a Europa sobressaem as ideias linguísticas das gramáticas filosóficas ou gerais, Pedro da Fonseca, imbuído no espírito iluminista do seu tempo, reclama explicitamente no prólogo da sua obra a influência de Condillac e Du Marsais. No entanto, omite por completo a Gramática de la Lengua Castellana da Real Academia Española de 17712, onde colhe muitos ensinamentos e não lhe faz qualquer alusão. Neste contexto, propomo-nos fazer uma breve apresentação da gramática de Pedro da Fonseca, indagando as influências que os autores franceses e espanhóis exerceram no autor português, sobretudo na concepção de gramática, nas partes do discurso e na sintaxe, baseando-nos apenas nas definições dos conceitos mais essenciais.
Este compêndio é uma das obras que mais impacto teve no ensino da língua portuguesa do seu tempo. Com pelo menos 40 edições e reimpressões conhecidas, serviu de apoio a muitos alunos, tornando-se na «gramática portuguesa, editada em Portugal, com maior número de edições» (Assunção 2000: 17). 2 A partir deste momento, designaremos esta gramática por GRAE. 1
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2. O autor Pedro José da Fonseca (1737?-1816) Pedro da Fonseca foi uma figura proeminente dos estudos linguísticos do seu tempo. Enquanto membro fundador da Academia Real das Ciências de Lisboa, desempenhou um papel de grande relevo no seio desta agremiação quer enquanto director da tipografia quer enquanto responsável pela comissão incumbida da composição do Dicionário da Língua Portuguesa. Foi, no entanto, como professor de Poética e, sobretudo, de Retórica que mais se notabilizou, servindo mais de «vinte annos completos a Sua Majestade no exercicio da sua cadeira» (Silva 1862: 420). Como professor de retórica, salientamos ainda a dedicação que imprimiu às suas aulas, pois, além de leccionar esta disciplina em toda a Lisboa, foi o responsável pela criação do método de ensinar retórica, já que este «era entre nós extranho e desconhecido» (Silva 1862: 420). Das obras de carácter linguístico, evidenciam-se ainda o dicionário português e latino que foi alvo de várias publicações, e a ortografia da língua portuguesa, vinda a lume em 1809 e que viria a ser anexa à gramática de Reis Lobato. Pedro da Fonseca deixou-nos ainda «um espólio de mais três dezenas de obras» (Moura 2008: 128).
3. Os Rudimentos da Gramatica Portugueza (1799) 3.1. Estrutura da obra A obra em apreço está dividida em duas partes. Além da definição de gramática, a primeira parte trata «de cada huma das palavras soltas, e desunidas humas das outras; e a segunda das palavras juntas, e ordenadas de modo, que exprimão algum conceito» (Fonseca 1799: 2). A divisão da gramática em duas partes não constitui nenhuma novidade no século XVIII. Se é certo que a maioria dos gramáticos deste período tendem a fazer uma divisão da gramática em quatro partes, contemplando «a sequência ‹clássica› ortografia→prosódia→e timologia→sintaxe» (Kemmler 2007: 383), também não é menos evidente que um número substancial dos gramáticos setecentistas apenas trata das partes da oração, ou seja, do aspecto morfológico da etimologia, e da sintaxe. No entanto, Fonseca é o primeiro autor de uma gramática portuguesa da centúria de setecentos a apresentar tal divisão, fazendo lembrar, à primeira vista, a divisão de gramática em duas partes apresentada por Condillac em «Analyse du discours» e «Élémens du discours» (1775: 1). Todavia, se cotejarmos a obra do autor português com a GRAE de 1771 verificamos muitas semelhanças pois nesta última também não há uma referência explícita à configuração e divisão da gramática, apenas podendo ler-se o seguinte «La GRAMÁTICA […] Divídese en dos partes: la primera trata del número, propriedad, y oficio de las palabras: la segunda del órden y concierto que deben tener entre si, para expresar com claridad los pensamientos»
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(1771: 1-2) 3, remetendo-se, deste modo, para a etimologia e sintaxe. Ramón Sarmiento admite que a omissão às quatro partes é intencional, apontando como circunstâncias fundamentais para tal procedimento não só a concepção de gramática e o método sintético de elaboração adoptados como também o facto de se ter publicado a ortografia como arte independente da gramática e ainda o facto de se carecer de uma doutrina clara a respeito da prosódia (cf. Sarmiento 1984: 47-48). As similitudes entre a gramática de Fonseca e a gramática castelhana estendem-se também à distribuição das matérias por capítulos. Assim, tudo leva a crer que Pedro da Fonseca se tenha inspirado na GRAE de 1771 para estruturar a sua obra, sendo de resto um dos aspectos já apontados pelas investigadoras Schäfer-Prieß (2000: 32-33) e Moura (2008: 134). 3.2. Conteúdo da obra 3.2.1. Prólogo Fonseca chama a atenção para a importância do estudo da gramática da língua portuguesa, pois considera-a «o fundamento de todas as artes liberaes, e disciplinas nobres» (1799: V). Além disso, o estudo da gramática da própria língua «facilitaria muito a percepção das regras dos idiomas estranhos, principalmente as do Latim» (1799: V), na medida em que os «elementos do discurso são communs a todas as lingoas, e por tanto antes de emprehender o estudo de huma nova […] faz-se preciso saber a própria» (1799: V). Esta aprendizagem deve basear-se em métodos simples, adequando a complexidade das matérias à idade do aluno. Fonseca tece ainda duras críticas aos mestres do ensino que na prática continuam a subjugar as regras da língua portuguesa às do latim, referindo que as observações tecidas por Du Marsais a respeito da língua francesa podem ser aplicadas a todas as línguas, pelo que traduz as suas palavras: Os nossos Grammaticos […] querendo sugeitar as lingoas modernas ao methodo Latino, as embaraçárão com hum grande número de preceitos inúteis […]. Assim vierão a submetter simplices equivalentes a regras estranhas. Porém a Grammatica de huma lingoa nunca pelas fórmulas da Grammatica de outra lingoa se deve regular. As regras de huma lingoa só desta mesma lingoa devem ser tomadas (1799: VI-VII). 4
Admite, assim, que o objectivo da sua gramática é eliminar os princípios inúteis que não convêm à língua portuguesa, pelo que irá estabelecer os verdadeiros preceitos da Gómez Asencio adianta que na quarta edição se afirma claramente que a gramática consta de quatro partes: Ortografia, Analogia, Sintaxe e Prosódia, reiterando que na edição 1854 se divide a gramática em analogia e sintaxe e na edição de 1870 se compartimenta em analogia, sintaxe, prosódia e ortografia (cf. 2008: 44). 4 Note-se o que diz Du Marsais dos gramáticos franceses: «en vouland [sic] assujétir les langues modernes à la méthode latine, ils les ont embarrassées d’un grande nombre de préceptes inutiles […]. Ils ont assujéti de simples équivalents à des règles étrangères. Mais on ne doit pas régler la Grammaire d’une langue, par les formules de la Grammaire d’une autre langue. […] Les règles d’une langue ne doivent se tirer que cette langue même» (Du Marsais 1792: 712). 3
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língua nacional, a partir das observações exactas ao bom uso da língua, afirmando que tal procedimento é já «praticado por Grammaticos insignes, dos quais se consultou o maior número» (1799: VII), e não obstante a estes «Grammaticos não falt[e] que desejar [a] vantagem, que elles tem sobre os Antigos, he incontestável» (1799: VII). Para corroborar esta opinião, Fonseca traduz as palavras de Condillac: Outros [depois de du Marsais] tem trabalhado neste genero com felicidade, e mostrado nelle grandíssima sagacidade. Sem embargo disto confesso que ainda nas suas obras não encontro aquella simplicidade, que constitue o principal merecimento dos livros elementares (1799: VIII). 5
Ao pretender elaborar uma gramática portuguesa que baseie as suas regras nas observações exactas da própria língua, Fonseca adopta novamente as ideias de Condillac, já que este, baseado no método indutivo de cariz lockiano, havia preconizado um ensino assente na observação dos factos e no desenvolvimento das faculdades do espírito da criança, incutindo-lhes a necessidade de fazerem uso dessas faculdades na aprendizagem «Or dès qu’un enfant connoîtra l’usage des facultés de son esprit, il n’aura plus qu’à être bien conduit pour saisir le fil des connoissances humaines, pour les suivre dans leurs progrès depuis les premieres jusqu’aux dernieres» (1775: 10), reiterando que «elle excite sa curiosité, parce qu’il juge, aux connoissances qu’il acquiert, de la facilité d’en acquérir d’autres. […] En un mot, il s’agit de lui apprendre à penser» (1775: 16).6 Por esta razão, Fonseca tem consciência de que a sua obra constitui uma novidade, pelo que funcionará como um modelo que visa alcançar os mesmos proveitos já atingidos noutros lugares que têm levado em consideração a «intervenção, e industria dos […] Grammaticos» (1799: VII), referindo-se a Du Marsais e Condillac. Na esteira ainda de Condillac, defende que o número de exemplos apresentados para confirmar a doutrina é elevado mas necessário, pois para se saberem «as regras não basta entendelas, nem havelas tomado de cor» (1799: XI), sendo necessário adquirir o hábito de as aplicar, fomentando desta forma um ensino baseado na observação e na aplicação prática dos conhecimentos adquiridos pelos alunos, levando-os a reflectir sobre as coisas. Argumenta ainda que os exemplos de que se serviu facilitam a memorização porque são agradáveis e atenuam a dureza dos preceitos e tornar-se-ão úteis aos alunos mais tarde, convertendo-se em proveitosos frutos. Estes exemplos são seleccionados «dos nossos Classicos […] que ou pela sua ancianidade, ou por consenso commum fazem autoridade na lingoa» (1799: XI). Assim, esta «autoridade, que só o tempo, e a constancia unanime da pública opinião podem fixar, serve para dar aos ditos exemplos força e apreço» (1799: XIII). Este ponto de vista foi também defendido por Condillac, na medida em aconselhava «a observação e a reflexão das obras dos grandes autores franceses para daí descobrir as regras da arte de falar» (Moura 2008: 134). Depois de elogiar os trabalhos gramaticais dos solitários de Port-Royal, de Du Marsais e de Duclos que «a enrichi de remarques la Grammaire générale & raisonnée» (Condillac 1775: 1-2), Condillac evidencia os trabalhos do enciplopedista nestes termos: «D’autres ont travaillé en ce genre avec succès, & ont montré beaucoup de fugacité. Cependant j’avoue que je ne trouve point, dans leurs ouvrages, cette simplicité qui fait le principal mérite des livres élémentaires» (1775: 2). 6 Condillac considerava que «l’étude de la Grammaire seroit plus fatigante qu’utile, si on la commençoit trop tôt», argumentando que «pour savoir les règes de l’Art de parler, il ne suffit pas de les entendre, & de les avoir apprises par cœur; il faut encore faire une habitude de les appliquer» (1775: 128-129). 5
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3.2.2. Definição de gramática GRAMMATICA he a arte de fallar, e escrever correctamente, Arte he uma collecção de regras, que ensinão a fazer bem alguma cousa. A Grammatica he arte, porque dá preceitos para fallar, e escrever huma lingua correctamente, isto he sem erros. Estes preceitos se formão de observações feitas sobre o modo, com que as pessoas bem educadas, e os bons Autores costumão fallar, e escrever a linguagem da sua nação. (1799: 1-2).
A definição do conceito de gramática apresentado por Fonseca aproxima-se das caracterizações normativas tradicionais que concebem a gramática como arte, «significando arte a faculdade de prescrever regras e preceitos para fazer com correcção as coisas» (Assunção 1999: 30), abstendo-se de tecer quaisquer comentários de índole filosófico dos autores franceses que cita, talvez devido ao facto de a sua gramática ser um manual destinado aos alunos e que «deseja dar sómente aos que de novo entrão no seu estudo, a primeira, e indispensavel instrucção» (Fonseca 1799: 2). De certa forma, Fonseca aproxima a sua definição à da GRAE, já que nesta pode ler-se que gramática é a «arte de hablar bien» (1771: 1). Não obstante, o autor português vai mais longe na sua definição e vincula a regulamentação da língua ao uso dos que melhor falam e escrevem a língua portuguesa, aproximando-se das considerações tecidas por Condillac, uma vez que este autor havia defendido a mesma coisa (cf. 1775: 31). Mas, se à partida podemos afirmar que na definição de gramática o autor português segue de perto Condillac, não devemos esquecer que os autores da GRAE, apesar de terem conotado a gramática como a arte de falar bem, não haviam limitado esta concepção à língua falada. Como sustenta Ramón Sarmiento «estos gramáticos identificaban la lengua escrita con la hablada, en cuanto aquélla no era más que una simple representación de esta» (1984: 40). Assim, a regulamentação da língua devia subordinar-se ao bom uso, ou seja, aos que falam com perfeição a língua, aos eruditos, estando subjacente «un normativismo moderado y equilibrado» (Ramón Sarmiento 1984: 41), porquanto se remete para o uso da actualidade de então, e não para um conhecimento profundo que ensinava a pureza e a integridade de uma língua. Na esteira ainda do autor francês que argumentara que «les mots sont les signes de nos idées» (Condillac 1775:I: 26), Fonseca esclarece também que as «palavras consideradas como sinaes dos nossos pensamentos são a materia da […] Grammatica» (1799: 2). 3.2.3. As partes da oração Como já referimos, à semelhança da GRAE, Fonseca não usa a terminologia etimologia para a descrição das partes da oração, mas utiliza a designação de palavra como objecto da descrição de cada uma dessas partes. Aliás, esta descrição assume uma importância fulcral nesta gramática, já que o autor dedica 208 páginas a este assunto, sendo de resto uma característica que o vincula à descrição linguística tradicional que considerava como núcleo da gramática as partes da oração. Assim, seguindo a tradição latino-portuguesa mais comum, admite um sistema de nove partes da oração: nome, pronome, artigo, verbo, particípio, advérbio, preposição, conjunção e interjeição, ou seja, o mesmo sistema adiantado vinte e oito anos antes pela GRAE7, afastando Ramón Sarmiento admite, no entanto, que a «Academia ha asumido no solo en los documentos, sino también en la gramática, la filosofía de las tres partes raíces» (1984: 59-60), ou seja, nome, verbo
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se de Condillac que havia considerado apenas quatro espécies de palavras: os substantivos, os adjectivos, as preposições e o verbo être (cf. 1775: 119). 3.2.3.1. O nome Utilizando um critério semântico como critério único na definição de nome, Fonseca entende que esta classe de palavras «he huma voz, ou dicção, que se apropria a cada pessoa, ou cousa para a dar a conhecer, e differençar de outra» (1799: 3). Esta caracterização é parecida com a da gramática da academia pois também aí se apresenta uma noção muito genérica de nome que permite que nela se possam englobar todos os elementos nominais: «El nombre es una palabra que sirve para nombrar las cosas» (1771: 3). Num momento ulterior, Fonseca divide o nome em substantivo e adjectivo. Através de um critério semântico-sintáctico, o nome substantivo é aquele que «significa alguma substancia corporea, ou espiritual, e que por si só póde subsistir na oração sem dependencia de alguma outra palavra, que o qualifique» (1799: 3) e o nome adjectivo é o «que se ajunta ao substantivo para denotar a sua qualidade» (1799: 5). Ainda que Fonseca siga os seus predecessores e aceite a tradição gramatical portuguesa na subdivisão primária de nome, importa salientar que é o primeiro autor português setecentista a ter em conta a noção de nome abstracto na caracterização do nome substantivo, embora não utilize tal terminologia. Nesta tomada de posição verifica-se uma influência muito marcante dos autores da GRAE que haviam preconizado que o nome substantivo «significa alguna sustancia corpórea, ó incorpórea. […] Subsiste por si mismo en la oracion, sin necesidad de que se le junte outra palabra que le califique» (1771: 3-4) e o nome adjectivo «es el que se junta al sustantivo para denotar su calidad» (1771: 6). Posteriormente, Fonseca divide o nome substantivo em comum ou apelativo e próprio, utilizando um critério semântico nas respectivas definições, tal como o haviam feito os autores da GRAE. De resto, esta influência castelhana estende-se ao tratamento de todas as subclasses do nome. 3.2.3.2. O pronome O pronome «he huma palavra, que se põe em lugar do nome» (Fonseca 1799: 40). Esta definição alicerçada em bases sintácticas é a mesma que encontramos na GRAE. Todavia, a subdivisão dos pronomes que cada uma das gramáticas apresenta é distinta. A descrição de pronomes pessoais, demonstrativos, possessivos e relativos é muito idêntica nas duas gramáticas em apreço. Os pessoais são, de um ponto de vista semânticomorfológico, «os que designão as pessoas, ou põe em lugar das mesmas pessoas» (Fonseca 1799: 40). Os demonstrativos são, sob uma perspectiva linguística semântico-formal, «aquelles, que indicão, ou mostrão a pessoa, ou cousa, de que se trata no discurso» (1799: 49). Em termos semânticos, os possessivos «são os que denotão a possessão, e propriedade de alguma cousa» (1799: 54) e os relativos, sintacticamente, são os «que dizem relação a hum nome que precede, o qual se chama antecedente» (1799: 56). e partículas, adoptando, por consequência, «una concepción racionalista de la lengua» (1984: 59). Esta contradição é, segundo o autor, apenas aparente, na medida em que a GRAE segue o mesmo procedimento já antes utilizado por Lancelot (cf. 1984: 59-60).
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Como se depreende da sistematização dos pronomes acima exposta, a GRAE não contempla nem os pronomes absolutos nem os indefinidos. Fonseca caracteriza os primeiros através de uma propriedade definitória que designamos de sintáctico colocacional ou combinatória como os pronomes que «não dizem relação a algum nome precedente. Assim que, qual, quem, cujo, os quaes são relativos, quando tem antecedente, faltando-lhes elle se chamão absolutos» (1799: 59). Os segundos são definidos em termos semânticos como «os que exprimem hum objecto vago, e indeterminado» (Fonseca 1799: 64). A este propósito cumpre salientar que a GRAE justifica a exclusão dos indefinidos das subclasses dos pronomes pois mais não são do que pronomes relativos, o mesmo acontecendo com os interrogativos (cf. GRAE 1771: 48). 3.2.3.3. O artigo A definição de artigo que encontramos em Fonseca, alicerçada numa combinação do critério sintáctico colocacional com o formal, é em tudo similar à da GRAE. Para o autor português, o artigo «he huma parte da oração, que se antepõe aos nomes para mostrar de que genero são» (1799: 70) e para a GRAE «es una parte de la oracion que sirve para distinguir los géneros de los nombres» (1771: 50). Como se depreende destas caracterizações, o facto de o artigo assinalar o género dos nomes é o valor mais pertinente, senão exclusivo desta classe de palavras. 3.2.3.4. O verbo Na senda da GRAE, Fonseca advoga que o verbo «segundo a sua etymologia, quer dizer palavra» (1799: 83) por ser a parte essencial da oração que é responsável pela formação e a enunciação de todos os discursos, razão pela qual se lhe atribuiu «por excellencia huma tal denominação» (1799: 83). Trata-se de uma descrição que encontramos em Condillac que havia preconizado que «D’APRÈS l’étymologie, verbe est la même chose que mot ou parole; & il paroît que le verbe ne s’est approprié cette dénomination, que parce qu’on l’a regardé comme le mot par excellence» (1775: 161). Através do recurso a um critério semântico, Fonseca define o verbo, numa linha tradicionalista, como «huma palavra, que explica, ou huma acção feita; ou huma acção recebida pelo sujeito» (1799: 83), ou ainda como significando simplesmente o estado do sujeito, remetendo para a subdivisão primária do verbo que estabelece seguidamente em activo, passivo e neutro. Esta caracterização afasta-se daquela outra explanada na GRAE, onde «se intentó elaborar una definición de verbo, aplicable a todas las subclasses» (Sarmiento 1984: 62), considerando-se que sendo a parte essencial da oração servia «para significar la esencia, la exístencia, la accion, pasion, y afirmacion de todas las cosas animadas, é inanimadas, y el exercício de qualquiera faculdad que tienen estas cosas, ó se les atribuye» (GRAE 1771: 57). Todavia, em relação às subclasses do verbo encontramos muitas semelhanças entre a GRAE e o autor português, nomeadamente na caracterização, em termos semântico-sintácticos, dos verbos activos e neutros. No entanto, apesar de os verbos pronominais serem referenciados pelas duas gramáticas, a explicação proposta por Fonseca é mais explícita já que são os verbos «que se conjugão com os dous pronomes da mesma pessoa, como: eu me compadeço […] tem significação passiva, sempre que o sujeito he hum nome de cousas inanimadas» (1799: 86). Estes verbos chamam-
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se reflexivos «quando a acção, que elles exprimem, reflecte, ou recahe sobre o sujeito que a produz, como: armar-se» (1799: 87), e apelidam-se de recíprocos «quando exprimem huma acção recíproca de duas, ou mais pessoas como: abraçar-se» (1799: 88). Trata-se de uma abordagem bem sistematizada e que encontramos em algumas das gramáticas da actualidade, pelo que Fonseca se afasta das considerações tecidas pelos autores da GRAE, já que estes não tinham estabelecido qualquer subclasse dentro dos verbos pronominais, considerando estes como recíprocos ou reflexivos (cf. GRAE 1771: 58). Quanto às restantes subclasses do verbo, deve salientar-se que a GRAE não contempla, na subdivisão inicial que faz do verbo, os verbos impessoais e os defectivos, caracterizando-os posteriormente. Assim, de um ponto de vista formal os impessoais são os verbos que «solo se usan en las terceras personas de singular» (1771: 165) e os defectivos são aqueles que «carecen de primeras, y segundas personas» (1771: 168) e não têm alguns tempos. Fonseca recorre ao mesmo critério formal e defende que os verbos «impessoaes, ou mono-pessoaes são aquelles que só se usão na terceira pessoa do singular» (1799: 89) e os defectivos são aqueles que têm falta de algum tempo e não aqueles que «carecem de certo número de pessoas» (1799: 91), como o haviam referenciado os autores da GRAE. 3.2.3.5. O particípio Os autores da GRAE definem o particípio, numa linha tradicionalista, como «una parte de la oracion llamada así porque en latin participa del verbo en la formacion, y del nombre en la declinacion. Entre nosotros solo puede llamarse participio por la participacion del verbo, pero no por la declinacion del nombre» (1771: 172). A mesma opinião tem Fonseca, porém, é mais preciso pois o particípio é, na mesma perspectiva morfológica, «hum nome adjectivo, que tem algumas propriedades do verbo» (1799: 175), clarificando que tem esta designação porque «participa da natureza do nome, e da natureza do verbo. Participa da natureza do nome adjectivo, porque serve para qualificar os substantivos […]. Participa da natureza do verbo, de que se deriva, tanto na formação, como na significação» (1799: 175-176). Divide-o em activo e passivo, sendo que, em termos semânticos, «Activo he o que significa acção, como amante, temente, ouvinte. Passivo he o que significa paixão, como: amado, temido, ouvido» (1799: 176), importando a subdivisão e caracterização da GRAE. 3.2.3.6. O advérbio A caracterização tradicional de advérbio que é explanada na GRAE é a mesma que encontramos em Fonseca, visto que o define, através de um critério sintáctico colocacional e semântico, como «huma palavra, que se ajunta ao verbo para lhe modificar, e determinar a significação com alguma circunstancia» (1799: 187). No que diz respeito às subclasses do advérbio, saliente-se que Fonseca admite seis: tempo, lugar, modo, quantidade, comparação e ordem. Ora, esta caracterização semântica é a mesma que encontramos na GRAE para cada uma das subclasses apresentadas. Não obstante este aspecto, em Fonseca verifica-se uma redução das subclasses do advérbio, visto que o autor português não contempla os de afirmação, os de negação e os de dúvida, o que de certa forma vem corroborar a opinião de Gomez Asencio de que as subclasses do advérbio consignadas pela tradição greco-latina e europeia «fueron considerablemente reducid[a]s» (1985: 170).
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3.2.3.7. A preposição Fonseca dedica apenas quatro páginas da sua gramática à preposição. É um estudo menos aprofundado se o compararmos com as vinte e duas páginas da GRAE. Esta diferença tem a ver com o facto de Fonseca não estudar separadamente cada uma das preposições. Todavia, a definição que encontramos nos Rudimentos é bastante similar à da Gramática Castelhana, já que ali se advoga, de um ponto de vista semântico, que preposição «denota a relação, que humas cousas tem com outras» (1799: 194) e, de um ponto de vista sintáctico funcional e sintáctico colocacional, «se põe antes da sua regência, isto he antes da palavra, que lhe serve de complemento, sem a qual o sentido ficaria imperfeito» (1799: 194). Para a GRAE preposição «es una palavra llamada así, porque se pone antes de otras partes de la oracion» (1771: 201), a sua função é «indicar en general alguma circunstancia que no se determina sino por la palavra que se le sigue» (1771: 201). Tal como a GRAE, Fonseca considera apenas como verdadeiras preposições aquelas que são simples, ou seja, aquelas que são constituídas por uma palavra. 3.2.3.8. A conjunção As definições de conjunção apresentadas pela GRAE e por Fonseca são praticamente iguais. Numa perspectiva sintáctico funcional, a conjunção «he huma palavra, que serve para ajuntar entre si as differentes partes do discurso» (Fonseca 1799: 197). Tal como a GRAE, Fonseca subdivide as conjunções em simples e compostas. As duas gramáticas expõem ainda seis subclasses de conjunções: copulativas, disjuntivas, adversativas, condicionais, causais e continuativas. No entanto, se Fonseca utiliza nas respectivas definições um critério semântico-sintáctico, na GRAE emprega-se apenas o semântico, ao qual está ligado um critério sintáctico na caracterização das copulativas que «son las que juntan sencillamente unas palabras com otras» (1771: 222), ou seja, a sua «definición coincide en gran parte […] com la definición de conjunción» (Gómez Asencio 1985: 180), pois esta mais não é do que «una palabra que sirve para juntar, atar, ó trabar entre sí las demas partes de la oracion» (GRAE 1771: 222). 3.2.3.9. A interjeição Fonseca tece exactamente os mesmos comentários que vemos na GRAE. Assim, de um ponto de vista semântico, a interjeição «he huma palavra, que serve para exprimir algum affecto, ou movimento do animo» (Fonseca 1799: 204). 3.2.4. A sintaxe As investigações sobre a sintaxe foram ao longo dos tempos relegadas para segundo plano em favor do estudo das partes da oração. No século XVIII, o primeiro autor a fazer um esboço da sintaxe portuguesa foi Contador de Argote. Fonseca dedica-lhe um pouco mais de atenção e define sintaxe ou construção como: O modo de dispor, e ordenar as palavras, e frases segundo as regras da Grammatica. O termo syntaxe vem de outro Grego, que significa ordem, construcção. Esta syntaxe, construcção, ou ordem consiste na união, encadeamento, ou estructura das palavras, e frases, conforme ás leis do uso, e ao génio particular de cada huma das lingoas (1799: 209).
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Como se depreende o autor português segue a tradição gramatical ocidental e considera como sinónimos os conceitos de sintaxe e construção, entendendo que eles dizem respeito à união e ao encadeamento das palavras e das frases segundo as regras da gramática, visando a construção de uma oração perfeita. Divide, depois, a sintaxe em natural e figurada. A «Syntaxe, ou construcção simples, que tambem se chama natural, e regular he a que observa com exacção, aquella ordem, por meio da qual ajuntando-se as palavras humas com outras, os pensamentos se dão a entender clara, e distintamente» (1799: 210). Nesta sintaxe natural, o autor admite a sintaxe de concordância e a de regência, dando-nos apenas uma noção elementar destes conceitos. Concordância consiste na «união, com que as palavras regularmente se ajuntão, e conformão entre si» (1799: 210) e regência «he a acção, que humas palavras tem sobre outras, e o modo regular de as ajuntar entre si» (1799: 224). Assim sendo, a construção de uma oração perfeita resulta por um lado da ordenação correcta das palavras que tem por finalidade uma coerência semântica (a comunicação dos pensamentos), e por outro das regras de concordância e de regência. Porém, o autor parece relegar para um plano inferior a sintaxe de concordância. De facto, este termo assume um papel meramente morfológico, ou seja, refere apenas a forma como as palavras se unem regularmente entre si, por exemplo, «o articulo concorda em género, e número com o nome commum» (1799: 211), mas não é uma exigência sintáctica porque não determina a dependência ou a ordem que as palavras devem ter numa oração. Pelo contrário, a sintaxe de regência assume uma importância fulcral, já que tem em conta essa noção de dependência de umas palavras com outras, por exemplo, «para se formar oração deve haver sempre hum verbo, ao qual precede algum substantivo, ou pronome claro, ou oculto, que sirva de agente» (1799: 227-228). Assim, podemos admitir que para Fonseca os termos sintaxe e construção se reduzem à noção de regime, sendo que a base desta sintaxe diz respeito à ordem, ou seja, à dependência entre as partes da oração. Desta exposição, resta salientar que Fonseca, ao abordar a sintaxe, também toma como modelo a GRAE. Com efeito, na segunda parte desta obra, a respeito das partes da oração, afirma-se que Se ha de tratar del modo de unirlas, trabarlas, ó enlazarlas entre sí de manera que formen la misma oracion de que son partes. Esta union, trabazon, ó enlace, se llama entre los gramáticos sintaxís, ó construccion, y sus reglas se reducen á declarar el órden com que deben juntarse las palabras para expresar con claridad los pensamientos. (1771: 232).
Dividindo-se, depois, a sintaxe em construção natural e figurada. Na natural considera-se a sintaxe de regime que «es el gobierno ó procedência que tiene unas palabras respecto de otras» (1771: 235) e a sintaxe de concordância que é o «ajuste ó concierto de palabras» (1771: 321). Quanto à sintaxe figurada, o autor português, seguindo a tradição renascentista, adianta que «he a que se aparta da simples, e natural, quando, ou o uso assim o pede, ou melhor convém á elegancia, e energia da expressão» (1799: 272), estudando as figuras da sintaxe: hipérbato, elipse, pleonasmo e sinapse, adoptando o esquema conceptual proposto vinte e oito anos antes pela GRAE.
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4. Conclusão É inegável a importância que a gramática de Fonseca assumiu no seio da produção gramatical portuguesa setecentista-oitocentista, porquanto serviu de manual escolar para muitos alunos. No que diz respeito às fontes mais próximas dos Rudimentos, podemos admitir que apesar de Fonseca reclamar a influência da gramática geral ou filosófica, sobretudo de Du Marsais e Condillac, a análise efectuada apenas permitiu constatar alguns indícios desta suposta preponderância, dado que ela foi sobretudo visível no prólogo. Pensamos, apesar disso, que o autor português consultou directamente as fontes francesas, servindo-se muito provavelmente dos seus conhecimentos enquanto tradutor, pelo que a quase ausência de pressupostos filosóficos se poderá justificar pelos fins didácticos a que se destinava a gramática. Pelo contrário, denotámos uma forte influência da GRAE de 1771, apesar de o autor nunca se referir a esta obra, pelo que a originalidade do autor se prende acima de tudo com o facto de ter importado um modelo de gramática que lhe pareceria o melhor, sabendo adaptá-lo à realidade linguística portuguesa. Este facto, de resto, viria a ser comprovado mais tarde, já no século XIX, pelo gramático filosófico Jerónimo Soares Barbosa que após averiguar que as gramáticas portuguesas anteriores à de Pedro da Fonseca estavam cheias de «erros e defeitos particulares», argumentou que «grande parte destes defeitos emendou já o auctor dos Rudimentos da Grammatica Portugueza, impressos em Lisboa em 1799, tomando por guia quasi em tudo a Grammatica da Lingua Castelhana composta pela Real Academia Hespanhola a qual entre as Linguas vulgares tem merecido hum distincto louvor» (Barbosa 2004: XII).
Bibliografia Assunção, Carlos (2000): A Arte da Grammatica da Língua Portugueza de António José dos Reis Lobato. Estudos, Edição Crítica, Manuscritos e Textos Subsidiários. Lisboa: Academia das Ciências de Lisboa. Barbosa, Jerónimo Soares (2004): Gramática Filosófica da Língua Portuguesa (1822): Edição facsimilada, comentários e notas de Amadeu Torres. Lisboa: Academia das Ciências de Lisboa. Condillac, Étienne Bonnot de (1775): Cours d’étude pour l’instruction du prince de Parme, aujourd’hui S. A. R. l’Infant D. Ferdinand, Duc de Parme, Plaisange, Guastalle, &c. Vol.1: Grammaire. Parme: Imprimerie Royale. Du Marsais (1792): Logique et príncipes de Grammaire-Ouvrages posthumes en partie, & en partie extraits de plusieurs traités qui ont déja paru de cet auteur, novelle édition augmentée du Traité de l’inversion. (2 voll.). Paris: Barrois, Libraire et Froullé, Imprimeur-Libraire. Fonseca, Pedro José da (1799): Rudimentos da grammatica portugueza, cómmodos á instrucção da mocidade, e confirmados com selectos exemplos de bons autores. Lisboa: Officina de Simão Thaddeo Ferreira. Gómez Asencio, José J. (1985): Subclases de palabras en la tradición española (1771-1847). Salamanca: Ediciones Universidad de Salamanca. Kemmler, Rolf (2007): A Academia Orthográfica Portugueza na Lisboa do Século das Luzes – Vida, obras e actividades de João Pinheiro Freire da Cunha (1738-1811). Frankfurt: Domus Editoria Europaea.
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Teresa Maria Teixeira de Moura
Moura, Teresa Maria Teixeira de (2008): As Ideias Linguísticas Portuguesas no Século XVIII. Vila Real: Universidade de Trás-os-Montes e Alto Douro. Real Academia Española (1771): Gramática de la lengua castellana. Madrid: Joachín de Ibarra, Impresor de Cámara de S.M. — (1984): Gramática de la lengua castellana. Edición facsímil de Ramón Sarmiento. Madrid: Editora Nacional Silva, Francisco Innocencio da (1862): Diccionario bibliographico portuguez. Estudos de Innocencio Francisco da Silva Applicaveis a Portugal e ao Brasil. Lisboa: Imprensa Nacional.
Kerstin Ohligschlaeger (Potsdam)
Idée, signes et perfectionnement de la pensée dans trois mémoires du concours académique sur l’influence des signes sur la pensée (1799)
1. Autour du concours En 1799, la Deuxième Classe de l’Institut national des sciences et des arts1 proposait comme sujet de concours la question de l’influence des signes sur la pensée. Ce concours s’intégrait dans les discussions à l’Institut national qui fut fondé en 1795 et était partagé en trois classes: la Classe des sciences physiques et mathématiques (la Première Classe), la Classe des sciences morales et politiques (la Deuxième Classe) et la Classe de la littérature et des beaux arts (la Troisième Classe). La Deuxième Classe fut fondée en 1795 avec pour but «d’entretenir, de perpétuer et de propager la flamme révolutionnaire» (Institut de France 1995: 25) et peut être considérée comme lieu où la pensée idéologique avait une base institutionnelle. Chaque classe était divisée en plusieurs sections: la Deuxième Classe a obtenu les sections Analyse des sensations, Morale, Science sociale et législation, Economie politique, Histoire et Géographie. C’était surtout la section Analyse des sensations qui était prévue pour transporter les idéaux de la Révolution. Une grande partie de ses membres faisait également partie du cercle des ‹idéologues›2, un groupe de jeunes intellectuels de professions différentes (médecins, auteurs, pédagogues, philosophes, hommes politiques) qui étaient proches de la philosophie sensualiste et qui essayaient surtout de transformer la théorie de la connaissance de Condillac en un programme scientifique apte à éduquer les citoyens.3 Les membres ne participaient pas seulement aux séances de la Deuxième Classe, mais étaient aussi très actifs dans la vie politique pendant et après la Révolution française: ils faisaient partie de la Constituante, obtenaient des postes politiques et administratifs (politiquement près de la Gironde), et aidaient surtout à édifier un nouveau système éducatif qui était laïque et publique. Leur but était, dans une époque ébranlée, d’atteindre la perfection de la langue afin de perfectionner les esprits de la nouvelle génération de citoyens. L’Institut national des sciences et des arts comme couronne Pour l’histoire de l’Institut National voir Azouvi (1992), Bourgois / d’Hondt (1993), Franqueville (1895), Institut de France (1995), Leterrier (1992; 1995) et Staum (1980). 2 Destutt de Tracy avait lu un mémoire en 1796 à la Deuxième Classe de l’Institut, intitulé Mémoire sur la faculté de penser dans lequel il créa le nom d’‹idéologie› comme science nouvelle qui, à la base de l’analyse des idées, devrait mener l’homme à la connaissance de la vérité. 3 À propos des ‹idéologues› et leur programme scientifique voir Haßler (1989; 1999), Moravia (1968; 1974; 1977), Picavet (1972) et Schlieben-Lange (1984; 1989; 1991; 1992; 1994; 2000). 1
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de ce nouveau système éducatif était le lieu idéal pour la réalisation de ce but. C’est dans ce cadre que fut posé le concours de 1797/994, traitant de l’influence des signes sur la pensée. La question était posée de la manière suivante: 1. 2. 3. 4. 5.
Est il bien vrai que les sensations ne puissent se transformer en idées que par le moien des signes? Ou, ce qui revient au même, nos premières idées supposent-elles essentiellement le secours des signes? L’art de penser seroit il parfait, si l’art des signes étoit porté à sa perfection? Dans les sciences où la vérité est reçue sans contestation, n’es-ce pas à la perfection des signes qu’on en est redevable? Dans celles qui fournissent un aliment éternel aux disputes, le partage des opinions n’est-il pas un effet nécessaire de l’inexactitude des signes? Y-a t’il quelque moien de corriger les signes, et de rendre toutes les sciences également susceptibles de démonstration? (d’après Lancelin 1800-1803: I, XII)
Le but de la question entière et de ses sous-questions était de trouver une langue commune avec laquelle il serait possible de mieux communiquer les contenus scientifiques, sans les malentendus qui résultent souvent d’une langue non précise (comme l’est chaque langue naturelle). La question avait été posée en 1796 et, ayant obtenu treize réponses non satisfaisantes, elle fut posée une seconde fois en 1798. La seconde fois, il y eut dix réponses, dont les dissertations du gagnant, Joseph-Marie Degérando (1772-1842) et les deux réponses qui obtinrent des accessits, de Pierre Prévost (1751-1839) et de Pierre-François Lancelin (1769?-1809) et qui furent aussi publiées.5 Ces trois réponses, qui sont déjà analysées plusieurs fois dans la littérature scientifique, ne représentent que les essais les plus proches de l’attente de l’Institut; il est d’autant plus intéressant de regarder de plus près les autres essais pour voir s’il y a une base théorique commune dans toutes les réponses (ce qui soulignerait que la philosophie des ‹idéologues› était très répandue à l’époque) ou s’il y a aussi des réponses qui ne montrent aucune influence de cette philosophie (ou qui sont même très éloignées de toute philosophie érudite). Parmi les vingt-deux réponses (que nous analysons dans le cadre d’un plus grand travail), nous avons choisi ici trois réponses du premier cercle qui ne satisfaisaient donc pas les exigences du jury, mais qui par leur ancrage institutionnel donnent une bonne idée de l’ampleur des réponses possibles.
2. Présentation des réponses par ordre thématique Le choix des trois dissertations que nous avons choisies pour l’analyse ci-dessous se La datation du concours se fait par les deux dates où le jury présentait son jugement au plénum (1797 et 1799). Comme il y a eu deux cercles, le concours est normalement indiqué comme ‹concours de 1797/99›. 5 Pour les réponses du gagnant et des deux réponses avec l’accessit, voir Degérando (1799), Lancelin (1801-1803) et Prévost (1799). 4
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justifie d’après notre but de montrer la diversité des réponses. Notre hypothèse est que s’y trouvent des réponses qui sont très proches de la philosophie des ‹idéologues› mais qu’il y en a d’autres qui en sont très éloignées. N’oublions pas qu’en théorie le cercle des participants était illimité: chaque citoyen sachant lire et écrire pouvait participer au concours. Toutes les réponses que nous présentons ici sont des réponses du premier concours en 1797. Cela signifie qu’aucune d’entre elles n’a pu satisfaire le jury (comme elles se trouvent dans le premier cercle de réponses, tandis que les trois réponses ayant gagné se trouvent dans le second cercle de 1799). Notre but est donc d’illustrer à l’aide d’exemples choisis la grande différence entre les réponses.6 Topique 1: Idées et signes Le premier topique est celui de la relation entre signes et idées, pour savoir si la pensée existe seulement à travers les signes (comme le demande la première sous-question) et quel rôle les signes jouent. La réponse du participant B1-1 nous entraîne dans un point de vue très matérialiste. D’après lui, les idées dépendent des mouvements concrets dans le cerveau. Selon lui, il y a une vraie liaison physique entre les idées et le corps: Une infinité de raisons, ..., prouvent clairement que la pluspart au moins de nos idées dependent de certains mouvements, de certaines fonctions, de quelques organes du cerveau. (Anonyme [B1-1] an IV (1797): 7)
Ainsi, selon l’auteur B1-1, il y a une influence physique du cerveau sur les idées. Dans l’exemple suivant, toujours du même auteur, nous voyons que l’attitude matérialiste se montre encore renforcée. Il décrit précisément le lien physique entre une idée et sa matérialisation par des mots. Selon lui, il y a la possibilité de capter chaque idée d’une manière plus ou moins physique, en lui donnant une ‹écorce matérielle›. Il n’y a point d’idée quelqu’abstrait qu’on la suppose, qui ne soit attachée ou qui ne puisse etre liée a un nom. Toutes nos pensées deviennent par là sensibles, materiellement expressibles, visibles en quelque façon, et auditibles; toutes se retrouvent revêtues d’une ecorce materielle. C’est ainsi que notre esprit sait se procurer et se former des organes propres à le faire penser a tout ce qu’il voudra; c’est ainsi que notre faculté de penser se materialise, et devient toute imagination. (Anonyme [B1-1] an IV (1797): 10)
Mais cette matérialisation dont parle le premier auteur contient aussi des dangers, notamment le fait que «par l’habitude, les idées et les mots deviennent inséparables» (Anonyme [B1-1] an IV (1797): 10). Cela impliquerait qu’un changement de la signification d’un mot ne serait plus possible. Il se révèle chez cet auteur donc une position qui ne saurait pas expliquer le changement sémantique des mots. Une remarque avant l’analyse des citations: nous avons en principe gardé l’orthographe comme nous l’avons trouvée dans les documents. Nous l’avons légèrement facilité où il nous semblait absolument nécessaire, par exemple quand des apostrophes manquaient: ‹lunivers›, ‹lhomme› et ‹laction› (B1-1).
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Le danger existe par ailleurs pour lui non seulement dans l’inséparabilité des mots et des idées, mais aussi dans une dominance croissante du corps humain. Il précise que ce lien peut devenir tellement fort que le corps obtient «un empire» sur les pensées. D’après lui, c’est donc le corps qui exerce la direction des pensées, car ce sont ses «organes» qui les influent: Mais le corps semble acquerir par là même un plus grand empire sur l’esprit; car c’est du corps, c’est de la disposition, de l’action de ces organes, et de leurs différentes causes motrices que dependent ensuite la naissance, la succession, la chaine [...] etc. de nos idées. (Anonyme [B1-1] an IV (1797): 10f.)
Il y a aussi chez les autres auteurs des prises de position sur la relation entre idées et signes. L’opinion la plus intéressante pour notre sujet est celle de l’auteur de la réponse B1-3 qui montre aussi une base matérialiste. L’hypothèse, et même l’image qu’il peint, se trouvent très souvent dans les discussions de cette époque; il paraît clair que l’auteur de B1-3 est au courant de la discussion, mais qu’il ne participe normalement pas à des discussions philosophiques. L’exemple suivant illustre sa position envers la relation entre idées et signes. Les idées sont libres comme l’air, mais elles ont besoin des signes pour les fixer dans la mémoire et les communiquer. (Anonyme [B1-3] an IV (1797))
D’après B1-3, les idées sont donc des êtres flottants, indépendants; mais pas ailleurs, elles ont besoin d’être fixées. Si les idées ne sont pas fixées, elles disparaissent tout de suite –opinion qui n’était par rare à l’époque et qui montre encore que l’auteur, même qu’il ne dispose pas de connaissances profondes en philosophie, connaît au moins la discussion. Topique 2: Idées et sensation Le deuxième topique consiste dans le rapport entre les idées et les sensations. Il est très proche du premier topique, tout en mettant l’accent sur le ressentiment de la sensation. Le premier auteur, B1-1, exprime un point de vue modéré: d’après lui, la transformation des sensations en idées nécessite seulement en partie l’aide des signes. C’est une position qui se trouve aussi chez le gagnant Degérando: selon cette position, qui s’éloigne du sensualisme pur de Condillac, il y a des idées simples qui dérivent directement des sensations et qui n’ont pas besoin d’être fixées par des signes. ... les idées qui derivent de nos sensations, nos idées les plus sensibles, nos premieres idées precedent souvent nos signes verbeaux, elles n’en dependent pas essentiellement en un mot, elles peuvent absolument exister dans notre esprit sans ces signes soit auditibles, soit visibles. (Anonyme [B1-1] an IV (1797): 16f.)
En opposition avec la position ci-dessus se trouve la prise de position du troisième participant que nous venons de citer dans le premier topique. À propos des sensations, il prend une position individualiste, ce qui n’est pas très répandu dans la philosophie de l’époque. L’auteur B1-3 qui avait déjà formulé que les idées étaient «libres comme l’air» ajoute ici que les sensations sont aussi libres. Selon lui, les sensations sont «variée[s] comme les tempéraments et les visages».
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Cela implique qu’il regarde les sensations d’un point de vue intérieur: elles ne sont pas, comme chez la plupart des auteurs, des sensations physiques et objectives. Le partage des opinions vient de la variété de la sensation, qui est variée comme les temperaments et les visages. On se dit communement l’un a l’autre sur le même objet: je ne le vois pas comme vous, je ne le sens pas comme vous. (Anonyme [B1-3] an IV (1797))
Implicitement, on peut aussi voir un autre topique dans cette position, notamment celui selon lequel la langue (qui dérive par l’aide des signes) ne dispose pas de conventions fixes, mais qu’elle est très infidèle et arbitraire. On voit cela dans l’expression ‹le partage des opinions›. Selon B1-3, les opinions différentes ne résultent que de sensations différentes, et, si l’on continue hypothétiquement, aussi d’une langue qui est basée sur ces sensations différentes et qui ne peut pas être exacte. Avec ceci, nous arrivons au troisième topique, le topique central du concours, la perfection des signes et de la pensée. Topique 3: Perfectionnement de la pensée La perfection de la pensée était au centre de ce concours. Le but, rappelons-nous, était de trouver une langue (scientifique) qui aiderait à faire des progrès surtout dans le domaine scientifique et philosophique. La question du perfectionnement de la pensée se trouve déjà chez Condillac, qui l’avait mis en contexte avec le perfectionnement de la langue. D’après lui, même des gens avec des capacités cognitives limitées seraient capables d’apprendre une langue logique qui leur permettrait de tirer certaines conclusions. Le premier auteur se trouve exactement dans cette conviction. Il parle des progrès qui sont possibles pour toute la société. L’aspect social est spécifique pour cette réponse. Il implique aussi le perfectionnement des sciences, ce qui était le but du concours, mais il le nomme entre autres choses, donc il ne met pas l’accent dessus. Pour rendre l’art de penser aussi parfait qu’il est possible, pour le progres et la perfection des sciences et des arts, pour évitter toute discussion, et rendre toutes les sciences susceptibles de demonstration, pour le commerce, et le bien de la societé, enfin pour bien faire connoitre a nos semblables nos pensées, nos sentiments etc., il est de toute necessité de n’user que de bons signes, d’en inventer, de rejetter ou corriger ceux qui sont vicieux et imparfaits; la perfection des signes etant la perfection les langues. (Anonyme [B1-1] an IV (1797): 19)
On voit aussi dans cet exemple que la position sensualiste, d’après laquelle la perfection de la pensée dépend de la perfection des signes, est incontestée ici. Ceci n’est pas typique pour l’époque. Haßler (1999: 207) a montré qu’il y avait les deux procès de la «Semiotisierung und Entsemiotisierung». Cela signifie que bien qu’il y eût des auteurs qui renforçaient l’importance des signes pour la perfection de la pensée, comme par exemple Cabanis, il y en avait d’autres qui mettaient l’accent sur le fait qu’une nomenclature ne suffirait pas pour obtenir de nouveaux résultats. Il serait toujours nécessaire d’avoir des progrès hors de la langue. Destutt de Tracy par exemple avait soutenu la thèse sensualiste dans ses Eléments d’idéologie en 1801, mais l’a changée en une position modérée par la suite.
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Ces tendances, d’abord une sémiotisation forte et puis une modération et une relativisation, n’ont laissé aucune trace chez nos auteurs. La position sensualiste se trouve dans les trois réponses (rappelons qu’elles étaient dans le premier cercle, jugés non satisfaisants), avec chaque fois un accent un peu différent. L’auteur B1-3 affirme aussi la possibilité d’une perfection de la pensée par la perfection de la langue: «L’art de penser ne peut être parfait que quand notre tête est organisée parfaitement, ce qui est fort rare» (Anonyme [B1-3] an IV (1797)). L’usage du mot ‹tête› paraît pour nous, lecteurs actuels, mal placé, mais cela signifie encore que l’auteur n’est évidemment pas habitué à écrire des dissertations philosophiques. Il est évident que l’auteur soutient la thèse que la perfection de la pensée dépend de la perfection des signes (qu’il remplace ici par ‹tête›). À propos de la perfection, l’auteur admet qu’elle est problématique, mais n’exclut pas l’existence d’une solution: «On peut les corriger; il y auroit moyen de corriger les signes mal faits» (Anonyme [B1-3] an IV (1797)). Il ne donne pas d’indication directe sur comment changer les signes, mais il explique qu’il y a un âge critique chez l’homme: c’est l’enfance. En accord avec les préoccupations pédagogiques des ‹idéologues›, l’auteur de B1-3 décrit que le changement de la langue se ferait dans l’idéal chez les enfants, car la correction chez les adultes serait trop difficile: «Mais il faudrait commencer par les premiers principes que l’on donne aux enfants a fin qu’ils puissent les sucer comme avec le lait; car il en est beaucoup qui ne font que par routine, comme, j’ai apprit d’un bon maître ou un autre d’un mauvais maître de la même profession» (Anonyme [B1-3] an IV (1797)). Le troisième auteur, celui du manuscrit B1-13, présente également la conviction que le perfectionnement des sciences est possible, à la condition du perfectionnement des signes. Mais il y a la restriction selon laquelle ce n’est pas possible pour la philosophie. Cette phrase nous paraît d’autant plus frappante que le but du concours avait été la perfection de la langue en philosophie. Si l’auteur nie la possibilité du perfectionnement en matière philosophique, cela signifie que le but de la question ne peut pas être atteint. En accordant protection et encouragement aux personnes qui se livront à l’étude des arts et sciences, alors leurs progrès ne serviront seulement pas à corriger les signes mal exprimés, mais aussi on trouvera des nouveaux, qui doivent par le temps nous mener à la perfection des arts et sciences existantes et à la connoissance des nouvelles. J’en excepte une seule c’est la metaphysique. Jamais je pense nous ne trouverons des termes ou signes de comparaison exacts parce que cette science est au fond de la portée de l’esprit de l’homme, et ainsi elle fournira je crains un éternel aliment aux disputes. (Anonyme [B1-13] an IV (1797): 1)
L’usage du mot ‹métaphysique› à la place du mot ‹philosophie› (usage qui se trouve surtout chez Descartes) montre très clairement que cet auteur se trouve très éloigné de la discussion philosophique de l’époque. Sa réponse est d’ailleurs très courte et ne contient qu’une seule page. Il ne répond qu’à la cinquième sous-question (celle de la perfection des signes) en disant que les quatre autres questions ne peuvent pas être résolues: «Tout ce qui ne peut être comparé ne peut être conçu et par consequent demontré» (Anonyme [B1-13] an IV (1797): 1).
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Topique 4: Recours à des autorités Le dernier topique est typique pour ce genre de dissertations sur un sujet précis, surtout si ces dissertations sont des réponses à un concours académique. Il s’agit du recours direct ou indirect à des auteurs connus. Cela pourrait certainement flatter l’Institut National (dont on connaissait la prise de position et au milieu duquel se trouvaient des hommes comme Destutt de Tracy), mais cela sert surtout pour consolider le contenu des réponses du point de vue philosophique. Le premier auteur qui est le plus proche des ‹idéologues›, insère une très forte critique de John Locke. Ce n’est pas atypique pour l’époque; certes, les ‹idéologues› se trouvaient sur des bases sensualistes, mais ils les critiquaient aussi très fortement (surtout Condillac, mais également Locke). Leurs positions se cristallisaient avant tout dans l’affrontement avec les sensualistes. Ici, l’auteur attaque le théorème de Locke que l’âme constitue une table rase; selon lui-même, l’âme constitue quelque chose d’actif, un agent qui opère avec les signes: N’est il donc pas de la derniere absurdité qu’une âme qui opère spontanément toutes ces merveilles, soit un être passif et dans la plus grande inertie, en un mot, qu’elle ne soit qu’une table rase, un papier blanc, enfin qu’elle ne reçoive d’idées, comme prétend Locke, que par les sens, et la simple réflexion du sentiment intérieur. J’espère qu’on voudra bien me pardonner si j’insiste un peu a combattre ici l’erreur de Locke, ou son faux système très mal a propos, et très inconsidérément préconisé. (Anonyme [B1-1] an IV (1797): 15f.)
L’attaque de Locke est très directe, en utilisant des expressions négatives comme ‹absurdité›, ‹prétendre›, ‹faux système›, ‹l’erreur›. Il y a aussi une critique de Destutt de Tracy dans la même réponse, mais celle-ci est beaucoup plus cachée et indirecte. Elle est très clairement compréhensible, si le lecteur garde la phrase légendaire de Destutt de Tracy en tête: «Je ferai toujours ces deux mots absolument synonymes [...], et que par conséquent penser c’est sentir» (Destutt de Tracy 1801-1815: I 36–37). Cette théorie, d’après l’auteur B1-1 n’est pas valable; il faudrait faire une stricte séparation de ces deux termes: Ceux qui veulent que toutes nos pensées soient que des sentiments sont aussi mal fondés; n’avons nous pas une infinité d’idées sans sentiments relatifs? La faculté de sentir et celle de penser agissent mutuellement l’une sur l’autre; mais elles sont deux facultés fort differentes (Anonyme [B1-1] an IV (1797): 2)
À part ces références plutôt négatives, il y a d’autres références; la plus prégnante se trouve dans la courte réponse B1-13; celle dont l’auteur avait déjà refusé de répondre aux quatre premières questions. Après la réponse à la cinquième question, il conclut son essai en faisant référence à Condorcet qui aurait expliqué toute la problématique de la meilleure façon possible: «Au reste l’ouvrage posthume de Condorcet est la meilleure réponse que l’on puisse faire à cette derniere question» (Anonyme [B1-13] an IV (1797): 1).
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3. Conclusion Nous avons vu dans cet article trois réponses au concours de 1797 qui participaient au première cercle de ce concours. Les trois réponses, jugées par le jury non satisfaisantes, ont été choisies pour montrer un extrait de la variété des réponses. Celles-ci varient d’une connaissance superficielle de la philosophie des ‹idéologues› (B1-1), à une ignorance complète des discussions (B1-3).7 Ce qui est commun à toutes les réponses, c’est d’abord le recours à Condillac et à des théories sensualistes, et le recours à Destutt de Tracy et aux théories des ‹idéologues›. Ce qui est typique de ces réponses (et aussi de la plupart des autres réponses) est un mélange des théories. Certes, c’était exactement ce mélange théorique qui était typique des ‹idéologues›. On peut même sentir une certaine fierté chez les ‹idéologues› du fait qu’ils avaient une pensée diversifiée et indépendante de n’importe quel courant philosophique: «Nous n’avons aucun chef de secte, nous ne suivons la lumière de qui que ce soit» (Destutt de Tracy 1802, d’après Haßler 1989: 102). Donc, de ce point de vue, ces réponses se trouvent dans la bonne tradition. Seulement, cela est dit d’une manière prudente: il est évident que chez certains auteurs le mélange n’est pas sur une profonde base philosophique. Parfois, les théories paraissent être empruntées occasionnellement. Dans aucune des réponses, nous ne trouvons un seul courant théorique qui soit poursuivi strictement. Nous trouvons tout de même, dans le cadre de ces trois réponses, une sorte de conviction commune. Tous les auteurs affirment l’influence absolue des signes sur la pensée; en même temps, ils se taisent à propos d’une possible réciprocité (l’influence de la pensée sur les signes, ce qui était un grand sujet au milieu du 18e siècle).8 Par ailleurs, tous les auteurs affirment la possibilité du perfectionnement de la pensée par le perfectionnement des signes –sujet d’une grande actualité et qui était contesté parmi les ‹idéologues›. La clarté de la pensée, que les trois auteurs affirment ici, montre encore une fois la proximité avec des auteurs sensualistes, mais il y a aussi (ce qui est très éloigné des sensualistes et encore très proche de certains ‹idéologues›) la recherche d’une solution pour ce perfectionnement. Dans l’idéal, cette solution se base sur une théorie sémiotique qui inclut toutes les opérations mentales. La recherche de cette solution pour atteindre une langue parfaite inclut aussi des mesures pédagogiques; cela constitue le troisième point commun de nos auteurs. Ils ont tous, et cela est encore dû à l’esprit du temps, la conscience que tous les changements doivent commencer chez les plus jeunes, chez ceux qu’on peut atteindre de manière institutionnelle. En guise de conclusion, il nous reste à constater que les réponses au concours sont d’une très grande diversité, mais qu’elles disposent aussi d’une connaissance (plus ou moins) approfondie des thématiques de l’époque. Reste à voir quelles seront les caractéristiques des autres manuscrits. Dans l’ensemble des réponses, il y en a plusieurs qui disposent d’une connaissance très profonde de la philosophie idéologique; nous les analyserons dans des travaux ultérieurs. 8 Voir à ce propos le concours de l’Académie royale de Berlin de 1759 sur «l’influence réciproque du langage sur les opinions» (Académie des Sciences et belles lettres de Prusse: 1760). La réponse du gagnant Johann David Michaelis (1717-1791) implique les deux: l’influence de la langue sur la pensée et de la pensée sur la langue (voir Michaelis 1762). 7
Idée, signes et perfectionnement de la pensée dans trois mémoires du concours académique
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Bibliographie Sources primaires Académie des Sciences et belles lettres de Prusse (ed.) (1760): Dissertation qui a remporté le prix proposé par l’Académie Royale des Sciences et belles lettres de Prusse, sur l’influence réciproque du langage sur les opinions, et des opinions sur le langage, avec les pièces qui ont concouru. Berlin: Haude & Spener. Anonyme [B1-1] (an IV (1797)): Touchant l’influence des signes sur la formation des idées & sujet d’un prix que l’institut national a proposé l’an 4 de la république. Archives de l’Institut de France. Anonyme [B1-3] (an IV (1797)): Memoire pour repondre au probléme de determiner l’influance des signes sur la formation des idées. Archives de l’Institut de France. Anonyme [B1-13] (an IV (1797)): Reponse à la question. Determiner l’influence des signes sur la formation des idées? Archives de l’Institut de France. Classe des Sciences morales et politiques (1795): Mémoires de l’Institut National des Sciences et des Arts: Pour l’an IV de la République. Paris. Condillac, Étienne-Bonnot de (1947-1951 [1746]): Oeuvres philosophiques de Condillac: Texte établi et présenté par Georges Le Roy. Corpus général des Philosophes Francais sous la direction de Raymond Bayer. (Georges Le Roy, éd.). Paris: Presses Universitaires de France. Degérando, Joseph-Marie (1799): Des Signes et de l’Art de Penser considérés dans leurs Rapports mutuels. Paris: Chez Goujon fils. Destutt de Tracy, Antoine Louis Claude (1801-1815): Élemens d’idéologie. Paris: Chez Courcier. Institut National de la République Française (an IV (1796)): Annuaires de l’Institut National. Paris: Imprimerie de la République. Institut National des Sciences et des Arts (an VI): Registre des Procès-verbaux et Rapports de la Classe des Sciences Morales et politiques pour les années 4, 5 et 6 de la République française. Archives de l’Institut de France, A1. — (an IX): Registre des Procès-verbaux et Rapports de la Classe des Sciences Morales et politiques pour les années 7 et 8 de la République française. Archives de l’Institut de France, A2. Lancelin, Pierre François (1801-1803): Introduction à l’analyse des sciences. Paris: Firmin Didot & Bleuet. Locke, John (1975 [1690]) An essay concerning human understanding. Edited by Peter H. Nidditch. Oxford: Clarendon Press. Mémoires de l’institut national des sciences et des arts, pour l’an IV de la république: Science morales et politiques (1795/96): Paris: Baudouin. Michaelis, Johann David (1762): De l’Influence des opinions sur le langage, et du langage sur les opinions: Dissertation qui a remporté le prix de l’Académie des Sciences & belles lettres de Prusse, en 1759, traduit de l’Allemand. Bremen: Förster. Prévost, Pierre (1799): Des signes envisagés relativement à leur influence sur la formation des idées. Paris: Baudouin.
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Claudia Polzin-Haumann (Universität des Saarlandes)
Norme et variation dans la tradition grammaticale française et espagnole
1. Introduction La question de la langue, on le sait bien, est l’un des grands problèmes de la Renaissance et de l’Humanisme (cf. Guthmüller 1998: 7; «die Sprachenfrage ist eines der großen Probleme der Zeit der Renaissance und des Humanismus»). Bien que les conditions de l’usage des langues dites ‹vulgaires› ainsi que leur popularité et leur prestige soient très différents selon le pays en question, il y a des aspects communs qui définissent, globalement dit, un cadre similaire en France et en Espagne, les deux pays qui nous intéressent ici. Je ne ferai qu’esquisser brièvement les aspects centraux suivants: • Au niveau politique, les États nationaux qui se forment favorisent la standardisation linguistique (de même que le nationalisme linguistique dans ses différentes formes). • Au niveau social, l’imprimerie favorise l’expansion des langues nationales en train de naître (et c’est elle aussi, ne l’oublions pas, qui stimule des discussions normatives, par exemple autour de l’orthographe). • Au niveau linguistique, les systèmes se caractérisent par une complexité de paradigmes assez grande, suite aux évolutions linguistiques (surtout phonétiques) qui se sont effectuées en ancien et moyen français et castillan (nous utilisons ces expressions étant consciente de leur caractère flou). Dans la conjugaison des verbes français, par exemple, on observe de multiples alternances radicales (Chaurand 1999: 52-66; nous allons revenir sur cet aspect-là). • Au niveau métalinguistique, au fur et à mesure que les langues vernaculaires commencent à être diffusées et à s’établir dans des domaines traditionnellement dominés par le latin, la réflexion sur ces langues s’intensifie de plus en plus. C’est dans ce contexte culturel et historique que se situent les discussions métalinguistiques, les efforts normatifs, et plus concrètement les grammaires élaborées par différents auteurs. Dans la description et la standardisation des langues vernaculaires on peut distinguer trois aspects principaux: la norme, la variation et l’analogie. Toutes les grammaires et tous les traités linguistiques élaborés à cette époque-là (et plus tard également) doivent, malgré leurs différences, se situer par rapport à ces concepts-clés. Comment définir la norme face à la multitude des formes présentes dans l’usage? Comment traiter le phénomène de la variation? Et quelle place donner à l’analogie? Pour répondre à ces questions, nous avons analysé un corpus de grammaires et traités linguistiques français et espagnols. Par la suite, les principaux résultats de cette analyse seront présentés et commentés.
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Claudia Polzin-Haumann
2. Analyses exemplaires 2.1. Réflexions préliminaires Pour l’analyse de la triade norme –variation– analogie, la morphologie verbale paraît particulièrement intéressante, car elle se situe dans un domaine où entrent en conflit la tradition grammaticale latine, les formes héritées historiquement et la tendance dans l’usage des locuteurs de créer des formes analogiques.1 Bien sûr, nous ne disposons pas de sources qui nous renseignent directement sur les pratiques linguistiques de l’époque. Pourtant, dans les grammaires et les traités linguistiques on peut trouver des indications précieuses qui mettent en lumière –ou qui permettent au moins des inférences concernant– le polymorphisme, la distribution de variantes, les évaluations dianormatives de certaines formes, et les tensions entre norme et usage. Le corpus de notre analyse est composé de différents types de grammaire: grammaires pour les locuteurs de langue maternelle ainsi que pour étrangers (parues à l’étranger ou dans le pays même), grammaires ‹scientifiques› et grammaires à visée didactique, ainsi que des traités qui sont plutôt des descriptions contrastives. Ce corpus assez hétérogène s’explique par les conditions politiques, sociales et culturelles différentes dans les deux pays. Celles-ci déterminent à leur tour une standardisation et une codification propres à chaque pays. Ainsi, en Espagne, une certaine unification interne remonte jusqu’au temps du roi Alphonse X, et le XVIe siècle fut l’époque du rayonnement espagnol en Europe (ceci explique le grand nombre de grammaires destinées à l’enseignement de la langue aux étrangers). En France, par contre, le XVIe siècle se caractérise encore par une plus grande diversité de formes et une certaine concurrence entre plusieurs variétés (diatopiques et diastratiques). Bien que la question du centre politique ait été résolue, la quête d’une norme ne l’était pas encore de manière définitive. Tous ces traits se réflètent dans la conception des grammaires. Dans l’analyse, il faut donc tenir compte des différents types de grammaires. 2.2. Norme, variation et analogie dans la morphologie verbale: une analyse exemplaire Le Tableau 1 montre un exemple de variation à cause d’analogie: l’apparition d’un à la 1re pers. du singulier indicatif présent de certains verbes (deuxième, troisième, quatrième classe). On voit tout de suite les divergences dans les grammaires: parfois il apparaît de manière conséquente (p.ex. Palsgrave, Charpentier), parfois pas du tout (p.ex. Dubois, Estienne, Garnier, de la Ramée, Corro), parfois les grammaires attestent un usage oscillant (p.ex. Cauchie, Bosquet); certains auteurs (comme Estienne) le rejettent, certains montrent eux-mêmes un usage oscillant ou bien des contradictions dans leurs descriptions ou prescriptions (p.ex. Pillot). Mais jamais on n’établit des remarques dianormatives. Cf. Chaurand (1999: 52-54) : «[l]a conjugaison de l’ancien français frappe par sa complexité. Les locuteurs devaient avoir en mémoire de très nombreuses formes sans pouvoir prendre appui sur des régularités […]. L’alternance peut même être triple. Les conjugaisons paraissent se disloquer en plusieurs petits groupes».
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Norme et variation dans la tradition grammaticale française et espagnole
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grammaire
1re pers. du singulier indicatif présent (deuxième, troisième, quatrième classe)
Palsgrave (1530)
toujours , - p.ex. ie conuertis, ie fais, ie meurs, ie (men) vas, ie sors
Dubois (1531) [Sylvius]
toujours Ø, - p.ex. g’è sui,g’è voî, g’è doî, g’è meû
le plus souvent , Du Wes (1532) - p.ex. je tordz, je mordz, je tiens, je viens, je convertis, je bannis, je dis, je lis, mais: j’ay, je scay, j’apercoy Meigret (1550)
oscillant, - p.ex. je voę, ou voęs (112 r.), je li, ou lis (114 r.), je bátí, ou bátís (116 r.)
Pillot (1550, 1561)
oscillant, - p.ex. I’oy, Ie blanchi, Ie puny, Ie tien, Ie cour, Ie meur - mais: Ie sents, Ie quiers, I’acquiers; «Ie tiens, vel, vt aliis placet, Ie tien, dempto s, ad differentiam secundæ personæ [...]» (129). Contradiction: Ie cours, Ie meurs - Ie croy, Ie boy, Ie concoy, Ie sçay, Ie veoy, Ie tay, Ie fay, mais: Ie plais, Ie cognois, Ie repais; conceuoir: ie conceoy, vel cõcois - Ie crains, Ie responds, Ie descends, Ie vis, Ie romps, Ie mords, Ie tords, Ie mets, Ie prens, mais: Ie suy [suivre]; Contradiction: «In quarta, re, vel tota vltima syllaba etiam eliditur: in plerisque, s, addi, ab aliis autem non admitti sæpißimè iam indicauimus vt craindre, ie crain. Respondre, ie respond» (93).
Estienne, R. (1557)
toujours Ø, - p.ex. ie Vay, ie Doy, ie Meu,ie tien, ie vien, ie romp, ie Boy
Meurier (1558)
le plus souvent Ø, - p.ex. ie voy, ie doy, ie vainc, ie romp, ie clo, ie fay, mais je puis, ie veús
Garnier (1558)
toujours Ø, - p.ex. je dor, je ly, je fay, je vay, je dy
Estienne, H. (1565; 1582)
se prononce nettement contre : - «[...] Ie dor: pro quo plerique & scribunt & pronuntiant Ie dors, quanuis litera s ad secundam personam propriè pertineat, ut t ad tertiam [...]» (128); - «[...] quum tamen in eum multo plures incidant, & quidem plerique etiam qui è vulgo non sunt. [...] Rectius tamen illam literam omitti sciendum est» (196); - exceptions: quelques monosyllabes (je suis, je dis, entre autres), devant une voyelle ou par des raisons euphoniques; - généralement: «[...] litera s secundæ verborum personæ propriè conueniat, (vt Latina etiam verba, atque adeo Græca, eam in illa persona amare videmus) non autem primæ [...]» (196).
oscillant Cauchie (1570, - p.ex. ie vai aut vois, ie meu, je veu, ie bati, ie part, ie dor, ie sen, ie mee, ie me repen, mais: 1586) [Caucius] je sors, je sers, je bois toujours Ø, de la Ramée - p.ex. je veu, meu,j’escri, je fay, je di, je vi, je croy, je me, je crain, je respond, je tor, je (1572) [Ramus] vainc, je prend, je basti, je dor, je sor, je vien, je tien oscillant, Bosquet (1586) - p.ex. ie boy, ie croy, ie sçay; ie conçoy, ie voy, mais: «respondre - ie respon, ou respons; viure - ie vy, ou ie vis» (84) Corro (1586)
toujours Ø, - p.ex. ie lie, ie dor, ie fay, ie vay
Charpentier (1597)
toujours , - p.ex. ie lis, i’oys
Tab. 1: polymorphisme et analogie dans les grammaires françaises analysées: l’exemple de
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Le deuxième exemple se réfère à des cas d’alternance vocalique qui se manifestent surtout à la 1re pers. du singulier et la 3e pers. du pluriel (Tab. 2).2 Le corpus montre de toute évidence l’expansion des formes analogiques. Palsgrave (1530) cite ie uveil et ie veulx (formé selon la 2e pers.), également puys / peulx. Les mêmes formes sont mentionnées au milieu du siècle par Pillot (1550) dans l’ordre inverse. Meurier (1558) s’avère particulièrement intéressant car il inclut la forme ie veuil dans les listes de conjugaison, tandis que dans d’autres parties de son ouvrage apparaissent les formes analogiques (avec des graphies différentes). Cauchie signale seulement je veu. Un autre cas intéressant est celui de Ramus qui opte dans l’édition de 1562 pour je veu, pour proposer 10 ans après seulement la forme plus irrégulière (explicable si l’on a recours à la phonétique historique) je vueil. Le verbe mouvoir laisse reconnaître la concurrence entre les formes issues d’un accent qui porte sur le radical et un accent qui porte sur la terminaison. La forme ils meuvent (d’un /o/ ouvert accentué, ce qui correspond aux régularités de la phonétique historique) est documenté dans Cauchie uniquement; déjà Dubois indique ils mouvent ce qui comporte un alignement analogique selon le radical non accentué. Cependant, non seulement R. Estienne, mais aussi Ramus documente les deux formes ils meuvent / ils mouvent. Évidemment, les oscillations entres les formes continuent à exister jusqu’au dernier tiers du siècle. Nous avons là un cas de ‹polymorphisme afonctionnel›, selon les termes de Gauger (1981; «afunktionale Polymorphie»). Pourtant, comme nous l’avons déjà vu dans l’exemple précédent, aucun auteur n’exprime des évaluations dianormatives: grammaire
vouloir, pouvoir, devoir, mouvoir
Palsgrave (1530)
- ie uveil/ie uevlx, tu uevlx, il uevlt, novs uovlóns, uovz uoléz, ilz uévllent (f. XLIIII r); - ie puys/peulx, tu puys, il pevlt, novs povóns, uous povéz, ilz pévuent (f. XXXLIII v). Ils peuslent pour la 3e pers. du pluriel est rejeté (f. CXXX v.); - ie doybs, tu doybs, il doybt, novs deuons, uovs deuéz, ilz dóyuent (f. XXXLIII v.); - ie me meus, nous nous meuuons (f. CCCIIII r.)
Dubois (1531) [Sylvius] Pillot (1550, 1561)
- g’è meû, tu meûs, il meût. Noûs moûuons, voûs moûues, ils moûu-ènt (138) - Ie veux vel Ie vueil, Tu veux, Il veult, Nous voulons, Vous voulez, Ilz veullent (160) - Ie peu vel Ie puis, tu peux, Il peult, nous pouuons, Vous pouuez, Ilz peuuent (162)
- ie Doy, tu Doibs, il Doibt, nous Debuons, vous Debuez, ils Doibuent (55) - ie Meu, tu Meus, il Meut, nous Mouuons, vous Mouuez, ils Meuuent, ou Mouuent (56) - ie veuil, tu veus, il veut, nous voulons, vous voulez, ils veulent (f. 25 v.), mais: Ie veul auoir (f. 19 v.); chap. «Terminaison des quatre langues»: ie veús, ou ie veul (f. 12 r.), peu avant ie veús parler; Meurier (1558) - ie doy, tu dois, il doit, nous deuons, vous deuez, ils doiuent (f. 22v.); - ie puis, tu peus, il peut, nous poüons, vous poüez, ils peulent ou peũent (f. 24 v.) Cauchie - ie meu, tu meus, il meut, nous mouvons, vous mouvez, ils meuvent (f. 56 r.); (1570, 1586) - je veu, tu veus, il veut, nous voulons, vous voulez, ils veulent (f. 57 r.); [Caucius] - je peu/puis, tu peus, il peut, nous pouvons, vous pouvez, ils peuvent (f. 58 r.)
Estienne, R. (1557)
- meu, meus, meust, mouuons, mouuez, meuuent, ou mouuent (93); de la Ramée - [je] vueil, veulx, veult, voulons, voulez, veullent (95) ([ je] veu, 1562:71); (1572) [Ramus] - doy, doibs, doibt, debuons, debuez, doibuent (95)
Tab. 2: polymorphisme et analogie dans les grammaires françaises analysées: l’exemple de vouloir, pouvoir, devoir, mouvoir Surtout l’histoire de vouloir et pouvoir est tout à fait complexe car déjà en latin classique les paradigmes de velle et posse étaient extrêmement irréguliers. Les tendances d’intégrer ces verbes dans des classes plus régulières remontent loin dans le passé.
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Norme et variation dans la tradition grammaticale française et espagnole
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Il en est de même dans les grammaires espagnoles analysées (qui, généralement, montrent un degré d’uniformité plus élevé): Seule la grammaire anonyme de 1555 signale les formes fuisteis et amasteis, formeés analogiquement, qui devraient progresser à partir du XVIIe siècle (Tab. 3):3 grammaire
indefinido, 2e pers. du pluriel
Nebrija (1492)
amastes, leístes, oístes, fuestes (f. 59r.; ed. 1980:238)
Anónimo (1555)
fuisteis (45), amasteis (51), leystes (68), oystes (86)
Anónimo (1559)
amástes (46), corrístes (49), escrivístes (52), fuístes (56)
Miranda (1566)
fuistes (134), amastes (145), leystes (154), oystes (163)
Corro (1586)
fuestes (68), amastes (81), leystes (85), dormistes (90)
Texeda (1619)
fuistes (31), amastes (109), leystes (149), dormistes (218)
Percivale / Minsheu (1623)
fuistes (24), revelastes (26), entendístes (29), oystes (31)
Tab. 3: analogie dans les grammaires espagnoles analysées: l’exemple (-a / -e / -i)stes vs. (-a / -e / -i)steis
Les exemples dans lesquels se manifeste une sélection entre des formes concurrentes sont particulièrement révélateurs. Sur quels critères les auteurs fondent-ils la sélection (qui implique une évaluation sous-jacente de la variation)? Un cas typique de la concurrence de paradigmes se montre dans l’analyse des grammaires françaises (Tab. 4): grammaire
passé simple: vs. (1re classe)
Dubois (1531) [Sylvius]
-ai, -as, -at, -ames, -ates, -arent. «Quibusdam autem magis placet exterendo au-ipsum finire in i, is, it, imès, itès, irènt. [...] Utrunque Parrhisiis vulgo pronuntiari audies. Sed prior à pluribus probatur quod Latinorum imitationi sit propinquior» (122). - «[...] has per a, Galli propemodum omnes qui doctiores videri volunt pronuntiant. Per i, tamen qui efferunt, ratione, vt diximus, non carent» (126).
Meigret (1550)
je l’ęymi, tu l’ęymis etc. = «l’abus», «çe dezordre de parler» (86 r.)
Estienne, R. (1557)
i’aimay etc.; «aucuns escriuent, i’Aimi, tu Aimis, &c.» (43)
Estienne, H. (1565, 1582)
«Dicunt enim multi, J’alli, Tu allis, Il allit: quum dicendum sit, J’allay, Tu allas, Il alla» (194); pareil: je bailli, je mandi, par ex. au lieu de je baillay, je manday p.ex.; en plus je cuellay, j’escrivay, je renday, je venday etc. au lieu de je cueilli, j’escrivi, je rendi, je vendi. «Sed hic reciprocus (ut ita dicam) error potius in prima persona quam in secunda et tertia committitur. Siquidem multorum aures qui dicent j’escrivay, je venday, abhorrebunt tamen ab his tertiis personis, il escriva, il venda» (195). ➔ règle: verbes en -er forment leur parfait en , p.ex. aimer - j’aimay etc.; verbes en -re forment leur parfait en , p.ex. rendre - je rendi (1582: 194s.)
Cauchie (1570, 1586) «Vulgus hîc frequenter impingit efferens hoc præteritum in i sic je frappis, j’alli. [Caucius] Je monti, je mangi etc. pro je frapai, percussi, j’allai, ivi, je montai, ascendi, je mangeai, edi, etc.» (45v). de la Ramée (1572) [Ramus]
«[...] la premiere personne du præterit parfaict selon le vulgaire est formee par I, & que les aultres personnes changent a en I, comme aussi au troisiesme præterit imparfaict, comme, Aimi aymis aymi, &c.» (84)
En espagnol des alternances vocaliques sont attestées dans les grammaires historiques, par exemple entregar > entriego/entrego (cf. García-Macho/Penny 2001:50-52). Mais on n’en trouve aucune trace dans les grammaires analysées.
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grammaire
passé simple: vs. (1re classe)
Bosquet (1586)
- infinitif en -er ➔ premier parfait en -ay. «Au contraire de ceux quy barbarement disent- ie donnà, ie frappà; ou donny, frappy: & les mieux parlans François, changent -ay, en -e -clos, comme -ie donné, ie frappé, &c.» (81). - infinitif en -oir(e) ➔ premier parfait en -u «ainsy - Ie conceu, ie beu [...] Et non comme la commune par corruption dit -ie beuuy, & nous beuuismes» (82).
Corro (1586)
«Noteront les estrangers, qu’en la langue Françoise la premiere & secõd coniugaison sont reguleires & ne faillent iamais. Mais la troisiesme souuentesfois n’observe point sa regle aux preterits: comme on voit en ces verbes lesquels estant rangez à la troysiesme inflection, forment leur preterit en is, ansi comme i’aymis, commis, requis, acquis, conquis, &c.» (110)
Tab. 4: évaluation dianormative des formes du passé simple en ‹-i-›
Évidemment, beaucoup de grammairiens constatent que le passé simple dans la 1re classe se termine en -i et non en -a, par exemple, j=alli(s) au lieu de j=alla(i/y). Mais les évaluations à propos de cette évolution sont très différentes. R. Estienne (1557), par exemple, se limite à constater dans un ton absolument descriptif «aucuns escriuent, i=Aimi, tu Aimis, &c.», tandis que Meigret (1550) porte un jugement catégorique concernant le paradigme en -i-, parlant d’un abus ou d’un «dezordre de parler». H. Estienne (1582) qui, d’ailleurs, observe également le cas contraire, c’est-à-dire -ay analogique pour -i, fournit une description centrée sur une règle: les verbes en -er forment leur parfait en -ay, les verbes en -re, par contre, en -i. Cependant, aucun de ces trois auteurs ne se risque à un classement social ou régional. Contrairement à ce manque d’évaluation, Cauchie (1586), Ramus (1572) et Bosquet (1586) attribuent ce phénomène à des locuteurs incultes. En d’autres mots, ils le marquent comme écart diastratique de la norme, ne mentionnant pas la possibilité des processus analogiques. Cette focalisation de la dimension diastratique est tout à fait caractéristique des grammaires françaises. Un tel point de vue est beaucoup plus rare dans les grammaires espagnoles. Ce qu’on pourrait mentionner ici, c’est l’exemple des participes (Tab. 5): grammaire Texeda (1619)
participes de morir, volver, escribir, bendecir / maldecir - «De el que habla bien Español. He muerto, tengo muerta. I’ay tué [...]. De el que habla mal Español. He matado, tengo matada. I’ay tué.....» (146s.); - «Participios cortesanos» buelto, bueltos retourné, retournez etc. vs. «Participios villanos» bolbido, bolbidos, retourné, retournez etc. (216s.); - «Participios cortesanos de el verbo Escreuir»: escrito etc. vs. «Participios groseros y villanos de el mismo verbo» escriuido etc. (258s.); - bendecir/maldecir (251-256): bendito (252) et bendecido (254). «Estos dos verbos tienen estas dos maneras de participios, y portãto cadavno puede hacer y componer los preteritos con qual quiera de ellos como ba puesto por exemplo en el verbo que los preteritos de indicatiuo y optatiuo, van compuestos con el participio bendito, y los de sujuntiuo, infinitiuo, y gerundio, con el participio bendecido» (256s.).
Tab. 5: évaluation dianormative de la variation dans la formation du participe: Texeda (1619)
Se basant sur la formation du participe, Texeda distingue deux groupes de locuteurs: «el que habla bien» et «el que habla mal». Plus concrètement, certains participes sont caractérisés comme cortesanos, d’autres comme groseros y villanos. Ces considérations définissent le marquage diastratique, et ce sont généralement les formes analogiques qui sont dévalorisées.
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Cependant, il faut souligner que ce cas est assez rare dans notre analyse; il ne semble pas du tout être représentatif des grammaires espagnoles de l’époque analysée. D’ailleurs, Texeda lui-même nous donne peu après l’exemple d’une description ‹neutre› (bendecir / maldecir). Ce qui est caractéristique des grammaires espagnoles analysées, c’est la position des auteurs face à la variation diachronique. Prenons l’exemple du paradigme du présent des verbes dar, ir, ser et estar (Tab. 6) : grammaire Nebrija (1492)
Valdés (1535)
dar, ir, ser, estar (1re pers. du singulier indicatif présent) - vo, vas, va, vamos, vais, van; - so, eres, es, somos, sois, son (f. 58 v.) «Los verbos de una sílaba, que, por ser tan cortos, algunas vezes por hermosura añadimos i sobre la o, como diziendo do, doi, vo, voi, so, soi, sto, stoi» (f. 62 v.). «Yo so, por yo soy, dizen algunos, pero, aunque se pueda dezir en metro, no se dize bien en prosa» (ed. 1999:160).
Anónimo (1555)
soy, eres, es, somos, soyes, sont (44)
Villalón (1558)
soy (f. C3 v.)
Anónimo (1559) Miranda (1566)
soi, éres, es, sómos, sois, son (f. 55s.) - soy, eres, es, somos, soy, son (132); - estoy, estas, esta, estamos, estays, estan (140, 193) - soy, eres, es, somos, soys, son (67); - voy, vas, va, vamos, vais, van (98) soy, eres (f. 19 v.) - soy, eres, es, somos, sois, son (78-80); - doy, das, da, damos, dais, dan (127s.); - estoy, estas, esta, estamos, estais, estan (133s.); - voy, vas, va, vamos, vais, van (225) - soy, éres, és, sómos, sóis, són (24); - doy, dás, dá, dámos, dáys, dán (35); - estoy, estás, está, estámos, estáys, están (38); - voy, vás, vá, vámos, váys, ván (66) «Este verbo ser en la primera persona de presente indicativo se solia dezir so i ansi se halla en libros antiguos, ia se á estendido en soi, con una i, como doi, voi, estoi, [...]» (257). «A los quatro sighientes por sonoridad se les añade i, doi, estoi, soi, voi, por dar, estar, ser, ir: de cien años atras se dezian do, esto, so, vo, i se usa alguna vez» (268).
Corro (1586) Jiménez Patón (1614) Texeda (1619) Percivale/Minsheu (1623) Correas (1625)
Tab. 6: évaluation de la variation diachronique dans les grammaires espagnoles analysées
Déjà Nebrija observe que dans les verbes monosyllabiques il existe deux sous-systèmes en concurrence qui se caractérisaient par les terminaisons -o et -oi: «Los verbos de una sílaba, que, por ser tan cortos, algunas vezes por hermosura añadimos i sobre la o, como diziendo do, doi, vo, voi, so, soi, sto, stoi». L’écart de la ‹bonne terminaison› s’explique dans cette grammaire comme lié au renforcement de formes phonétiquement faibles («por ser tan cortos») et à des aspects euphoniques («por hermosura»). Valdés identifie la nature des formes concurrentes, disant: «Yo so, por yo soy, dizen algunos, pero, aunque se pueda dezir en metro, no se dize bien en prosa». Mentionnant l’usage possible en vers, Valdés fait peut-être allusion au caractère archaïque de la forme à son époque; seul algunos implique une possible restriction sociale. En tout cas, ici aussi nous avons une prise de position assez nette pour soy.
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Comme nous l’avons vu, Nebrija et Valdés discutent explicitement l’existence de deux paradigmes. Contrairement à cette position, toutes les grammaires suivantes (les anonymes de 1555 et 1559, Miranda (1566), Corro (1586), Jiménez Patón (1614), Doergangk (1614), Texeda (1619) et Percivale / Minsheu (1623)) ne mentionnent que les formes en [-i] (au niveau graphique ou ), ce qui nous permet de les classer comme ‹neutres› (non marquées). Finalement, Correas (1625) constate explicitement que les terminaisons en -o sont vieillies. Cet exemple souligne de manière exemplaire que la majorité des grammairiens de l’espagnol préfère les formes analogiques; évidemment ils ont tendance à documenter l’usage contemporain. À la différence de la lexicographie espagnole de l’époque se dessine ici une synchronie assez étroite. La multitude de formes se voit limitée autant que possible. En somme, tandis que dans les grammaires espagnoles se profile la tendance de réduire le plus possible le degré de ‹polymorphisme afonctionnel›, dans les grammaires françaises nous constatons une discussion beaucoup plus vive. La diversité de formes est plus élevée, et très souvent, les auteurs cherchent à faire disparaître le polymorphisme en modélisant une variante leader qui est déterminée à l’aide de critères sociaux. L’alignement analogique court ainsi le risque de ne pas être conforme à la norme.4 Le critère social jouera également un rôle important au XVIIe siècle, dans l’œuvre de Vaugelas par exemple, bien que le discours normatif soit relatif, en ce siècle, à des conditions politiques, sociales et culturelles assez différentes de celles du XVIe.
3. Bilan et perspectives Nos analyses montrent clairement que les décisions prises par les auteurs sont tout à fait différentes pour les deux langues –ce qui ne veut pas dire, bien sûr, qu’il existe une homogénéité concernant chaque langue: ici aussi, nous avons pu constater des différences assez nettes entres les grammaires. Les analyses mettent en relief comment les systèmes linguistiques sont déterminés par le jeu d’évolutions linguistiques historiques d’une part, et d’autre part par des réflexions métalinguistiques ainsi que les efforts normatifs de certaines autorités dans des contextes politiques, sociaux et culturels. Dans l’ensemble, le continuum variationnel français et le continuum variationnel espagnol se sont, semble-t-il, développés historiquement à partir de processus de sélection et de traditions normatives assez différents. C’est la perspective Déterminer dans quelle mesure le classement social de certaines formes correspondait à la réalité contemporaine n’est pas le sujet de notre étude. Sans doute il peut s’agir de stéréotypes, par exemple des idées sur la manière de parler ou les habitudes de prononciation de certains groupes de la société. Dans certains cas on peut supposer que des exemples de variation diatopique ont été compris comme variation diastratique. Le futur Louis XIII, par exemple, utilise dans son enfance les formes du passé simple proscrites, le Journal d’Héroard en fait preuve (surtout les parties 1605-1611). Peutêtre s’agit-il ici d’un problème de marquage plus fréquent dans certaines régions, c’est-à-dire de variation diatopique. Il est d’autant plus frappant que dans les grammaires françaises analysées on l’interprète au niveau social.
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contrastive qui met en lumière le fait que les langues n’ont pas en eux-mêmes le trait d’être ‹régulières› ou ‹irrégulières›. Au contraire, des tendances existantes sont confirmées par une sélection et, par la suite, une implémentation de certaines formes selon des critères dianormatifs. Sous cet angle, le français et l’espagnol connaissent des traditions tout à fait différentes, ce qui détermine leurs structures respectives jusqu’à aujourd’hui. Peut-on affirmer, face à ces résultats, que nous avons là les racines du jugement assez répandu selon lequel le français est une langue ‹difficile›, face à l’espagnol réputé plutôt ‹facile›? On serait tenté de le faire. Cependant, il faudrait d’autres analyses pour préciser cette impression, mais c’est sans doute une tentative de poser un fondement plus fiable à un stéréotype qui, comme tous les stéréotypes, se voit d’une part souvent dénoncé, mais d’autre part garde sa vigueur.
4. Bibliographie 4.1. Corpus Anónimo: Vtil, y breve institvtion para aprender los principios y fundamentos de la lengua hespañola. Lovaina, 1555 (Edición facsimilar con estudio e indice de Antonio Roldán. Madrid: CSIC, 1977). Anónimo: Gramatica de la Lengua Vulgar de España. Lovaina, 1559 (Edición facsimilar y estudio de Rafael de Balbín y Antonio Roldán. Madrid: CSIC, 1966). Bosquet, Jean: Elemens ov institvtions de la langve françoise, propres povr façonner la Ieunesse, à parfaictement, & nayuement entendre, parler, & escrire icelle langue. Ensemble, vn Traicté de l’office, des Poincts, & Accens. Plus vne table des termes, esquelz l’S, s’exprime. Le tout reueu, corrigé, augmenté, & mis en meilleur ordre qu’auparauant, par son Autheur premier. Mons, 1586 (Réimpression Genève: Slatkine, 1973). Cauchie, Antoine: Antonii Cavcii Grammaticæ Gallicæ Libri Tres, Ad Illvstrissimos Holsatiæ Duces. Paris, 1570 (Strasbourg: Jobinus, 1586). Charpentier: La parfaicte methode povr entendre, escrire, et parler la langue Espagnole, diuisée en deux parties. La premiere contient briefuement les reigles de Grammaire. La seconde, les recherches des plus beaux enrichissements de la langue qui seruent à la composition & traduction. Premiere partie. Paris, 1597. Correas, Gonzalo: Arte de la lengua Española Castellana. 1625 (= RFE, Anejo 56. Edición y prólogo de Emilio Alarcos García. Madrid: CSIC, 1954). Corro, Antonio del: Reglas gramaticales para aprender la Lengva Española y Francesa, segun el orden de las partes de la oracion Latinas. Oxford, 1586 (Estudio y edición de Lidio Nieto. Madrid: Arco Libros, 1988). Dubois, Jacques: Iacobi Syluii Ambiani in linguam Gallicam Isagoge, vna cum eiusdem Grammatica Latino-gallica, ex Hebraeis, Graecis, & Latinis authoribus. Paris, 1531 (Texte latin original, traduction et notes de Colette Demaizière. Paris: Champion, 1998). Du Wes, Giles: An introductorie for to Lerne, to Rede to Pronounce and to Speke French trewly. London, 1532 (Réimpression Genève: Slatkine, 1972). Estienne, Henri: Traicté de la conformité du langage François auec le Grec, Diuisé en trois liures [...]. Genève, 1565 (Réimpression Genève: Slatkine, 1972). Estienne, Henri: Hypomneses de Gallica Lingva, peregrinis eam discentibus necessariæ: quædã verò ipsis etiam Gallis multum profuturæ. Paris, 1582 (Facsimile Genève: Slatkine, 1968).
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Marta Prat Sabater (Universitat Autònoma de Barcelona)
Los pronombres de tratamiento en la tradición gramatical hispana1
1. Introducción El uso de las fórmulas de tratamiento no se ha interpretado siempre del mismo modo a lo largo de la historia del español. Los efectos que inciden en la evolución de los elementos de cualquier lengua son muy dispares y no siempre están relacionados directamente con la lingüística. Desde el punto de vista pronominal, hacemos referencia al empleo de los distintos pronombres personales tónicos de segunda persona. En la actualidad, si tenemos en cuenta las distintas áreas de habla hispana, disponemos de tú, vos y usted, para el singular, y vosotros o vosotras y ustedes, para el plural. Los étimos directos de tú y vos son las correspondientes formas latinas tū y vōs. La primera siempre se ha relacionado con la informalidad, mientras que el empleo de la segunda destaca por haber alternado la condición de formal e informal a lo largo de su existencia en la lengua española y en función de las zonas en que se ha utilizado o se sigue utilizando. En la etapa actual, ambos son interpretables como informales, el primero, en España y parte de Hispanoamérica y el segundo, sólo en parte de Hispanoamérica. El origen de usted es distinto. Resulta de las múltiples transformaciones que se producen de la fórmula de tratamiento vuestra merced, según indican varias fuentes, entre ellas y de un modo más detallado Alcina / Blecua (1975/51987): vuestra merced, vuesa merced, vuesamerced, vuesarced, usarced, vuarced, voarced, vuced, uced, océ, vuesancé, usancé, vuested y vusted2. Usted ha sido y sigue siendo la forma característica del singular para el tratamiento de respeto en todas las zonas de habla hispana. Vosotros y vosotras no se han constituido siempre como únicos recursos para indicar el plural. Antes de sus primeras apariciones en la Edad Media, se utilizaba vos con el mismo sentido. El recurrente uso del adjetivo otros, para el masculino, y otras, para el femenino, junto con la forma inicial propició que estos elementos distintivos de género sufrieran La investigación para desarrollar este trabajo ha sido parcialmente financiada con las ayudas del Ministerio de Ciencia e Innovación para los proyectos «Portal de léxico hispánico: bibliografía, léxico y documentación» (FFI2008-06324-C02-01) y «La expresión de la cortesía lingüística en español: estudio de los marcadores gramaticales y fónicos desde una perspectiva panhispánica» (FFI2008-02103/FILO), además del apoyo del Comissionat per Universitats i Recerca de la Generalitat de Catalunya concedido al Grup de Lexicografia i Diacronia (SGR2009-1067). 2 Véase también Lapesa (1970) para un análisis completo de la evolución de vuestra merced. 1
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una progresiva gramaticalización3, que favorecería la creación de la forma definitiva del pronombre de segunda persona del plural. Este pronombre se utilizaría siempre en la mayor parte del área hispana peninsular para el tratamiento informal: vos > vos otros / vos otras (valor enfático) > vosotros / vosotras (pérdida del valor enfático, consiguiente gramaticalización y unión de ambos elementos lingüísticos).4 La ausencia de vosotros y vosotras en Hispanoamérica y Canarias se suplió con el plural ustedes. También se utiliza con valor informal en algunas zonas andaluzas. Este mismo pronombre es al mismo tiempo indicativo de formalidad en todas las áreas de habla hispana. En los casos en que existe confluencia de interpretaciones, el contexto es el que esclarece la adecuada comprensión de su significado. Después de esta breve síntesis etimológica ha podido observarse que los pronombres de tratamiento han sufrido cambios que pueden interpretarse tanto desde el punto de vista gramatical o lingüístico como pragmático, directamente vinculado, este último, con el área geográfica de habla hispana en la que se utilizan y con el tipo de relación que existe entre los interlocutores. El objetivo de esta comunicación consiste en analizar si ambos fenómenos evolutivos se han integrado en la tradición gramatical hispana o si, por el contrario, sólo se ha contemplado la información estrictamente descriptiva o prescriptiva de los valores lingüísticos de las distintas formas pronominales. Si lo que predominara fuera esta segunda opción, se requeriría la complementación con otros datos puesto que el conocimiento exclusivamente gramatical no sería suficiente ni para efectuar el empleo adecuado de estos deícticos en todas las zonas hispanohablantes ni para su uso correcto desde el punto de vista sociológico o pragmático.5 En un reciente estudio sobre si estos puntos de vista complementarios aparecen incluidos en la historia lexicográfica del español (Prat 2009), se ha demostrado que en la mayoría de diccionarios generales las definiciones no sólo se han estructurado a partir de parámetros gramaticales, sino que han tenido que relacionarse con la pragmática del tratamiento y las condiciones sociolingüísticas de los hablantes según se observa, como es esperable, en un diccionario de dudas como el DPD. Este primer estudio es el que ha motivado el presente trabajo.
Se interpreta el término gramaticalización como «adquisición por parte de una unidad lingüística de un contenido gramatical o más abstracto» (Cifuentes 2003: 14). Dicho de otro modo, la progresiva pérdida o abstracción semántica propicia la adquisición de valor gramatical. Para un repaso completo en la bibliografía de la evolución que ha experimentado la interpretación de este concepto, véase Campbell / Janda (2001). 4 Ocurrió el mismo proceso en la primera persona del plural: nos > nos otros / nos otras > nosotros / nosotras. 5 Para un análisis completo de la prágmática y la sociolingüística de los pronombres de tratamiento en español, véase Blas Arroyo (2005), tema IX. 3
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2. La consideración de los pronombres personales tónicos en gramáticas del español La tradición gramatical hispana está formada por un número significativo de obras cuyo objetivo es presentar, sea de forma descriptiva o prescriptiva, los elementos de los diferentes niveles de la lengua y sus posibles combinaciones. El punto inicial de nuestro estudio lo debemos situar en el año 1492 con la Gramática castellana de Nebrija. Desde finales del siglo XV hasta la actualidad (RAE 2009), en función del espacio disponible para la redacción de este trabajo, se han seleccionado algunas de las gramáticas que pueden considerarse representativas de la tradición española. Se considera que Nebrija fue quien escribió la primera gramática de la lengua romance castellana, según denomina aún este autor. Se trata de una muestra de los esfuerzos humanísticos que, a diferencia de Italia, todavía no han cobrado excesiva fuerza en el territorio español. Desde el punto de vista lingüístico, es importante tener en cuenta que esta época se caracteriza por «una desvalorización no del latín, sino –que no es exactamente lo mismo– del estudio del latín» al mismo tiempo que «los predicados positivos que se atribuyen a la lengua española son muchos y muy variados» (Martínez 2004: 687), entre ellos elegancia, armonía, magnificencia, riqueza, variedad, etc. El propósito de Nebrija es el de establecer las reglas que rigen las propiedades intrínsecas de una lengua moderna como el español. La principal novedad radica en el hecho de que este trabajo anteriormente sólo se había concedido al griego o al latín, lo que supone, sin lugar a dudas, la equiparación del pasado con el presente tanto desde el punto de vista de contenido lingüístico como de reconocimiento de las lenguas descendientes. El capítulo de los pronombres (viij) está incluido en el libro tercero «que es de la etimología i dición». Según el maestro, los accidentes del pronombre, en los que podemos distribuir los personales tónicos de segunda persona, son seis: especie (primogénita o derivada), figura (simple o compuesta), género (masculino, femenino, neutro o común), número (singular o plural), persona (primera, segunda o tercera) y declinación por casos. Dentro de la figura, destaca el «emphasi» con el que relaciona las formas «nos otros» y «vos otros», escritas aún de forma separada. En cuanto a la declinación, ordena las estructuras de los distintos pronombres de acuerdo con la función sintáctica que desempeñarían en una oración. Así, por ejemplo, tu, de ti, te o ati, te o ati y o tu serían representativos de los cinco casos, del mismo modo que vos, de vos, vos o avos, vos o a vos, y o vos. Hallamos pocas explicaciones que puedan relacionarse con la pragmática. Una de ellas podemos extraerla de la propia definición que encabeza el capítulo cuando especifica implícitamente que este tipo de palabras posee un significado ocasional: «llámase pronombre porque se pone en lugar del nombre propio porque tanto vale io como Antonio, tú como Hernando». Depende, por tanto, del nombre al que sustituye, directamente relacionado con el contexto en el que se halla el emisor. Otra alusión a la pragmática puede encontrarse cuando define la noción de persona y hace referencia a quienes intervienen en el acto comunicativo que, en nuestro caso, estarían basados en el receptor (tratamiento formal o informal de segunda persona). De mediados del siglo XVI, se ha seleccionado la Gramática de la lengua vulgar de España. El adjetivo vulgar, en este caso, no debe interpretarse en sentido peyorativo, sino que su función consiste básicamente en evitar los términos castellano y español, considerados inapropiados por el propio autor:
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me parescio nombrarla no Española, ni Castellana, sino Vulgar […] porque siendo la más vulgar, la más usada, i la que más tierra ocupa en toda España, fue necessario hallarle un nombre conforme alo que ella es, para que se diesse acadauno lo suio, quitando todo perjuizio i contienda […]. [Anónimo de Lovaina 1559: 8]
En el estudio preliminar de esta edición facsímile, elaborado por Balbín y Roldán (1966: se manifiesta que el autor sigue el modelo de Nebrija cuando discurre acerca de los pronombres. Organiza los personales de acuerdo con la persona a la que hacen referencia (primera, segunda o tercera) y manifiesta el género y número que poseen según su forma gramatical. Si nos fijamos en la segunda, que es la que interesa para los propósitos de esta contribución, la declinación que presenta es tu (nominativo), de ti (genitivo y ablativo), a ti (dativo) y te (acusativo), para el singular; vos o vosotros y vosotras (nominativo y acusativo), de vos / vosotros / vosotras (genitivo y ablativo), y a vos / vosotros / vosotras (dativo). Las formas de nominativo (tú, para el singular, y vos o vosotros y vosotras, para el plural) son las que considera de especie primogénita, según la terminología de Nebrija. Resulta interesante observar, desde el punto de vista evolutivo, que, a diferencia de su antecesor, no escribe por separado los plurales vosotros y vosotras, aunque sí se desprende que todavía conviven con vos. Desde el punto de vista pragmático, no es posible advertir explícita o implícitamente ninguna referencia. A pesar de que, por lo general, «la Gramática de Nebrija tuvo muy poco éxito» en su época –sólo se publicó una vez y una segunda edición no saldría hasta el s. XVIII (Martínez 2004: 288)6–, influyó también a Correas que, a principios del segundo cuarto del siglo XVII publicaría su Arte kastellana. Esta obra está organizada en dos partes: la primera relativa a la «ortografía» y la segunda, al «arte de la gramática de la lengua kastellana», donde incluye las «partes de la oración» que, según el autor, deben limitarse a tres: nombre (en el que incluye el pronombre), verbo y partículas. Es evidente que el concepto de arte tiene el significado propio de la época medieval y clásica y, de acuerdo con Nebrija, hace referencia a todo lo que está fijado por reglas, que perfeccionan, según esta concepción y en lo que aquí corresponde, el conocimiento y uso de cualquier lengua. La definición que propone para el pronombre –aplicable a pronombre personal– coincide, como el propio Correas manifiesta, con las definiciones latinas y griegas que se concedieron a este concepto y, si realizamos una comparación cronológicamente más cercana, con la del propio Nebrija: «el que se pone en lugar de nonbre propio como io, tu, aquel» (p. 126). Menciona, a continuación, sus posibles propiedades que le permiten clasificarlos en «demostrativos, rrelativos, interrogativos, indefinitos, o indeterminados». Encabeza la ordenación de pronombres personales de segunda persona, integrados en el primero de estos grupos, con el título de «prononbre de segunda persona comun a los dos géneros en manera sustantiva» (p. 127) y los divide, al igual que Nebrija, por casos (nominativo, genitivo, dativo, acusativo y ablativo), según si tienen número singular (tu; de ti; a ti, para ti y te; te y a ti; y contigo, en ti, de ti, por ti, sin ti y so) o plural (vos; de vos; a vos y para vos; vos, a vos y os; y con vos, en, de, por, sin, so). Especifica, a continuación, que existe «otro plural conpuesto mas usado adjetivado para macho i henbra»: vosotros y vosotras. li-lii),
Se reconocía principalmente el valor del trabajo de Nebrija por su «reforma en la enseñanza del latín», recogida en sus Institutiones latinae (Martínez 2004: 288).
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Resulta interesante la precisión de «mas usado» que la precede. Es indicativa ya de la poca utilización del vos como pronombre de segunda persona para el plural. La relación con la pragmática sólo podríamos hallarla en la definición, que nos relaciona implícitamente con el contexto del acto comunicativo que permite dilucidar quién es el receptor a quien se dirige el emisor, representados por dichos pronombres. La Gramática de 1771 es la primera que publicó la Real Academia Española y la que se ha escogido, por lo tanto, como representativa del siglo XVIII. Después de la fundación en Madrid de la Academia Española de la Lengua en 1713 y celebrada la culminación de su primera obra, el Diccionario de Autoridades, empezaron los trabajos para la elaboración de una gramática que saldría a luz unos sesenta años más tarde. Según manifiesta Ramón Sarmiento en la introducción al facsímile que se ha consultado, una primera obra de estas características guarda «semejanzas con toda la tradición gramatical anterior» (p. 30), como es comprensible, pero añade que «nunca fue concebida como algo acabado, perfecto o definitivo», sino que «a sabiendas de la inestabilidad idiomática, nació […] con vocación de proyecto multisecular» (p. 45). El contenido está organizado en dos partes: la primera trata de etimología, cuyo «objeto era el estudio de las palabras» (p. 48) y la segunda de sintaxis, centrada en el «estudio de la oración» (p. 50). Los pronombres personales están ordenados en el segundo artículo del cuarto capítulo de la primera parte con el título «Del pronombre». La definición de pronombre personal guarda estrecha relación con la pragmática porque, sin mencionar este término, se hace referencia a lo que designa cada uno de ellos en función del contexto en que se encuentra dentro del acto comunicativo: Pronombres personales son los que se ponen en lugar de nombre que significa persona, ó cosa que hace su oficio, como: yo, tú, él. Yo sirve para la primera persona, que es quien habla: tú para la segunda, que es á quien se habla: él para la tercera, que es de quien se habla. [RAE 1771: 37]
En cuanto a los de segunda persona, hace referencia a las distintas formas que adquieren, dependiendo de la función sintáctica que desempeñan en el enunciado del que forman parte, tanto para el singular (tú, tí, te, contigo), «comunes á varones, y hembras» (p. 37), como para el plural (vos o vosotros y vosotras), distintivos de género por lo que se refiere a las formas compuestas. Partiendo de las gramáticas analizadas hasta el momento, en la académica se advierte por primera vez la utilización de vos como indicativo de un tipo de trato en contextos en los que debe imperar el protocolo: los plurales nos, y vos (quando no se juntan en composición con el adjetivo otros, y otras) sirven para varones, y hembras; y sin embargo de ser plurales por su naturaleza, suelen por el uso juntarse con algunos nombres de singular, particularmente en provisiones reales, y despachos de curias eclesiásticas: v. g. quando el Rey dice: Por quanto por parte de vos (Fulano) nos há sido hecha relacion. [RAE 1771: 40]
Esta ejemplificación del posible uso de vos junto a un nombre propio indica su distinción respecto a las funciones de la forma compuesta (vosotros) y puede relacionarse directamente con la información que la Academia recogía en el último volumen de su Diccionario de la Autoridades (1739), de que vos puede usarse «como tratamiento que dan los superiores á los inferiores». Es indicativo, pues, de la distancia social entre interlocutores y representativo de un posible valor pragmático.
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De la primera mitad del siglo XIX, destacamos la Gramática de la lengua castellana según ahora se habla, de Salvá. Desde 1830, se publican sucesivas ediciones hasta la última que corrige el propio autor, de 1847, que es la que se ha consultado. Se trata de una obra sincrónica de carácter descriptivo y normativo que, a diferencia de las anteriores, no se restringe a la lengua escrita o a la variedad literaria, sino que resulta innovadora, como su título indica, por el análisis del uso oral de su tiempo. Está organizada en dos grandes partes: la primera, referente a la analogía7, y la segunda, a la sintaxis. A diferencia de lo que ha ocurrido en la tradición gramatical analizada hasta el momento, el pronombre se trata en ambas partes. En la primera, se integra en el cuarto capítulo en el que también hace referencia al artículo. Ambos se describen desde el punto de vista lingüístico. En la definición de pronombre combina los puntos de vista gramatical y prágmatico, es decir, las características gramaticales propias y su aplicación en el habla: El pronombre es un signo que indica las personas que intervienen en la conversación. Como éstas no pueden ser más de tres, la que habla (yo o nosotros), aquella a quien se dirige la palabra (tú o vosotros) y la persona o cosa de que se trata (él, ella, ello, y ellos, ellas), por eso en ninguna lengua puede haber más que tres pronombres propiamente dichos, que son los llamados personales por los gramáticos. [Salvá 1847/1988: 202]
Ofrece, a continuación, las correspondientes declinaciones de cada uno de ellos. De la segunda persona, respetando su terminología, destaca para el singular y referente a ambos géneros la forma tú (caso recto), te (caso objetivo), y ti y te (casos oblicuos). En cuanto al plural, diferencia, para todos los casos, vos (sin distinción de género) y vosotros o vosotras (el primero para el masculino y el segundo para el femenino). La forma os (representativa de todos los casos excepto el recto) es común a ambos géneros. En la parte de sintaxis, se ha reservado el capítulo decimocuarto a los pronombres. En esta ocasión, se tratan tanto desde el punto de vista gramatical (explicación de su comportamiento dentro de las oraciones) como pragmático (especificación de sus funciones en el acto comunicativo). Con relación a los pronombres personales de segunda persona, en el primer caso se especifica que pueden preceder o posponer al verbo (excepto en los imperativos) y omitirse cuando pueden suponerse por la forma verbal, menos en el momento en que se desee enfatizar el agente o pueda existir algún tipo de ambigüedad. En el segundo caso, hace referencia a usted y a vos. El primero de ellos, sobre el que especifica su procedencia (vuestra merced), su forma en plural (ustedes) y su concordancia con el verbo (tercera persona), «es peculiar para las personas a quienes dirigimos la palabra, si no tenemos con ellas un parentesco, dominio o familiaridad que nos autorice tutearlas; lo que sólo hacen los padres con sus hijos, algunos amos con sus criados y los amigos íntimos, particularmente si lo son desde la niñez» (pp. 385-386). Con estas breves indicaciones, resume en qué contextos deben utilizarse los tratamientos de formalidad (usted/ustedes) e informalidad (tú/vosotros o vosotras), respectivamente, a lo que añade que el tuteo puede llegar a admitirse para «hablar a Dios y a los santos de tú, sin que disuene esta sobrada familiaridad, si se quiere, por lo que encierra de afectuoso» (p. 386). A pesar de esta permisividad, considera que vos, que debe conjugarse siempre en segunda persona del plural, es más adecuado «para hablar con Dios, con la Virgen Santísima y con los santos» del mismo modo que «las personas del estado llano suelen usarlo en ciertas partes de Castilla cuando dirigen la palabra a los hidalgos, En su primera edición (1930), llevaba la denominación de etimología, que cambiaría a partir de la segunda edición por la de analogía.
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corregidores, etc.» (p. 386). De las explicaciones de Salvá, se desprende que vos posee cierto valor de respeto por lo que puede emplearse «en las provisiones reales y en los despachos de algunos tribunales, en lugar de usted» (p. 386). Esta breve síntesis del contenido pronominal de esta obra ha evidenciado que, además de los detalles gramaticales que ha descrito, por primera vez se concede un espacio amplio a los distintos tipos de tratamiento, directamente vinculados con la disciplina pragmática. De mediados del siglo XIX, resulta oportuno destacar, asimismo, la Gramática de la lengua castellana destinada al uso de los americanos de Andrés Bello. Esta obra es especialmente interesante, como se desprende de su título, por una perspectiva más amplia. Hasta el momento ha prevalecido la consideración de que la base del español era la peninsular, pero en esta ocasión empieza a tenerse en cuenta la forma de hablar del otro lado del Atlántico, no por los rasgos que puedan divergir, sino por la necesidad de fomentar la educación lingüística entre los americanos. Bello se muestra totalmente a favor de difundir la unidad, pero considera, al mismo tiempo, que el empleo culto americano puede ser tan válido como el peninsular para fomentar el buen uso del español. El contenido de su gramática está constituido por una sucesión de capítulos, sin división por partes, en los que predomina la información relativa a la morfología (flexiva y derivativa) y la sintaxis. El capítulo XIII es el «De los pronombres», en cuyo interior hallamos las explicaciones correspondientes a las formas personales. La definición de pronombre es equiparable a las que se han comentado hasta el momento. Los divide «en varias especies, i la primera es la de los estrictamente personales, que significan la idea de persona por sí sola» (§229). Entre los de segunda persona, cita tú para el singular, válido para ambos géneros, al lado de vosotros y vosotras para el plural, con distinción de género. No se menciona vos en esta primera presentación e incluso más adelante se explica que la equiparación de este pronombre con vosotros está restringido al lenguaje poético. Más adelante se hará referencia a vos, desde el punto de vista pragmático, como forma de tratamiento: Hay en la segunda persona pluralidad ficticia cuando se dice vos por tú, representándose como multiplicado el individuo en señal de cortesía o respeto; pero ahora no se usa este vos sino cuando se habla a Dios o a los Santos, o en composiciones dramáticas, o en ciertas piezas oficiales, donde lo pide la ley o la costumbre. [Bello 1847: §234]
Resulta interesante tener en cuenta la información que aporta Bello en dos notas a pie de página relacionadas con el fragmento que acabamos de citar. Especifica que esta forma pronominal no se utilizaba con el mismo valor de pluralidad en épocas antiguas. Añade que, en la época vigente, «el diálogo familiar sería usted, o tú. Pero por una especie de convención tácita parece admitirse el vos en reemplazo del enojoso usted». Se le concede, por tanto, un matiz de informalidad. En la siguiente nota, hace referencia explícita al habla de Chile, que califica de voseante en el contexto familiar. Considera que «es una vulgaridad que debe evitarse, y el construírlo con el singular de los verbos una corrupción insoportable» puesto que, en caso de utilizarse en sentido plural, las formas verbales deberían ser las mismas que se emplearían para vosotros o vosotras. A diferencia de lo que ocurría en 1771, el contenido de la Gramática de la Academia de 1931 está dividido en cuatro partes: analogía, sintaxis, prosodia y ortografía. La información sobre los pronombres personales está ordenada dentro del primero de estos bloques. No varía demasiado la definición y guarda, también, relación implícita con la pragmática; sin embargo, se agrega el
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comentario de que son las «únicas palabras que han conservado en parte la declinación latina, por lo que tienen distintas formas, según el oficio que desempeñan en la oración» (p. 33). Cita las mismas formas de segunda persona, tanto para el singular (tú, ti, te, contigo) como para el plural (vosotros y vosotras8, vos y os). No se observa, por lo tanto, ningún cambio significativo entre estas dos ediciones académicas separadas temporalmente por un siglo y medio. Al cabo de poco más de tres décadas, Alonso y Henríquez Ureña publicaron en Argentina su Gramática castellana, adaptada a la enseñanza secundaria. Resulta especialmente interesante porque encontramos en ella no sólo información exclusivamente gramatical, sino explicaciones del uso diatópico e incluso diastrático de algunas formas pronominales de segunda persona. Esta obra está estructurada por capítulos, cuyo contenido fundamental versa sobre sintaxis, morfología –flexiva y derivativa–, prosodia y fonética. El cuarto capítulo está dedicado a los pronombres y, en concreto, el primero de sus epígrafes, a los «pronombres personales como sujetos». Presentan las distintas personas gramaticales y las contextualizan en el «coloquio» (p. 79). Para la segunda persona, mencionan tú y usted (singular) y vos, vosotros o vosotras y ustedes (plural). Precisan, sin embargo, que vos, a pesar de ser formalmente un plural porque las formas verbales que lo acompañan deben conjugarse en este número y en la Edad Media tenía este sentido, «se emplea modernamente sólo con valor singular» (p. 80). Insisten, además, en que su uso moderno es literario o regional. En cuanto a vosotros y vosotras, sobre los que explican su composición, advierten que sólo se usan en la Península, mientras que en la zona americana se sustituyen por ustedes, excepto en contextos literarios. Desde la perspectiva pragmática, relacionada con las distintas formas de tratamiento, manifiestan que en el momento en que el valor singular de vos se generalizó, pasó a equivaler a tú y a perder, por consiguiente, su condición de trato respetuoso, sustituido inicialmente por vuestra merced que llegaría a transformarse en usted. Completan la parte teórica de este capítulo detallando las distintas zonas americanas en las que predomina el voseo y en las que, en su lugar, utilizan el tuteo, como en el español de la Península Ibérica. En determinados sitios se ven obligados a realizar distinciones sociales para justificar cuándo puede emplearse una opción u otra.9 Es la primera ocasión en la que en una gramática se encuentran tantos detalles sobre el uso de una forma pronominal en función de la zona en que se utilice. Podría justificarse porque, aparte de que los autores escribían para hablantes hispanoamericanos, su obra poseía una funcionalidad didáctica, destinada principalmente a estudiantes de una etapa escolar concreta. La consulta de gramáticas posteriores confirmará si son ciertas estas razones o si llega a considerarse oportuno dedicar más páginas al uso pragmático de determinados elementos lingüísticos. La gramática más representativa de los años setenta del siglo XX es la de Alcina / Blecua. Una síntesis de las principales teorías gramaticales existentes hasta el momento encabeza los tres grandes bloques descriptivos perfectamente estructurados (fonética y fonología, morfología –«las palabras»–, y sintaxis). Los pronombres están incluidos en el capítulo cuarto –segundo de «las palabras»– y se presentan con una definición completa que conjuga de forma perfecta las vertientes lingüística y pragmática con el fin de lograr una interpretación adecuada del sentido ocasional que pueden poseer según el campo referencial en el que se empleen. Se incluye, a Especifica claramente la formación de nosotros y vosotros: «son formas compuestas de nos, vos y el adjetivo otro» (RAE 1931: 34). 9 Para una explicación completa acerca de la «distribución y diferencias del voseo en América», véase Alonso y Henríquez Ureña (1967: 81-82). 8
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continuación, la clasificación de las diferentes subclases de pronombres: indiciales de campo, determinativos y relativos. Los personales están incluidos en el primero de estos bloques. Tú y vosotros-vosotras se consideran formas tónicas de segunda persona de «mención directa». El vos, como pronombre de tratamiento, se integra en el apartado de «plurales ficticios». Se explica la evolución de sentido que ha experimentado a lo largo de la historia del español: respeto (hasta finales de la Edad Media) > confianza (español clásico, época en que se interpreta como «ofensivo para quien merece tratamiento de respeto» §4.1.5.4.) > voseo (actualmente, en zonas hispanoamericanas sobre las que se detalla su uso y el valor de tratamiento que posee, no siempre común en todas ellas). Usted (< vuestra merced) se ordena en el apartado de «objetivación del discurso en el tercer campo» (§4.1.6.) y se presenta como sustituto del vos, lo que propició que éste acabara entrando en el terreno de la informalidad. En los años ochenta apareció la segunda edición de la gramática de Fernández Ramírez (la primera es de mediados de los cincuenta), organizada en diferentes volúmenes. El 3.2., preparado por José Polo, está dedicado al pronombre. En el capítulo de los personales se explica su origen y evolución. Se incide de un modo especial en sus condiciones deícticas, anafóricas y catafóricas. El cuarto volumen, ordenado y completado por Ignacio Bosque, está dedicado al verbo y a la oración y en él se explican «las personas gramaticales» desde diferentes perspectivas, entre ellas, por su condición de formas de tratamiento. Su uso diacrónico se muestra de un modo muy significativo con ejemplos de obras literarias de distintas épocas. Sobre el tú destaca que es la única forma que ha persistido a lo largo del tiempo más o menos con los mismos valores, siempre relacionados con la confianza. El usted (< vuestra merced y otras variantes) empezó a usarse a partir del siglo XVI desplazando al vos en el territorio peninsular e imponiéndose en singular en todas las zonas de habla hispana y como forma de respeto, estimación y aprecio. Se centra, desde el punto de vista actual, en el voseo americano y proporciona explicaciones detalladas de los diferentes usos en distintas zonas. Del mismo modo, precisa los lugares concretos en que se emplean las formas plurales (vosotros y ustedes) y el valor que en cada uno de ellos poseen. En los años noventa, Alarcos Llorach, respaldado por la Real Academia Española, publica su gramática y la estructura en tres grandes bloques: fonología, unidades del enunciado: forma y función, y estructura de los enunciados: oraciones y frases. En el segundo de ellos, se halla el sexto capítulo relativo a los «sustantivos personales» en el que se hace referencia al sistema pronominal de segunda persona (tú, vosotros y vosotras), que define teniendo en cuenta parámetros lingüísticos y pragmáticos. La etiqueta de sustantivo del título de este capítulo10 se justifica porque los llamados pronombres personales tónicos constituyen […] una subclase de los sustantivos, puesto que coinciden con estos en su función, y, al menos parcialmente, entrañan unos mismos tipos de accidentes o morfemas (el número y el género) […]. En ellos se combinan un contenido léxico y unos significados gramaticales, como en los sustantivos en general. Pero frente a estos, la especificidad de los personales consiste en que la referencia léxica se restringe a la mera mención de la persona (componente este que en otro tipo de palabras funciona como morfema […]). [Alarcos Llorach 1994: §86] Término del que también se sirve Manuel Seco (1972, 1989 y 1995) en sus distintas ediciones de la Gramática esencial del español (Madrid: Espasa Calpe). Por su síntesis de contenido, concede unas breves explicaciones gramaticales y pragmáticas a los pronombres de tratamiento sin precisar su distribución geográfica: tú y vosotros (confianza), usted y ustedes (respeto).
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Más adelante especifica, sin embargo, que no siempre son distintivos de género, como ocurrre con el tú. En tales casos, son los contextos oracionales y pragmáticos los que se encargan de ello. Por razones de cortesía y respeto social, los distintos pronombres personales no se han utilizado siempre con el mismo valor. El empleo mayoritario de vos en vez de tú en la Edad Media favoreció el posterior voseo en zonas hispanoamericanas y los diferentes tipos de conjugación verbal con que se combina. El uso de los pares tú/usted y vosotros /ustedes no es habitual en todas partes, sino que se mantiene en una amplia zona de la Península «aunque haya variado la frecuencia social de empleo» (§96), pero en el resto de áreas de habla hispana sólo hallamos los singulares usted (en combinación, a veces, con vos) y ustedes. Antes de terminar este repaso, desde el punto de vista diacrónico, del contenido pronominal de las principales gramáticas del español, es esencial hacer referencia a dos obras fundamentales, completísimas y perfectamente actualizadas, que destacan por su rigor científico y son representativas de las dos concepciones de presentación de los contenidos: descriptiva (Bosque / Demonte 1999) y prescriptiva RAE (2009). En ambas se organiza, de forma extensa y bastante equilibrada, la explicación gramatical y la pragmática (o de tratamiento) de los pronombres personales de segunda persona. Fernández Soriano y Fontanella de Weinberg son las autoras de los capítulos 19 y 22, respectivamente, relativos a los pronombres personales explicados, en el primero de ellos, desde la perspectiva gramatical y, en el segundo, desde el enfoque del tratamiento. Ambos están incluidos en el primer volumen de la Gramática descriptiva de la lengua española de Bosque / Demonte (1999). Fernández Soriano ofrece una extensa exposición gramatical de las características intrínsecas de los pronombres, entre ellos los personales, además de su comportamiento oracional desde el punto de vista morfosintáctico, con matices pragmáticos si resulta necesario. Destaca especialmente el mayor uso explícito de usted que de otros pronombres por la «falta de identificación por parte de la flexión verbal, que contiene rasgos de tercera persona y no de segunda» o por el «interés del hablante en hacer patente su actitud de cortesía, respeto o distancia» (§19.3.5.). Fontanella de Weinberg, en su capítulo, presenta un estudio completo de los valores de formalidad, confianza e incluso intimidad con que se relacionan los distintos pronombres, su evolución histórica y los diferentes usos que han ido manifestando. Estas explicaciones se complementan, en esta ocasión, con matices gramaticales basados principalmente en las distintas formas verbales empleadas para el sistema pronominal de tratamiento. En otras palabras, ambas autoras recogen y desarrollan de forma completa el contenido que aparece en mayor o menor grado en gramáticas anteriores o se detalla en monografías. En esta ocasión se concede, sin embargo, la misma importancia a ambos enfoques: gramatical y pragmático. Desde el punto de vista prescriptivo, la información relativa a los pronombres personales tónicos de segunda persona está incluida en el primer volumen de la Nueva gramática de la lengua española de la RAE (2009), en concreto, en el bloque de sintaxis. Es el capítulo 16 el que está dedicado al pronombre personal en el que, desde el punto de vista gramatical, se define, se enumeran las distintas formas (tú, vos, vosotros, usted y ustedes), se especifica su uso diacrónico y diatópico, se clasifican según el género (en función de si muestran distinción entre masculino y femenino) y según el número (gramatical o designativo), y se expresan, además, sus posibilidades de correferencia (anafórica o catafórica). Los tres últimos epígrafes están íntegramente dedicados al tratamiento y relacionan, por tanto, el
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empleo de estos pronombres con la pragmática. En ellos se organizan según si son propios del trato de familiaridad11 (tú, vos y vosotros o ustedes, teniendo en cuenta la zona en la que se emplean) o de respeto (usted y ustedes); según si las diferentes formas de tratamiento se expresan mediante sustantivos o grupos nominales, entre los que debemos destacar, por lo que en este trabajo se refiere, vuestra merced (> usted); y, por último, se destacan los distintos tipos de voseo y se valoran desde los puntos de vista sintáctico (directamente relacionado con su posible combinación con distintas formas verbales) y sociolingüístico. Si se contrasta toda esta información con la de la Gramática de 1931 de la propia Academia y con el contenido del Esbozo, de 1973, puede advertirse que por primera vez se acepta la conjunción entre gramática y pragmática o la integración de las formas de tratamiento dentro de una obra institucional de estas características. Esta tendencia ya había empezado a intuirse en la Gramática de Alarcos Llorach, respaldada por la RAE en los años noventa.
3. Conclusión La combinación entre gramática y pragmática es imprescindible para describir y prescribir adecuadamente las propiedades de la lengua en general y de los pronombres personales tónicos de segunda persona, interpretables como formas de tratamiento, en particular. La tradición gramatical española muestra un progreso claramente ascendente en la consideración de ambas disciplinas. Si entre los siglos XV y XVIII la contextualización de los pronombres en el acto comunicativo y en las áreas geográficas en las que se empleaban era prácticamente ausente, en el siglo XIX se le empezó a conceder un determinado espacio en las gramáticas. Este espacio se ampliaría en el siglo XX hasta terminar, ya en el XXI, con la aceptación institucional de ambos valores como esenciales para comprender la evolución diacrónica pronominal, su distribución diatópica, sus condiciones lingüísticas y su adecuación contextual.
Bibliografía Alarcos Llorach, Emilio (1994): Gramática de la lengua española. Madrid: Espasa Calpe. Alcina, Juan / Blecua, José Manuel (1975-81991): Gramática española. Barcelona: Ariel. Alonso, Amado / Henríquez Ureña, Pedro (1967): Gramática castellana (segundo curso). Buenos Aires: Editorial Losada. Anónimo de Lovaina (1559-1966): Gramática de la lengua vulgar de España. Madrid: Consejo Superior de Investigaciones Científicas (Clásicos hispánicos: serie I, ediciones facsímiles, vol. VIII). Bello, Andrés (1847-1982): Gramática de la lengua castellana destinada al uso de los americanos. Madrid: Edaf (Colección Universitaria, 16).
Se considera que esta designación es más apropiada que la de confianza (§16.15b).
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Carmen Quijada Van den Berghe (Universidad de Salamanca)
El modelo griego en la caracterización del artículo español: ¿un proceso de deshelenización?
1. Introducción Ante la inexistencia de artículo en latín1, las primeras gramáticas del español fijan su atención en la tradición helénica para la definición y caracterización de este elemento (en menor medida tienen en cuenta el modelo árabe o el hebreo). Si bien no todas lo admiten como parte diferenciada de la oración –en el siglo xvii Jiménez Patón, Correas, Villar o Lancelot lo tratan como un accidente nominal–, la gramática española recibe y acomoda en mayor o menor medida la herencia alejandrina. El objetivo de este trabajo es calibrar la presencia de la teoría gramatical griega en la descripción del artículo ofrecida por nuestros primeros gramáticos. Según la gramática griega, el artículo es la parte declinable de la oración que se antepone y pospone a la flexión del nombre. Dionisio Tracio (c. 100 a. c.) y más tarde Apolonio Díscolo (c. 130) distinguen dos tipos de artículos: (i) ‹Antepuesto› o ‹prepositivo› (Ho), hoy artículo determinado; y (ii) ‹Pospuesto› o ‹pospositivo› (Hós), actual pronombre relativo. Establecen esta taxonomía de acuerdo con tres criterios bien delimitados para la lengua griega: (i) valores fóricos, (ii) valores morfológicos (ambos son idénticos desde una perspectiva formal) y (iii) valores sintácticocolocacionales (paralelismos entre la colocación relativo-antecedente y artículo-nombre). En las primeras gramáticas del español, los clíticos –hoy en día gramatizados por la mayoría como pronombres personales átonos– se incluyen en la categoría de artículo. Sea por herencia griega directa, sea por los paralelismos formales, etimológicos y fóricos, o bien, por una combinación de ambos factores, la mayor parte de estas obras (excepción significativa la de Nebrija) consideran el y le bajo una misma clase de palabras: artículo. Entre los gramáticos con conocimientos de griego, se parte de la perfecta adecuación al español que propone Antonio de Nebrija, hasta el autor que más lejos lleva el modelo griego: Antoine Charpentier. En una posición intermedia se sitúa Gonzalo Correas al mostrar ya una categorización ‹moderna› (sustentada esencialmente en el criterio sintáctico), aunque todavía con restos de la terminología alejandrina: según el extremeño, las formas le, la, lo, les, las, los, etc. son pronombres ‹relativos de dativo y acusativo› o ‹artículos pospositivos›, o ‹relativos enclíticos o afijos›. Aunque no lo reconocen como clase de palabra diferenciada, ello no quiere decir que carezcan de dicha ‹función›, tal y como señalan algunos gramáticos (Carisio, Sergio, Cledonio o San Isidoro), quienes admiten ‹valores› de artículo en hic.
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En esta revisión del tratamiento del artículo, se ha partido del maestro sevillano para seguir con la mayor parte de gramáticas del siglo xvi (excepto la de Villalón, por su escasa aportación en el tema escogido), algunas de las más representativas del xvii (Sanford, Salazar, Jiménez Patón, Encarnación, Franciosini, Correas, Villar, Lancelot y Sobrino) y tres del siglo xviii: San Pedro, Jovellanos y la primera gramática académica (1771). Se han esbozado las principales tendencias y aportaciones en la fase inicial de la trayectoria gramaticográfica española (Siglos de Oro) y se han apuntado algunos cambios de orientación a partir del siglo xviii. Nuestra intención es completar en un futuro trabajo esta visión panorámica con el repaso de las gramáticas de los siglos xviii al xx. Para comprobar de qué manera las obras españolas adaptan la teoría helénica del artículo, se han atendido tres cuestiones: 1) Caracterización semántico-discursiva: etimología de artículo (arthron), elemento
de unión y ensamblaje de palabras que dota a estas de ‹significación›, propiedades cohesivas y fóricas, valor de determinante.
2) Caracterización sintáctico-colocacional: hasta llegar a la subclasificación en artículos
prepositivos y subjuntivos de Charpentier.
3) La gramatización de los clíticos.
En la descripción del artículo español se observan dos tendencias epistemológicas de dirección opuesta: (i) por un lado, deshelenización terminológica y taxonómica; y, por el otro (ii) helenización (casi nunca consciente) en los aspectos discursivos desde las primeras gramáticas hasta las actuales. Es importante destacar que el progresivo impulso de dicha perspectiva discursiva ha sido más bien fruto de un proceso interno de la gramática vernácula que de la influencia explícita de la teoría griega.
2. El artículo español frente a las lenguas clásicas: ¿qué dicen los gramáticos? Son bastantes los autores que se refieren al inicio del capítulo a la inexistencia de artículo en latín, aunque muestran otras lenguas que sí lo tienen: griego, árabe, hebreo u otra lengua vernácula. Así actúan Nebrija, el autor anónimo de la gramática de Lovaina de 1559, Charpentier, Jiménez Patón o San Pedro: Nebrija Todas las lenguas cuantas he oido tienen una parte dela oracion: la cual no siente ni conoce la lengua latina. los griegos llaman la arteon [sic]. (1492: 36vº) Lovaina 1559 Los articulos son de aquella calidad en esta lengua, que son en la Griega, Hebrea, Italiana, i Francesa. (1559: 30) Charpentier L’on vse en ceste langue des articles aussi bien qu’en la Grecque, Italienne & Françoise.
(1596: 18)
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Jiménez Patón Aduiertase que esto tiene comun la lengua Española, con la Griega que casi siempre se acompañan los articulos â los nombres sustantivos. (1614: 11) San Pedro Nuestra lengua i las demas que descienden de la Latina tienen articulos, no obstante que ella no los tiene. Se tomaron sin duda de los Arabes que usan el al por articulo como los Hebreos el He, i los Griegos el ò (1769: 130)
Lancelot muestra la etimología del artículo determinado: «Les articles Espagnols, Italiens, & François, sont pris du pronom Latin, ille, illa, illud» (1681[1660]: 29). Jiménez Patón y Sobrino indican que el valor o la función del artículo español en latín se marca a través del pronombre hic: Jiménez Patón Lo que no tiene el Latin [artículo], que si no es en ocasion forçosa, no se junta â ellos, y esto es quando hacen la dicion comun indiuidua, y singular, como. Hic homo fecit. (1614: 11-12) Sobrino Notez que dans les langues vulgaires, l’article est compté pour une partie d’oraison; tellement que nous en trouvons neuf, qui est une plus que parmi les Latins, d’autant que l’article latin est plûtôt pronom demonstratif, qu’article: car si nous expliquons, par exemple, hic homo en François, nous disons cet homme: car homo seul signifie l’homme. (1738[1697]: 10)
3. Caracterización semántico-discursiva En este apartado se ha recogido toda la información encontrada sobre el significado que aporta el artículo y el matiz que otorga a la palabra a la que acompaña, con consecuencias tanto intratextuales como extratextuales. Algunos gramáticos (pocos) ofrecen la etimología de artículo –del arthron griego– y a través de ella señalan su fuerza cohesiva: «elemento de unión de palabras que las dota de significación». Más habitual, sobre todo a partir del siglo xvii, son los comentarios sobre su función de determinante y particularizador (el primero en la tradición hispánica en constatarlo es Charpentier a finales del siglo xvi; en otras tradiciones como la italiana o la francesa se había destacado antes). Estrechamente vinculado a su oficio de determinante está el valor deíctico que conlleva (valor que no todos los autores alcanzan a vislumbrar). Precisamente dicha esencia fórica es compartida por los pronombres clíticos (estos son anafóricos o catafóricos), por lo que será un argumento más (en aquellos autores que propongan argumentos) para englobar tales unidades dentro de los artículos, como lo había hecho la tradición griega.
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3.1. Etimología de artículo Tan solo dos gramáticos llevan a sus obras el origen etimológico del término artículo: Nebrija y Charpentier. No parece que haya en este aspecto ninguna vinculación entre ambos, puesto que el sevillano se centra en la evolución española del diminutivo latino (articulus) y defiende el sentido de pequeña pieza individual (‹huesos de las articulaciones›), mientras que el francés alude al verbo griego artao (‹unir›) y a su función de eslabón. Las implicaciones semánticas están muy próximas, pero Charpentier muestra con mayor explicitud la gran utilidad discursiva del artículo: Nebrija Los griegos la llaman arteon [sic]. Los que la bolvieron de griego en latin llamaron le articulo: que en nuestra lengua quiere dezir artejo: el cual enel castellano no significa lo que algunos piensan que es una coiuntura o ñudo delos dedos: antes se an de llamar artejos aquellos uessos de que se componen los dedos. Los cuales son unos pequeños miembros a semejança delos cuales se llamaron aquellos articulos [...] (1492: 36vº) Charpentier C’est l’occasion pour laquelle les Grecs les appellent ‹arthra› du verbe ‹artao› qui signifie lier, d’autant que ce sont autant de liaisons et tendons qui assemblent les dictions ainsi que les nerfs et arteres le corps humain. (1596: 18)
Ambos autores establecen comparaciones con el cuerpo humano, pero si bien Nebrija reproduce los significados literales de la evolución popular (artejo), Charpentier muestra al lector una imagen posible de lo que le sugiere un artículo: tendones, nervios y arterias. Creemos que su noción discursiva de ‹ensamblaje de dicciones› procede directamente de la tradición helénica. Para el francés, el artículo es una de las partes de la oración más importantes, junto con el nombre y el verbo. Es posible que le confiera una especial relevancia de acuerdo con su primitivo origen en los syndesma aristotélicos, y de ahí el empeño en resaltar sus virtudes como elemento discursivo indispensable en la construcción de enunciados. Ahonda en su función de conector de ‹palabras› que completa y da significado a las oraciones: [les articles] ont vne telle force en toutes ces langues que sans l’vsage d’iceux les dictions demeurent comme lasches et mal cousues, et n’ayans presque aucune signification [...] Par exemple qui diroit casa dios, on ne sçauroit dire ce que cela signifie, mais lors que lon y adiouste la casa de dios, l’oraison est parfaicte (La Parfaicte Methode 1596: 18-18vº).
Salazar toma esta idea y propone un ejemplo distinto: los articulos dan muy grandissimo ser alas palabras y sin ellos no se podrian formar [...] Ya auemos dicho como el articulo es vna de las principales partes, por que sirue a atar las palabras que sin ellos no tendrian ninguna significacion [...] como se vee por estos exemplos: si dixesse solamente, cauallo señor, que son dos nombres, no se podria entender lo que querria dezir, mas metiendo aca vno su Articulo dirà, el cauallo del señor, y entonces la oracion sera perfecta y se entendera [...] (Espexo general de la gramática en diálogos 1614: 226-231).
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3.2. Valor de determinante y particularizador A pesar de ser uno de los rasgos esenciales del artículo (puesto que en griego el artículo procede del pronombre demostrativo y conserva su naturaleza determinante), las primeras gramáticas del español parecen estar más preocupadas por la forma y no mencionan su papel de concreción y precisión de la extensión del nombre. En otras tradiciones vernáculas, como la italiana (Regole della volgar lingua fiorentina, de mediados del siglo xv) o la francesa (Pillot, Estienne o Ramus, de mediados del xvi) ya se había anotado. Resulta curioso el caso de Pillot, quien, en la primera edición de su Institution de la langue françoise (1550), admite que «la fonction de l’article est principalement de désigner une chose déterminée, ce sur quoi quelques grammairiens grecs ont abondamment écrit, mais dans la présente langue, elle sert surtout à différencier les genres et les cas», pero en la edición de 1561 tan solo se retiene esta segunda función (Colombat 2003: xxvii). Parece prevalecer su función morfológica por encima de la discursiva; esta última se da por supuesta. La primera consideración sobre su valor de determinante hay que buscarla en una de las gramáticas españolas más apegadas al modelo griego: La Parfaicte Methode. Según su autor, «los artículos determinan y definen las cosas que de por sí son inciertas» y pone el ejemplo de ‹rey› (desconocido) vs. ‹el rey› (conocido). Estamos ante la apreciación que después repetirán Correas o Encarnación en el siglo xvii y que se generalizará a partir del xviii. La afirmación de Charpentier aparece después del razonamiento de Henri Estienne en su Traicté de la Conformité du Langage François auec le Grec (1565), mucho más rico en explicaciones (no nos atrevemos a afirmar que exista un vínculo entre ambos autores para esta cuestión, puesto que Charpentier también cuenta con la tradición helenística –como la gramática griega de Francisco de Vergara–; simplemente hacemos notar su evidente paralelismo): Henri Estienne Comme le grec use de son article pour discerner une certaine particularité de la generalité [...] ne plus ne moins use le langage françois du sien. Exemple: On luy a faict autant d’honneur que s’il eust esté roy [...] cela s’entendra generalement. Mais si deux François ou deux Espagnols parlans ensemble disent, On luy a faict autant d’honneur que s’il eust esté le roy, les François s’entrentendront touchant le roy de France, et les Espagnols touchant le roy d’Espagne. (1853[1565]: 122) Charpentier Les prepositifs ont vne merueilleuse force, par-ce qu’ils determinent et definissent les choses qui de ’soy sont incertaines, comme Rey est incertain, mais y adioustant el Rey, il est certain et asseuré. (1596: 18vº)
Veamos cómo se expresan Correas, Encarnación, San Pedro, Jovellanos y la primera gramática de la Academia: Correas Los artículos se ponen en los nombres apelativos ó jenerales para sinificar zierta relazion, demostrazion i notizia i singularidad i género universal [...] Cuando digo: Da-me acá el libro, se entiende aqel singularmente de qien tiene notizia el criado á qien lo pido. El Rei lo manda, se entiende el nuestro; i si hablamos de otro, aqel de qien se habla. El leon es el Rei de los animales, se entiende tan universalmente abrazando el jénero i linaje todo, como si en el mundo no hubiese mas de un leon.
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Mas si dijésemos: Dame un libro, un Rei, un leon, se entiende uno cualqiera sin determinazion zierta. Lo mesmo, si no se pusiese artículo, ni el indefinito un, una [...] Finalmente el Artículo es una breve palabra demostrativa qe acompaña al Nombre, i demuestra singularizado, i declara su jénero. (1903[1626]: 59-61) Encarnación L’article est vne partie de l’oraison, que l’on met deuant le nom, & sert à limiter & à particularizer la signification du nom, & à monstrer son genre. (1624: 36) San Pedro El Artículo es una parte de la oracion que se pone antes del nombre i de otras partes para darles ser, i excelencia [...] Tres oficios tiene el artículo. 1. reducir a ser lo comun i como demostrar i señalar lo confuso. 2. ser guia del nombre i darle su calidad. 3. levantar al nombre de quilates i darle excelencia [...] Se conoce mas bien el oficio del articulo en aquella pregunta que hicieron los Judios al Bautista: Eres tu el Propheta? Por el articulo que expressa el Griego, i Castellano se determina la generalidad del nombre. Propheta precisamente el Propheta prometido; por tanto responde con verdad: no soi; lo que no uviera respondido si la pregunta uviera ido sin articulo: Eres tu Propheta. En el latin no se puede expressar por falta de articulo. (1769: 126-134) Grae 1771 Los nombres comunes unas veces admiten artículo, y otras no. Admiten artículo cuando se usan en sentido definido, ó determinado [...] Si decimos: dame los libros, ponemos artículo, porque el que los pide, y el que los ha de dar saben de qué libros determinados se trata; pero si decimos: dame libros, no se pone artículo; porque el que los pide, no habla de ciertos y sabidos libros, sino de qualesquiera que sean. (1771: 52-53) Jovellanos El oficio del artículo en la lengua castellana. Por sí solo determina las palabras, refiriéndolas á las clases mas generales [...] Cuando el nombre comun no necesita determinarse, porque solo se atiende á la idea que expresa, sin referir á mayor ó á menor número de individuos, entonces se omite el artículo. (1858[c. 1795]: 106)
Correas sintetiza a la perfección los valores o usos del artículo: (i) relación (fórico, vid. infra); (ii) demostración / noticia (deixis); (iii) singularidad (determinante); (iv) ‹género universal›; y (v) señala-géneros. Opone el funcionamiento del artículo frente a la ausencia de este o a los elementos ‹indefinidos› (un, una), que todavía no parece gramatizar como artículos. A pesar de que autores como Palsgrave –para el francés– o Sanford –para el español– muestran la doble tipología determinados / indeterminados, hasta la aparición de la Gramática General de Port-Royal no se sistematiza tal taxonomía. Se observa que el ejemplo del extremeño ‹dame el libro› vs. ‹dame un libro› lo toma tiempo después la gramática académica, aunque modificado: ‹dame los libros› vs. ‹dame libros›. La idea de ‹excelencia› que apunta San Pedro ya la había comentado Apolonio Díscolo (1987[c. 130]: 98): «puede ser ‹por excelencia›, como cuando decimos: ‹éste es el gramático›, queriendo dar a entender: ‹el que aventaja a todos›, como si dijéramos: ‹el más gramático›. Por
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lo mismo, ‹el Poeta› lleva consigo el artículo como si fuera ya una sílaba más, llevando con ello la excelencia sobre todos los demás y el reconocimiento absoluto por parte de todos los otros». La gramática de Port-Royal lo expresa de la siguiente manera: La signification vague des noms communs et appellatifs [...] elle a fait aussi que presque en toutes les langues on a inventé de certaines particules, appelées articles, qui en déterminent la signification d’une autre manière, tant dans le singulier que dans le pluriel. Les Latins n’ont point d’article; ce qui a fait dire sans raison à Jules-César Scaliger, dans son livre des Causes de la langue latine, que cette particule était inutile, quoiqu’elle soit très utile pour rendre le discours plus net, et éviter plusieurs ambiguïtés (Grammaire Générale et raisonée 1997[1676[1660]]: 39).
3.3. Valor deíctico-anafórico Si continuamos desglosando los distintos rasgos discursivos, de la mano del ‹oficio› de singularizador viene el fórico. El artículo señala un objeto previamente mencionado o ya conocido (anáfora). Esta característica, sobre la que tanto habían insistido los alejandrinos, tan solo aparece (y de manera mucho más velada) en autores con conocimiento de griego, como Charpentier o Correas. En palabras de Apolonio (1987[c. 130]: 98): «La función del artículo es, como ya hemos mostrado, la anáfora, que es indicativa de la entidad previamente mencionada». Así describe Correas las propiedades discursivas de los hoy pronombres clíticos (‹pronombres relativos de dativo y acusativo›, según su terminología), elementos tratados como artículos pospuestos en la tradición griega: Para los últimos he dejado estos Artículos pospositivos, Relativos enclíticos ó afijos i asidos le, les, los, la, las, lo [...] Los cuáles, unos i otros, hazen tan cumplida i llena la orazion, i la dan tanta grazia por su elegante conecsion i trabazon ó ligadura, qe haze por esta causa la Lengua Castellana con el uso dellos conozida ventaja en claridad i eleganzia de hablar, ó esplicar i dar á entender lo qe qiere, no solamente á la Lengua Latina, qe es desatada i dura en su comparazion, sino á la misma Griega [...] (Arte de la lengua española castellana 1903[1626]: 91-92).
En la tradición gramatical española casi siempre se menciona el valor anafórico de estas partículas (los consideren artículos o pronombres), aunque no es tan habitual que se marque para los actuales artículos determinados.
4. Caracterización sintáctico-colocacional Casi todos los autores de la tradición española afirman en sus definiciones de artículo que este acompaña al nombre, aunque después admiten su construcción con otras partes de la oración. Solo Charpentier omite tal dato y escoge términos con un sentido más amplio como ‹dicción›, para ser coherente con su teoría.
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Es lo que encontramos en un principio en la gramática de Dionisio de Tracia (2002[s. i a. c.]: 73): «El artículo es la parte declinable de la oración que se antepone y pospone a la flexión de los nombres. Antepuesto es ό, pospuesto [relativo] es ός». Después, los comentarios a esta obra matizan: «Se ha de definir, pues, del siguiente modo: artículo es la parte de la oración articulada con las partes declinables en yuxtaposición, bien antepuesto, bien pospuesto, con los accidentes que acompañan al nombre para conocimiento previo, lo que se llama anáfora». Sin embargo, muchos de los autores del siglo xvi incluyen como artículos las formas clíticas le, les, la, las, lo, etc., advirtiendo de su diferente posición en la oración. La consideración de estos elementos como artículos se rastrea ya en el Anónimo de Lovaina de 1555 y, a través de Miranda, se extiende a la mayoría de gramáticas publicadas en el extranjero a lo largo de los siglos xvi y xvii (no lo tratan así Nebrija ni el Anónimo de Lovaina de 1559). Pero en esto no actúa sola la tradición hispánica; tal y como señala Kukenheim (1974[1932]: 118-121), el parecido entre artículos y pronombres induce a esta gramatización a algunos de los primeros gramáticos de lenguas vernáculas (Ludovico Dolce, Pillot o Matthieu). En su actuación deben de operar dos factores: (i) similitud formal (según el Anónimo de Lovaina de 1555 y sus continuadores le es el artículo el ‹dado la vuelta›) y etimológica; y (ii) idéntica naturaleza discursiva (ambos conllevan la misma labor de cohesión del discurso, ya sea deíctica o anafórica). Normalmente los gramáticos caracterizan a los clíticos por su valor de ‹relativos›, es decir, anafóricos. Les confieren un rasgo específico que los separa del grueso de artículos, pero no llegan nunca al extremo de mostrar una doble taxonomía. El único autor que lo hace, atendiendo al modelo griego, es Charpentier. Según su adaptación de la terminología griega anuncia: (i) artículos prepositivos (son los determinados: el, la, lo) y (ii) artículos subjuntivos, es decir, ‹pospositivos› (donde están, entre otros, algunos clíticos): Pour le regard des [articles] subiunctifs ils ont pareille force que les articles demonstratifs des Grecs, ou des relatifs des Latins, comme lo que, ce que, digale hablale, et ainsi lo, neutre apres le verbe, visitarlo verlo, mais non si elegamment. Quelquefois l’article el se met apres que, ou se, comme quand on dit que se le daael, que le quiere, que le digo (La Parfaicte Methode 1596: 20).
El autor francés no tanto es novedoso por la información (la encontramos en Lovaina 1555 y Miranda), cuanto por el modelo teórico y a la clasificación propuesta. Encuentra en esta doble colocación de los ‹artículos› el perfecto acomodo a la teoría clásica, que trata de imitar a toda costa. Otros autores, como Sanford, consideran las formas afijas al verbo dentro de los artículos (1611: 16-17). Oudin reflexiona sobre el valor de ‹relativo› de estas partículas, aunque la tradición pesa y termina incluyendo a le y la como artículos sin tratarlos en el capítulo de los pronombres. No ocurre lo mismo con lo: Quant à cet article lo, il ne se peut appliquer à aucun nom, mais plustost semble estre pronom demonstratif, ou relatif du genre neutre, qui ne se ioint à aucun nom substantif ny adiectif, aussi qu’il n’est besoin d’article neutre en la langue qui n’a point de noms neutres. Il s’en donnera des exemples, en parlant des pronoms en general (Grammaire Espagnolle 1606[1597]: 8).
En términos generales, no parece tener muy claro su estatus, porque al final de la obra emplea el término ‹partículas› para referirse a ellos. Franciosini y Sobrino siguen a Oudin y muestran la misma intersección categorial.
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Lancelot, que trata los artículos como subclase o accidente del nombre, tampoco se muestra muy seguro sobre la categoría de estas formas. En el segundo libro sobre sintaxis de su Nouvelle Methode (1681[1660]: 61) alude a su construcción como ‹artículos› («L’article plur. les tient souvent lieu de datif, répondant à nostre leur; comme vi à vuestros hermanos, y les dixe») pero después remite al capítulo de los pronombres porque considera que en estos casos ‹se transforma› en ‹relativo› («L’article se met encore en plusieurs manieres qui ne sont pas usitées en nostre Langue; mais alors il devient relatif; & nous en parlerons cy-aprés au Chapitre des Pronoms»). En efecto, allí hay varios subapartados sobre los clíticos. Concretamente uno sobre el ‹article changé en Demonstratif ou Relatif› donde afirma que «l’article el par metathese fait le, qui se met souvent à la fin des verbes, où il est encore relatif comme en François, llamadle» (1681[1660]: 69). Ninguna de estas obras alude a ellos como artículos pospositivos (o subjuntivos) ni lleva a tales consecuencias la teoría gramatical griega. Tan solo en Gonzalo Correas se permeabiliza la terminología griega, pero sin mayores consecuencias categoriales puesto que en su obra ya son pronombres. Los llama ‹artículos pospositivos› porque, según sus propias palabras, «se posponen á semejanza de otros qe tienen los Griegos, semejantes á éstos en ser Relativos; aunqe no se inclinan allá los tales, i los llaman Artículos pospositivos». A partir del siglo xvii, en la tradición gramatical española se comienza a separar de acuerdo con criterios sintácticos los artículos de los pronombres personales átonos (Encarnación, San Pedro, etc.). Atrás queda la teoría griega y los compartidos valores discursivos, que durante algún tiempo pervivieron en las primeras gramáticas vernáculas. Sin embargo, Nebrija ya lo había resuelto con claridad y elegancia en 1492, observación que pasó desapercibida, como se ha mostrado, en las primeras gramáticas vernáculas: I ninguno se maraville que el. la. lo. pusimos aqui por articulo: pues que lo pusimos enel capitulo passado por pronombre: por que la diversidad delas partes dela oracion no esta sino en la diversidad dela manera de significar. como diziendo es mi amo. amo es nombre. mas diziéndo amo a dios. amo es verbo. E assi la partecilla el. la. lo. es para demostrar alguna cosa delas que arriba diximos: como diziendo pedro lee i el enseña. el es pronombre demostrativo o relativo. mas cuando añadimos esta partezilla a algun nombre para demostrar de que genero es ia no es pronombre sino otra parte mui diversa dela oracion que llamamos articulo (Gramática Castellana 1492: 36vº).
5. Conclusiones Las primeras gramáticas vernáculas prescinden de toda caracterización del artículo que no sea formal. Tan solo aquellos autores más apegados al modelo griego, como Charpentier o Correas –pero cada uno a su manera y en un estadio distinto de ‹helenización›–, mencionan ciertos rasgos discursivos (valores cohesivos, determinantes y fóricos). Creemos que el hecho de que a partir del siglo xvii, con el desarrollo y expansión de las ideas gramaticales del Brocense y de la Gramática General del Port-Royal como punto de partida, en la gramática vernácula se profundice en la perspectiva discursiva y se amplíe la noción de ‹determinante›, tiene que ver no tanto con un proceso explícito de helenización (de vuelta consciente a la teoría griega), sino con el desarrollo interno propio de la disciplina en cada una de las áreas romances, de re-invención de los valores y funciones de la categoría.
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Sara Szoc / Pierre Swiggers (K.U.Leuven)
Au carrefour de la (méta)lexicographie, de la terminographie, de la grammaticographie et de la linguistique contrastive: La terminologie grammaticale dans les grammaires de l’italien aux Pays-Bas
1. Objectifs Ce texte a pour but de présenter les linéaments d’un projet de description terminologique, qui se situe à l’intersection de trois domaines de recherche: (a) l’historiographie de la grammaire (plus particulièrement de la grammaire italienne), (b) la terminologie et la terminographie, (c) la lexicographie (avec application à un type de ‹vocabulaire technique›). Le projet repose sur un travail historiographique –en moyenne durée (portant sur l’histoire de la grammaire italienne aux Temps Modernes)1, mais aussi en longue durée (histoire des modèles et des concepts grammaticographiques dans la linguistique européenne depuis l’Antiquité grecque)– et sur un cadre théorique pour la structuration de terminologies linguistiques et pour la standardisation / le calibrage de termes linguistiques.2 La démarche menant à l’étape de terminographie3 et à son utilisation ultérieure dans une synthèse historiographique peut être visualisée ainsi:
Plus particulièrement, le projet a été conçu en rapport avec l’analyse comparative de grammaires de l’italien publiées dans les Pays-Bas anciens que Sara Szoc poursuit dans le cadre de sa thèse de doctorat (Szoc, en préparation). 2 Cf. Swiggers (1998, 2006). 3 À propos de la terminographie appliquée à des ouvrages grammaticaux, voir Ruijsendaal (1981). 1
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L’élaboration d’un tel projet doit répondre à un certain nombre de questions méthodologiques et théoriques, sur lesquelles nous tenterons de faire le point. Au préalable, il convient de considérer deux questions, l’une d’ordre global, l’autre de nature plus concrète. (1) La première question, fondamentale, concerne la délimitation des unités à retenir dans une analyse terminologique et dans une description terminographique. On peut formuler cette question de façon lapidaire: qu’est-ce qu’un terme linguistique / grammatical (ou qu’est-ce qu’il faut considérer comme terme linguistique / grammatical)? À cette question il n’y a pas de réponse simple. En effet, on peut argumenter, en se basant sur l’idée que le métalangage grammatical est un sous-langage4, que les termes grammaticaux se définissent par des restrictions sémantiques et syntaxiques à l’intérieur de la structure de la langue ‹globale›. Mais cette définition générale d’un sous-langage est d’une utilité assez restreinte: vu que le sous-langage grammatical se définit dans son ensemble comme un langage qui a pour ‹univers référentiel› des éléments linguistiques, il s’ensuit que tous les énoncés grammaticaux, ainsi que leurs éléments constitutifs, acquièrent un statut ‹technique› à l’intérieur de ce sous-langage spécifique. En fait, entre le langage technique de la grammaire / linguistique et certains termes du langage commun il y a (et il y a eu) un passage continu, et il est justifié d’affirmer que le vocabulaire grammatical s’est (en partie) constitué par une restriction référentielle greffée sur le langage ordinaire5. (2) La deuxième question concerne la délimitation du corpus. À ce stade, nous avons délimité le corpus: (a)
en fonction du type d’ouvrage: il s’agit de grammaires de l’italien;
(b) en fonction du public: il s’agit de grammaires d’apprentissage, destinées à un public ‹alloglotte›; (c) en fonction du lieu de publication: il s’agit de grammaires publiées dans les Anciens Pays-Bas; (d) en fonction de la période: il s’agit de grammaires publiées entre 1500 et 1750 [plus exactement: 1555-1710]. En dépit de cette quadruple restriction, le corpus présente une grande variété et peut être considéré comme représentatif pour la production grammaticographique concernant la langue italienne en Europe aux Temps Modernes: on y trouve des grammaires d’ampleur divergente, rédigées par des auteurs d’origine différente et dans diverses langues. De plus, quatre métalangages grammaticographiques sont représentés par les grammaires de notre corpus: l’italien, le latin, le néerlandais et le français.
Sublanguage dans la terminologie de Z. Harris (1988, 1989, 1991). Qu’on pense, par exemple, à genre / genre grammatical, personne/personne grammaticale ou discursive, temps (angl. time) / temps verbal (angl. tense).
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2. Présentation du corpus Nous nous appuyons sur le corpus suivant de grammaires de l’italien comme langue étrangère: Acarisio, Alberto. 1555. La grammatica volgare di M. Alberto de gl’Acharisi Dacento. Lovanij: ex officina Bartholomei Gravij. Mulerius, Carolus. 1631. Linguae Italicae Compendiosa Institutio. Lugduni Batavorum: Ex officinâ Bonaventurae & Abrahami Elzevir. Roemer, Johannes Franciscus. 1649. Institutiones Linguae Italicae. Amstelodami: Apud Jodocum Jansonium. Paravicino, Pietro. 1654. Les premiers rudimens de la langue toscane. Leyde: Georgius à Marse. Duez, Nathanael. 1670 [1641]. Le guidon de la langue italienne. Amsterdam: Daniel Elzevier. [Meijer, Lodewijk]. 1672. Italiaansche Spraakkonst. Amsterdam: Abraham Wolfgang. Vigneron, Jean/Giovanni Veneroni. 1689. Le maître italien. Amsterdam: Pierre Brunel. Moretti, B.D. 1705. De nieuwe en volkomen Italiaanse spraakmeester. Leiden: Johannes du Vivié & Isaac Severinus. Giron, Moses. 1710. Il Grande Dittionario Italiano et Hollandese, come pure Hollandese et Italiano. Amsterdam: Pieter Mortier.
À propos de ce corpus, on peut formuler quelques constatations d’ordre général qui touchent au statut des grammaires et de leurs auteurs ainsi qu’aux aspects de terminologie. (1) le corpus réunit des grammaires de l’italien publiées dans les Anciens Pays-Bas, par des auteurs de nationalité et, surtout, d’origine différente: quatre auteurs sont d’origine italienne, deux d’origine française et trois d’origine hollandaise; (2) les grammaires sont rédigées en une seule langue ou en deux langues (les deux grammaires bilingues sont celles d’Acarisio et de Moretti); (3) la terminologie grammaticale technique est soit monolingue (c’est le cas pour 5 grammaires), soit bilingue (italien-français dans la grammaire d’Acarisio; néerlandais-latin dans le cas des grammaires de Meijer et de Giron), soit trilingue (la grammaire de Moretti utilise le français, le néerlandais et le latin comme métalangages grammaticaux). Signalons que dans les trois derniers cas (Meijer, Giron, Moretti), les métalangages excèdent en nombre la langue (ou les langues) de rédaction. Il convient de relever encore quelques divergences entre ces grammaires et leurs auteurs: (a) quant à l’ampleur: à côté de grammaires assez volumineuses (Meijer, Roemer), on trouve des opuscules, comme ceux d’Acarisio, de Mulerius et de Paravicino. (b) quant à la modularisation de la description grammaticale: les descriptions grammaticales constituent soit des publications autonomes (c’est le cas des grammaires d’Acarisio, Mulerius, Roemer et Meijer)6, soit une composante Notons d’ailleurs que la plupart des ‹grammaires autonomes› –à l’exception de celle de Roemer– contiennent aussi des textes (dialogues; textes illustratifs; modèles de lettres) et / ou des listes de vocabulaire. Elles se différencient des manuels de langue par l’importance accordée à la composante grammaticale.
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de ‹manuels de langue› (Paravicino, Duez, Vigneron et Moretti), ou une sorte d’appendice à un dictionnaire, comme c’est le cas chez Giron. (c) quant au statut intellectuel (et social) des auteurs: si la plupart des auteurs sont des maîtres de langue et des grammairiens / lexicographes ‹praticiens›, trois auteurs peuvent être qualifiés de ‹savants› / ‹hommes de science›: Acarisio, Roemer et Meijer.7 (d) quant aux objectifs fondamentaux: si la plupart des grammaires de notre corpus visent à faciliter l’apprentissage de l’italien par des locuteurs alloglottes, on ne peut passer sous silence deux faits importants: (i) d’un côté, des grammaires comme celle de Mulerius et des manuels comme ceux de Duez, Paravicino, Vigneron et Moretti ne témoignent guère d’un souci de la part de leurs auteurs à réfléchir sur la structure de la langue italienne, ou sur la fonction de catégories grammaticales en général; une telle préoccupation théorique se manifeste, par contre, chez Roemer et, surtout, chez Meijer. (ii) de l’autre côté, l’ouvrage d’Acarisio constitue un cas à part: il s’agit de la traduction d’un opuscule grammatical conçu pour un public italien / italianophone; de plus, vu la date précoce de l’original italien (1536), il s’agit d’un texte qui a joué un rôle important dans la codification linguistique et grammaticographique de l’italien8.
3. Spécimen de traitement terminologique 3.1. Présentation générale: l’architecture du dispositif Nous parcourrons ici les étapes de l’élaboration métalexicographique et terminographique. La démarche suivie dans la description terminographique est ascendante: Étape 1. Nous partons de la mise en inventaire de termes grammaticaux chez un auteur, dans un texte particulier (l’auteur et le texte sont identifiés par un sigle du type autdate; par ex. par1654 = Paravicino 1654; mei1672 = Meijer 1672); ces termes grammaticaux peuvent se présenter dans la langue d’exposition et / ou dans une autre langue (p.ex. termes techniques en néerlandais, mais aussi en latin et en italien). À ce niveau-ci, on repère aussi les variantes (graphiques: troisieme personne, troisiéme personne; morphologiques: voornaam, voornaamwoord; flexionnelles: pronom, pronoms) et les réalisations ‹discursives› d’un même terme (p.ex. un terme x apparaissant comme terme adjectival dans un groupe nominal, ou comme terme adjectival dans un groupe nominal coordonné, ou encore comme terme adjectival dans une structure prédicative).
Pour des notices bio-bibliographiques, voir Szoc (en préparation). Sur l’édition de Louvain de la grammaire d’Acarisio, voir Vanvolsem (1996).
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Étape 2. Cette mise en inventaire aboutit à une description analytique, ‹localement› standardisée: il s’agit de la description de l’appareil terminologique standardisé au niveau de l’unité ‹auteur/texte›. Quels sont les problèmes méthodologiques à ce stade? (a) l’identification d’unités de repérage: comme nous venons de voir avec l’exemple de féminin, un terme technique peut être lexicalement simple (dans ce cas le terme technique est un ‹mot›) ou il peut être lexicalement composé (p.ex. en néerlandais vraagwoord ‹mot interrogatif›; ici, le terme technique est un ‹mot composé›), ou il peut consister en une séquence syntagmatique (dans ce cas, le terme technique est un syntagme: p.ex. genre féminin). Pour notre propos, il suffit de faire la distinction entre deux types de termes: les termes-syntagmes et les autres (termes qui sont soit des mots simples ou des composés). Le problème du repérage se complique par le fait que certains termes peuvent se présenter dans plusieurs configurations syntaxiques/ discursives, tout en ayant la même valeur grammaticale: cf. le cas de féminin (le féminin; le genre féminin; le genre masculin & féminin; le genre [est masculin ou] féminin). Ceci nous conduit au second problème méthodologique: (b) l’établissement d’unités de codage: dans des cas d’occurrences distinctes, mais fonctionnellement non distinctives (c’est-à-dire: fonctionnellement équivalentes), nous regroupons toutes les formes sur une seule fiche; cela vaut à la fois pour des cas de simple variation graphique (p.ex. genetivo / genitivo; feminino / femenino, vrouwelijk / vrouwelyk), de variation morphologique (p.ex. des termes techniques latins qui apparaissent à différents cas: nominativus, nominativi, etc.)9, mais aussi pour le cas déjà mentionné de féminin / genre féminin / genre… féminin; ce regroupement pose le problème de (c) l’étiquetage terminographique au niveau ‹auteur / texte›: cet étiquetage se fait en assignant un codage aux classes de mots, aux accidents et à leurs réalisations. Nous adoptons un système d’étiquetage facile à manier: C + numéro d’ordre pour les classes de mots A + numéro d’ordre pour les accidents R + numéro d’ordre pour les réalisations On choisira comme terme de lemmatisation (a) une forme qui ne peut être une erreur typographique, (b) qui, parmi des formes variantes, est la plus fréquente, (c) ou, dans le cas de fréquence égale, celle qui est la plus répandue à l’époque en question.
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Cela donne des étiquetages hiérarchisés:10 C03 = classe: pronom C03A12 = classe: pronom, accident: signification C03A12R10 = classe: pronom, accident: signification, réalisation: démonstratif Sur les fiches signalétiques du niveau ‹auteur/texte›, nous signalons: (1) les occurrences du terme (terme/terme-syntagme) [et variantes] (2) le nombre d’occurrences (3) les éventuelles variantes (4) la définition qui est donnée par l’auteur [si cela est le cas] (5) un commentaire On y ajoutera (6) une rubrique ‹origine› (étymologie du terme; première attestation, en tant que terme technique)
Les étiquetages hiérarchisés permettent de différencier les (éventuels) termes identiques à double référence (p.ex. espèce comme accident formel ou accident sémantique).
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On pourra prévoir, déjà au niveau de l’ensemble des fiches ‹auteur/texte› un index analytique, qui permet de repérer des emplois fonctionnels différents d’un même terme (p.ex. indéfini11 dans le terme passé indéfini et dans article indéfini), ainsi que des renvois mutuels entre termes se trouvant dans un rapport hiérarchique (p.ex. renvois entre passé et les différents temps du passé: passé indéfini / passé composé / passé défini / passé simple). Étape 3. Une fois qu’on a établi des inventaires terminologiques par auteur/texte, on peut procéder à l’établissement d’un dispositif terminologique comparatif: ce dispositif est organisé en fonction d’unités calibrées (cf. Swiggers 2006) (= unités de référence à un plan qui se superpose aux textes individuels) et il recense: (a) les termes et leurs variantes relevés chez les auteurs / dans les textes individuels qui correspondent (par leur contenu) à l’unité de référence en question (b) dans la version élaborée définitivement, des informations (déjà incluses dans les fiches ‹auteur / texte›) concernant: (b1) la définition/les définitions qu’on trouve de l’unité de référence [par regroupement des rubriques de ‹définition› des fiches ‹auteur/texte›] (b2) l’origine de termes [il s’agira d’incorporer et de systématiser ici la rubrique ‹origine› des fiches ‹auteur / texte›] (b3) des écarts ‹doxographiques› dans l’intension / l’extension donnée à l’unité de référence [p.ex. relatif qui a un sens multiple: fonction anaphorique, relateur entre phrases ou les deux] Quels sont les problèmes méthodologiques qui se posent au stade de l’élaboration de la description terminographique standardisante? Il y en a essentiellement trois: (1) le problème de la mise en équivalence traductionnelle: vu le fait que dans le corpus Sur l’histoire du terme grammatical indéfini (en français), voir Yvon (1901, 1902, 1904).
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on trouve divers métalangages techniques (ce qui est dû, entre autres, au fait que les grammaires sont rédigées en différentes langues), il faut établir les équivalences nécessaires entre des termes qui constituent des correspondants traductionnels (p.ex. dativus = datif = dativo = geever; relativus = relatif = relativo = betrekkig / betrekkelijk); à ce problème s’ajoute celui de la mise en équivalence fonctionnelle: entre des termes qui ne sont pas à strictement parler des correspondants traductionnels, il peut y avoir aussi équivalence fonctionnelle, c’est-à-dire qu’ils renvoient au ‹même référent›, en l’occurrence le même concept grammatical. C’est par exemple le cas pour: datif = terzo caso; accusatif = quarto caso); le troisième problème est celui du choix du terme calibré: comme lemmes standardisants nous avons opté pour des désignations en italien (désignations de: classes, accidents et leurs réalisations); dans le cas des classes de mots, ces désignations correspondent aux termes de la grammaire traditionnelle (nome, verbo,…); cela n’est pas toujours le cas pour les accidents et pour leurs réalisations, où nous avons opté parfois pour un terme linguistique plus ‹moderne› (p.ex. diatesi; en fait, ce terme ‹moderne› remonte à la grammaire grecque) qui exprime de façon plus nette la nature de l’accident (ou de sa réalisation) que les termes utilisés dans les textes-sources. Notons d’ailleurs que souvent les textes-sources utilisent des périphrases pour désigner des accidents / réalisations pour lesquels on ne disposait alors guère de terme (unique) conventionnel.
En résumé, l’étape (1) consiste dans l’établissement de fiches ‹analytiques› du niveau ‹Terme-Itémisation›; l’étape (2) se clôt par la réalisation de fiches analytiques, mais déjà systématisantes, pour l’unité ‹auteur / texte›; l’étape (3) consiste dans l’établissement de fiches ‹synthétiques› (organisées d’un point de vue ‹onomasiologique› et impliquant une opération de standardisation conceptuelle comparative [la ‹calibration›]); ces fiches systématisent les informations contenues dans un ensemble de fiches analytiques.12 En analogie avec les techniques et avec les moyens de notation de la description linguistique structuraliste, on pourrait schématiser les étapes de la manière suivante:
Il s’agit du rapport entre terme standard unifié et termes multiples (chez les différents auteurs) dont le contenu se rapporte à celui du terme standard.
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Le travail terminographique, dans son élaboration finale, requiert évidemment l’intégration d’informations qui relèvent de l’analyse des doctrines grammaticales et de leur évolution. Il est évident que la synthèse terminographique ne peut se faire que sur la base d’une analyse approfondie du contenu des grammaires, c’est-à-dire de la structuration générale des critères de classification et de sous-classification, de la distribution des matériaux empiriques (p.ex. quelles formes sont rangées dans telle sous-classe des pronoms / des adverbes / des conjonctions, etc.?), et de l’examen de leur insertion dans l’histoire de la grammaire italienne (et plus généralement de la grammaticographie des langues vernaculaires en Europe). Vu la perspective méthodologique du présent texte, nous ne pouvons trop nous attarder à cet aspect, mais nous tenterons de l’illustrer très rapidement dans la section suivante, qui sert à illustrer en premier lieu la démarche terminologique et terminographique. 3.2. Illustration: le pronom La description terminographique de la catégorie du ‹pronom›13, de ses accidents, et des réalisations de ces accidents chez les auteurs de notre corpus aboutit à des ‹fiches terminographiques› systématisantes, qui (a) inventorient les termes (et leurs variantes) correspondant à un terme calibré (pour lequel nous avons choisi un lemme standardisé en italien, marqué en caractères gras et accompagné d’un codage); le terme calibré figure dans une barre transversale, sur fond gris; (b) fournissent les localisations des occurrences des termes et de leurs variantes correspondant au terme calibré en question (les localisations sont facilement repérables grâce à l’emploi d’une abréviation pour chacune des grammaires [type: autdate], avec l’indication des pages; les occurrences multiples sont signalées entre crochets; (c) permettent de reconnaître directement la langue à laquelle appartiennent les termes / variantes. Nous donnons comme exemple la fiche terminographique de la catégorie du pronom (voir Annexe). Notre travail se base sur la description terminographique complète de la catégorie du pronom, de ses accidents et de leurs réalisations, dans les grammaires qui constituent notre corpus; bien que nous ne puissions, faute d’espace, présenter ici l’ensemble de cette documentation, nous voudrions dégager les principales conclusions qu’on peut tirer de l’inventaire terminographique que nous avons établi en rapport avec la description du pronom. (1)
À part le fait que les auteurs proposent une terminologie ‹technique› dans la (ou les) langue(s) de rédaction (c’est-à-dire, le latin chez Mulerius et Roemer, le français chez Duez, Paravicino, Veneroni, dans une mesure très réduite le français et l’italien chez Acarisio14, le français et le néerlandais chez Moretti et Giron), on constate que
Sur le traitement problématique de la classe du pronom dans les grammaires italiennes, espagnoles et françaises de la Renaissance, voir Kukenheim (1932: 126ss.). 14 En fait, on trouve seulement pronom (ou particule) et pronome (ou particella), ainsi que les accidents 13
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certains auteurs penchent vers une présentation ‹encyclopédique› et multilingue de la terminologie grammaticale: c’est, en partie, le cas pour Moretti et Giron, qui mentionnent parfois aussi, à côté du terme français et du terme néerlandais, l’équivalent latin, mais c’est surtout le cas chez Meijer, qui –en dépit du fait que son ouvrage est rédigé dans une seule langue (le néerlandais)– ajoute presque toujours, de façon systématique, le terme latin.15 (2)
Une deuxième conclusion qui se dégage de l’inventaire est que Meijer s’est efforcé de traduire la terminologie grammaticale latine vers une terminologie proprement néerlandaise, c’est-à-dire non latinisée.16
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Une troisième conclusion concerne la nette distinction entre un secteur terminologique partagé par presque tous les auteurs (il s’agit des sous-classes sémantico-syntaxiques du pronom: [pronom] démonstratif; [pronom] interrogatif; [pronom] possessif; [pronom] relatif) et un secteur terminologique peu commun17 ou même idiosyncrasique.18
Si l’on examine l’inventaire établi dans une perspective méthodologique, il nous semble qu’il faut distinguer dans l’appareil terminologique mis en œuvre dans la description du pronom chez les grammairiens de notre corpus au moins trois axes d’organisation: (a) en premier lieu, il y a l’axe de la sous-classification (lexico-)formelle, qui consiste à faire le clivage entre entités ‹primitives› et entités ‹dérivatives›; cette sousclassification (qui remonte à l’Antiquité grecque) aboutit, dans le cas de la classe du pronom, à opposer pronoms primitifs et pronoms dérivatifs. On retrouve ces termes chez Paravicino, où les formes désignées par le terme primitif correspondent à celles du pronom personnel actuel et où les dérivatifs s’appliquent aux formes clitiques, nommées conjoints chez Veneroni, Moretti et Giron; chez Mulerius –auteur de la grammaire la plus traditionnelle de notre corpus– on ne trouve que le terme pronom primitif, qui rassemble également les formes du personnel. Meijer introduit l’opposition primitif/dérivatif dans un chapitre général précédant la description des parties du discours, mais il ne reprend pas ces termes dans les chapitres sur les pronoms, où il renvoie, par contre, au procès de dérivation (afspruiting, derivatio).19
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nombre, cas, genre et personne. À part la mention du relatif, exclusivement en français d’ailleurs, Acarisio ne nomme pas les sous-classes. Meijer, connu pour son purisme, qu’il défend dans son dictionnaire néerlandais (cf. Hardeveld 2000: 389-410), justifie dans la préface de la grammaire italienne le recours à la terminologie latine. La terminologie ‹indigène› élaborée par Meijer a le plus souvent été reprise par Moretti et Giron: cf. les termes aanwijzend / aanwijsend voornaam(woord); vra(a)gend(e) voornaam(woord); bezittend/ besittend voornaam(woord); betrekkige voornaam(woord). Par exemple, pronom impropre: chez Veneroni, Moretti et Giron; il s’agit d’un terme qui n’apparaît que dans les grammaires de la dernière période de notre corpus. Meijer se distingue à ce propos par des créations terminologiques: verzeekerende voornaam; verzamelende voornaam; verdeelende voornaam; weederkerige voornaam. Chez Meijer 1672, les pronoms formés par dérivation ne correspondent pas aux dérivatifs de Paravicino 1654, mais ils incluent les formes io, tu, chi, che, cui, si, se, nulla, esso, altro, ogni, tutto, quale, cio, altri, lui, lei.
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(b) en second lieu, il y a l’axe de la sous-classification sémantico-syntaxique, qui consiste à distinguer des types de pronoms, caractérisés par un certain sémantisme de base (idée de possession, idée de démonstration etc.) et/ou par un comportement syntaxique particulier. C’est ici qu’on retrouve les subdivisions traditionnelles (pronoms possessifs, pronoms démonstratifs, pronoms in(dé)finis, pronoms interrogatifs, pronoms relatifs), mais on devra noter (i) que dans la grammaire grecque de l’Antiquité, les démonstratifs, interrogatifs, indéfinis sont introduits comme sous-classifications des noms et non des pronoms, et (ii) que les pronoms personnels sont une addition tardive à la sous-classification des pronoms. Dans les grammaires de notre corpus les pronoms personnels sont déjà identifiés comme type de pronoms, mais non pas chez Mulerius (ce qui confirme son traditionalisme) ni chez Meijer.20 (c) en troisième lieu, il y a l’axe de la sous-classification syntaxique ou, mieux, de la sous-classification ‹diathétique›, car il s’agit de sous-classes de pronoms qui ont un rapport avec la réalisation de la diathèse verbale: c’est à ce niveau qu’on identifie les pronoms réciproques / pronoms réfléchis. Il est à noter que cet axe de sousclassification ne semble opérationnel que chez Meijer. (d) on peut mentionner un dernier axe, celui de la sous-classification syntaxique, ou plutôt ‹syntactique›, vu qu’il concerne la réalisation de pronoms (ou d’allomorphes de morphèmes pronominaux). Il s’agit d’une sous-classification qui n’apparaît dans la grammaticographie vernaculaire qu’à partir du 17e siècle: la distinction entre ce qu’on appelle habituellement ‹pronoms absolus› et ‹pronoms conjoints / conjonctifs›. Dans les grammaires de notre corpus, cet axe de sous-classification est présent seulement dans celles de la dernière tranche chronologique (plus spécifiquement: 1675-1710) du corpus: chez Veneroni, Moretti et Giron. Or, on notera que de la paire ‹absolu / conjoint (conjonctif)›, seul le second membre est attesté terminologiquement: on trouve chez trois auteurs les appellations pronom conjonctif / pronomen conjunctivum (Veneroni; Moretti) et samenbindend / zamenbindende voornaam (Moretti; Giron).
4. Conclusion générale et perspectives Ce travail avait pour but de présenter les contours, méthodologiques et descriptifs, d’un projet qui, à l’état actuel, reste circonscrit à un nombre limité de grammaires de l’italien. Toutefois, ce corpus réduit nous a permis de recenser les principaux problèmes qui se posent lors d’un examen terminologique du vocabulaire grammatical chez des auteurs individuels et lors de l’élaboration d’une synthèse terminographique comparative. Les formes du personnel se trouvent parmi les ‹primitifs› (‹primitiva›) chez Mulerius 1631; Meijer 1672 les range parmi les ‹démonstratifs›, où il distingue entre ceux qui désignent: une personne (io, tu, egli, colui, esso), une chose ou une personne (cio), une chose et une personne (questo, quello, costui, cotestui).
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Nous avons voulu illustrer aussi la nécessité d’intégrer les résultats d’un examen de l’histoire de doctrines grammaticales à la description terminographique: en effet, si une approche historiographique s’impose déjà quand on analyse la terminologie grammaticale d’un auteur particulier, elle est indispensable au moment de la synthèse terminographique. Pour notre propos, il suffisait de relever et d’illustrer les problèmes théoriques et, surtout, méthodologiques; nous avons laissé de côté la question de l’origine des termes grammaticaux et nous n’avons fourni qu’une brève illustration de l’importance de la documentation historiographique sur l’évolution de doctrines grammaticales, la présentation de la démarche terminologique et terminographique étant notre objectif principal. Il importe de faire remarquer que cette description terminographique devra être élargie, d’abord pour inclure l’ensemble des grammaires italiennes publiées dans la fourchette chronologique de notre corpus (donc environ 1500-1750; rappelons que la première grammaire imprimée de l’italien vit le jour seulement en 1516)21, ensuite pour inclure, idéalement, l’ensemble de la production grammaticographique portant sur l’italien, depuis les origines (vers 1450, avec la grammaire d’Alberti, restée à l’état de manuscrit et publiée seulement au 20e siècle) jusqu’à nos jours.22 À partir du travail de terminographie qu’on aura ainsi réalisé, au moins trois exploitations sont possibles: (1) En premier lieu, les résultats de la synthèse terminographique du métalangage grammatical relevé dans ‹un corpus total› devront être intégrés aux ouvrages lexicographiques –dictionnaires synchroniques ou historiques–: il est bien connu que les dictionnaires généraux sont parfois très défectueux en ce qui concerne les terminologies spécialisées. Pour ce qui concerne le métalangage grammatical de l’italien, les dictionnaires généraux pourront tirer beaucoup de profit d’une synthèse ‹totale› de la terminologie grammaticale (à travers son histoire) et cela au niveau de nombreuses rubriques du dispositif lexicographique: origine, formation, évolution, contenu du terme (et de ses dérivés). (2) En second lieu, la synthèse terminographique du métalangage grammatical dans son extension totale pourra contribuer à la systématisation du métalangage grammatical pour la description de l’italien: en effet, l’information historique ainsi que la systématisation terminographique appliquée à cette information aideront les linguistes, grammairiens et enseignants à (a) justifier leur choix d’un terme par rapport à des termes concurrents; (b) préciser le contenu de tel ou tel terme technique; (c) offrir un contrepoids aux poussées ‹néologiques› et idiosyncrasiques en matière de vocabulaire grammatical / linguistique. (3) Enfin, la synthèse historiographique et terminographique à propos du corpus ‹total› de la grammaticographie italienne pourra être intégrée à un projet qui pointe à l’horizon: celui d’une description systématique et encyclopédique de l’histoire de la terminologie grammaticale / linguistique (occidentale), c’est-à-dire un dictionnaire encyclopédique et historique du métalangage linguistique.23 Pour un aperçu des débuts de la production grammaticale italienne, voir Swiggers / Vanvolsem (1987), Quondam (1978). 22 Trabalza (1908) reste la seule synthèse disponible sur l’histoire de la grammaire italienne depuis les débuts jusqu’à la fin du 19e siècle. 23 Cf. plusieurs contributions dans Colombat / Savelli (2001). 21
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Bibliographie Colombat, Bernard / Savelli, Marie (edd.) (2001): Métalangage et terminologie linguistique, Actes du colloque international de Grenoble (Université Stendhal – Grenoble II, 14-16 mai 1998). Leuven: Peeters. Harris, Zellig S. (1988): Language and information. New York: Columbia University Press. — (1989): The form of information in science: analysis of an immunology sublanguage. Dordrecht: Kluwer. — (1991): A theory of language and information: a mathematical approach. Oxford: Clarendon. Kukenheim, Louis (1932): Contributions à l’histoire de la grammaire italienne, espagnole et française à l’époque de la Renaissance. Amsterdam: Noord-Hollandsche Uitgeversmaatschappij. Quondam, Amedeo (1978): Nascita della grammatica: appunti e materiali per una descrizione analitica. In: QS 38 (Alfabetismo e cultura scritta), 555-592. Ruijsendaal, Els (1981): Het terminograferen van grammaticale werken. In: Gramma 5, 228-248. Swiggers, Pierre (1998): Pour une systématique de la terminologie linguistique: considérations historiographiques, méthodologiques et épistémologiques. In: Mémoires de la Société de Linguistique de Paris, Nouvelle série, 6 (n° spécial: La terminologie linguistique), 11-49. — (2006): Terminologie et terminographie linguistiques: problèmes de définition et de calibrage. In: Neveu, F. (ed.): La terminologie linguistique: problèmes épistémologiques, conceptuels et traductionnels (Syntaxe et sémantique 7). Caen: Presses Universitaires de Caen, 13-28. Swiggers, Pierre / Vanvolsem, Serge (1987): Les premières grammaires vernaculaires de l’italien, de l’espagnol et du portugais. In: HEL 11, 1, 157-181. Szoc, Sara (en préparation): La grammaticografia italiana nei Paesi Bassi antichi (1555-1710). Struttura e argomentazione delle parti del discorso. [Thèse de doctorat, K.U.Leuven]. Trabalza, Ciro (1908): Storia della grammatica italiana. Milano: Hoepli. Van Hardeveld, Ike (2000): Lodewijk Meijer (1629-1681) als lexicograaf. Utrecht: Led. [Thèse de doctorat, Université de Leiden].
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Vanvolsem, Serge (1996): La Grammatica volgare di M. Alberto de gl’Acharisi… tournée de Tuscan en François. In: Tavoni, M. (ed.): Italia ed Europa nella linguistica del Rinascimento. Confronti e Relazioni. Vol. 1. Ferrara: Franco Cosimo Panini, 347-360. Yvon, Henri (1901): Sur l’emploi du mot indéfini en grammaire française. In: Revue de philologie française 15, 292-307. — (1902): Sur l’emploi du mot indéfini en grammaire française (II). In: Revue de philologie française 16, 129-146. — (1904): Étude sur notre vocabulaire grammatical. Le mot indéfini. In: Revue de philologie française 18, 46-67.
Annexe
Fiche terminographique pronome
Josep L. Teodoro Peris (Universitat de València)
El Saggio sopra la necessità di scrivere nella propia lingua (1750) de Francesco Algarotti. Una aportació a la Questione della lingua i al debat sobre l’ús literari del llatí
Fill de rics comerciants, Francesco Algarotti va nàixer a Venècia el 1712, on va rebre una educació eclèctica dedicada a la filosofia, a les matemàtiques i al estudi de les llengües. Després d’haver publicat unes Rime, en el 1733 es va traslladar a París, ciutat en la qual va conèixer i va lligar amistat amb Voltaire. A l’edat de vint-i-quatre anys, el 1736, va instaŀlarse a Londres per prendre contacte amb les fonts del pensament científic modern, del qual va ser un important divulgador a Itàlia, i va ser admès en la Royal Society. A Londres estant va preparar el seu gran viatge a través d’Holanda, Bèlgica i Suècia fins a Rússia, on va arribar el 1738. Immediatament després va publicar una relació de les seues troballes, els Viaggi di Russia (1739-1751), composta de setze cartes, sis de les quals adreçades al seu protector londinenc, Lord John Hervey. Del seu treball de divulgació científica l’obra més destacada és Il neutonianismo per le dame, del 1736, el qual, amb el títol definitiu de Dialoghi sopra l’ottica newtoniana, és una mostra de l’esforç d’Algarotti per obrir a nous públics no erudits els avenços científics. Amic íntim de Frederic II de Prússia, que el va nomenar comte i li va encarregar algunes missions diplomàtiques, va residir en la Cort de Potsdam intermitentment des de 1740 a 1753, moment en què, malalt de tuberculosi, s’instaŀlà a Itàlia definitivament. Fins al 1764, any en què va morir a Pisa, va publicar nombrosos Discorsi sobre els més variats arguments, sempre amb una intenció divulgativa i polemista. Va ser, doncs, a la Cort de Prússia, on Algarotti va redactar el 1750 el seu Saggio sopra la necessità di scrivere nella propria lingua, que pren la forma d’una llarga lletra adreçada a Saverio Bettinelli. El Saggio sulla necessità di scrivere nella propria lingua és una obra breu, de divulgació –com la major part de les obres del seu autor–, però que té el mèrit de fornir arguments per a la conclusió de dues polèmiques antigues i importants, que van nàixer i van desaparèixer pràcticament al mateix temps: El debat sobre la vitalitat i l’ús modern de la llengua llatina, que va sorgir amb l’inici del cultiu de les llengües vulgars en el Renaixement, i l’anomenada Questione della lingua italiana, una llarga discussió que va ocupar la major part dels intel·lectuals italians des de la primera presa de consciència de la unitat de la llengua italiana per damunt de les diferències regionals –és a dir, des dels temps de Dante, Boccaccio i Petrarca, creadors de la primera llengua literària italiana– fins la definitiva normativització estatal propiciada per la unificació italiana del segle XIX. Al Saggio d’Algarotti convergeixen els resultats de les dues polèmiques, i són revisats des d’una òptica moderna, on hi trobem aplicats els principis de la filosofia sensista i de la concepció de l’individu com a entitat ‹única› i particular, amb drets inalienables; la declaració de drets del ciutadà que només trigarà quaranta anys en aparèixer beu de la mateixa font. Algarotti fa remarca en la llibertat absoluta del creador, fins i tot per a crear-se una llengua pròpia, per damunt de les
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constriccions de l’academicisme. Amb aquesta primera afirmació, Algarotti supera un dels punt principals de la secular Questione della lingua, aquell que limitava l’elecció dels mots i dels girs expressius als sancionats per l’autoritat dels millors escriptors. Però, al mateix temps, el principi de llibertat de l’escriptor té efectes importants en la possibilitat de l’ús de la llengua llatina en la creació artística. Com que el vocabulari d’aquesta llengua és limitat, i els exemples que posseïm d’ella no ens proporcionen elements per a parlar de les coses noves que han aparegut des del temps dels antics romans, només tenim dues solucions: o acrèixer la llengua llatina amb nous vocables, o bé abandonar el seu conreu. L’opinió d’Algarotti es basa en una apreciació nova, però que serà capital en el desenvolupament posterior d’aquest debat: Només la totalitat de la comunitat de parlants té dret a introduir i a crear nous vocables, que sanciona amb el seu ús col·lectiu. Com que el llatí no disposa d’aquesta comunitat de parlants natius, els autors no tenen el dret ni d’introduir nous mots ni d’emprar els antics amb noves accepcions. Ja en 1542 un Dialogo delle lingue de Sperone Speroni tractava des d’un punt de vista filosòfic el problema de l’oportunitat d’escriure en llatí o en llengua vulgar (Trabant 2001: 189-218). A aquest Dialogo les diverses posicions són sostingudes per personatges que representen diferents estaments socials: l’humanista i professor de llengües antigues canta la lloança del llatí, el poeta voldria compondre poesies en italià, però utilitzant el llenguatge antic, de Petrarca i Boccaccio; el cortesà preferiria mantenir les relacions amb les aristòcrates de tot el país en un vulgar modern comprensible a tots... A l’últim, apareix un nou element dins de la societat, el jove naturalista, que relata una discussió entre el seu mestre Pietro Pomponazzi i l’humanista d’origen bizantí Ioannis Làscaris. El científic condemna la pèrdua de temps que suposa l’aprenentatge de les llengües: totes són igualment aptes per a comunicar els mateixos conceptes de la mateixa manera, seria doncs millor renunciar a l’inútil treball d’aprendre-les i dedicar-se a les ciències parlant cadascú com més còmode li resulte: Io ho per fermo, che le lingue d’ogni paese, così l’Arabica e l’Indiana, come la Romana e l’Ateniese, siano d’un medesimo valore, e dai mortali ad un fine con un giudicio formate [...] le quali usiamo siccome testimoni del nostro animo; significando tra noi i concetti dell’intelletto (Trabant 2001: 190).
Més endavant el mateix personatge al·ludeix a la concepció aristotèlica del llenguatge descrita al capítol primer del Περὶ ἑρμηνείας (De interpretatione, 16a). Segons aquesta idea, pensar és un procés de representació del món que es duu a terme sense el llenguatge, en el qual la ment es crea conceptes de les coses. Aquest procés és igual en totes les persones. Per comunicar aquests conceptes prelingüístics als altres homes, hom disposa de diversos sons, segons la comunitat lingüística on viu. Les paraules només són, doncs, instruments materials, signes, per a la comunicació d’allò que s’ha pensat sense el llenguatge. En la mentalitat antiga i medieval el coneixement de llengües és enutjós i irrellevant, perquè aquestes són simplement diferents sons de paraules que tracten d’explicar el mateix i essencial, el pensament o el concepte, que no té res a veure amb el llenguatge. Són els humanistes els primers a oposar-se a aquesta concepció, bo i suposant una índole individual de cada llengua –que Vives denomina idioma1–, però entre els homes de ciència del Renaixement, l’esquema aristotèlic que presenta les llengües com a intercanviables i indiferents Vives (1520: 20) «Cadascuna de les llengües té una índole pròpia a l’hora de parlar-la, que els grecs anomenen idioma, i també cadascuna de les veus té els seus propis significats, la seua pròpia eficàcia expressiva, de les quals, a voltes, abusa el poble ignorant».
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és utilitzat per a desempallegar-se de la tradició antiga i obrir les portes a la nova pràctica científica, realitzada, com és evident, en llengua vulgar. Solament més tard, amb els progressos de les disciplines humanístiques i sobretot de la lògica, els científics hauran de reconéixer que, més enllà del fet que les llengües vulgars limiten l’esfera d’acció de la ciència als límits nacionals, cada llengua posseeix una semàntica pròpia i elements cognitius que dificulten el discurs científic, el qual, per contra, ha de ser universal segons aquell adagi aristotèlic ‹scientia debet esse de universalibus et aeternis›. El llatí, l’antiga llengua universal –i una llengua universal és el que demana la ciència–, també arrossega un solatge cultural, que no havia estat notat abans perquè hom parlava i escrivia llatí en tot el món conegut i per tant ni les semàntiques diferents no eren objecte d’atenció ni la reflexió sobre les altres llengües interessava els erudits. La solució no és altra, doncs, que intentar netejar les llengües vulgars de les particularitats que les contaminen. És Francis Bacon el descobridor d’aquests elements semàntics sedimentats en les llengües, que ell denomina idola fori. Sota aquest ídols del mercat o de la massa, les llengües amaguen la veritat, que hom vol lluminosament clara i universal. A partir d’aquest moment el programa de la Iŀlustració serà reformar i netejar el llenguatge, perquè les paraules ens ‹destorben amb els seus sorolls› –‹verba obstrepunt›, com afirma el gran canceller al Novum Organum del 1620.2 Uns decennis després, al 1690, Locke aprofundeix amb el seu Essay Concerning Human Understanding en la idea d’una semàntica de les llengües fundada en la crítica baconiana dels idola fori. Locke té una idea suficientment precisa de les diferències entre les llengües per afirmar que no hi ha pràcticament un mot que tinga un corresponent semàntic idèntic en altra llengua: hora, pes i libra no signifiquen el mateix que hour, foot i pound.3 Cal una reforma radical de la llengua vulgar en el seu ús científic, una reforma que consisteix en una severa ètica discursiva i en una purificació de la semàntica, sobretot la d’aquells mots que transmeten termes socials, que només poden ser coneguts per convenció i no per observació directa, com passa amb els mots que es refereixen a objectes concrets i tangibles. La coneixença de Locke a Itàlia va fer-se més general a partir del 1750, i va coincidir amb la difusió de les obres de Condillac, que residí a Itàlia entre el 1758 i el 1767. Condillac jutjava la llengua poètica italiana, en tant que plegada a l’estil llatinitzant i seguidora dels tres-centistes, com estranya als temps, més aviat morta, front a l’adequació a la nova època que demostrava la llengua francesa, simple, clara, metòdica i perfeccionada en el segle en què havia aparegut la veritable filosofia. Locke, per la seua part, assignant al llenguatge la finalitat de comunicar pensaments i idees de la manera més ràpida i més neta, només admetia en literatura l’ordre i la claredat, els mots que contenen una idea clara i distinta, de significat constant, i detestava tant la subtilitat i l’èmfasi com la retòrica i les aplicacions figurades i artificials dels mots, que només serveixen per a insinuar idees errònies a l’esperit, per a moure les passions i en definitiva per a trastornar el judici. Bacon (1831: 27) «At idola fori omnium molestissima sunt, quae ex foedere verborum et nominum se insinuarunt in intellectum. Credunt enim homines rationem suam verbis imperare; sed fit etiam ut verba vim suam super intellectum retorqueant et reflectant, quod philosophiam et scientias reddidit sophisticas et inactivas. Verba autem plerumque ex captu vulgi induuntur, atque per lineas vulgari intellectui maxime conspicuas res secant. Quum autem intellectus acutior aut observatio diligentior eas lineas trasferre velit, ut illae sint magis secundum naturam, verba obstrepunt». 3 Locke (1971-1974: II, 37). Reportat per Trabant (2001: 197). 2
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En l’ambient cultural italià, les idees de Bacon, Locke i Condillac conflueixen, sense deixar de desenvolupar-se, amb les reflexions teòriques d’un bon nombre de crítics literaris que durant els primers decennis del segle tornen a plantejar la secular questione della lingua –és a dir, el problema de com ha de ser la llengua de la literatura i sobre quina base ha d’estar formada– des de diversos punts de vista. Per un costat hi ha una línia d’escriptors fermament ancorada a l’heritatge toscà i florentí, que rebutgen la modernització de l’italià i segueix el model del Tres-cents florentí: Anton Maria Salvini, Domenico Maria Manni, Giulio Cesare Beccelli, Salvatore Corticelli; aquests tenen com a centre d’actuació l’Accademia della Crusca, i com pública mostra de la seua posició la quarta edició del Vocabolario della Crusca (1729-38), el seu diccionari normatiu. Per altre costat podem trobar una línia diferent que compta amb més seguidors, coherent amb el moviment de renovació cultural i de restauració classicista de l’Arcadia, que afirma el caràcter nacional de la llengua literària italiana i la necessitat d’un moderat renovellament lèxic. Els capdavanters d’aquest sector són Gianvincenzo Gravina (1664-1718) i Ludovico Antonio Muratori. Tots dos coincideixen en considerar la llengua des d’una perspectiva històrica, connectant el seu desenvolupament a la història cultural i civil de la nació, però difereixen en valorar les possibilitats del conreu literari del llatí. Segons Muratori, Della perfecta poesia italiana (1706), la llengua italiana és una realitat concreta, fundada sobre un ampli consens, susceptible d’enriquiment, però no modificable mitjançant iniciatives arbitràries o subjectives. Per a Gravina (De lingua etrusca, 1690; Della ragion poetica, 1708) els trets fonamentals de la llengua italiana han estat fixats en el Trescents, sobretot per Dante, però és durant el segle XVI quan la llengua ha adquirit el caràcter de llengua nacional dels italians. Com Gravina i Muratori, altres escriptors i crítics reaccionen des de la tradició a l’immobilisme de la Crusca: Giuseppe Baretti, l’autor de la Frusta letteraria que fueteja durament el rigorisme de la Crusca, no fa tabula rasa dels escriptors del Tres-cents i del Cinccents, dels quals cal «imparare i vocaboli e ragunarsene in mente quanta migliaia possiamo, colle debite discriminazioni fra i più usati e i meno usati, fra i moderni e i obsoleti, fra i prosaici e i poetici», i també «imparare a distinguere tra le frasi native e le frasi forestiere, e a ben ravvisare quel totale di esse che si chiama indole o genio della lingua toscana» (Schiaffini 1971), però, continua Baretti, «aquestes són les dues úniques coses que hem d’aprendre d’aquells ancians barbuts». Amb aquest principis, alguns dels nous filòsofs i literats comencen a considerar les llengües com a entitats empíricament i històricament descriptibles de les quals era possible analitzar la manera en què el pensament s’organitza i s’expressa, diferent en cada llengua i en cada època. De resultes d’aquest plantejaments es redefineix i s’amplia el concepte de ‹geni› de la llengua, un tarannà propi i indefinible que posseeix cada parla, que rau en la utilització dels mots, la connexió entre ells, el so i el ritme, la disposició dels membres de la frase i en l’ús de les figures estilístiques, que no es pot aprendre sinó amb el contacte directe –per naixement o per una llarga naturalització de l’autor– i que fa gairebé impossible el conreu elegant i estèticament efectiu d’una llengua que no siga la pròpia de naixença. Però, a més, aquest ‹geni› propi que és inherent a cada llengua, necessita per expressar-se convenientment que l’autor no es veja cohibit per normes de composició massa estrictes o limitacions de vocabulari: parafrasejant Algarotti, l’autor ha de disposar de suficients colors
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i ha poder mesclar-los a la seua conveniència per a pintar la realitat, i no veure’s obligat a fer-ne un retrat desnerit amb una paleta esquifida. No és difícil imaginar quines conseqüències podia tenir aquest punt de vista en el cultiu de la llengua llatina, que només pot ser apresa en els llibres, a partir de la imitació d’altres autors, i que compta amb un vocabulari que difícilment es pot renovar per adaptar-lo a les noves necessitats. D’aquesta manera, un debat sobre la modernització lingüística que havia sorgit a l’interior de la llengua italiana –la tradicional questione della lingua– passa finalment al llatí, on la polèmica no era certament nova, perquè l’Humanisme ja havia discutit la qüestió intensament, si bé en aquell moment el problema s’havia fet patent per la codificació i gramaticalització de les llengües vulgars, que havia forçat a un reajustament de la tradicional divisió medieval del llatí com a llengua escrita front als vulgars parlats. Durant el llarg període en què el llatí, com a única llengua literària escrita, no sofria la pressió evolutiva dels parlants de manera directa, seguia tanmateix experimentant la influència d’altres forces: la tradició escolàstica, l’especulació dels doctes, la imitació dels models del passat, el gust i la creativitat de l’artista, i fins i tot la relació amb altres llengües de cultura –grec, hebreu– i amb les llengües vernacles, sobretot pel que fa als neologismes creats per a fer front a les necessitats de noves coses i institucions, innovacions semàntiques, calcs o préstecs. Però amb tot, el llatí medieval continuava lligat al llatí tardà per la continuïtat de l’evolució lingüística i per la utilització d’instruments gramaticals i lexicogràfics –Donat, Servi, Priscià– que van ser la base de la instrucció escolàstica dels segles successius. Els humanistes es plantegen el problema del neologisme (Rizzo 1986) amb solucions que anaven des del classicisme més rigorós (Facio, Bembo, etc.), a la teoria que les coses noves demanen noves paraules (Valla, Biondo...), teoria legitimada per la referència a l’usus. És característica de l’Humanisme la progressiva limitació de la possibilitat de l’ampliació lèxica. Per un costat, amb l’exigència de la proprietas en l’ús dels vocables es mira d’eliminar els eixamplaments del camp semàntic esdevinguts en l’edat mitjana per a arribar a la sola accepció coneguda en l’Antiguitat. Per altra part, la possibilitat d’encunyar mots nous tendeix a restringir-se als límits que tenia en l’antic llatí, utilitzant únicament les possibilitats ofertes per la composició i la derivació. Amb el ciceronianisme hom arribarà a l’exclusió total del neologisme i la limitació al període clàssic. Amb aquesta radical restricció, les possibilitats d’enriquiment expressiu queden a mercè de la recuperació de termes rars, fins i tot hapax, que apareixen als glossaris. Però, com per als neologismes, també sobre l’ús de mots infreqüents sorgiren debats i polèmiques. Giorgio Merula recrimina al Poliziano que empre paraules arcaiques, recercades i per tant fosques. Poliziano contesta que el precepte cesarià de fugir del mot infreqüent com d’un escull era vàlid quan la llengua llatina gaudia de vida, però que en els temps actuals els mestres de llatinitat han de considerar usuals tots els mots que presenten els grans autors, i servir-se’n eclècticament d’aquest tresor per tal de fer de la llengua un instrument dúctil i agradós.4 La recuperació de mots rars en humanistes com Poliziano i Pontano va més enllà del preciosisme o el refinament erudit: hi ha també el desig de reapropiar-se de la llengua del passat en tots els seus matisos, i d’arribar a la precisió tècnica de l’expressió tornant el seu nom a plantes, animals, estris, malalties o parts del cos. Es rellegeixen els autors de medicina, A. Poliziano, Epistolae, V, 1, ff. IVv, lletra de 25 de desembre de 1493. Cf. Rizzo (1986: 386).
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botànica, veterinària, culinària... Això explica l’interès per Marcial, Estaci o Plini el Vell, i la inclinació pels autors còmics i Catul. Un mateix interès per aquestos autors trobarem entre els defensors del renovellament de la llengua llatina en la nova fase de la discussió sobre l’ús de la llengua que s’esdevé en la segona meitat del segle XVIII. Pel que fa a la imitació, a l’Edat Mitjana l’eclecticisme era total i arribava a autors i models d’època molt diversa. La discussió humanista se centra en la cohesió de l’estil, segons la teoria que convé imitar un únic autor per evitar la barreja heterogènia d’elements diferents. L’admiració i el culte per l’eloqüència llatina van fer que aquest autor únic fos preferentment Ciceró. El ciceronianisme i la recerca de la perfecta imitació en compliquen tant el conreu, que apareix un nou sentiment d’estrangeritat envers la llengua llatina, el domini de la qual ja no es veu com un objectiu possible d’assolir. En el debat reobert de les acaballes del Set-cents veurem com el ciceronianisme extrem ha provocat l’extrema desconfiança en la capacitat moderna per a jutjar, crear i fins i tot comprendre una obra llatina. Tenim, en definitiva, centrats els eixos de la polèmica: un debat secular i sense una solució clara que ha estat present entre els escriptors llatins moderns des de l’Humanisme, però que en la segona meitat del segle XVIII es revifa per raons podríem dir alienes: la pressió del francès sobre la llengua literària italiana, la necessitat de renovar els models lingüístics italians, la influència dels nous corrents de pensament en la concepció del fet lingüístic, el sorgent nacionalisme italià i el canvi social que determina un eixamplament de la cultura a classes econòmiques que fins aquell moment n’havien estat excloses... Tot aquest conglomerat actua i enriqueix la discussió, i sens dubte la complica, però alhora la converteix en imatge i paradigma de la riquesa en suggeriments d’un temps que va capgirar per sempre la cultura occidental. Aquesta voluntat de donar arguments a totes dues polèmiques, i de aportar una nova visió a la superació del secular conflicte, és, de forma molt resumida, el propòsit del Saggio d’Algarotti, un treball que ha rebut diverses interpretacions al llarg del temps i valoracions desiguals.5 És cert que Algarotti té escrits d’importància menor, redactats amb un esperit més periodístic o divulgatiu que no pas erudit –els seus Viaggi di Russia, els Dialoghi sopra l’ottica neutoniana fins i tot–, però hi ha alguns escrits que bastarebbero a testimoniare un impegno e una larghezza di vedute tali da porre l’Algarotti tra i rinnovatori della critica letteraria e lingüística: Sopra l’opera in musica, Sopra la lingua francese e Sopra la necessità di scrivere nella propria lingua. (Bonora 1969: xxvii)
Sota aquest aspecte de literatura lleugera, Algarotti aconsegueix infondre al seu Saggio l’esperit d’un nova visió històrica de la qüestió lingüística. Des de Muratori a Maffei, no mancaven els precedents moderns en denunciar la utilització del llatí en les obres de creació Són, per exemple, molt crítics amb la vàlua de les seues obres els redactors del Dizionario biografico degli italiani (s.v.): «Certamente, se badiamo agli argomenti che l’A. trattò nei suoi scritti allora e poi, non risulta un coerente ordine di svilupo, anzi una dispersione che sa di mondana superficialità». En açò coincideixen també amb Voltaire, que jutjava Algarotti mancat de profunditat i massa ocupat a fer brillar en les seues pàgines un ésprit inútil. L’opinió d’Ettore Bonora, el modern editor dels seus textos a la coŀlecció Illuministi italiani, tom II, (1969), és, pel contrari, més favorable, sobretot en el comentari del Saggio sopra la necessità di scrivere nella propria lingua, obra a la qual reconeix una notable originalitat dins del pensament lingüístic de l’època.
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artística. Muratori –que en aquest punt diferia de Gravina (1701: 653 sqq.)– en la seua obra Della perfetta poesia italiana ja reclamava que en les escoles hom ensenyés a la joventut l’italià al costat del llatí en les escoles, però de cap manera subordinada la primera a la segona, sinó més aviat al contrari: Io confesso nel vero una singolar stima, un’affetuosa venerazione alla greca e alla latina favella, né soffro volentieri coloro che, portati da soverchio amore de’ tempi presenti, osano pareggiare, non che anteporre a quelle due sì feconde, maestose e gloriose lingue la nostra o la francese. Contuttociò sempre m’è piaciuto e più che mai reputo lodevole il consiglio d’alcuni saggi uomini sì della passata, come della presente età, i quali vorrebbono che più tosto nella nostra italiana che in altra lingua si scrivessi oggidì e si trattassero in essa tutte l’arti e le scienze. (Bonora 1969: 165)
El precedent de Muratori és important, com ho és el de Scipione Maffei, que en una carta a Giovanni Poleni del 13 de febrer de 1737 es preguntava: Per què vosaltres els senyors matemàtics escriviu sempre en llatí i alhora lloeu els francesos perquè escriuen en vulgar?... Triomfen el francesos perquè escriuen per a tots; ni tan sols els grans homes rebutgen exposar els primers principis de manera tal que fins i tot les dones de seny en poden aprendre alguna cosa. Això és el que voldria jo que hom introduís a Itàlia. (Maffei 1955: 775-776)
Resulta evident en Maffei l’interés pel nou públic cada vegada més nombrós –un públic moltes vegades femení, que la perspicàcia d’Algarotti ja havia sabut trobar en Il neutonianismo per le dame–; són aquelles ‹honnêtes gens›, a qui Descartes havia adreçat el seu Discours de la méthode redactat en llatí però publicat en francès, del 1637; un públic format no per erudits, sinó per gent de món interessada per la cultura, però amb un horitzó totalment contemporani, desvinculat de la tradició i ben disposat a escoltar favorablement tot aquell que, per elogiar-lo, li suggeresca que, només pel fet de ser modern, ja es pot considerar superior a l’Antiguitat. Aquestes ‹honnêtes gens› que omplin els salons a Potsdam, a Venècia, a Milà i que fan de París la capital de la República de les Lletres europea, només tenen coneixement dels grecs i dels llatins a través de les traduccions franceses adaptades –les ‹belles infidèles› en el llenguatge del moment– i consideren pedant el propi fet de saber llatí i alguns gèneres literaris que eren els mitjans de comunicació dels doctes. El nou públic tolerarà que els defensors dels Antics es comporten com a abelles, en el sentit del símil emprat per Montaigne, i arrepleguen per a ells la mel de l’Antiguitat (Fumaroli 2001), «en la qual no es pot percebre ni l’olor de les roses, ni la dolçor dels lliris, ni el gust del timonet»6, però que guarda l’encís i la llum de l’antiga humanitas, i considerarà un treball estèril l’estudi directe i l’esforç per dominar i conrear les llengües ‹mortes›, que ja no són percebudes com a vehicles adequats per a la difusió dels nous coneixements. Així Algarotti –com remarca Ettore Bonora en la seua edició del Saggio– sota la claredat i modernitat de la seua exposició, que pot confondre al lector i dur-lo a pensar que es tracta d’una fàcil improvisació que només porta idees corrents, amaga amb tota cura una font que, una volta que es fa explícita, «prova come il suo cosmopolitismo nell’affrontare certi problemi, La citació no pertany a Montaigne, sinó al nostre G. Ferri (1771), lletra V a Cl. Sibiliato.
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ben s’accordasse con chiare vedute storiche» (Bonora 1969: xxx). El text de partença de què se serveix Algarotti és el Dialogo delle lingue de Sperone Speroni, i l’elecció no és pas fortuïta: de tots els nombrosos escrits sobre la llengua del Cinc-cents, optar pel Speroni és separar-se decididament de la forma en què la questione della lingua havia estat tractada per Bembo i els seus seguidors –és a dir, de manera retòrica i al voltant de l’especulació sobre quina mena de llengua era la més apta per a cada gènere i discurs–, per a donar crèdit a l’únic tractat renaixentista en el qual no es parla de cercar quina és la llengua més elegant, sinó quina és la funció de la llengua com a instrument de comunicació del pensament i com a mitjà d’expressió íntim, coincidint amb els pressupostos que més tard desplega la filosofia sensista. Encapçala el Saggio una dedicatòria a Saverio Bettinelli7, que havia felicitat Algarotti per la publicació d’una obra francesa, el llibret d’òpera Iphigénie en Aulide, escrita sota les rígides normes del classicisme de l’Académie. Aquest és el motiu que pren l’autor per fer palès «el perill a què hom s’exposa escrivint en una llengua que no és la seua» i per encoratjar Bettinelli a conrear preferentment la llengua italiana.8 Segons Algarotti, una bona part de l’exceŀlència a què els antics van portar les lletres, l’eloqüència i la poesia rau en el fet que no havien de «perdre l’esforç ni el temps darrere d’altres llengües més enllà de la seua pròpia». Els motius que mouen als moderns a conrear les llengües antigues o foranes, especialment el llatí i més recentment el francès, és que les consideren més elegants o més capaces de ser compreses per un públic més ample, i en el cas del llatí, perquè està fixat per l’autoritat dels escriptors i no es veu sotmès a cap canvi. Ara bé –continua Algarotti–, aquesta pràctica és una equivocació, perquè cada llengua té un tarannà específic, producte del clima, de la qualitat dels estudis, de la religió, del govern, del comerç, etc., que és diferent per a cada nació i la dota d’un ‹geni› o índole particular que es veu en la diversa manera d’aprendre les coses, d’ordenar-les i d’expressar-les. El ‹geni› de cada llengua està lligat al ‹geni› de cada nació i n’és el seu tret distintiu. Algarotti és un dels primers a remarcar l’íntima relació entre llengua i sentiment nacional –en un moment on els Estats eren territoris patrimonials d’una Corona i la ‹nació› burgesa encara no havia arribat– i a derivar d’aquesta observació que les llengües no són sistemes intercanviables, sinó que aporten una determinada visió de la realitat i corresponen a diferents moments històrics i culturals, per això «els polítics consideren enemics naturals aquells pobles que parlen llengües diferents». Saverio Bettinelli (1718-1808) va estudiar a la seua Màntua nativa al Coŀlegi dels jesuïtes, ordre en la qual va professar als vint anys. Ordenat sacerdot, va rebre l’encàrrec d’Accademico (director) del Coŀlegi dels Nobles de Parma, on va dur una vida mundana i va compondre nombroses peces teatrals d’inspiració clàssica. Per encàrrec de la Infanta de Parma va acompanyar a París el príncep Hohenlohe; a aquesta època pertanyen les seues Lettere Virgiliane i les seues visites a Helvétius, Rousseau i finalment Voltaire (1758). Va ser traslladat més tard a Avesa, prop de Verona, i fruït d’aquell retir van ser els assaigs Dell’entusiasmo delle belle arti i Il risorgimento d’Italia dopo il mille (1773). És autor de nombrosos assaigs breus i epístoles sobre qüestions relacionades amb la crítica artística. 8 Bettinelli va aceptar aquest suggeriment d’Algarotti, i quan al Risorgimento (part I, cap. IV) intenta explicar la pervivència del llatí enmig de l’esponera dels vulgars, es queixa que «fins al nostre segle, àdhuc en obres no destinades a altres nacions, molts escriuen en prosa i en vers en llatí, com si escrivissen encara per als romans, com si s’avergonyissen de la llengua nativa o la ignoren o la creguen inepta per a tal ús». 7
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Hem vist que el concepte de ‘geni’ de la llengua no és pas una troballa d’Algarotti, sinó que havia estat enunciat per diversos tractatistes anteriors, però per a Algarotti, d’aquest concepte es deriva una conseqüència diferent. Uns decennis abans, Gianvincenzo Gravina, al seu opuscle De lingua latina dialogus ad Emmanuelem Martinum utilitza, contrariament a Algarotti, l’argument del diferent geni de les llengües no per a renunciar sinó per a incitar al conreu de la llengua llatina: No se t’escapa que a l’interior de les llengües hi ha una coloració i una brillantor particular, i que cada escriptor posseeix un gust patri i un gràcia nativa que es corromp amb el caràcter d’una llengua estrangera, de tal manera que aquella ingènita flor de l’eloqüència, arrancada del seu sòl tot d’una s’asseca i la veritable força d’un discurs s’embruta amb els usos forans. I és que la complexió de les parts, la composició dels mots, els sons i els ritmes, on rau tot l’encís de la parla, es dissolen, i fins i tot la mateixes frases desmaien i perden nervi, i el vigor i l’aspecte de l’eloqüència nativa pren colors nous i estrangers i desapareix: encara més, el sentiment mateix de l’escritor el perverteix la descurança o –cosa que no és pas infreqüent– la ignorància del traductor, si més no perquè una llengua estrangera no respon a l’abundància, riquesa i força de les llengües romana i grega. (Gravina 1701: 655)
No passarem a l’anàlisi de l’opuscle de Gravina, però sí que és digne de comentari que l’autor rebutge l’ús de les versions de texts clàssics basant-se en el fet que la traducció desvirtuarà la bellesa de l’original. Una bellesa, naturalment, que el lector entès és ben capaç de copsar i que rau no només en la gràcia, l’encant i la riquesa de les veus llatines, la fecunditat dels seus significats, la multitud de partícules i nexes, l’abundància de paraules referides a les arts i a les ciències que ens han llegat els escriptors antics, sinó també en l’aspecte purament sonor, a la majestat dels vocables, la varietat de les entonacions i la mescla de vocals i consonants que produeix un ritme extraordinàriament agradable: Deixe de banda la varietat d’accents i la barreja de vocals i consonants, que proporcionen tanta bellesa a la parla, si es componen adequadament les veus i s’entremesclen, que no hi ha res que siga més rítmic a l’oïda ni que penetre en els nostres cors de manera més plaent. (Gravina 1701: 663)
En el benentès que podem reconèixer el ‹geni› propi de la llengua llatina –mes avant parlarà Gravina de la nostra capacitat per reproduir-lo, de la qual ell no en té cap dubte–, hi ha dues belleses a les quals podem ser sensibles: la bellesa de l’estructura i la bellesa dels sons. Algarotti, a partir del mateix concepte arriba a conclusions completament diferents: «per tal que algú fos capaç d’escriure adequadament en un idioma que no és el seu, convindria que fos un altre Proteu», i, per tant, no ens és llegut de compondre en una llengua aliena. En tot cas és menys difícil escriure convenientment en una llengua vivent aliena, perquè, si els elements que determinen el ‹geni› d’una llengua són resultat de la qualitat dels estudis, del clima, de la religió, del comerç, etc., entre les diferents nacions modernes d’Europa no hi ha al capdavall tanta diferència i ens és de grandíssim ajut «la viva veu d’aquells que també parlen aquella llengua en què tu t’has proposat d’escriure». Però en el cas del llatí, la llengua dels doctes, el cas és ben diferent: L’afer és per això diferent en una llengua morta. Prenent com a exemple la llatina, en la qual solen escriure els més doctes, l’educació dels romans tenia per fonaments principis de religió, institucions, estudis, costums i maneres en tot diferents als nostres. D’aquests sorgien expressions
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corresponents a aqueixes maneres i gens adaptables a les nostres institucions i als nostres usatges. Litare diis manibus, com diu Bembo per celebrar una missa de difunts, interdicere aqua et igni per fulminar l’excomunicació, Collegium Augurum pel Consistori dels Cardenals, són coses tan inconvenients que més no ho seria endossar a un dels nostres doctors la toga romana, o voler posar sobre els nostres altars l’estàtua de Venus Anadiomene o de Mart Venjador.
Aquests conceptes, que només poden ser entesos per mitjà del comentari o la glossa, fan de la llengua llatina una eina inapropiada, encara més inepta en la poesia, perquè les imatges i metàfores creades sobre una realitat tan allunyada de la nostra «farien sobre la nostra fantasia tan poca impressió com farien a un samoiede o a un lapó aquells versos del nostre poeta: E quale annunziatrice degli albori l’aura di maggio movesi ed olezza tutta impregnata dall’erba e da’ fiori» (Dante, Purg, XXIV, 145-147).
Algarotti segueix el concepte muratorià de poesia com a producte de dues facultats creadores, la fantasia (altrament dita imaginació o geni) i la inspiració (furor poètic o entusiasme). La fantasia és la facultat creadora per exceŀlència, que concep les imatges poètiques a partir de la realitat. Així doncs, si el lector no pot connectar les imatges que li proporciona la poesia amb la seua realitat –cosa que passa quan aquestes imatges no estan formades sobre coses que són veritables o almenys semblen versemblants al lector–, es perd la capacitat d’evocació de la poesia, i aquesta ens resulta freda i insípida.9 En línies generals –afirma Algarotti– les maneres d’expressar-se dels romans, nascudes de la grandesa i elevació de llur imperi, no convenen a l’estat actual de les nacions modernes. «Quina nova inconveniència, doncs», s’exclama l’autor del Saggio, «veure els fets dels Peres, Joans i Mateus descrits amb les frases de Tit Livi i de Juli Cèsar, sentir com un pedant arenga els seus nois amb aquella gravetat amb què un cònsol parlava al Senat, voler segellar les modernes empreses amb el ‹regna adsignata›, amb l’‹orbis restitutori›, amb el ‹pace terra marique parta Ianum clusit› i amb altres llegendes antigues semblants, adaptar a la petitesa de les nostres coses la majestat d’aquell poble rei?». Un altre element que fa de compondre poesia en llatí un tasca estèril és la impossibilitat de saber amb certesa si el mot llatí emprat és ‹el terme natural i propi› per al concepte que volem expressar. Algarotti fa molta remarca en la importància d’utilitzar el terme just, perquè és a partir d’aquest que en la ment de l’oient arriba a formar-se la idea precisa que convé. Igualment en aquest punt trobem un concepte que ens remet a Muratori (1971: 87-88): Les ciències consideren el ver per saber-lo, per entendre’l, i la poesia el considera per imitarlo, pintar-lo. Les primeres recerquen el coneixement, la segona la representació del ver. Ara bé, nosaltres entenem per ‹representar›, ‹imitar› i ‹pintar› aquelles accions amb les quals, bo i parlant, vestim d’imatges i expressem una cosa amb sentiments o bé vagues o sensibles, nous, clars o evidents, o amb paraules tan convenients, que l’inteŀlecte per mitjà de la fantasia l’entén sense fatiga i amb delit particular, i a nosaltres ens pot semblar, potser, per així dir, que la veiem.
El propòsit de la poesia –i de l’oratoria i la historiografia encara amb major èmfasi– és representar el ver, però aquest fi és inassolible si no coneixem el veritable valor dels mots, Muratori, (1971): llibre I passim, i libre II, cap. v. «Osservazioni intorno al ben formar le immagini».
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perquè, com ‹pintar› la veritat amb uns colors dels quals no acabem de distingir els matisos? On són els jutges que poden posar-se a decidir quins seran els mots que formaran aquesta Crusca llatina? –es pregunta Algarotti–, perquè els llibres i els manuals de llatinitat no són suficients. «La multitud és millor guia que no ho poden ser els millors escriptors». Però de fet, en el moment que Algarotti escriu i en tota la tradició anterior, el mestratge dels antics s’ha seguit per imitació de les seues obres i a partir dels manuals de llatinitat. És d’ací d’on s’ha extret el concepte del que és propi o impropi en una obra literària. Atorgar al comú del poble el poder d’orientar el que és apropiat o no en escriptor és ben conseqüent amb el concepte de ‹geni› de la llengua: si el tarannà propi d’un idioma és consubstancial a la resta de coses que componen l’índole d’una nació, com ara el clima, la religió, el govern, etc., i a més està condicionat al canvi dels costums i dels usos socials, són aquests connacionals els únics que poden constituir-se en guies del que és adequat i propi en l’expressió escrita. Però aquest mateix raonament tanca les portes al conreu de la llengua llatina: on estan aquells que ens podrien assenyalar «les lleis sobiranes de l’ús corrent, que és el veritable senyor de les llengües ‹quem penes arbitrium est, et ius, et norma loquendi?›10 No els tenim, conclou Algarotti, i és presumpció el fet de vantar-se d’escriure llatinament. Per a iŀlustrar-ho introdueix un fragment d’una sàtira de Boileau: El satíric francès, volent demostrar i mossegar alhora la presumpció d’aquells que es vantaven a França d’escriure llatinament, en un cert diàleg seu introdueix Horaci parlant llengua francesa, apresa per ell en l’oci dels Elisis mitjançant la lectura dels escriptors i dels millors llibres que en donen les regles. Amb tot el seu talent i el seu afany comet a l’hora de parlar errors no petits; per exemple se serveix de la paraula cité, dient la ‹cité de Rome›, quan cal dir la ‹ville de Rome›; diu ‹le pont nouveau›, i es diu ‹le pont neuf›, i cau en altres barbarismes semblants, que fan riure el francès amb qui raona.11
Algarotti demostra fàcilment la incapacitat que tenim de saber la propietat dels mots llatins pel procediment de reduir a l’absurd la pràctica quotidiana dels llatinistes. Es comprèn així fins a quin punt un ‹retrat del ver› –objectiu de la poesia, i més encara de la prosa oratòria o historiogràfica– pintat amb aquests mots confusos seria inconvenient, perquè no disposem de ‹l’ús corrent›, que és el suprem jutge de la norma de parla. Cal entendre, però, que, encara que Algarotti no ho diga de manera expressa, aquest ús corrent no és pas la utilització que fan de la llengua el comú del poble ni els illetrats, sinó la que fa la gent iŀlustrada i els doctes, aquelles ‹honnêtes gens› a què ens hem referit més amunt i que constitueixen el públic receptor de les obres d’enginy –d’esprit, diríem millor– en els cercles refinats.12 A més, el fet de recollir els mots dels manuals quasi gocciole dalle grondaie, ‹com a escorrialles de les canals› –per emprar mateixa imatge punyent que fa servir l’Algarotti–, Horaci, Ars Poet., 72: «en poder del qual són el judici, la llei i la norma de la parla». El fragment pertany al Dialogue contre les modernes qui font des vers latins (1666-1670), que només es conserva fragmentari en la transcripció que en va fer Brosette després d’haver-lo sentit recitar a l’autor. Cf. Boileau (1867: 36). 12 És Melchiorre Cesarotti al seu Saggio sopra la filosofia delle lingue (1785) qui determina amb claredat a quina part de la població correspon fixar la norma de parla i introduir les novetats: «La lingua scritta non dee ricever la legge assolutamente dall’uso volgare del popolo. [...] perché l’uso è cieco, introdotto sempre dagl’ignoranti, che formano il maggior numero [...] (Cesarotti 1785: I, IV, 3). 10 11
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té altres efectes indesitjables: hom reuneix d’ací i d’allà frases certament llatines, però que no guarden cap unitat entre elles, totes diferents de gènere i estil, com si es tractés de sargir un drap amb pedaços de diferents colors. Les frases separadament són llatines; el conjunt, però, no mostra cap llatinitat, i l’estil no té força ni personalitat. Lluny de l’ús viu de la llengua no trobem la propietat dels mots, no trobem la unitat d’estil, però tampoc trobem la varietat de mots suficients per a expressar-nos, és a dir, la necessària abundància de lèxic. En l’estat actual de la llengua llatina –o més aviat del que en queda consignat als llibres– aquesta no seria suficient per a l’expressió dels mateixos romans. Consegüentment –remarca l’autor del Saggio–, ha de ser també insuficient per a nosaltres «que hem d’expressar amb ella tantes coses noves que han aparegut al món pel que fa a les arts, a les ciències, al comerç, al govern o a les religions des que aquesta llengua va extingir-se». Algarotti recorda que, pel fet de ser el llatí una llengua morta, no ens és llegut d’incorporar-hi cap mot. Però ignora voluntàriament –com serà retret pels que contesten aquesta posició– que la llengua llatina ha incorporat molts vocables des que va deixar de ser una llengua viva; es tracta, naturalment, de un lèxic no clàssic que va naturalitzarse en la llengua llatina en l’Edat Mitjana a partir de les llengües vulgars, per derivació, composició o altres procediments. Aquest vocabulari ha estat emprat amb llarguesa per l’escolàstica i pels usos eclesiàstics, fins i tot després del triomf del purisme reduccionista del llatí humanístic i de la posterior revifalla de l’estètica classicista, però que és rebutjat com a impropi pels dos corrents en què aquesta es divideix, el casticisme i el purisme, si se’ns permet ací d’introduir aquesta denominació que hom aplica més correntment als que reaccionen contra la introducció de gaŀlicismes en la llengua castellana, com explica F. Lázaro Carreter (1985: 257): La defensa del idioma español contra la barbarie barroquizante adopta la forma de casticismo, por acción directa del movimiento académico y, principalmente, por influjo del neoclasicismo que, a imitación de Francia, erige en canon lingüístico al siglo XVI. [...] Dentro del casticismo, pueden verse dos tipos de fuerzas: unas, que actúan en sentido activo, que señalan fórmulas idiomáticas por las que debe discurrir el lenguaje. La actitud antigalicista crea, en su seno, otras fuerzas pasivas, un estático valladar inoperante que, desde entonces, recibe el nombre de purismo..
En llengua llatina i en aquesta època haurien d’aplicar el qualificatiu de casticistes als que volen netejar la llengua llatina de la fullaraca barroca seguint els preceptes del classicisme, però junt a aquests podrem distingir un corrent més extremat –per al qual reservem el terme de puristes– que redueixen tantíssim les possibilitats de creació en llengua llatina, bo i volent que cap element no clàssic hi penetre, que fan del seu conreu una empresa gairebé impossible.13 Algarotti se situa dins d’aquest darrer grup, de la manera de pensar del qual emana, com a última conseqüència, que el llatí siga percebut com una llengua aliena: «Nosaltres no tenim sobre ella (és a dir, la llengua llatina) –que no ens pertany en absolut– cap raó ni cap dret», afirma al Saggio. Qualsevol cosa que hi afegíssem, continua Algarotti, «seria rebutjat amb tota raó per interpolat, fals i apòcrif». Clementino Vannetti es veu implicat precisament en una discussió sobre les conseqüències del casticisme i del purisme en la llengua llatina, que és una transposició a aquesta llengua de les tensions que es donaven també en les llengües vernacles entre els que pretenien reaccionar a la incorporació de neologismes d’origen francès principalment.
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I encara que en la prosa aquestes dificultats produïdes per l’escassetat de mots es poden defugir –no ens especifica l’autor com, però suposem que amb circumloquis i giragonses de l’expressió–, en la poesia el problema s’agreuja considerablement, perquè el poeta no disposa dels mitjans lèxics i expressius que li calen per a donar eixida lliure a la inspiració que l’envaeix. L’acte poètic per a Algarotti és producte de l’entusiasme, un concepte que l’autor no sent com una novetat, sinó que troba en la manera de compondre dels escriptors antics que es deixaven emportar pel ‹diví furor› i en convertien en uates inspirats. L’entusiasme s’oposa a l’esperit geomètric aplicat a l’art, i talla amb la concepció inteŀlectualista i racionalista de la creació, a favor del sentiment i de la fantasia, amb unes idees que no trobaran la seua plena realització fins l’esclat del romanticisme. No és doncs una casualitat que aquest Saggio estiga adreçat a Saverio Bettinelli, que uns anys més tard de l’aparició de l’epístola d’Algarotti publica un estudi Dell’entusiasmo delle belle arti que precisament desenvolupa aquest concepte. Considera Bettinelli que si bé els antics van fer de l’entusiasme la principal facultat creadora –i aporta el testimoni de Ciceró14–, els moderns han menystingut aquesta poderosa via de la fantasia creadora, bo i volent ensenyar l’estil «per geometria e per analisi risalendo a’ primi elementi de’ pensieri e delle parole, pesando a rigore il valor de’ vocaboli, tracciando le proporcioni delle metafore, onde venissero le frasi, i periodi e le figure» (Betinelli 1969: 794), però deixant de banda el transport i l’entusiasme, que és la via creadora de la novetat i la meravella: «Chi non ha entusiasmo, ripete, combina, imita e copia; né mai però sorprende ed incanta» (Betinelli 1969: 816). Algarotti hi està d’acord; el poeta –afirma– ha de crearse un llenguatge propi per a que la seua expressió no siga superficial i per a donar eixida a la pregonesa de la seua inspiració. Si compon «en una llengua restringida dins d’uns límits marcats pels antics escriptors», haurà necessàriament «d’esmussar el seu entusiasme, posar els peus en les petjades d’un altre, acréixer el nombre dels imitadors». Per acabar el seu assaig, Algarotti remarca que per a un poeta aconseguir l’expressivitat que reclama el fet de ‹donar eixida a la pròpia natura› és impossible en una llengua morta, i així, «com que hem d’acomodar les imatges al color i no el color a les imatges, tot resulta esllanguit i fosc». Quina és la conclusió, doncs, de totes aquestes reflexions? El llatí ha de ser esbandit de les obres en les quals la fantasia hi intervé, que han de ser escrites en la llengua materna de l’autor, l’única que pot acolorir la seua fantasia i donar eixida completa al seu entusiasme creador: aquesta i no altra és l’autèntica imitació dels antics, que sí van escriure en llur pròpia llengua, no pas aquella dels poetes moderns que escriuen en llatí i no passen de ser centonistes, vestits amb les despulles alienes i incapaços d’afegir res de nou a l’erari de la literatura i de la creació. El Saggio d’Algarotti no va passar desapercebut, ans al contrari, les opinions que conté van donar –si bé indirectament– arguments per a la superació de les dues polèmiques que hem vist que reuneix: el debat sobre l’ús i vigència de la llengua llatina i la questione della lingua italiana. En farem un ràpid repàs. Pel que fa al debat sobre l’ús del llatí, els arguments –i fins i tot citacions completes– van ser emprades per D’Alembert al seu discurs «Sur l’harmonie des langues et en particulier Entre altres cita un passatge de l’Orator, 85: «Sé que l’estudi de les altres disciplines es fonamenta en la ciència i en els preceptes i la tècnica, però que hom és poeta per natura i que el poeta s’excita amb les forces del seu esperit i que s’inspira en una mena d’alè diví». In: Bonora (1969). Vegeu S. Bettinelli (1969: 805).
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sur celle qu’on croit sentir dans les langues mortes; et à cette occasion sur la latinité des anciens», aparegut a Amsterdam el 1757, on l’autor fa remarca en la impossibilitat de copsar la bellesa d’una llengua reduïda al conreu literari. L’escrit de D’Alembert va causar commoció en Itàlia, i va ser contestat pel professor de la Universitat de Ferrara Girolamo Ferri, que en 1771 va publicar unes Epistolae L adversus Alambertium, on defensa l’ús del llatí com a llengua d’expressió artística, repetint arguments que hem vist expressats per Gravina al seu De lingua Latina dialogus. L’erudit de Rovereto (Trento) Clementino Vannetti, mogut per la voluntat de respondre D’Alembert, va escriure una Epistola de usu linguae latinae (1776) adreçada al venecià Alessandro Zorzi i presentada en els mitjans intel·lectuals del nord d’Itàlia amb considerable ressò. Zorzi, que havia estat el promotor d’una Enciclopedia Italiana que només va veure publicat el seu volum introductori, era partidari dels arguments del francès, i va respondre l’Epistola de Vannetti amb un intercanvi epistolar que es conserva íntegre (Vannetti 1831). La polèmica encetada per Algarotti i desencadenada per D’Alembert va mantenir-se viva fins el 1780, quan el català Mateu Aimeric (Mateo Aymerich) va donar a la llum pública a Ferrara els seus Paradoxa de vita et morte linguae latinae, un aplec de diàlegs entre jesuïtes expulsos d’Espanya a favor del conreu literari del llatí, que van ser contestats amb un Sermone al signore Marchese Ippolito Pindemonte (1782) per Clementino Vannetti, que coïncidia amb Aimeric en considerar possible el conreu literari del llatí, però que rebutjava la possibilitat d’enriquir el llatí amb nous mots per adequar-lo a les necessitats dels temps. Aimeric va fer pública una Relazione autentica dell’accaduto in Parnasso (1782) on feia burla de les opinions de Vannetti, però finalment la polèmica entre aquestos dos personatges va acabar arran de la publicació per Francesco Parisi d’una Epistola Aimerichiana de Vannetti apareguda a la Istruzione per la gioventù impiegata alla Segretaria, Roma, 1785. Arribats a aquestes dates però, la polémica sobre la vitalitat del llatí estava ja superada pel definitiu bandejament d’aquesta llengua de les produccions artístiques. La imminent Revolució Francesa i el període napoleònic que va afectar Itàlia de manera directa, van acabar la substitució lingüística en els àmbits legal i docent, amb la redacció de codis legislatius i de materials universitaris en llengua italiana i francesa. Pel que fa a la secular questione della lingua, Melchiorre Cesarotti la tanca amb el seu Saggio sulla filosofia delle lingue applicato alla lingua italiana (1785), on recull i eixampla els arguments que hem vist exposats per Algarotti: – «Niuna lingua originariamente non è nè elegante nè barbara, niuna non è pienamente e assolutamente superiore ad un’altra, poichè tutte nascono allo stesso modo […]. – Niuna lingua fu mai formata per privata o pubblica autorità, ma per libero e non espresso consenso del maggior numero. – [...] niuna autorità d’un individuo o d’un corpo può mai […] arrestare o circonscrivere la liberta della nazione in fatto di lingua […]». Cesarotti distingeix el ‹geni gramatical›, és a dir, la norma lingüística immutable, i el ‹geni retòric›, lligat a la contingència i cambiant. Afirma que totes les llengües són igualment nobles i aptes per a l’activitat artística, tot depèn dels usos i de les intencions dels autors. La prioritat, remarca Cesarotti, és la llibertat absoluta de l’expressió, per la qual cosa rebutja, en nom d’aquesta llibertat, la institució d’una entitat normativa com ara l’Accademia della Crusca o l’Académie francesa. Com Algarotti, Melchiorre Cesarotti fa dels parlants com a col·lectivitat els jutges suprems de la propietat del llenguatge, per damunt de les opinions dels
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escriptors rellevants, que s’han de plegar a la voluntat del conjunt d’usuaris de la llengua. Els arguments de Cesarotti sobre la Questione della lingua són definitius per a tancar el debat, que desapareix paulatinament amb la instauració de l’educació nacional i la corresponent normativització lingüística per part del Regne d’Itàlia. El Saggio sopra la necessità di scrivere nella propria lingua d’Algarotti, que és originàriament un opuscle dedicat a un públic obert i poc especialitzat, allarga les seues intuïcions més enllà de l’àmbit per al qual havia estat pensat, i es converteix en l’argumentari de la major part de les discussions sobre la vigència de la llengua llatina que es produeixen al nord d’Itàlia en l’últim terç del s. XVIII, fins el capgirament definitiu que comporta la Revolució Francesa. Però encara més, una lectura atenta de l’assaig d’Algarotti forneix actualment arguments contra la pressió de les grans llengües de comunicació internacional que arraconen les llengües minoritàries, un efecte més present com més avança la globalització dels coneixements. El món canvia; els afers humans, però, no tant.
Bibliografia AA.VV. (1960-2000): Dizionario biografico degli italiani. Roma: Istituto della Enciclopedia italiana. Boileau, Nicolas (1867): Oeuvres complètes. París: Hachette. Bonora, Ettore (ed.) (1969): Opere di Francesco Algarotti e di Saverio Bettinelli. Milano / Napoli: Riccardo Ricciardi. Cesarotti, Melchiorre (1785): Saggio sopra la filosofia delle lingue. Pàdua. Ferri, Girolamo (1771): De usu linguae Latinae epistolae L adversus Alambertium. Faventiae. Fumaroli, Marc (2001): Les abeilles et les araignées. In: La querelle des anciens et des modernes. París: Gallimard. Gravina, Gianvincenzo (1701): De lingua Latina dialogus ad Emmanuelem Martinum, In: Originum juris civilis libri III. Nàpols. Lázaro Carreter, Fernando (1985): Las ideas lingüísticas en España durante el siglo XVIII. Madrid: Crítica. Locke, John (1971-1974): An Essay Concerning Understanding (1690). Ed. per John W. Yolton. London / New York. Vol. 2. Maffei, Scipione (1955): Epistolario: 1700-1755. 2 vols. Ed. per C. Garibotto. Milano: Giufré. Muratori, Ludovico Antonio (1971): Della perfetta poesia italiana. Ed. per Ada Ruschioni. Milano: Marzorati. Rizzo, Silvia (1986): Il latino nell’Umanesimo. In: Letteratura italiana. Vol. 5: Le questioni. Torino: Einaudi. Schiaffini, Alfredo (1971): La lingua nell’età dell’Illuminismo. In: Petronio, Giuseppe: Antologia della critica letteraria, vol. 2. Bari: Laterza. Speroni, Sperone (1975): Dialogo delle lingue (1542). Ed. per Helene Harth. München: Fink. Trabant, Jürgen (2001): La lingua di questa scienzia: lingua antica – scienzia nuova. In: Hidalgo, E. / Marassi, M. / Sevilla, J. / Villalobos, J. (edd.): Pensar para el nuevo siglo. Giambattista Vico y la cultura europea. Vol. 1: Lenguaje, retórica y poética filosófica. Nàpols: La città del sole. Vannetti, Clementino (1831): Opere italiane e latine, Venezia. Vives, Johannis Lodovicus (1520): Adversus Pseudodialecticos. Selestadii (Sélestat).
Índex dels autors Taula general
Índex dels autors
Abé, Hiroshi: V, 323-329 Abete , Giovanni: II, 7-18; VI, 5-16 Adler, Silvia: V, 331-342 Adrover, Margalida: VI, 107-118 Agostini, Lucilla: VI, 333-345 Agresti, Giovanni: VI, 333-345 Aguilar, Rafael: I, 251-255 Aguilera, Vanderci de Andrade: VI, 17-27 Aguiló, Lluís: I, 161-168 Albertin, Chiara: VIII, 329-339 Alén Garabato, Carmen: II, 477-486 Alfonzetti, Giovanna: V, 343-351 Almeida Santos, Isabel: II, 487-498 Alpera, Lluís: I, 45-52 Alvar Ezquerra, Manuel: VIII, 7-17 Álvarez Vives, Vicente: IV, 5-18 Álvarez Pérez, Xosé Afonso: VI, 29-39 Alletsgruber, Julia: III, 469-477 Andrei, Diana: VI, 347-357 Andrés Díaz, Ramón de: VI, 41-52 Andronache, Marta: IV, 449-458 Antelmi, Donella: VI, 359-370 Aprile, Marcello: VIII, 19-29 Aquino-Weber, Dorothée: II, 499-508; VI, 53-64 Araújo Carreira, Maria Helena: VI, 371-376 Arcidiacono, Salvatore: VIII, 253-262 Arroyo Vega, Paloma: VIII, 31-42 Artale, Elena: VIII, 43-54 Assenza, Elvira: I, 483-496 Augusto, Maria Celeste: IV, 19-29 Bădescu, Ilona: VI, 65-73 Badia i Margarit, Antoni M.: I, 21-23 Baglioni, Daniele: IV, 459-470 Baker, Craig: VII, 489-499 Baltă, Silvia Nicoleta: VII, 7-17 Ballester, Xaverio: V, 7-18 Banza, Ana Paula: VII, 19-25; VII, 205-210 Barbato, Marcello: VII, 27-38 Barrieras i Angàs, Mònica: VIII, 509-518 Barros, Clara: VII, 39-51 Barros, Diana Luz Pessoa de: VI, 377-388
Bastardas, Maria Reina: I, 135-141 Bazin-Tacchella, Sylvie: VIII, 291-300; VIII, 55-65 Beà, M. Elena: VIII, 159-170 Becker, Lidia: II, 509-518 Becker, Martin: III, 5-16 Bechet, Florica: IV, 471-477 Bejinariu, Silviu: VI, 75-84 Bekaert, Elisa: III, 17-26 Beltrami, Pietro: VIII, 3-5 Beltrán Chabrera , Ma. Teresa: VIII, 67-77 Belloro, Valeria A.: II, 19-30 Benarroch, Myriam: IV, 479-491 Bengtsson, Anders: VII, 53-62 Bernal, Elisenda: III, 479-495 Bernardo Paniagua, José María: V, 353-363 Berta, Tibor: II, 31-42 Bianco, Francesco: V, 365-376 Biermann Fischer, Michèle: III, 27-38 Bikić-Carić, Gorana: VIII, 341-352 Biville, Frédérique: IV, 493-503 Blas Arroyo, José Luis: II, 519-529 Blasco Ferrer, Eduardo: V, 19-25 Blasco Mateo, Esther: VIII, 79-90 Blumenthal, Peter: III, 3-4 Boada Pérez, Gemma: IV, 31-38 Borzi, Claudia: II, 43-55 Botoşineanu, Luminiţa: VI, 75-84 Bouzouita, Miriam: VIII, 353-364 Bracho Lapiedra, Llum: V, 27-33 Brito, Ana Maria: I, 249-251; II, 57-70 Bru, Josep Maria: I, 53-69 Brun-Trigaud, Guylaine: VIII, 609-616 Buchi, Éva: I, 141-147 Buenafuentes de la Mata, Cristina: II, 71-82 Buendía-Castro, Miriam: VIII, 205-216 Burgio, Michele: V, 61-74 Buridant, Claude: V, 35-47 Buthke, Carolin: I, 755-766 Cabré Castellví, M. Teresa: III, 497-510 Cabré, Teresa: I, 497-507: I, 509-519; III, 467 Cacciola, Maria Concetta: VIII, 519-529
686 Cacia, Daniela: V, 49-60 Caetano, Maria do Céu: III, 511-521 Caffarelli, Enzo: V, 3-6 Calvo Rigual, Cesáreo: VIII, 91-102 Campo Hoyos, Ana I. : V, 377-389 Canalis, Stefano: I, 521-531 Cancellu, Erika: VII, 371-382 Cantero Serena, Francisco José: I, 533-542 Cardeira, Esperança: I, 543-554 Carles, Hélène: IV, 39-50 Carmona Yanes, Elena: VI, 389-400 Carrasco, Inés: VI, 85-94 Carrera de la Red, Micaela: VII, 63-76 Carrera-Sabaté, Josefina: I, 555-566 Carrera, Aitor: VII, 501-512 Carrera, Micaela: VIII, 275-289 Carriazo Ruiz, José Ramón: VI, 95-105 Carvalho, Maria José: I, 567-577 Casals, Daniel: VII, 513-524 Casanova Ávalos, Manuela: VIII, 531-543 Casanova, Emili: I, 168-177; I, 255-257; I, 35-38; IV, 51-63 Cascone, Adriana: VIII, 103-111 Cases Fandos, Ma. Teresa: VIII, 67-77 Castiglione, Marina: V, 61-74 Castro Zapata, Isabel María: IV, 65-77 Cavalheiro, Mélanie: II, 541-550 Cerdà Massó, Ramon: II, 83-94 Ciama, Adriana: III, 39-49 Ciambelli, Eleonora: VII, 77-87 Citraro, Cinzia: III, 51-62 Cîţu, Laura: V, 391-401 Civera, Jorge: I, 271 Clim, Marius-Radu: IV, 91-100 Climent, Josep Daniel: II, 551-563 Clua, Esteve: I, 75-83; VI, 107-118; VI, 255-267 Cockburn, Olivia Claire: IV, 505-511 Codita, Viorica: IV, 101-112 Coelho, Carla Cristina Almeida: IV, 113-123 Colella, Gianluca: II, 107-123 Colón, Germà: I, 150 Coll Pérez, Alba: III, 497-510 Colli Tibaldi, Chiara: V, 75-86
Índex dels autors
Company Company, Concepción: I, 295-306 Condei, Cecilia: VI, 417-427 Corbella, Dolores: IV, 125-137 Corradini, Maria Sofia: VIII, 113-124 Corral Areta, Elena Diez del: VI, 429-440 Corredor Plaja, Anna-Maria: V, 87-97 Costa Carreras, Joan: II, 565-570 Costa, Ioana: IV, 513-520 Costăchescu, Adriana: III, 195-206; V, 403-414 Cotelli, Sara: II, 571-582; VI, 53-64 Crăiniceanu, Ilinca: III, 63-71 Cruz Vergari, Elena de la: VII, 103-114 Curea, Anamaria: VII, 525-536 Chambon, Jean-Pierre: I, 25-26; I, 148-150; I, 307-316 Chamorro, Mª Luisa: VI, 85-94 Chiorean, Luminiţa: VI, 401-415 Chircu, Adrian: IV, 79-89 D’Achille, Paolo: III, 523-537 D’Angelis, Antonella: III, 539-550 Dagnac, Anne: II, 95-106 Dalbera, Joseph: IV, 521-529 Dănilă, Elena: VIII, 125-134 Dardano, Maurizio: II, 107-123 Dardel, Robert de : IV, 531-541 De Angelis, Alessandro: I, 483-496 De Caprio, Chiara: VII, 89-101 De Cuyper, Gretel: III, 73-85 de Fazio, Debora: VIII, 135-146 De Luca, Maria Teresa: IV, 139-146 De Roberto, Elisa: II, 125-135 Debanne, Alessandra: I, 579-591 del Rey Quesada, Santiago : V, 415-425 Delofeu, Henri-Jose: I, 83-88 Delucchi, Rachele: I, 579-591 dell’Aquila, Vittorio: I, 669-681 Devís Herraiz, Empar: I, 533-542; I, 593-603 Di Candia, Alessandro: VIII, 147-158 Di Salvo, Margherita: II, 583-593 Di Tullio, Ángela: II, 137-145 Dincă, Daniela: IV, 147-156 Domínguez Carregal, Antonio Augusto: VII, 115-124
Índex dels autors
Dorta Luis, Josefa: I, 605-617 Dourado Fernández, Rocío: V, 99-110 Dragomirescu, Adina: II, 147-157 Dragoste, Ramona: III, 195-206 Dragotto, Francesca: III, 87-98 Duarte, Isabel Margarida: VI, 441-450 Duda, Gabriela: IV, 157-167 Duma, Melania: VI, 451-462 Echenique Elizondo, Mª Teresa: I, 3-4 Embleton, Sheila: VI, 119-129 Enache, Eugenia: VI, 401-415 Enghels, Renata: II, 159-170; III, 99-110 Enguita Utrilla, José M.ª: VIII, 545-558 Escartí, Vicent Josep: VII, 125-138 Escavy Zamora, Ricardo: VII, 537-548 España i Bonet, Cristina: I, 272-273 Espinosa Elorza, Rosa María: III, 3-4 Faggion, Carmen Maria: VI, 131-142 Faraoni, Vincenzo: II, 171-182 Faura, Neus: VII, 513-524 Feldhausen, Ingo: I, 719-730 Felecan, Daiana: VI, 463-474 Felecan, Nicolae: V, 111-122 Felecan, Oliviu: V, 123-134 Fernandes, Gonçalo: VII, 549-560 Fernández Planas, Ana Mª.: I, 605-617 Fernández-Montraveta, Ana: VIII, 159-170 Fernández, Mauro A.: VIII, 559-570 Ferrando Francés, Antoni: VII, 139-150 Feruglio, Roberto: II, 595-606 Fesenmeier, Ludwig: III, 171-182 Figueiredo Brandão, Silvia: II, 531-539 Finco, Franco: I, 619-626 Font-Rotchés, Dolors: VI, 475-486 Forcada, Mikel L.: I, 269-270 Forgas Berdet, Esther: VI, 487-498 Forsgren, Mats: V, 427-436 Franceschi, Temistocle: IV, 169-180 Franck, Floricic: III, 551-563 Freixeiro Mato, Xosé Ramón: V, 437-448 Frenguelli, Gianluca: II, 107-123 Frosi, Vitalina Maria: V, 135-146 Fuentes Rodríguez, Catalina: VI, 499-510 Fulgêncio, Lúcia: IV, 181-192
687 Gabriel, Christoph: I, 719-730 Garachana Camarero, Mar: VII, 151-162 Garcés, María Pilar: V, 449-460 García Aguiar, Livia C.: VI, 85-94 García Cornejo, Rosalía: VII, 163-175 García Ferrer, Mercedes: VIII, 171-182 García González-Posada, Antonio María: I, 637-643 García González, Javier: VIII, 571-582 García Mouton, Pilar: I, 111-114 Garcia Perales, Vicent F.: I, 627-635 García Pérez, Rafael: II, 183-192 García Sánchez, Jairo Javier: III, 111-119 García Valle, Adela: VII, 177-189 García-Hernández, Benjamín: IV, 543-550 Gardani, Francesco: II, 171-182; II, 193-204 Gargallo Gil, José Enrique: IV, 193-202 Garrido, Joaquín: V, 461-471 Gebăilă, Anamaria: III, 121-131 Georgescu, Simona Rodina: IV, 203-215 Gerhard-Krait, Francine: III, 133-143 Gerner, Hiltrud: VIII, 195-204 Gililov, Patrick: V, 473-482 Glessgen, Martin-D.: I, 101-103; VII, 191-204 Godoi, Elena: V, 579-590 Goebl, Hans: VI, 143-154 Gómez Casañ, Rosa: II, 607-614 Gómez Molina, José Ramón: II, 615-627 Gonçalves, Maria Filomena: VII, 205-210; VII, 561-572 Gonçalves, Miguel: V, 483-492 González Cobas, Jacinto: VIII, 183-193 González Manzano, Mónica: III, 145-156 González Saavedra, Berta: IV, 551-559 González, Carla: VI, 511-523 Gordón, María Dolores: V, 259-265 Grande López, Clara: VIII, 365-373 Greco, Paolo: II, 7-18 Greub, Yan: IV, 531-541 Gross, Gaston: III, 157-169 Grossmann, Maria: III, 523-537 Grutman, Rainier: II, 629-641 Grutschus, Anke: III, 171-182
688 Guadagnini, Elisa: VII, 211-221 Guesser, Simone Lúcia: II, 205-215 Guia, Josep: VII, 223-234 Hassler, Gerda : V, 493-503 Havu, Eva: II, 217-227 Hennemann, Anja: V, 505-515 Hidalgo Alfageme, Carlos Alonso: III, 183-194 Holtus, Günter: I, 106-109 Hora, Dermeval da: I, 645-656 Hoyos Hoyos, Carmen : V, 517-430 Ibarz Blatchford, Alexander: VII, 235-247 Iliescu, Maria: I, 13-16; III, 195-206 Ionescu, Alice: VI, 525-532 Isasi, Carmen: VIII, 275-289 Jansegers, Marlies: III, 99-110 Jarilla Bravo, Salud Ma: IV, 217-228 Jezek, Elisabetta: IV, 3 Jiménez, Jesús: I, 657-668 Johnen, Thomas: VI, 533-544 Juan-Mompó Rovira, Joaquim: VIII, 583-594 Kacprzak, Alicja: VII, 249-256 Kemmler, Rolf: VII, 573-583 Khachaturyan, Elizaveta: III, 207-221 Kihaï, Dumitru: VII, 257-266 Kiss, Sandor: IV, 445-447; IV, 561-567 Kleiber, Georges: III, 223-234 Koch, Stefan: VIII, 595-697 Kristol, Andres: I, 349-269 Kuhn, Julia: II, 229-240 Kullmann, Dorothea: VII, 267-278 Kunstmann, Pierre: VIII, 195-204 Kuzmanović-Jovanović, Ana: VI, 545-554 Lammert, Marie: III, 235-246 Lang, Jürgen: VIII, 503-507 Lavric, Eva: VI, 555-567 Lazard, Sylviane: IV, 569-583 Lazea, Ramona: V, 229-234 Le Dû, Jean: VIII, 609-616 Leal, Audria: VI, 569-582 Lehmann, Sabine: III, 247-259 Léonard , Jean Léo: I, 669-681 Lépinette, Brigitte: VIII, 323-328 Leroy, Sarah: V, 147-158
Índex dels autors
Letizia, Michela: V, 159-170 Librova, Bohdana: VII, 279-291 Lisyová, Oľga: IV, 229-242 Lo-Cicero, Minh Ha: V, 531-542 Loiseau, Sylvain: III, 261-270 López Alonso, Covadonga: I, 88-99 López García-Molins, Ángel: I, 73-75 López Río, Joaquim: VIII, 617-628 López-Rodríguez, Clara Inés: VIII, 205-216 Loporcaro, Michele: II, 171-182 Lorenzetti, Luca: IV, 585-596 Lőrinczi, Marinella: II, 643-652 Loureiro, Marlene: V, 543-554 Lubello, Sergio: VII, 293-300 Lucía Mejías, José Manuel: I, 244-247 Lliteras, Margarita: VII, 481-487; VII, 585-593 Llopis Rodrigo, Francesc: VIII, 617-628 Lloret, Maria-Rosa: I, 657-668 Maddalon, Marta : II, 653-663 Maggiore, Marco: VII, 301-310 Magri-Mourgues, Véronique: VI, 583-594 Maia, Clarinda de Azevedo: IV, 243-255 Mańczak, Witold: IV, 597-601 Mancho, Mª Jesús: IV, 257-267 Manole, Veronica: III, 271-280 Manoliu, Maria M.: I, 5-11 Marádi, Krisztina: II, 665-674 Marano, Luca: II, 675-683 Marcenaro, Simone: VII, 311-322 Marcet Rodríguez, Vicente J.: IV, 603-614 Marchello-Nizia, Christiane: II, 333-343 Marello, Carla: III, 3-4 Marfany Simó, Marta: VIII, 375-384 Mariño, José: I, 270 Mariottini, Laura: VI, 639-650 Marrapodi, Giorgio: V, 171-177 Martín López, Arantxa: VI, 631-638 Martínez Alcalde , María José: VII, 481-487 Martínez Celdrán, Eugenio: I, 605-617 Martínez Díaz, Eva: V, 555-566 Martínez Ezquerro, Aurora: IV, 269-279 Martínez Lema, Paulo: V, 179-187 Martínez-Paricio, Violeta: I, 683-694
Índex dels autors
Marzo, Daniela: III, 565-575 Mas i Miralles, Antoni: II, 685-698 Massanell i Messalles, Mar: VIII, 217-228 Mattera, Marina: III, 281-290 Matute Martínez, Cristina: VI, 155-164 Mazziotta, Nicolas: VIII, 229-238 Meisenburg, Trudel: I, 755-766 Mejía Ruiz, Carmen: I, 234-243 Meléndez Quero, Carlos: VI, 595-606 Meliga, Walter: I, 257-259 Melka, Francine: IV, 281-288 Mendicino, Antonio: VI, 209-220 Mensching, Guido: VIII, 113-124 Meseguer, Lluís: I, 177-190 Meul, Claire: II, 241-254 Meulleman, Machteld: II, 255-264 Micó Romero, Noelia: VI, 607-618 Miguel Franco, Ruth: V, 189-199 Mihăilă, Maria: V, 201-207 Milizia, Paolo: I, 695-706 Mioto, Carlos: II, 205-215 Miotti, Renzo: I, 707-718 Mirto, Ignazio Mauro: II, 265-275 Mitu, Mihaela: VI, 619-630 Mocciaro, Egle: III, 291-302 Molina, Caterina : V, 567-577 Molinu-Floricic, Lucia: II, 277-287 Mollica, Fabio: II, 229-240 Montané March, M. Amor: III, 497-510 Montinaro, Antonio: VII, 323-334 Montoya, Brauli: II, 475-476 Montuori, Francesco: VII, 89-101 Monzó Gallo, Carlos: III, 303-314 Morant Marco, Ricard: VI, 631-638 Moreno Fernández, Francisco: I, 259-263; VI, 3-4 Moreno Villanueva, José Antonio: VIII, 385-395 Moreno, Vicent Artur: I, 35-38; I, 39-42 Mori, Olga: V, 209-218 Moscal, Dinu: IV, 289-297 Mota, Jacyra Andrade: VI, 165-171 Moura, Teresa Maria Teixeira de: VII, 595-606
689 Muñoz Arruda, Mariana Paula: V, 579-590 Nagore Laín, Francho: IV, 299-311 Narro, Ángel: V, 219-228 Navas Sánchez Élez, María Victoria: I, 234-243 Nicolae, Alexandru: II, 147-157 Nichil, Rocco Luigi: VIII, 239-251 Nissille, Christel: VI, 53-64 Núñez Román, Francisco: IV, 313-325 Oancă, Teodor: V, 229-234 Oesterreicher, Wulf: I, 457-478 Ohannesian, Maria: I, 497-507 Ohligschlaeger, Kerstin: VII, 607-616 Olariu, Florin: VI, 75-84 Olid, Isabel: VI, 511-523 Oliveras, Lourdes: VI, 173-185 Orletti, Franca: VI, 639-650 Ozolina, Olga: III, 577-585 Padrón, Rafael: IV, 125-137 Paesano, Nicolò: II, 289-296 Pagano, Mario: VIII, 253-262 Paim, Marcela Moura Torres: VI, 187-196 Paloma Sanllehí, David: VI, 475-486 Papa, Elena: V, 235-256 Paşcalău, Cristian: VI, 451-462 Pascual, José Antonio: I, 151-157 Paz Afonso, Ana: IV, 327-337 Pellissa Prades, Gemma: VIII, 397-408 Peña Martínez, Gemma: VI, 651-662 Penadés Martínez, Inmaculada: V, 591-602 Perea, Maria-Pilar: II, 297-309 Pereira, Isabel: III, 587-594 Pereira, Rui Abel: III, 595-606 Pérez Álvarez, Bernardo E.: VI, 663-672 Pérez Pacheco, Pilar: II, 699-708 Peron, Silvia: VIII, 409-419 Pešková, Andrea: I, 719-730 Pfister, Max: I, 131-134 Pichel Gotérrez, Ricardo: VII, 335-346 Piera, Josep: I, 191-196 Pierrard, Michel: II, 217-227 Pignatelli, Cinzia: VIII, 421-431 Pineda Cirera, Anna: II, 311-324 Piot, Mireille: III, 315-325
690 Piqueras-Brunet, Marta: III, 327-337 Pitarch, Vicent: I, 197-207 Piva, Cristina: IV, 339-350 Pla Colomer, Francisco Pedro: I, 731-742 Plötner, Kathleen: III, 339-350 Polzin-Haumann, Claudia: VII, 617-627 Ponge, Myriam: VI, 673-684 Popeanga Cheralu, Eugenia: I, 232-234 Popescu, Mihaela: IV, 351-361 Pousada Cruz, Miguel Ángel: VII, 347-358 Prantera, Nadia: VI, 209-220 Prat Sabater, Marta: VII, 629-640 Prodan, Delia Ionela: I, 272; VIII, 433-444 Proto, Teresa: VIII, 469-480 Quijada Van den Berghe, Carmen: VII, 641-651 Radu, Voica: IV, 363-374 Reinheimer Rîpeanu, Sanda: I, 263-265; I, 403-418 Renzi, Lorenzo: II, 345-360 Resurreccion Ros, Honorat: VII, 359-370 Retaro, Valentina: VI, 221-232 Reutner, Ursula: VIII, 445-456 Reynaud Oudot, Natacha: VI, 233-242 Rezende, Letícia Marcondes: V, 603-613 Ribera, Juan M.: I, 231-232 Ridruejo, Emilio : V, 615-626; V, 319-322 Rivoira, Matteo: IV, 169-180 Roca Ricart, Rafael: VIII, 457-468 Rocchetti, Alvaro: II, 325-331 Rodrigo Mancho, Ricardo: II, 699-708 Rodríguez Ramalle, Teresa María: V, 627-638 Roegiest, Eugeen: II, 159-170 Roques, Gilles: I, 104-106; VII, 3-5 Roseano, Paolo: I, 605-617 Rossebastiano, Alda: V, 247-257 Rougé, Jean-Louis: VIII, 629-639 Rouquier, Magali: II, 333-343 Rubio, Antoni: I, 31-34 Ruhstaller, Stefan: V, 259-265 Rull, Xavier: III, 327-337 Russo, Michela: VIII, 469-480 Salaberri, Patxi: V, 267-273 Salvador, Vicent: VI, 331-332
Índex dels autors
Salvi, Giampaolo: II, 345-360 Sampson, Rodney: I, 481-482 Sánchez González de Herrero, Ma. Nieves: VIII, 263-274 Sánchez Jiménez, Santiago U.: III, 351-362 Sánchez Lancis, Carlos: II, 71-82 Sánchez Méndez, Juan Pedro: I, 743-754; VIII, 263-274 Sánchez Miret, Fernando: I, 317-348 Sánchez Rei, Xosé Manuel: II, 361-369 Sánchez-Prieto, Pedro: VIII, 275-289 Saragossà, Abelard: I, 207-224 Sardelli, Ma Antonella: IV, 217-228 Scarpini, Paola: VII, 371-382 Scarpino, Cristina: VII, 383-395 Scurtu, Gabriela: IV, 375-384 Schang, Emmanuel: VIII, 629-639 Schapira, Charlotte: III, 3-4; III, 363-373 Schirru, Giancarlo: IV, 585-596 Schmitt, Christian: IV, 615-623 Schrott, Angela: V, 639-650 Segui, Joan: I, 224-230 Seile, Falk: II, 709-720 Selfa Sastre, Moisés: V, 275-281 Sentí i Pons, Andreu: III, 375-387 Serradilla Castaño, Ana: IV, 385-397 Serrano Aspa, Xavier: IV, 31-38 Sichel-Bazin, Rafèu: I, 755-766 Silva, Augusto Soares da: II, 383-395 Siller-Runggaldier, Heidi: II, 371-382 Siminiciuc, Elena: V, 651-661 Sinner, Carsten: III, 479-495 Skutta, Franciska : V, 663-670 Söhrman, Ingmar: VIII, 263-274 Solias Arís, Teresa: V, 671-681 Sornicola, Rosanna: I, 419-440 Soto Andión, Xosé: III, 389-401 Soto Nieto, Almudena: III, 403-416 Souvay, Gilles: VIII, 195-204; VIII, 291300; VIII, 55-65 Spampinato, Margherita: I, 265-267; V, 683-693 Spence, Paul: VIII, 275-289 Stan, Camelia: II, 397-407
Índex dels autors
Stanciu Istrate, Maria: III, 607-616 Stanovaïa, Lydia A.: VII, 397-409 Steinfeld, Nadine: VII, 411-422 Štichauer, Jaroslav: III, 617-628 Stoichiţoiu Ichim, Adriana: III, 417-426 Suñer, Avel·lina: II, 137-145; II, 409-421 Suozzo, Stefania: II, 721-732 Swiggers, Pierre: II, 241-254; VII, 481-487; VII, 653-665 Szantyka, Izabela Anna: V, 695-706 Szijj, Ildikó: II, 423-434 Szoc, Sara: VII, 653-665 Tamba, Andreea-Mihaela: VIII, 481-487 Tanghe, Sanne: III, 427-437 Teixeira, Carla: VI, 569-582 Teletin, Andreea: VI, 685-692 Teodorescu, Cristiana: VI, 693-704 Teodoro Peris, Josep L.: VII, 667-681 Terol i Reig, Vicent: V, 283-295 Theuerzeit, Samuel: II, 435-445 Thibault, André: VI, 243-254 Thornton, Anna M.: II, 447-458 Timotin, Emanuela: VII, 423-431 Tokunaga, Shiori: IV, 411-421 Torrens Álvarez, Ma. Jesús: VIII, 263-274 Torrent, Aina: IV, 399-410 Torres Feijó, Elias J.: I, 371-402 Torres-Tamarit, Francesc: I, 683-694 Torruella, Joan: VIII, 217-228 Tort i Donada, Joan: V, 297-309 Trotter, David: I, 116-118; I, 441-456 Trumper, John Bassett: III, 439-451; III, 629-641 Umbreit, Birgit: III, 565-575 Uritescu, Dorin: I, 767-778; VI, 119-129 Urzhumtseva, Anna: IV, 423-429 Vaccaro, Giulio: VII, 433-443
691 Vachon (†), Claire: VII, 191-204 Valls, Esteve: VI, 107-118; VI, 255-267 Van Peteghem, Marleen: II, 3-6 Vanelli, Laura: II, 459-471 Vanrell, Maria del Mar: I, 509-519 Variano, Angelo: VIII, 641-652 Varvaro, Alberto: I, 114-116; I, 157-158 Vassiliadou, Hélène: III, 453-464 Vázquez Diéguez, Ignacio: II, 83-94 Vázquez, Gloria: VIII, 159-170 Vela Delfa, Cristina: VI, 705-715 Velázquez Elizalde, Alejandro: VI, 197-208 Ventura, Simone: VIII, 489-500 Veny, Joan: I, 109-111; I, 277-293 Verdo, Rémy: IV, 625-637 Vicari, Stefano: VIII, 301-312 Vicario, Federico: V, 311-318; VIII, 313-319 Vicente Llavata, Santiago: IV, 431-441 Videsott, Paul: VII, 445-458 Villalva, Alina: III, 643-653 Vintilă-Rădulescu, Ioana: III, 653-663 Vîrban, Floarea: VI, 269-280 Viredaz, Rémy: VII, 459-468 Vivancos Mulero, Mª Esther: VI, 281-292 Wheeler, Eric: VI, 119-129 Wirth-Jaillard, Aude: VII, 469-477 Wissner, Inka: VI, 293-304 Wüest, Jakob: VI, 717-726 Yantzin Pérez Cortés, Ana: VI, 197-208 Zajícová, Lenka: VIII, 653-661 Zamora Carrera, Alonso: II, 733-744 Zamora Salamanca, Francisco José: II, 733-744 Zanoaga, Teodor Florin: VI, 305-316 Zilg, Antje: VI, 727-737 Zvonareva, Alina: VI, 317-328
Taula general
Volum I
Presentacions del Congrés Mª Teresa Echenique Elizondo Presentación de las Actas............................................................................................
3
Maria M. Manoliu Réflexions sur l’avénir de la linguistique romane après le Congrès de Valencia.......
5
Maria Iliescu Discours inaugural du président de la Societé de Linguistique Romane....................
13
Antoni M. Badia i Margarit Discours à l’inauguration du Congrès.........................................................................
21
Esteban Morcillo Paraules d’obertura del Magnífic Rector de la Universitat de València.....................
23
Jean-Pierre Chambon Discours de clôture du Président de la Societé de Linguistique Romane...................
25
Cròniques Antoni Rubio València tanca amb èxit el congrés de Romanística amb un miler de participants, 800 comunicacions i un ample ressò mediàtic..........................................................
31
Emili Casanova / Vicent Artur Moreno Bullirà el Congrés com la cassola en forn: el Congrés paral·lel...............................
35
Vicent Artur Moreno La banda sonora de las tierras valencianas...............................................................
39
694
Taula general
Himne del Filòleg Lluís Alpera De la grandesa del filòleg (Himne del Congrés).......................................................
45
Josep Maria Bru Partitura per a tres veus i harpa.................................................................................
53
Josep Maria Bru Partitura per a piano..................................................................................................
65
Taules redones A. López / E. Clua / H.-J. Delofeu / C. López Implicacions pràctiques de les llengües romàniques................................................
73
M.-D. Glessgen / G. Roques / G. Holtus / J. Veny / P. García Mouton / A. Varvaro / D. Trotter La vehiculació de la romanística a través de les revistes..........................................
101
La valutazione delle riviste e la Filologia Romanza.................................................
123
M. Pfister / M.-R. Bastardas / E. Buchi / J.-P. Chambon / G. Colón / J. A. Pascual / A. Varvaro 100 anys d’etimologia romànica: el REW de Meyer-Lübke: 1911-2010.................
131
Jornades Ll. Aguiló / E. Casanova / Ll. Meseguer / J. Piera / V. Pitarch / A. Saragossà / J. Seguí La societat valenciana hui: llengua, cultura i literatura............................................
161
J. M. Ribera / E. Popeanga / C. Mejía – M. V. Navas / J. M. Lucía La Filologia Romànica a Espanya............................................................................
231
A. M. Brito / R. Cano / E. Casanova / W. Meliga / F. Moreno / S. Reinheimer / M. Spampinato Trobada d’associacions de llengües romàniques......................................................
249
La indústria i la traducció automàtica entre llengües romàniques............................
269
Taula general
695
Ponències plenàries Joan Veny Circulacions lingüístiques en la Romània.................................................................
277
Concepción Company Company Evidencia sintáctica para la clasificación genética de las lenguas de la Iberorromania...........................................................................................................
295
Jean-Pierre Chambon Étymologie lexicale, étymologie onomastique: quoi de neuf? Un aperçu................
307
Fernando Sánchez Miret Metafonía y diptongación en la Romania.................................................................
317
Andres Kristol Le francoprovençal, laboratoire des virtualités linguistiques de la Romania occidentale: le système bicasuel des parlers valaisans.............................................
349
Elias J. Torres Feijó Conflito sócio-linguístico, identitário e de coesão social na Galiza actual: algumas consequências.............................................................................................
371
Sanda Reinheimer Rîpeanu Le roumain, un défi pour les romanistes?.................................................................
403
Rosanna Sornicola Decomposizioni e ricomposizioni di sistemi. I pronomi personali delle lingue romanze tra paradigmatica e sintagmatica............
419
David Trotter Une rencontre germano-romane dans la Romania Britannica..................................
441
Wulf Oesterreicher La textualidad de los documentos de los romances primitivos.................................
457
696
Taula general
Secció 1 Descripció històrica i / o sincrònica de les llengües romàniques: fonètica i fonologia Rodney Sampson Présentation...............................................................................................................
481
Elvira Assenza / Alessandro De Angelis Monottongazione dei dittonghi metafonetici e abbassamento delle vocali alte in un’area della Sicilia centrale: per una riconsiderazione del problema.....................
483
Teresa Cabré / Maria Ohannesian Semivocals i estructura sil·làbica: un estudi comparatiu entre el català i el castellà.......................................................
497
Teresa Cabré / Maria del Mar Vanrell Entonació i truncament en els vocatius romànics.....................................................
509
Stefano Canalis L’esito di -p-, -t-, -c- in toscano antico: un nuovo argomento a favore della presenza di sonorizzazione intervocalica..................................................................
521
Francisco José Cantero Serena / Empar Devís Herraiz Análisis melódico del español hablado por italianos................................................
533
Esperança Cardeira Do português médio ao clássico: o Cancioneiro Geral de Garcia de Resende........
543
Josefina Carrera-Sabaté Descripció acústica de vocals mitjanes posteriors del català i castellà en parla espontània.................................................................................................................
555
Maria José Carvalho Contributo para o estudo da evolução das terminações nasais portuguesas (sécs. XIII-XVI)........................................................................................................
567
Alessandra Debanne / Rachele Delucchi Sulle sorti di -L-, -R-, RR latine. La prospettiva italo-romanza settentrionale.........
579
Empar Devís Herraiz Análisis melódico de la cortesía atenuadora en el español coloquial.......................
593
Taula general
697
Ana Ma. Fernández Planas / Paolo Roseano / Josefa Dorta Luis / Eugenio Martínez Celdrán ¿Continuidad prosódica en diferentes puntos de la Romania? El caso de algunas interrogativas..............................................................................
605
Franco Finco La lenizione delle occlusive velari in friulano: contatti linguistici e datazione degli esiti attuali.......................................................
619
Vicent F. Garcia Perales Rescat de l’ALPI: metodologies i aportacions d’un atles lingüístic romànic...........
627
Antonio María García González-Posada El tratamientu de /ll/ xeminada n’aragonés. Analís hestóricu y comparativu...........
637
Dermeval da Hora Uso variável das oclusivas dentais: uma reflexão sobre a mudança de estilo..........
645
Jesús Jiménez / Maria-Rosa Lloret Efectes de prominència en canvis vocàlics obscurs.................................................
657
Jean Léo Léonard / Vittorio dell’Aquila Haudricourt & Juilland 1949 revisité: perspectives géolinguistiques et poststructuralistes sur le consonantisme sarde centre-septentrional................................
669
Violeta Martínez-Paricio / Francesc Torres- Tamarit ¿Diptongos crecientes o decrecientes? Un análisis comparativo de las secuencias de vocales altas en español y catalán........................................................................
683
Paolo Milizia Rotazione vocalica e metafonia nel dialetto di San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno)..........................................................................................................
695
Renzo Miotti Los xenofonemas en español e italiano....................................................................
707
Andrea Pešková / Ingo Feldhausen / Christoph Gabriel Una perspectiva diacrónica de la entonación bonaerense.........................................
719
Francisco Pedro Pla Colomer Pronunciación en el monte: las serranas y la meta-parodia de Juan Ruiz................
731
Juan Pedro Sánchez Méndez Consideraciones para una historia de la pronunciación hispanoamericana..............
743
698
Taula general
Rafèu Sichel-Bazin / Carolin Buthke / Trudel Meisenburg Caracteristicas prosodicas de l’occitan dins son contèxt galloromanic....................
755
Dorin Uritescu Le conditionnement morphologique dans le changement phonologique et l’évolution historique du roumain populaire.............................................................
767
Índex dels autors / Taula general Índex dels autors .....................................................................................................
779
Taula general ...........................................................................................................
787
Volum II
Secció 2 Descripció històrica i / o sincrònica de les llengües romàniques: morfologia, sintaxi Marleen Van Peteghem Présentation.................................................................................................................
3
Giovanni Abete / Paolo Greco Sulla posizione del clitico ne nel dialetto di Pozzuoli................................................
7
Valeria A. Belloro Pronombres átonos del español: entre gramática y pragmática..................................
19
Tibor Berta Orden sintagmático y concordancia en los tiempos compuestos de las lenguas romances medievales de la Península Ibérica.....................................
31
Claudia Borzi ¿Por qué, dado un contexto, el hablante elige a veces «en el que» y otras veces «(en) que»?.................................................................................................................
43
Ana Maria Brito Três tipos de nominalização do infinitivo em Português Europeu..............................
57
Cristina Buenafuentes de la Mata / Carlos Sánchez Lancis Evolución de algunas construcciones sintácticas con valor modal de intención en español: tratar de / intentar / probar a + infinitivo....................................................
71
Taula general
699
Ramon Cerdà Massó / Ignacio Vázquez Diéguez Formarea pluralului în limba portugheză ca mostrăpentru o tipologie bazată pe economia textuala.......................................................................................................
83
Anne Dagnac Le typage des interrogatives directes en picard et le cas du dialecte ternois..............
95
Maurizio Dardano / Gianluca Frenguelli / Gianluca Colella Per una tipologia del discorso indiretto in italiano antico...........................................
107
Elisa De Roberto Usi concorrenziali di infinito e gerundio in italiano antico.........................................
125
Ángela Di Tullio / Avel·lina Suñer Cara de tonto: expresiones predicativas y nombres de posesión inalienable.............
137
Adina Dragomirescu / Alexandru Nicolae L’objet interne en roumain: description, évolution et comparaison entre les langues romanes.......................................................................................................................
147
Renata Enghels / Eugeen Roegiest La causación negativa y el argumento causado: la sintaxis de dejar y laisser en contraste...................................................................
159
Vincenzo Faraoni / Francesco Gardani / Michele Loporcaro Manifestazioni del neutro nell’italo-romanzo medievale...........................................
171
Rafael García Pérez La evolución de los conectores aditivos es más y más aún en un diccionario histórico.......................................................................................................................
183
Francesco Gardani Dinamiche di produttività flessiva: dal latino arcaico all’italiano antico...................
193
Simone Lúcia Guesser / Carlos Mioto Topicalização de constituintes em português brasileiro..............................................
205
Eva Havu / Michel Pierrard L’interchangeabilité du participe présent adjoint et du gérondif: contraintes et limites en contexte converbal...............................................................
217
Julia Kuhn / Fabio Mollica Il complemento preposizionale...................................................................................
229
700
Taula general
Claire Meul / Pierre Swiggers Les avatars de l’infixe verbal -id(i)-: du latin au ladin................................................
241
Machteld Meulleman Los locativos espacio-temporales en las construcciones existenciales: un estudio comparativo entre el español, el francés y el italiano.....................................
255
Ignazio Mauro Mirto Mare e montagna sono sinonimi di sacco? I determinanti nominali complessi.........
265
Lucia Molinu-Floricic Les infinitifs rhizotoniques en sarde...........................................................................
277
Nicolò Paesano La doppia serie di complementatori (ca e chi) nel siciliano contemporaneo.............
289
Maria-Pilar Perea Els clítics pronominals preposats i posposats en català: anàlisi i comparacio............
297
Anna Pineda Cirera L’alternança acusatiu / datiu en els verbs de transmissió, reflex de la Ubicació / Destinacio...................................................................................................................
311
Alvaro Rocchetti Dématérialisation et déflexivité dans les langues romanes.........................................
325
Magali Rouquier / Christiane Marchello-Nizia La Position de l’objet direct nominal et l’ordre des mots dans la Passion de Clermont, la Vie de Saint Léger et la Vie de Saint Alexis.............
333
Giampaolo Salvi / Lorenzo Renzi Le categorie funzionali nelle strutture coordinate in italiano antico (e in altre lingue romanze)..........................................................................................................
345
Xosé Manuel Sánchez Rei O réxime nos verbos galegos: da lingua medieval á contemporánea.........................
361
Heidi Siller-Runggaldier Clitici soggetto espletivi a confronto..........................................................................
371
Augusto Soares da Silva Comparaison de la grammaticalisation des constructions causatives dans les langues romanes............................................................................................
383
Taula general
701
Camelia Stan Sulla sintassi dei sintagmi nominali con più determinanti nel rumeno......................
397
Avel·lina Suñer Nombres cuantitativos y clasificadores nominales.....................................................
409
Ildikó Szijj Las formas de imperativo y su relación con el subjuntivo en las lenguas románicas.... Samuel Theuerzeit Dati sull’accordo del participio passato nel Decameron............................................
423 435
Anna M. Thornton Compagni di cella in una gabbia dorata: sull’uso di vo vs. vado nell’italiano contemporaneo............................................................................................................
447
Laura Vanelli Variazione desinenziale nella flessione verbale dell’italiano antico...........................
459
Secció 7 Sociolingüística de les llengües romàniques Brauli Montoya Presentació................................................................................................................
475
Carmen Alén Garabato Les langues romanes en Europe vues à travers la Charte européenne des langues régionales ou minoritaires: vers une nouvelle carte sociolinguistique de la Romania au XXIe siècle?..........................................................................................
477
Isabel Almeida Santos A descrição de ditongos na literatura gramatical portuguesa: aspectos (geo- e socio) linguísticos.....................................................................................................
487
Dorothée Aquino-Weber L’évolution des idéologies langagières liées à l’argot dans la première moitié du XIXe siècle................................................................................................................
499
Lidia Becker Las relaciones interlinguales en el proceso de la normativización de los idiomas romances...................................................................................................................
509
702
Taula general
José Luis Blas Arroyo Norma y uso en un fenómeno de variación sintáctica. Nuevos datos a propósito de la oposición modal epistémico-déontica y la variable deber / deber de + infinitivo..................................................................
519
Silvia Figueiredo Brandão Padrões variáveis de concordância nominal na fala de uma cidade da Região Metropolitana do Rio de Janeiro...............................................................................
531
Mélanie Cavalheiro Les usages déclarés d’écoliers ouagalais (Burkina Faso). Qu’est-ce qu’être «un bon francophone»?....................................................................................................
541
Josep Daniel Climent Josep Giner, Carles Salvador i la creació d’un model de llengua literària a la dècada de 1930..........................................................................................................
551
Joan Costa Carreras DELADI (Dependencias gramaticales de larga distancia: aproximaciones teóricas y descriptivas), una anàlisi de l’ús i de la percepció dels relatius en català................
565
Sara Cotelli Le bilinguisme au sein des minorités linguistiques francophones: quel(s) changement(s) depuis les années 1970?.......................................................
571
Margherita Di Salvo Analisi del contatto in migranti campani di I generazione: la questione dei segnali discorsivi.............................................................................
583
Roberto Feruglio Plurilinguismo e valorizzazione delle lingue minoritarie in Italia: osservazioni sul caso del friulano.............................................................................
595
Rosa Gómez Casañ Metodología lingüística de lenguas romances en contacto: el caso del antiguo reino de Valencia.......................................................................................................
607
José Ramón Gómez Molina Variación sociolingüística de las perífrasis modales ‹deber / deber de + infinitivo› en el español oral......................................................................................................
615
Rainier Grutman Diglosia y autotraducción asimétrica (en y fuera de España)...................................
629
Taula general
703
Marinella Lőrinczi Linguistica e politica. L’indagine sociolinguistica sulle «lingue dei sardi» del 2007 e il suo contesto politico-culturale...................................................................
643
Marta Maddalon Un’interpretazione ideologica del dialetto: il caso italiano tra le altre varietà tomanze.....................................................................................................................
653
Krisztina Marádi Stéréotypes féminins véhiculés par la presse et leur manifestation au niveau de la langue........................................................................................................................
665
Luca Marano Alcuni tipi di configurazioni sintattiche in un corpus di italiano parlato: uno studio sociolinguistico su struttura informativa e focalita........................................
675
Antoni Mas i Miralles La transmissió familiar: la substitució i la normalització del català a Santa Pola...........................................
685
Ricardo Rodrigo Mancho / Pilar Pérez Pacheco Reflexions sociolingüístiques al voltant de Don Lazarillo Vizcardi (1806) d’Antoni Eximeno.....................................................................................................
699
Falk Seiler Biografías de la comunicación en Valencia. Una aproximación a las biografías lingüísticas desde la sociología de la comunicación.................................................
709
Stefania Suozzo Autobiografie fasulle: un metodo statistico di descrivere la realtà. La metodologia idealtipica come sintesi tra i metodi della ricerca qualitativa e quantitativa................................................................................................................
721
Francisco José Zamora Salamanca / Alonso Zamora Carrera Un escritor bilingüe (Jack Kerouac): sus traducciones al español y el problema de la norma................................................................................................................
733
Índex dels autors / Taula general Índex dels autors .....................................................................................................
745
Taula general ...........................................................................................................
753
704
Taula general
Volum III
Secció 3 Descripció històrica i / o sincrònica de les llengües romàniques: semàntica Peter Blumenthal / Rosa María Espinosa Elorza / Carla Marello / Charlotte Schapira Présentation.................................................................................................................
3
Martin Becker Les lectures de ‹devoir› en diachronie: une analyse modo-sémantique.....................
5
Elisa Bekaert Ojo y oreja como órganos receptores de la percepción visual y auditiva: Análisis comparativo de sus usos metafóricos y metonímicos...................................
17
Michèle Biermann Fischer Le nom corps dans tous ses états................................................................................
27
Adriana Ciama Verbos de deslocação ablativos: análise comparativa português / romeno.................
39
Cinzia Citraro Espressioni idiomatiche e contesto in italiano: un esperimento sui meccanismi di anticipazione........................................................
51
Ilinca Crăiniceanu Sémantique aspectuelle du passé composé et du passé simple en roumain et leurs relations rhétoriques dans le discours.........................................................................
63
Gretel De Cuyper Acerca de la flexibilidad aspectual de los objetos definidos.......................................
73
Francesca Dragotto «Exigua pars est vitae qua vivimus. Ceterum quidem omne spatium non vita sed tempus est»: divagazioni semantiche (e lessicali) su spatium e sui suoi esiti romanzi...................................................................................................................
87
Renata Enghels / Marlies Jansegers Sentir: un verbo en la intersección de las lenguas románicas.....................................
99
Taula general
705
Jairo Javier García Sánchez De la homonimia a la polisemia: el caso del esp. sueño.............................................
111
Anamaria Gebăilă Prospettive isotopiche sulla sinestesia lessicalizzata. Gli aggettivi sinestesici in francese, italiano e romeno.........................................................................................
121
Francine Gerhard-Krait Déplacer: un verbe dérivé aux caractéristiques aspectuelles atypiques......................
133
Mónica González Manzano Gramaticalización por subjetivización y persistencia de significados etimológicos: sobre la consolidación de realmente como marcador del discurso.............................
145
Gaston Gross Causes et métaphores..................................................................................................
157
Anke Grutschus / Ludwig Fesenmeier «Inter metum, timorem et pavorem interest...» – et qu’en est-il des différences entre leurs successeurs romans?..................................................................................
171
Carlos Alonso Hidalgo Alfageme Una clasificación semántica de los valores del se.......................................................
183
Maria Iliescu / Adriana Costăchescu / Ramona Dragoste Typologie sémantique des mots roumains empruntés au français..............................
195
Elizaveta Khachaturyan La sémantique des marqueurs discursifs du dire vue à travers la sémantique verbale. L’analyse des verbes dire / dire en français et en italien...............................
207
Georges Kleiber Y a-t-il des noms d’odeurs?........................................................................................
223
Marie Lammert De quelques expressions de quantification totale: en + N de totalité vs en / dans son + N de totalité......................................................
235
Sabine Lehmann Connecteurs et structuration du discours en ancien et moyen français: le cas de or.............................................................................................................
247
Sylvain Loiseau Affinités entre sens et positions: tactique sémantique et corpus.................................
261
706
Taula general
Veronica Manole Aspetos da dupla seleção de modo em português europeu e em romeno: indicativo vs. conjuntivo.............................................................................................
271
Marina Mattera L’enjeu linguistique de la métaphore au sein de l’œuvre bosquienne: le concept opératoire d’«essaim métaphorique».........................................................
281
Egle Mocciaro Preposizioni e defocalizzazione dell’agente in italo-romanzo....................................
291
Carlos Monzó Gallo Nariz, oreja y ojo en las lenguas románicas...............................................................
303
Mireille Piot Diversité de comme et de ses équivalents espagnols et italiens.................................
315
Marta Piqueras-Brunet / Xavier Rull Els quantificadors catalans ple de i tot de: casos de gramaticalització del patró ‹plenitud› > ‹multiplicitat›..........................................................................................
327
Kathleen Plötner Entre lingüística cognitiva y semántica: ¿se puede hablar de un proceso metafórico para los usos de lejos (de) y cerca (de)?.......................................................................
339
Santiago U. Sánchez Jiménez Verbos de movimiento que introducen discurso (andar, ir, salir o venir con que...).....
351
Charlotte Schapira Les locutions expressives figées en français et en roumain........................................
363
Andreu Sentí i Pons La modalitat i l’evidencialitat. Un estudi de deure epistèmic als segles XV i XVI.....................................................
375
Xosé Soto Andión O papel semántico de portador de actitude................................................................
389
Almudena Soto Nieto Metonimia y metáfora en los sentidos polisémicos de rojo........................................
403
Adriana Stoichiţoiu Ichim Réflexions sur le sémantisme du lexème roum. joc vs. fr. jeu....................................
417
Taula general
707
Sanne Tanghe El aspecto deíctico de los verbos de movimiento y de sus interjecciones derivadas.....
427
John Bassett Trumper Problemi di adstrato e di sostrato nel romanzo di Calabria e Salento: quale greco?......
439
Hélène Vassiliadou La formation de c’est-à-dire (que) et de ses correspondants dans les langues romanes: quelques remarques.....................................................................................
453
Secció 5 Descripció històrica i / o sincrònica de les llengües romàniques: formació de mots Teresa Cabré Presentació................................................................................................................
463
Julia Alletsgruber Vers une exploitation des données morphologiques du FEW au service de l’étymologie: le module de repérage affixal.............................................................
469
Elisenda Bernal / Carsten Sinner Neología expresiva: la formación de palabras en Mafalda.......................................
479
M. Teresa Cabré Castellví / Alba Coll Pérez / M. Amor Montané March La composició patrimonial en les llengües romàniques: un recurs en recessió?......
497
Maria do Céu Caetano Os sufixos -ncia e -nça em português.......................................................................
511
Paolo D’Achille / Maria Grossmann I composti ‹colorati› in italiano tra passato e presente.............................................
523
Antonella d’Angelis Formación y usos de los diminutivos italianos -etto, -ino, -uccio y sus equivalentes españoles..............................................................................................
539
Floricic Franck Impératif et ‹Mot Minimal› en catalan......................................................................
551
Daniela Marzo / Birgit Umbreit La conversion entre le lexique et la syntaxe.............................................................
565
708
Taula general
Olga Ozolina La formation des mots dans le français médiéval et contemporain..........................
577
Isabel Pereira Processos residuais de formação de palavras em português: a siglação / acronímia................................................................................................
587
Rui Abel Pereira Polifuncionalidade e cofuncionalidade afixal...........................................................
595
Maria Stanciu Istrate Considérations sur les mots composés avec atot dès les premières traductions roumaines jusqu’à l’époque moderne.......................................................................
607
Jaroslav Štichauer La dérivation suffixale nominale en français préclassique.......................................
617
John B. Trumper La formazione di un lessico fitonimico, apporti complessi e problemi di etimologia remota.....................................................................................................
629
Alina Villalva Estruturas convergentes............................................................................................
643
Ioana Vintilă-Rădulescu Le Parlement Européen face à la féminisation des noms de fonctions, grades et titres en roumain et en français.................................................................................
653
Índex dels autors / Taula general Índex dels autors .....................................................................................................
665
Taula general ...........................................................................................................
673
Taula general
709
Volum IV
Secció 4 Descripció històrica i / o sincrònica de les llengües romàniques: lexicologia i fraseologia Elisabetta Jezek Presentazione..............................................................................................................
3
Vicente Álvarez Vives Fundamentos metodológicos para el estudio histórico de las unidades fraseológicas: propuesta de análisi............................................................................
5
Maria Celeste Augusto Estar grávida no espaço românico: aspectos cognitivos e motivacionais da designação...................................................................................................................
19
Gemma Boada Pérez / Xavier Serrano Aspa Anàlisi metafòrica del poema Scachs d’Amor............................................................
31
Hélène Carles Pour un Trésor Galloroman des Origines: les lexèmes vernaculaires et les toponymes délexicaux dans les plus anciennes chartes originales latines..................
39
Emili Casanova L’adverbi intensificador mateixa ‹même, mismo, mateix›, una particularitat romànica del valencià.................................................................................................
51
Isabel María Castro Zapata «Miope de razón, clarividente de intuición». El participio de presente en la formación de algunos compuestos léxicos del español...............................................
65
Adrian Chircu Une concordance modale et/ou adverbiale romano-roumaine: fr. guise, sp., cat., port., it. guisa = roum. chip et fel................................................................................
79
Marius-Radu Clim Neologismul: istoria termenului în lexicografia românească (accepţii, diferenţe, tendinţe)......................................................................................................................
91
Viorica Codita Sobre los usos de las locuciones prepositivas en textos del siglo XIII.......................
101
710
Taula general
Carla Cristina Almeida Coelho Verbos denominais em -ar e sequências fazer+sn em português................................
113
Dolores Corbella / Rafael Padrón El Ensayo de un vocabulario de Historia Natural de José Clavijo y Fajardo............
125
Maria Teresa De Luca Osservazioni sulla terminologia linguistica in Lingua Nostra....................................
139
Daniela Dincă Deux langues romanes en contact: les emprunts roumains au français......................
147
Gabriela Duda La Révolution néologique dans le langage poétique roumain d’après Eminescu......
157
Temistocle Franceschi / Matteo Rivoira Segar el trigo – segare il grano...................................................................................
169
Lúcia Fulgêncio Expresiones fijas: falsas ideas.....................................................................................
181
José Enrique Gargallo Gil Del ALEANR a BADARE: refranes meteorológicos, geoparemiología romance.....
193
Simona Rodina Georgescu Mozo, mocho y muchacho, ¿palabras sin etimología?................................................
203
Salud Ma Jarilla Bravo / Ma Antonella Sardelli El Refranero multilingüe. Las nuevas tecnologías aplicadas a la ‹traducción paremiológica›............................................................................................................
217
Olga Lisyová Algunas reflexiones sobre la creación popular de los nombres de plantas.................
229
Clarinda de Azevedo Maia Sobre a perda de palavras medievais e os comentários metalinguísticos dos primeiros gramáticos portugueses...............................................................................
243
Mª Jesús Mancho Aproximación a una serie numeral fraccionaria en textos científico-técnicos del Renacimiento..............................................................................................................
257
Taula general
711
Aurora Martínez Ezquerro La composición binominal de los términos referidos al ámbito de la moda actual: análisis y clasificación.................................................................................................
269
Francine Melka Certains idiomes sont plus idiomatiques que d’autres................................................
281
Dinu Moscal Le champ lexical et la lexicographie..........................................................................
289
Francho Nagore Laín La reflexión metalingüística en A bida en a montaña, de Lorenzo Cebollero, como fuente de definición léxica para el conocimiento del aragonés popular de Arguis (Prepirineo aragonés)..................................................................................................
299
Francisco Núñez Román La metáfora del viaje en las unidades fraseológicas en italiano y español.................
313
Ana Paz Afonso Entrar en batalla: aproximación a las relaciones léxicas entre el verbo entrar y el léxico del siglo XIII....................................................................................................
327
Cristina Piva Verbi e perifrasi verbali nel lessico italiano................................................................
339
Mihaela Popescu Une notion-clé dans la lexicologie roumaine: ‹l’étymologie multiple›......................
351
Voica Radu Influence de l’anglais sur le vocabulaire du roumain actuel.......................................
363
Gabriela Scurtu Les reflets de l’influence française sur le lexique du roumain....................................
375
Ana Serradilla Castaño Unidades fraseológicas con verbos de movimiento en español medieval..................
385
Aina Torrent Estructura presuposicional e implicaturas de la locución marcadora evidencial ni que decir tiene.............................................................................................................
399
Shiori Tokunaga Una red de significados: un estudio sobre el verbo salir en español..........................
411
712
Taula general
Anna Urzhumtseva Sobre los préstamos léxicos de las lenguas cooficiales de España en el lenguaje político español...........................................................................................................
423
Santiago Vicente Llavata Notas de Fraseología hispánica medieval. A propósito de la impronta catalanoaragonesa en la obra literaria de don Íñigo López de Mendoza.................................
431
Secció 15 Llatí tardà i medieval i romànic primitiu Sandor Kiss Présentation...............................................................................................................
445
Marta Andronache Le statut des langues romanes standardisées contemporaines dans le Dictionnaire Étymologique Roman (DÉRom)...............................................................................
449
Daniele Baglioni Scampoli di latino d’Oltremare.................................................................................
459
Florica Bechet Une carte qui parle. Informations dialectales sur le nom roumain de la cornemuse ................................
471
Myriam Benarroch L’apport du DÉRom à l’étymologie portugaise........................................................
479
Frédérique Biville «Bassus id est ‹grassus›», «bissum, quod ‹integrum› significat» (Martyrius, GL 7,176,14 et 177,9). Glossaires latins et lexiques romans .........................................
493
Olivia Claire Cockburn Los sufijos verbales -ficare e -izare (-issare, -idiare) y su propagación en el español......................................................................................................................
505
Ioana Costa Inflexibilia: propensioni indoeuropee, realtà romanze..............................................
513
Joseph Dalbera Le parfait de l’indicatif dans l’écriture autobiographique des Confessions de Saint Augustin et le jeu sur l’identité des instances narratives.................................
521
Taula general
713
Robert de Dardel / Yan Greub Analyse spatio-temporelle des composés nominaux prédicatifs en protoroman......
531
Benjamín García-Hernández Innovaciones latinas y románicas en el campo léxico de sūs (‹cerdo›)....................
543
Berta González Saavedra Procesos de lexicalización en latín vulgar y tardío. Causa, gratia y opera en los corpora de Plauto, Marcial y Petronio........................
551
Sándor Kiss Univers discursif et diachronie: les chroniques latines médiévales entre tradition et innovation..............................................................................................................
561
Sylviane Lazard Le développement de la séquence [DÉT + N] dans la scripta (Italie, VIe-IXe siècles)..............................................................................................
569
Luca Lorenzetti / Giancarlo Schirru Sulla conservazione di /k/ nel latino d’Africa...........................................................
585
Witold Mańczak Une linguistique romane sans latin vulgaire est-elle possible?................................
597
Vicente J. Marcet Rodríguez Las sibilantes en la documentación medieval leonesa: los textos latinos (siglos X-XII)................................................................................
603
Christian Schmitt Le latin et la propagation du vocabulaire d’origine populaire..................................
615
Rémy Verdo Un des plus anciens témoignages du dialecte picard? Le cas d’un jugement carolingien (Compiègne, 861)...............................................
625
Índex dels autors / Taula general Índex dels autors .....................................................................................................
639
Taula general ...........................................................................................................
647
714
Taula general
Volum V
Secció 6 Descripció històrica i / o sincrònica de les llengües romàniques: onomàstica (toponímia i antroponímia) Enzo Caffarelli Presentazione..............................................................................................................
3
Xaverio Ballester Teresa y Otros Nuevos Étimos Hespéricos.................................................................
7
Eduardo Blasco Ferrer Iberia in Sardegna. La decifrazione del Paleosardo....................................................
19
Llum Bracho Lapiedra Criteris de denominació toponímica al País Valencià: el cas de la Gran Enciclopedia Temática de la Comunitat Valenciana......................
27
Claude Buridant L’onomastique dans la Chronique des rois de France................................................
35
Daniela Cacia Riflessi galloromanzi nell’antroponimia cuneese (XII-XVI secolo)..........................
49
Marina Castiglione / Michele Burgio Poligenesi e polimorfia dei ‹blasoni popolari›. Una ricerca sul campo in Sicilia a partire dai moventi......................................................................................................
61
Chiara Colli Tibaldi L’indicazione di mestiere nei secondi nomi dell’Astigiano (1387-1389)...................
75
Anna-Maria Corredor Plaja Antroponímia i creativitat: l’exemple dels sobrenoms de Portbou (Alt Empordà)........
87
Rocío Dourado Fernández Aproximación á zootoponimia do Concello de Ribadeo (Lugo)................................
99
Nicolae Felecan Corelaţia nume oficial / nume neoficial în zona Ţara Oaşului....................................
111
Taula general
715
Oliviu Felecan Il contatto linguistico romeno-romanzo attuale riflesso nell’antroponimia................
123
Vitalina Maria Frosi Os hodônimos de Caxias do Sul.................................................................................
135
Sarah Leroy Les déonomastiques «antiques» du français: de l’emprunt à l’oubli du nom propre.....
147
Michela Letizia Nomi propri nella poesia catalana medievale.............................................................
159
Giorgio Marrapodi I suffissi -ano e -iano nei deonimici italiani...............................................................
171
Paulo Martínez Lema Rou, T(h)oar, Trunco: algúns exemplos de substitución toponímica na comarca de Fisterra (Galicia).........................................................................................................
179
Ruth Miguel Franco El cartulario Madrid, AHN, 996B y los documentos originales del Archivo Capitular de Toledo: aportaciones al estudio de la onomástica..................................
189
Maria Mihăilă Aspects actuels de l’anthroponymie roumaine...........................................................
201
Olga Mori Acerca de la especificación de los nombres propios...................................................
209
Ángel Narro Mítica de los moros y moras de la toponimia peninsular...........................................
219
Teodor Oancă / Ramona Lazea Dai nomi comuni moldavi al cognome.......................................................................
229
Elena Papa Riflessi delle attività pastorali nella toponomastica alpina del Piemonte: varietà e diffusione della terminologia legata all’insediamento stagionale................
235
Alda Rossebastiano Superlativi e comparativi nell’onomastica italiana.....................................................
247
Stefan Ruhstaller / María Dolores Gordón Criterios para la normalización de la toponimia andaluza..........................................
259
716
Taula general
Patxi Salaberri Los nombres vascos vistos desde el romance: breve recorrido histórico...................
267
Moisés Selfa Sastre Algunes aportacions a l’onomàstica catalana medieval: estructura, formació i filiació lingüística de l’antroponímia dels Privilegis de la Ciutat de Balaguer (anys 1211-1352)..................................................................................................................
275
Vicent Terol i Reig Presència occitana en la repoblació medieval en una comarca valenciana: la Vall d’Albaida (segles XIII-XVI)...........................................................................
283
Joan Tort i Donada Toponímia, paisatge i ús del medi. Un estudi de cas a la regió de Ribagorça (Catalunya-Aragó)......................................................................................................
297
Federico Vicario Lo Schedario onomastico di Giovanni Battista Corgnali...........................................
311
Secció 9 La pragmàtica de les llengües romàniques Emilio Ridruejo Presentación..............................................................................................................
319
Hiroshi Abé A propos de l’hétérogénéité de la phrase contradictoire en français........................
331
Giovanna Alfonzetti I complimenti in italiano. Riflessioni metapragmatiche...........................................
343
José María Bernardo Paniagua La Lingüística en la ‹Sociedad red›..........................................................................
353
Francesco Bianco Il cum inversum fra italiano antico e moderno..........................................................
365
Ana I. Campo Hoyos Concordancia y variación en el uso de fórmulas de tratamiento a través de un corpus teatral francés-español en los siglos XVII y XVIII..................................
377
Taula general
717
Laura Cîţu Formes sapientiales et discours sentencieux. L’adage dans le langage législatif français, du droit coutumier au droit contemporain..................................................
391
Adriana Costăchescu Avant vs. après: contenu conceptuel et contenu procédural.....................................
403
Santiago del Rey Quesada Fórmulas de tratamiento en los diálogos de Alfonso de Valdés.......................
415
Mats Forsgren Passé simple et imparfait, ordre des mots et structure informationnelle: observations et remarques sur le cas de figure proposition principale – subordonnée temporelle en quand / lorsque / au moment où en français écrit.........
427
Xosé Ramón Freixeiro Mato Conectores consecutivos en galego-portugués: da época medieval á actualidade......
437
María Pilar Garcés El proceso evolutivo de los marcadores en todo caso y en cualquier caso..............
449
Joaquín Garrido Niveles de organización en las relaciones interoracionales: discurso y texto...........
461
Patrick Gililov Intonosyntaxe du message: regard contrastif sur le marquage de la visée communicative en français et en roumain................................................................
473
Miguel Gonçalves Éléments pour une tipologie des représentations discursives. La contribution da la conception polyphonique du discours...................................................................
483
Gerda Haßler Polifonía y deixis en las lenguas románicas.......................................................
493
Anja Hennemann Siempre habla ‹una fuente›. El (ab)uso de los marcadores evidenciales por los periodistas.................................................................................................................
505
Carmen Hoyos Hoyos Revisión de una construcción de sintaxis histórica desde la pragmática............
517
718
Taula general
Minh Ha Lo-Cicero Le portugais et le français: la pragmatique de la linguistique contrastive, la morphosyntaxe.............................
531
Marlene Loureiro Discursos masculino e feminino em textos de opinião nos media portugueses.......
543
Eva Martínez Díaz El componente pragmático en el uso de ‹deber (+ de) + infinitivo› en sus valores modales deóntico y epistémico.................................................................................
555
Caterina Molina Enunciats de la publicitat televisiva catalana: una anàlisi.................................
567
Mariana Paula Muñoz Arruda / Elena Godoi Petições iniciais em processos judiciais cíveis: um estudo sobre o uso de polidez à luz da teoria de Brown e Levinson.........................................................................
579
Inmaculada Penadés Martínez Información pragmática en la definición de las acepciones de locuciones verbales...
591
Letícia Marcondes Rezende Opérations prédicatives et énonciatives: une étude sur la nominalisation................
603
Emilio Ridruejo La focalización del contraste negativo...................................................................
615
Teresa María Rodríguez Ramalle Las sintaxis de las conjunciones que y si en oraciones independientes y su relación en el discurso...............................................................................................
627
Angela Schrott Consejos y consejeros: Tradiciones del consejo como secuencia ilocutiva en textos medievales......................................................................................................
639
Elena Siminiciuc Approches de l’ironie dans la rhétorique antique et moderne..................................
651
Franciska Skutta Références pronominales ambiguës........................................................................
663
Teresa Solias Arís Proceso de introducción de marcadores gramaticales en el aprendizaje bibligüe de primeras lenguas castellano-catalán en entorno monolingüe castellano..............
671
Taula general
719
Margherita Spampinato La violenza verbale in un corpus documentario del tardo Medioevo italiano: aspetti pragmatici......................................................................................................
683
Izabela Anna Szantyka Tra deissi, anafora ed empatia: l’analisi degli aspetti pragmatici nell’uso degli aggettivi e dei pronomi dimostrativi italiani.............................................................
695
Índex dels autors / Taula general Índex dels autors .....................................................................................................
707
Taula general ...........................................................................................................
715
Volum VI
Secció 8 Aspectes diatòpics de les llengües romàniques Francisco Moreno Fernández Presentación................................................................................................................
3
Giovanni Abete Metafonia e dittongazione spontanea nel dialetto di Belvedere Marittimo (CS): dati empirici e implicazioni teoriche...........................................................................
5
Vanderci de Andrade Aguilera Reflexões sobre a variação lexical no campo da fauna nos dados para o Atlas Linguístico do Brasil...................................................................................................
17
Xosé Afonso Álvarez Pérez Cartografía lingüística de Galicia e Portugal: presentación dun proxecto e estudo de dous casos...............................................................................................................
29
Ramón de Andrés Díaz Tractament horiomètric i dialectomètric de noves isoglosses a la frontera entre el galaico-portuguès i l’asturlleonès...............................................................................
41
Dorothée Aquino-Weber / Sara Cotelli / Christel Nissille Les cacologies, un genre textuel? Essai de définition à partir du corpus suisse romand........................................................................................................................
53
720
Taula general
Ilona Bădescu Remarques sur deux particularités morphologiques héritées du latin dans les parlers d’Olténie..........................................................................................................
65
Luminiţa Botoşineanu / Florin Olariu / Silviu Bejinariu Un projet d’informatisation dans la cartographie linguistique roumaine: Noul Atlas lingvistic român, pe regiuni. Moldova şi Bucovina en format électronique (e-NALR) – réalisations et perspectives.....................................................................
75
Inés Carrasco / Mª Luisa Chamorro / Livia C. García Aguiar El proyecto CORAMA: el contexto -st- en el habla de Málaga.................................
85
José Ramón Carriazo Ruiz ¿Cómo ha salido la Dialectología Románica del refugio etnográfico (Diego Catalán)? Un modelo etnolingüístico para el estudio del vocabulario riojano del Siglo de Oro......
95
Esteve Clua / Esteve Valls / Margalida Adrover Tractament quantitatiu de la variació dialectal i anàlisi lingüística: noves perspectives a partir de les dades del COD......................................................
107
Sheila Embleton / Dorin Uritescu / Eric Wheeler Continuum et fragmentation géolinguistiques d’après l’Atlas linguistique de la Crişana en ligne...........................................................................................................
119
Carmen Maria Faggion Aspectos morfossintáticos do vêneto do Sul do Brasil...............................................
131
Hans Goebl La dialectometrización del ALPI: rápida presentación de los resultados...................
143
Cristina Matute Martínez Hacia una caracterización dialectal de la interpolación en el castellano de la Edad Media.................................................................................................................
155
Jacyra Andrade Mota A pluridimensionalidade no Atlas Linguístico do Brasil............................................
165
Lourdes Oliveras Avolla. Una forma en recessió en el català central de les comarques de Girona. Treball de síntesi dialectològica..................................................................................
173
Marcela Moura Torres Paim O Projeto Atlas Linguístico do Brasil (ALiB) e a identidade social de faixa etária: uma questão de tempo nos dados das capitais do país................................................
187
Taula general
721
Ana Yantzin Pérez Cortés / Alejandro Velázquez Elizalde Procesos de sustitución léxica en el español americano: el caso de coger y agarrar......................................................................................
197
Nadia Prantera / Antonio Mendicino Il complementatore mu / ma / mi nei dialetti meridionali estremi d’Italia: un caso complesso tra morfologia e sintassi...............................................................
209
Valentina Retaro Perfetti Imperfetti. Sull’origine dei perfetti in -v- in alcune varietà dialettali dell’Italia meridionale.................................................................................................
221
Natacha Reynaud Oudot Las sibilantes en documentos ecuatorianos de los siglos XVI-XVIII........................
233
André Thibault Grammaticalisation anthropomorphique en français régional antillais: l’expression de la voix moyenne (ou: Dépêche ton corps, oui!)................................
243
Esteve Valls / Esteve Clua Distància de Levenshtein vs. «mètode COD»: dos sistemes de mesura de la distància fonètica aplicats al Corpus Oral Dialectal...................................................
255
Floarea Vîrban Forme rare dell’articolo indeterminativo nel rumeno antico. Fra storia della lingua rumena e geografia linguistica romanza.....................................................................
269
Mª Esther Vivancos Mulero Fuentes para el estudio de los caracterizadores morfológicos dialectales del murciano. La literatura menor del siglo XVIII: Las labradoras de Murcia...............
281
Inka Wissner L’utilisation discursive de diatopismes du français dans un corpus littéraire (l’œuvre d’Yves Viollier, écrivain vendéen du XXe siècle).......................................
293
Teodor Florin Zanoaga Présences explicites et implicites des interjections et des onomatopées dans un corpus de littérature antillaise contemporaine............................................................
305
Alina Zvonareva Il dialetto catalano della città di Alghero (Sardegna) e la lingua dei canti religiosi algheresi (goigs)..........................................................................................................
317
722
Taula general
Secció 10 Análisi del discurs i la conversació. Escrit i oral. Llengua dels mitjans de comunicació Vicent Salvador Presentació................................................................................................................
331
Giovanni Agresti / Lucilla Agostini Mesurer l’efficacité de l’écriture web: le langage de la promotion touristique........
333
Diana Andrei A peut-être B soit la supériorité argumentative de peut-être....................................
347
Donella Antelmi Notizie in 2 minuti: densità informativa e testualità in un genere giornalistico.......
359
Maria Helena Araújo Carreira La construction de la relation interpersonnelle dans le discours écrit.....................
371
Diana Luz Pessoa de Barros Provocação e sedução na conversação......................................................................
377
Elena Carmona Yanes Marcadores discursivos de interacción e incorporación del receptor al texto en cartas al director...................................................................................................
389
Luminiţa Chiorean / Eugenia Enache La rhétorique du discours journalistique ou de la la métaphore / la relation de métaphorisation & ethos...........................................................................................
401
Cecilia Condei Figurer le pouvoir politique dans le discours des écrivaines francophones..............
417
Elena Diez del Corral Areta La partícula (y) así en cartas oficiales ecuatorianas (XVI-XVII).................................
429
Isabel Margarida Duarte Titres journalistiques et dialogisme: la ‹une› du quotidien Público.........................
441
Melania Duma / Cristian Paşcalău Les stratégies de ‹définir› dans les mots-croisés et le forum roumains....................
451
Daiana Felecan Aspetti della cortesia e della scortesia verbale nei dibattiti e nei comunicati stampa televisivi (il caso della campagna elettorale presidenziale della Romania, 2009).......
463
Taula general
723
Dolors Font-Rotchés / David Paloma Sanllehí Ramon Pellicer vs. Xavi Coral. Caracterització de l’entonació dels titulars televisius...............................................
475
Esther Forgas Berdet Ideología y lenguaje periodístico: los titulares en la prensa hispana........................
487
Catalina Fuentes Rodríguez Las «oraciones» de comentario en español...............................................................
499
Carla González / Isabel Olid La llengua als programes informatius de Canal 9: una aproximació crítica a la llengua com a element clau en la manipulació política......................................
511
Alice Ionescu Marqueurs évidentiels dans la presse écrite roumaine..............................................
525
Thomas Johnen «Eu desde pequeno ajudava a minha mãe a limpar a casa e a gente levantava o sofá para varrer – no governo de vocês não faziam isso»: Do ethos em (inter-) ação de Lula e de Alckmin no primeiro debate do segundo turno das eleições presidenciais brasileiras de 2006..............................................................................
533
Ana Kuzmanović-Jovanović Variedades lingüísticas especializadas y / o su omisión: una estrategia discursiva al servicio de objetivos ideológicos..................................
545
Eva Lavric El tiempo, el dinero y las novias – Usos aproximativos e hiperbólicos de los numerales en las conversaciones españolas..............................................................
555
Audria Leal / Carla Teixeira Da aplicabilidade da noção de figura de acção. Análise de textos de autor.............
569
Véronique Magri-Mourgues ‹Presque› et la catégorisation: presque outil comparatif et polyphonique................
583
Carlos Meléndez Quero La locución adverbial por suerte: propiedades sintáctico-distribucionales, instrucciones discursivas e intenciones argumentativas...........................................
595
Noelia Micó Romero La cohésion temporelle et autres aspects discursifs dans les articles d’opinion: une étude contrastive français-espagnol..................................................
607
724
Taula general
Mihaela Mitu «Poftim» et ses hétéronymes français.......................................................................
619
Ricard Morant Marco / Arantxa Martín López El lenguaje de la gripe A en la prensa española durante el año 2009.......................
631
Franca Orletti / Laura Mariottini Las narraciones de acontecimientos traumáticos: la guerra civil y el campo de concentración.....................................................................................
639
Gemma Peña Martínez Chaînes hiérarchiques, chaînes de référence: quelques aspects fonctionnels et contrastifs (français-espagnol)..............................................................................
651
Bernardo E. Pérez Álvarez Progresión temática en la sintaxis oral......................................................................
663
Myriam Ponge Le dire entre guillemets: étude d’une stratégie discursive de distanciation en espagnol et français contemporains.....................................................................
673
Andreea Teletin Etude comparative (portugais / roumain) de la communication touristique: marques énonciatives et intersubjectives..................................................................
685
Cristiana Teodorescu Marques de l’intolérance dans le discours médiatique roumain...............................
693
Cristina Vela Delfa El papel de las actitudes lingüísticas en los procesos de intercomprensión en lenguas románicas................................................................................................
705
Jakob Wüest «Suivez le guide». Les actes directifs dans les guides de voyage............................
717
Antje Zilg Je ne vois que toi! – La télévision locale comme vecteur de proximité et d’identite....
727
Índex dels autors / Taula general Índex dels autors .....................................................................................................
739
Taula general ...........................................................................................................
747
Taula general
725
Volum VII
Secció 11 Filologia i lingüística dels textos i dels diccionaris de les llengües romàniques. Variacions diasistemàtiques en època antiga Gilles Roques Présentation.................................................................................................................
3
Silvia Nicoleta Baltă Culorile cailor apocaliptici în tradiţia biblică românească Între fidelitate şi infidelitate semantica..................................................................................................
7
Ana Paula Banza O silêncio dos manuscritos: para uma edição crítica da História do Futuro, de Padre António Vieira...................................................................................................
19
Marcello Barbato Come abbiamo imparato a scrivere in toscano...........................................................
27
Clara Barros A estruturação discursiva de versões portuguesas da legislação de Alfonso X: afinidades e discordâncias...........................................................................................
39
Anders Bengtsson La polynomie dans le ms. 305 de Queen’s College (Oxford).....................................
53
Micaela Carrera de la Red Parámetros de variación morfosintáctica en textos clasificados como «Autos» en la Nueva Granada del siglo XVIII..................................................................................
63
Eleonora Ciambelli La stratificazione lessicale submersa in un Codice diplomatico normanno...............
77
Chiara De Caprio / Francesco Montuori Copia, riuso e rimaneggiamento della Quarta Parte della Cronaca di Partenope tra Quattro e Cinquecento...........................................................................................
89
Elena de la Cruz Vergari Li sens dans l’œuvre de Jehan Renart: étude sémantique...........................................
103
726
Taula general
Antonio Augusto Domínguez Carregal Doo no léxico do sufrimento amoroso da lírica profana galego-portuguesa..............
115
Vicent Josep Escartí Els usos lingüístics dels memorialistes valencians, de l’edat mitjana a la renaixença...................................................................................................................
125
Antoni Ferrando Francés Interés de la versió aragonesa del Llibre dels feits del rei en Jaume en la fixació del text català..............................................................................................................
139
Mar Garachana Camarero Ço és (a saber). La reformulació als textos catalans antics........................................
151
Rosalía García Cornejo La organización textual en los documentos notariales de la primera mitad del siglo XIII....................................................................................................................
163
Adela García Valle Oralidad y escritura a finales del s. XIII: algunos grupos consonánticos en la documentación notarial castellana y de Sahagún........................................................
177
Martin-D. Gleßgen / Claire Vachon (†) L’étude philologique et scriptologique du Nouveau Corpus d’Amsterdam................
191
Maria Filomena Gonçalves / Ana Paula Banza Da antiga à nova Filologia: o Projecto MEP-BPEDig................................................
205
Elisa Guadagnini Per una nuova edizione della Rettorica di Brunetto Latini.........................................
211
Josep Guia Traduccions i versions prosificades de l’Espill, obra catalana en vers del segle XV. Una anàlisi fraseològica..............................................................................................
223
Alexander Ibarz Blatchford La última fase de la koiné occitano-catalana: los provenzalismos en Ausiàs March..........................................................................
235
Alicja Kacprzak De la variation diasystémique et de ses fonctions dans la nosologie du XVIIIe siècle..............................................................................
249
Taula general
727
Dumitru Kihaï Le scribe bilingue dans les productions documentaires oïliques: étude d’un cas concret.................................................................................................
257
Dorothea Kullmann Le pseudo-français des épopées occitanes..................................................................
267
Bohdana Librova Le fonctionnement de l’adverbe or dans les sermons médiévaux en langues d’oïl et d’oc.........................................................................................................................
279
Sergio Lubello Il testo in movimento: il De arte coquinaria di Maestro Martino e le riscritture del libro d’autore...............................................................................................................
293
Marco Maggiore Varianti diasistematiche in una scripta meridionale antica: sui verbi del commento al Teseida di provenienza salentina (II metà del XV secolo)......................................
301
Simone Marcenaro Per uno studio della polisemia nei trovatori occitani. Questioni preliminari.............
311
Antonio Montinaro La tradizione romanza del De medicina equorum di Giordano Ruffo. Varianti strutturali e testuali........................................................................................
323
Ricardo Pichel Gotérrez Notas sobre braquigrafía galega medieval. Sinais abreviativos especializados.........
335
Miguel Ángel Pousada Cruz «Ũa pergunta vos quero fazer». Fórmulas metaliterarias para introducir os debates galego-portugueses.....................................................................................................
347
Honorat Resurreccion Ros Orientacions diferents en les traduccions medievals, a l’occità i al català, de la Vita sancti Honorati...........................................................................................................
359
Paola Scarpini / Erika Cancellu Il potere delle parole nella Follia Tristano di Oxford: l’abito fa il matto? Tra cognitivismo e narrativa.......................................................................................
371
Cristina Scarpino Fonti prossime e remote del Ricettario calabrese di Luca Geracitano di Stilo (1477).............................................................................................................
383
728
Taula general
Lydia A. Stanovaïa Étude verticale et horizontale de manuscrits de l’ancien français..............................
397
Nadine Steinfeld La traque des mots fantômes à travers les terres de La Curne et de Godefroy: un tableau de chasse chargé de trophées pittoresques extraits du Livre des deduis du roy Modus et de la royne Ratio..............................................................................
411
Emanuela Timotin Le roumain en deux miroirs: le latin et le slavon. Les mots roumains dans deux dictionnaires bilingues du XVIIe siècle.......................................................................
423
Giulio Vaccaro Tradizione e fortuna dei volgarizzamenti di Vegezio in Italia....................................
433
Paul Videsott Quand et avec qui les rois de France ont-ils commencé à écrire en français?............
445
Rémy Viredaz Est-alpin ARTĪCŎRIUM ‹regain›...............................................................................
459
Aude Wirth-Jaillard Des sources médiévales méconnues des linguistes, les documents comptables.........
469
Secció 16 Història de la lingüística i de la filologia romàniques Margarita Lliteras / María José Martínez Alcalde / Pierre Swiggers Présentation...............................................................................................................
481
Craig Baker Auguste Scheler (1819-1890) et la philologie française en Belgique.......................
489
Aitor Carrera Quatre regles de gramàtica aranesa. Aportacions de la gramàtica inèdita de Jusèp Condò a l’estudi de l’aranès contemporani.....................................................
501
Daniel Casals / Neus Faura El ressò del VII Congrés Internacional de Lingüística Romànica (Barcelona, 1953) i del XVI Congrés Internacional de Lingüística i Filologia Romàniques (Mallorca, 1980) a la premsa coetània......................................................................
513
Taula general
729
Anamaria Curea Le facteur affectif dans les conceptualisations du langage, de la langue et de la linguistique chez Charles Bally et Charles-Albert Sechehaye..................................
525
Ricardo Escavy Zamora La concepción del signo lingüístico en la obra de Eduardo Benot (1822-1907)......
537
Gonçalo Fernandes A Arte para en breve saber Latin (Salamanca 1595) de Francisco Sánchez de las Brozas e a Arte de Grammatica, pera em breve saber Latim (Lisboa 1610) de Pedro Sánchez...........................................................................................................
549
Maria Filomena Gonçalves Sobre a projecção do método histórico-comparativo na gramática elementar portuguesa: a Gramatica Portugueza Elementar, fundada sobre o methodo historico-comparativo (1876)...................................................................................
561
Rolf Kemmler Para a Receção da Gramática Geral em Portugal:a tradução portuguesa da Grammaire générale de Nicolas Beauzée................................................................
573
Margarita Lliteras Contrastes románicos en el proceso de codificación del español.............................
585
Teresa Maria Teixeira de Moura Rudimentos da Gramatica Portugueza (1799) de Pedro José da Fonseca entre a GRAE (1771) e os ideólogos Franceses...................................................................
595
Kerstin Ohligschlaeger Idée, signes et perfectionnement de la pensée dans trois mémoires du concours académique sur l’influence des signes sur la pensée (1799).....................................
607
Claudia Polzin-Haumann Norme et variation dans la tradition grammaticale française et espagnole..............
617
Marta Prat Sabater Los pronombres de tratamiento en la tradición gramatical hispana.........................
629
Carmen Quijada Van den Berghe El modelo griego en la caracterización del artículo español: ¿un proceso de deshelenización?..............................................................................
641
730
Taula general
Sara Szoc / Pierre Swiggers Au carrefour de la (méta)lexicographie, de la terminographie, de la grammaticographie et de la linguistique contrastive: La terminologie grammaticale dans les grammaires de l’italien aux Pays-Bas..................................
653
Josep L. Teodoro Peris (Universitat de València) El Saggio sopra la necessità di scrivere nella propia lingua (1750) de Francesco Algarotti. Una aportació a la Questione della lingua i al debat sobre l’ús literari del llatí...................................................................................................
667
Índex dels autors / Taula general Índex dels autors .....................................................................................................
685
Taula general ...........................................................................................................
693
Volum VIII
Secció 12 Recursos electrònics: diccionaris i corpus. Lexicografia Pietro Beltrami Presentazione..............................................................................................................
3
Manuel Alvar Ezquerra Las guías políglotas de Corona Bustamante y sus nomenclaturas..............................
7
Marcello Aprile La lessicografia etimologica in Italia..........................................................................
19
Paloma Arroyo Vega Un problema de fronteras intercategoriales: el tratamiento del participio en el Diccionario del castellano del siglo XV en la Corona de Aragón (DiCCA-XV)............
31
Elena Artale Funzioni grammaticali e valore verbale in lessicografia. Alcuni casi di gerundio nel TLIO: lemmatizzazione e redazione...............................
43
Sylvie Bazin-Tacchella / Gilles Souvay Le Dictionnaire du Moyen Français: la version DMF 2010......................................
55
Taula general
731
Ma. Teresa Beltrán Chabrera / Ma. Teresa Cases Fandos Una nova proposta en lexicografia didàctica...............................................................
67
Esther Blasco Mateo Determinados complementos predicativos y el corpus del Diccionario del castellano del siglo XV en la Corona de Aragón (DiCCA-XV).....................................
79
Cesáreo Calvo Rigual I regionalismi nei dizionari monolingui italiani e spagnoli attuali.............................
91
Adriana Cascone Questioni pratiche e teoriche di lessicografia dialettale..............................................
103
Maria Sofia Corradini / Guido Mensching Nuovi aspetti relativi al «Dictionnaire de Termes Médico-botaniques de l’Ancien Occitan» (DiTMAO): creazione di una base di dati integrata con organizzazione onomasiologica.................................................................................
113
Elena Dănilă Corpus lexicographique roumain essentiel. Les dictionnaires de la langue roumaine alignés au niveau de l’entrée......................
125
Debora de Fazio Il trattamento delle unità polirematiche nel Dizionario della Lingua Italiana di Tommaseo-Bellini.......................................................................................................
135
Alessandro Di Candia Diatopia e diacronia nel Vocabolario romanesco di Filippo Chiappini......................
147
Ana Fernández-Montraveta / Gloria Vázquez / M. Elena Beà SenSemCat: Corpus de la lengua catalana anotado con información morfológica, sintáctica y semántica..................................................................................................
159
Mercedes García Ferrer Análisis contrastivo de las herramientas lexicográficas para enseñar y aprender latín.........................................................................................................................
171
Jacinto González Cobas Hacia un tratamiento sistemático de los nombres de instrumentos musicales en los diccionarios............................................................................................................
183
Pierre Kunstmann / Hiltrud Gerner / Gilles Souvay Le Dictionnaire Électronique de Chrétien de Troyes (DÉCT1): révision et élargissement.............................................................................................
195
732
Taula general
Clara Inés López-Rodríguez / Miriam Buendía-Castro Aplicación de la Lingüística de corpus en la didáctica de la Traducción científica y técnica.........................................................................................................................
205
Mar Massanell i Messalles / Joan Torruella Variació geolectal i cronolectal en les denominacions catalanes del crepuscle a partir dels materials aplegats en el corpus geolingüístic ALDC i en el corpus documental CICA..................................................................................................
217
Nicolas Mazziotta Traitement de la coordination dans le Syntactic Reference Corpus of Medieval French (SRCMF)........................................................................................................
229
Rocco Luigi Nichil Starace e Mussolini. Lessico fascista e retorica di regime nell’anno XVI E.F. (29 ottobre 1937- 28 ottobre 1938)...................................................................................
239
Mario Pagano / Salvatore Arcidiacono Corpus Artesia (Archivio Testuale del Siciliano Antico)............................................
253
Mª Nieves Sánchez González de Herrero / Juan Sánchez Méndez / Ingmar Söhrman / Mª Jesús Torrens Álvarez La Red CHARTA: objetivos y método.......................................................................
263
Pedro Sánchez-Prieto / Micaela Carrera / Carmen Isasi / Paul Spence El corpus de CHARTA................................................................................................
275
Gilles Souvay / Sylvie Bazin-Tacchella Construction assistée de glossaires à l’aide des outils du DMF.................................
291
Stefano Vicari Emotions euphoriques et dysphoriques dans les discours métalinguistiques ordinaires....................................................................................................................
301
Federico Vicario Il Dizionario storico friulano......................................................................................
313
Taula general
733
Secció 13 Traduccions en la Romània i traduccions latino-romàniques Brigitte Lépinette Présentation...............................................................................................................
323
Chiara Albertin Le traduzioni italiane cinquecentesche della Crónica del Perú di Pedro de Cieza de León.....................................................................................................................
329
Gorana Bikić-Carić Un regard sur les couples virtualité / réalité et subjonctif / indicatif en français, espagnol, portugais et roumain................................................................................
341
Miriam Bouzouita La influencia latinizante en el uso del futuro en la traducción bíblica del códice Escorial I.6............................................................................................................
353
Clara Grande López Traducciones en la baja Edad Media de un tratado de cirugía: Chirurgia Magna de Guy de Chauliac. Textos en latín, castellano y catalán..............................................
365
Marta Marfany Simó La llengua poètica del segle xv a través d’una traducció: Requesta d’amor de Madama sens merce...............................................................
375
José Antonio Moreno Villanueva Sobre el origen y la evolución del término pila en español....................................
385
Gemma Pellissa Prades La forma francesa del París e Viana, l’elaboració literària d’un conte?..................
397
Silvia Peron Le Coplas por la muerte de su padre di Jorge Manrique tradotte da Giacomo Zanella......................................................................................................................
409
Cinzia Pignatelli TRANSMEDIE: un projet de recensement des traductions médiévales en français............................
421
Delia Ionela Prodan La literatura catalana d’autoria femenina i la seva traducció a l’espai romanès. Anàlisi del període 1968-2008..................................................................................
433
734
Taula general
Ursula Reutner Spécificités culturelles et traduction: l’exemple de Bienvenidos al Norte................
445
Rafael Roca Ricart Les traduccions catalanes de Teodor Llorente: gènesi i model lingüístic.................
457
Michela Russo / Teresa Proto Interferenza germanica e frammentazione linguistica della Galloromania: modelli diglossici e bilinguismo nei Pariser (altdeutsche) Gespräche (Conversazioni di Parigi).........................................................................................
469
Simone Ventura Fra lessico geografico e geografia linguistica: il libro XV de l’«Elucidari de las proprietatz de totas res naturals».........................
489
Secció 14 Llengües criolles amb base lèxica romanç i contactes lingüístics extra i intraromàmics Jürgen Lang Presentación..............................................................................................................
503
Mònica Barrieras i Angàs La còpula locativa sai en saamaka, crioll angloportuguès del Surinam...................
509
Maria Concetta Cacciola Neoformazioni participiali nel greco di Calabria......................................................
519
Manuela Casanova Ávalos Valencianismos en el léxico disponible de Castellón...............................................
531
José M.a Enguita Utrilla La concordancia de número verbal en la Relación de Cristóbal de Molina el Cuzqueño (BNE, ms. 3169)
545
Mauro A. Fernández Los marcadores TMA y el origen de los criollos hispano-filipinos: el caso de de / di / ay.................................................................................................
559
Javier García González Los arabismos en los primitivos romances hispánicos.............................................
571
Taula general
735
Joaquim Juan-Mompó Rovira La interferència lingüística en l’obra editada de Teodor Tomàs...............................
583
Stefan Koch Sobre el contacto del leonés con el castellano en la Edad Media. Estudio preliminar de ocho documentos de San Pedro de Eslonza (1241-1280).....
595
Jean Le Dû / Guylaine Brun-Trigaud Présentation de l’Atlas Linguistique des Petites Antilles (ALPA)............................
609
Francesc Llopis Rodrigo / Joaquim López Río Transferències lèxiques en els estudiants valencians................................................
617
Jean-Louis Rougé / Emmanuel Schang Ce qu’enseigne la comparaison des créoles portugais d’Afrique.............................
629
Angelo Variano Prestiti d’America di trafila spagnola nei dizionari italiani dell’uso........................
641
Lenka Zajícová Formas de hispanización en el checo inmigrante en Paraguay.................................
653
Índex dels autors / Taula general Índex dels autors .....................................................................................................
663
Taula general ...........................................................................................................
671